Il primo strumento che abbiamo a disposizione in psicoterapia è la voce. Sempre, oltre a cosa diciamo, è fondamentale anche il tono della nostra voce, la vocalità con cui eseguiamo i nostri interventi con il paziente. Una modalità ancora poco studiata. Questi pensieri ci invitano a cercare un metodo operazionalizzato e falsificabile di definire l’aspetto vocale dei nostri interventi psicoterapeutici.
Con il termine “voce verde” viene definito un particolare modo di utilizzare la voce, formalizzato in alcuni parametri, con il quale è possibile facilitare l’attivazione di stati di benessere sia in chi parla che in chi ascolta. Secondo tale metodo, l’uso della voce verde facilita l’attivazione di fiducia e di coinvolgimento empatico. La “voce verde” è uno dei 6 codici emozionali vocali di cui Imparato ha creato un modello teorico che ha chiamato FourVoiceColors® (Imparato, 2009, 2011).
Articolo consigliato: Lo Psicoterapeuta e la sua voce.
Questo metodo è già stato sottoposto ad alcune verifiche preliminari. Un’equipe di psichiatri, appartenenti allo staff di Roberto Marino del Centro EOS per le Vittime di Traumi e Catastrofi a Pavia, alcuni mesi fa ha acquisito direttamente da Ciro Imparato le tecniche per utilizzare la voce verde in psicoterapia. L’equipe ha identificato diversi pazienti in “stallo terapeutico” (dove lo “stallo” è stato definito come una condizione nella quale non si riscontrano miglioramenti terapeutici da diverse settimane) ai quali sono stati somministrati dei questionari sintomatologici e di uno strumento più ad ampio raggio come il Cognitive Behavioural Assessment (CBA).
Durante la seduta l’equipe del dott. Marino ha fatto ascoltare a Imparato le registrazioni delle sedute con questi pazienti. Imparato ha trasmesso il codice vocale corretto. Obiettivo: sviluppare un cambiamento terapeutico usando uno strumento relazionalmente potente come la voce e combinandolo alla tecnica psicoterapica.
Il codice della voce teorizzato e insegnato da Imparato si basa su alcuni fattori vocali oggettivi da lui evidenziati (come volume, tono, tempo e così via) da utilizzare in una particolare combinazione operativa.
Alcuni risultati: i pazienti sembrano migliorati, manifestando tendenzialmente una maggiore propensione alla socialità, un migliore stato di benessere psicologico generale percepito e un abbassamento del livello di depressione (misurato con il Beck Depression Inventory) come misurato dai questionari somministrati.
Ovviamente si tratta di dati molto preliminari, tutti da verificare. Sarà interessante organizzare un vero e proprio studio di efficacia con metodi affidabili e replicabili. Ma se l’efficacia del metodo della voce verde dovesse essere confermata, si tratterebbe di una significativa aggiunta della cassetta degli attrezzi a disposizione degli psicoterapeuti. La voce verde, che fino ad oggi è stata utilizzata con successo nelle aziende e nei percorsi di crescita personale, apre una nuova strada al miglioramento terapeutico, segnando così un momento importante nello studio dei processi in psicoterapia.
È evidente che la voce verde non sostituisce la terapia di competenza psicologico-psicoterapica, ma al contrario può fornirne nuova linfa e aprire la strada a ricerche sugli “how” terapeutici. Infatti la voce verde, essendo un suono, spesso agisce a livello non-verbale e implicito, stimolando delle risposte neurofisiologiche in chi l’ascolta. Questo tipo di voce determina un maggior rilassamento del soggetto, un atteggiamento di maggior apertura e fiducia nei riguardi dell’interlocutore.
Schizofrenia: 50 anni di Farmaci Antipsicotici: una Meta-Analisi.
– Rassegna Stampa –
La schizofrenia è una condizione debilitante che colpisce gli individui nel corso della loro intera vita, ed ha una prevalenza di circa l’1%. Il trattamento elettivo per la schizofrenia sono i farmaci antipsicotici, che oltre ad essere costosi (nel 2010 sono stati spesi 18,5 miliardi di dollari a livello mondiale) possono anche causare gravi effetti collaterali, per questo è importante che il trattamento venga costantemente monitorato. Inoltre visto che il costo principale per la schizofrenia è rappresentato proprio dall’ospedalizzazione a causa della recidiva, un obiettivo importante del trattamento è proprio la prevenzione di recidive, molto comuni tra i pazienti schizofrenici.
Un team di ricercatori della Technische Universität München ha condotto una revisione sistematica ed una meta-analisi di 116 relazioni, pubblicati tra il 1959 e il 2011, provenienti da 65 trial che hanno coinvolto quasi 6.500 pazienti schizofrenici. Questa analisi mette in luce cinque decenni di evidenze a favore del fatto che i farmaci antipsicotici possono ridurre del 60% il rischio di recidiva nei pazienti schizofrenici.
Lo studio dimostra che i pazienti che assumono antipsicotici hanno anche una probabilità notevolmente inferiore di dover essere ricoverati in ospedale, si comportano in modo meno aggressivo, e godono di una migliore qualità della vita, rispetto a quelli che non prendono farmaci. Inoltre solo il 27% dei pazienti trattati con farmaci antipsicotici ha sofferto di recidive, rispetto al 64% di quelli trattati con placebo; e solo il 10% dei pazienti trattati con farmaci antipsicotici sono stati riammessi in ospedale, in confronto al 26% che ha assunto placebo.
A fronte di questi dati i ricercatori concludono:
“Abbiamo stabilito che il mantenimento del trattamento antipsicotico riduce notevolmente il rischio di ricaduta in tutti i pazienti affetti da schizofrenia, fino a 2 anni di follow-up. L’effetto è robusto in sottogruppi importanti come i pazienti che hanno avuto un solo episodio, quelli in remissione, e indipendentemente dall’interruzione brusca o graduale del trattamento o dall’uso di farmaci di prima generazione o di seconda generazione; ma i farmaci sembrano aver perso la loro efficacia nel tempo. Gli studi futuri dovrebbero concentrarsi sulla morbilità di lunga durata e sulla mortalità legata ai farmaci. “
Jim van Os della Maastricht University Medical Center in Olanda e Oliver Howes dal Kings College di Londra ribattono:
“Anche se le prove a favore dei farmaci antipsicotici sembrano robuste, diverse questioni importanti rimangono. Non sappiamo se i pazienti preferiscano farmaci placebo, e in quale misura il trattamento riguarda la partecipazione sociale. Anche se i farmaci antipsicotici possono ridurre la recidiva di psicosi, l’analisi costi-benefici per l’uso a lungo termine è imprecisa e non c’è evidenza che altri, più invalidanti, aspetti psicopatologici, quali alterazioni cognitive o l’insufficienza motivazionale vengano allo stesso modo alleviati.”
In psicoanalisi, per Svolta Relazionale si intende quel cambio di paradigma che descrive la psiche non più come un campo di pulsioni istintive da gestire, ma come un centro di bisogni, per lo più relazionali, da soddisfare.
La sofferenza psicologica non è più frutto di una mancata capacità di controllo e sublimazione di forze oscure, ma da una cosiddetta deprivazione emotiva, un mancato soddisfacimento che ha lasciato l’individuo debole e fragile e non ha permesso una crescita soddisfacente. Il paziente soffre non solo per questo mancato sostegno relazionale, ma anche a causa delle strategie surrogate che ha elaborato, strategie difensive che servono non tanto a trovare quel soddisfacimento emotivo in nuove relazioni adulte, quanto semmai a negarlo, attraverso stati narcisistici, paranoidei, dicotomici, ansiosi.
I legami con la teoria dell’attaccamento sono chiari. Anche John Bowlby non pensava più che lo sviluppo della psiche e delle sue deviazioni germogliasse da uno scontro tra Edipo e Laio, ma dall’accudimento sicuro e stabile, assicurato soprattutto dalla madre. Le conseguenze terapeutiche sono chiare. Non si tratta più di riprodurre in seduta le triangolazioni erotiche e conflittuali dell’Edipo, ma di vivere un relazione tra paziente e terapeuta meno tragica e più gentile e cortese.
Articolo consigliato: Neuroscienze e Psicoanalisi. Il contributo di Mauro Mancia.
Per gli psicoanalisti di orientamento relazionale anche l’inconscio è un prodotto della relazione e rimanda costantemente alla relazione. Questa nuova concezione definisce l’inconscio in termini più funzionali e meno pulsionali, avvicinando la psicoanalisi alle concezioni cognitive. La mente non è più isolata ma intersoggettiva ed esiste solo nella relazione. il criterio operativo privilegiato diventa quello dell’intersoggettività che emerge nella relazione terapeutica.
Lingiardi, Amadei, Caviglia e De Bei ci forniscono una rassegna completa di questa svolta relazionale in psicoanalisi, parlando dello scenario sia statunitense che italiano. Gli autori descrivono la nascita della sensibilità relazionale (Ferenczi, Sullivan, Horney, Racker, Loewald, Gill, Kohut), l’elaborazione matura (Mitchell, Ghent, Bromberg, Fosshage), gli sviluppi recenti (Benjamin, Aron, Dimen, Harris, Beebe) e i contributi del gruppo italiano (Nebbiosi, Federici, Caviglia). Ci sono poi collegamenti con la teoria dell’attaccamento (Dazzi, De Bei), le scienze cognitive (Liotti), gli studi sull’adolescenza (Vanni) e la ricerca empirica (Lingiardi, De Bei). Infine c’è il confronto del modello relazionale con il modello psicoanalitico ortodosso (Moccia, Meterangelis) e con il modello junghiano (Giannoni).
In conclusione, anche la psicoanalisi è tentata di sciogliersi nella relazione terapeutica. Tentazione che, paradossalmente, condivide con gli sviluppi più recenti della terapia cognitiva. Questa tentazione è uno sviluppo, ma anche un rischio. Il rischio è quello di rinunciare troppo radicalmente al concetto di scoperta della verità e soprattutto di scoperta dell’errore, errore che per la terapia cognitiva risiede nelle cognizioni distorte e irrazionali e che per la psicoanalisi risiede nella ripetizione coatta del fantasma rimosso per svanire nell’ermeneutica dei significati personali tutti egualmente veri e falsi, e distinguibili solo nei termini pragmatici della loro funzionalità.
È un rischio che uno psicoanalista ha ben descritto, descrivendo gli sviluppi recenti delle teorie psicanalitiche che hanno accentuato sempre più certe caratteristiche interpersonali come l’empatia, la relazione, l’interazione e l’intersoggettività (Landoni, 2007). Rinunciando alla sua aspirazione di esplorare il rimosso nell’inconscio la psicoanalisi si modernizza, ma in parte rischia di perdersi nell’indistinto della relazione. Un rischio che corre anche la terapia cognitiva.
BIBLIOGRAFIA:
V. Lingiardi, G. Amadei, G. Caviglia, F. De Bei (2011) (a cura di). La svolta relazionale. Itinerari italiani Milano, Raffaello Cortina ACQUISTA ONLINE
Landoni, G. (2007), “Modifica della domanda”. In Atti della Giornata di studio: “La psicanalisi nei disagi della civiltà”, Milano dicembre 2007,
6 Segnali che predicono il Divorzio. 5 Regole per salvare il Matrimonio
E’ possibile individuare precocemente dei segni che potrebbero portare alla rottura di una relazione?
Secondo John Gottman, sì! In sedici anni di ricerca, ha imparato a prevedere quali sono le coppie che finiranno per divorziare e quali quelle che rimarranno solide nel tempo. È possibile realizzare questa previsione sulla base di una metodologia effettuata con una accuratezza pari al 91%. Da queste analisi sono emersi dei comportamenti che, se presenti, portano inevitabilmente alla rottura della coppia.
Il primo segno: Un approccio duro.
Il primo di questi segni è il modo in cui inizia una discussione. Quando uno dei partner inizia usando un approccio duro, come l’essere negativo, accusatorio o disprezzante, la discussione è essenzialmente destinata a finire in malo modo. D’altra parte, quando un partner inizia una discussione con dolcezza, molto probabilmente si concluderà con lo stesso tono positivo.
Il secondo segno: I quattro cavalieri dell’apocalisse.
La negatività presente in una coppia nelle sue normali interazioni può devastare un matrimonio o un unione. Infatti, ci sono quattro tipi di scambi negativi, letali in una relazione. Gottman li ha classificati come i Quattro Cavalieri dell’Apocalisse. Di solito, questi quattro cavalieri rappresentano la critica, il disprezzo, la difesa e l’ostruzionismo.
Lettura consigliata: La Relazione di Coppia. Monografia a cura di Serena MancioppiLa Critica. Il primo dei letali cavalieri è la critica. Le critiche sono diverse dalle lamentele, perché nel secondo caso si tratta di reclami riguardanti alcuni comportamenti dell’altro, che capitano comunemente a tutti. Il problema sorge quando le lamentele si trasformano in vere e proprie denunce, critiche. In pratica quando sorge un problema uno dei due partner decide di affrontare il discorso con l’altro incolpandolo dello stato delle cose. Esempio: “la casa è sempre in disordine perché TU sei disordinato!” Normalmente la critica che potrebbe essere circostanziata alla situazione specifica, viene invece generalizzata a tutta la persona. Gottman dice spesso che chi muove la critica è persino convinto di fare un favore all’altro aiutandolo a capire in cosa sta sbagliando, o meglio in cosa è sbagliato come persona, e non capisce come l’altro non riesca ad apprezzarlo.
Il Disprezzo. Il secondo cavaliere, il disprezzo, segue spesso la critica. Alcuni esempi di disprezzo si hanno quando una persona utilizza il sarcasmo, il cinismo, gli insulti, la beffa, lo scherno e l’umorismo ostile. Il disprezzo è il peggiore dei quattro cavalieri, perché comunica il disgusto per l’altra persona in maniera diretta e arrogante. Risultato: il conflitto tra i partner si intensifica. In genere, quando un partner usa il disprezzo, l’altro tende a difendersi, ed arriva il terzo cavaliere.
La Difesa. Molte persone assumono un atteggiamento di difesa se criticati, ma tale atteggiamento non porta a risolvere il problema, anzi lo intensifica. Difendersi consiste nel dare la colpa all’altro, “il problema non sono io ma sei tu”. Si ottiene, in questo modo un escalation tra i due e ben presto giunge il quarto cavaliere:
L’Ostruzionismo. Solitamente quando i primi tre cavalieri sono presenti in una discussione, uno dei partner si sintonizza sull’ostruzionismo, più comune negli uomini che nelle donne. È un modo per evitare la sensazione di essere sommersi che si verifica di solito quando un conflitto si aggrava. Infatti, mentre uno inveisce, l’altro si chiude in un marmoreo silenzio, a dimostrazione del fatto che nulla può scalfirlo. In pratica il dialogo è chiuso ed è completamente inutile parlare, per evitare di esplodere.
Ognuno di questi quattro cavalieri, se presenti, possono predire la fine imminente di un matrimonio o relazione.
Il Terzo Segno: il Flooding.
Quando una persona si sente invasa (sommersa) dai quattro cavalieri tende a proteggersi e a staccarsi dal proprio partner, ignorandolo come più può.
Il Quarto Segno: Linguaggio del corpo.
Si verificano di conseguenza dei cambiamenti fisiologici del corpo, come l‘aumento della frequenza cardiaca, della pressione sanguigna, che rappresentano l’essere costantemente in tensione e la resa dei conti è vicina.
Il Quinto Segno: l’incapacità di rimediare.
Falliti i tentativi di riparazione il quinto segno che il matrimonio è destinato a finire in un divorzio sono l’incapacità di rimediare ai conflitti subiti. I tentativi di riparazione sono sforzi compiuti dalla coppia per cercare di calmare il conflitto, ad esempio usare un gesto semplice come una risata, un sorriso o delle scuse; tutto ciò potrebbe aiutare la coppia a sistemare la tensione. Tuttavia, se un partner si sente soffocare, questi tentativi di riparazione sono fallimentari, perché il compagno si sgancia dalla discussione, rendendo inutile ogni tentativi di riparazione.
Il sesto Segno: Memorie cattive.
Articolo consigliato: "Conflitti, Devitalizzazioni e Tempeste: tracce di una coppia in crisi"
Il segno finale che il divorzio è inevitabile, è quando la coppia ricorda il passato negativamente e utilizza questo materiale come fonte di costante rabbia nei confronti dell’altro. L’eccessiva negatività porta alla rilettura costante anche del presente. Epilogo doloroso della imminente fine!
Preservare la relazione di coppia.
Ma cosa significa avere una vita di coppia sana? Sicuramente, non andare d’amore e d’accordo su tutto, non pensarla sempre allo stesso modo, non significa avere un fronte unico sull’educazione dei figli. L’immagine della famiglia felice che corre spensierata sui prati in realtà, credo, non abbia mai convinto nessuno del tutto. Il problema è che in molti si identificano con questa immagine ideale della famiglia perfetta e nel momento in cui è necessario affrontare la realtà, devono fare i conti con un mondo che non collima con l’ideale.
Nella coppia vincente, che funziona, in pratica ognuno è pronto ad assumersi la sua parte di colpa per far sembrare il problema più comune di quanto forse non lo sia. Si tratta di conoscersi a vicenda, di avere il coraggio di raccontarsi i propri sogni, di rivolgersi l’uno all’altra, di cercare una soluzione comune ai problemi, e soprattutto di recuperare dopo un conflitto. La coppia vincente infatti non evita i conflitti, ma li supera senza calpestare uno dei due componenti della coppia. Le discussioni rimangono ad un livello pratico circostanziato al problema, e non vengono portate su un piano personale o tirando via con sé ogni evento del passato. A livello teorico sembra tutto semplice, alla fine si tratta di rispetto reciproco, eppure sappiamo tutti quanto la frustrazione, la stanchezza, la voglia di urlare, prendono facilmente il sopravvento. Quindi, proviamo a fare un esercizio: la prossima volta che abbiamo un problema, un qualcosa che ci infastidisce e di cui vorremmo parlare con il nostro partner proviamo a ricordarci alcune semplici regole.
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(1) Lamentarsi, sì, ma senza incolpare nessuno. Es: “La casa è in disordine. Mi avevi promesso di passare l’aspirapolvere e non l’hai fatto. Sono proprio arrabbiata/o con te!” Che è molto diverso da “La casa è in disordine. Avevi promesso di passare l’aspirapolvere. Possibile che io non possa mai fidarmi di te? Sei il solito egoista”.
(2) Parlare in prima persona. Es: “Mi sento trascurato” invece di “Non ti frega nulla di me”. Oppure: “Vorrei risparmiare soldi” invece di “Spendi tutto lo stipendio in shopping compulsivo”.
(3) Descrivere una situazione senza esprimere un giudizio in merito. Es: “Non so più come tenere il bimbo, sembra essere tutto sulle mie spalle oggi” e non “Non ti occupi mai di lui, sei sempre il solito menefreghista?!??”
(4) Essere gentili e ringraziare sempre anche quando un gesto è scontato.
(5) Esprimete con chiarezza i vostri bisogni.
Es: “Mi piacerebbe guardare la Tv anzichè andare a mangiare la pizza, potrebbe essere un problema? magari ordiniamo delle pizze a casa” che è diverso dal dire “Non voglio venire con te, non mi piace, non ho voglia“.
A tutti capita dirimuginaresu qualcosa, di impiegare il proprio tempo analizzando le situazioni da diverse prospettive, preoccupandosi delle possibili eventualità negative future e immaginandosi scenari catastrofici. Qualcuno lo fa per ipotizzare in anticipo le conseguenze e organizzare la controffensiva, qualcun altro pensa di non poterne fare a meno, altri infine sentono l’obbligo di rimuginare per debellare in modo magico la possibilità che lo scenario tanto temuto si realizzi.
Finché questo processo di pensiero non va a incidere in modo significativo sulla vita quotidiana, tutto bene.
Il problema si presenta quando rimuginare toglie tempo al resto, quando non si riesce a smettere e il rimuginio stesso diventa fonte di ansia e di preoccupazione.
In questa misura, il rimuginio patologico (che consiste nella preoccupazione per il fatto stesso di essere persone che si preoccupano), è stato individuato come caratteristica chiave del Disturbo d’Ansia Generalizzata (Wells, 2002). Ecco allora che diventa interessante indagare quali possano essere le caratteristiche in qualche modo prodromiche del rimuginio, le origini di questa forma di pensiero negativo ricorrente e le situazioni o esperienze che possono facilitare il suo apprendimento.
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Uno studio pubblicato online a giugno del 2011, ma stampato su carta solo in questi giorni, ha indagato proprio queste variabili facilitanti, ricercandole in due ambiti in qualche modo collegati tra loro: lo stile genitoriale e le credenze delle persone circa il rimuginio stesso. Più nello specifico, questa ricerca (Spada et al., 2012) ha indagato il ruolo dell’iperprotezione genitoriale e delle credenze metacognitive nel predire l’utilizzo del rimuginio. A questo scopo, una batteria composta da quattro questionari self-report è stata somministrata a 301 soggetti per valutarne l’iperprotezione genitoriale percepita, le credenze metacognitive, l’ansia e il rimuginio.
Con “credenze metacognitive” intendiamo le motivazioni con cui le persone spiegano a loro stesse la propria tendenza a rimuginare, come la convinzione che rimuginare abbia un esito efficace, oppure la tendenza a non percepire la possibilità di fermare il rimuginio, vivendolo come una sorta di automatismo al di fuori del proprio controllo.
Tra le caratteristiche dell’accudimento ricevuto nell’infanzia e nell’adolescenza, invece, sono state indagate in particolare l’iperprotezione, intesa come limite alla libertà del bambino di esplorare il mondo, e la cura, cioè la capacità di far percepire al bambino una sicurezza che ha sede nella figura del’adulto. Variabili in qualche modo collegate, dicevamo, nella misura in cui precedenti ricerche hanno mostrato come l’iperprotezione possa avere un’influenza diretta sul rimuginio ostacolando le esperienze esplorative dei bambini e non permettendo loro di apprendere strategie di fronteggiamento dei problemi orientate all’azione (Cheron, Ehrenreich and Pincus, 2009; Nolen-Hoeksema, Wolfson, Mumme and Guskin, 1995), oltre che un effetto indiretto, favorendo lo sviluppo di credenze metacognitive non adattive e non realistiche che sono associate all’attivazione del rimuginio e all’aumento di ansia (Wells, 2000).
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Analizzando i dati raccolti, Spada e i colleghi hanno notato come le credenze metacognitive circa l’utilità e la necessità di controllare il rimuginio fossero in grado di predire i livelli di rimuginio indipendentemente dal sesso, dai livelli di ansia e dal livello di iperprotezione genitoriale percepita. Inoltre, le credenze metacognitive sono state in grado di predire i livelli di ansia indipendentemente dal sesso, dal rimuginio e dall’iperprotezione genitoriale percepita.
Lo studio mostra quindi come la combinazione di un ambiente familiare percepito come iperprotettivo e alti livelli di credenze sulla necessità di controllare questa forma di pensiero e sulla sua utilità o inutilità siano un fattore di rischio per lo sviluppo del rimuginio.
Mentre sembra abbastanza immediato comprendere come credere nell’utilità del rimuginio faciliti la messa in atto di questa forma di pensiero perseverante, è curioso notare come credere che sia sempre e comunque necessario controllare tutti i propri pensieri sortisca lo stesso effetto. In questo senso, sembra che una buona strategia per evitare di incagliarsi nel rimuginio sia concederselo e permettersi di avere momenti e situazioni di ansia e preoccupazione (worry). Come impegnarsi a evitare di pensare all’elefante rosa non fa altro che ingrandire questa immagine nella mente, per non fare dell’elefante rosa un’ossessione basta lasciar scorrere il pensiero dalla proboscide alla coda.
Background: Parental overprotection may have a direct effect on worry through hindering children’s exploration experiences and preventing the learning of action-oriented coping strategies (Cheron, Ehrenreich and Pincus, 2009; Nolen-Hoeksema, Wolfson, Mumme and Guskin, 1995) and an indirect effect through fostering the development of maladaptive metacognitions that are associated with the activation of worry and the escalation of anxiety (Wells, 2000). Aim: The aim was to investigate the relative contribution of recalled parental overprotection in childhood and metacognitions in predicting current levels of worry. Method: A community sample (n = 301) was administered four self-report instruments to assess parental overprotection, metacognitions, anxiety and worry. Results: Metacognitions were found to predict levels of worry independently of gender, anxiety and parental overprotection. They were also found to predict anxiety independently of gender, worry and parental overprotection. Conclusions: The combination of a family environment perceived to be characterized by overprotection and high levels of maladaptive metacognitions are a risk factor for the development of worry.
BIBLIOGRAFIA:
Cheron, D. M., Ehrenreich, J. T. and Pincus, D. B. (2009). Assessment of parental experiential avoidance in a clinical sample of children with anxiety disorder. Child Psychiatry and Human Development, 40, 383–403.
Nolen-Hoeksema, S., Wolfson, A., Mumme, G. and Guskin, K. (1995). Helplessness in children of depressed and nondepressed mothers. Developmental Psychology, 31, 377–387.
Il Succo del’articolo è qualcosa che abbiamo già letto altrove e che probabilmente era nel sentire di molti italiani: non è vero che i suicidi sono aumentati, non si può e non si deve parlare di epidemia dei suicidi a causa della crisi economica.
“Ogni gesto estremo, come quelli che le cronache recenti raccontano, nasconde una tragedia umana e impone il massimo rispetto. Ma è difficile affermare, a oggi, che vi sia un aumento statisticamente significativo dei suicidi dovuto alla crisi economica. Temo che si stiamo facendo affermazioni forti, senza robuste evidenze scientifiche”. (Stefano Marchetti, responsabile dello studio ISTAT)
Dove le tabelle mostrano come il suicidio per ragioni economiche sia al penultimo posto nella scala delle motivazioni. I dati mostrano anche come la Grecia (economicamente allo sfascio) sia all’ultimo posto nella classifica dei suidici per nazioni, mentre la Finlandia (con una qualità della vita in termini economici superiore di 4 volte all’Italia) è al quarto posto per numero di suicidi (quadrupli rispetto all’Italia che si trova al terzultimo posto in Europa).
Claudio Mencacci, direttore del dipartimento di Neuroscienze dell’Ospedale Fatebenefratelli di Milano:
“È giusto affrontare il problema, ma interpretare la situazione attuale come una drammatica emergenza legata alla crisi è una forzatura. Ed è pericoloso, perché il fenomeno dei suicidi è a forte rischio emulazione.
Questo sì, è scientificamente provato. Studi epidemiologici internazionali dimostrano con certezza che le notizie dei suicidi da crisi economica, se presentate in modo sensazionalistico, inducono altri suicidi, innescando un pericoloso ‘effetto domino ’”… “Le persone che compiono questi gesti estremi sono nella grande maggioranza dei casi entrate da tempo nel tunnel della patologia psichica, prevalentemente depressiva, che toglie la possibilità di trovare soluzioni alternative. I gesti estremi possono essere scatenati da fatti contingenti che esasperano una situazione economica già complessa, ma s’innescano in personalità da tempo fragili e vulnerabili che non hanno avuto la possibilità di chiedere aiuto per la loro sofferenza psichica. L’appello rivolto a chi governa è che potenzino i servizi di salute mentale, in questo periodo di recessione. Perché c’è tanta gente che non sa a chi chiedere aiuto, ma non solo per motivi economici”.
“…Credo anche e mi costa dirlo, che in questi suicidi di imprenditori ci sia tristezza, paura per il futuro, senso di fallimento, ma che spesso sia presente una storia depressiva pregressa, che la situazione di difficoltà slatentizza, o porta alla luce. Si è più vulnerabili ad affrontare le difficoltà, ma si era vulnerabili da tanto tempo e non appariva perché le cose andavano bene. Molti imprenditori disperati oggi sono lì che lottano come matti, da vivi, per riinventarsi una vita decente e portarsi fuori dalle difficoltà. Non sono migliori degli altri, erano meno vulnerabili al dolore e a una definizione tragica della loro esperienza. Questo vuol dire che il dolore per le difficoltà c’è stato, le difficoltà sono vere, ma la lettura che queste persone danno è di tipo depressivo e tragico. Non è determinato dagli eventi che attraversano in modo necessario. Questo è diverso dallo scrivere: “si uccide perché la sua azienda va male”.
Questo è importante perché non mi piace mai dare la colpa alle cose e basta ma ragionare sugli aspetti psicologici in modo più utile che applicare tout court a una difficoltà oggettiva le categorie diagnostiche dell’ansia. o della depressione senza metterci in mezzo la lettura idiosincratica che ciascun individuo costruisce della sua realtà. Occorre guardare a ciascun individuo, alle sue storie, al suo modo di reagire in modo psicologico, fine. Questo ci aiuterebbe ad aiutare ciascun ragazzo precario depresso e passivo. Parlo da psicoterapeuta ovviamente, non da politica in questa sede…”
Una vacanza dalle e-mail riduce lo Stress e aumenta la Concentrazione
– Rassegna Stampa –
Secondo uno studio presentato proprio in questi giorni alla Computer-Human Interaction (CHI 2012) Conference di Austin, Texas, non avere accesso alla propria casella di posta elettronica riduce notevolmente lo stress sul lavoro e facilita molto la concentrazione.
I dipendenti di un ufficio sono stati collegati a dei cardiofrequenzimetri mentre erano al lavoro, contemporaneamente con l’aiuto di un software venivano conteggiati i passaggi effettuati tra le diverse schermate del loro computer. I risultati indicano che chi aveva accesso alle e-mail cambiava schermata due volte più spesso (in media 37 volte all’ora!) di chi non poteva accedervi, ed era in un costante stato di allerta caratterizzato da frequenze cardiache costanti.
I lavoratori che invece non avevano potuto accedere alla posta elettronica per cinque giorni consecutivi mostravano frequenze cardiache più naturali e variabili, inoltre, nonostante alcuni si siano sentiti un po’ isolati, nel complesso tutti hanno riferito di sentirsi meglio nello svolgere il proprio lavoro e di avere sperimentato maggiore concentrazione, grazie al minor stress e alla minor perdita di tempo a causa delle interruzioni.
Dal momento che altre ricerche hanno dimostrato che frequenze cardiache tipiche dello stato di costante allerta coincidono con alti livelli di cortisolo, un ormone legato allo stress, e che lo stress sul lavoro è a sua volta collegato a una gran varietà di problemi di salute, introdurre periodi di “vacanza” dalle e-mail, pur continuando a lavorare, sembrerebbe proprio una soluzione in grado di favorire sia la salute che le la qualità del lavoro.
L’inconfondibile tristezza della torta al limone. Di Aimee Bender – Recensione
Brunella Coratti.
Scritto con i toni surreali e inconsueti delle favole, L’inconfondibile tristezza della torta al limone di Aimee Bender è un romanzo originale e bizzarro, che vale proprio la pena di leggere.
Aimee Bender. L’inconfondibile tristezza della torta al limone. Ed. Minimum Fax
Rose Edelstein è una bambina di nove anni che, il giorno del suo compleanno, si accorge di possedere una qualità speciale: attraverso il cibo che mangia scopre i sentimenti, non sempre consapevoli, di chi ha cucinato. La torta di compleanno che la madre ha preparato non sa di limone, ma di vuoto e di solitudine, emozioni che la madre nasconde dietro un’apparente gioiosità.
Da quel momento Rose svilupperà una potente empatia nei confronti delle persone, stabilendo un’infallibile collegamento tra cibo cucinato e stati d’animo. Tuttavia, questo “cibo pieno di sentimenti” la priva del piacere del nutrimento: le emozioni altrui sono invadenti, inondano la sua mente e Rose talvolta è costretta ad ignorarle, mangiando prodotti industriali asettici e piuttosto anonimi.
Riesce anche ad indovinare, del cibo che mangia, alcuni aspetti concreti tra cui luogo di provenienza, caratteristiche del terreno o dell’acqua e anche questo è un modo che la ragazza utilizza per distanziarsi, quando l’altrui stato d’animo è troppo faticoso per lei; questo concentrarsi su un particolare per sfumare l’impatto emotivo dell’insieme sembra quasi un movimento dissociativo.
Rose vive in una famiglia alquanto originale.
La madre ha una personalità emotiva, irrequieta, il rapporto con la realtà è continuamente alterato da un pensiero magico attraverso cui legge le cose che accadono come se avessero significati speciali, segni di qualcosa che va interpretato. Figlia di una donna eccentrica e fredda, “mi chiamava camion della spazzatura quando le chiedevo troppe cose” è, al contrario, madre affettuosa e iperprotettiva ma inconsistente, a tratti fatua e trasognante.
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Il padre appare come una persona lineare, quasi mediocre, abitudinario e un po’ monotono che, solo verso la fine della storia, rivelerà alla figlia di essersi sempre difeso, attraverso una vita banale, dalla consapevolezza di avere anche lui delle qualità particolari , ereditate a sua volta dal proprio padre, che poteva raccontare la vita delle persone attraverso gli odori che emanavano, percepiti con intensità tale da dover portare sempre una benda sul viso.
Infine il fratello maggiore Joseph, il più enigmatico della famiglia, una sorta di genio solitario, che evita tutte le relazioni umane ( ad eccezione di un unico amico) comprese quelle con i suoi familiari. Non si fa toccare, fugge il contatto oculare e il suo sguardo è talmente angosciante e imbarazzante per tutti che, durante la cena, o legge libri oppure gli mettono davanti al piatto le scatole di cibo cosicchè lui possa leggere le etichette ed estraniarsi dal contesto. Joseph sembra appartenere ad un altro mondo, si colloca in una dimensione estranea e silenziosa del vivere e si esercita nell’ “arte delle sparizioni”, prima brevi poi via via sempre più significative.
Il libro è la narrazione della vita di questa famiglia attraverso lo sguardo fin troppo empatico di Rose, prima bambina, poi ragazza e adulta.
Rose inciampa nei segreti della madre, del fratello, infine del padre e questo le consente di conoscerli al di là delle apparenze, non sempre di capirli, ma comunque di amarli profondamente. E, nonostante sia la più piccola della famiglia, ne diventa la presenza regolatrice, il punto di riferimento, la confidente prediletta che modula emozioni sotterranee, convinzioni magiche, affetti inopportuni ed eccentricità.
Lei contiene tutto: i tradimenti della madre, le sparizioni del fratello, il silenzio un po’ fobico del padre, osservandoli in silenzio ed amandoli teneramente. In lei è potente l’istinto di proteggere i suoi familiari, si accorge di quanto siano fragili negli affetti, come se la realtà fosse, per ognuno di loro, fonte disorganizzante di caos emotivo.
Viene in mente il mestiere di psicoterapeuta, le emozioni suscitate dalla relazione clinica e utilizzate come ingredienti controtransferali di comprensione del mondo interiore del paziente, insieme ai rischi che il terapeuta corre, essere inondato dalle emozioni altrui al punto a volte di doversene difendere, oppure perdere il sapore della propria vita vivendo quella degli altri.
Articolo consigliato: Una stanza piena di gente. by Daniel Keyes. (Recensione).
Aimee Bender ci presenta una radice schizotipica familiare, sembrano tutti affetti dallo stesso disturbo che si plasma diversamente nell’espressività del linguaggio dei cinque sensi: è gustativa in Rose, olfattiva nel nonno paterno, visiva nel fratello, più genericamente mentale nella madre, compromessa dal pensiero magico.
Le modalità relazionali dei personaggi tra loro, con se stessi e con la realtà tutta, sembrano proprio ben descrivere questo genere di disturbo che si caratterizza per alcune convinzioni irrazionali alquanto bizzarre: l’idea di poter influenzare magicamente gli altri sia direttamente che indirettamente o di poterne essere influenzati, l’idea che sia possibile il controllo dei pensieri propri ed altrui, che si possano acquisire conoscenze attraverso canali speciali o a distanza e la disponibilità a mettere a disposizione degli altri le proprie doti “soprannaturali”.
Queste idee sono accompagnate da esperienze percettive insolite che possono arrivare alla depersonalizzazione, derealizzazione, talvolta ad illusioni ed allucinazioni. Anche a causa di una certa dose di ansia sociale, queste persone non sono inclini a rapporti affettivi importanti, ad esclusione della propria famiglia, dove rimane saldo il senso di appartenenza.
Solo in famiglia si parla lo stesso linguaggio, il resto del mondo è estraneo e poco comprensibile e la solitudine è ricercata come indispensabile e sicuro rifugio: viene da chiedersi se una piccola dose di schizotipia non sia un ingrediente costitutivo del disturbo evitante di personalità e della fobia sociale.
Una lettura, in definitiva, che concede molti spunti di riflessione significativi, nonostante la leggerezza dello stile.
Intervista con il Prof. Dimaggio – #1 La Terapia Metacognitiva-Interpersonale
Una chiacchierata con il prof. Dimaggio – Parte 1:
La Terapia Metacognitiva-Interpersonale
Che cos’è la Terapia Metacognitiva-Interpersonale e come funziona? Abbiamo cercato di scoprirlo grazie all’aiuto del prof. Giancarlo Dimaggio.
Gli strumenti nella cassetta degli attrezzi dello psicoterapeuta non sono mai abbastanza, soprattutto quando il paziente è affetto da un disturbo di personalità. Un interessante prospettiva viene proposta dalla Terapia Metacognitiva-Interpersonale (TMI), modello che è stato sviluppato in seguito all’osservazione di pazienti che non erano in grado di riflettere sui propri stati mentali e che quindi, avendo difficoltà ad identificare pensieri ed emozioni suscitati da un evento, traevano un minore beneficio dalle tecniche cognitive standard, come l’ABC (Bassanini 2012, Ruggiero 2012). La TMI nasce soprattutto per il trattamento dei pazienti con disturbi di personalità e insieme al prof. Dimaggio abbiamo cercato di comprendere meglio questo interessante approccio terapeutico.
(State of Mind) Buongiorno prof. Dimaggio. Potrebbe descrivere e riassumere brevemente per i lettori di State of Mind la terapia Metacognitiva- Interpersonale (TMI)?
(Dimaggio) L’approccio della terapia Metacognitiva-Interpersonale è sviluppato principalmente per il trattamento dei disturbi di personalità, ma include una struttura che permette di trattare i disturbi di Asse I correlati, depressione, ansia nelle varie forme, disturbi ossessivi, disturbi alimentari.
Articolo consigliato: La Terapia Metacognitiva (MCT): intervista con il Prof. Adrian Wells.
Le caratteristiche fondamentali di questo approccio sono due: metacognitiva e interpersonale. La prima tiene presente costantemente come focus del trattamento, ma anche come variabile di difficoltà del funzionamento da tenere in considerazione per adattare il trattamento al singolo paziente, le abilità di ragionare in termini di stati mentali, che è la metacognizione per come l’abbiamo intesa storicamente nel corso degli anni con gli ex colleghi del terzo centro, dove per metacognizione intendiamo: la capacità di identificare gli stati interni, di ragionare su di essi, di costruire catene di nessi psicologici causali, quale azione dell’altro ha causato una nostra emozione, reazione e cosa noi abbiamo causato nell’altro; la capacità di prendere distanza critica dai contenuti mentali e trattarli come tali, invece che come dati di fatto, e formarsi una teoria della mente dell’altro ricca, articolata e complessa; utilizzare gli stati mentali come contenuto di strategie di planning, di pianificazione, di risoluzione di problemi sociali e legati alla sofferenza soggettiva. Questo è quello che noi intendiamo con metacognizione, concetto che ha un ampio grado di sovrapposizione con quello di mentalizzazione di Fonagy, Bateman e colleghi.
La differenza principale per quello che intendiamo con metacognizione comprende una varietà di processi dai più puntiformi, per esempio l’identificazione emotiva, a quelli più ampi, che sono la capacità di integrare i diversi stati interni in diverse aree funzionali. La metacognizione non è mai stata focalizzata esclusivamente su quello che avviene nell’attaccamento, che erano formulazioni fino a poco tempo fa di Fonagy e Beckam, che ultimamente però sembra stiano allargando il campo di applicazione del concetto.
L’idea nucleare da questo punto di vista è che qualunque forma di trattamento psicologico, in particolare per i disturbi di personalità, nasce da una formulazione del caso che implica che il paziente abbia avuto accesso ai contenuti mentali, sia in grado di ragionare sugli affetti, di rendersi conto di quali sono, di distinguerli l’uno dall’altro, di capire cosa li evoca e di capire quali sono le proprie rappresentazioni prototipiche, di prenderne distanza critica e piano piano ragionare sugli stati interni al fine di modificarli; ragionare sui comportamenti al fine di trovare nuove soluzioni, capire il gioco che avviene tra due menti durante le relazioni e utilizzare questa comprensione per adattarsi e trovare nuove soluzioni ai problemi relazionali, conflitti, realizzazione di desideri condivisi, ecc.
L’idea è che molti pazienti abbiano difficoltà a formarsi questa comprensione metacognitiva degli stati interni e degli stati degli altri, per cui il trattamento o deve promuoverla oppure deve tenere conto che l’obiettivo della terapia, come diceva Semerari, è quello di aiutare il paziente a formarsi questo prerequisito, ovvero acquisire una conoscenza mentalistica degli stati interni propri e degli altri, che poi viene utilizzata come strumento di cambiamento. La terapia quindi da un lato ha come obiettivo quello di migliorare la meta cognizione, la terapia metacognitiva-interpersonale, dall’altro lato ha l’obiettivo di considerare quanto il paziente è capace metacognitivamente, in maniera da evitare interventi che siano troppo complessi e che il paziente non può capire perché si presume una conoscenza degli stati mentali che il paziente non ha, e per stati mentali intendo i fenomeni psicologici, pensieri, emozioni, catene causali, ecc. Questo per esempio è condiviso da alcuni altri approcci, ci sono alcune correnti di lavoro che più o meno ragionano nella stessa maniera; per esempio Fonagy e Beckman considerano che bisogna lavorare in maniera approssimale alle capacità di mentalizzazione del paziente, cioè chiedere troppo al paziente può essere contro produttivo, il paziente non risponde perché gli si chiede di padroneggiare un materiale che non capisce.
Articolo consigliato: Recensione di Terapia Metacognitiva dei disturbi d’Ansia e della Depressione. (A. Wells)
Recentemente nella tradizione di Bill Stiles e dei colleghi di orientamento narrativo portoghesi Miguel Gonçalves, si è sviluppato il concetto di zona terapeutica di sviluppo prossimale, dove gli interventi del terapeuta devono essere all’interno della zona di sviluppo prossimale, ovvero fornire un intervento al paziente immediatamente superiore alle capacità di comprensione mentalistica che il paziente possiede spontaneamente. Interventi che sono al di sotto della zona di sviluppo prossimale è probabile che non generino cambiamento, interventi che sono troppo al di sopra, per esempio chiedere al paziente di capire uno schema interpersonale, quando invece ancora fa fatica a comprendere le proprie emozioni è molto probabile che sia un intervento che viene rifiutato, viene non capito, genera deterioramento o semplicemente mancanza di progresso. Quello che facciamo è commisurabile con almeno questi altri approcci.
(State of Mind ) L’intervento TMI si articola quindi in tre grandi fasi: la prima è quella della strutturazione della complessità del caso, la seconda in cui con il paziente costruiamo uno stesso linguaggio “insegnandogli” la metacognizione e la terza infine, è quella che potremmo definire più terapeutica.
(Dimaggio) Cerchiamo di costruire col paziente una comprensione condivisa di cosa sono gli stati mentali, non necessariamente spiegando cos’è la metacognizione, ma spiegando che il comportamento è retto da stati mentali e facendo un lavoro che è soprattutto di sintonia relazionale, volto ad aiutare il paziente a capirli, a capirne l’importanza. C’è anche una componente a tratti psicoeducazionale, cioè se il paziente ha veramente una sorta di analfabetismo emotivo gli spieghiamo che cosa sono gli affetti, il loro valore evoluzionistico, da dove nascono, cosa generano e capire che è importante identificarli e discriminarli. Quindi c’è anche questa componente di nuovo apprendimento, si spiega al paziente che è parte del proprio funzionamento mentale e successivamente si cerca di promuoverlo.
Tutta la prima parte del trattamento, costruzione della scena, è finalizzata alla costruzione di una mappa condivisa tra paziente e terapeuta del funzionamento mentalistico del paziente, cioè paziente e terapeuta cercano insieme di capire cosa avviene nella mente del paziente, cosa va storto all’interno delle relazioni interpersonali significative e l’obiettivo è quello di acquisire una comprensione più dettagliata possibile nel corso del tempo. Quando sono stati raggiunti determinati livelli a quel punto si passa ad utilizzare questa conoscenza mentalistica per promuovere il cambiamento.
Ci sono dei passaggi della terapia, procedure iterattive che si ripetono ogni volta che il paziente torna indietro, magari ha acquisito delle consapevolezze in un area interpersonale, per esempio ha risolto alcuni problemi dell’attaccamento e si aprono problemi nell’area dell’antagonismo o del rango sociale a quel punto si ricomincia, perché magari in quell’area dimostra minori capacità metacognitive e bisogna risalire fino a che non comprende gli schemi interpersonali disfunzionali.
Maltrattamenti emotivi infantili e tendenza all’autocritica in amore
– Rassegna Stampa –
Secondo una ricerca condotta da un gruppo di ricercatori israeliani della Ben-Gurion University of the Negev (BGU) esisterebbe una correlazione marcata tra difficoltà sentimentali in età adulta e l’essere stato oggetto di maltrattamento emotivo nell’infanzia.
Il Childhood Emotional Maltreatment (CEM) comprende non solo abusi fisici e sessuali ma anche l’abbandono emotivo e, vista la frequenza con cui viene riferito nei centri di consulenza universitari, sembra essere in drammatico aumento.
In due diversi studi, pubblicati sul Journal of Social & Clinical Psychology, i ricercatori hanno analizzato la stabilità e la soddisfazione delle relazioni intime in un ampio gruppo di studenti universitari con una storia di maltrattamento emotivo infantile. L’analisi dei risultati mostra come la tendenza all’autocritica faccia da mediatore tra CEM e deterioramento delle relazioni sentimentali: data la scarsa capacità che ha un bambino di comprendere la circostanze che portano a situazioni di maltrattamento emotivo e fisico, queste vengono elaborate in termini di responsabilità personale favorendo un atteggiamento di autocritica; questa tendenza, consolidandosi nel tempo come parte della definizione della personalità, contribuirebbe a far deragliare le relazioni sentimentali.
La dott.ssa Lassri sostiene inoltre che, anche se questi risultati sono stati raccolti da persone in età universitaria, i comportamenti in questione potrebbero peggiorare durante l’età adulta.
Storie di Terapie #6 – Sesso & Potere: il caso di Matteo
Nei casi clinici che seguono, l’arrosto sostanzioso dei vari pazienti è condito con il sugo della fantasia, per rendere non identificabili le persone e la lettura più avvincente. Spesso ho condensato in un solo paziente più persone e, quasi sempre ci sono scappati pezzetti di me stesso. – Leggi l’introduzione –
E’ sempre più frequente, con l’utilizzo diffuso di Internet, che i pazienti arrivino già con una diagnosi fatta in casa, in genere si tratta dell’attacco di panico che è molto trendy o della vecchia depressione.
Quasi nessuno sotto i cinquant’anni parla più del desueto “esaurimento nervoso” che tutte le nostre nonne avevano prima o poi avuto in un momento difficile, tra un aborto o un tradimento del marito.
Nessuno mai però era stato così preciso come Matteo. Il messaggio che lasciò in segreteria telefonica recitava testualmente: “Sono Matteo, mi invia il Dr. C., ho un disturbo bipolare dell’umore che a volte diventa schizofrenico, per cui ho bisogno di una sua psicoterapia cognitivo comportamentale. Posso venire da lei ogni pomeriggio dei giorni dispari dopo le 17, mentre nei giorni pari sono libero alle 18”.
Rubrica consigliata: Storie di Terapie – Introduzione
Lo incontrai un lunedì alle 17,30. Mi sommerse con un fiume inarrestabile di parole, le frasi trapassavano una nell’altra con estrema disinvoltura beffandosi della logica aristotelica, ponti arditi erano gettati tra un tema e il successivo, magari semplicemente per un assonanza o, magari, per un passaggio che, nella fretta, era rimasto nella sua mente e non si era fatto strada fino alla bocca:
“…fino a dodici anni sono stato benissimo ero un ragazzino sorridente e pieno di amici ma le cattive compagnie o forse il cattivo ero io e non me lo sono mai detto nonostante la psicoterapia con il Dott. L. che mi ha spiegato tutto e che la conosce sa tutto sembra spingermi verso di lei ed io penso che nel triangolo drammatico lei rappresenti il salvatore. Voglio uscirne da questa geometria della psiche perché la colpa è di mia madre che mi vuole ancora bambino suo ma ne ho le scatole piene. Eccoci passati alla geometria dei solidi e le dico la verità che in me di solido c’è ben poco. C’è molto di solito, sempre le solite cose. Credo che dovremmo parlare spesso e parlare di sesso. Non mi sono fatto mancare niente dottore. Ho una vita sessuale sensazionale, non soltanto anale. Non saprei definirmi. Mi faccia pure le domande che vuole, da parte mia farò tutti i compiti che mi assegnerà, mi sono informato di come funzionate e poi anche L. la stima come C.”
Matteo è un uomo di 39 anni di statura media con un viso sorridente e simpatico. Laureato in filosofia, lavora in una grande organizzazione sindacale che vive come una casa protettiva. Il Dr. C. lo tratta farmacologicamente con il litio sulla base di una diagnosi di disturbo bipolare.
Primogenito di due fratelli maschi è stato molto geloso del fratellino e lo è tuttora, anche perché il minore ha avuto una vita di successo sia scolastico che professionale, lavora in una università all’estero, è sposato ed ha una figlia. Matteo, invece, è rimasto sempre a casa con i genitori ed a trovato un lavoro che, per quanto sicuro, non risponde alle aspettative sue e della famiglia.
All’età di quindici anni ha avuto il primo episodio depressivo, ha smesso di frequentare gli amici e persino di andare a scuola, motivo per cui ha perso l’anno, non si lavava, non mangiava e la mamma, insegnante, ha dovuto prendere l’aspettativa per curarlo esattamente come un neonato. Lo imboccava e lo lavava mentre lui restava a letto tutto il giorno.
RUBRICA CONSIGLIATA: Un Giorno di Ordinaria Follia. Psichiatria Pubblica, Lettere dal Fronte.
I sedici anni sono ricordati da Matteo come il suo debutto sulla scena della sessualità. La sua prima esperienza fu una reciproca fellatio con un suo compagno di classe venuto a trovarlo a casa. Da allora, iniziò a prosciugare i conti correnti della famiglia con prostitute e transessuali che tuttora frequenta, non meno di due volte a settimana. Rimanendo sul tema della sessualità, che lo interessa molto, mi racconta mille avventure, soprattutto la bellezza di una professione quale la prostituzione che, se fatta per passione e per libera scelta, è bella come la psicoterapia perché dà la felicità agli altri. E’ stato innamorato profondamente di due donne, Ofelia e Pandora e di un uomo, Giorgio. Con tutti e tre ha avuto una felice vita sessuale, ma viveva nel terrore di essere abbandonato e li assillava continuamente per avere rassicurazioni in proposito. Tale assillo è stato il motivo della fine delle sue storie, ogni volta lui sente di morire perché, se l’altro lo rifiuta, vuol dire che non vale nulla e che è un essere schifoso e indegno. Il partner rappresenta un rinforzo essenziale per la sua identità, ha un potere enorme e come tale è terribilmente minaccioso. Se lo accetta e lo ama lui si sente invincibile e straordinario, se lo rifiuta si sente una nullità. Le fasi depressive e maniacali sono in genere precipitate, rispettivamente, da un rifiuto e da un successo affettivo.
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Quando si vede sconfitto e inutile si rifugia in una simbiosi con la madre, sempre pronta ad accogliere il suo ritorno.
Le donne sono amate ma soprattutto temute, ha una sorta di parafilia, del tutto egosintonica, per i piedi delle donne, li bacia e si masturba, soprattutto se sporchi e sudati. Eiacula immediatamente al solo pensiero di essere calpestato e sottomesso. Di contro, con le prostitute, è spesso violento, fa loro del male e gode nel sentirle completamente sottomesse e in suo totale controllo.
Il padre è un dirigente aziendale di medio livello, proviene da una famiglia di anarchici toscani intolleranti a qualsiasi regola, legge o potere costituito. Il tema agonistico del potere è sempre presentissimo in Matteo, sebbene culturalmente, per formazione e ideologia, lo consideri un disvalore, credendo invece nella solidarietà e nella fratellanza.
Due sono i temi trasversali che attraversano la sua esistenza: la sessualità (il sistema sessuale) e il potere (il sistema agonistico).
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Il secondo è però sovraordinato e parzialmente egodistonico permettendo, perciò, un intervento terapeutico. La sessualità colora incessantemente la sua visione del mondo, ma Matteo lo trova buono e giusto. Quando va in giro, a sua dire, non vede persone ma solo fiche, buchi del culo e piselli. La vita gli sembra una grande danza fittizia che ha, come scopo reale anche se non sempre dichiarato, il ricongiungersi gioioso di questi tre elementi. Tutte le attività degli esseri umani non hanno che un unico scopo “venire o farsi venire dentro da qualcun’ altro”, lui partecipa gioiosamente a questa danza e sa assaporarne tutti i possibili godimenti. Solo quando resta fuori per un giro si intristisce terribilmente e torna dalla donna che non lo rifiuta mai e la prima, la mamma.
Meno gradevole è l’infinita battaglia agonistica per stabilire chi sta sopra e trionfa e chi sta sotto e affoga nell’umiliazione. Probabilmente la competizione originaria è stata con il padre e/o con il fratello, cui sempre tutto riusciva facilmente e bene e la posta in palio era la madre.
Ma ora è in gara con tutti, sul lavoro, con gli amici, persino le persone che non conosce e incontra casualmente per strada si chiede se siano migliori o peggiori di lui. E’ un confronto continuo da cui esce esaltato, se si ritiene migliore e depresso, se si crede inferiore.
Dipendenze Amorose e Sessuali: Shame, di Steve McQueen.
Naturalmente le due tematiche si intersecano ampiamente. Matteo, quando fa l’amore, fa anche la guerra, o domina o è dominato e, in entrambe le posizioni, sperimenta un surplus di eccitazione. Il fatto di scoprirsi così interessato al potere lo disturba. Gli dico che per lui, come recita l’adagio siciliano, “cumannari è meglio che fottere” o, per la precisione, “fottere è un altro modo di cumannari”, che resta la cosa più importante.
Matteo inizia ironicamente a chiamare questo suo modo di funzionare che non gli piace “il suo Silvio interno” facendo riferimento a Berlusconi. Accogliendo la metafora anch’io inizio a chiamare silviogenerati tutti i suoi comportamenti , pensieri ed emozioni che derivano dall’attivazione pervasiva e incongrua del sistema agonistico, che così inizia a riconoscere. Ci convinciamo che, se avesse una migliore autostima di base, sarebbe meno dipendente dal giudizio degli altri per cui le donne che lo lasciano non avrebbero il potere di deprimerlo né, quelle che lo accettano, di eccitarlo. Sarebbe anche meno impegnato in questa continua misurazione con gli altri maschi per vedere chi l’ha più lungo.
Ci diamo come obiettivo quello di togliersi l’armatura e di iniziare a sperimentare dei rapporti che lui vuole definire in codice “veltroniani”, intendendo di collaborazione tra pari.
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Il primo rapporto che sente quasi completamente veltroniano è quello con me e quindi smette rapidamente di fare la ruota del pavone in ogni seduta per mostrarmi quanto lui sia straordinario. Sente la relazione sufficientemente salda per cui non ha bisogno di sedurmi, adulandomi come il miglior terapeuta del mondo, tre metri più in alto degli altri colleghi, può pensare di essere normale, che non è il miglior paziente del mondo, come noi non siamo la migliore coppia terapeutica mai esistita.
Inizia a sperimentare i vantaggi del poter essere normale, assaporando il mondo che prima guardava appena di sfuggita, impegnato com’era a combattere e a sopraffare per non essere sopraffatto.
Il lavoro successivo con Matteo è consistito poi, per alcuni altri mesi, in un processo di stabilizzazione dei risultati ottenuti, rendendo automatico il nuovo modo di ragionare veltroniano perché sostituisse, di default, quello antico berlusconiano. Si è trattato di aiutarlo in un continuo esame di realtà: di fronte ad eventi che lo inorgoglivano e rischiavano di maniacalizzarlo il messaggio era “guarda che non c’è niente di straordinario, capita a tutti, è normale”, di fronte alle delusioni e agli insuccessi il messaggio era “guarda che non c’è niente di straordinario, capita a tutti, è normale”.
La mia voce che gli ripeteva questo mantra lo accompagnava durante la settimana, diventando una parte di lui. Abbiamo iniziato a diradare le sedute quando Matteo mi ha detto che la voce interiore che gli ricordava che tutto è normale aveva perduto il mio accento romanesco ed usava il tono del suo normale dialogo interno.
Prima che si concludesse la terapia ci furono le dimissioni di Veltroni da segretario del partito e temetti che Matteo trovasse conferma della supremazia del metodo Berlusconi e che mi dicesse, nel suo quadro di riferimento agonistico-sessuale, che “se sei buono te lo mettono in culo”.
Lo fece, ma fu una occasione utile di approfondimento.
E’ chiaro che se uno sta passeggiando in una villa senza correre sarà superato da chi si sta allenando a correre. Quest’ultimo potrà anche pensare di aver vinto, ma le categorie del vincere o perdere sono soltanto di chi corre, chi passeggia non perde, semplicemente perché non sta gareggiando e non c’è motivo perché assuma la prospettiva dell’altro. Matteo stesso osservò, da pigro qual’ è, che a campare meglio era certamente il camminatore, lo scopo di arrivare primo era solo nella mente del corridore.
E’ solo lui che rischia di perdere, l’altro non può.
Psicoterapia: Il modello ABC: perché dopo l’A si accerta il C
L’ABC è una tecnica di formalizzazione sia dell’accertamento cognitivo che del lavoro terapeutico cognitivo. Il termine ABC è di Ellis e si tratta di un sistema per incoraggiare il paziente a comprendere i suoi stessi meccanismi cognitivi di valutazione degli eventi.
ABC è un acronimo, dove A sta per antecedent, B per belief e C sta per consequence. L’antecedent è lo stimolo di partenza, che in terapia è una situazione problematica in cui la sofferenza emotiva si è presentata in maniera particolarmente vivida e concreta. Per lo più si tratta di situazioni: guidare l’auto, parlare in pubblico. I B sono i pensieri, le convinzioni (ovvero, in inglese, i belief) che il paziente ha utilizzato per valutare –positivamente o negativamente- l’antecedent. Infine i C, le consequences, possono essere emozioni o comportamenti, azioni.
L’ABC non è soltanto una tecnica semplice di investigare le basi cognitive del comportamento disfunzionale e delle emozioni dolorose, e di trovare delle alternative positive. L’ABC è anche un oggetto concreto, un foglio suddiviso in 3 colonne verticali, in ognuna delle quali si descrive una delle componenti dell’ABC, come segue:
Il foglio ABC
Il foglio ABC va consegnato al paziente, che così familiarizzerà direttamente con lo strumento. Naturalmente il paziente va istruito e guidato a compilare l’ABC in seduta e incoraggiato a usarlo a casa. In questo modo la sua consapevolezza degli stati cognitivi e la sua capacità di leggere le proprie emozioni aumenterà.
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Ora aggiungiamo dei chiarimenti sulle regole di compilazione dell’ABC. Abbiamo detto che l’A è una situazione. In realtà, è più corretto dire che durante la fase iniziale di familiarizzazione con il paziente è preferibile usare situazioni reali e recenti come A. Ma non è necessario che l’A sia una situazione o un evento esterno. Si può considerare un A anche un evento immaginario, possibile o perfino impossibile; uno stato d’animo interno, un’emozione, un pensiero. Può essere una relazione e può appartenere al passato, al presente o al futuro.
Individuato l’A, si passa a compilare il C. Che dopo l’A si compili il C non è proprio una regola esplicitamente espressa da Ellis, eppure ci sono buone ragioni per sostenere questo suggerimento. In primo luogo possiamo notare che a pagina 60 del manuale di Neenan e Dryden (2006) in cui è esposta in breve la terapia di Ellis, nella sequenza di domande raccomandata dagli autori l’elicitazione dell’emozione e/o del comportamento precede quella del B del pensiero. In secondo luogo lo stesso Ellis (1962) riteneva che la situazione problematica dovesse essere accertata definendo ciò che era evidente, eventi, emozioni e comportamenti, e per ultime andassero analizzati pensieri consapevoli che accompagnano lo stato di malessere. È vero che per la teoria il B precede il C, ma in clinica l’accertamento del C deve precedere quello del B. Che il C venga dopo l’A è l’impressione del paziente, che però va inizialmente rispettata proprio perché in seguito, elicitando il B, emerga in maniera più evidente l’azione mediatrice dei pensieri.
Questo anche perché se si chiedesse il B subito dopo l’A, potrebbe accadere che il paziente non riferirebbe quanto pensato in quel momento, nel momento della sofferenza, ma potrebbe fornire i pensieri più ragionevoli che vengono in mente nella situazione protetta della seduta.
Le 4 domande per elicitare un ABC (Neenan e Dryden, 2006):
1. Qual era la situazione nella quale il problema si è manifestato? (elicitare l’A)
2. Come si è sentito/a? (elicitare il C)
3. Cosa la ha maggiormente disturbato/a in quella situazione? (passaggio al B)
4. Quali cose diceva a se stesso/a e pensava e che hanno determinato il C? (elicitare il B)
Naturalmente, questa sequenza non è per nulla obbligatoria. Nulla ci impedisce di accertate il B dopo l’A se lo preferiamo o lo riteniamo opportuno in quella situazione terapeutica. Per esempio, se riteniamo che il paziente debba in qualche modo distaccarsi da emozioni troppo pervasive, possiamo decidere di trascurare i C e passare direttamente al B. In altri casi si può addirittura partire dai C, se il paziente ha per esempio difficoltà a entrare in contatto con le proprie emozioni.
BIBLIOGRAFIA:
Ellis, A. (1962) Reason and Emotion in psychotherapy. Secaucus, NJ: Citadel
Neenan, M., Dryden, W. (2006). Rational Emotive Behaviour Therapy in a Nutshell. Sage Publications.
L’intelligenza e la preoccupazione evolvono di pari passo
– Rassegna Stampa –
Secondo i risultati di uno studio condotto da team di ricercatori provenienti da diverse università newyorkesi l’intelligenza e la preoccupazione (worry) negli esseri umani co-evolverebbero.
Già in un precedente studio i ricercatori avevano dimostrato che l’intelligenza correlava positivamente sia con un alto grado di preoccupazione nei pazienti con disturbo d’ansia generalizzato (GAD), che con un basso grado di preoccupazione nei soggetti sani; inoltre sia la preoccupazione che l’intelligenza mostravano una correlazione inversa con alcuni metaboliti della sostanza bianca sottocorticale. In questo ultimo studio i ricercatori riesaminano le relazioni tra ansia generalizzata, worry, intelligenza e metabolismo della sostanza bianca sottocorticale; a questo scopo i risultati dello studio originale sono stati combinati con i risultati di un secondo studio per creare un campione composto da 26 pazienti con GAD e 18 volontari sani. Tutti i soggetti sono stati valutati con la Penn State Worry Questionnaire, con il Wechsler Brief intelligence quotient (IQ), e la risonanza magnetica con spettroscopia (1H-MRSI) per misurare la concentrazione del metabolita CHO nella materia bianca sottocorticale. Anche in questo caso i risultati vengono replicati: infatti il rapporto tra ansia e l’intelligenza è risultato positivo in pazienti GAD, ma inverso nei volontari sani, inoltre sia la preoccupazione che l’intelligenza sono caratterizzate da deplezione del substrato metabolico nella sostanza bianca sottocorticale.
Ma i ricercatori come spiegano questi risultati? Cioè come è possibile che l’ansia patologica, fino ad ora considerata disadattiva, co-evolva proprio con l’intelligenza, il tratto più adattativo per l’uomo?
In questo studio l’intelligenza è risultata associata a due diversi fenotipi: agli individui con diagnosi di GAD che mostravano un alto grado di preoccupazione patologica e agli individui sani che mostravano un basso grado di preoccupazione.
L’ansia patologica rappresenta una risposta a minacce potenziali, simboliche o estremamente improbabili per rappresentare effettivo pericolo per l’individuo. Mentre un intelligente non ansioso è una persona in grado di stimare realisticamente quando una minaccia è estremamente remota, l’individuo preoccupato non abbandona mai del tutto l’idea del pericolo e di conseguenza adotta modelli comportamentali per evitarlo, limitando il contatto con contesti sociali e situazionali potenzialmente pericolosi. In questo senso la presenza di cognizioni negative volte a prevedere catastrofi evitando attivamente contesti pericolosi rappresenta un fenotipo umano altamente vitale.
La strada per l’inferno è lastricata di dopamina. Recensione de “I sette peccati capitali del cervello” (by Margriet Sitskoorn)
“Se tutti noi ci confessassimo a vicenda i nostri peccati, rideremmo sicuramente per la nostra totale mancanza di originalità.”
(Kahlil Gibran)
I sette peccati capitali del cervello, di Margriet Sitskoorn. Edizione italiana a cura di Orme Editore
In effetti esistono dei peccati talmente comuni che chi non ne ha commesso uno almeno una volta nella vita…scagli la prima pietra! Avarizia, invidia, superbia, accidia, ira, lussuria e gola non risparmiano proprio nessuno, anche se ognuno avrà la sua personale classifica. Come mai tutti quanti ci lasciamo indurre in tentazione e a volte resistere è così difficile? Forse perché l’uomo è per natura peccatore?
“I sette peccati capitali del cervello” è un interessante libro divulgativo, rigoroso dal punto di vista scientifico e con una ricchissima bibliografia, in cui Margriet Sitskoorn con uno stile ironico e divertente illustra gli ultimi studi condotti in campo neuroscientifico, “alla scoperta dei meccanismi che ancorano saldamente i peccati al cervello”.
La nostra sopravvivenza in quanto esseri umani è legata alla soddisfazione di bisogni fisici (mangiare, bere, riprodursi, accumulare beni) e sociali (necessità di appartenere ad un gruppo che ci protegga e aiuti in caso di pericolo). Per assicurarsi che tali necessità vengano soddisfatte il cervello ha a sua disposizione due sistemi efficaci: il piacere provato quando appaghiamo un bisogno – risultato del rilascio di dopamina – e il dolore provato per il mancato soddisfacimento.
Articolo consigliato: “Spilorci dentro” quando l’Avarizia è nel Cervello
Nei peccati capitali ritroviamo i bisogni sopra citati che premono con prepotenza per essere soddisfatti in nome, appunto, della nostra stessa sopravvivenza, e il nostro cervello ci motiva a farlo attraverso i circuiti del piacere e del dolore. Filerebbe tutto liscio se non fosse per alcuni incidenti di percorso.
Il primo riguarda la competitività tra bisogni contrastanti. Se spinti dal desiderio volete portarvi a letto la donna del vostro migliore amico, rischiate l’espulsione dal gruppo, se non peggio. Ne sanno qualcosa Paolo e Francesca, trucidati dal marito di lei che non prese proprio benissimo la scoperta della loro tresca.
Il secondo problema riguarda l’edonismo a breve termine: l’appagamento immediato risulta più attraente di quello che si potrebbe avere in un secondo momento. Come non lasciarsi tentare da un gustoso hamburger Royal con formaggio anche se non dovremmo? Racchiude in sé quella combinazione perfetta di grassi, sale e zucchero un tempo indispensabile ai nostri antenati per la sopravvivenza e lo sviluppo corporeo (Kessler, 2010), ed ogni boccone è una meravigliosa scarica di dopamina e di oppioidi; un autentico piacere di breve durata che ci spinge a volerne ancora, non più per soddisfare la fame, ma per la voglia di provare nuovamente piacere. Nessuno pecca con un piatto di fagiolini: non agisce in maniera altrettanto potente sul sistema degli oppioidi.
Il terzo problema sono i bisogni che continuano ad esigere soddisfazione anche quando non sono più indispensabili alla sopravvivenza. Se accumulare beni poteva essere utile ai tempi dei nostri antenati con la clava, oggi la sovrabbondanza non lo rende più necessario; eppure accumulare stimola il circuito del piacere e spinge a volere sempre di più, sempre di più, sempre di più.
Infine, la possibilità di soddisfare la maggior parte delle nostre necessità da soli ci spinge ad essere maggiormente inclini all’individualismo e più sensibili all’accidia sociale.
Il peccato quindi pare essere fortemente radicato nel nostro cervello, sostiene la Sitskoorn, perché strettamente legato ai meccanismi di piacere/dolore che motivano e orientano i nostri comportamenti. Grazie tante cervello! Siamo quindi destinati alla dannazione eterna?! Ma no, non abbandonate ogni speranza! Esistono delle abilità e qualità in grado di sottrarre le nostre azioni al controllo diretto del piacere e del dolore come, per esempio, una buona capacità di decision making, l’abilità di immedesimarsi negli altri, di adottare un comportamento prosociale e l’autoriflessività.
Queste capacità sono legate all’attivazione di aree anteriori del neocortex, quella parte di cervello che dal punto di vista evolutivo si è sviluppata più di recente e che è in grado di influenzare e modulare i circuiti cerebrali più primitivi, come i sistemi del dolore e del piacere.
Peccatori, le fiamme dell’inferno vi attendono e la via per la salvezza è una sola: sviluppate il più possibile la vostra corteccia prefrontale!
Kessler, D.A. (2010) Perché mangiamo troppo (titolo originale: The end of overating: Taking control of the insatiable american appetite. 2009). Garzanti, Milano.
Habit Reversal Training (HRT): del mettersi le dita nel naso e altre amenità
HABIT REVERSAL TRAINING (HRT)
Nei giorni scorsi ha impazzato sul web un video in cui compare il calciatore spagnolo Iker Casillas , talentuoso portiere del Real Madrid e della Nazionale spagnola, che poco prima di un match di Champion League si infila distrattamente un dito nel naso e poi, con la stessa mano utilizzata per la discutibile ispezione, accarezza la guancia del bambino che lo sta accompagnando in campo. Un video tutto sommato piuttosto banale, ma che ha riscosso talmente tanto successo in termini di click da essersi guadagnato un posto di rilievo persino sulle homepage dei maggiori quotidiani nazionali.
Le ragioni del clamoroso successo di prodotti dozzinali incuriosiscono sempre, anche se ormai non sorprende più che il trash si trasformi inspiegabilmente in tormentone; ma cos’è che rende così intrigante guardare un personaggio noto che si scaccola il naso? Le interpretazioni possono essere tante, gravide di sfumature psicologiche.
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Da un parte si attiva forse una sorta di compiacimento sadico nel vedere una stella del jet set in disarmo: lo spettatore, abituato com’è ad ammirare (e invidiare) l’aura glamour dei personaggi famosi, vive un momento di compiaciuto riscatto nel vederli finalmente un po’ ridicoli e svergognati dalla rivelazione di debolezze e piccoli vizi. Anche loro nei panni di comuni esseri umani, insomma.
D’altra parte invece, per chi non è avvelenato da cattivi sentimenti e mantiene un rispetto reverenziale nei confronti dei propri idoli, c’è forse la sensazione di essere in qualche modo legittimati a rivendicare un comportamento di cui tutto sommato non si è particolarmente fieri: della serie, che bisogno c’è di vergognarsi nell’appiccicare il proprio moccio sotto tutti i tavoli e le sedie che si hanno a tiro, se verosimilmente lo fa addirittura uno figo come Casillas?
Per chi invece resta dell’idea che le dita nel naso non siano esattamente il meglio e desidera modificare un’abitudine percepita come imbarazzante, interviene la psicoterapia cognitivo-comportamentale, che non manca di proporre una soluzione ad hoc persino in questo campo: si tratta della cosiddetta Habit Reversal Training (HRT), un trattamento pensato per quei comportamenti che non necessariamente rientrano nel firmamento dei disturbi psicopatologici veri e propri, ma che ugualmente possono infastidire per la loro natura di automatismi un po’ intrusivi e difficili da controllare.
Mangiarsi le unghie, stuzzicarsi continuamente le ciocche di capelli, digrignare i denti e mordicchiarsi le labbra, balbettare o reiterare tic nervosi, fino alla rhinotillexomania (leggi: dita nel naso) sono tutti comportamenti target di questo intervento, che nasce suddiviso in quattro componenti principali:
Motivazione al cambiamento (non crede sia in qualche modo controindicato farlo in continuazione quando è in mezzo alla gente?).
Lavoro sulla consapevolezza (mi dica quante ne ha appiccicate in giro oggi, con che frequenza e in quali momenti della giornata).
Il rinforzo dei comportamenti incompatibili (quando le viene da infilarsi il dito nel naso, provi piuttosto a sfogliare una rivista).
Generalizzazione: che prevede l’estensione alla vita di tutti i giorni degli esiti delle esercitazioni in terapia.
Eppure, malgrado il tentativo di medicalizzare anche questo innocente retaggio dell’infanzia, da una ricerca effettuata da Jefferson et Coll e finalizzata a indagare il potenziale disagio sociale legato alla rhinotillexomania, è emerso che ben il 91% del campione dichiara candidamente di mettersi le dita nel naso tutti i giorni, che il 75% è convinto che chiunque altro lo faccia, e che solamente due soggetti (lo 0,8%) sostiene che il fatto di scaccolarsi interferisca in qualche modo con le proprie attività quotidiane.
Insomma, con queste premesse sembra improbabile che il disturbo, pur con la sua etichetta altisonante e il biasimo sociale che lo circonda, possa trovare un suo spazio nell’imminente DSM V.
Azrin N.H., Nunn R.G. (1973) Habit reversal: a method of eliminating nervous habits and tics. Behaviour Research and Therapy, 11, 619-628
Woods D., Miltenberg R (Eds) (2001) Tic disorders, trichotillomania and other repetitive behaviours disorders: behavioural approaches to analysis and treatment. Boston, MA:Kluwer
In the previous installment of this series I discussed retrospective studies that suggested a link between early behavioral inhibition (BI) and the later development of social anxiety symptoms and social phobia. I also emphasized that these findings must be interpreted with caution because of the inherent limitations in retrospective methodologies. Now I will discuss research that has been conducted using other methodologies.
Biederman, Hirshfeld-Becker, Rosenbaum, Hérot, Friedman and Snidman (2001) used a cross-sectional design to examine the association between BI and social anxiety disorder in 216 children between two and six years of age. Behavioral inhibition was measured using standard laboratory observations and child diagnostic assessments were Overall 152 children were uninhibited and 64 were inhibited; social anxiety disorder was significantly more likely to be found in inhibited children (17%) than in uninhibited children (5%). While this study demonstrates an association between social anxiety and BI, it does not speak to a predictive relationship.
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In addition to cross-sectional design, longitudinal investigations have examined the predictive association between BI using a laboratory assessment and later social anxiety disorder. Schwartz, Snidman and Kagan (1999) assessed 79 participants at 24 months of age for BI in a laboratory setting. The children were then assessed at 13 years of age using a standardized diagnostic interview. The results showed a significant association between the classification of early inhibited temperament and later generalized social anxiety. Of the adolescents who had been inhibited as infants, 61% had current social anxiety compared to 27% of those who had been uninhibited. Interestingly, child behavioral inhibition was not significantly associated with later specific fears, separation anxiety, or performance anxiety.
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While BI and anxiety disorders have been shown to be associated in the literature, research has shown that psychosocial factors generally associated with anxiety are not associated with BI.
Hirshfeld-Becker, Beiderman, Faraone, Segool, Buchwald, Rosenbaum (2004) examined the association between BI and various psychosocial factors found, in past literature, to be associated with the development of anxiety disorders. Behavioral inhibition was assessed in a laboratory setting. Psychosocial factors in the children (n = 200) of parents with panic disorder and/or major depression were compared to those factors in children of healthy control parents (n = 84). Interestingly, there was no association found between BI and family intactness, conflict, expressiveness, cohesiveness, gender, birth order or exposure to parental psychopathology.
These results suggest that various psychosocial factors which have been previously associated with anxiety do not explain the association between anxiety disorders and BI.
Neuroscienze: le Motivazioni capovolte nel cervello dei mancini.
– Rassegna Stampa –
La dominanza manuale può determinare l’organizzazione delle tendenze motivazionali delle emozioni nel nostro cervello secondo un nuovo studio pubblicato su PLoS ONE.
Avvicinamento e allontanamento da stimoli fisici o sociali rappresentano tendenze all’azione, e cioè componenti motivazionali delle emozioni stesse. Da sempre in letteratura si è affermato come la tendenza all’avvicinamento fosse elaborata dall’emisfero sinistro, mentre la tendenza all’allontanamento da quello destro. Certamente questa solidità si fondava su molteplici studi sperimentali di neuroscienze: tutti su soggetti destrimani!
Lo studio di Brookshire e Casasanto rovescia letteralmente la prospettiva: utilizzando la tecnica elettroencefalografica hanno confrontato l’attività elettrica cerebrale dei partecipanti destrimani e mancini nell’emisfero destro e sinistro in una fase di riposo (senza alcun compito).
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Dopo tale misurazione i soggetti hanno completato un self-report che misurava il livello di tendenza all’avvicinamento. Nei destrimani un più elevato livello di motivazione all’avvicinamento era associato a maggior attività elettrica nell’emisfero sinistro rispetto al destro, mentre l’opposto è stato rilevato nei mancini: una maggior motivazione all’avvicinamento correlava con attività elettrica più intensa a carico dell’emisfero destro rispetto al sinistro.
La maggior parte delle funzioni cognitive, a differenza di quelle motorie, non subisce particolarmente l’effetto della lateralizzazione manuale: basti pensare al linguaggio, fedelmente ancorato all’emisfero sinistro nella maggior parte di destrimani e mancini.
A partire dalle osservazioni scientifiche secondo cui le persone tenderebbero ad utilizzare più la mano dominante nelle di azioni di avvicinamento e la mano non dominante nelle condotte di allontanamento e repulsione si fonda l’aspettativa di conferma di tale ipotesi scientifica effettivamente verificata poi nello studio. Infatti, la tendenza all’avvicinamento sarebbe prerogativa dell’emisfero che controlla la mano destra nei destrimani (il sinistro) e la mano sinistra nei mancini (il destro): i dati non rimandano tanto a una simpatica coincidenza quanto portano a speculare su un possibile legame tra circuiti neurali che controllano il movimento delle mani e le emozioni, in una prospettiva di stretta connessione tra emozione, (cognizione) e azione.
1. Gentile Prof. Wells, ci può delineare le caratteristiche fondanti della Teoria Metacognitiva e del suo approccio terapeutico ai disturbi psicologici?
La teoria metacognitiva dei disturbi psicologici si fonda sul principio che la maggior parte dei disturbi/o psicologici è causata da uno schema di pensiero ampliato (extended thinking). Questo schema è chiamato Sindrome Cognitivo-Attentiva (Cognitive Attentive Syndrome – CAS). Si compone di catene di pensieri verbalizzati nella forma di preoccupazione (worry) e ruminazione, uno schema che concentra l’attenzione su minacce e strategie di coping che porta ad effetti paradossali. Invece di fermare il pensiero negativo, lo amplia.
La Sindrome Cognitivo-Attentiva (CAS) è spinta da credenze di fondo riguardo al pensiero che ricadono dentro due categorie di credenze: positive (es. Mi devo preoccupare allo scopo di farcela) e credenze negative (es. certi pensieri sono pericolosi).
La terapia metacognitiva si concentra sul rimuovere la CAS in risposta ai pensieri ed esperienze negative stimolando la consapevolezza di questo processo e promuovendo un controllo selettivo di dello stesso. In questo modo si mettono in discussione le credenze metacognitive. Alla fine del trattamento i pazienti sono più flessibili nelle loro risposte ai pensieri negativi e meno dipendenti dagli schemi mentali consolidati e controllo cognitivo come strategia di coping delle esperienze emozionali.
2 Quali sono le principali differenze con i precedenti approcci della CBT?
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La MCT è radicalmente diversa dalle prime CBT (Cognitive-Behavioral Therapy). Innanzitutto al cuore della teoria c’è l’idea che i pensieri non sono così importanti. E’ la reazione delle persone a quei pensieri ciò che conta. Questo messaggio è l’opposto di quello della CBT, dove i pensieri negativi automatici sono centrali nei disturbi.
La MCT è anche diversa in quanto si concentra sugli stili di pensiero e regolazione mentale piuttosto che sul contenuto dei pensieri. Non opera dei controlli di realtà sui pensieri o sulle credenze generali riguardo se stessi e il mondo. Il focus nella Terapia Metacognitiva è ridurre la Sindrome Cognitivo-Attentiva (CAS). Infatti l’azione stessa di indagare e mettere in discussione i pensieri può esser vista come analoga alla CAS: è un’altra forma di pensiero ampliato e non produce direttamente quel tipo di cambiamento metacognitivo ritenuto necessario nella MCT.
Nella MCT le credenze sono al centro del trattamento ma solo quelle metacognitive e non gli altri “schemi”. Questi altri schemi sono visti più che altro come attivatoori della CAS o come il risultato di quel processo e considerati quindi “epifenomeni”.
Naturalmente la CBT è polimorfa e ingloba continuamente concetti da altri modelli teorici e tecnici. La CBT ha iniziato a impiegare alcuni principi della terapia metacognitiva. In questo senso il problema è che i confini sono confusi e diventa difficile definire appropriatamente cosa è la CBT. Inoltre, combinare le terapie della CBT con quelle della MCT rischia di risultare problematico dal momento che sono fondate su posizioni divergenti riguardo come il paziente dovrebbe confrontare e gestire i propri pensieri. Ho descritto i principi e le tecniche della MCT e come queste differiscono dalla CBT tradizionale nel mio recente manuale: Metacognitive Therapy for Anxiety and Depression, edito da Guilford Press ed è disponibile in italiano edito da Eclipsi: Terapia Metacognitiva dei disturbi d’ansia e della depressione.
3. Il concetto di metacognizione è utilizzato da diversi approcci che ne evidenziano differenti aspetti (ad es. capacità di autoriflessione, mentalizzazione, empatia). Cosa ne pensa di queste concettualizzazioni della metacognizione come funzioni metacognitive invece che meta-credenze?
A me pare che metacognizione stia diventando un termine di moda e dalla mia esperienza di ciò che ho letto di alcuni altri approcci pare chiaro che gli autori non stanno usando il termine correttamente né nella stessa maniera. Per esempio, alcune terapie cognitive standard che si concentrano sul pensiero piuttosto che sulle credenze relative al pensiero o sul controllo cognitivo sono state denominate (erroneamente) metacognitive. C’è un altro livello di incomprensione del concetto. E’ importante tenere a mente che è un costrutto multisfaccettato.
Tu hai parlato di autoriflessività, questa potrebbe del tutto non metacognitiva. Per esempio pensare a come uno può migliorare il proprio swing a golf non è metacognizione. Non è pensare di pensare. Al tempo stesso, pensare a come uno potrebbe migliorare la propria memoria è una auto-riflessione metacognitiva. Il problema con costrutti come empatia e mentalizzazione è che sono confusi o non specificamente riguardanti la metacognizione; in certi casi colgono la metacognizione mentre in altre volte no.
Mi hai anche chiesto delle funzioni e credenze metacognitive. Come ho detto la metacognizione è multi-sfaccettata: ci sono strategie metacognitive come cercare di controllare i pensieri sopprimendoli, credenze come le credenze positive o negative riguardo ai pensieri ed esperienze metacognitive come le valutazioni degli stati mentali e delle sensazioni esperite (felt-sense) come ad esempio l’esperienza metacognitiva di avere una parola “sulla punta della lingua”. E’ probabile che ci siano “funzioni” metacognitive che non sono riconducibili all’esperienza diretta e cosciente ma agiscono sul pensiero in maniera più automatica.
A mio parere, il progresso in quest’area dipende sullo sviluppo di modelli che distinguano queste componenti e che possano stabilire i loro effetti sui disturbi psicologici all’interno di un sistema cognitivo multi-livello. Quello era il mio obiettivo più di 20 anni fa e la base del modello metacognitivo è stata descritta nel mio libro del 1994: Attention and Emotion.
4. Dal suo punto di vista, la MCT può essere considerata un approccio della terza ondata e se si dove si colloca?
Non mi piace il termine “terza ondata” perchè non è descrittivo. Sembra suggerire che c’è un nuovo movimento ma non fornisce indicazioni sulle differenze che sussistono tra le diverse terapie che formano questo movimento. Non considero la MCT come facente parte delle terapie della terza ondata (ACT e MBCT) perchè non attinge da pratiche meditative. Certi aspetti della meditazione (aumento del self-focus, reindirizzamento dell’attenzione e tecniche immaginative) non sono strumenti raccomandati dalla MCT per raggiungere un cambiamento.
5. Una delle tecniche più pertinenti proposte dalla MCT è la Detached Mindfulness. Quali sono le differenze e le convergenze tra detached mindfulness e il concetto di mindfulness così come è proposto dalle terapie cognitive fondate sulla mindfulness? (MBCT)
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La detached mindfulness si riferisce a uno stato mentale specifico e ben definito che abbiamo teorizzato e introdotto nel 1994. Con mindfulness noi intendiamo consapevolezza dei pensieri (awareness of thoughts) che identifica la specifica consapevolezza metacognitiva e l’abilità di distinguere un pensiero negativo dalla preoccupazione (worry) conseguente o dalla risposta ruminativa a quel pensiero. Per detached mindfulness intendiamo il fermare o disconnetere ogni risposta a quel pensiero e in chiave più profonda, esperire il sè come separato dal pensiero e semplice osservatore di esso. Questo è molto più specifico del concetto di mindfulness così come è usato nella meditazione. Diversi professionisti della meditazione propongono differenti descrizioni di cosa intendono per mindfulness. Può essere consapevolezza del respiro, o l’esperienza del momento presente o consistere di uno stato mentale non giudicante. A me sembra che uno dei limiti degli approcci basati sulla meditazione per lo sviluppo delle terapie sia che mancano di un impianto teorico sufficientemente rigoroso e che questi costrutti non abbiano la precisione necessaria per collegarsi in modo soddisfacente ai processi patologici.
Detto questo, devo anche sottolineare che la detached mindfulness è una tecnica che ha uno specifico obiettivo e che non è una componente necessaria della MCT.
6. La MCT è una terapia focalizzata sui disturbi di ansia e depressione o può anche essere applicata a un più vasto range di disturbi psicologici (ad es. disturbi di personalità)? E con quali differenze?
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La MCT è un’approccio terapeutico generale che nel principio può essere applicato a un ampio spettro e forse a tutti i disturbi psicologici. Ci sono gruppi di ricercatori che stanno testando l’efficacia del trattamento per i disturbi d’ansia, la depressione, le psicosi, i disturbi alimentari, le dipendenze, i disturbi borderline di personalità e per le conseguenze psicologiche dovuti a problemi di salute. Abbiamo proceduto a usare dei modelli specifici per ogni disturbo che ne cogliessero la natura e gli effetti della CAS e della metacognizione. Comunque, è anche possibile astrarre su un livello più generale utilizzando una versione transdiagnostica del modello. Questo può essere un utile punto di partenza per sviluppare forme più specifiche di intervento.
7. Quali saranno gli sviluppi futuri dell’approccio MCT? Ci saranno problematiche o aree che resteranno scoperte?
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Al momento si stanno esplorando nuove aree e gli studi si espanderrano ancora in futuro. Queste aree includono l’applicazione a nuovi gruppi di pazienti come bambini e adolescenti e nuovi sviluppi nei campi dei disturbi di personalità e delle psicosi. Un’area che abbiamo recentemente iniziato ad esplorare è la terapia MCT di gruppo che offre l’opportunità di terapie alternative brevi e altamente convenienti (cost-effective).
Aree ancora da esplorare sono le correlazioni neurocognitive delle tecniche MCT come l’ attention training e la detached mindfulness. E’ incoraggiante vedere trials controllati e comparativi della terapia comparire in letteratura e ci sono diversi studi ad ampio raggio in corso che presto daranno i loro risultati.
Per i lettori interessati ai lavori più recenti e ad approfondire l’argomento, consiglio di consultare le informazioni e gli aggiornamenti sul nostro sito: www.mct-institute.com