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Neuroscienze: gli effetti delle emozioni intense nei gruppi di persone.

– Rassegna Stampa – 

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze PsicologicheLe emozioni umane sono così contagiose, che il provare forti emozioni avrebbe l’effetto di sincronizzare l’attività cerebrale tra le persone. È quanto scoperto in una ricerca condotta in Finlandia alla Aalto University e al Turku PET Centre.

Osservare le emozioni nelle espressioni facciali degli altri, per esempio il sorriso, determina in noi la risposta emozionale corrispondente. Questa sincronizzazione degli stati emotivi tra gli individui supporta l’interazione sociale: infatti quando tutti i membri del gruppo condividono uno stato emotivo comune, il loro cervello elabora le informazioni provenienti dall’ambiente in un modo simile.

Nella ricerca in questione mentre i partecipanti allo studio vedevano brevi filmati piacevoli, neutri o sgradevoli la loro attività cerebrale è stata analizzata con la risonanza magnetica funzionale.

I risultati hanno rivelato che sono sopratutto le emozioni spiacevoli e intense a sincronizzare le reti di elaborazione nelle regioni frontali e mediane; mentre vivere situazioni molto eccitanti provocherebbe la sincronizzazione dell’attività nelle reti che supportano la visione, l’attenzione e il senso del tatto.

Secondo Lauri Nummenmaa, principale autore dello studio e professore alla Aalto University, la condivisione degli altri stati emotivi offre agli osservatori un quadro somatosensoriale e neurale che facilita la comprensione delle intenzioni e delle azioni dell’altro e permette di sintonizzarsi con lui. Tale sintonizzazione automatica facilita l’interazione sociale e i processi di gruppo.

Questi risultati hanno importanti implicazioni per gli attuali modelli neurali delle emozioni umane e dei comportamenti di gruppo, ma anche nella comprensione più approfondita di disturbi mentali che comportano un’anomala elaborazione delle informazioni socio-emotive.

 

 

BIBLIOGRAFIA:

 

“Cosa potrebbe accadere se lei non facesse questo?” Il Disputing Capovolto.

 

Psicoterapia: il Disputing Capovolto. - © alekup - Fotolia.comNel disputing, è bene ripeterlo, mettiamo in discussione tutto ciò che pensiamo o facciamo in automatico. In questo modo possiamo diventare più consapevoli di tutte le valutazioni negative che effettuiamo dandone per garantito il valore di verità: che non sopportiamo l’abbaiare improvviso dei cani celati dietro le siepi, che non siamo capaci di colloquiare anche solo per pochi minuti con persone che non ci piacciono, che non possiamo accettare che i nostri passati amori continuino ad avere una vita propria al di fuori del nostro possesso. E così via.

Come già scritto altrove, per ottenere questo il terapeuta effettua semplici domande, tutte in fondo riconducibili a una sola domanda madre: “cosa non le va in questo?.

Ma questa domanda va adattata a diversi contesti. Nella sua formulazione originale, la domanda è particolarmente adatta a mettere in discussione l’ansia, la paura e i suoi aspetti cognitivi. In fondo si tratta di chiedere al paziente:

  • Cosa teme?”
  • Cosa c’è in questo che ci genera paura o ansia?”
  • Quale pericolo corriamo?”
Disputing Monografia
MONOGRAFIA: Il Disputing in Psicoterapia

E così via. Le cose possono però complicarsi quando per esempio il paziente ha i suoi piani di gestione personali della paura. Piani evidentemente insufficienti se il paziente è venuto in terapia.

In questo caso non si tratta di valutare cosa ci sia di distorto in una valutazione cognitiva di una situazione, ma cosa ci sia di distorto in un piano di gestione patologico. È il caso soprattutto dei controlli compulsivi del disturbo ossessivo, ma anche degli evitamenti. In questo caso, si potrebbe chiedere: 

  • Perché fa questo?”
  • A che le serve reagire così?”
  • Qual è il suo obiettivo?”

Questa formulazione in positivo potrebbe essere insufficiente. Il paziente ossessivo (non diversamente in questo dall’ansioso) agisce in vista di un evitamento di un danno e non di un ottenimento di un obiettivo. Conseguentemente, non fa le cose per un “perché” ma per un “affinché non”.

Questo può determinare un ‘impasse, una situazione in cui il paziente risponde:

  • Non so perché lo faccio. È più forte di me”

In realtà non c’è un “perché” bensì un “affinché non” che rimane nascosto a causa della formulazione in positivo. Che fare, allora?

Riformuliamo la domanda in negativo:

  • Cosa potrebbe accadere se lei non facesse questo?”

Possiamo utilizzare l’ABC per facilitare l’operazione terapeutica. Un ABC immaginario o virtuale, in cui la situazione è la non adesione del paziente al suo piano di gestione compulsivo.

Per esempio, un ABC in cui l’A è “mi astengo dal controllare che tutti i rubinetti siano chiusi”. In questo modo l’ABC finisce per generare una guided imagery, integrando stile terapeutico cognitivo ed esperienziale.

  • Terapeuta: “Cosa accadrebbe se non controllasse i rubinetti?”
  • Paziente: “La pagherei. Potrebbe accadere qualcosa di brutto”

 

Ribaltando l’ABC riusciamo quindi a tornare alla situazione standard di uno scenario negativo temuto. Arrivati li, possiamo tornare sul binario consueto.

Questa tecnica, sebbene centrata sull’ABC, la si può trovare anche in testi di scuola cognitiva beckiana. La tecnica di valutare lo scenario peggiore (“worst-case scenario”) è analoga a questo ABC rovesciato, e inoltre è più ampia e meno specifica per il caso determinato della rinuncia al controllo (Clark, Beck, 2010, pag. 209). L’applicazione specifica per il controllo ossessivo, molto simile all’intervento descritto qui, si trova nel libro di Clark (2004) sull’ossessività.

 

 

BIBLIOGRAFIA: 

  • Clark, D. A., Beck, A. T. (2010). Cognitive Therapy of Anxiety Disorders. Science and Practice. New York: Guilford Press.
  • Clark, D. A. (2004). Cognitive-Behavior Therapy for OCD. New York: Guilford Press.

Stile e Sovversione nella Psicoanalisi Postmoderna

G. Civitarese & S. Boffito

 

MART Rovereto - Postmodernismo. Stile e Sovversione 1970-1990. - Immagine: © Victoria & Albert Museum
Martine Bedin (per Memphis) - Prototipo per Super lamp, 1981. Metallo dipinto, sistema di illuminazione, Londra, Victoria & Albert Museum, M.1–2011. Photo © Victoria & Albert Museum

Al MART di Rovereto, fino al 3 giugno si può vedere la mostra Postmodernismo. Stile e Sovversione 1970-1990 proveniente dalla Royal Albert Hall di Londra. Dalla visita abbiamo ricavato impressioni miste. La straordinaria importanza culturale del postmoderno come esibizione dell’artificialità, ibridazione, bricolage, anti-autoritarismo, citazionismo non trova sempre una conferma emotiva negli oggetti esposti. Tra tutti forse l’ambito più convincente, quanto a risultati, è quello dell’architettura.

Sorge spontanea l’idea che sia a causa dei limiti intrinseci, di ordine pratico, che le sono propri e che fungono da vincoli tecnici che la pongono al riparo dalle astruserie postmoderne che vediamo invece quando si tratta di altre forme d’arte.

Non altrettanto persuasivi sono infatti le ricadute nel cinema, nella letteratura, nella pittura ecc. Ma forse per dare un giudizio sul postmoderno bisognerebbe ampliare il panorama. Forse la nostra prospettiva è ancora troppo ristretta.

Vediamo allora il disegno del grattacielo dell’AT&T di New York, del 1978, e ci sembra genialmente postmoderno; così come lo sono, senza saperlo Borges, o Queneau o Sterne. Come lo è Kuhn. Kuhn non dice che c’è una progressione lineare nel sapere, di tipo cumulativo, bensì che cambiano le metafore che guidano la ricerca. Si pongono nuove domande, si guarda in nuove direzioni, fino al punto in cui anche il paradigma scientifico attuale inizia a mostrare la corda e si pongono le premesse per un nuovo cambiamento.

Per postmoderno possiamo intendere dunque due cose: se usiamo la parola come aggettivo, ne possiamo fare un uso estensivo, e dire per esempio che Freud era un pre-postmoderno o addirittura un proto-postmoderno e che il postmoderno è iniziato con Nietzsche o con le origini della psicoanalisi ecc.; se lo usiamo in senso più specifico come il nome di una precisa corrente di pensiero, allora esso nasce convenzionalmente con il libro di Lyotard La condizione postmoderna, del 1979, dura un ventennio circa, ed è qualcosa che sta finendo come sembra certificare la mostra che si è tenuta a Londra sulla morte del postmoderno o altri eventi relativi al cosiddetto nuovo realismo.

L’estetica della crudeltà in Out di Roee Rosen
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Quindi se consideriamo il postmoderno una dimensione dello spirito è una cosa, se lo vediamo come una corrente culturale, peraltro dai confini piuttosto confusi, è un’altra. Non bisognerebbe fare questa confusione. Finiremmo altrimenti in ogni genere di difficoltà logica: tipo, far coincidere le fortune e il declino del postmoderno-corrente con lo spirito anti-metafisico che pervade l’epistemologia del ‘900, che a nostro avviso è ben vivo. Una cosa sono dunque i principi del postmoderno, ad esempio un’idea laica di verità, altra è la riuscita concreta in vari ambiti dell’applicazione di questi medesimi principi.

Per uno psicoterapeuta la visita alla mostra può essere l’occasione anche per chiedersi cosa ne è del postmoderno nelle discipline psicologiche, come queste sono state lambite da questo movimento e da quelli affini: dalla decostruzione, dalla metanarrativa, alla cosiddetta svolta linguistica.

Più in particolare: cosa è successo all’interno della psicoanalisi? che statuto hanno in psicoanalisi i concetti di verità e di realtà? si è affermata una corrente postmoderna? che caratteristiche ha avuto? esiste qualcosa in psicoanalisi che possiamo definire come uno sviluppo postmoderno?

Freud pensa entro la cornice epistemologica del moderno. L’idea è che si possa arrivare a conoscere la verità obiettivamente, lì fuori, per quella che è e che esista uno strato roccioso della realtà che può essere conosciuto.

Noi viviamo in un’altra cornice epistemologica, che si può definire come post-positivistica o post-moderna. Prevale un concetto relativistico di realtà e un sentimento di maggiore scetticismo rispetto alle nostre possibilità di conoscere la realtà per come è veramente. Freud parte da una posizione ancora piuttosto forte del soggetto. Noi siamo arrivati a vedere la verità non come sganciata dalla realtà e dai cosiddetti fatti, ma anche inevitabilmente frutto di un accordo intersoggettivo o consensuale. Siamo arrivati a capire che il linguaggio è un sistema chiuso di segni che hanno valore non perché siano in contatto diretto con la cosa ma perché assumono un senso nel gioco differenziale interno. Tant’è che abbiamo più nomi per le stesse cose.

Questo significa che la realtà scompare? Assolutamente no. Vuol dire bensì che il modo in cui accordiamo le nostre parole con i fatti passa per canali che non riusciamo a esplicitare interamente con i nostri concetti e con la nostra logica. È evidente a tutti che Freud ha posto le basi per l’affermarsi del pensiero post-positivistico quando ha spodestato l’Io dalla sua casa. Da questo punto di vista sarebbe un postmoderno radicale. Difatti non è per caso che la nozione stessa di inconscio è stata rifiutata a lungo (per esempio fino alla metà degli anni ottanta anche dalla psicologia cognitiva)(Westen, 1999).

Oggi però assistiamo a un secondo choc. Non solo l’Io non è padrone in casa propria ma neppure l’inconscio, per così dire, lo è, perché dipende dall’altro, dalla socialità in una maniera ben più profonda di quanto fossimo abituati a pensare.

Moderno e postmoderno si possono così far coincidere grossomodo con una epistemologia del soggetto e con una epistemologia dell’intermedietà o intersoggettiva (Civitarese, 2008, 2012). Possiamo rinunciare all’una o all’altra? A nostro avviso no, perché finiremmo per assolutizzare una prospettiva e per tornare a postulare un unico punto di vista, che sarebbe il punto di vista di Dio. L’essenziale è pensare che entrambi i punti di vista sono convenzionali, utili finzioni, decisioni che prendiamo per aprire una certa finestra sulla realtà. Quante descrizioni ci sono di una sedia? La sedia vera è quella che vedo a occhio nudo, al microscopio elettronico, al microscopio ottico, una frazione di secondo dopo è la stessa sedia o una sedia già diversa? E se due cose uguali in natura non esistono, che senso hanno le operazioni dell’algebra in cui si pretendo di dire che 1+1 = 2? E se tutte queste prospettive sono vere a modo loro, chi mi impedisce di pensare che ce ne possano essere infinite? Infatti possiamo facilmente pensare che le prospettive possano essere infinite, e continuare a non essere arbitrarie. Quel che conta è mantenere la dialettica e la simultaneità dei punti di vista. Altrimenti ricadiamo in una psicologia della mente isolata oppure dissolviamo del tutto l’idea stessa di mente.

Di che cosa discutiamo quando discutiamo di cinema? - Immagine: © fergregory - Fotolia.com
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Alcuni rimproverano invece al postmoderno la perdita di valori, principi sia di tipo morale che dei principi di realtà e di verità. È legittimo chiedersi se questa critica punti a costruire un bersaglio ad hoc, fittizio, uno straw man, oppure descriva qualcosa che esiste da qualche parte. Perché se non esistesse, perché occuparsene? Perché perdere tempo con un fantasma? Tra l’altro, che dire delle correnti scettiche che hanno sempre attraversato il pensiero filosofico oppure dell’idealismo? Le definiremmo per questo postmoderne? Francamente facciamo fatica a trovare un filosofo oppure un analista autorevole del nostro tempo – intendiamo internazionalmente riconosciuto, che abbia scritto su riviste prestigiose e peer review – che sostenga tesi così estreme da negare i concetti di verità e di realtà. Non sapremmo semplicemente a chi rispondere. Diremmo, please, fatemi avere uno straccio di articolo e poi vediamo. Qualcuno potrebbe ammettere che in effetti non c’è nessuno che sostiene cose del genere, e che valga la pena di prendere in considerazione, ma che comunque nella società si è affermata un’idea del genere. Noi siamo tuttavia contrari a trasformare la psicoanalisi, con il rigore dei suoi concetti e la stretta aderenza al suo campo empirico, in sociologia spicciola. È vero, a volte si trovano espresse posizioni del genere, ma sono interpretazioni viziate del pensiero altrui. Dire che Derrida avrebbe affermato che non ci sono fatti ma solo interpretazioni, oppure che non c’è nulla fuori del testo, sarebbe a nostro avviso una grossolano fraintendimento del pensiero rispettivamente di Nietzsche e di Derrida. Se fossimo al Liceo useremmo la matita blu, quella degli errori gravi.

Su che cosa sia la psicoanalisi postmoderna, o sull’influenza del pensiero postmoderno sulla psicoanalisi la letteratura psicoanalitica ha iniziato ad interrogarsi seriamente già alla metà degli anni ’90, soprattutto in ambito americano (Leary 1994; Shaver 1996, 1998; Chessick 1996). Molti autori però, in questi scritti, non parlano ancora di una psicoanalisi postmoderna. Shaver per esempio, in due saggi di grande interesse teorico e speculativo (e forse meno clinico), si cimenta nell’impresa di “postmodernizzare l’inconscio”, ritenendo che ciò che è più rivoluzionario del pensiero di Freud sia proprio l’elemento postmoderno delle sue teorie: la sua capacità di sfuggire al potere seduttivo del pensiero filosofico occidentale dominante e l’accento che la psicoanalisi – come il postmodernismo – mette sul fatto che il linguaggio non funzioni solo per comunicare ma anche per distorcere.

Giuseppe Civitarese - Perdere la Testa - Immagine: Immagine di Copertina © Editrice Clinamen
LEGGI LA RECENSIONE: Critica Psicoanalitica: Recensione di Perdere la Testa di Giuseppe Civitarese - A cura di GIovanni M. Ruggiero

Nel luglio del 2001, al 42esimo congresso IPA, a Nizza, è stato presentato un panel dal titolo Postmodern Psychoanalysis. A presentare era Arnold Goldberg e Irma Brenman Pick faceva da discussant. Quello di Goldberg è un lavoro eminentemente clinico, forse meno sofisticato di alcuni scritti successivi sul tema, ma che ha il merito di mettere in luce alcuni aspetti fondamentali del dibattito in chiave clinica e non ideologica. Il punto di partenza del suo lavoro è pratico, esperienziale, fa riferimento al problema della correttezza e alla preoccupazione degli analisti per le regole. Cita naturalmente Bion, che nei Seminari Brasiliani dice di non sapere quali siano le regole della psicoanalisi, e lo mette in relazione con Lyotard che ha descritto la condizione dell’uomo postmoderno in termini di “incredulità verso le metanarrazioni”, considerate come un insieme di regole a cui tutte le scienze fanno riferimento. Un approccio postmoderno dovrebbe lasciare spazio, secondo Goldberg, ad una molteplicità di approcci che non possono essere necessariamente racchiusi in un’unica teoria che li comprenda tutti. E’ evidente che questa posizione si espone ad una facile critica, quella dell’anything goes, l’idea cioè che tutto vada bene, che si vada verso una psicoanalisi selvaggia (vedi anche Chessick 1995 – “Poststructural Psychoanalysis or Wild Analysis?”). Goldberg mette in guardia da una lettura tanto ingenua della teoria postmoderna riprendendo ancora una volta Lyotard e la sua idea che ogni soggetto sia inserito in una tela di relazioni che si fa via via più complessa. Il problema non è dunque accettare tutto, ma sostituire ad una interpretazione pre-organizzata, a priori, l’apertura ad una molteplicità di soluzioni finali. Non siamo nel campo dell’anything goes, osserva ancora Goldberg, ma in quello dell’everything matters. Ogni cosa è importante, altamente significativa, sempre passibile di nuove letture e c’è bisogno di una continua attività di incorniciatura (framing), nulla può essere dato per scontato.

Il modello di campo, in particolare per come lo hanno interpretato Ferro, i Baranger e Ogden, è stato preso anche da Susann Heenen-Wolf (2007) come esempio di un radicale cambiamento di paradigma che, all’interno della rivoluzione del pensiero postmoderno, è in corso nella psicoanalisi contemporanea: quello “dalla legge simbolica alla capacità narrativa.

Recensione di “La Svolta Relazionale” di Lingiardi, Amadei, Caviglia e De Bei. - Immagine: Raffaello Cortina Editore
Articolo consigliato: Recensione di “La Svolta Relazionale” di Lingiardi, Amadei, Caviglia e De Bei.

Possiamo considerare le caratteristiche principali del postmoderno come: la fine delle metanarrative emancipatorie e degli orizzonti utopici del moderno, il rifiuto di ogni genere di concezione universale della verità per cui le grandi ideologie (religiose, mitologiche, politiche, filosofiche o morali) vengono sostituite, o integrate, dai concetti di comunicazione e negoziazione. L’accento dunque, nel pensiero postmoderno, si è spostato dalle prospettive orientate al contenuto ad un’attenzione alla comunicazione nel qui ed ora, al processo, al contenitore. Questo – osserva la Heenen-Wolf, come già aveva fatto Goldberg– è avvenuto anche nella psicoanalisi contemporanea con il pensiero di Bion e i suoi sviluppi. L’attenzione alla costruzione di un apparato per pensare i pensieri, all’importanza del contenitore, alla “fede” nel processo e ad una concezione di verità considerata strutturalmente inconoscibile sono solo alcuni esempi di come la teoria bioniana abbia favorito, nella storia della psicoanalisi, il passaggio da un modello epistemologico della ricostruzione ad uno della costruzione.

I teorici del modello di campo, poi, hanno messo l’accento sull’esperienza emotiva creata da entrambi i membri della coppia analitica all’interno della seduta sostenendo che la comunicazione del paziente sia da leggere sempre come un’espressione del campo analitico intersoggettivo – o del terzo analitico – che nel qui ed ora si crea. Questo punto di vista cambia anche la concezione del setting – sottolinea ancora la Heenen-Wolf – che non è più l’espressione del confronto con una legge simbolica e una colpa originaria, ma uno spazio in cui si sviluppano le capacità mentali della coppia analitica e nuove esperienze emotive possono nascere. La condizione di vita dell’uomo postmoderno e il conseguente cambiamento di paradigma, secondo la Heenen-Wolf, ci fanno vedere come, retrospettivamente, Freud (o una certa lettura del pensiero freudiano) possa essere considerato un moralista: nella sua opera descrive come il soggetto dovrebbe funzionare idealmente e come dovrebbe rinunciare ai propri desideri e pulsioni più potenti e assumersene la colpa. La Heenen-Wolf sottolinea come l’incontrovertibile cambio di paradigma a cui abbiamo accennato, che porta a dare sempre meno peso alla metapsicologia – che Freud stesso chiamava “la Strega” –, si accompagna con la possibilità di liberare la psicoanalisi dalla pretesa di avere uno statuto speciale di scienza umana restituendola al metodo scientifico. Ci sembra una precisazione estremamente importante perché ci permette di mostrare, ancora una volta, l’infondatezza delle accuse dell’anything goes e della negazione assoluta della verità e della realtà. Non soltanto, come si diceva, dire che Derrida ha sostenuto che non esistono fatti nella realtà al di fuori del testo è un grossolano errore, ma attribuire a questi autori posizioni dogmatiche e ideologiche è un completo stravolgimento dello spirito del pensiero postmoderno: non è in discussione l’assenza della verità, ma l’assenza di una verità assoluta, l’assenza dell’assolutezza.

Superare la colpa di due terapeuti italiani: Davide Lopez e Francesco Mancini - Immagine: © Andrea Danti - Fotolia.com
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È quello che Shachaf Bitan, in un articolo recentemente apparso nell’International Journal of Psychoanalysis (2012) chiama la “logica del gioco”, riconoscendola come una caratteristica comune al pensiero di Winnicott e Derrida: una logica che considera fecondamente indeterminata la dialettica tra gli opposti ed invita a superare la “violenta gerarchia” che li organizza nel pensiero corrente in favore di una pacifica coesistenza, una logica che considera il paradosso e l’ambiguità come elementi centrali dell’esperienza.

Come dice Matar (2005, citato da Bitan 2012) Derrida ci ha rivelato che, anche se stiamo giocando ad un gioco completamente diverso, stiamo ancora giocando nello stesso parco! Naturalmente questo vale anche per le teorie, e per le teorie psicoanalitiche: la logica del gioco non esclude la logica tradizionale ma invita a ripensare le dicotomie che hanno caratterizzato il pensiero psicoanalitico – quella tra interno ed esterno, presenza e assenza, conscio e inconscio, soggettività e oggettività, soggetto e altro, analista e analizzato – considerandole come non mutualmente esclusive, ma coesistenti pacificamente (Bitan 2012, p. 48). E’ la stessa cosa che fa Bion nel famoso scritto del 1977, quando ci invita a smettere di occuparci delle diadi di opposti che costituiscono il nostro mondo, e di investigare invece “la cesura, il legame, la sinapsi, il (contro-trans-) fert, l’umore transitivo-intransitivo.

Bitan, infine, osserva come Winnicott trasformi l’uso del concetto di “concreto”, rendendo concreto il gioco e “il concreto” giocoso; è la stessa cosa che fa Bion con “i fatti”, che per lui corrispondono all’esperienza emotiva, cioè ad una realtà che è già stata sognata, cioè trasformata soggettivamente, potremmo dire esteticamente. Ecco, di questa giocosità la mostra al MART testimonia spendidamente. Lo raccontano i versi di Pessoa, quando il poeta si domanda:

Tra l’albero e vedere l’albero

Dov’è il sogno?

 

(Braccio senza corpo che brandisce una spada, 1916)

 

 

 

BIBLIOGRAFIA: 

  • Bion W. R. (1977). Caesura. In Il cambiamento catastrofico. Loescher, Torino, 1981.
  • Bion W. R. (1987). Seminari clinici. Brasilia e San Paolo. Cortina, Milano, 1989.
  • Bitan S (2012). Winnicott and Derrida: Development of logic-of-play. Int J Psychoanal 93:29-51.
  • Chessick RD (1995). Poststructural Psychoanalysis or Wild Analysis?. J Am Acad Psychoanal Dyn Psychiatr., 23:47-62
  • Civitarese G (2008). Più affetti… più occhi. Temi del postmoderno e de/costruzioni in analisi. In L’intima stanza. Teoria e tecnica del campo analitico, Borla, Roma.
  • Civitarese G (2012). L’intermedietà come paradigma epistemologico in psicoanalisi. L’Educazione Sentimentale 17, 40-55.
  • Goldberg A. (2001) Postmodern Psychoanalysis. Int J Psychoanal 82:123-128
  • Heenen-Wolf S. (2007). From simboli law to narrative capacity. A paradigm shift in psychoanalysis?. Int J Psychoanal 88: 75-90
  • Kuhn TS (1962). La struttura delle rivoluzioni scientifiche. Einaudi, Torino 2009.
  • Lyotard JF (1979). La condizione postmoderna. Rapporto sul sapere. Feltrinelli, Milano 2002.
  • Leary K (1994). Psychoanalytic “Problems” and Postmodern “Solutions”. Psychoanal Q, 63:433-465.
  • Matar A. (2005). Modernism and the language of philosophy. London: Routledge ⁄ Taylor & Francis.
  • Pessoa F. (2012). Nei giorni di luce perfetta. RCS Quotidiani, Milano
  • Shawver, L. (1996). What Postmodernism Can Do for Psychoanalysis: A Guide to the Postmodern Vision. The American Journal of Psychoanalysis. 56(4):371-394.
  • Shawver, L. (1998). Postmodernizing the Unconscious with the help of Derrida and Lyotard. The American Journal of Psychoanalysis.58(4): 329-336.
  • Westen D (1999). The Scientific Status of Unconscious Processes. J. Amer. Psychoanal. Assn., 47:1061-1106

l’Effetto Lingua Straniera: decisioni più razionali e meno rischiose.

– Rassegna Stampa – 

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze PsicologicheLe persone che riflettono su problemi in una lingua straniera (non importa quale) prenderebbero decisioni più razionali e meno rischiose soprattutto in ambito economico, secondo un recente studio pubblicato su Psychological Science.

In uno degli esperimenti 54 studenti di madrelingua inglese e parlanti spagnolo come seconda lingua, sono stati sottoposti a diversi task di decision-making di tipo economico in entrambe le lingue. Gli studenti madrelingua inglesi cui era richiesto di pensare in spagnolo fornivano risposte più razionali, vantaggiose e meno rischiose rispetto agli stessi studenti che utilizzavano la loro lingua madre e cioè l’inglese.

Secondo lo studioso Boaz Keysar, ricercatore della University of Chicago che ha condotto lo studio pensare in una lingua straniera ci distanzierebbe emotivamente dai contenuti, in qualche modo ci impegnerebbe maggiormente in processi logici razionali più lenti meno automatici rispetto al pensare nella propria lingua madre. Questo esiterebbe in una minore tendenza all’assunzione del rischio e di vantaggi immediati.

Anche nei bilingui fluenti vi sarebbe una maggiore salienza e reattività emotiva alle parole della propria lingua madre, cioè la prima lingua che hanno imparato stando in braccio al caregiver. L’effetto lingua straniera porterebbe quindi a forme di ragionamento più logico razionale e meno intuitivo e in qualche modo euristico.

 

 

BIBLIOGRAFIA: 

Behavioral Inhibition and Child Anxiety #5

 

Behavioral Inhibition and Child Anxiety #5 . - Immagine: © Leda_d - Fotolia.comAfter discussing the background, retrospective, cross-sectional and longitudinal studies of behavioral inhibition (BI) I feel that it is necessary to summarize the findings.

Overall, early inhibited temperament occurs in about 15% of Caucasian children and is characterized by shyness in novel social or non-social situations. Retrospective reports and longitudinal studies have shown that it is persistent from infancy through childhood and into adolescence.

BI has also been found to predict the development of anxiety disorders, including social phobia. Although an association appears to exist between BI and anxiety disorders, psychosocial factors which are commonly related to anxiety disorder, do not appear to be related to BI. BI therefore appears to represent a constitutional vulnerability in the development of social anxiety. 

Parents' words and anxiety disorders
Recommended: Parents' words and Anxiety Disorders.

The mother-child relationship is thought to be of particular importance in the intergenerational anxiety. Like behavioral inhibition, that has been extensively invested for its importance in the development of anxiety disorders, the attachment style between a mother and child has been examined. Attachment is the emotional bond which forms between two people (typically an infant and their mother). Infant attachment style develops based on mothers’ ability to respond to their infants’ needs in situations where their infant may feel vulnerable or threatened.

Additionally, mothers’ general ability to provide a secure base, whereby the infant feels secure in their own ability to be independent and that their mother will be available if needed, plays an important role in the development of attachment (Bowlby, 1973). Over the next several weeks I will divulge the importance of attachment and its possible link to the development of anxiety in children.

 

 

BIBLIOGRAFIA:  

  • Bowlby, J. (1973). Attachment and loss: Volume II. Separation. New York: Basic Books.

 

 

Scienze Cognitive: L’illusione di Sapere. Bias & Euristiche

 

La luce in fondo al tunnel della mente?

È solo il treno dell’irrazionalità che ti sta venendo addosso

“L’ILLUSIONE DI SAPERE” di Massimo Piattelli Palmarini. - Immagine: Original Book Cover
“L’ILLUSIONE DI SAPERE” di Massimo Piattelli Palmarini. - Immagine: Original Book Cover

È opinione comune che decisioni importanti non debbano essere prese sull’onda dell’emotività, bensì ponderate ed effettuate razionalmente. Peccato che la nostra mente “razionale” ci giochi spesso brutti scherzi. Infatti senza accorgercene imbocchiamo quelli che Piattelli-Palmarini definisce tunnel della mente, cioè mettiamo in atto delle strategie mentali (euristiche) fallaci oppure commettiamo degli errori cognitivi (bias) con risultati a dir poco disastrosi!

L’ illusione di sapere è una sconcertante rassegna degli errori madornali che compiamo quando prendiamo delle decisioni. Questi tunnel sono universali, sistematici, indipendenti dallo stato emotivo del momento, del tutto inconsapevoli e influenzano le nostre scelte nei più svariati campi.Vediamone alcuni.

 

1 EURISTICA DELLA DISPONIBILITA’

Per sopravvivere dobbiamo essere in grado di fare previsioni rispetto a ciò che potrà accadere per programmare le nostre azioni. A quanto pare, però, siamo dei pessimi calcolatori di probabilità, indipendentemente dalle nostre conoscenze in fatto di matematica e statistica. Eccovi un esempio. È più probabile essere uccisi da uno squalo o da un pezzo di aeroplano che ci cade in testa? La maggior parte di noi non esita a rispondere: “dall’attacco di uno squalo!”. Invece è molto più probabile essere colpiti da un rottame vagante (Ruscio, 2002). Indubbiamente un turista azzannato mentre sguazza tra le onde fa più notizia e ci colpisce. Questa appena illustrata è conosciuta come l’euristica della disponibilità: giudichiamo un evento tanto più frequente quanto più ci è facile immaginarlo mentalmente (perché più disponibile), e quanto più ci impressiona emotivamente. Così facendo stimiamo la probabilità in maniera errata e prendiamo una bella cantonata. È superfluo sottolineare come questo fenomeno giochi un ruolo, per esempio, nella possibilità di influenzare l’opinione pubblica su argomenti per i quali si è particolarmente sensibili (es. la percezione di sicurezza nelle città).

 

La strada per l’inferno è lastricata di dopamina. Recensione de “I sette peccati capitali del cervello” (by Margriet Sitskoorn. - Immagine: Orme Editore
Articolo consigliato: La strada per l’inferno è lastricata di dopamina. Recensione de “I sette peccati capitali del cervello”

2 ILLUSIONI PROBABILISTICHE

Come se non bastasse, siamo anche preda di quelle che vengono definite illusioni probabilistiche. Tra le tante, cito la più nota. Siete al casinò e state giocando alla roulette. È uscito il nero 20 volte di fila. Su cosa puntate? Pur sapendo che la probabilità è del 50%, la tendenza è quella di scommettere sul rosso. Questa illusione si chiama Illusione del giocatore d’azzardo: applichiamo la legge dei grandi numeri (valida per serie di lunghezza prossima all’infinito) a serie di piccoli numeri, con l’illusione che rosso e nero debbano equilibrarsi anche in questo caso. E alla fine il banco vince sempre…

 

3 THE FRAMING OF CHOICES

La situazione si fa invece più drammatica se si prendono in considerazione altri tunnel della mente: uno dei più inquietanti è “the framing of choices”, il cui nome è già di per sé emblematico: in inglese significa sia “l’incorniciamento delle scelte” che “la fregatura delle scelte”. Vediamo dove sta la fregatura. Immaginate di essere un medico e di dover decidere la terapia per aggredire un tumore. Se di un determinato intervento chirurgico vi viene detto che comporta una mortalità media del 7% entro i cinque anni successivi all’operazione, sarete più restii a raccomandarlo al vostro paziente che non se vi avessero detto che comporta una sopravvivenza media del 93%. Eppure le due versioni sono statisticamente equivalenti! Questo fenomeno è noto come effetto frame (McNeill et Al, 1982; Tversky & Kahneman, 1986): l’inquadramento in termini positivi o negativi di una stessa informazione determina nelle persone risposte differenti se non addirittura opposte; ne consegue che è possibile “pilotare” la scelta di chi ci sta di fronte presentando il problema in una data forma piuttosto che un’altra, il che è preoccupante. 

 

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Articolo consigliato: Ottimismo sì, ma in piccole dosi! (Optimism Bias e Neuroscienze)

Il libro di Piattelli Palmarini, scritto nel 1993, è dedicato a Kanheman e Tversky, due psicologi che 9 anni dopo vinsero il Premio Nobel per l’Economia proprio grazie ai loro studi di psicologia cognitiva applicata ai processi decisionali economici. Entrambi ebbero il merito di mostrare come l’uomo, nel prendere decisioni, fosse tutto fuorché razionale. L’ illusione di sapere ci accompagna proprio attraverso l’irrazionalità delle nostre scelte, alternando tunnel della mente decisamente allarmanti a bias curiosi (es. se da Napoli vi muovete verso Nord, da che parte si trova Trieste? Dopo aver risposto andate a controllare: rimarrete a bocca aperta. La nostra mente, infatti, raddrizza l’Italia). Una volta scoperte le nostre “pecche cognitive”, però, con un po’ di esercizio diventa possibile imparare ad essere più razionali, per poter finalmente esclamare: sono fuori dal tunnel!

 

 

BIBLIOGRAFIA:

  • Piattelli Palmarini M. (1993). L’illusione di sapere. Che cosa si nasconde dietro i nostri errori Arnoldo Mondadorti Editore spa, Milano
  • Ruscio, J. (2002). Clear thinking with psychology: Separating sense from nonsense. Pacific Grove, CA: Wadsworth.
  • McNeil B.J., Pauker S.G., Sox H.C. & Tversky A. (1982) On the elicitation of preferences for alternative therapies. New England Journal of Medicine 306, 1259–1262.
  • Tversky, A., & Kahneman, D. (1986). Rational choice and the framing of decisions. Journal of Business, 59, S251-0S278.

L’esercizio fisico influenza memoria e cognizione: il ruolo della genetica

– Rassegna Stampa – 

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze PsicologicheL’attività fisica ossigena la mente? David Bucci, professore presso il Department of Psychological and Brain Sciences Dartmouth College (Hanover, NH, USA), tirando le somme degli studi da lui condotti, sottolinea che gli effetti dell’esercizio fisico sulla memoria e sul cervello sono differenti in funzione di uno specifico gene che medierebbe il grado con cui l’esercizio fisico può avere effetti benefici in termini mnestici e cognitivi.

Partendo da osservazioni puramente qualitative – senza finora alcun riscontro empirico- secondo cui tra i bambini con diagnosi di ADHD quelli più sportivi risultavano più responsivi ai trattamenti comportamentali rispetto a bambini sedantari, i ricercatori guidati da Bucci hanno formulato un progetto di ricerca con lo scopo di identificare la potenziale connessione tra esercizio fisico e funzioni cognitive. I risultati di una serie di studi che hanno costituito il progetto sono pubblicati da poco su Neuroscience. 

Approfondendo i risultati secondo cui nei topi di laboratorio l’esercizio fisico riduceva i comportamenti legati a ADHD, il gruppo di ricerca ha identificato il meccanismo traverso cui l’attività fisica sembrerebbe avere un effetto benefico su apprendimento e memoria, e cioè un fattore genetico chiamato “brain derived neurotrophic factor” (BDNF) implicato anche nello sviluppo neurale: il grado di espressione di questo fattore correla positivamente con un miglioramento mnestico nei topi sottoposti a movimento fisico.

Negli esseri umani , il gruppo di ricercatori ha confermato simili risultati: in funzione del genotipo individuale per il fattore BDNF i soggetti beneficiano in modo differenziale degli effetti positivi dell’esercizio fisico sulla memoria e sull’apprendimento in un task di riconoscimento di un nuovo oggetto. E questo può significare che un diverso genotipo per lo specifico fattore in questione potrebbe essere responsabile di una diversa responsività dei bambini con ADHD ai trattamenti basati anche sull’esercizio fisico.

 

 

BIBLIOGRAFIA:  

Riflessioni sulla Crisi della Psicoanalisi Contemporanea #1.

 

Le cinque piaghe di nostra madre Psicoanalisi:

Riflessioni sulla crisi della psicoanalisi contemporanea

Le cinque piaghe di nostra madre Psicoanalisi: Riflessioni sulla crisi della psicoanalisi contemporanea. - Immagine: © hellotim - Fotolia.comSi dice che la psicoanalisi sia ormai vecchia. Il suo peso sociale è andato lentamente declinando negli ultimi decenni. L’istituzione che abbiamo amato tanto profondamente viene ora socialmente svalutata. Ogni bizzarra teoria pseudo-biologica della mente e della psicopatologia ottiene un’immediata ed acritica attenzione dei media mentre il lento ma fruttuoso lavoro della psicoanalisi è relegato nell’ombra.

Ognuno di noi (psicoanalisti) ha sentito almeno una volta il desiderio di proiettare sull’ostilità degli avversari la responsabilità di tale declino sociale, di accusare la sete di profitto delle multinazionali del farmaco, l’ideologia consumistica di una società materialista, la mancanza di scrupoli dei leader della psichiatria biologica, l’opportunismo degli accademici.

La critica dei vizi sociali ha impegnato gli intellettuali per secoli, anzi per millenni. Fin dalle reprimende di Solone ad Atene e di Catone a Roma, tale stile intellettuale si è dimostrato privo di qualsiasi impatto sulla concretezza del reale.

Recensione di “La Svolta Relazionale” di Lingiardi, Amadei, Caviglia e De Bei. - Immagine: Raffaello Cortina Editore
Articolo consigliato: Recensione di “La Svolta Relazionale” di Lingiardi, Amadei, Caviglia e De Bei.

Gesù Cristo ha detto: “Nulla di ciò ch’è fuori dall’uomo può renderlo impuro entrando in lui. E’ invece ciò che è nell’uomo che uscendo da lui lo rende impuro” (Marco 7.15). Una peculiarità del lavoro psicoanalitico è quella di ritenere che la consapevolezza di sé – in termini di bisogni, desideri, paure e struttura della propria identità – sia un potente strumento di cambiamento: possiamo capire la crisi della psicoanalisi solo puntando la nostra lente d’ingrandimento verso l’interno.

Proponiamo pertanto ai lettori di questo web journal una serie di brevi contributi sulla psicoanalisi – sia come istituzione sociale che come teoria della mente su cui tale istituzione si fonda – e cercheremo di chiarire le regioni della sua attuale debolezza.

In particole, presenteremo ed esamineremo 5 ferite che abbiamo potuto scoprire nel suo corpo sofferente. Speriamo che questa procedura forse un po’aggressiva, chirurgica, possa contribuire a salvare il corpo sofferente della nostra madre formativa ed intellettuale dal pericolo della dissoluzione finale, dell’irrilevanza sociale.

FURTHER READINGS

Nell’attesa dei prossimi capitoli l’autore vi suggerisce le seguenti letture sul tema:

The American Academy of Psychoanalysis is undergoing an identity crisis at this time, which is at least to a large extent a function of the whole current identity crisis in the field of psychoanalysis itself. In order to better understand this crisis, in this article I have first reviewed a similar situation which occurred in the history of classical Greece. Plato’s famous Academy underwent a progressive deterioration and disintegration and fragmentation, until it ended up merely the handmaiden of another discipline, Christian theology, for a thousand years. I then propose that the identity crisis in psychoanalysis today has to do with our failure of nerve in the teeth of the abusive behavior of insurance companies regarding the payment for psychoanalysis and the current cultural ambience demanding “fast-fast-fast” relief…LEGGI L’ABSTRACT
In this paper the author argues that the so-called crisis in psychoanalysis, often blamed on various external factors, is in fact an internal crisis brought about by intrinsic incongruities between the explicit intention of its educational model, which aspires to educate and train in a professional and scientific discipline, and its organisational structure, locally and internationally inextricable. Its isolated basic units of ecumenical control–its traditional ‘societies/institutes of psychoanalysis’–implicitly and explicitly co-impose the monastic transmission of a preponderantly doctrinaire education and clinical practice…LEGGI L’ABSTRACT

L’autore dell’articolo: Dr. Paolo Azzone

Relazioni Tossiche: un Rischio per la Salute come il Junk Food

“Mi fa del male, non mi dà quello che voglio, eppure non riesco a lasciarlo”, oppure “Ci ricasco sempre, mi cerco sempre relazioni in cui alla fine chi sta male sono io”, “I miei genitori mi hanno sempre lasciato da solo, però alla fine non era colpa loro, loro hanno sempre fatto tutto quello che potevano, in fondo erano sempre molto impegnati con il lavoro”.

Relazioni Tossiche: un Rischio per la Salute come il Junk Food. - Immagine: © 2012 Costanza Prinetti
Immagine: Relazioni Tossiche. © 2012 Costanza Prinetti

Quante volte abbiamo sentito queste frasi pronunciate dai nostri pazienti, dai nostri amici e spesso anche dalle persone a noi care e quante volte noi stessi abbiamo sofferto a causa di relazioni andate male o in cui non ci sentivamo del tutto a nostro agio? Proviamo un attimo a fermarci qui e a pensare alla nostra esperienza. Come ci siamo sentiti in quella relazione che ci faceva così male ma dalla quale sembrava ancora più doloroso separarsi? Come stavamo quando da bambini avevamo paura e mamma e papà non c’erano? Come ci batteva il cuore in quelle situazioni e che cosa succedeva alla nostra testa?

La Relazione di Coppia. - Immagine: © popocorn8 - Fotolia.com
Lettura consigliata: La Relazione di Coppia. Monografia a cura di Serena Mancioppi

Certamente la maggior parte di noi non costruisce costantemente relazioni patologiche, per cui queste situazioni, per quanto spiacevoli, vengono poi integrate come parte della propria vita e superate grazie alla costruzione di legami più solidi e funzionali. Proviamo però a pensare a chi, invece, continuamente vive circondato da relazioni tossiche. In una società dove la ricerca del cibo biologico alternativo, la cura del sé e l’attenzione meticolosa all’etichetta di ciò che compriamo al supermercato giocano un ruolo di primo piano per tutti coloro che tengono alla propria salute, molte persone non pensano che la qualità delle loro relazioni può essere tanto dannosa quanto i tanto proibiti fast food e l’ambiente inquinato.

Una ricerca longitudinale che ha seguito un campione di 10.000 uomini e donne per più di 12 anni, ha evidenziato che persone costantemente ingaggiate in relazioni negative presentavano un rischio maggiore di sviluppare problemi cardiaci rispetto a chi, invece, aveva  stabilito relazioni nel complesso positive (De Vogli et al., 2007).

Durante tutta la durata dello studio, ai partecipanti è stato chiesto di completare alcuni questionari relativi agli aspetti negativi delle loro relazioni più importanti. Nell’analisi dei dati è stata poi utilizzata solo la relazione che i soggetti hanno messo al primo posto come la più intima. Le risposte sono così state suddivise in chi ha identificato la persona più vicina come il partner vs non-partner; successivamente, sono stati considerati vari aspetti della qualità della relazione descritta: confidenziale/supporto emotivo/supporto pratico. Accanto a questi dati sono state raccolte informazioni per misurare il rischio di malattia cardiaca: pressione arteriosa, diabete, obesità e livello di colesterolo, così come alcune variabili socio-economiche e di stile di vita dei partecipanti.

 L’obiettivo dello studio è stato quello di valutare quanto una relazione intima negativa fosse correlata allo sviluppo di una patologia cardiaca. I risultati hanno confermato quanto ipotizzato dai ricercatori: le persone la cui relazione più intima veniva connotata negativamente presentavano fattori di rischio nettamente maggiori rispetto a chi, invece, aveva una relazione significativa positiva.

Sembra quindi che le relazioni, soprattutto se sono quelle più importanti per noi a essere valutate negativamente, possono essere altrettanto dannose per la nostra salute quanto il cibo o i fattori ambientali.

Certamente molti studi vanno ancora fatti in questa direzione, dato che le variabili in gioco sono molte le ipotesi difficili da dimostrare; non è infatti nuova, però, l’idea che un mondo interno caratterizzato da costante ansia, depressione o forte stress abbia delle conseguenze sul nostro organismo, fino allo sviluppo di vere e proprie patologie mediche.

La prossima settimana vedremo come riconoscere una relazione tossica e che cosa possiamo fare.

 

 

BIBLIOGRAFIA: 

L’effetto dello Stress sugli uomini: comportamenti Pro-sociali

– Rassegna Stampa –  

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze PsicologicheUn gruppo di ricercatori dell’Università di Friburgo (Germania) hanno indagato come gli uomini reagiscono a situazioni di forte stress presentando un ribaltamento di prospettiva in questo ambito. Di fronte a situazioni stressanti è dimostrato che gli esseri umani mostrano una risposta “fight-or-flight” altrimenti tradotta “risposta “attacco-o-fuga.

Già dal 1990 alcuni studiosi hanno iniziato ad apportare dati secondo cui le donne presenterebbero una modalità di risposta alternativa allo stress e cioè “tend-and-befriend: in altre parole, una reazione protettiva di cura e amichevolezza. Al contrario, finora si è continuato ad assumere che invece individui di genere maschile fossero portati a diventare aggressivi in condizioni di stress. Nello studio di von Dawans e colleghi è stato indagato sperimentalmente il comportamento sociale di individui di genere maschile sotto stress.

Per indurre sperimentalmente una condizione di stress i ricercatori hanno utilizzato una procedura standardizzata implicante un compito di public speaking all’interno di specifici giochi di interazione sociale. Questi dispositivi ludici sono stati progettati per la misurazione dei comportamenti sociali positivi (ad esempio di fiducia e condivisione) e negativi (ad esempio comportamenti punitivi e aggressivi). Dallo studio emerge che i soggetti maschili sotto stress mostravano comportamenti sociali significativamente più positivi rispetto al gruppo di controllo. D’altro canto i comportamenti sociali a carattere negativo non erano influenzati dalla condizione di stress.

Guardando ai risultati sembrerebbe dunque che anche gli uomini, da sempre considerati più tesi all’attacco in situazioni stressanti, mettano in atto una strategia per far fronte allo stress basata sull’attivazione di comportamenti prosociali e promotori dell’affinità relazionale.

 

La malattia terminale, il Personale Medico e la Cura della relazione

 

“Anche se il nostro è un mondo che spinge a credere che gli strumenti siano “esterni” e rappresentati da metodi e nozioni, scoprire che il primo strumento siamo noi e le nostre risorse reca il sollievo che deriva dal fatto che non ne saremo mai privi” (Zarri, 2008).

La malattia terminale, il Personale Medico e la Cura della relazione. -- Immagiine: © Ben Chams - Fotolia.comLeggendo il libro “La cura della relazione in oncologia pediatrica”, pur non trovandomi nella medesima situazione mi accorgevo che mi stava accompagnando, pagina dopo pagina, verso un annunciato e inevitabile epilogo.

Vorrei soffermarmi sul concetto di “cura della relazione”, mi sono accorta che l’esperienza della malattia è un evento che minaccia gli individui nell’integrità della loro esistenza individuale e relazionale. Ammalarsi e scoprirsi bisognosi di cure è certamente un’esperienza psicologica, ma è anche senza dubbio, un’esperienza relazionale capace di generare notevoli livelli di ansia e paura.

Tali sentimenti tuttavia, non vengono attivati solo nel paziente, ma anche in coloro che si prendono cura di lui e quindi ne sono travolti, in misura diversa, anche i medici, il personale ospedaliero e soprattutto i familiari.

Di fronte alla malattia, oltre ad una reazione somatica, gli individui infatti mostrano anche una reazione psichica che esprimono attraverso la messa in atto di meccanismi di difesa volti ad attenuare l’angoscia. Tali meccanismi di difesa, tuttavia, modificheranno inevitabilmente la relazione con se stessi e con gli altri.

Bambini nel tempo: Comunicare la Malattia e l' Accudimento Invertito. - Immagine: © 1998-2012 Hoepli Editore. Immagine Riprodotta su gentile concessione dell'Editore.
Articolo consigliato: Bambini nel tempo: Comunicare la Malattia e l' Accudimento Invertito.

Nella mia personale esperienza, mi sono resa conto che l’angoscia di morte evocata dalla situazione patologica, il senso di frustrazione che spesso ci assaliva nell’assistere il malato e la fatica fisica ed emotiva a cui eravamo costantemente soggetti, hanno suscitato in me e nella mia famiglia intense risposte difensive.

Credo dunque che, nel considerare le relazioni tra medico e paziente e tra paziente e familiari, non ci si debba fermare ad osservare solo l’assetto difensivo del paziente.

I meccanismi di difesa sono parte integrante del funzionamento psichico umano e di conseguenza, riguardano chiunque; le difese utilizzate dal medico, in fondo sono le stesse che impiegano i pazienti, anche se in tempi e modi differenti e come ogni altro aspetto del funzionamento della personalità, sono inscindibili dai processi di influenza relazionale e di mutua regolazione.

Giuseppe si ammalò di tumore ormai sei anni fa, la diagnosi fu tumore al colon e da quel giorno la quotidianità della mia famiglia inevitabilmente cambiò. Giuseppe è stato curato presso un Istituto di Ricovero e Cura a Carattere Scientifico, ma spesso si è trovato a dover affrontare interventi ed esami di varia natura presso altre strutture ospedaliere di Milano, riferisco tra le altre, l’Istituto Clinico Humanitas e l’Istituto Oncologico Europeo.

A tal proposito vorrei evidenziare la differenza tra il punto di vista presentato da Allison Hall in “La cura della relazione in oncologia pediatrica” e quello di Isabel E.P. Menzies circa i metodi adottati dal personale infermieristico di un ospedale londinese, nello svolgimento del loro lavoro.

Isabel Menzies prese parte ad uno studio all’interno di una serie di ricerche del Tavistock Institute of Human Relations, commissionato da un ospedale generale con funzioni di insegnamento universitario, al fine di suggerire nuovi metodi nello svolgimento del lavoro del personale infermieristico. La Menzies evidenzia come nello sviluppare un determinato modo di funzionare, le organizzazioni sociali spesso diano rilievo al compito primario e alle tecnologie per svolgere tale compito sottovalutando i bisogni di gratificazione sociale, psicologica e di sostegno manifestati dai membri dell’organizzazione. Il bisogno che i membri hanno di usare l’organizzazione nella lotta contro l’ansia porta allo sviluppo di meccanismi di difesa socialmente strutturati che appaiono come elementi del modo di funzionare dell’organizzazione stessa.

Questo sistema sociale di difesa dovrebbe preservare il personale ospedaliero, tuttavia dai primi colloqui che l’autrice ebbe con le infermiere, emerse ben presto, il loro alto grado di tensione, disagio e ansia.

Malattia infantile: Meccanismi di Difesa Familiare. - Immagine: © 1998-2012 Hoepli Editore. Immagine Riprodotta su gentile concessione dell'Editore
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Il lavoro dell’infermiera, come quello dell’intera equipe medica, molto spesso richiede di affrontare lo stress psicologico altrui, pazienti e familiari mostrano infatti sentimenti ambivalenti nei confronti degli ospedali e sovente li manifestano nei confronti del personale ospedaliero, suscitando in questi ultimi forti sentimenti di angoscia. Personalmente credo siano poche le difese istituzionali realmente in grado di aiutare a dissipare l’ansia; esistono difese, definite dalla letteratura psicoanalitica, mature, le quali a mio parere possono rivelarsi più efficaci in questo senso.

Credo sia giusto sviluppare un adeguato distacco professionale per salvaguardare medici e infermieri da un eccessivo coinvolgimento sentimentale, tuttavia quando queste persone si riducono ad essere un insieme di abilità senza individualità, penso che la stima in loro stessi e per la loro professione, a lungo andare, venga meno.

Ridurre al minimo il contatto con il paziente e con la sua malattia fino alla totale eliminazione delle sue caratteristiche individuali forse gioverà all’infermiere o al medico nel momento in cui dovranno praticare loro un intervento invasivo o doloroso, ma quando il loro turno di lavoro sarà finito, sentiranno davvero di aver aiutato una persona o semplicemente di aver svolto correttamente le loro mansioni lavorative al pari di un qualunque impiegato?

Quando la relazione viene usata in maniera consapevole e intenzionale da parte di operatori attenti e preparati, si dimostra potenzialmente curativa sia per il paziente che per il personale ospedaliero. Questa è la sintesi dell’opposto contributo offerto da Allison Hall riguardo al ruolo delle infermiere.

Qualità di vita nei malati di Huntington. - Immagine: © fontriel - Fotolia.com
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La Hall ha svolto un master universitario in abilità terapeutiche nel lavoro con bambini e adolescenti, presso lo Scottish Institute of Human Relations. L’autrice sottolinea la natura traumatica del loro lavoro e il loro bisogno di sostegno e individua nella somministrazione di trattamenti invasivi e nell’assistenza al paziente, i due compiti principali di ogni infermiere, intendendo per assistenza, sia quella sanitaria, sia quella che fornisce cure necessarie alla sopravvivenza.

Fortunatamente la mia famiglia ha potuto godere di un simile trattamento. Giuseppe, come accennato precedentemente, è stato periodicamente ricoverato in diverse strutture, nelle quali avvertiva sistematicamente un certo disagio, si sentiva al sicuro solo tra l’equipe ospedaliera dell’Istituto di riferimento.

Il personale infermieristico, pur lavorando su turni, tendenzialmente era sempre lo stesso, così come anche gli operatori socio sanitari, entrambi conoscono e chiamano i pazienti con il loro nome proprio e insieme ai dottori danno ai pazienti rigorosamente del tu. Medici e personale dell’intero reparto di oncologia hanno sempre un sorriso per tutte le persone ricoverate, gli infermieri sono disponibili al dialogo e si interessano alla salute e all’umore dei pazienti.

In giugno, quando ormai era in fase terminale, i medici optarono per un ricovero domiciliare. Il ricovero domiciliare è differente dalla semplice assistenza domiciliare, il malato è ufficialmente un paziente dell’ospedale ma non è ricoverato in reparto. Tale servizio viene effettuato all’interno della circoscrizione territoriale di competenza dell’ospedale e prevede la visita domiciliare del medico curante tre volte a settimana, la visita domiciliare di un infermiere, sempre lo stesso, a giorni alterni e la reperibilità di entrambi 24 ore su 24.

Accettazione del Lutto. - Immagine: © bruniewska - Fotolia.com
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I medici sono stati estremamente onesti, non hanno mai parlato di morte in termini effettivi, ma non ci hanno mai lasciato l’illusione che potesse finire diversamente, pensandoci a posteriori ora so che molto probabilmente loro sapevano giorno dopo giorno cosa sarebbe successo, conoscevano perfettamente il decorso della malattia, era per noi una novità, ma non per loro.

Inizialmente continuò con la sua solita terapia, ma ben presto cominciò la cosiddetta terapia del dolore. Credo che in fondo l’unica cosa che abbiamo potuto fare per lui è stata proprio quella di aiutarlo ad affrontare la morte nella maniera più dignitosa possibile. Giuseppe faceva un uso così massiccio della negazione al punto di non avere mai chiamato la malattia con il suo vero nome. A seguito del ricovero domiciliare, negli ultimi due mesi era spesso triste con un’aria pensierosa, a volte sembrava rassegnato, mentre a volte era pieno di entusiasmo e progetti per il futuro. Io e la mia famiglia vivevamo il suo entusiasmo per il futuro con un senso di estrema frustrazione.

Il tumore negli ultimi mesi si era esteso alla mascella e per tale motivo i medici hanno vagliato l’ipotesi di un’eventuale operazione, ma dopo una serie di accertamenti hanno scartato questa ipotesi optando per una radioterapia che potesse in qualche modo “tamponare” la situazione. La lista d’attesa era piuttosto lunga e nel frattempo la sua condizione di salute peggiorava, ma la sua fiducia in questo nuovo trattamento gli consentiva di non arrendersi.

Psicologia del Lutto #2: Angoscia, Meccanismi di Difesa e Comunicazione. - Immagine: © olly - Fotolia.com
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Quando arrivò il giorno in cui dovette iniziare la radioterapia, pur avendoci comunicato che non sarebbe servita a nulla, i medici gli hanno ugualmente permesso di farla e lo hanno sostenuto emotivamente durante il corso del trattamento. Tale trattamento lo ha costretto a recarsi in ospedale tutti i giorni per dieci giorni e di conseguenza ad uscire di casa, a lavarsi, vestirsi e impiegare del tempo diversamente e questo lo faceva sentire un po’ meno malato. Diceva di stare bene, nonostante gli effetti collaterali e i tremendi dolori che era costretto a dover sedare, era talmente convincente che anche i dottori si stupivano della sua forza e del suo aggrapparsi al quel poco di vita che rimaneva.

Dico “quel poco di vita che rimaneva”, perché sapeva di avere poco tempo. Parlava molto con me e spesso accennava alla sua morte imminente. Non sono stata un “buon contenitore”, l’argomento mi terrorizzava, ma nonostante ciò non ignoravo i suoi tentativi. Una sera, mentre fumavamo una sigaretta in balcone mi disse: “Divertiti. Divertiti più che puoi, perché la vita è adesso” e aggiunse subito dopo: “mentre la vecchiaia è una carogna!” , credo che quello fu uno dei suoi tanti tentativi di comunicare la sua consapevolezza; gli risposi: “Non ti preoccupare, lo sai che so divertirmi, guarda che buon esempio che ho!” alludendo a lui. Rise, mi mise una mano sul ginocchio e mi disse soddisfatto che non rimpiangeva nulla di ciò che aveva fatto nella vita e accennò brevemente qualche episodio come se volesse fare un sunto della sua esistenza.

Morì la settimana successiva, con la moglie e le sue due figlie accanto, le chiamò e assicuratosi che fossero li con lui, si abbandonò alla morte.

L’onestà e l’umanità mostrata dall’equipe medica hanno dato a me e agli altri membri della mia famiglia l’opportunità di ritagliare per ognuno di noi dei momenti unici da vivere con lui. Tale atteggiamento da parte dei medici non ha aiutato solamente lui, ma è servito anche a noi affinché prendessimo coscienza pian piano di ciò che stava per accadere.

Sono grata all’ospedale e ai dottori per la sensibilità mostrata, credo che una difesa come la spersonificazione, citata tra le altre dalla Menzies, possa risultare per i familiari tremendamente irritante. E’ orribile percepire che la morte di una persona amata, è per coloro che la curano, la morte di un numero. L’interesse da parte del medico per la totalità della persona e per i suoi aspetti vitali, oltre a quelli legati alla malattia, infonde nel malato e nei parenti un maggiore senso di fiducia nelle abilità del dottore e una maggiore autostima per averlo scelto.

 

 

BIBLIOGRAFIA: 

Come la Percezione dello Sguardo altrui cambia il nostro Comportamento

 

Come la Percezione dello Sguardo altrui cambia il nostro Comportamento. -- Immagine: © magann - Fotolia.com Leggendo “Il Signore Degli Anelli” tutti ci siamo chiesti “Ma veramente il grande nemico è un occhio gigante?” Ebbene sì. Uno sguardo può essere più severo di mille parole. Ma oggi sappiamo che anche un simulacro di sguardo umano basta per farci rigare dritto!

Da piccoli siete mai stati fulminati con lo sguardo dalla mamma mentre stavate compiendo qualche marachella? Improvvisamente il corpo si irrigidisce, un non ben definito senso di imbarazzo pervade il corpo e in pochi istanti cessiamo di fare quello che stavamo facendo. Tutti quanti siamo più inclini a violare le regole quando non siamo osservai. Chi non ha mai giocato al famoso suona e scappa quando nessuno lo poteva vedere? Thomas Jefferson probabilmente aveva in mente una situazione simile quando scrisse “Quando fai qualcosa, agisci come se tutto il mondo ti stesse guardando” (Van der Linden, 2011).

Se tutti più o meno conosciamo già questo potere dello sguardo degli altri, oggi, grazie a una ricerca condotta dal gruppo di ricercatori dell’Università di Newcastle, sappiamo che per farci sentire come se tutto il mondo ci stesse guardando e farci così cambiare in meglio il nostro comportamento basta l’immagine di due occhi che ci fissano su un manifesto (Ernest-Jones & al. 2011).

Il mancato Contatto VIsivo e i dolorosi colpi dell'indifferenza. - Immagine: © SVLuma - Fotolia.com
Articolo consigliato: Il mancato Contatto VIsivo e i dolorosi colpi dell’indifferenza.

Il gruppo di ricerca ha condotto questo esperimento grazie all’aiuto inconsapevole dei colleghi, dei quali per 32 giorni consecutivi hanno registrato i “comportamenti di pulizia”, ovvero riportare il vassoio sporco nell’apposito carrello, mentre erano alla mensa principale dell’Università. Per poter determinare l’effetto degli occhi sul comportamento i ricercatori hanno affisso a giorni alterni al livello degli occhi dei commensali differenti manifesti, con o senza una scritta corrispondente, raffiguranti volti femminili o maschili, oppure raffiguranti cose diverse come un mazzo di fiori. Dall’esperimento è emerso che quando sulle pareti c’erano manifesti raffiguranti occhi, rispetto a fiori, il doppio delle persone puliva il tavolo al termine del pasto. Inoltre è emerso che, quando nella mensa c’erano poche persone, tale effetto era indipendente dalla presenza o meno sul poster di un messaggio esplicito di pulizia, suggerendo che forse le istruzioni verbali possono aumentare comportamenti di cooperazione solo in contesti affollati.

L’esperimento di Ernest-Jones e colleghi si inserisce in una lunga tradizione di studi svolti in laboratorio volti ad indagare e stimolare la cooperazione fra gli esseri umani. Già negli anni settanta Robyn Dawes e colleghi hanno dimostrato come la presenza di altre persone in una stanza tende ad avere un effetto positivo (in senso altruistico) su soggetti che dovevano risolvere un dilemma di natura sociale (Reid, K.H. & Dawes, M.R. 2001).

Più recentemente Ekström ha pubblicato un interessante lavoro su una rivista di economia dimostrando nuovamente il potere degli “occhi disegnati” anche fuori dal laboratorio. Infatti ha condotto uno studio in un supermercato Svedese per vedere se una semplice immagine di occhi fosse in grado di influenzare la generosità dei clienti alle prese con comune problem solving (Ekström; 2011). In Svezia, come negli USA, tutti coloro che riciclano lattine e bottiglie portandole nelle “macchine per il riciclo” dei centri commerciali, ricevono un compenso in denaro. Solitamente accanto a queste macchine ci sono delle scatole che invitano a lasciare una donazione in favore di organizzazioni caritatevoli. Per condurre l’esperimento Ekström, ha posizionato sulle macchine di 38 supermercati per 12 giorni consecutivi delle immagini di occhi umani, valutando così le scelte fatte da ben 16775 persone. Dall’analisi dei dati non è emerso un effetto generale dell’immagine, tuttavia correlando i dati con il giorno di raccolta dei dati è emerso un aumento del 30% nelle donazioni nei giorni in cui l’affluenza di persone al supermercato era minore.

La felicità è negli occhi di chi guarda © Konstantin Sutyagin - Fotolia.com
Articolo consigliato: “La felicità è negli occhi di chi guarda”

Questi risultati mostrano chiaramente come sottili stimoli sociali, social cues, sono in grado di indurre comportamenti positivi nelle persone, tuttavia la potenza di questi stimoli cambia molto in base al contesto e soprattutto tende a essere nulla in presenza di stimoli sociali più forti.

Questi innovativi esperimenti hanno permesso di scoprire che il naturale sistema di rilevamento degli sguardi, congenito in tutti noi e nato soprattutto per individuare i nemici in agguato, può essere attivato anche da un “simulacro” di occhi umani (Van der Linden, 2011). Interessante scoperta se ci pensiamo: invece di appendere cartelli con la scritta “vietato calpestare l’erba” o “non scrivere sui muri” si potrebbero semplicemente apporre tante foto di occhi accigliati che fulminano tutti i trasgressori…proprio come faceva la mamma!

 

 

BIBLIOGRAFIA:

Marketing & Psicologia: Pubblicità tarate sui tratti di Personalità.

– Rassegna Stampa – 

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze PsicologicheI pubblicitari investono una gran quota di energie per focalizzare le campagne pubblicitarie su specifici target demografici. Ad ogni modo, è evidente che all’interno di ciascuna categoria demografica esistano differenze individuali che possono influire su atteggiamenti e comportamenti di consumo. Un nuovo studio pubblicato su Psychological Science evidenzia come le operazioni di marketing possano essere di gran lunga più efficaci se targettizzate su specifici profili di personalità dei potenziali consumatori.

I ricercatori hanno reclutato 324 individui e hanno costruito ad hoc 5 tipologie di pubblicità di un telefono cellulare, ognuna delle quali pensata in funzione di uno dei 5 maggiori tratti della personalità secondo il modello del Big Five: estroversione, amicalità, coscenziosità, stabilità emotiva e apertura all’esperienza.

Le pubblicità contenevano una foto di un cellulare con a fianco un breve paragrafo di testo progettato in funzione di ciascun tratto di personalità: ad esempio, il messaggio studiato per soggetti con bassa stabilità emotiva, puntava su qualcosa come: “Stai tranquillo e al sicuro con il tuo Xphone“.

Fare acquisti usando il cervello: Neuromarketing, by Martin Lindstrom - Immagine: © vege - Fotolia.com
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Ai partecipanti è stato in seguito chiesto di valutare l’efficacia della pubblicità loro presentata con domande self-report quali “ho trovato la pubblicità persuasiva” o “Comprerei il prodotto dopo aver visto questa pubblicità”.

I dati confermano l’ipotesti di partenza: le pubblicità vengono percepite come più persuasive ed efficaci nel momento in cui sono coerenti con il tratto di personalità rilevante; anche se il prodotto presentato è lo stesso, il suo valore soggettivo cambia in modo significativo in funzione della corrispondenza tra messaggio testuale e il tratto di personalità del potenziale fruitore.

La ricerca ha ampie implicazioni per lo sviluppo di strategie pubblicitarie e comunicative basate su messaggi targettizzati su differenze individuali di personalità. Oltre alla pubblicizzazione di prodotti, la riflessione può essere utile anche ai fini delle strategie di diffusione e promozione di consapevolezza negli ambiti più svariati, dalla salute alla responsabilità ambientale e civica.

 

 

BIBLIOGRAFIA:  

Intervista con il Prof. Dimaggio – #3 La TMI: Cicli Interpersonali vs Schemi Interpersonali

 

Una chiacchierata con il prof. Dimaggio – Parte 3:

La TMI: Cicli interpersonali vs Schemi interpersonali

 

Intervista con il Prof. Dimaggio – #3 La TMI: Cicli Interpersonali vs Schemi Interpersonali. - Immagine: © iQoncept - Fotolia.comDopo aver chiesto al prof. Dimaggio di parlarci della Terapia Metacognitivo – Interpersonale e di come funziona, abbiamo cercato di capire cosa produce il cambiamento nei pazienti e come la TMI può agire in questo senso. Questa settimana, nell’ultima parte dell’intervista, parliamo di cicli interpersonali

Uno degli elementi più difficili da gestire in terapia sono i Cicli interpersonali attivati dai pazienti. Questa difficoltà aumenta significativamente durante il trattamento di pazienti con disturbi di personalità e saper trasformare i cicli interpersonali del paziente in una risorsa utile alla terapia è particolarmente importante, ma non sempre semplice. Ne abbiamo parlato con il prof. Dimaggio nel corso dell’ultima parte dell’intervista: 

 

(State of Mind) Cicli interpersonali vs. schemi interpersonali. Quanto è importante secondo lei dividere gli interventi basati sugli schemi interpersonali da quelli sui cicli interpersonali?

(Dimaggio) Questo è un argomento a me carissimo. Probabilmente il problema è il risultato di un difetto del libro “I disturbi di personalità. Modelli e trattamento”, lo dico con fare autocritico. Non sono in grado di dire se dipende dal modo in cui il libro è stato scritto o da come è stato letto Certo è che ho notato come molti allievi che hanno studiato il libro, a partire da lì tendevano ad intervenire direttamente sui cicli interpersonali. Intendiamoci: il concetto di ciclo interpersonale è preziosissimo. Una dimensione centrale nella TMI è la costante attenzione, modulazione, monitoraggio e metacomunicazione sulla relazione terapeutica. Ovvero tutto quello che facciamo avviene costantemente con un terapeuta immerso nella riflessione sulla relazione terapeutica, sentendosi parte in causa, co-costruttore di un mondo relazionale, però capace di monitorare quello che accade e di uscire dal ciclo interpersonale per generare un funzionamento migliore.

Intervista con il Prof. Dimaggio – #1 La Terapia Metacognitivo-Interpersonale
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Quindi “ciclo interpersonale” è un costrutto di enorme utilità e tuttavia nelle prime parti della terapia metto in guardia i terapeuti in formazione dall’utilizzarlo per spiegare al paziente il suo malfunzionamento. Il ciclo interpersonale deve servire al terapeuta per capire il processo che avviene in seduta. Ovvero: “In che modo io sto contribuendo con il paziente a potenziare modalità relazionali disfunzionali attive nel qui ed ora della relazione terapeutica”. Questo soprattutto facendo attenzione al contributo del terapeuta nel peggiorare o mantenere le cose, assumendo ovviamente che il peso della psicopatologia nel determinare il ciclo è enorme.

Quando il focus si sposta invece sulla mente del paziente, ragionare in termini di ciclo interpersonale, come ho visto fare a tantissimi mie allievi o allievi di colleghi, secondo me rischia di diventare iatrogeno, soprattutto se fatto prematuramente. Questo perché si tratta sostanzialmente di dire al paziente che contribuisce a causare i problemi di cui soffre. Questo genera colpevolizzazione, perché è come dire al paziente: “Te la vai a cercare”, facendo sentire il paziente giudicato. Interventi del genere frequentemente generano un potenziamento dell’immagine negativa di sé, che a sua volta può generare depressione o ostilità. Il terapeuta viene così facilmente costruito come un giudice critico, dominante, ostile, e via dicendo, per cui penso che bisognerebbe davvero evitare, per lunghe fasi di trattamento, di far notare al paziente che in qualche modo la sofferenza è generata – in parte – dalle reazioni che il paziente stesso elicita negli altri.

Mentre invece un intervento molto più importante che, per quanto modellizziamo, andrebbe fatto rigorosamente prima dell’interpretazione del ciclo, è quello di aiutare il paziente a capire che soffre a causa di schemi. Ovvero non di ciò che fa fare agli altri o di ciò che altri gli fanno, ma di come legge le cose.

Quando il paziente è stabilmente consapevole di essere guidato da schemi, per esempio che soffre così tanto non per aver costretto il partner ad abbandonarlo, ma per avere uno schema cronico di abbandono; oppure non perché si sente ostracizzato o sfidato dai colleghi perché lui per primo li sfida, ma perché ha un tema cronico di percezione degli altri come ostili e dominanti, bene, solo a quel punto si può cominciare a suggerire: “Guardi, a partire da questo tema di vita – e noi vogliamo che lei se ne liberi per vivere una vita più leggera, realizzata e più in linea con i suoi piani – le azioni che lei compie possono evocare negli altri reazioni che le provocano dolore”.

Interventi di questo tipo però vengono fatti in fasi molto avanzate del trattamento, quando il paziente sa già che soffre per il modo in cui percepisce gli altri, e cosa ancora più importante il paziente ha avuto accesso a modalità sane e alternative di esperienza. Detto in termini semplici: “Guardi, vede come quando riesce a contattare questi aspetti sta meglio, funziona meglio e gli altri rispondo diversamente. Ora capiamo che quando invece si comportava nei modi usuali, gli altri non le rispondevano in maniera altrettanto felice”. È un intervento che si rivolge ad un paziente che ha già un’identità, in parte, nuova e più sana, un punto di vista più limpido dal quale poter osservare le sue disfunzioni.

 

(State of Mind) Qual è la probabilità, il rischio, che anche usando questa tecnica il paziente si colpevolizzi?

Allora, direi che non è un rischio, ma piuttosto una cosa che accade spesso. In un certo senso è un effetto previsto dell’intervento quando si mostra al paziente che nel suo mondo interno c’è uno schema che non va. Diciamo che è inevitabile. Quello invece che cerchiamo di fare è un intervento a due livelli. Intanto la formulazione dello schema, questa è una cosa sulla quale insisto moltissimo, non va fatta dal vertice della patologia. Cioè: “Lei ha una cosa disfunzionale”. Al contrario, io parto sempre dall’accesso al desiderio: “Lei desidera realizzare quello, si aspetta che gli altri reagiscano così e a causa di questo tende a cadere. La terapia tenta di darle una luce nuova nella vita”. Essenzialmente la riformulazione la faccio così. Questo già di suo dà speranza, è progettuale, proattivo, rinforza l’agency e quindi genera un’attitudine positiva verso la terapia.

Intervista con il Prof. Dimaggio – #2 La Terapia Metacognitiva-Interpersonale: Verso il Cambiamento. - Immagine: © Frederic Bos - Fotolia.com
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Già il modo in cui viene riformulato lo schema non è “Lei soffre, ha una tendenza a…”, ma “I suoi desideri sono ostacolati dalla percezione che… che bello sarebbe trovare delle strategie per liberarsi da queste aspettative negative per poter realizzare i propri obiettivi di vita”. È tutta un’altra cosa e un terapeuta TMI esperto, dopo tanto allenamento e osservazione, un intervento di questo tipo, con pazienti a discreto funzionamento metacognitivo, può farlo addirittura in una sola seduta.

Tuttavia in ogni caso parallelamente anche il terapeuta più bravo, sensibile ed esperto sta veicolando inevitabilmente un messaggio che rinforza gli schemi negativi del paziente. Con i disturbi di personalità di fatto accade sempre. Quello che dico sempre scherzando a lezione è: con i disturbi di Asse I fai la cosa giusta e il paziente migliora, con i disturbi di Asse II fai la cosa giusta e il paziente ti sta male da un’altra parte.

Allora quello che si fa, e questa è la componente relazionale, è monitorare costantemente la risposta del paziente e il significato che l’intervento ha a livello relazionale e a quel punto si interviene su quello. Per esempio, tornando all’esempio di prima, il paziente si sente giudicato, il terapeuta nota un segno di intristimento, abbattimento o autocritica e subito chiede: “Scusi, come sta prendendo quello che le ho detto?”. Il paziente potrebbe rispondere: “Guardi, c’è proprio qualcosa di sbagliato dentro di me!”. A quel punto l’intervento è su due livelli: “Sente che io la sto giudicando per quello che ho detto? Ha percepito una nota critica nei suoi confronti?”. Successivamente si può fare uno svelamento “Io in realtà provo l’opposto, provo il desiderio di vederla libero da…”. Oppure si va a lavorare sullo schema attivo nel transfert:

Caspita che bello, anche qui cercando di capire come uscire dal suo malessere, vede che si è attivata la sua tendenza a giudicarsi e sentirsi giudicato negativamente? La sua valutazione negativa del mondo è difficile che riesca a generarle una speranza, perché subito prende ogni informazione su di sé come prova del suo scarso valore personale. Accidenti, quanto la convinzione di non valere niente è forte dentro di lei! E veramente sarà importante che riusciamo io e lei a lavorare per riuscire a farla stare meglio”.

Manchester terapia metacognitiva
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Per cui si va a lavorare subito sullo schema attivo nella relazione. Lo schema, quindi, si attiva negativamente a causa dell’intervento del terapeuta, ma diventa subito l’oggetto della riflessione. Il terapeuta MIT è allenato ad essere prontissimo a questo tipo di eventi relazionali.

Importante è che la correttezza dell’intervento non si misura tanto da quanto l’intervento, la riformulazione, fosse teoricamente e tecnicamente corretta.La la bravura del terapeuta in un certo senso, almeno per come la pensiamo noi, è nel monitorare il feedback del paziente all’intervento.

L’intervento funziona quando il paziente da un feedback positivo e il terapeuta è bravo quando si accorge rapidamente del feedback negativo e lavora per correggerlo. Questo è quello che facciamo.

 

(State of Mind) Un’ultima domanda per gli amanti degli spoiler: sta lavorando ad un nuovo libro che ha definito essere un passo in avanti rispetto a “I disturbi di personalità. Modelli e trattamento”. Ci può dare qualche anticipazione?

Questo miglioramento/passo in avanti in qualche modo è già stato messo per iscritto in una serie di articoli o capitoli di libro. Per esempio nei capitoli sul trattamento che sono presenti nel libro che ho curato con Paul Lysaker, “Metacognizione e Psicopatologia” (Dimaggio, G.; Lysaker, P. 2011). Poi ho accennato a questi concetti in un articolo che ho scritto con i miei colleghi per il Journal of Personality Disorders (Dimaggio et al. 2012) proprio sulle procedure decisionali, articolo apparso in un numero speciale sul trattamento integrato dei disturbi di personalità, e in vari altri scritti pubblicati su diverse riviste internazionali.

Quello che sto facendo adesso, soprattutto con i colleghi del nuovo Centro di Terapia Metacognitiva Interpersonale, Raffaele Popolo, Giampaolo Salvatore è formalizzare ulteriormente tali procedure in un libro sul trattamento integrato per i disturbi di personalità che sto curando con John Livesley e John Clarkin. Mentre invece in italiano stiamo provvedendo a manualizzare gli ultimi sviluppi della TMI e questo lo stiamo facendo sempre con il contributo di Raffaele Popolo, Giampaolo Salvatore e Antonella Montano. Quest’ultima ci sta dando una grande mano nel rendere i concetti chiari e iper-formalizzare il trattamento. Quindi sì, diciamo che siamo in pieni lavori in corso e speriamo che venga fuori un miglioramento rispetto al lavoro del libro sui disturbi di personalità di cui parlavamo prima. Anche perché comunque ci collochiamo in un ambito scientifico, almeno quello che proviamo a fare, per cui un’idea terapeutica sviluppata circa dieci anni fa è plausibile che si sia evoluta. È per questo che continuiamo continuamente a riflettere e capire quello che facciamo per poter raffinare sempre più il modello.Per esempio il mio collega Raffaele Popolo porterà degli esempi alla SITCC anche con Giovanni Ruggiero, al fine di di descrivere delle procedure iterative per trattare proprio i sintomi nel contesto dei disturbi di personalità. La domanda non più semplicemente; “Si cura prima l’asse I o l’asse II?”, ma piuttosto “Come si cura un disturbo di Assi I nel contesto di un disturbo di personalità?”. Come si tratta, per esempio, un disturbo ossessivo compulsivo in un paziente che ha un disturbo evitante di personalità; come si tratta invece se il paziente ha un disturbo dipendente e tratti passivo aggressivi. Stiamo cercando di creare procedure proprio in questo senso e probabilmente nel nuovo libro riusciremo a dare un po’ conto di alcuni di questi sviluppi.

 LEGGI LA RISPOSTA DI SEMERARI A QUESTA INTERVISTA

 

 

BIBLIOGRAFIA:

  • Dimaggio, G., Semerari A. (2003) I disturbi di personalità. Modelli e trattamento. Stati mentali, metarappresnetazione, cicli interpersonali. Ed. Laterza
  • Dimaggio, G.; Lysaker P.H. (2011). Metacognizione e psicopatologia. Valutazione e Trattamento. Traduzione Italiana ed. Cortina
  • Dimaggio G, Salvatore, G., Fiore, D., Carcione, A., Nicolò, G. & Semerari, A. (2012). General principles for treating the overconstricted personality disorder. Toward operationalizing technique. Journal of Personality Disorders, 26, 63-83.  

Cinema – Antonioni e l’Incomunicabilità: alla ricerca di un senso.

 

Antonioni e l’Incomunicabilità: alla ricerca di un senso. -
Michelangelo Antonioni

“Quando tu, Antonioni, dichiari in un’intervista con Godard: ‘Provo il bisogno di esprimere la realtà in termini che non siano affatto realistici’, tu testimoni una corretta percezione del senso: non lo imponi, ma non lo abolisci. Tale dialettica conferisce ai tuoi film una grande sottigliezza: la tua arte consiste nel lasciare la strada del senso sempre aperta, e come indecisa, per scrupolo. E’ proprio in questo che tu assolvi il compito dell’artista di cui il nostro tempo ha bisogno: né dogmatico, né insignificante”.

Con queste parole, pronunciate da Roland Barthes in occasione della consegna del premio ‘Archiginnasio d’oro’ a Michelangelo Antonioni nel 1980, possiamo provare ad entrare nel mondo di un regista considerato tra i più grandi di tutti i tempi, precursore e inarrivabile indagatore di alcune tematiche psicologiche fondamentali. Su tutte l’incomunicabilità, che Antonioni analizzo’ con la celebre trilogia composta da “L’avventura”, “La notte” e “L’eclissi”.

Di che cosa discutiamo quando discutiamo di cinema? - Immagine: © fergregory - Fotolia.com
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Comprendere cosa accade quando le persone si distanziano senza un motivo apparente, quando uomini e donne si scoprono alienati da una realtà penetrata sotto la loro pelle senza comunicare il proprio arrivo, è impresa ardua e da terapeuti non di rado ne abbiamo esperienza. Il potere della parola si rivela limitato, l’analisi dei processi mentali spesso non è sufficiente a generare un reale cambiamento, e i nostri pazienti continuano ad essere sovrastati da emozioni che è difficile definire e ancor di più gestire. Coloro che osservano dall’esterno faticano a ricostruire un senso; il terapeuta si pone perciò l’obiettivo di decodificare il sistema di significati personali del paziente, assumendo la sua prospettiva nel tentativo di collocare i pensieri e le emozioni all’interno del suo peculiare habitus esplicativo.

La poetica di Antonioni fa propria la medesima esigenza, non si accosta all’animo umano suggerendo verità universali, bensì tratteggia i caratteri di una mente, di una relazione, mantenendo come riferimento costante l’ambiente esistenziale ed emotivo nel quale ha preso forma quell’esperienza.

Ne “La notte” Antonioni descrive la parabola di una relazione coniugale che nelle ore che dividono un tramonto dall’alba successiva si scopre svuotata, strappata di senso, priva di autentica speranza. Non ci sono litigi accesi ma silenzi che accrescono il frastuono di una festa, non vediamo alzarsi la tonalità emotiva che semmai si abbandona alla ricerca di una solitudine all’improvviso inevitabile se non addirittura provvidenziale. E assistiamo al lento vagabondare, nella periferia della metropoli, di un personaggio che per ciascuno di noi può essere uomo o donna, giovane o adulto. Il senso aperto, appunto. Non sappiamo, né il film ce lo svela con precisione, quale sia il reale stato d’animo dei protagonisti: si mostrano a noi smarriti, annoiati ma la loro potrebbe essere la rabbia di un fallimento, la tristezza per un progetto esistenziale naufragato, la paura di non riuscire a trovare uno scopo alternativo sul quale elaborare un tema di vita più evoluto.

I personaggi di Antonioni si aprono alla nostra interpretazione attraverso sguardi sottili, dialoghi essenziali e quasi lunari, come i paesaggi della città che si perde nelle sue architetture alienate; gli uomini e le donne dell’incomunicabilità si toccano e si lasciano come per inerzia, alludono al vuoto che li pervade ma non sanno quale forma conferirgli realmente, non sanno come condividerlo affinché diventi meno spaventoso. E’ questa, di fatto, l’incomunicabilità. Ogni protagonista procede lungo un sentiero che lo conduce a smarrire gli elementi fondamentali delle proprie certezze e perde progressivamente contatto con i compagni di viaggio, osservandoli sempre più da lontano mentre a loro volta affrontano interrogativi senza risposta. Antonioni racconta l’avvento di una società complessa, nella quale si moltiplicano i bisogni relazionali e la frustrazione di non riuscire a soddisfarli; l’essere umano si ritrova a fronteggiare compiti evolutivi spesso sfuggenti, poiché accanto all’esigenza di costruire e mantenere una propria individualità emerge la necessità di adattarsi ad un contesto sociale nel quale lo sguardo dell’altro diviene sempre più penetrante.

Kill Me Please, Suicidio Assistito e le nuove frontiere del Controllo. - Immagine: © 2012 Costanza Prinetti
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Le convenzioni vacillano, i codici comunicativi condivisi devono essere rinegoziati e le relazioni non sono pronte ad accogliere desideri, pulsioni, movimenti un tempo non previsti: e’ il caso della vicenda narrata ne “La notte”. In questa incertezza prende forma una terra di nessuno, all’interno della quale le persone non comprendono cosa sia richiesto loro e quale spazio debbano occupare le istanze più intime, più private. Affiorano nuovi scopi esistenziali ma ancora nebulosi, che si confondono con le strutture precedentemente assunte come pilastri; il conflitto fra dimensione interna ed esterna, bisogni riconosciuti e spinte evolutive più difficili da collocare nel contesto dei sentimenti accettabili, pone l’individuo dinanzi alla necessita’ di comunicare qualcosa che non può ancora congiungersi a parole affidabili.

Il senso e’ ancora prevalentemente emotivo, incostante, alienato da moti contrapposti, la consapevolezza non ancora chiara; la percezione soggettiva induce ad allontanarsi ma ancora bisogna comprendere da chi e per quale ragione. E’ questa l’incomunicabilità di Antonioni, la sua analisi del mondo umano sorto nel periodo più contraddittorio del secolo più sconvolgente, nei significati inconciliabili di un’umanità divisa e confusa, atterrita dalle più grandi tragedie della storia appena consumatesi e trascinata verso un progresso rapido ma disturbante. Nell’opera di questo regista per molti aspetti rivoluzionario osserviamo nitidamente alcuni concetti che sarebbero diventati sempre più centrali nella lettura delle dinamiche umane, su tutti la lotta per superare il disagio contemporaneo di relazioni parziali, convulse, sferzate dalla velocità dei mutamenti sociali e culturali che lasciano indietro il tempo interiore dell’uomo, la sua visione introspettiva, il suo passo talvolta stentato.

I Disturbi Alimentari e il Sistema di Ricompensa Dopaminergico

– Rassegna Stampa – Disturbi Alimentari e Neuroscienze

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze PsicologicheI risultati di uno studio recentemente pubblicato dalla University of Colorado School of Medicine suggeriscono che la disregolazione del comportamento alimentare, tipica dell’anoressia e dell’obesità, sia legata al sistema dopaminergico di ricompensa cerebrale, lo stesso coinvolto anche nelle dipendenze.

Un team di ricercatori ha usato la risonanza magnetica funzionale (fMRI) per esaminare l’attività cerebrale in 63 donne, anoressiche o obese, e compararla con quella di donne normopeso. Le prove sperimentali sono state studiate in modo da sollecitare i circuiti cerebrali implicati nella ricompensa: le partecipanti venivano condizionate ad associare alcune forme a una bevanda dolce o non-dolce, quindi ricevevano la bevanda attesa o quella inattesa.

Edimburgh - Immagine: Creative Commons - Attribution: By Yo (foto hecha por mí) [GFDL (www.gnu.org/copyleft/fdl.html) or CC-BY-SA-3.0-2.5-2.0-1.0 (www.creativecommons.org/licenses/by-sa/3.0)], via Wikimedia Commons
Articolo consigliato: EDRS 2011: le Neuroscienze all'assalto dei Disturbi Alimentari.

I risultati indicano che un inaspettato sapore dolce provoca nelle anoressiche un aumento di attivazione dei sistemi di ricompensa, il circuito risulta invece desensibilizzato nelle pazienti obese. Come nei roditori, la restrizione alimentare e la perdita di peso sono associate a maggior rilascio di dopamina in risposta alla ricompensa.

E ‘chiaro che negli esseri umani il sistema di ricompensa del cervello aiuta a regolare l’assunzione di cibo“, ha detto Guido Frank, ricercatore a capo dello studio, e aggiunge “Il ruolo specifico di queste reti nei disturbi alimentari come l’anoressia nervosa e l’obesità, rimane ancora poco chiaro, per questo sono necessarie ulteriori ricerche in questo settore.

 

 

BIBLIOGRAFIA:  

Psicoterapia: Il Disputing Logico-Empirico alla Beck – Parte 2

 

Secondo Clark e Beck (2010) il disputing logico-empirico della minaccia temuta dal paziente ansioso va articolato in 4 variabili: stima della probabilità, della gravità, della vulnerabilità e della sicurezza.

  • Psicoterapia: Il Disputing Logico-Empirico alla Beck – Parte 2. - Immagine: © Itaca55 - Fotolia.comStima della probabilità: siamo in grado di definire con esattezza, la minaccia? Di definire il danno che ne verrebbe? E di stimarne la probabilità di realizzazione? Dove, quando e come avverrebbe? E a quali condizioni?
  • Stima della gravità: definire con esattezza la minaccia significa anche valutarne con precisione la gravità del problema. Una minaccia può essere reale, ma in fondo poco pericolosa o molto meno pericolosa di quel che sembra. Spesso la gravità di una minaccia è sopravvalutata. Non dobbiamo scambiare la realtà di una minaccia con la sua pericolosità.
  • Stima della vulnerabilità: quanto siamo vulnerabili? Lo abbiamo valutato? Spesso scambiamo la presenza di una minaccia con la nostra vulnerabilità ad essa. Siccome una minaccia esiste, allora siamo vulnerabili. Invece no. Sono due variabili distinte. Una minaccia può esistere e noi possiamo essere poco vulnerabili a essa. Questo è un errore cognitivo piuttosto comune e diffuso.
  • Stima della sicurezza: ancora diversa dalla vulnerabilità è la nostra sicurezza personale, che dipende da fattori esterni e non dalla vulnerabilità personale. Anche in questo caso si tratta di una variabile facilmente trascurata e sottovalutata.

 

Questi aspetti dell’ansia possono essere affrontati direttamente, oppure prendendo in considerazione altri parametri altrettanto promettenti per una buona terapia cognitiva. La normalizzazione dell’ansia si articola in tre componenti (Beck, 1985):

Disputing Monografia
MONOGRAFIA: Il Disputing in Psicoterapia

Normalizzazione rispetto agli altri. Una delle convinzioni che catastrofizza i timore del soggetto ansioso è la convinzione che gli altri non condividano le sue paure e che egli sia l’unico al mondo o dei pochissimi a soffrire di ansie e paure. Farlo riflettere su episodi in cui egli ha potuto intuire che anche gli altri siano soggetti alle stesse sue paure o a simili timori lo aiuta a diminuire l‘estremo pessimismo delle sue valutazioni.

Normalizzazione rispetto al passato. Esplorare il passato facilita nel paziente la consapevolezza che minacce simili a quelle temute nel presente si sono presentate nel passato e sono state gestite in maniera accettabile.

Normalizzazione rispetto alle situazioni. Una volta che il paziente ha imparato a individuare le situazioni ansiogene, diventa possibile trovare situazioni simili che però sono gestite in maniera migliore o comunque in modo meno disfunzionale. Il paziente può quindi tentare di applicare questo modello anche alle situazioni legate ai suoi timori ansiosi.

Un’altra articolazione cognitiva del pensiero ansioso lo troviamo nei 4 parametri del pensiero negativo di Robichaud e Dugas (2005a, 2005b):

a) Percezione dei problemi come minaccia al benessere;

b) Dubbi d’inefficacia nella capacità di problem-solving;

c) Tendenza pessimista sugli esiti;

d) Bassa tolleranza alla frustrazione.

Anche questi parametri offrono buone opportunità per un disputing logico-empirico alla Beck. Il più originale è il primo. Infatti possiamo utilizzare la “percezione dei problemi come minaccia al benessere” come base per incoraggiare il paziente a capire che egli scambia la semplice e normale presenza di problemi per minacce. L’ansia è un segnale, un segnale che ci sono problemi, problemi da risolvere. In presenza di ansia la domanda da porsi è:

“Qual è il problema che devo affrontare?” E non: “Qual è la minaccia che devo evitare?”

Gli altri tre parametri sono meno originali e a essi si può applicare il disputing logico empirico alla Beck o quello pragmatico alla Ellis.

I dubbi d’inefficacia nella capacità di problem-solving vanno a loro volta sottoposti a critica. Perché il paziente ritiene di non essere in grado di risolvere i problemi? In base a quali valutazioni, a quali ragionamenti? Ragionamento analogo per la “tendenza pessimista sugli esiti”. In base a cosa il paziente pensa che l’esito sarà negativo? Infine, per la “bassa tolleranza alla frustrazione” valgono i suggerimenti di Albert Ellis.

 

 

BIBLIOGRAFIA: 

  • Beck, A. T., Emery, G., Greenberg, R. L. (1085). Anxiety disorders and phobias: A cognitive perspective. New York: Basic Books.
  • Clark, D. A., Beck, A. T. (2010). Cognitive Therapy of Anxiety Disorders. Science and Practice. New York: The Guilford Press.
  • Robichaud, M., & Dugas, M. (2005a). Negative problem orientation (Part I): Psychometric properties of a new measure. Behaviour Research and Therapy, 43, 391-401.
  • Robichaud, M., & Dugas, M. (2005b). Negative problem orientation (Part II): Psychometric properties of a new measure. Behaviour Research and Therapy, 43, 403-412.

Storie di Terapie #7 – Tredici centimetri e mezzo di Enrico

Nei casi clinici che seguono, l’arrosto sostanzioso dei vari pazienti è condito con il sugo della fantasia, per rendere non identificabili le persone e la lettura più avvincente. Spesso ho condensato in un solo paziente più persone e, quasi sempre ci sono scappati pezzetti di me stesso.    Leggi l’introduzione    

 

#7 – Tredici centimetri e mezzo di Enrico

 

 

Mi è capitato più volte di provare imbarazzo nel riconoscermi appartenente alla specie umana e, segnatamente, al genere maschile. Di solito ciò mi è capitato di fronte ai crimini sessuali, alcune perversioni ed abusi in cui i maschi superano sempre di gran lunga le donne. Dovevo però aspettare di diventare anziano per provare il disgusto verso la mascolinità che l’incontro con Enrico mi procurò. L’invio mi fu fatto da un collega amico, che ricordava il mio passato di sessuologo.

In effetti, Enrico presentava il problema di una disfunzione sessuale, in realtà Enrico era interamente una disfunzione sessuale; tecnicamente trattavasi di “ impotenza situazionale”.

Il padreterno non era stato generoso con lui che sembrava assemblato con pezzi di scarto: basso quanto basta per averne il complesso e sentirsi inferiore, occhi piccoli da pesce del lunedì, capelli radi grigio topo e impomatati, naso oversize con bitorzoli e colorito violaceo, colorito giallo verdognolo tendente a Shrek, totale assenza dell’apparato muscolare oltre a quello atto a mantenerlo seduto e, per finire, alitosi da distruzione di massa.

Storie di Terapie - © Athanasia Nomikou - Fotolia.com
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Enrico, forse per compensare l’aspetto orribile, o per sottolineare la comune amicizia con l’inviante, mostra una confidenzialità molto invadente. Mi ricredo immediatamente: il suo problema non è la bruttezza, ma la talentuosa antipatia. Tenta di compensare la sua goffaggine con l’applicazione stereotipata di regole di buona creanza che trasmettono un’idea di falsità, generatrice di imbarazzo. Questa mancanza di naturalezza e di senso comune avrebbe dovuto farmi accendere la spia rossa che indica il sospetto di psicosi, ma non accadde.

Il problema dichiarato da Enrico era il suo pene che funzionava a fasi alterne provocandogli un’ansia incontenibile, evitamenti delle situazioni potenzialmente erotiche ed un consumo industriale di Viagra e suoi derivati, pericoloso per il suo cuore già infartuato tre anni prima, a quarantun’anni. La raccolta della storia fu ostacolata dai continui richiami di Enrico al qui ed ora del suo pene capriccioso.

Nasce in una cittadina del sud, primo di tre figli di cui la seconda femmina. Il padre è un piccolo imprenditore molto conosciuto e in odore di camorra, violento con i figli che picchia selvaggiamente ad ogni presunta mancanza di rispetto. Tradisce spudoratamente la madre e si vanta con i figli maschi delle sue proverbiali prestazioni sessuali, insegna ai figli che il valore di un uomo lo si misura dalla lunghezza e durezza del suo pene. La madre è sconfitta e umiliata, ma resta in famiglia perché teme di lasciare la figlia femmina con il padre; il possibile abuso rispetto alla figlia femmina è considerato una possibilità reale, se non probabile.

Sesso & Coppia: Riaccendere la Passione quando il Viagra non basta. - Immagine: © mipan - Fotolia.com
Articolo consigliato: Sesso & Coppia: Riaccendere la Passione quando il Viagra non basta.

Il padre si rovina completamente per il gioco d’azzardo e, a quarantott’anni, viene trovato morto, un mattino, sulla via di casa. Enrico dice essersi trattato di un infarto, ma molte chiacchiere sono girate in paese. Della morte del padre non ha particolari ricordi, se non quello di una liberazione dal suo controllo svalutante su tutte le sue prestazioni.

Durante tutto il periodo scolastico Enrico è tormentato da pensieri ossessivi e compulsioni. Le ossessioni riguardano soprattutto la possibilità di avere la forfora o il sudore ascellare, ciò lo renderebbe disgustoso e non potrebbe “scoparsi” tutte le ragazze che vuole. Se ciò non avvenisse nessuno lo rispetterebbe e tutto il paese lo deriderebbe.

Finita ragioneria si fidanza con Rosa, la sua attuale moglie. Quando gli chiedo di raccontarmi del suo matrimonio fa una sintesi stringata: per i primi tre mesi ha avuto difficoltà nei rapporti sessuali, poi ha preso il via e tutto andava bene senza aiutini, se si eccettua il ricorso a stimolazioni orali. Non si è mai chiesto se la moglie abbia l’orgasmo, ma dice che non si è lamentata mai anzi, dopo il coito, la coppia si concede un altro rapporto orale.

Enrico, che sottovaluta continuamente ogni segno psicopatologico e, mentendo, dice che le ossessioni sono ormai poca cosa, mi racconta la prima importante crisi, ma sempre sminuendone la portata.

Sotto le lenzuola: Uomini troppo “golosi” e troppo “ruminatori”? Cause o correlazioni nella Disfunzione Erettile - Immagine: Costanza Prinetti © 2012
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Dopo tre anni di matrimonio, quando il primo figlio ha sei mesi, gli capita, durante una trasferta, di avere un approccio sessuale con una collega a lui sottoposta. Naturalmente non dice nulla alla moglie, ma al primo tentativo di rapporto sessuale con la consorte perde subito l’erezione, dopo il pretrattamento orale. E’ la prima volta che gli succede.

Tentare di indagare le emozioni che precedettero (colpa?) e seguirono (ansia? tristezza?) l’episodio di impotenza è come chiedere ad un tavolino il senso della poetica di Dante.

I fatti successivi, però, li ricorda. Esce di casa, raggiunge la piazza del paese, è pronto a dar battaglia se vedrà dei capannelli di gente che lo deride. Essendo notte fonda non incontra nessuno, ma sa con certezza che, dietro le finestre illuminate e quelle falsamente buie, non si parla d’altro.

Poi i suoi ricordi iniziano a riorganizzarsi dal momento in cui lo zio materno, psichiatra, viene a prenderlo in SPDC (Servizio Psichiatrico per la Diagnosi e Cura), assumendosi la responsabilità della dimissione. Lo zio, per tre mesi, gli somministra forti neurolettici; da allora li ha smessi solo dopo l’infarto, per lasciar spazio alla terapia cardioprotettiva. Sei mesi fa è nato il suo secondo figlio e lui ha consapevolmente pensato che, considerata l’astinenza con la moglie nell’ultimo periodo di gravidanza e nel puerperio, poteva essere il momento adatto per farsi qualche bella scopata extra e non solo le solite seghe con cui tiene in allenamento il meccanismo, “svuotandosi” almeno tre volte a settimana.

La scelta cadde su Stefania, una collega nota per i dissapori con il suo partner e la spregiudicatezza sessuale. Solo molto tempo dopo ciò gli apparirà come una serissima minaccia: Enrico dichiara apertamente di essere preoccupato di un possibile coinvolgimento affettivo, che Stefania dimostrerà sin dall’inizio e gli chiederà. Per lui, invece, Stefania è solo tutto ciò che sta intorno alla sua fica, l’unica emozione che sente nei suoi confronti è il timore del giudizio.

Perciò si organizza con accuratezza e, prima ancora di tentare un approccio, va a visita dal cardiologo per concordare il dosaggio massimo e le modalità di assunzione del Viagra. Gli faccio notare che non c’era stato nessun fallimento, ma lui ribatte che prevenire è meglio che curare e che la prima impressione è quella che conta. Affitta una casa fuori città per la moglie e i figli, in modo che possano fare due mesi di mare, impegnandosi a raggiungerli nei fine settimana

Viene in terapia da me per due motivi.

Poiché le prestazioni “viagrasostenute” sono state davvero buone, non sa come fare per continuare a stupire Stefania. Ha aumentato progressivamente la dose fino a quella massima consentita e non sa cos’altro inventarsi senza rischiare un infarto.

In secondo luogo vorrebbe capire cosa siano quelle attenzioni affettive che Stefania gli chiede e che lui connota come “tutte quelle smorfiose sciocchezze che si fanno per ottenere la fica.

Storie di Terapie #6 – Sesso & Potere: il caso di Matteo. - Immagine: © Vladimyr Adadurov - Fotolia.com
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Vuole che gli insegni a recitare. Attraverso una serie di confidenti infiltrate tra le amicizie di Stefania, sa che lei parla molto bene del loro rapporto ed è terrorizzato che si possa sapere che non è lui, ma il viagra. Se una cosa del genere si sapesse in ufficio, perderebbe ogni dignità e si darebbe volontariamente la morte. Poiché il nonno paterno lo ha fatto veramente, questa dichiarazione non mi lascia affatto tranquillo e insisto per l’assunzione di serotoninergici che, gli dico, avranno anche l’effetto collaterale di ritardare l’eiaculazione. Accetta con gioia.

Stavo per suggerirgli di non intrapendere la psicoterapia e di continuare con il trattamento di viagra e con il solo serotoninergico, poiché ritenevo del tutto inutile una psicoterapia essendo chiaramente di fronte ad una assenza della psiche stessa, quando mi raccontò due fatti significativi.

 

E’ brutto ammetterlo ma, fino a quel momento, mi stavo terribilmente annoiando e credo fossi finito  in un circolo vizioso: più lo trovavo noioso e forse, mi duole ammetterlo, lo giudicavo negativamente, meno lo guardavo con interesse, ma era proprio questo disinteresse a generare la noia.

I due particolari invece mi diedero la misura della sua sofferenza e riattivarono l’interesse.

Quando aveva sette anni Enrico era già un onanista professionista e si identificava completamente con il suo pene. A dispetto della presunta legge (certamente inventata e diffusa ad arte dai bassi di statura) per cui la lunghezza del pene è inversamente proporzionale all’altezza, lui era basso e il suo pene arrivava, se ben stirato, a soli undici centimetri.

Storie di Terapie #5 - Simone l'Ossessivo. - Immagine: © Oleksii Sergieiev - Fotolia.com
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In quinta elementare, per essersi rifiutato di cedere la sua merenda al boss della classe, fu sottoposto alla pratica della “stira”: gettato per terra nel cortile della scuola e tenuto fermo dai compari del boss, gli furono tolti i pantaloni e stirato il pene davanti a tutti per mostrarne la pochezza, finchè non chiese perdono e cedette la merenda. Ricorda ancora con vividezza il sentimento di umiliazione che lo pervase e la rabbia nei confronti del padre che, saputa la vicenda, lo sgridò a sua volta per non aver fatto rispettare il suo glorioso cognome. Ma non tutto il male vien per nuocere: in una misurazione nei giorni successivi si accorse che il pene aveva raggiunto i dodici centimetri. Iniziò dunque una serrata terapia consistente in uno stiramento quotidiano del pene. Pensò anche di attaccarci dei pesi che lo tenessero in tensione durante il sonno, ma il marchingegno ideato era troppo vistoso e dovette rimandare il progetto a quando avrebbe vissuto da solo. Si limitava dunque a violente strattonate in bagno ogni volta che doveva urinare e a due sedute di allungamento prima e dopo la masturbazione serale a letto. Faceva ciò con la meticolosità ossessiva che lo avrebbe accompagnato per sempre e iniziava allora a manifestarsi.

A quattordici anni Enrico era un ragazzo mingherlino di un metro e sessantatré centimetri di statura, ma con ben tredici centimetri e mezzo di pene. Ora nessuno lo avrebbe più preso in giro, secondo l’ enciclopedia “Conoscere il corpo umano” rientrava nella media dei ragazzi italiani che andavano da tredici a diciassette centimetri.

L’altro fatto che riaccese il mio interesse fu il motivo che lo spingeva a chiedere una terapia. A lui non interessava affatto godere di più la vita sessuale, per la verità non ne aveva mai goduto e non gli importava nulla. Ogni rapporto che doveva affrontare era un compito gravoso che gli generava prima un senso di preoccupazione e dopo, se tutto era andato bene, un senso di sollievo al pensiero che poteva concedersi un po’ di tempo di pausa prima di doversi ripresentare per un nuovo esame.

Si era cacciato nella storia extraconiugale con Stefania semplicemente perché, a suo avviso, un dirigente del suo livello deve avere famiglia e figli per evitare che si pensi che sia frocio e avere un’amante che ne decanti segretamente le sue doti amatorie durante le pause pranzo.

La trappola era scattata quando si era accorto che, da un lato Stefania si stava coinvolgendo e lo chiamava a manifestazioni affettive che lo trovavano del tutto impreparato e per le quali chiedeva suggerimenti, dall’altro lei era molto più scaltra di lui sessualmente e chiedeva molto.

La percepiva come esigente e giudicante e non trovava con lei quella rassicurante routine che permettevano ai suoi tredici centimetri e mezzo di dare il meglio di sé nel letto coniugale con Rosa, nell’intervallo tra il pompino d’apertura di incoraggiamento e quello finale di ringraziamento per la prova superata.

Valutammo con lui i vantaggi e i rischi delle due alternative contrapposte dove la prima consisteva nel fare outing con tutti sulle sue difficoltà sessuali e verificare quanti davvero gli avrebbero voltato le spalle e quanti invece avrebbero continuato ad amarlo per quello che era. Il rischio era di perdere qualcuno e qualche punto di stima, ma il vantaggio era di smettere questa faticosissima rincorsa, i camuffamenti, i calcoli orari per l’assunzione di nascosto della pasticchina-salva-stima-sociale e di riportare la sessualità nella categoria dei piaceri da quella dei lavori forzati in cui si trovava.

L’altra alternativa era di continuare così, aumentando costantemente il sostegno chimico per raggiungere nuovi record. Aveva pensato anche a due exit strategy da questa seconda alternativa: una prima ipotesi prevedeva che, raggiunto l’apice della notorietà come incontenibile stallone, avrebbe potuto chiedere il trasferimento in altra sede. Lì la sua fama lo avrebbe preceduto, ma lui non si sarebbe lanciato in nessuna avventura, conservando intatto il patrimonio accumulato. La seconda ipotesi prevedeva che, un giorno, il suo cuore già malandato avrebbe ceduto durante un amplesso dopato dal viagra con la vogliosa Stefania, ma cosa c’era di meglio di un’ uscita di scena del genere? Sarebbe stato come per un attore morire a sipario aperto, il mitico Enrico che “morì sulla botta”, tanto la moglie e i figli, pur venendone a conoscenza, non avrebbero potuto fargli ritorsioni di sorta.

La terapia andò avanti per altri sei mesi fino a quando fu miracolosamente liberato: Stefania rimase incinta del suo compagno (Enrico si era vasectomizzato dopo la seconda gravidanza della moglie perché il numero giusto di figli per un dirigente è due, uno per sesso, come i suoi) e decise di porre fine alla relazione.

Mi ringraziò come gli avessi salvato la vita. Ora lui non vedeva altri motivi per continuare la terapia. Anch’io ebbi il dubbio se, più in generale, continuare la professione di psicoterapeuta, ma “ tengo famiglia”.

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