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La Depressione e il modo in cui si utilizza Internet

– Rassegna Stampa – 

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze PsicologicheUna nuova ricerca condotta alla Missouri University of Science and Technology ha analizzato l’uso di Internet tra gli studenti universitari; sembra che gli studenti depressi tendano a navigare sul web in modo più casuale degli altri, passando tra applicazioni diverse, ad esempio, utilizzando servizi di file sharing più dei loro compagni, e inviando e-mail e chattando on-line più degli altri studenti. Gli studenti che mostrano segni di depressione hanno anche la tendenza a utilizzare applicazioni a banda larga, spesso associate a video on-line e giochi.

Psicologia e Tecnologia: nuova App per Smartphones contro la Depressione. - Immagine: © 2012 Costanza Prinetti
Articolo consigliato: Psicologia e Tecnologia: nuova App per Smartphones contro la Depressione

Lo studio è il primo nel suo genere che utilizza dati reali, raccolti in internet in modo discreto e anonimo: i ricercatori hanno raccolto in forma anonima un mese di dati sul comportamento in Internet di 216 studenti universitari. Gli studenti sono stati testati anche per la presenza di segni di depressione e circa il 30 per cento di loro ha raggiunto i criteri per una depressione lieve. I ricercatori hanno poi analizzato i dati relativi al comportamento in rete e hanno scoperto che gli studenti che mostravano segni di depressione hanno utilizzato Internet in modo molto diverso rispetto agli altri partecipanti allo studio. Chellappan, ricercatore a capo dello studio, pensa che la casualità del comportamento in rete rifletta la difficoltà di concentrazione, una caratteristica associata alla depressione.

L’obiettivo di Chellappan adesso è di utilizzare questi risultati per sviluppare un software che, installato sul computer di casa, aiuti, discretamente, a determinare quando un certo modo di usare la rete può indicare segni di depressione; il software potrebbe anche consigliare di consultare un medico o informare direttamente i counselor degli studenti nei campus universitari di situazioni a rischio.

 

 

BIBLIOGRAFIA: 

  • Raghavendra Kotikalapudi, Sriram Chellappan, Frances Montgomery, Donald Wunsch and Karl Lutzen. Associating Depressive Symptoms in College Students with Internet Usage Using Real Internet Data. IEEE Technology and Society Magazine, 2012

Psichiatria Pubblica: Riaprono i Manicomi?

Sandra Sassaroli e Giovanni M. Ruggiero

 

Riaprono i Manicomi? - Immagine: © arquiplay77 - Fotolia.comL’articolo appena approvato dalla Commissione per la riforma della legge Basaglia fa già litigare molti (LINK Articolo su La Stampa). Si tratta dell’istituzione di un trattamento extra-ospedaliero senza consenso del paziente e prolungabile fino a un anno.

Gli schieramenti politici hanno già fatto esplodere il confronto, inevitabilmente con toni forti ed estremi. È vero che i rischi di una simile novità sono evidenti: il trattamento diventa definitivamente possibile senza il consenso del paziente e si può prolungare per tempi medio-lunghi, fino a un anno. È qualcosa che effettivamente può somigliare a una riapertura dei manicomi. È legittimo temere che possa essere un prima passo in quella direzione. Un rischio da cui guardarsi.

 

La chiusura dei manicomi criminali - OPG (Ospedale Psichiatrico Giudiziario) - Immagine: © victor zastol'skiy - Fotolia.com -
Articolo consigliato: La chiusura dei manicomi criminali - OPG (Ospedale Psichiatrico Giudiziario)

Però è anche vero che ogni operatore sa che questo tipo di ricovero prolungato per alcuni pazienti è inevitabile e che il consenso del paziente in questi casi non sempre è possibile. E stiamo parlando di pazienti che a volte rischiano la vitaCome ad esempio le pazienti anoressiche: le più gravi di loro, quelle che davvero sono a rischio vita, non sono consenzienti.

Inoltre il trattamento prolungato in strutture non territoriali (ovvero, senza lasciare il paziente a casa sua) nella pratica già esiste. Teoricamente esso avviene con il consenso volontariamente concesso dal paziente, almeno in termini legali. Ma da un punto di vista pratico esso prende piuttosto la forma di un dissenso non esplicito. Il paziente subisce il ricovero e le circostanze lo dissuadono dall’esporre il suo disaccordo. Paradossalmente questo può incrementare il margine di arbitrarietà, poiché il personale medico e giuridico non è obbligato a giustificare l’obbligatorietà del provvedimento di ricovero, dato che il consenso è dato per scontato. Una nuova cornice giuridica che ponga fine a questa ambiguità avrebbe un effetto positivo: obbligherebbe medici, sindaci e magistrati a dover giustificare giuridicamente in atti legali espliciti la loro decisione di ricoverare una persona contro la sua volontà.

La chiusura degli OPG: una speranza di civiltà. - Immagine: © tribalium81 - Fotolia.com -
Articolo consigliato: La chiusura degli OPG: una speranza di civiltà.

Inoltre non dimentichiamo che gli abusi del manicomio erano legati a un servizio sanitario molto più degradato e inferiore di quello attuale e una società molto più feroce di quella odierna. Una società in cui era facile e comune liberarsi di un parente fastidioso ricoverandolo in manicomio. Oggi non è più così. Oggi si parla di ricoveri di non più di un anno in comunità terapeutiche di qualità e vivibilità immensamente superiori rispetto ai vecchi manicomi. Comunità in cui il paziente ha a disposizione mille attività ricreative e ha la possibilità di uscire e passeggiare in luoghi molto migliori dei quartieri degradati di periferia in cui spesso vive ed è cresciuto. Le comunità terapeutiche moderne sono localizzate in campagna e nella prossimità di piccoli paesi nei quali socializzano con i locali. Stiamo pensando all’esperienza delle comunità terapeutiche bergamasche, nelle quali uno degli autori di questo articolo ha potuto lavorare.

Questi sono i due corni del dilemma. Per ora non aggiungiamo altro, se non la nostra attonita perplessità di fronte alla complessità di questi problemi. Siamo consapevoli che in questi casi diventa troppo facile comprendere tutte le ragioni.

Concludiamo osservando che rimane comunque giusto conservare degli argini, morali e legali, contro i rischi di abuso del ricovero coatto.

 

 

BIBLIOGRAFIA: 

Qualità di vita nei malati di Huntington

Elisabetta Caletti. Psicologa e volontaria AICH MILANO Onlus

 

Qualità di vita nei malati di . - Immagine: © fontriel - Fotolia.comAccertare la natura soggettiva del concetto di qualità di vita legato alla salute è quanto mai necessario in malattie dove la sintomatologia può portare a importanti limitazioni nello svolgersi della normale vita quotidiana. Tuttavia il grado d’impatto dei sintomi sulla vita, potrebbe variare secondo le persone, a volte in un modo non linearmente prevedibile in base alla compromissione della funzionalità motoria, cognitiva e psichica.

Nello studio di Hocaoglu et al. (2012) sono state prese in considerazione 105 coppie di pazienti e i loro caregiver, che hanno completato il questionario sulla qualità della vita correlata alla salute nella malattia di Huntington (HDQoL), uno strumento risultato valido e affidabile per quantificare l’esperienza di cura anche al fine di implementare e valutare gli interventi terapeutici, sviluppato dagli stessi autori con l’intento di cogliere il vero impatto del vivere con la malattia di Huntington. I pazienti sono stati suddivisi in gruppi, sulla base di 5 tappe principali di progressione della malattia:

  • Stadio iniziale (1) – le persone sperimentano cambiamento dell’umore e del controllo motorio mentre rimane intatta la funzionalità a casa e al lavoro
  • Stadio moderato (2 e 3) – la corea diventa più pronunciata, vengono sperimentate difficoltà nel pensiero, nel ragionamento, nel linguaggio e nella deglutizione. Gli individui possono ancora essere in grado di lavorare ma a un livello inferiore, oppure (stadio 3) non possono più lavorare e avere bisogno di assistenza nelle attività giornaliere
  • Stadio avanzato (4 e 5) – i pazienti con HD non sono più capaci di eseguire indipendentemente le attività quotidiane e richiedono l’assistenza di un caregiver a casa (stadio 4), o richiedono assistenza infermieristica (stadio 5).
Le reazioni psicologiche dei pazienti con scompenso cardiaco - Immagine: © Petr Vaclavek - Fotolia.com -
Articolo consigliato: Le reazioni psicologiche dei pazienti con scompenso cardiaco.

Nel lavoro di Hocaoglu e colleghi sono state prese in considerazione anche persone con mutazione critica ma non ancora sintomatica e persone a rischio (ossia un membro di famiglia di HD ma con status genetico non ancora conosciuto).

Lo studio ha dimostrato un buon accordo tra paziente e caregiver, soprattutto nello stadio avanzato della malattia. È tuttavia interessante notare come la correlazione tra paziente-caregiver sia più bassa nello stadio di malattia moderato rispetto agli stadi iniziali e avanzati. In particolare, i caregiver riportavano una migliore valutazione rispetto ai pazienti nelle scale “Speranze” e “Preoccupazioni” mentre riferivano una peggior percezione dello stato cognitivo, fisico e funzionale. La dimensione Speranze e Preoccupazioni potrebbe quindi essere particolarmente difficoltosa da interpretare, forse molto più interiorizzata di altre dimensioni psicosociali, che mette in luce pertanto un minore accordo paziente-caregiver rispetto a dimensioni fisiche più obiettive.

Il risultato potrebbe essere spiegato perché vi è maggiore variabilità e velocità di progressione della malattia nello stadio moderato se comparati con le altre fasi di malattia; i soggetti in questo stadio (stadi 2 e 3) sarebbero il gruppo più eterogeneo e più mutevole col tempo, costituendo così una difficoltà nei loro caregiver di formarsi giudizi stabili. Quello che emerge è che lo stadio moderato della malattia può essere particolarmente complesso per i pazienti che cominciano a sperimentare un ribasso fisico e psicologico che loro e la loro famiglia, hanno lungamente temuto. È stato anche constatato che le stime dei caregiver degli aspetti psicosociali di HrQoL risultavano sensibili allo stato psicologico dei pazienti, così come la gravità dei sintomi. Concludendo, l’indicazione HRQL da parte del caregiver non può sostituire il report del paziente nello stadio moderato della malattia; viceversa in virtù del buon accordo evidenziato nello stadio avanzato, la valutazione del caregiver con il questionario HDQoL potrebbe essere particolarmente utile e complementare al self-report. Infatti, il resoconto del caregiver potrebbe essere l’unico punto d’informazione possibile quando il paziente può non essere in grado di riportare il suo effettivo HRQL o semplicemente non essere in grado di completare il questionario a causa dell’impairment motorio o cognitivo prodotto dalla malattia nella fase avanzata.

 

 

BIBLIOGRAFIA:

Creatività Musicale e Intelligenza

Umberto Castiglione.

“Il processo creativo che interviene nell’attività artistica è curativo e arricchisce la vita”.

Creatività Musicale e Intelligenza. - Immagine: © puckillustrations - Fotolia.comNon deve sorprendere che questa idea sia costitutiva della musicoterapia, date le molte somiglianze fra processo creativo e processo terapeutico. Entrambi riguardano il trovare alternative nuove a vecchi modi di essere, pensare, sentire e interagire. Il processo creativo e quello terapeutico offrono l’occasione di esplorare e sperimentare nuove idee e modi di essere. Entrambi sono atti di innovazione , improvvisazione, trasformazione. In entrambi i processi interviene un incontro col sé più profondo: in musicoterapia l’incontro è mediato dalla musica e dall’esperienza di produrre arte.

Ritornando alla parola creatività, diversi studi e ricerche, hanno sottolineato il fatto che la creatività e intelligenza sono due funzioni distinte del pensiero: la creatività è espressione del pensiero divergente; l’intelligenza del pensiero convergente. Le caratteristiche del primo sono: mentalità aperta, insofferenza per le regole rigide, curiosità, indipendenza dal campo, flessibilità, complessità, avversione per l’ovvio e le stereotipie, abitudine a trovare problemi più che risolverli; il pensiero convergente, invece, è più regolare, più prevedibile, punta alla risoluzione del problema, è dipendente dal campo, più rigido e rispettoso delle regole, è meno fluido e meno flessibile.

Le Canzoni nei giardini che nessuno sa. Gruppo di Ascolto Musicale in Ospedale. - Immagine: © spiral - Fotolia.com
Articolo consigliato: Le Canzoni nei giardini che nessuno sa. Gruppo di Ascolto Musicale in Ospedale #1

Ormai è accertato che i diversi test di intelligenza, misurano il pensiero convergente (abitudine a trovare una soluzione ad un problema ed a prevederne le conseguenze), piuttosto che quello divergente (abitudine a trovare più soluzioni, a mettere in discussione lo stesso problema, a non accontentarsi dell’ovvio e dello scontato). Il pensiero divergente è quello che produce la creatività, quello convergente, rappresenta l’intelligenza misurata dai test. Pertanto con persone con deficit cognitivi, se stimoliamo la creatività potremo stimolare anche l’intelligenza; quindi sviluppando la creatività del bambino svilupperemo anche la sua l’intelligenza.

Nel corso della mia esperienza, ho realizzato, un programma di intervento che ha come scopo quello di insegnare ad apprendere e a pensare; l’obiettivo principe è quello di cercare di potenziare/sviluppare la struttura cognitiva sia nei soggetti non clinici sia nei soggetti con difficoltà di apprendimento, cercando di trasformare il loro stile cognitivo da passivo e dipendente in quello caratteristico di chi pensa in maniera autonoma. L’intervento ha come obiettivo quello di utilizzare il parametro “musicale” cercando di rendere il soggetto capace di apprendere nuove informazioni e di saperle utilizzare, di renderlo più efficiente nell’acquisizione di nuove tecniche e più capace di trovare vie ottimali alle risoluzioni dei problemi; in cui il soggetto viene esortato a diventare una persona, che percepisce attivamente e organizza la sua esperienza.

Il laboratorio, nasce dall’esigenza di sviluppare un apprendimento intrinseco , che miri allo sviluppo dell’auto-realizzazione della creatività della persona.(… perché egli possa aiutarsi da solo…).

Infatti come afferma E. H. Boxill lo scopo dell’educazione musicale è il raggiungimento di un’abilità musicale; mentre quello della musicoterapia, è il conseguimento di abilità di vita attraverso la modalità della musica. Nell’ambito dell’apprendimento intrinseco, si vuole dare importanza a l’essere o meglio al divenire creativi, chiamando in causa una serie di fenomeni rilevanti,come: saper progettare, pianificare , costruire, innovare, “saper fare” e “saper essere”….. che le metodologie e attività proposte, cercano di favorire.

Nel programma realizzato, vengono presentati una serie di eserciziproblem-solving, strumenti di apprendimento e giochi musicali i quali sviluppano, i diversi elementi della musica (timbro, altezza,intensità,durata…) e della teoria musicale (note, figure, pause, pentagramma, chiavi….): ogni tema sviluppa dieci stelle (dieci operazioni cognitive) rendendo quindi il soggetto più efficiente nell’acquisizione di nuove tecniche e informazioni, divenendo sempre più capace di trovare vie ottimali nel fronteggiare le diverse situazioni problematiche quotidiane. Le numerose attività musicali realizzate, sono utilizzate con il fine di aiutare la persona ad acquisire e trasferire determinati processi e strategie cognitive in altri ambiti di apprendimento e nelle diverse esperienze di vita, apprendendo quindi uno stile di vita che miri verso l’auto-realizzazione (…affinché egli possa aiutarsi da solo…)

Una scuola che educa a essere se stessi, anzi a “diventare” se stessi : a sviluppare al meglio le proprie risorse e le proprie tipicità affettive, intellettive, fisiche, estetiche, etiche, pratiche; dunque a costruire la propria autonomia. Il paradigma dinamico è un modello “autonomizzante”: aspira a far conquistare e padroneggiare i “mezzi” (10 operazioni cognitive) per orientarsi nel mondo, per agire positivamente, per compiere le proprie scelte, per decidere, per realizzarsi. Punta sulla realizzazione dell’io autentico, sull’intenzione critica con gli altri, sul cambiamento.

A noi tocca fornire all’allievo sia strumenti mentali, sia materiali diversi fra loro (fino al limite del brain-storming) tra i quali esercitare scelte per sviluppare il suo senso critico. Quanto la creatività musicale sia veicolo primario per la conquista dell’autonomia lo suggerisce il concetto di “Metacultura”; un’educazione metaculturale viene cioè a coincidere con la costruzione di uno spirito critico, antidogmatico. Si diventa autonomi, dunque , se si impara a decidere in proprio, a trovare soluzioni personali ai problemi, a offrire spazi espressivi alla propria interiorità.

In una parola a essere creativi !

 

 

BIBLIOGRAFIA

  • Malchiodi, A. (2009). Arteterapia: L’arte che cura. Giunti: Firenze
  • Boxill, E. (1991). La musicoterapia per bambini disabili. Omega: Torino.
  • Abbruzzese, A. (2000). Imparare dalle differenze. Suma: Bari

 

Contatta l’autore: [email protected] 

L’immagine di sé, la Pressione Sociale e i Disturbi Alimentari

– Rassegna Stampa – 

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze PsicologicheUn team di ricercatori della University of Arizona ha studiato i fattori che aiutano le donne ad avere un immagine del proprio corpo positiva allo scopo di prevenire il rischio di disturbi alimentari, così diffusi in molte culture occidentali contemporanee.

Lo studio si è concentrato sulle giovani studentesse del college, nella realtà sociale del college infatti l’apparenza è molto valorizzata e il continuo confronto con i pari può facilmente suscitare vergogna, imbarazzo e timidezza.

301 ragazze al primo anno di college hanno compilato questionari basati sul modello teorico Choate (Choate Theoretical Model), secondo questo modelloi il sostegno della famigla, insieme alla scarsa pressione per l’adeguamento a canoni estetici di bellezza, sono correlati al rifiuto dell’ideale di perfezione femminile, alla valorizzazione della abilità fisica e all’uso di strategie efficaci per contrastare lo stress; questi fattori sarebbero a loro volta associati al benessere e a un auto-immagine positiva.

I ricercatori hanno quindi applicato il modello Choate alla situazione di ‘vita reale’ e, come previsto dal modello, hanno visto che le ragazze che godevano di un buon supporto familiare, ed erano al riparo dalla pressione sociale e culturale di familiari, amici e media per il raggiungimento di canoni estetici di bellezza ideale, avevano effettivamente un’auto-immagine corporea migliore; le stesse ragazze hanno inoltre respinto l’ideale di superwoman e si sono dimostrate attrezzate delle competenze necessarie per affrontare lo stress.

Secondo gli autori questo studio fornisce alcune indicazioni per i programmi di prevenzione dei disturbi alimentari giovanili, che dovrebbero porsi l’obiettivo di aiutare le ragazze a prendere coscienza delle aspettative molteplici e spesso contraddittorie che la società contemporanea propone; insegnando loro ad utilizzare adeguate capacità di coping e promuovendo il senso positivo di competenza attraverso l’esercizio fisico e la salute psico-fisica. Aiutandole quindi a sviluppare un senso di autostima che non si basi solo sull’apparenza, ma che sia in grado di far fronte alle pressioni derivanti dalla famiglia, dagli amici o dai media.

 

 

BIBLIOGRAFIA: 

Affidamento condiviso: figli più sicuri ed equilibrati

 

Affidamento condiviso: figli più sicuri ed equilibrati. - Immagine: © pressmaster - Fotolia.comAttualmente sempre più frequenti sono le separazioni, i divorzi, le famiglie allargate e nel mondo occidentale il principio della bigenitorialità viene applicato con sempre maggiore vigore e intensità. 

Questo a partire dalla Convenzione sui diritti del fanciullo, fatta a New York il 20 Novembre 1989. Nel nostro paese, solo attraverso un lavoro faticoso, costato 4 legislature, si è riusciti a fare passare come forma prediletta l’affidamento condiviso. Uno degli ultimi disegni di legge, in Italia, relativo all’affidamento condiviso dei figli di genitori separati, risale al 16 novembre 2010 (ddl 2454). I punti salienti del nuovo disegno di legge comprendono:

A. Diritto del minore ad un rapporto effettivamente equilibrato con entrambi i genitori; cosa che non si realizza se il figlio trascorre con uno di essi poco più di un fine settimana al mese.

B. Presenza di un doppio domicilio; ovvero percepire come propria sia la casa del papà sia quella della mamma.

C. È importante che il minore percepisca che entrambi i genitori provvedono ai suoi bisogni, anche di tipo economico; quindi ricevere cura e accudimento da entrambi nella quotidianità.

D. Effettuare un percorso di mediazione parentale, prima che cominci la parte contenziosa.

 

Non imparo perché sono pigro o per dire qualcosa a mamma e papà? - Immagine: © olly - Fotolia.com -
Articolo consigliato: Non imparo perché sono pigro o per dire qualcosa a mamma e papà?

Questo passaggio legislativo è molto importante, se ben applicato, per la tutela e la salute dei figli di genitori separati.

Il minore oggi si trova all’interno di un percorso di crescita che comporta molte incertezze, per tale motivo è importante che possa fare riferimento in maniera indistinta ad entrambi i genitori. Molto spesso accade che in seguito alla separazione il figlio venga affidato in maniera prevalente ad uno dei due genitori (genitore “collocatario”, quindi prevalente nella cura e nel mantenimento del minore). Questo fenomeno può portare il minore ad identificare il genitore collocatario come unica figura di riferimento e ciò può ridurre la capacità genitoriale nell’affrontare l’incertezza evolutiva del bambino/ragazzo; può accadere infatti che l’altro genitore abbia poi difficoltà ad intervenire ed agire in modo efficace quando ad esempio il genitore di riferimento non è stato in grado di gestire aspetti critici nella cura, educazione e mantenimento del figlio/a.

Per questo motivo è importante promuovere il principio della bigenitorialità: la stabilità del minore non è data dalla stabilità logistica (cioè il fatto che il minore abbia come punto di riferimento una sola casa) ma dalla possibilità di poter godere nella quotidianità della presenza equilibrata di entrambi i genitori.

Tra gli studi più significativi possiamo riportare uno studio francese (G. Poussin, E Martin, 1999) il quale attesta che sono i bambini che vivono con entrambi i genitori a percepirsi più sicuri di se stessi se comparati con bambini che vivono con un solo genitore. In particolare, lo studio evidenzia come i bambini che vivono in un regime di residenza alternata abbiano livelli di autostima maggiori rispetto ai bambini che vivono in residenza monoparentale.

Altro studio interessante è quello condotto da Robert Bauserman per il Dipartimento della Salute Statunitense (Bauserman, 2002) nel quale sono stati analizzati un ampio numero di bambini residenti con un solo genitore e bambini con residenza alternata. L’indagine attribuisce ai bambini in residenza alternata un comportamento più adeguato rispetto alle norme scolastiche, un maggiore livello di autostima e una maggiore soddisfazione rispetto alle loro relazioni familiari.

Infine vi sono diversi studi, tra cui quello di Anna Sarkadi (2008) i quali mettono in evidenza come il coinvolgimento paterno, inteso come tempo di coabitazione, impegno e responsabilità, abbia influenze positive sullo sviluppo dei figli. In tale studio il coinvolgimento dei papà sembra migliorare lo sviluppo cognitivo, diminuire la delinquenza giovanile e ridurre la frequenza di problemi connotati come “comportamentali”.

 

BIBLIOGRAFIA:

  • G. Poussin, E.Martin Leubern “Consequences de la sèparation parentale chez l’enfant”, Editore Eres, 1999.
  • R. Bauserman, Child adjustament in Joint-Custody versus Sole Custody, Journal of family psychology, vol 16, March 2002.
  • Anna Sarkadi et al., Father’s involvement and children developmental outcomes: a systematic review of longitudinal studies, Acta Pediatrica 2008.

Il sé-concettualizzato: la maschera (scomoda) che indossiamo

 

Il sé-concettualizzato: la maschera (scomoda) che indossiamo. - Immagine: © olly - Fotolia.comVi è mai capitato di… dimenticare alcuni oggetti in giro? Non ascoltare ciò che viene detto da un’altra persona (magari qualcosa di importante)? Camminare mentre parlate al cellulare? Mangiare qualcosa guardando la tv e leggendo il giornale? Percorrere una strada a noi arcinota sovrappensiero, in modo automatico? Pensare a qualcosa che non sta succedendo in quell’esatto momento in cui la pensate? Non ricordarsi il nome di una persona che si è appena presentata?

Bene, benvenuti nel mondo degli sbadati, “senza testa”!

La quotidianità di tutti noi è fondata su queste piccole (e grandi) distrazioni. Freud li chiamerebbe “atti mancati, oggi noi cognitivisti le chiamiamo esperienze di “mindlessness”: letteralmente “senza mente”. Più precisamente, potremmo definire la mindlessness quell’insieme di comportamenti e/o pensieri che noi mettiamo in atto senza essere del tutto consapevoli a noi stessi nel momento stesso in cui li mettiamo in atto. Quando rifletto sulle mie (e dei miei pazienti) piccole esperienze di mindlessness, mi trovo a chiedermi sempre la stessa cosa:

E’ possibile che queste esperienze di mindlessness le mettiamo in atto anche quando ci troviamo a ricoprire un ruolo, ripetuto ricorsivamente a cui, sebbene dannoso per noi stessi, ci affezioniamo, nonostante ci porti talvolta solo molta sofferenza?

Il Controllo è il Problema, non la Soluzione. - Immagine: © somenski - Fotolia.com
Articolo consigliato: Il Controllo è il Problema, non la Soluzione.

Cercherò di spiegarmi meglio. Quante volte ci troviamo a sentire frasi del tipo: “sono sempre il solito stupido, il solito casinista, il solito pasticcione, il solito depressone, il solito ansioso, il solito guastafeste etc…

Queste sono le nostre trappole (o Schemi Maladattivi Precoci), per usare un termine da Schema Therapy (Young et al., 2003) o per dirla con Steven Hayes (2003), è il nostro sé-concettualizzato, la nostra maschera, talmente incollata alla pelle del nostro viso che ci scordiamo di averla addosso e diventa i nostri occhi, le nostre orecchie e la nostra bocca.

In breve, il sé concettualizzato contiene una descrizione complessa di noi stessi, a cui ci siamo affezionati e che presto diventa così cristallizzato che noi lo scambiamo per la realtà assoluta. Quindi, una problematica come un problema d’ansia (ma vale veramente per qualsiasi tipo di difficoltà) si trasforma nel sé concettualizzato “io sono un ansioso” e non importa quante esperienze io faccia in cui non ho provato quell’ansia forte e spaventosa, io continuo a descrivermi verbalmente con “io sono un ansioso”.

Pensiamo anche ad altri tipi di descrizioni di tipo “sé concettualizzato” come “il figlio debole”, “quello che nelle relazioni lascia/è lasciato”, “quello che se la cava da solo”, “quello con la testa sulle spalle” e pensiamo a quanto il linguaggio contribuisce a creare questa “narrativa” di sé, in cui il passato il presente e il futuro, alla fine del processo, si confondono e si fondono in una descrizione di sé a cui ci affezioniamo ma che spesso è molto poco utile a ciò che vogliamo per la nostra vita, ai nostri valori personali e alle nostre risorse.

In che modo può essermi utile fondermi con un pensiero del tipo “sono un fallito” per impegnarmi a non esserlo più?

A questo punto sorge una seconda questione: se io leggo la realtà attraverso gli occhiali di una maschera a cui sono affezionato e che però mi ha sempre fatto soffrire, che cosa traggo dall’esperienza che faccio ogni giorno, momento per momento? Probabilmente leggerò solo ciò che i limiti della mia maschera mi permettono e mi concedono di leggere… e questo non può che farmi perdere tanto delle mie esperienze e più in generale della vita.

 

 

BIBLIOGRAFIA: 

  • Hayes, Steven C.; Kirk D. Strosahl, Kelly G. Wilson (2003). Acceptance and Commitment Therapy: An Experiential Approach to Behavior Change. The Guilford Press. ISBN 1-57230-955-5.
  • Young, J.E., Klosko, J.S., & Weishaar, M. (2003).  Schema Therapy: A Practitioner’s Guide.Guilford Publications: New York.

 

I Disturbi mentali in Italia: Numeri e Dati.

 

I Disturbi Mentali in Italia 

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze PsicologicheIn Italia, studi recenti (2001)condotti sia a livello nazionale che locale, hanno mostrato che la prevalenza annuale dei disturbi mentali nella popolazione generale è dell’8% circa ed un recente sondaggio, condotto su un campione di psichiatri italiani, ha riscontrato un aumento rispetto a dieci anni fa della frequenza con cui vari disturbi mentali giungono all’osservazione clinica. Anche in Italia, come in altri Paesi industrializzali, i disturbi mentali costituiscono una delle maggiori fonti di carico assistenziale e di costi per il Servizio Sanitario Nazionale; si presentano in tutte le classi d’età, sono associati a difficoltà nelle attività quotidiane, nel lavoro, nei rapporti interpersonali e familiari e alimentano spesso forme di indifferenza, di emarginazione e di esclusione sociale.

Studio del 2001 di Tansella e De Girolamo: DOWNLOAD PDF

 

I Disturbi Alimentari in Italia: (Dati forniti da ProYouth)

  • I disturbi alimentari compaiono con la maggiore frequenza durante l’adolescenza o la prima età adulta, ma possono anche svilupparsi durante l’infanzia o nella tarda età adulta. Le donne e le ragazze hanno maggiori probabilità dei maschi di sviluppare un disturbo alimentare, ma anche i ragazzi e gli uomini possono presentare qualsiasi tipo di disturbo alimentare.
  • Anoressia nervosa: tra lo 0.3 e l’1% delle giovani donne sono anoressiche (il che rende l’anoressia diffusa quanto l’autismo)
  • Bulimia nervosa: dall’1 al 3% delle giovani donne presenta bulimia nervosa
  • Disturbo da alimentazione incontrollata: circa il 3% della popolazione presenta questo disturbo
  • Tra il 4% e il 20% delle giovani donne presenta schemi alimentari non sani come stare a dieta, mettere in atto comportamenti di eliminazione e abbuffarsi.
  • Attualmente, circa una giovane donna su 20 nella popolazione generale ha un disturbo alimentare

 VISITA IL SITO DI PROYOUTH

 

I Disturbi di Personalità in Lombardia (Dati 2009-2011)

Dati tratti dalla tesi di laurea magistrale:  “Metodologia clinica dei disturbi di personalità” di Milko Prati

 

Riportiamo di seguito una tabella riepilogativa dei dati, triennio 2009-2010-2011 e il numero di soggetti che hanno ricevuto una diagnosi di disturbo di personalità.

 

Anno

Numero persone ricorse al CPS

Diagnosi di Disturbo di personalità

Incidenza % Disturbi di personalità

2009

1.017

78

7,67

2010

1.024

77

7,52

2011

851

66

7,76

 

 

 

Incidenza percentuale DDP Maschi vs Femmine

 

Anno

Maschi

Femmine

Totale

Maschi diagnosi DDP

Incidenza % DDP

Femmine diagnosi DDP

Incidenza % DDP

2009

375

642

1.017

36

9,60

42

6,54

2010

372

652

1.024

35

9,41

42

6,44

2011

283

568

851

36

12,72

30

5,28

 

 

Incidenza percentuale per fascia d’età

 

 

2009

2010

2011

Età

Totale M/F

Diagnosi DDP

% DDP

Totale M/F

Diagnosi DDP

% DDP

Totale M/F

Diagnosi DDP

% DDP

< 24

131

10

7,63

125

17

13,60

86

15

17,44

24/34

246

24

9,76

267

22

8,24

248

10

4,03

35-44

230

15

6,52

251

21

8,37

215

21

9,77

45-54

158

17

10,76

174

10

5,75

105

12

11,43

55-64

97

8

8,25

89

5

5,62

79

5

6,33

> 64

155

4

2,58

118

2

1,69

118

3

2,54

Totale

1.017

78

7,67

1.024

77

7,52

851

66

7,76

 

 

 

Anno 2009

Nel corso del 2009 le tipologie di disturbo di personalità maggiormente diagnosticate sono state le seguenti.

A seguito delle evidenze riscontrate, abbiamo ritenuto utile approfondire il livello dell’analisi indagando le percentuali di incidenza dei disturbi, sia nelle diverse fasce d’età che in rapporto alla differenza di genere. Abbiamo, in un primo momento, analizzato la situazione dei soggetti maschi suddividendoli per fascia d’età e, successivamente, la stessa modalità è stata seguita per le femmine.

Com’è possibile rilevare dai risultati emersi, si è confermata anche per i soli soggetti maschi la prevalenza delle diagnosi di Disturbo non specificato di personalità (33,33%), Disturbo paranoide di personalità (25,00%) e Disturbo borderline di personalità (16,67%).

Di rilevante importanza è anche il fatto che detti disturbi si sono concentrati nella fascia d’età 24/34, registrando una percentuale di incidenza pari a 38,89%.

Anno 2010

L’analisi delle incidenze percentuali dei disturbi riferite alle femmine, ha evidenziato un cambiamento rispetto alla graduatoria presentata in occasione dell’analisi dei dati aggregati, infatti le incidenze delle tipologie di disturbi di personalità maggiormente diagnosticati sono stati:

  • Disturbo paranoide di personalità, 11 casi pari al 26,19%

  • Disturbo borderline di personalità, 7 casi pari al 16,67%

  • Disturbo non specificato di personalità, 7 casi pari al 16,67%

 

Anno 2011

Nel corso del 2011 le tipologie di disturbo di personalità maggiormente diagnosticate sono state le seguenti.

  • Disturbo non specificato di personalità, 16 casi pari al 24,24%

  • Disturbo paranoide di personalità, 14 casi pari al 21,21%

  • Disturbo borderline di personalità, 9 casi pari al 13,64%

Le incidenze percentuali delle tipologie di disturbi di personalità maggiormente diagnosticati sono stati:

  • Disturbo borderline di personalità, 8 casi pari al 26,67%

  • Disturbo paranoide di personalità, 7 casi pari al 23,33

 

Le incidenze percentuali dei disturbi rispetto alle fasce d’età sono risultate distribuite maggiormente tra le fasce < 24, 24/34 e 35/44 rispettivamente con la presenza di 8 casi pari al 26,67%, 6 casi pari al 20,00% e 8 casi pari al 26,67%.

Riassumendo (totale di tutto), i risultati della prima parte dell’analisi consentono di affermare quanto segue.

  • Sostanziale stabilità dell’incidenza dei disturbi di personalità nei soggetti che hanno fatto ricorso ad una prestazione presso gli enti afferenti la struttura ospedaliera Niguarda.

  • Maggiore incidenza dei disturbi di personalità nei maschi rispetto alle femmine, nonostante un numero maggiore di femmine abbia richiesto una consultazione.

  • Incremento delle diagnosi di disturbo di personalità nella fascia d’età di soggetti con meno di 24 anni e decremento dell’incidenza percentuale di detti disturbi nella fascia d’età
    24-34.

 

Riassumendo, i risultati della seconda parte dell’analisi consentono di affermare quanto segue.

  • Complessivamente, nel corso del triennio 2009-2010-2011, le tipologie di disturbo di personalità maggiormente diagnosticate sono state il Disturbo non specificato di personalità, il Disturbo paranoide di personalità e il Disturbo borderline di personalità.

  • Negli anni 2009 e 2010 si è registrato un andamento pressoché costante delle tipologie di disturbo di personalità diagnosticate con maggiore frequenza, valutando anche separatamente il gruppo dei maschi da quello delle femmine.

  • Nel corso dell’anno 2011 si è registrata una differenza tra i due gruppi di soggetti: nel gruppo dei maschi il Disturbo borderline di personalità ha avuto un peso minore mentre sono stati maggiormente diagnosticati il Disturbo non specificato di personalità e il Disturbo paranoide di personalità; nel gruppo delle femmine è diminuita l’incidenza percentuale del Disturbo non specificato di personalità mentre sono aumentate quelle dei disturbi borderline e paranoide di personalità.

 

Ictus e mortalità maschile: il TMT test

– Rassegna Stampa – 

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze PsicologicheNonostante i progressi di trattamento, l’ictus è ancora oggi una delle principali cause di morte e disabilità. Ma un semplice drawing-test può predire il rischio di morte dopo un primo ictus tra gli uomini più anziani.

Il team di ricercatori ha analizzato i dati del Uppsala Longitudinal Study, che ha monitorato i diversi fattori di rischio per malattie cardiache e ictus in un campione di 2322 uomini dai 50 anni di età in poi. Lo studio attuale si basa su un più ristretto campione di 1000 tra questi uomini, di età compresa tra i 65 e i 75 anni, che non avevano avuto infarti e la cui capacità cognitiva è stata valutata al momento della selezione con il Trail Making Test (TMT), e il Mini Mental State (MMSE), test ampiamente usato per testare per la demenza.

Il TMT consiste nel tracciare con una matita il più rapidamente possibile delle linee tra numeri e/o lettere in ordine crescente, mentre il MMSE valuta attività cognitive generali come l’orientamento, la memoria e calcolo.

Durante i 14 anni di monitoraggio, dal 1991 al 2006, 155 uomini hanno avuto un primo ictus maggiore o minore, conosciuto come TIA (attacco ischemico transitorio). Poco più della metà di loro (84, 54%) sono deceduti dopo in media di 2,5 anni, e 22 morti entro un mese dell’infarto.

L’analisi dei risultati indica che, tenendo conto dei fattori di rischio noti, come l’età avanzata, l’ipertensione, l’istruzione e il background sociale, coloro che avevano eseguito male il TMT avevano più probabilità di essere morti.

Gli uomini i cui punteggi al drawing-test sono stati inferiori al 30% hanno avuto tre volte più probabilità di morire dopo l’ictus di quelli che hanno superato il 30%. Nessuna correlazione invece tra mortalità e punteggi bassi al MMSE.

Secondo i ricercatori è probabile che il TMT rilevi menomazioni cognitive latenti, causate dalla malattia cerebrovascolare silenziosa, cioè che non ha ancora sintomi evidenti.

I TMT test sono facilmente disponibili e, anche se non possono essere utilizzati come strumenti per identificare il rischio di ictus, possono però essere considerati importanti predittori di mortalità dopo che questo ha avuto luogo. Avere a disposizione uno strumento predittivo affidabile potrebbe anche migliorare le informazioni fornite ai pazienti e ai loro familiari.

 

 

BIBLIOGRAFIA:  

Disgusto o umanità? Contro l’Omofobia

Giornata Internazionale contro l’Omofobia e la Transfobia

Video: Disgusto o Umanità? Contro l’Omofobia.

 

Le persone omosessuali sono sempre state oggetto della “politica del disgusto”.

Un disgusto che si oppone alla nostra umanità e la annienta. È giunto il momento di promuovere la “politica dell’umanità”, in nome dell’uguaglianza, del rispetto, dell’immedesimazione.

Oppure preferiamo coltivare paura, disprezzo e ostilità che ci rendono violenti e ingiusti, al punto da negare alle nostre concittadine lesbiche e ai nostri concittadini gay diritti fondamentali, come quello di sposarsi?

Una libertà che Hannah Arendt, nel 1959, quando in America ferveva il dibattito sul matrimonio interrazziale e anche allora si levavano voci indignate, ha definito “un diritto umano elementare”.

Una libertà su cui Barack Obama si è recentemente espresso: “le coppie dello stesso sesso dovrebbero potersi sposare”.

In questo video, la filosofa Martha Nussbaum (autrice di “Disgusto e umanità”, il Saggiatore), l’attrice Lella Costa, lo psichiatra e psicoterapeuta Vittorio Lingiardi, la filosofa Nicla Vassallo, l’attore e regista Ascanio Celestini, il giurista Stefano Rodotà testimoniano a favore dei diritti umani e civili delle persone lesbiche, gay, transgender.

Il video (regia di Serena Gargani, lettering di Francesca Biasetton) è realizzato da Genova Palazzo Ducale-Fondazione per la cultura, in occasione della Giornata Internazionale contro l’Omofobia e la Transfobia (17 maggio 2012).

Vittorio Lingiardi

 

BIBLIOGRAFIA:

 

ARTICOLI CONSIGLIATI:

Recensione di Sviluppi traumatici (2011) di Liotti e Farina.

 

Sviluppi traumatici di Giovanni Liotti e Benedetto Farina è la più recente esposizione del modello di terapia cognitiva-evoluzionista.

Sviluppi Traumatici, Eziopatogenesi, clinica e terapia della dimensione dissociativa. Liotti G. Farina B. (2011). Cortina Editore. - Immagine: Copertina, Raffaello Cortina Editore
Sviluppi Traumatici, Eziopatogenesi, clinica e terapia della dimensione dissociativa. Liotti G. Farina B. (2011). Raffaello Cortina Editore.

Il libro è uscito nel 2011 per Cortina editore. In questa edizione gli autori riespongono, sviluppandoli, i principi strutturali di questo modello: l’attenzione per le basi neurali ed evolutive dell’attività mentale e dei suoi disturbi, il tentativo di conciliare queste basi con una visione cognitiva e quindi rappresentazionale e computazionale dell’attività mentale e infine la proposta della dissociazione come processo patologico centrale.

Il merito principale dell’ipotesi evoluzionista è di tenere conto che, dopo i più recenti modelli connessionisti costruiti con i dati provenienti dallo studio neuroanatomico del cervello, non è più possibile mantenere un modello teorico puramente computazionale della mente, sia nella forma del computazionalismo clinico e un po’ ingenuo di Beck che nelle forme sofisticate del primo Fodor. Inoltre, lo sforzo del secondo autore Farina è stato di avere aggiunto alla passione teorica di Liotti l’attenzione per la clinica e per il processo terapeutico.

Recensione di “La Svolta Relazionale” di Lingiardi, Amadei, Caviglia e De Bei. - Immagine: Raffaello Cortina Editore
Articolo consigliato: Recensione di “La Svolta Relazionale” di Lingiardi, Amadei, Caviglia e De Bei.

La terapia, per Liotti e Farina, rispecchia la loro ipotesi psicopatologica. Il disturbo emozionale deriva da uno sviluppo emotivo non corretto, favorito da una relazione di accudimento dolorosa se non addirittura traumatica. Questa dolorosa situazione relazionale ed emotiva genera un mancato sviluppo cognitivo delle funzioni superiori, cosicché il soggetto non è in grado di gestire piani di vita complessi che soddisfino i bisogni individuali. La conseguenza è lo sviluppo di vari disturbi emotivi che oscillano dall’ansia fino ai casi più gravi dell’impulsività e della dissociazione.

Ma questo libro ha anche un altro merito: questa volta Liotti e Farina hanno compiuto un significativo passo avanti nel loro percorso di definizione di quali siano i principi pratici ed esecutivi della terapia cognitivo-evoluzionista. Liotti e Farina sottolineano il valore curativo della relazione interpersonale paritetica tra terapeuta e paziente, relazione che poi innescherebbe la crescita di facoltà metacognitive più sofisticate di quelle a disposizione del paziente prima della terapia. Questo principio terapeutico è sicuramente utile e empiricamente forte e si ricollega al precedente libro di area cognitivo-evoluzionista, il Manuale AIMIT di Liotti e Monticelli (2008). In quel libro era particolarmente apprezzabile la volontà di definire le interazioni armoniche e disarmoniche in terapia.

Wells: Terapia Metacognitiva dei disturbi d'Ansia e della Depressione. Recensione a cura di Gabriele Caselli. - Immagine: Eclipsi Editore
Articolo consigliato: Recensione di Terapia Metacognitiva dei disturbi d’Ansia e della Depressione. (A. Wells)

Dal punto di vista clinico credo che l’aspetto più sofisticato della proposta di Liotti e Farina sia la loro distinzione tra funzione cooperativa e paritetica della terapia e funzione di accudimento. Questa distinzione fa si che la terapia non si riduca mai a una semplice rigenitorializzazione vicaria. Cooperare è un’attività da pari a pari e non corrisponde ad accudire.

Il passo successivo che ci aspettiamo da Liotti e Farina è un manuale ancora più pratico e dettagliato di gestione della relazione terapeutica sulla base dei sistemi motivazionali. In ogni caso, “Sviluppi traumatici” è già un passo avanti verso una maggiore definizione terapeutica di di una linea di riflessione teorica e di ricerca empirica ormai matura.

 

 

BIBLIOGRAFIA: 

 

L’effetto del Pensiero Desiderante sull’esperienza di Craving

 E il pensiero si fa voglia

e la voglia si fa desiderio

e il desiderio si fa bramosia

e la bramosia si fa cedimento

mentre inerte ed impotente

guardi la tua debolezza

prendere il sopravvento.

M.S.

QUESTO ARTICOLO E’ UNA PRESENTAZIONE DELLA RICERCA: The effect of desire thinking on craving: an experimental investigation. RIPORTATA IN BIBLIOGRAFIA.

L’effetto del Pensiero Desiderante sull’esperienza di Craving. - Immagine: © Stuart Miles - Fotolia.comIl pensiero desiderante viene identificato come un processo di pensiero volontario, che orienta il soggetto a prefigurarsi immagini, informazioni, a risalire a memorie
e ricordi relativi ad un’esperienza, attribuendo a questa una valenza positiva (Caselli, Spada, 2010).

Quando si parla di craving si fa riferimento ad una forte pulsione soggettiva a raggiungere l’oggetto desiderato (May, Andrade, Panabokke, Kavanagh, 2004). Identificato come appetizione compulsiva patologica, il craving è stato considerato da sempre all’interno dell’ambito delle dipendenze patologiche anche se ad oggi non esiste ancora una definizione chiara ed univoca. Pensiero desiderante e craving possono essere visti come due processi separati dove il primo rappresenta uno stile cognitivo ed il secondo un’esperienza motivazionale ed automatica. Ciò che affascina del pensiero desiderante è che questo consente di pregustare l’ottenimento dell’oggetto attraverso la creazione di immagini mentali, pensieri verbali, e ricordi. Sono questi infatti che danno sapore e colore al pensiero; un soddisfacimento puramente mentale, virtuale che viene vissuto come reale, viene sentito nella carne, ed è proprio la vividezza delle immagini mentali che rende possibile tutto questo.

Concedersi le Preoccupazioni per non Rimuginare. - Immagine: © Dawn Hudson - Fotolia.com
Articolo consigliato: Concedersi le Preoccupazioni per non Rimuginare.

Infatti più un immagine è vivida, più nella persona si genereranno reazioni emotive e fisiologiche intense da cui scaturisce una tensione fisica. Le immagini mentali pare giochino un ruolo chiave in questo processo in quanto hanno un forte ascendente sul craving, attivano una serie di emozioni e motivano l’ individuo al passaggio all’atto. A partire proprio da questa ipotesi si è voluto indagare, attraverso la manipolazione del soggetto, e delle sue immagini mentali, se queste portassero delle modifiche all’esperienza di craving.

È stato così messo a punto un disegno sperimentale (Caselli, Soliani, Spada, 2012) a cui hanno preso parte 48 studenti universitari suddivisi in tre gruppi (Pensiero desiderante, Distrazione, Ragionamento verbale).

Le ipotesi che stanno alla base di questa ricerca sono le seguenti:

1. L’induzione del pensiero desiderante potrebbe avere un impatto maggiore sul craving rispetto al ragionamento verbale focalizzato sull’oggetto del desiderio o alla distrazione

2. L’influenza del pensiero desiderante potrebbe mantenere dei livelli alti anche in seguito alla resting-phase

3. L’effetto del pensiero desiderante sul craving è indipendente dal livello di stress percepito

4. L’attivazione del pensiero desiderante durante i tre giorni d’astinenza potrebbe portare un innalzamento maggiore del livello di craving rispetto alla distrazione o al ragionamento verbale.

Una volta che il soggetto ha scelto un attività dalla quale dovrà astenersi per i tre giorni a seguire, prende il via la prima parte dell’esperimento. Compila una batteria di questionari (General Craving Scale, Desire Thinking Questionnaire , Metacognitive Desire Thinking Questionnaire), in seguito viene sottoposto ad un compito di induzione che consiste in un audio registrazione volta a stimolare, a seconda della condizione di appartenenza, pensiero desiderante, ragionamento verbale, o a distrarre lo studente. In seguito, per liberare la mente da ogni pensiero, viene invitato a giocare a tetris. Dopo ogni fase di questa prima parte viene invitato a compilare delle check-list volte ad indagare il livello di craving corrente e il livello di stress percepito. A questa prima parte dell’esperimento ne segue una seconda in cui i soggetti si sono astenuti per tre giorni dall’oggetto, o dall’attività, da loro indicata e al termine di ogni giornata hanno compilato un diario atto ad indagare il livello di craving corrente.

Psicoterapia cognitiva: le dipendenze patologiche e il lato oscuro del desiderio. - Immagine: © Andrea Danti - Fotolia.com
Articolo consigliato: Psicoterapia cognitiva: le dipendenze patologiche e il lato oscuro del desiderio

Dalla prima parte dell’esperimento è emerso che solo nella condizione di pensiero desiderante i livelli di craving aumentano notevolmente in seguito alla manipolazione e decrescono altrettanto in seguito alla resting-phase (fase di riposo). Questo ci consente di dire che la manipolazione ha avuto effetto e che quindi il pensiero desiderante ha effettivamente influito sul craving. È emerso inoltre che i risultati sono indipendenti da una variazione nei livelli di stress percepito. Tuttavia l’ipotesi per cui l’influenza del pensiero desiderante potrebbe mantenere dei livelli alti anche in seguito alla resting-phase non viene confermata. Potremmo dare una spiegazione di ciò facendo riferimento al fatto che il campione non è clinico, pertanto i soggetti che non hanno problemi a gestire la propria esperienza di craving, potrebbero riuscire ad interrompere con minore difficoltà il processo di attività desiderante una volta cessata l’induzione sperimentale. Questo consente di dare una spiegazione logica ai risultati ottenuti, e di affermare che l’assenza di un controllo flessibile sull’attività desiderante potrebbe rappresentare la caratteristica principale di un esperienza di craving patologica.

Dalla seconda parte dell’esperimento è emerso che, nella condizione di distrazione, si ha un aumento costante dei livelli di craving durante i tre giorni; questo consente di dire che l’uso della distrazione potrebbe portare ad una diminuzione dei livelli di craving a breve termine, mentre, a lungo termine, potrebbe divenire una strategia di coping che consente di raggiungere una negazione cognitiva ed emozionale, che potrebbe interferire coi processi emozionali ed aumentare il numero di pensieri intrusivi relazionati a specifici target attraverso un effetto di ripercussione (Davies & Clark, 1998).

Il contributo apportato da questa ricerca è stato quello di dimostrare che, in un campione rappresentativo di una popolazione non clinica, il pensiero desiderante ha avuto un impatto sull’esperienza di craving maggiore rispetto a quello di altre forme di pensiero che riguardano comunque oggetti e/o attività desiderate, ed inoltre è indipendente da una variazione nei livelli di stress percepito. Questi risultati sostengono pertanto la concettualizzazione che vede il pensiero desiderante come fattore di rischio in quei soggetti che mostrano una tendenza a condotte quali la dipendenza ed il discontrollo degli impulsi. Se quanto osservato in questo studio verrà confermato anche in ricerche future allora potrà rappresentare un contributo per il trattamento delle dipendenze in psicoterapia.

 

ABSTRACT:  

Desire thinking is a voluntary cognitive process involving verbal and imaginal elaboration of a desired target. Recent research has revealed that desire thinking and craving are distinct constructs and that desire thinking may play a significant role in the escalation of craving. The goal of this study was to explore the effect of desire thinking induction on craving in a nonclinical sample. Forty-five volunteers with no current diagnosis of psychological disorders chose a desired activity and were randomly allocated to three thinking manipulation tasks: distraction, verbal reasoning, and desire thinking. Craving was measured before and after manipulation and during a 3-day period of abstinence from the desired activity. Findings showed that desire thinking had a significant effect on craving after manipulation. This effect appeared to be independent of baseline levels of craving and desire thinking as well as perceived stress changes during the manipulation. Both distraction and verbal reasoning inductions did not lead to a significant change in craving. Desire thinking impacts craving and is a risk factor for craving-related problems.

 

 

BIBLIOGRAFIA:

  • Caselli G., Spada M., (2010) Metacognition in desire thinking: A preliminary investigation, Brief clinical report. Behavioural and Cognitive Psychotherapy, 38, 629–637.
  • Caselli G., Soliani M., Spada M., (2012) The effect of desire thinking on craving: an experimental investigation, Psychology of Addictive Behaviors, published in first view on 9th April, 2012
  • Davies, M. I., & Clark, D. M. (1998). Thought suppression produces a rebound effect with analogue post-traumatic intrusions. Behavior Research and Therapy, 36, 571–582.
  • May, J., Andrade, J., Panabokke, N., Kavanagh, D., (2004) Images of desire: Cognitive models of craving, MEMORY, 12 (4), 447-461  

Il Senso dello Smartphone per la Privacy.

– Rassegna Stampa – 

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze PsicologicheChi non ha avuto modo di rifletterci? E’ in atto un vero e proprio cambiamento del tradizionale concetto di privacy nella sfera pubblica ad opera dei nuovi artefatti tecnologici che ridefiniscono i confini tra pubblico e privato.

Alcuni studiosi della Tel Aviv University si sono posti l’obiettivo di misurare l’impatto del fenomeno smartphone sulla privacy, sulle regole di comportamento e sull’utilizzo dello spazio pubblico.

Per esaminare questi aspetti, i ricercatori hanno messo a punto un survey cui hanno preso parte circa 150 soggetti, per metà possessori di smartphone e per metà utilizzatori di un cellulare standard. I risultati sono curiosi.

Gli utilizzatori del comune e vecchio cellulare tengono fede alle modalità comportamentali del buon costume socialmente condivise relativamente all’uso del telefono (ovvero: rimandano le conversazioni private a spazi privati e valutano l’appropriatezza dell’uso del cellulare in spazi pubblico). Gli utilizzatori di smartphone invece, sembrano pensare e agire in modo diverso.

Anzitutto i fan degli smartphones hanno meno probabilità (del 50%) di essere infastiditi dalle telefonate di altri che invadono i luoghi pubblici, così come di rendersi conto che le proprie telefonate potrebbero irritare persone vicine. Inoltre, se spazi pubblici come piazze, parchi, mezzi di trasporto erano visti una volta come punti di incontro, ora gli individui dotati di smartphone tendono a essere sempre più immersi nei loro dispositivi elettronici mentre si trovano in luoghi pubblici. Secondo i ricercatori è dunque plausibile pensare che gli smartphones creino un’illusoria “bolla privata” in cui gli utenti si sentono avvolti. Altro dato interessante riguarda una sorta di emotività legata al dispositivo elettronico: i possessori di smartphone sembrano più dipendenti e legati ai loro telefoni. Chiedendo come si sentivano quando erano senza smartphone la maggior parte di loro ha utilizzato descrittori negativi come “perso”o “teso”, mentre chi possedeva un cellulare standard generalmente ha riportato associazioni positive all’idea di essere senza telefono, come ad esempio tranquillità e libertà. Il progetto di ricerca non è ancora concluso e prevederà nuove fasi di rilevazione ambientale dell’uso degli smartphones in ambienti pubblici.

 

 

BIBLIOGRAFIA:  

Intervista con il Prof. Dimaggio – #2 La Terapia Metacognitiva-Interpersonale: Verso il Cambiamento

Una chiacchierata con il prof. Dimaggio – parte 2:

La TMI: Verso il cambiamento

 

Dopo aver chiesto al prof. Dimaggio di parlarci della Terapia Metacognitivo – Interpersonale e di come funziona, abbiamo cercato di capire cosa produce il cambiamento nei pazienti e come la TMI può agire in questo senso.

Intervista con il Prof. Dimaggio – #2 La Terapia Metacognitiva-Interpersonale: Verso il Cambiamento. - Immagine: © Frederic Bos - Fotolia.com LEGGI LA PRIMA PARTE DELL’INTERVISTA

(State of Mind) Prof. Dimaggio secondo lei quali sono in generale gli ingredienti in grado di suscitare un cambiamento all’interno del paziente? Ovviamente ci rendiamo conto che la risposta può essere solo molto generica poiché per ogni paziente ci saranno anche degli ingredienti specifici legati alla sua storia di vita e di malattia.

(Dimaggio) La domanda è importantissima e nucleare. Ovviamente si sono così tanti fattori in gioco che quello che dico difetterà in tantissime aree, però cerco di identificarne alcune. Il primo fattore di cambiamento, sicuramente, è quello di cui parlavamo prima, cioè la capacità di formulare una mappa accurata del proprio funzionamento mentale. Questo è un prerequisito del cambiamento. Se un paziente non è in grado di sapere cosa delle proprie modalità di attribuzione affettiva, emotiva, agli eventi lo porta a soffrire, ovviamente il cambiamento è impossibile. In qualche modo generare questa comprensione è sia la costruzione di un prerequisito di cambiamento che un cambiamento in sé, poiché significa che si stanno costruendo abilità di funzionamento mentale che prima non erano presenti e funzionanti. Questa  parte del cambiamento che non ha un correlato comportamentale diretto e osservabile, e spesso non si accompagna neanche a un miglioramento sintomatico, ma è parte del cambiamento strutturale.

Intervista con il Prof. Dimaggio – #1 La Terapia Metacognitivo-Interpersonale
Articolo consigliato: Intervista con il Prof. Dimaggio – #1 La Terapia Metacognitivo-Interpersonale

Un secondo aspetto sicuramente centrale è arrivare al punto in cui il paziente acquisisce quella che in “metacognitivese” chiamiamo differenziazione, ovvero la capacità di assumere distanza critica dai propri stai interni. Questo corrisponde nella TMI al passaggio dalla fase di assessment alla fase di promozione più attiva del cambiamento.

La Differenziazione è una capacità che permette di capire che quello che stiamo vivendo è legato solo in modo marginale all’evento prossimale che l’ha scatenato mentre è soprattutto il risultato di modalità stabili di attribuzione di significato agli eventi. In altre parole se tendo a soffrire perché sono stato abbandonato o perché ho avuto una frustrazione lavorativa, l’obiettivo non è quello di comprendere come quell’evento specifico, determinante esterno, non abbia determinato l’intensità prolungata e invincibile della sofferenza soggettiva, a contrario è necessario realizzare che quell’evento ha risuonato con modalità di attribuzione interna, chiamiamoli schemi, che invece appartengono al mondo soggettivo. Si tratta di riconoscere modalità stabili di attribuzione di significato che generano anticipazioni negative e quindi dolore, sofferenza e comportamento disfunzionale. Capire questo, ovvero capire che la sofferenza nasce all’interno ed è frutto di una costruzione del mondo e non un riflesso del mondo è sicuramente un ingrediente fondamentale del cambiamento. Quando si arriva a questo passaggio il paziente è pronto per cambiare anhe nel comportamento.

Un’altro aspetto importante, che emerge dal lavoro di perfezionamento del modello che sto conducendo con i colleghi Raffele Popolo e Giampaolo Salvatore miei co-fondatori del centro di Terapia metacognitiva-interpersonale, che ci colloca credo nella terza onda di terapia cognitiva, è che una parte del cambiamento – una volta arrivati a capire la natura soggettiva della sofferenza e dei problemi relazionali – nasce non tanto dal confutare convinzioni disfunzionali, ma dal fare qualcosa di nuovo, che possa generare benessere e adattamento.

Raggiunta la differenziazione, con il paziente si riformula il contratto terapeutico e si lavora per promuovere attivamente il cambiamento assumendo che ci siano una serie di ingredienti successivi. Da questo punto di vista probabilmente un determinante prossimale è l’attivazione del sistema esploratorio e l’impegno al cambiamento comportamentale, che non è l’outcome del trattamento, ma lo strumento attraverso il quale un cambiamento ulteriore si realizza.

Psicoterapia: l’ABC, Albert Ellis & il Problema Secondario
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Assumendo che la mente è azione e che la mente è incorporata, se il corpo ripete azioni precedenti la mente è difficile che cambi. Per cui a quel punto con il paziente ri-negoziamo gli scopi del trattamento: quali sono le cose che, in un clima di totale collaborazione e di buona relazione terapeutica, paziente e terapeuta cercheranno di fare affinché il paziente tenti di pensare e fare cose nuove. Questo nuovo contesto d’azione ha la possibilità di generare varie forme di cambiamento. Il primo è che permette ulteriormente di stanare le strutture disfunzionali sottostanti. Quando il paziente inizia a provare a fare qualche cosa, se c’era stata una comprensione cognitiva del problema, si può osservare che invece le procedure, gli schemi emotivi e taciti, che avevano generato sofferenza sono ancora attivi e guidano ancora il comportamento.

Per esempio quello che guida l’evitamento sociale nel caso di disturbo evitante di personalità o fobia sociale; il paziente può aver capito che tende a vivere anticipatoriamente la rappresentazione dell’altro come un giudice critico, esserne consapevole, ma lo stesso evitare di esporsi; evitamento che indica come lo schema più profondo è comunque attivo. Per cui soltanto il tentativo di esposizione comportamentale permetterà di stanare questa componente procedurale ancora attiva e che poi è di fatto è quella più difficile da modificare. Quindi l’obiettivo del cambiamento comportamentale è quello di creare il contesto nel quale la mente possa tentare di intraprendere nuovi percorsi.

Scopi Esistenziali e Psicopatologia. - Immagine: © Mopic - Fotolia.com
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La fase successiva è la riflessione in seduta: a partire da un tentativo di esposizione comportamentale si genera il materiale per la riflessione in seduta. “Pensiamo insieme a quello che hai pensato e provato nel tentativo di fare questo”. La riflessione quindi permette la ri-attribuzione di significato, una maggiore distinzione fra fantasia e realtà, il lavoro sulla realizzazione personale, elemento tipico delle terapie con i disturbi di personalità e che è in sintonia con quello che sta facendo Studi Cognitivi con il lavoro sui piani di vita, l’aumento dell’agentività (agency). In pratica l’obiettivo del cambiamento non è solamente quello di smantellare la patologia, ma permettere al paziente di entrare in contatto con aree potenzialmente sane che determinerebbero realizzazione, soddisfazione, adattamento, piacevolezza nelle relazioni che prima erano schiacciate dagli schemi patogeni. Quindi si tratta di identificare i nuclei del funzionamento sano e aiutare il paziente ad agirli nella vita quotidiana e piano piano capire come muta l’esperienza soggettiva al mutare del perseguire i piani di vita.

Questi sono un po’ gli ingredienti del cambiamento anche se sono sicuro di non aver risposto esaustivamente.

 FINE SECONDA PARTE

Leggi la PRIMA PARTE

Leggi la TERZA PARTE

 

 

 

RIFERIMENTI:

La violenza nella scuola DIAZ. Il Film di Daniele Vicari

 

DIAZ - Don't Clean Up This Blood. (2012). Di Daniele Vicari. Recensione. - Immagine: Locandina CinematograficaAccadeva solo undici anni fa e non durante il ventennio fascista. Era solo Genova e non il Cile o l’Argentina dei generali, eppure tutto questo è successo davvero. 

Alcune brevi considerazioni dopo la visione di questo film, che è film di guerra.

Il cambiamento viene sempre dai giovani, che sono pronti a rischiare perché hanno meno da perdere e sono forti e irrispettosi. La proverbiale “Santa Pupa” esiste, altrimenti i morti sarebbero stati decine.

L’informazione e il web sono i veri nemici dei prepotenti: “vi stiamo filmando, il mondo vi guarda” è il monito gridato dalle finestre alle orde dei poliziotti che i loro capi “non riescono più a trattenere, assetati di sangue come mastini”.

I mastini stessi, a tratti, fanno gran pena per il loro patologico bisogno di prevaricare e soprattutto di umiliare gli inermi. L’umiliazione fa più rabbia a me, spettatore della violenza e ne comprendo meno il senso in termini agonistici ma i regimi dittatoriali hanno sempre avuto un debole per le purghe e l’uso improprio dei manganelli (nel film chiamato “tonfa”) ma queste osservazioni le lasciamo ai colleghi psicoanalisti.

Il Potere Politico dei Social Media in Italia
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Da un punto di vista psicologico cosa ci interessa? Si potrebbe liquidare la faccenda così: “Quelli erano strani, malati, aggressivi per natura, per questo si sono messi a fare i black block o i poliziotti, essere da una parte o dall’altra è solo un caso“.

Poi mi è venuto in mente l’esperimento di Zimbardo del 1971 nel carcere di Stanford dove dei volontari di sani principi sono stati divisi in due squadre: una nel ruolo di detenuti, l’altra in quello di secondini. Apparentemente solo un gioco di ruoli con regole ben fissate, che escludevano ogni violenza.

I risultati di questo esperimento sono andati molto al di là delle previsioni degli sperimentatori, dimostrandosi particolarmente drammatici: dopo solo due giorni si sono verificati i primi episodi di violenza, i detenuti si sono strappati le divise di dosso e si sono barricati all’interno delle celle inveendo contro le guardie che, a loro volta, hanno cominciato ad intimidirli e umiliarli, cercando in tutte le maniere di spezzare il legame di solidarietà nato tra loro.

Le guardie hanno costretto i prigionieri a cantare canzoni oscene, a defecare in secchi che non avevano il permesso di vuotare, a pulire le latrine a mani nude. A fatica, guardie e direttore del carcere (lo stesso Zimbardo) sono riusciti a contrastare un tentativo di evasione di massa da parte dei detenuti.

Al quinto giorno i prigionieri hanno mostrato sintomi evidenti di disgregazione individuale e collettiva: il loro comportamento diventato docile e passivo, il rapporto con la realtà compromesso da seri disturbi emotivi mentre, per contro, le guardie continuavano a comportarsi in modo vessatorio e sadico. A questo punto i ricercatori hanno interrotto l’esperimento suscitando da un lato la soddisfazione dei carcerati ma, dall’altro, un certo disappunto da parte delle guardie.

Questo film di guerra mi lascia il pensiero gaudente che molte cose che c’erano nel 2001 non ci sono più e un interrogativo: quanto spesso il nostro operare terapeutico è diretto allo scopo per cui è nato e quanto ingabbiato in una liturgia codificata in cui ognuno gioca il proprio ruolo?

Tornato a casa ho visto su State of Mind un’ intervista a Castelfranchi di cui desidero riportare una citazione:

Neuroscienze e Psicologia: Intervista a Cristiano Castelfranchi.
Articolo consigliato: Neuroscienze e Psicologia: Intervista a Cristiano Castelfranchi.

“Non confondere il proprio valore, il proprio riconoscimento con il riconoscimento di un setting, che è una pura ritualità, il riconoscimento di certe modalità “devo fare il colloquio chiuso nella stanza, sennò non sto facendo il mio mestiere”, queste sono scempiaggini! E creano grossi problemi nei Servizi. La capacità e la professionalità dello psicologo consiste nella sua modalità di leggere i fenomeni, nel leggere i comportamenti individuali, relazionali e sistemici con chiavi di lettura che gli altri non hanno e sulla base di questo il significato di certi interventi, verbali, affettivi, relazionali o anche pratici. E’ l’unico che ha le chiavi di lettura per un progetto di intervento unitario, che sa mettere insieme l’aspetto sociale e l’aspetto economico, di colloquio. Lì deve rivendicare la sua professionalità, non in cose simboliche e rituali, ma che gli venga riconosciuto che ha gli strumenti interpretativi e di lettura degli interventi e di cosa si può cambiare che gli altri non hanno. Questo gli deve essere riconosciuto esplicitamente, senza delegare ad altre figure competenze sue, non avere come ideale il setting privato e come rivendicazione il colloquio settimanale. Si può essere un grande psicologo e fare un eccezionale lavoro clinico anche andando a casa, accompagnando la persona al bar, vedendo i familiari. Il problema è solo come lo si fa”.

 

 

BIBLIOGRAFIA:

 

 

 

Depressione Maggiore: gli Ambienti Naturali migliorano Umore e Memoria

– Rassegna Stampa – 

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze PsicologicheIn uno studio condotto dai ricercatori del Baycrest’s Rotman Research Institute di Toronto in collaborazione con la University of Michigan e Stanford University si dimostra che semplicemente camminare in un parco naturale può portare benefici in termini cognitivo-affettivi nelle persone depresse (con diagnosi di depressione maggiore).

Il punto di partenza dello studio è la Attention Restoration Theory (ART) secondo cui le persone si concentrano meglio dopo aver passato un po’ di tempo a contatto con la natura o dopo avere guardato fotografie di paesaggi naturali: in questo modo, secondo la ART, le persone rimanendo a contatto con un ambiente naturale tranquillo e pacifico non sarebbero bombardate da molteplici distrazioni tipiche dell’ambiente urbano che mettono a dura prova la memoria di lavoro e l’attenzione. In qualche modo, è come se negli ambienti naturali, la mente possa rilassare anche funzioni cognitive attentive e di working memory.

Ambienti rigenerativi - Immagine: © John Casey - Fotolia.com -
Articolo consigliato: Ambienti Rigenerativi (Psicologia Ambientale)

Nello studio pubblicato in questi giorni su Journal of Affective Disorders gli studiosi si sono focalizzati sugli effetti del contatto con la natura in termini cognitivi e affettivi in persone con depressione maggiore. E’ noto infatti che le persone depresse sono caratterizzate da un elevato livello di ruminazione e pensiero negativo, con relative deflessioni del tono dell’umore.

20 individui di età media di 26 anni con diagnosi di depressione maggiore sono stati reclutati per la ricerca e sono stati randomicamente assegnati a due condizioni: camminare per un’ora in un ambiente naturale oppure in un contesto urbano.

Prima di inziare la camminata, i partecipanti hanno compilato dei questionari di pre-assessment delle funzioni cognitive (attenzione e working memory) e dell’umore; inoltre è stato chiesto loro di pensare a un’esperienza autobiografica dolorosa non ancora risolta della loro vita (come induzione della ruminazione). Al termine della camminata, i partecipanti sono stati sottoposti a post-assessment relativamente alle medesime variabili. La stessa procedura sperimentale è stata ripetuta anche dopo una settimana.

I partecipanti che avevano camminato per un’ora a contatto con la natura presentavano un miglioramento del 16% nelle performance attentive e di working memory rispetto a coloro che avevano camminato nel centro cittadino. Dal punto di vista dell’umore, sembrerebbe che sia la camminata in sé e non l’ambiente in cui si svolge ad avere un effetto sull’umore, poiché le emozioni negative migliorerebbero in entrambi i setting dopo la camminata; anche se la presenza di emozioni positive si è dimostrata essere maggiore a seguito della camminata nella natura rispetto al setting urbano. Inoltre va sottolineato che gli effetti sull’umore non si correlano agli affetti sulle performance cognitive, suggerendo la presenza di meccanismi distinti e parzialmente indipendenti che sottostanno ai cambiamenti cognitivi e affettivi a seguito del contatto con la natura.

 

 

BIBLIOGRAFIA: 

Psicoterapia: l’ABC, Albert Ellis & il Problema Secondario

 

Psicoterapia: l’ABC, Albert Ellis & il Problema SecondarioUna delle più preziose intuizioni cliniche di Albert Ellis è stata l’individuazione del cosiddetto problema secondario. Come abbiamo già visto il modello ABC di Ellis aiuta e incoraggia il paziente a non considerare più i suoi stati emotivi e i suoi comportamenti come fenomeno privi di senso psicologico cosciente e frutto di pazzia, di insondabili forze inconsce o di malfunzionamenti organici del sistema nervoso, ma come frutto di operazioni mentali consapevoli, sia pure automatizzate e soggette a bassi livelli di attenzione e controllo deliberato.

Una volta individuati i B, i pensieri associati alla sofferenza psicologica e ai comportamenti disfunzionali, è bene continuare l’indagine e non precipitarsi subito a “disputare” e ristrutturare i pensieri stessi. È opportuno invece cercare altri ABC, ma partendo da quello già trovato. È il cosiddetto ABC secondario.

Psicoterapia: Il modello ABC: perché dopo l’A si accerta il C. - Immagine: © stevecoda - Fotolia.com
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L’ipotesi dell’ABC secondario in un certo senso anticipa la teoria della metacognizioneQuesta ipotesi suggerisce che lo stato patologico dipende non tanto dagli stati d’animo e dai pensieri che si presentano in situazioni problematiche. Questi stati d’animo, essendo collegati a situazioni concrete, sono in sé normali per Ellis. Oppure possono essere incongrui rispetto al contesto, ma non intrinsecamente patologici. Provare imbarazzo in una situazione sociale è normale. Provare eccessivo imbarazzo può essere incongruo, ma non è ancora patologico. Non si tratta di fobia sociale. Ciò che è davvero patologico è il giudizio, la valutazione che diamo di quell’imbarazzo.

L’ABC secondario è quindi la valutazione di secondo livello, e quindi metacognitiva, dei nostri stati mentali. E la patologia nasce nel momento in cui diamo una valutazione di “non normalità” dei nostri stati d’animo. Ovvero nel momento in cui non accettiamo i nostri stati d’animo.

Per Ellis il passaggio dall’imbarazzo alla fobia sociale non è un problema di grado, ma è a sua volta un problema di valutazioni cognitive di secondo livello. Non si tratta di una forma estrema di timidezza, ma di non accettazione della propria condizione di imbarazzo.

Non accettandola, non riusciamo a usare proficuamente le nostre emozioni come segnali che ci informano sul nostro stato rispetto agli altri e al mondo ma attacchiamo loro un’etichetta di anormalità (o anche di normalità, ma è un errore anche questo). In tal modo, perdiamo di vista la situazione reale in cui viviamo (l’A di partenza) e finiamo per concentrarci su un falso problema: siamo normali? Stiamo provando l’emozione giusta, l’emozione normale?

In tal modo, siamo finiti in un vicolo cieco nel quale non sono disponibili soluzioni pratiche a problemi pratici, ma solo giudizi di valore in fondo privi di senso concreto e che tendenzialmente ci portano a conclusioni depressive: sensazione di essere strani, diversi, esclusi, o addirittura derisi e/o perseguitati.

La Terapia Metacognitiva (MCT): intervista con il Prof. Adrian Wells.
Articolo consigliato: La Terapia Metacognitiva (MCT): intervista con il Prof. Adrian Wells.

È interessante notare come il concetto di problema secondario contenga in potenza sia le applicazioni cliniche del concetto di metacognizione sviluppate da Adrian Wells che le intuizioni terapeutiche sull’accettazione di Steven Hayes. Concetti di cosiddetta “terza ondata”.

Insomma, citando le parole di Cesare De Silvestri (colui che fece conoscere la terapia e la teoria di Ellis in Italia negli anni ’60):

Dato un problema emotivo o comportamentale, l’attenzione selettiva dell’individuo può, focalizzarsi sul suo stesso problema o uno dei suoi aspetti e dare inizio a un’ulteriore sequenza che può essere altrettanto disfunzionale e rappresentare quindi un ulteriore problemaQuesto secondo problema, che nel modello originario viene chiamato ABC secondario, è in realtà un problema di secondo ordine, cioè superordinato ovvero di ordine superiore rispetto al primo (ABC primario), e può interferire e di solito interferisce pesantemente sul disagio del paziente e sulla situazione terapeutica. La sua individuazione e soluzione preventiva sembra anzi essere una delle chiavi di volta della ricerca diagnostica e della strategia psicoterapeutica. Il nostro modello permette di vedere chiaramente come il problema di secondo ordine ostacoli un accesso diretto a quello iniziale.” (DeSilvestri, 2000)

È sul problema secondario, inoltre, che meglio si applicano le 4 classi di idee irrazionali individuate da Ellis. Ovvero:  

  • le doverizzazioni 
  • i giudizi globali e generalizzanti su di sé, gli altri e il mondo 
  • il giudizio di insopportabilità e intolleranza delle emozioni; la catastrofizzazione 
  • l’indispensabilità e bisogni assoluti.

 

 

BIBLIOGRAFIA:  

  • DeSilvestri, C. (1981). I fondamenti teorici e clinici della Terapia Razionale-Emotiva. Roma: Astrolabio.
  • DeSilvestri, C. (1982). I1 problema secondario. In G. Chiari & L. Nuzzo (Eds.), Le prospettive comportamentale e cognitiva in psicoterapia. Roma: Bulzoni.
  • DeSilvestri, C. (1984, 19-21 ottobre). Progressi e innovazioni nella RET: Un dettagliato modello dell’organizzazione cognitivo – emotivo – comportamentale dei disturbi psicologici. Relazione al II Congresso Nazionale della Società Italiana di Terapia Comportamentale e Cognitiva (SITCC) Firenze
  • DeSilvestri, C. (1989). Clinical Models in RET: An advanced model of the organization of emotional and behavioural disorders“. Journal of Rational-Emotive Therapy, (2).
  • De Silvestri, C. (gennaio – aprile 2000). Il ruolo dell’attenzione nella teoria e nella prassi della psicoterapia RET. Informazione Psicologia Psicoterapia Psichiatria, 38 – 39, pp. 70 – 83 http://www.in-psicoterapia.com/qtorctoanr/38-39/silvestri-attenzione.pdf
  • Dryden, W. (1984). Rational-Emotive Therapy: Fundamentals and Innovations. London: Croom-Helm.
  • Ellis, A. (1962). Reason and Emotion in Psychotherapy. Lyle Stuart. Secaucus, N.J.:
  • Ellis, A. (1973). Humanistic Psychotherapy. New York: Julian Press.
  • Ellis, A. (1979a). A note on the treatment of agoraphobics with cognitive modification versus prolonged exposure in vivo. Behaviour Research and Therapy, 17.
  • Ellis, A. (1979b). Discomfort anxiety: a new cognitive-behavioural construct. Part 1. Rational Living, 14 (2).
  • Ellis, A. (1980). Discomfort anxiety: a new cognitive-behavioural construct. Part 2. Rational Living, 15 (1).
  • Ellis, A. (1984), The essence of RET – 1984, Journal of Rational-Emotive Therapy, 2 (1).
  • Ellis, A. (1991). The Revised ABC’s of Rational-Emotive Therapy (RET). Journal of Rational-Emotive Therapy & Cognitive-Behaviour Therapy, 9, 3.

La felpa di Mark Zuckerberg a Wall Street e il Razionalismo Pragmatico

 

 

La felpa di Mark Zuckerberg a Wall Street. - Immagine: Facebook. https://www.facebook.com/photo.php?fbid=409670752382205Mark Zuckerberg quota in borsa Facebook e si è presentato nel tempio di Wall Street in felpa.

La sua solita felpa col suo solito cappuccio che cade disinvolto dalle spalle. L’analista finanziario Michael Patcher (o, secondo altre fonti, Marc Patcher; non si capisce bene) parlandone sul canale Bloomberg TV si è risentito. I suoi argomenti possono essere convincenti: presentarsi in borsa significa cercare fondi, convincere un po’ di gente a investire denaro in un’azienda. In fondo si tratta di chiedere soldi. E i soldi non si chiedono andando in giro vestiti come un mendicante.

Oppure si? Oppure è proprio così che si cercano i soldi? Temo che Marc Patcher si dovrà rassegnare. La felpa di Zuckerberg, gli infradito di Zuckerberg, i maglioncini di Jobs, i piedi nudi e puzzolenti (lo dice la biografia) di Jobs sono dei messaggi. Messaggi molto hippy e trasgressivi. Oppure messaggi feroci: contano i soldi e null’altro.

Temo che Michael (o Marc?) Patcher si dovrà rassegnare. È il razionalismo pragmatico che trionfa.

Psicoterapia: a che le serve ragionare così? Il Disputing Pragmatico secondo Ellis. - Immagine: © zero13 - Fotolia.com
Articolo consigliato: Psicoterapia: a che le serve ragionare così? Il Disputing Pragmatico secondo Ellis

Il razionalismo pragmatico e strumentale è quel particolare atteggiamento mentale per il quale ogni abitudine, ogni costume, ogni convinzione o idea (e ogni tradizione) è bene che siano sottoposte a critica, ma a un particolare tipo di critica: la critica pragmatica dell’utilità e dell’efficienza strumentale. In parole più semplici, alla critica che vuole sapere: ma a che serve questo? Quale scopo si prefigge? E quanto efficientemente serve allo scopo? Le idee sono ridotte alla loro efficienza.

Temo che Michael (o Marc?) Patcher si dovrà rassegnare: secondo questo tipo di critica, non c’è differenza tra giacca e felpa e tra cravatta e cappuccio. Sfogliamo i primi capitoli di “L’azione umana” del filosofo ed economista Ludwig von Mises (1966). von Mises sostiene che gli individui scelgono sempre consapevolmente le azioni ritenute più idonee al raggiungimento degli scopi voluti. L’azione è sempre quindi razionale, o meglio umanamente razionale (e non assolutamente razionale).

Razionale nel senso che l’individuo sceglie sempre i mezzi da lui ritenuti più idonei in base a quel che sa nel momento della scelta: il suo patrimonio conoscitivo appreso con l’esperienza e/o con i vari mezzi di trasmissione del sapere. Secondo questo principio, un individuo che decide di curare una malattia utilizzando pratiche magiche segue un processo mentale che non è meno razionale di colui che sceglie farmaci testati secondo i protocolli scientifici della medicina moderna. Può essere giudicato un processo ingenuo o erroneo, ma non è irrazionale, nel senso che l’individuo sempre sceglie il mezzo che ritiene migliore in base al proprio interesse.

Temo che Michael (o Marc?) Patcher si dovrà rassegnare. In questa definizione di razionalità suggerita dalla felpa di Zuckerberg troviamo alcuni principi dello spirito di Wall Street. Ovvero, la negazione di ogni razionalità assoluta e la valorizzazione di una razionalità individuale e strumentale. Non esiste un sommo bene, ma solo scopi individuali. E non esistono mezzi da considerarsi assolutamente razionali, ma solo ipotesi plausibili su quali mezzi siano più idonei per ottenere quanto desiderato, ipotesi costruite in base a quel che si sa e a quanto si è appreso nel proprio ambiente culturale.

Temo che Michael (o Marc?) Patcher si dovrà rassegnare. Oppure forse Michael (o Marc?) Patcher potrà festeggiare. Perché nella felpa di Zuckerberg si cela un messaggio: che conta solo il denaro. Una pacchia per Wall Street. Forse per questo non si capisce bene come si chiami Patcher: Michael o invece Marc? Quasi come Zuckerberg.

 

 

BIBLIOGRAFIA:

 

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