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La Solitudine: il modello della Discrepanza Cognitiva in Psicologia

La ricerca scientifica e psicoterapica ha comunemente distinto l’esperienza della solitudine (loneliness) dall’effettiva condizione dell’essere soli (being alone).

Immagine: The Loneliness of a Sappy Man. © 2012 Marco Piunti. www.trattogrullo.com
The Loneliness of a Sappy Man. © 2012 Marco Piunti. www.trattogrullo.com

Secondo questa distinzione, è possibile che alcuni individui socialmente isolati possano sentirsi abbastanza soddisfatti nonostante il loro oggettivo scarso numero di interazioni sociali. Al contrario, altri individui possono essere oggettivamente coinvolti in un gran numero di relazioni interpersonali ma, nonostante questo, sentirsi profondamente insoddisfatti sotto alcuni importanti aspetti della loro vita (ad esempio, la qualità dei propri rapporti o la mancanza di un particolare tipo di relazione, come una relazione romantica e sentimentale) e fare di conseguenza esperienza di un doloroso senso solitudine.

Per comprendere la differenza tra isolamento sociale e solitudine è stato sviluppato il modello della discrepanza cognitiva (Perlman e Peplau, 1982). Secondo questo modello, le persone sviluppano uno standard interno di comparazione, un modello ideale e mentale con il quale confrontano e giudicano le loro relazioni interpersonali nella loro vita reale ed esterna. Se le loro relazioni con gli altri superano questo standard, l’individuo non sperimenterà sentimenti di solitudine e sarà soddisfatto delle proprie relazioni, sia in termini di quantità che di qualità. Al contrario, se le loro relazioni reali con gli altri sono al di sotto di questo standard e aspettativa interna, l’individuo sarà insoddisfatto e farà esperienza della solitudine, con un dolore più o meno intenso a seconda dei casi.

Il modello della discrepanza cognitiva della solitudine rappresenta un ampliamento delle precedenti teorie sviluppate da Thibaut e Kelley (1959). Questi autori presentarono un’analisi della soddisfazione e dell’attrazione nelle relazioni diadiche (di coppia) in base al livello di comparazione interno (Comparison Level, CL). Secondo questi ricercatori, se il risultato sperimentato dall’individuo in un determinato rapporto è al di sopra di questo livello di comparazione, allora l’individuo sarà soddisfatto ed avrà piacere di relazionarsi con l’altro. Al contrario, se il risultato di questa comparazione è al di sotto di un certo livello, l’individuo sperimenterà insoddisfazione e non percepirà attrazione.

Il Disturbo Narcisistico di Personalità secondo la Teoria di Kernberg. - Immagine: © marcodeepsub - Fotolia.com
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Il modello della discrepanza cognitiva della solitudine di Perlman e Peplau propone invece che l’individuo sviluppi un livello di comparazione per l’intera rete delle proprie relazioni sociali.

Questo livello di comparazione può essere pensato come la rappresentazione della quantità o della qualità del contatto sociale desiderato dalla persona e viene utilizzato dall’individuo per valutare l’adeguatezza della propria rete sociale attuale. Paradossalmente, secondo questa teoria, anche una persona apparentemente mai sola (come ad esempio un personaggio pubblico, un attore o un cantante), può provare profondi sentimenti di solitudine (e di conseguenza, di tristezza) se il suo modello di comparazione interno prevede una forte discrepanza tra quello che vorrebbe e quello che in realtà si trova ad avere.

Un altro fattore ipotizzato da Thibaut e Kelley (1959), utile nel determinare il livello di comparazione dell’individuo, è il confronto sociale. Vale a dire, l’individuo formula delle aspettative riguardo al numero e al tipo di relazioni sociali che secondo lui dovrebbe avere, in parte anche sulla base delle relazioni sociali di persone vicine o simili a sé (parenti, amici, vicini di casa, conoscenti del quartiere, ma anche modelli proposti dai mass media). Questo fattore complica leggermente le cose poiché a determinare l’esperienza della solitudine interverrebbe non solo il confronto con i propri standard interni, ma anche il confronto con degli standard esterni presentati dalle persone vicine all’individuo. D’altra parte, un modello esaustivo di spiegazione deve comunque necessariamente comprendere fattori di tipo sociale, oltre che individuale.

Una questione interessante riguarda il “come” le discrepanze tra le relazioni interpersonali reali e desiderate siano correlate al livello di soddisfazione dell’individuo. Kelley e Thibaut (1978) suggeriscono che l’associazione sia di tipo non-lineare. Russell, Steffen, e Salih (1981) hanno infatti trovato che il rapporto tra l’aumento del numero di amicizie intime e il senso di solitudine (o in modo inverso, di soddisfazione personale) era lineare fino al punto in cui le amicizie attuali e desiderate della persona si stabilizzavano sullo stesso numero in termini di quantità e di qualità. Con un ulteriore aumento del numero di amicizie intime, quindi al di sopra del livello di comparazione interno, non vi era alcun ulteriore aumento del grado di soddisfazione personale. Vale a dire, se si hanno più amici di quelli che si desidera, il livello di soddisfazione personale dell’individuo non aumenta, né diminuisce il senso di solitudine. Al contrario, se siamo al di sotto del nostro livello di comparazione interno (cioè, abbiamo meno amici di quanti ne vorremmo), la sensazione di solitudine aumenta con l’aumentare del numero di amici in meno rispetto a quanti ce ne aspettiamo.

Per comprendere questo dato, possiamo fare l’esempio della persona che desidera 5 amici ma ne ha effettivamente 4. Questa persona può essere maggiormente soddisfatta di una persona che ha 10 amici ma che, al contrario, ne vorrebbe avere 30. Allo stesso modo, una persona con 3 amici intimi che ne desidera effettivamente 3, può sentirsi più soddisfatta della persona che ha 4 amici ma ne desidera 5, pur avendo quindi oggettivamente meno amici, e così via. Diversamente, se la persona con 3 amici desiderati ha nella realtà 10 amici effettivi, secondo questi studi, non percepirà un aumento del senso di soddisfazione poiché quelli che effettivamente desidera, per così dire, già li possiede.

Un modello ancora più generale, sulla stessa onda della discrepanza cognitiva, è stato proposto da Higgins (1987) per spiegare il senso di disagio sperimentato dall’individuo nelle diverse situazioni della vita. Higgins parla di discrepanza del Sé (Self-Discrepancy Theory). Secondo questo autore, l’individuo ha una rappresentazione di come vorrebbe e gli piacerebbe essere (Sé ideale), di come è nella realtà (Sé reale), e di come la società o la morale impone che dovrebbe essere (Sé normativo). Ogni discrepanza tra queste tre rappresentazioni provoca un coinvolgimento emotivo più o meno rilevante per il soggetto, spingendolo, nel migliore dei casi, a costruire attivamente delle strategie per ridurre la discrepanza tra queste.

Se la discrepanza tra Sé reale e Sé ideale (per esempio, “sono grasso ma vorrei essere più magro; sono timido ma vorrei essere socievole; sono solo ma vorrei avere più amici; ecc.”) non viene attivamente risolta, l’individuo sperimenterà emozioni più o meno intense connotate nello specifico da un senso di scoraggiamento (insoddisfazione, delusione e tristezza). Se non è superata la discrepanza tra Sé reale e Sé normativo (per esempio, “sono pigro e dovrei essere più attivo; sono lento e dovrei essere più svelto; sono solo e dovrei avere più amici; ecc.”), invece, il soggetto sperimenterà più emozioni connotate nella direzione dell’agitazione (senso di minaccia incombente, irrequietezza, ansia e paura).

Insomma, le conclusioni a cui arrivano i diversi autori sarebbero più o meno fondate sullo stesso semplice ed identico concetto. Sembrerebbe a questo punto banale concludere con una citazione celebre (di Oscar Wilde, per esempio), ma è probabile che sia l’unico modo per riassumere il senso di un intero articolo in un’unica frase chiara e pertinente: la felicità non è avere quello che si desidera, ma desiderare quello che si ha.

Ma allora, forse dovremmo trovare una risposta ad un’altra domanda: cosa porta l’individuo a desiderare più di quanto già possiede?

 

 

BIBLIOGRAFIA:

  • HIGGINS, E. T., (1987). Self-discrepancy: A theory relating self and affect., Psychological Review, 94, pp. 319-340.
  • KELLEY, H. H., THIBAUT, J.W. (1978). Interpersonal relations: A theory of interdependence. New York: Wiley Interscience.
  • PERLMAN, D., PEPLAU, L. A. (1982). Loneliness: A sourcebook of current theory, research, and therapy., New York: Wiley Interscience, pp. 123-134.
  • RUSSEL, D. W., CUTRONA, C. E., MCRAE, C., GOMEZ, M. (2012). Is Loneliness the Same as Being Alone?, The Journal of Psychology, 146 (1-2), pp. 7-22.
  • RUSSELL, D., STEFFEN, M., SALIH, F. A. (1981). Testing a cognitive model of loneliness. Paper presented at the symposium “New Directions in Loneliness Research” at the Annual Convention of the American Psychological Association in Los Angeles, California.
  • THIBAUT, J.W., KELLEY, H. H. (1959). The social psychology of groups. New York: Wiley.

 

Cooperazione ed Evoluzione dell’intelligenza.

– Rassegna Stampa – 

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze PsicologicheSecondo uno studio condotto da due ricercatori del Trinity College di Dublino in collaborazione con il dottor Sam Brown dell’Università di Edimburgo la cooperazione e il lavoro di gruppo influenzerebbero l’evoluzione dell’intelligenza e lo sviluppo delle dimensioni del cervello.

L’idea che le interazioni sociali siano alla base della evoluzione dell’intelligenza si sviluppa sin dalla metà degli anni ’70, e il supporto a questa ipotesi è venuto in gran parte dagli studi di correlazione che hanno osservato cervelli di grandi dimensioni negli animali sociali. Gli autori dello studio in questione forniscono la prima evidenza che collega meccanicamente il processo decisionale nelle interazioni sociali con l’evoluzione dell’intelligenza.

I ricercatori hanno costruito modelli computerizzati di organismi artificiali con cervelli artificiali, ognuno con un massimo di 10 processi interni e 10 nodi di memoria associati; nel corso dello studio 50 di questi cervelli semplici sono stati messi in competizione gli uni con gli altri con l’uso di giochi classici che condensano l’interazione sociale umana, come “Il dilemma del prigioniero”. La competizione nella quale sono stati ingaggiati i cervelli artificiali, proprio come nella vita reale, ha favorito gli individui di successo; i migliori, cioè quelli che hanno ottenuto il punteggio più alto, al netto della grandezza del loro cervello, potevano riprodursi e dare così vita alla seconda generazione di organismi.

Permettendo ai cervelli digitali di evolvere liberamente, i ricercatori sono riusciti a dimostrare che il passaggio alla società cooperativa favorisce fortemente la selezione dei cervelli più grandi. I cervelli più grandi in sostanza lavorano meglio quando la cooperazione aumenta.

Le strategie sociali che emergono spontaneamente in questi cervelli più grandi e più intelligenti mostrano una memoria complessa e processi decisionali. Comportamenti come il perdono, la pazienza, l’inganno e astuzia machiavellica evolvono all’interno del gioco quando i singoli cercano di adattarsi al loro ambiente sociale.

Questo modello, sostiene l’autore principale dello studio Luke McNally, si differenzia da quelli precedenti in quanto combina la teoria dell’evoluzione con l’uso delle reti neurali artificiali per dimostrare che effettivamente c’è un vero e proprio meccanismo di causa-effetto tra un cervello di grandi dimensioni e il bisogno di competere-contro e collaborare-con gli altri membri del proprio gruppo sociale.

Il nostro livello di intelligenza straordinaria ci definisce come esseri umani e ci distingue dal resto del regno animale. Ci ha dato l’arte, scienza e linguaggio, e soprattutto la capacità di mettere in discussione la nostra stessa esistenza e meditare le origini di ciò che ci rende unici, sia come individui e come specie“, conclude McNally.

 

 

BIBLIOGRAFIA: 

Un giorno di ordinaria follia #3 – Lo Psicologo Errante

PSICHIATRIA PUBBLICA: LETTERE DAL FRONTE.  
Naturalmente tutti i dati ed i nomi citati in queste lettere sono stati inventati e le storie raccontate sono ispirate alla realtà ed alla vita in un csm, ma per doverose ragioni di privacy  sono state amalgamate tra loro per renderle irriconoscibili. Ciò nonostante, a volte la realtà supera la fantasia! Buona lettura.

 

Un giorno di ordinaria follia

#3 Lo Psicologo Errante

 

Un Giorno di Ordinaria Follia #3 - Lo Psicologo Errante. - Immagine: © Noedelhap - Fotolia.comArriva in bicicletta, cappello a cono calcato a fondo fin sulle sopracciglia, un’ombra di barba dimenticata lì da qualche giorno, giacca a vento sportiva che ha visto tempi migliori ma che reca anche i segni di grandi vittorie, occhio lucido, rapido, furbo, sorridente che cerca lo sguardo solo un attimo di più del dovuto per far capire che lui c’è, ma è troppo di fretta per restare lì….chi è? Ma è lo psicologo errante, straordinaria figura mitologica che potrete incontrare in certe Asl…chissà, magari persino nella vostra!

Nel nostro caso questo ruolo è ricoperto da un simpatico e dinamico signore che chiameremo Umberto. Umberto è un grande sportivo e grazie a questo forse meno di altri accusa la fatica strettamente fisica dello spostamento. Ma, certo, anche se stoicamente non ne parla quasi mai, resta invece l’impresa eroica di affrontare un monte ore distribuito su ambulatori, comunità, centro diurno e una costellazione di gruppi appartamento più uno stuolo di interlocutori tra colleghi pazienti e loro familiari.

Un giorno di ordinaria follia #2 – Gli Alieni al CSM -Psichiatria- Immagine: © Anatoly Maslennikov - Fotolia.com
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Esperto di terapia sistemica viene chiamato in aiuto tutte le volte che il problema di un paziente si rivela particolarmente connesso alle dinamiche familiari. Con un territorio di riferimento che copre all’incirca un bacino di 200.000 residenti l’impresa, come potrete immaginare, è epica ma non capita facilmente di sentirlo alterato . Inoltre i molti anni di militanza fanno di lui un personaggio noto, radicato, e gli conferiscono quel diritto, che deriva dal generale riconoscimento, di guardarsi intorno con tono scanzonato senza risparmiare colpi a nessuno e men che meno alle figure gerarchiche.

Così tra il faceto e il serio Umberto anche oggi è riuscito ad approdare alla riunione d’equipe, o meglio di una delle equipe, per discutere i suoi casi. Sorride, sguardo scherzoso, aspetta che il gruppo finisca di discutere animatamente lasciandoti quel lieve senso di disagio che deriva dal non sentirti davvero sicuro che non sia venuto al lavoro perché il lavoro sei tu…! Da noi può effettuare ben due ore e mezzo di lavoro alla settimana e nonostante ciò i casi su cui confrontarsi sono molti.

Un Giorno di Ordinaria Follia #1 - Posso bere la Candeggina? - Psichiatria - Immagine: © Mario - Fotolia.com
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Qualcuno ride quando inizia a parlare in modo leggero, veloce e arguto dei pazienti ma subito lo stile cambia se c’è il rischio di non essere preso sul serio perché in effetti lui, Umberto, il suo lavoro lo prende molto sul serio e in quattro frasi ben piazzate e ben costruite zittisce la platea. Come si è arrivati alla richiesta del suo intervento, come ha concettualizzato il caso, condivisione del progetto e contratto terapeutico. Improvvisamente tutti ascoltano perché se è vero che a volte il lavoro al CSM è affannato e concitato è anche vero che per sopravvivere devi esserne appassionato e un approccio fatto bene porta entusiasmo e ottimismo a tutti.

Poi Umberto sorride si alza con la giacchetta, il cappello che si era dimenticato di togliersi, una manciata di biscotti rubata dal tavolo e con chiavi della catena in mano si congeda rapido per volare al prossimo appuntamento, qualche quartiere più in là. La dura vita dello psicologo errante non lo abbatte e sfreccia via sulla sua fidatissima bici.

 

Spegnere il Cervello. La Meditazione per contrastare il Rimuginio

 

Spegnere il Cervello. La Meditazione per contrastare il Rimuginio. - Immagine: © hollymolly - Fotolia.com Nuovi dati a conferma dell’efficacia della meditazione nel contrastare efficacemente il rimuginio come stile di pensiero negativo e ricorrente e nel migliorare le capacità di gestire le eccessive preoccupazioni per il futuro.

Grazie alle tecniche di meditazione sarebbe dunque più facile riuscire a concentrarsi sul momento presente. La conferma di questo dato, già noto nella letteratura scientifica di riferimento, ci arriva da uno studio di un gruppo di ricerca del Department of Psychiatry della Yale University School of Medicine. Il contributo di questa ricerca sta nell’aver identificato che attraverso alcune tecniche di meditazione è possibile “spegnere” una specifica area del cervello, indicata nello studio come Default Mode Network, considerato come motore automatico interno in grado di generare quel continuo emergere di idee e pensieri che in un qualche modo interferiscono con ciò che in quel momento si sta facendo.

Mind Wandering. - Immagine: © auremar - Fotolia.com
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Quest’attività di produzione automatica dei pensieri è presente per circa la metà del tempo della veglia, e può portare alla luce ricordi spiacevoli e contribuire al nascere di preoccupazioni per il futuro, creando così uno stato di ansia e di depressione nella persona che in un qualche modo è vittima del suo stesso pensare.

Nello studio sono state prese in considerazione tre diverse tecniche di meditazione:

1. CONCENTRAZIONE: il razionale di questa tecnica è che il praticante deve concentrarsi sul respiro, sentendo l’aria che entra e che esce dal naso, percependo la pancia che si riempie e si svuota, e ogni qual volta che si presenta un pensiero con fermezza deve lasciarlo andare distogliendo l’attenzione da esso.

2. AMARE-GENTILEZZA: in questa tecnica il praticante deve ricordare e visualizzare una situazione nella quale ha desiderato il bene di qualcuno per lui significativo e lo utilizzerà per desiderare per estensione il bene degli altri.

3. CONSAPEVOLEZZA: questa tecnica consiste nel prestare attenzione momento per momento a quello che sta succedendo, a quello che arriva alla coscienza del praticante stesso, senza tentare di modificare il pensiero o la sensazione appena arrivata ma semplicemente accettandola.

Il campione di questo studio sono stati 12 praticanti esperti che sono stati confrontati tramite Risonanza Magnetica Funzionale con 13 soggetti volontari che non hanno mai avuto esperienza di meditazione.

Lo studio ha messo in luce tramite la risonanza magnetica funzionale che i soggetti esperti sono in grado di “spegnere” l’attività delle aree cerebrali comprese nel Default Mode Network, come la corteccia cingolata e la corteccia prefrontale mediale. Ma non solo rispetto alle persone non dedite alle pratiche meditative gli esperti mostrano un’attività della DMN ridotta anche fuori dalla pratica stessa come se “l’allenamento” portasse i suoi effetti benefici anche fuori dalla pratica in sé. Uno degli aspetti che viene messo in luce in questo studio a favore della meditazione è il suo essere di basso costo e facilmente accessibile per un grande numero di persone.

Brewer sottolinea poi a conclusione del suo lavoro che nonostante siano necessari altri studi prospettici, i risultati di questo studio aprono interessanti scenari per l’uso della meditazione nel trattamento del disturbo da deficit dell’attenzione. Inoltre un’ iperattivazione della DMN è stata riscontrata anche in pazienti affetti da Alzheimer e potrebbe essere responsabile della deposizione nelle cellule cerebrali di una sostanza chimica, beta-amiloide, tipica di questa forma di demenza. L’uso di tecniche meditative potrebbe spegnere questa attivazione e quindi avere un possibile effetto “protettivo”.

 

 

BIBLIOGRAFIA: 

 

Ottimismo & Felicità: Fattori Protettivi per Malattie Cardiovascolari

– Rassegna Stampa –

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze PsicologicheSecondo l’American Heart Association negli Stati Uniti muore a causa di malattie cardiovascolari una persona ogni 39 secondi.

Un gruppo di ricercatori di Harvard sostiene che emozioni e stati mentali positivi, come l’ottimismo e la felicità, siano importanti fattori protettivi per la salute del cuore: secondo i risultati dello studio in questione, frutto della prima e più ampia rassegna sistematica del suo genere, sembra infatti che il benessere psicologico ed emotivo possa ridurre il rischio di attacchi cardiaci, ictus e altri eventi cardiovascolari e in generale rallentare la progressione delle malattie cardiovascolari. Per esempio, gli individui più ottimisti hanno il 50% di rischio in meno di vivere un evento iniziale cardiovascolare rispetto ai loro coetanei meno ottimisti.

Mentre numerosi studi si sono concentrati sugli effetti negativi di rabbia, ansia, ostilità e depressione sulla salute del cuore, sappiamo ben poco della relazione tra stati positivi e malattie cardiovascolari. Le autrici principali dello studio, Julia Boehm e Laura Kubzansky, sottolineano che l’assenza di stati negativi non è uguale alla presenza di stati positivi, infatti fattori come l’ottimismo, la soddisfazione di vita, e la felicità sembrano essere associati a un più basso rischio di malattia cardiovascolare indipendentemente da variabili quali l’età, lo stato socio-economico, il peso corporeo e dai tradizionali fattori di rischio e malessere, come il fare uso di tabacco o alcol.

Inoltre il senso di benessere rende le persone più propense a seguire una dieta equilibrata, a dormire a sufficienza ed è legato a una più bassa pressione sanguigna, meno grassi nel sangue e ad un peso corporeo normale.

Questi risultati hanno implicazioni importanti rispetto a come si può intervenire nella prevenzione delle malattie cardiovascolari e nella cura dei pazienti cardiopatici, infatti non basta limitarsi a ridurre il malessere psicologico che accompagna queste malattie, ma è anche importante lavorare sulle risorse individuali per promuovere e rafforzare stati di benessere psicologico ed emotivo.

 

 

BIBLIOGRAFIA:

Psicologia dello Sport: L’importanza dell’ambiente sportivo per lo sviluppo Psicologico.

Elisa Morosi.

 

ALLENARE GIOVANI SPORTIVI: CRESCERE PERSONE CONSAPEVOLI O ATLETI VINCENTI? (o tutte e due?) 

Psicologia dello Sport: Ambiente Sportivo e Sviluppo Psicologico. - Immagine: © Monkey Business - Fotolia.comSecondo una ricerca del Michigan State University sullo sport giovanile, fare sport in un ambiente focalizzato sul miglioramento e lo sviluppo di sé piuttosto che sulla competitività o sull’agonismo crea un senso del gruppo più forte e permette un migliore sviluppo dello spirito di iniziativa, delle competenze sociali e dell’identità personale.

Questo è quanto emerso da uno studio condotto da Daniel Gould, Ryan Flett e Larry Lauer pubblicato ad Agosto 2011 sulla rivista Psychology of Sport and Exercise e che conferma quanto già riscontrato da altri ricercatori, cioè che l’attenzione all’insegnamento e al clima della squadra hanno importanti influenze sullo sviluppo personale dei giovani atleti; più nello specifico i dati della ricerca di Gould, Flette e Lauer indicano ciò che gli allenatori dovrebbero promuovere. Più che il desiderio di vincere, è l’incremento delle abilità e competenze personali degli atleti attraverso un atteggiamento accogliente e interessato nei loro confronti.

Cosa non farei per la danza! - Immagine: © olly - Fotolia.com
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Gli atleti che hanno preso parte allo studio erano 239, di età compresa tra i 10 e i 19 anni, provenienti da aree urbane svantaggiate, con carenza di servizi e difficoltà economiche e sociali; il campione è stato sottoposto alla somministrazione di diversi test quali Youth Experiences Scale (YES-2), Sport Motivational Climate Scale e Caring Climate Scale ed è stata misurata l’importanza data dagli allenatori allo sviluppo psicologico e della persona.

I risultati indicano che un clima di maggior attenzione ai ragazzi e un orientamento al compito anziché alla competizione o alla vittoria durante gli allenamenti portano a sviluppi positivi per il gruppo e per i singoli.

Quando un giovane atleta entra a far parte di un gruppo sportivo entrano in gioco molti meccanismi che vanno al di là dell’allenamento motorio o tecnico, ma che hanno a che fare con le relazioni tra pari e con un adulto che svolge il ruolo di conduttore di quel gruppo e con tutte le dinamiche che si intrecciano al suo interno, passando dalla ricerca di un’identità personale e di un proprio ruolo all’interno di quel gruppo, dalla collaborazione con altri per raggiungere un fine comune, fino ad arrivare al rapporto con l’avversario e a tutti i vissuti che ne derivano. Appare evidente quanto competenze acquisite sul campo da gioco si possano facilmente esportare nella vita oltre lo sport e viceversa, e quanto sia importante esserne ben consapevoli.

La sfida degli allenatori dovrebbe quindi essere quella di riuscire a motivare gli atleti al gioco e alla competizione avendo sempre in primo piano obiettivi più ambiziosi e alti che hanno a che fare con lo sviluppo della persona nella sua totalità; con queste premesse non si esclude certamente l’attenzione alla prestazione e alle competenze prettamente sportive, che, secondo Lauer, potranno trarre giovamento dal fatto che i giovani atleti imparino ad essere persone responsabili, relazionalmente competenti ed emotivamente competenti.

 

 

BIBLIOGRAFIA:

Malattia infantile: Meccanismi di Difesa Familiare

  

Malattia infantile: Meccanismi di Difesa Familiare. - Immagine:  © 1998-2012 Hoepli Editore. Immagine Riprodotta su gentile concessione dell'Editore
Accudimento Invertito. © 1998-2012 Hoepli Editore. Immagine Riprodotta su gentile concessione dell'Editore

L’uso di meccanismi di difesa specifici (Rubbini Paglia e Di Giovanni, 2001; Soccorsi, Lombardi, Rubbini Paglia, 1984; Soccorsi, 1986; Soccorsi, Di Giovanni, Ruggiero, Rubbini Paglia, 2001) è stato osservato nelle famiglie dove a rischiare la morte sono i bambini. La malattia oncologica, ma non solo, e il rischio di morte che questo tipo di malattia porta con sé, spinge tutta la famiglia a reagire tempestivamente con un disperato tentativo di circoscrivere e incistare, quella massa estranea nella speranza di neutralizzarla (Soccorsi, Lombardi e Rubbini Paglia, 1984).

Il tempo si ferma, i rapporti tra le persone si cristallizzano, il bisogno di controllare l’evoluzione degli eventi porta all’immobilità; il tentativo è quello di fermare il ciclo vitale della famiglia al momento prima dell’insorgenza della malattia. Cristallizzare le relazioni, impedendo che i modi di rapportarsi gli uni agli altri si modifichino nel tempo, permette di esercitare un controllo sull’angoscia dell’ignoto, cioè sull’angoscia di morte: questa staticità è un’attualizzazione della morte stessa in quanto negare il cambiamento è negare l’espressione di processi vitali, ma fermare il tempo è anche garanzia di immortalità. Attualizzando la morte la famiglia si illude di poterla controllare.

Bambini nel tempo: Comunicare la Malattia e l' Accudimento Invertito. - Immagine: © 1998-2012 Hoepli Editore. Immagine Riprodotta su gentile concessione dell'Editore.
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Le autrici (Soccorsi, Lombardi e Rubbini Paglia, 1984; Soccorsi e Rubbini Paglia, 1989) hanno identificato due diversi gruppi di meccanismi di difesa: un primo gruppo comporta la abnorme redistribuzione dei ruoli all’interno della struttura familiare; un secondo gruppo riguarda invece le modificazioni radicali della struttura spazio-temporale della famiglia che arrivano a intaccare anche i confini individuali, fino alla fusione. Il passaggio dagli uni agli altri avviene senza soluzione di continuità.

Il primo livello di destrutturazione riguarda la cristallizzazione della dinamicità degli spazi: la famiglia si organizza al suo interno secondo rigide funzioni statiche, ruoli che sono funzionali a una reciproca protettività dall’angoscia di morte. Spesso nei bambini malati si osservano sintomi di infantilismo e adultismo (mentre nei fratelli sani è comune l’orfanità) grazie ai quali il bambino nega di “sapere” per evitare di aumentare l’angoscia dei genitori: in questo modo il bambino assume una funzione protettiva nei loro confronti, la barriera generazionale si infrange e il bambino si ritrova ad occupare la posizione generazionale dei nonni invece che quella di figlio (Role Reversing o Accudimento Invertito); in questo modo viene meno la possibilità di accogliere e contenere le sue angosce, che comunque permangono come fantasmi di cui è impossibile parlare.

Nelle famiglie che adottano questo meccanismo di difesa assume un particolare significato la somministrazione dei farmaci, infatti la terapia medica e i relativi controlli clinici comportano una somministrazione che scandisce il tempo e permette una ritualizzazione dell’evento. Se l’inversione dei ruoli genitoriali, l’infantilismo, l’adultismo e l’orfanità sono meccanismi nascosti e “non autorizzati”, l’uso del rito dei farmaci è invece legalizzato ed esplicito e allo stesso modo utilizzato per soddisfare il bisogno che la famiglia ha di cristallizzare lo spazio per negare lo scorrere del tempo e controllare l’angoscia. Nella fase iniziale del processo di guarigione, la sospensione della terapia farmacologia può essere un utile elemento terapeutico destabilizzante in grado di indurre una crisi e sbloccare la tendenza omeostatica della famiglia, per permettere la ripresa dell’evoluzione del ciclo vitale.

Con il protrarsi della malattia è possibile che la famiglia aumenti la rigidità dei meccanismi di difesa utilizzati perdendo ogni parametro spaziale. La rigidità aumenta favorendo processi fusionali che garantiscono il massimo grado di protettività omeostatica: ogni tentativo di separazione viene vissuto come pericolosissimo perché capace di provocare la morte propria e degli altri.

Spesso anche separarsi fisicamente per poco tempo gli uni dagli altri è intollerabile.

È a questo livello che, nel tentativo stesso di difendersi da essa, la famiglia attualizza la morte: la protettività garantisce l’omeostasi bloccando il ciclo vitale della famiglia e anticipando, paradossalmente, la morte stessa.

Il bisogno di fusionalità e l’impossibilità di definirsi come individui separati si esprime nel “fare finta”; questa modalità relazionale si manifesta nell’uso del linguaggio, che è una potente minaccia nei confronti della fusione: la parola detta ha un alto potere di definizione della realtà e di mediatore delle relazioni interpersonali, in quanto è difficile espropriare una parola del suo significato e scindere “chi” dice qualcosa da “cosa ha detto”. Gli effetti malefici e angosciosi della malattia sono scongiurati e negati dagli sforzi per evitare di pronunciare parole come leucemia o tumore o dall’uso di neologismi; spesso tra i membri della coppia cala il silenzio. In altri casi la famiglia ricorre a eccessive razionalizzazioni che hanno ugualmente la funzione di controllare l’angoscia di morte.

Accettazione del Lutto. - Immagine: © bruniewska - Fotolia.com
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In queste famiglie la crisi indotta dalla sospensione dei farmaci non è sufficiente a produrre una destrutturazione tale da promuovere la ripresa dell’evoluzione del ciclo vitale. Il protrarsi di livelli elevati di angoscia di morte ha provocato “l’appiattimento di ogni affermazione di individualità”. In questo caso la famiglia può essere aiutata a ritrovare la parola ripercorrendo il cammino a ritroso: rompendo il silenzio e riappropriandosi del linguaggio verbale è possibile rincominciare a comunicare, a condividere e a ridefinirsi rispetto agli altri.

I meccanismi di difesa dall’angoscia di morte, individuali e familiari, fanno riflettere sul bisogno che tutti abbiamo di proteggerci dall’idea della nostra morte e di quella di chi amiamo; l’idea della fine è qualcosa che necessita di un tempo e di uno spazio, di ascolto e condivisione, per essere accettata o anche solo pensata. A questo proposito è importante sottolineare il concetto di “atto terapeutico”, che contrapponendosi al “processo terapeutico”, invita i terapeuti che lavorano nei reparti ospedalieri a “esserci” nel qui ed ora della relazione con i pazienti e la famiglia che si trova a fare i conti con le sue angosce di morte.

L’atto terapeutico, scavalcando il rigore del metodo e le regole del setting, che impongono uno spazio e un tempo definiti, consente al terapeuta di attualizzarsi nella relazione con la famiglia e di fornire un’occasione per veicolare una ridefinizione della relazione. Un aspetto che caratterizza l’atto terapeutico è il tempo: l’atto terapeutico è specifico per una fase avanzata della malattia, come a sottolineare che è necessario concedere alla famiglia di usare i suoi meccanismi di difesa durante la fase più critica del trattamento intensivo. Il bisogno che la famiglia ha di “fermare il tempo” la rende impossibilitata a utilizzare un rapporto psicoterapeutico di per sé processuale.

Il bisogno di difendersi e di prendere tempo “fermando il tempo” prima di poter utilizzare la crisi affinché la differenziazione, l’individuazione e la crescita dei suoi membri sia nuovamente possibile, è rispettato anche dal permettere che la famiglia sviluppi una dipendenza dal centro di cura. Dopo aver visto la morte così da vicino, dopo averla addirittura “attualizzata” attraverso la paralisi, per tornare a vivere è necessario rinascere: il centro di cura, permettendo alla famiglia di sperimentare una dipendenza-appartenenza da esso, si pone come contenitore delle angosce di morte e come una sorta di “base sicura” dalla quale è possibile separarsi per ricominciare a crescere.

 

 

BIBLIOGRAFIA:  

  • Rubbini Paglia P., Di Giovanni S. (2001) Relazione d’aiuto e accompagnamento alla morte al bambino oncologico e alla sua famiglia. In-formazione psicologia, psicoterapia, psichiatria. Anno 12, 43: 56-59.
  • Soccorsi S., Di Giovanni S., Ruggiero A., Rubbini Paglia P. (2001) Percorso della famiglia tra appartenenza e separazione dal centro oncologico. Acta med. Rom., 39:82-86-
  • Soccorsi S., Lombardi F., Rubbini Paglia P. (1984) La famiglia come risorsa nel trattamento del bambino oncologico. Terapia Familiare, 16: 47-66.
  • Soccorsi S., Rubbini Paglia P. (1989) La malattia oncologica del bambino come incidente evolutivo della famiglia. Terapia familiare, 29: 5-15.

Ascoltare la propria Musica preferita migliora la Performance Sportiva

– Rassegna Stampa – 

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze PsicologicheSia musica classica, death metal o punk, ascoltare le canzoni preferite può favorire la prestazione e il coinvolgimento nella pratica delle discipline sportive.

Questo risultato è stato presentato ieri 18 aprile presso la British Psychological Society Annual Conference che si sta tenendo a Londra in questi giorni. Precedenti studi avevano già dimostrato il potere motivazionale della musica, ma per la prima volta si analizzano gli effetti sulla performance sportiva di una specifica musica o canzone preferita dall’individuo.

La ricerca ha coinvolto 64 partecipanti e ha confrontato tre gruppi di soggetti praticanti diverse discipline sportive: football, netball e corsa. Dopo avere identificato canzoni e generi preferiti individualmente, i partecipanti sono stati sottoposti ad assessment sia prima che durante allenamenti e competizioni sportive, nella condizione in cui era loro consentito di praticare l’attività fisica con o senza la loro musica/canzone preferita. Ogni sessione è stata valutata dai partecipanti in termini di diverse variabili tra cui motivazione percepita, coinvolgimento emotivo, consapevolezza e grado dello sforzo percepito.

Dai risultati è emerso che ascoltare la propria musica preferita migliora in tutti i gruppi i punteggi di coinvolgimento percepito e motivazione alla sfida dettata dall’attività sportiva, in particolare durante gli allenamenti; si è rilevata invece una ridotta percezione dello sforzo e della fatica sia negli allenamenti che nelle fasi di competizione.

Ecco i favourites nelle playlist per ciascun gruppo di sportivi:

  • Netball: Rihanna e Black Eyed Peas
  • Running: Eminem, Pendulum, Blondie e Muse
  • Football: Kings of Leon, Florence and the Machine, Survivor e Foo Fighters

Attenzione! “Eye of the Tiger” era presente nelle playlist di tutti i gruppi coinvolti!

 

 

 

BIBLIOGRAFIA:  

 

 

Recensione di The Artist: possiamo fare a meno delle parole?

 

Recensione di The Artist: possiamo fare a meno delle parole?L’esperienza di vedere un film muto è piuttosto particolare, ci riporta indietro nel tempo e anzi, è il vissuto peculiare di un tempo che non esiste più.

L’esperienza di vedere The Artist, film francese pluripremiato alla recente cerimonia degli Oscar, è un viaggio in emozioni che sembravano dimenticate, smarrite dentro suoni e frastuoni, confuse fra colori sempre più vivi ma talvolta unificati secondo logiche poco immaginative, attente soprattutto ai gusti del pubblico di massa. The Artist è una scommessa, un film senza parole e senza colori, sebbene il bianco e nero sia spesso il colore della poesia, del cinema più intimo, della fotografia più minimalista e insieme introspettiva.

E’ il colore di Chaplin e Buster Keaton, di Humphrey Bogart e Ridolini, che unisce magia e oscurità, sorriso lieve e frenesia delle espressioni. Ascoltare un film muto, le carezze sottili con cui gli attori curano la propria interpretazione, e la musica che accompagna ogni scena col ritmo di un passo che addolcisce e spiega, penetra e riformula, è la possibilità che The Artist offre allo spettatore, scavando una piccola grotta di significato antico nell’universo attuale di un cinema che globalizzandosi rischia di appiattire parte dell’esperienza e di marginalizzare le diversità, le poetiche più originali, le scelte creative più private.

Cinema - Recensione di A Simple Life (2011) di Ann Hui. - Immagine: Theatrical Release Poster for A Simple Life, Copyright © 2011 by Distribution Workshop.
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The Artist racconta di un attore del cinema muto esaltato dal pubblico e poi dimenticato allorché prende il sopravvento il sonoro; sullo sfondo e poi sempre più centrale, l’amicizia con una ragazza che da sconosciuta fan del grande divo diventa stella del cinema, superando in fama e successo l’uomo grazie al quale si era avvicinata a quel mondo. Le emozioni scorrono delicate ma robuste, l’intreccio narrativo è semplice ma si avvale di trovate poetiche e geniali, come gli svenimenti di un cagnolino ammaestrato o un balletto che i due attori abbozzano divisi da uno schermo che fa intravedere loro solo le gambe dell’altro, senza svelarne l’identità.

 

 

L’assenza delle parole, che compaiono solo in pochi sottotitoli senza partecipare alla raffigurazione emotiva dei personaggi, è particolarmente stimolante per chi di parole vive e lavora utilizzandole nel setting terapeutico come principale strumento di relazione col paziente. La nostra esperienza clinica, le riflessioni teoriche che formuliamo riguardo alla pratica terapeutica, si nutrono di parole e dei loro significati condivisi, costantemente rinegoziati nella creazione di un codice comunicativo che semplifichi il nostro rapportarci col mondo; in questo continuo rinnovarsi di suoni crediamo spesso di generare una facilitazione espressiva, una modalità più agevole di comprendere ed essere compresi, un canale più lineare attraverso il quale fare scorrere i nostri significati affinché giungano all’altro.

Sinfonia d'Autunno: Bergman ci insegna la ciclicità delle emozioni. - Immagine: Poster Cover from 1978 Movie: Autumn Sonata
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Non di rado dobbiamo invece constatare che non è così, che le parole possono diventare eloquio confuso e confusivo, e quei segnali che sembrano comporre un quadro comunicativo, non solo coerente ma anche rassicurante, sono in grado di trasformarsi in una fonte sempre attiva di incomunicabilità. Da qui nasce forse la catartica sensazione originata dall’immergersi in un film muto, nel quale i tempi sono più dilatati e più dilatate le espressioni degli attori, più vivide le loro emozioni. Sospeso il ritmo serrato delle parole siamo costretti a dare ai gesti un valore totalizzante, individuando in essi l’autentica natura delle relazioni; l’innamoramento di una ragazza nei confronti dell’uomo che ha sempre desiderato da lontano e che ora per una sequenza di eventi casuali le rivolge la propria attenzione, viene espresso con l’abbraccio ad un cappotto vuoto, infilando il braccio in una manica per immaginare di essere avvolta dall’amore dell’altro.

Kill Me Please, Suicidio Assistito e le nuove frontiere del Controllo. - Immagine: © 2012 Costanza Prinetti
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E’ assai raro ammirare in una pellicola parlata la stessa raffinatezza comunicativa, la medesima capacita’ di rappresentare il reale ricorrendo a sfumature tenui; e’ assai raro in un film di parole l’incontro con un’arte altrettanto elevata nell’accompagnare il fruitore lungo sentimenti complessi eppure resi con eccezionale semplicità. Il muto rallenta l’incedere dell’azione amplificandone il significato profondo, come un treno che compiendo i primi passi della partenza ci fa cogliere la soluzione di continuità del nostro movimento. L’assenza di parole ci mette alla prova, ci conduce a percepire la realtà attraverso sfondi ed equilibri differenti: “The Artist” ha un colore speciale, libero e sorprendente.

 

 

Kill Me Please, il Suicidio Assistito e le nuove frontiere del Controllo.

 Kill Me Please, Suicidio Assistito e le nuove frontiere del Controllo. - Immagine: © 2012 Costanza Prinetti

Per uno psicologo, soprattutto di matrice cognitivista, può essere piuttosto frequente riscontrare che uno dei crucci su cui spesso si arrovellano i pazienti è il fatto di non riuscire ad avere tutto sotto controllo.

Ognuno di loro poi, a seconda della forma che il nucleo doloroso più profondo decide di assumere per far capolino in superficie, sceglie la propria strategia vincente per rincorrere la chimera della Certezza Assoluta; c’è chi trova sollievo nel monitorare in modo coatto l’apporto calorico di carote e zucchine, chi si consola ripetendo con ritualità kafkiana l’ispezione di interruttori e valvole del gas, oppure chi si costruisce una vita mentale parallela in cui, a ritroso o con pretese da Nostradamus, si scervella su quanto di brutto può aver combinato in passato o su quanto di brutto potrebbe capitare in futuro, illudendosi che la fatica di un simile lavorìo mentale abbia il potere di incidere sulla realtà dei fatti o di modificare il corso degli eventi.

Il Controllo è il Problema, non la Soluzione. - Immagine: © somenski - Fotolia.com
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Tra i possibili scenari minacciosi che potrebbero favorire un bisogno di controllo, la morte è di certo l’evento più inevitabile e allo stesso più imprevedibile (nella forma e nei tempi) che possa capitare (e che capiterà di sicuro) ad un essere umano, e quindi non stupisce che ci sia chi pretende di dominare anche questo aspetto misterioso della propria esistenza, sostituendosi al destino nella funzione di decidere tempi e modi del congedo finale.

Ma è davvero possibile controllare la propria morte o (ribaltando il punto di vista) mettere sotto controllo la pulsione di morte altrui?

A primo impatto verrebbe da dire di sì; nonostante il dibattito sull’eutanasia sia estenuante e si abbia spesso l’impressione che sia vero tutto e il contrario di tutto, tutt’altra storia è il suicidio assistito, in quanto ogni individuo è sovrano nelle scelte che riguardano la sua sfera privata.

Pertanto, bando ai cavilli etici, morali, politici, filosofici o legislativi del caso, il giudizio di chi decide di stabilire quando e come morire rimane del tutto insindacabile.

La commedia noir “Kill Me Please” del regista belga Olias Barco smentisce però questa prospettiva e interpreta l’attuale rivendicazione occidentale del diritto al suicidio assistito (e istituzionalizzato) smascherandone, con sguardo cinico e divertito, la follia. Nel film un medico illuminato gestisce una clinica sontuosa, simile a quella realmente esistente in Svizzera, in cui si offre a pagamento un suicido assistito e ad personam a chi lo richiede; ciascun paziente è libero di decidere di farla finita quando e come crede, e ha diritto di essere affiancato e supportato da uno staff esclusivo nell’attuazione del proprio progetto di morte.

I pazienti che arrivano alla clinica, strampalati e grotteschi, spesso non hanno nessuno dei requisiti che ci si aspetterebbe da degli aspiranti suicidi, bensì rappresentano un campione di umanità mediamente sofferente, in cui tanti potrebbero, per certi versi, riconoscersi: li accomuna il desiderio (e la pretesa) che per loro si organizzi una morte su misura, studiata in ogni dettaglio a seconda dei gusti individuali. E il Dottor Kruger asseconda e accarezza insieme a loro questo sogno di terrena onnipotenza, facendosi paladino del diritto di ciascuno a morire con dignità e consapevolezza e, soprattutto, nel pieno rispetto delle proprie fantasie.

Il Suicidio nella Canzone d'Autore Italiana. #1 - Immagine: © olly - Fotolia.com
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Ma nonostante il meccanismo sembri progettato alla perfezione, entrambe le parti capiranno presto che dominare le dinamiche della vita e della morte è un’illusione, non foss’altro perché la semplice esistenza dei rapporti interpersonali introduce un gradiente di complessità impossibile da addomesticare (e nel film la complessità è rappresentata ad esempio dall’ingerenza dello Stato e delle istituzioni nella vita dei pazienti, dall’ostilità dei cittadini che si oppongono con violenza all’attività ambigua della clinica, e dai rapporti allucinanti che si creano tra i pazienti stessi e che stravolgono continuamente i piani prestabiliti).

Si intuisce insomma una critica al mito della “dolce morte” e all’attitudine nevrotica con cui l’uomo moderno si illude di avere il controllo della propria sofferenza eludendola anziché indagandone le motivazioni.

“Kill Me Please” è una pellicola divertente e a tratti molto disturbante, che tra le altre cose ammonisce sull’impossibilità di spostare fuori da sé la gestione dei propri drammi personali e ci ricorda come il bisogno assoluto di controllo sugli eventi, vissuto come un obbligo e una meta da raggiungere a tutti i costi, venga spesso scambiato per una soluzione intelligente, quando in realtà altro non è se non un grosso problema.

 

 

BIBLIOGRAFIA: 

  • Sassaroli S., Lorenzini R., Ruggiero G.M. (a cura di) (2006) Psicoterapia cognitiva dell’ansia – Rimuginio, controllo ed evitamento. Raffaello Cortina Editore

ADHD: Ricerche e Tendenze

 

 

ADHD: RIcerche e Tendenze. - Immagine: © JcJg Photography - Fotolia.comQuanti genitori hanno figli agitati, fuori controllo, che non riescono mai a stare fermi?

Oggi sappiamo che molti di questi bambini non sono semplicemente irrequieti o maleducati, ma soffrono di un vero e proprio disturbo, chiamato ADHD, un acronimo per “Attention-Deficit/Hyperactivity Disorder”, cioè Disturbo dell’Attenzione, con o senza Iperattività.

Un’interessante ricerca condotta dalla NorthWestern University ha preso in esame, dal 2000 al 2010, un campione rappresentativo a livello nazionale di bambini e ragazzi, al di sotto dei 18 anni, cui è stato diagnosticato l’ADHD e che sono stati poi sottoposti a trattamento. Lo studio ha analizzato come nell’arco temporale di dieci anni siano cambiate le diagnosi e i trattamenti di ADHD.

I risultati hanno evidenziato innanzitutto che le diagnosi sono aumentate del 66%.

Questo dato deve preoccuparci? Prima si riteneva, troppo spesso ed in maniera troppo semplicistica, che il bambino fosse soltanto poco tranquillo o che i genitori non fossero capaci a svolgere il proprio compito. È possibile che ora invece si esageri nel senso opposto, tendendo a diagnosticare troppo frequentemente un ADHD?

Il Senso della Giustizia nei bambini. - Immagine: © VRD - Fotolia.com
Articolo consigliato: Il Senso della Giustizia nei bambini.

Secondo Craig Garfield, pediatra e assistente professore alla Northwestern University Feinberg School of Medicine, la risposta è decisamente negativa. Garfield è il primo autore di questo studio e sostiene che l’aumento di diagnosi sia dovuto al sempre maggior interesse riguardo a questo disturbo: oggi infatti le conoscenze sull’ADHD sono di gran lunga maggiori rispetto a dieci anni fa, ed è conseguentemente più facile riconoscerne i sintomi anche per chi non è un professionista del settore. Ovviamente, una volta riconosciuti i sintomi, è necessario rivolgersi a degli specialisti per una diagnosi effettiva e per la cura del disturbo.

Garfield ricorda come in molti casi, per la terapia, si ricorra a psicostimolanti, ma oggi ci sono molti metodi per curare il problema e i suoi effetti secondari, anche senza l’utilizzo di medicine. Questo comporta non solo un aiuto al bambino, ma anche ai genitori e agli insegnanti che lo seguono, per affrontare il problema nella maniera più corretta e più utile per il raggiungimento dell’autocontrollo.

Un recente studio canadese (MTA) effettuato su 579 bambini con ADHD dai 7 ai 9 anni, ha confrontato l’efficacia di tre tipi diversi di intervento: il trattamento psico-educativo (con i genitori, insegnanti e con il bambino), il trattamento esclusivamente farmacologico, il trattamento combinato farmacologico e psicologico. Alla fine dei 14 mesi dello studio MTA, il 68% dei bambini che hanno ricevuto il trattamento combinato presentano una remissione dei sintomi. Inoltre, i bambini che hanno ricevuto il trattamento combinato hanno ridotto in 14 mesi la dose del farmaco (18%). L’efficacia del farmaco, sebbene sia stata confermata dallo studio canadese, pone al vaglio alcune considerazioni di ordine morale. Il metilfenidato viene considerato tra i farmaci di scelta elettivi nel trattamento dello ADHD, ma non si possono tralasciare gli effetti collaterali: il “Science and Technology Committee”, una commissione inglese che consiglia il governo sulle questioni scientifiche di rilievo, ha giudicato il metilfenidato una delle venti sostanze psicoattive più dannose, al pari di LSD ed Ecstasy.

Il farmaco, inoltre, non agisce sugli altri tipi di problemi che i bambini con ADHD presentano, come la difficoltà di interazione con i pari, la difficoltà a inibire le risposte e le difficoltà comportamentali.

Diversamente dall’uso del farmaco, un approccio di tipo cognitivo-comportamentale si focalizza più sull’insegnamento diretto al bambino delle abilità di self-control e delle abilità per la risoluzione dei problemi.

 

 

BIBLIOGRAFIA:

  • Swanson JM, Kraemer HC, Hinshaw SP, et al. Clinical relevance of the primary findings of the MTA: success rates based on severity of ADHD and ODD symptoms at the end of treatment. J Am Acad Child Adolesc Psychiatry. 2001;40(2):168–179
  • Vitiello B, Severe JB, Greenhill LL, et al. Methylphenidate dosage for children with ADHD over time under controlled conditions: lessons from the MTA. J Am Acad Child Adolesc Psychiatry. 2001;40(2):88–196.
  • The MTA Cooperative Group. A 14-month randomized clinical trial of treatment strategies for attention-deficit/hyperactivity disorder. Arch Gen Psychiatry. 1999;56(12):1073–1086.
  • Horn, W.F., Ialongo, N.S., Pascoe, J.M., Greenberg, G., Packard, T., Lopez, M., Wagner, M., Puttler, L., (1991) ‘Additive effects of psychostimulants, parent training and self-control therapy with ADHD children.’ Journal of the American Academy of Child and Adolescent Psychiatry, 30,233-240.
  • Erin White, Diagnosis of ADHD on the rise. From the Northwestern University’s website

Abilità di lettura nei babbuini: il riconoscimento dell’ortografia.

– Rassegna Stampa – 

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze PsicologicheImparare a leggere implica anche l’abilità di riconoscere e memorizzare combinazioni regolari di lettere che compongono le parole. Un nuovo studio dimostra che i primati non umani sarebbero in grado di riconoscere specifiche combinazioni di lettere nelle parole e di rilevarne anomalie.

Un gruppo di ricercatori del Laboratoire de Psychologie Cognitive (Cognitive Psychology Laboratory, CNRS/Aix-Marseille University) di Marsiglia ha condotto un esperimento in cui venivano mostrati a babbuini alcune parole composte da quattro lettere su un dispositivo touch screen. I babbuini venivano addestrati a pigiare una forma ovale se lo stimolo presentato era effettivamente una parola scritta correttamente oppure una croce in caso vi fossero anomalie: ovviamente venivano rinforzati postitivamente e ricompensati mediante cereali a fronte delle risposte corrette. In pochi giorni di training i babbuini avevano effettivamente appreso a distinguere correttamente le parole in lingua inglese tipo “bank” rispetto a non-parole come “jank”.

Ancora più sorprendentemente, dopo avere memorizzato lo spelling di dozzine di parole, i babbuini erano poi in grado di dare le risposte corrette anche di fronte a parole che non avevano mai visto precedentemente. Ciò suggerisce che i nostri antenati primati non si limiterebbero a memorizzare la forma complessiva delle parole ma sarebbero in grado di rilevare e memorizzare patterns regolari nell’organizzazione delle parole: è come se fossero in grado di apprendere combinazioni di lettere regolari e frequenti all’interno delle parole di lingua inglese, e similmente di rilevarne anomalie e irregolarità.

Questa abilità, non specificamente umana nè linguistica, potrebbe quindi avere rappresentare una delle premesse per l’evoluzione del linguaggio nell’uomo.

 

 

BIBLIOGRAFIA: 

Vestita di Rosso = più interessata al Sesso? (agli occhi degli uomini)

 

Vestita di Rosso = più interessata al Sesso? (agli occhi degli uomini)  - Immagine: © konradbak - Fotolia.comGli abiti rossi aggrovigliano la mente degli uomini, basta chiedere a  Neo di Matrix. In una scena del film, l’eroe subisce un’imboscata dopo essere stato distratto dalla “donna in rosso”.

Ora un nuovo studio indaga i fondamenti di questo sentire comune. L’assunto è che gli uomini valutino le donne che indossano abiti rossi come più interessate al sesso, suggerendo che gli esseri umani possano essere condizionati ad associare questo colore alla fertilità.

L’attrazione per il rosso non è una novità. Le donne hanno indossato blish rosato e rossetto luminoso per circa 12.000 anni. E, se siete stati abbastanza fortunati da ricevere un biglietto per il giorno di San Valentino, sarà probabilmente stato decorato di piccoli cuori rossi. È un effetto che deriva probabilmente dalla biologia, dice Adam Pazda, psicologo presso l’Università di Rochester, New York, e autore del nuovo studio. Quando molti primati femmina -dagli scimpanzè ai diversi tipi di babbuini chiamati mandrilli- diventano fertili, il picco dei livelli di estrogeni genera l’apertura dei vasi sanguigni che rendono il loro viso rosso brillante. Questa carnagione arrossata sembra dare ai maschi il segnale che è il momento di fare la loro mossa.

Enclothed Cognition. Dimmi come ti vesti e ti dirò cosa pensi! - Immagine: © Monika 3 Steps Ahead - Fotolia.com
Articolo consigliato: Enclothed Cognition. Dimmi come ti vesti e ti dirò cosa pensi!

Lo stesso potrebbe essere vero per gli esseri umani, dice Pazda. In uno studio precedente, scienziati hanno dimostrato che gli uomini sembrano essere più attratti da donne vestite di rosso, piuttosto che in un colore come il bianco. Questo a prescindere dall’abito. “Non deve essere un vestito rosso o un abito sexy”, dice. “Può essere anche una T-shirt rossa”.

ESPERIMENTO: 
Per capire perché, Pazda e i suoi colleghi hanno condotto un semplice esperimento. Hanno mostrato a 25 uomini una foto modificata di una donna single, in diversi casi, indossava una T-shirt bianca o rossa. I ricercatori hanno poi chiesto ai volontari di valutare, su una scala da 1 a 9, quanto la modella potesse essere interessata ad una storia. In altre parole, gli uomini hanno risposto alla domanda: “Lei è interessata al sesso?”. 

Gli uomini hanno interpretato il vestito rosso come un segnale che la donna era effettivamente più aperta alle avances sessuali. Infatti, i ragazzi tendevano a dare un punteggio sulla disponibilità della donna al sesso da 1 a 1,5 punti in più quando portava la maglietta rossa piuttosto che bianca.  È noto che gli uomini tendono a gonfiare l’appeal sessuale di una donna se credono che sarà più aperta e disponibile.

Il lavoro del team è molto interessante, secondo Markus Maier, psicologo presso l’Università di Monaco di Baviera in Germania. Ma, a questo punto, è impossibile dire perché gli uomini adorino così tanto il rosso. L’effetto potrebbe essere evolutivo, ma potrebbe anche essere un fenomeno culturale, in altre parole, un comportamento appreso tramandato di generazione in generazione. Per capire questo gli scienziati avrebbero bisogno di recarsi in angoli isolati del mondo per esaminare se universalmente il rosso sia un colore associato alla sessualità.

Ma è chiaro le donne dovrebbero stare attente, dice Pazda . Anche scelte apparentemente insignificanti del guardaroba possono inviare un sacco di segnali non intenzionali. “Indossare rosso può essere una lama a doppio taglio”, dice. Le donne “potrebbero ottenere sempre l’attenzione sessuale anche quando non la desiderano”. Ma c’è una lezione per gli uomini, inoltre. E’ importante per gli uomini essere consapevoli di come il loro atteggiamento verso le donne possa ritorcersi contro a causa di indizi fuorvianti. Questa è una lezione che Neo ha sicuramente imparato!

 

 

BIBLIOGRAFIA: 

Neuroscienze e Psicoanalisi: il contributo di Mauro Mancia

Milko Prati.

 

MEMORIA ESPLICITA E MEMORIA IMPLICITA. L’INCONSCIO NON RIMOSSO 

Neuroscienze e Psicoanalisi. Il contributo di Mauro Mancia. - Immagine: © robodread - Fotolia.comFino a non molto tempo fa accostare i termini Neuroscienze e Psicoanalisi sarebbe equivalso ad esprimere un ossimoro. Negli ultimi anni, la ricerca neuroscientifica ha permesso l’individuazione di diversi punti di contatto con la psicoanalisi offrendo una base morfofunzionale a funzioni specifiche della mente sulle quali sono fondate le teorie psicoanalitiche.

In Italia, il progetto di una possibile integrazione tra le neuroscienze e la psicoanalisi è stato portato avanti da Mauro Mancia. Allievo di Cesare Musatti, è stato professore di Fisiologia Umana all’Università degli Studi di Milano e psicoanalista SPI, ha cercato di allontanare progressivamente la psicoanalisi dalla metapsicologia per avvicinarla sempre più alla psicologia aperta alla sperimentazione e alla osservazione scientifica.

Punto di partenza è la scoperta da parte delle neuroscienze dell’esistenza di due sistemi della memoria:

  • La memoria esplicita: a lungo termine, dichiarativa, autobiografica, relativa alla propria identità e storia personale, e che permette il ricordo. 
  • La memoria implicita: che invece non è passibile di ricordo e non è verbalizzabile.

 

Giuseppe Civitarese - Perdere la Testa - Immagine: Immagine di Copertina © Editrice Clinamen
LEGGI LA RECENSIONE: Critica Psicoanalitica: Recensione di Perdere la Testa di Giuseppe Civitarese - A cura di GIovanni M. Ruggiero

Questa scoperta permette a Mancia di ipotizzare che le tutte esperienze infantili dei primi due anni di vita, prima dello sviluppo del linguaggio, siano depositate nella memoria implicita e che in questo sistema di memoria siano contenute le esperienze più arcaiche, anche traumatiche, relative alle prime relazioni del bambino con la madre.

Sulla base di tale ipotesi, Mancia introduce un concetto originale che gli consente di individuare un ponte di collegamento tra le due discipline: l’“inconscio non rimosso”.

È possibile mettere in relazione la memoria implicita con un’organizzazione inconscia, cosiddetta “non rimossa”, in quanto la rimozione necessita dell’integrità delle strutture neurofisiologiche (ippocampo, corteccia temporale e orbito-frontale) e della maturazione delle stesse, indispensabili per la memoria esplicita. La rimozione è pertanto collegata espressamente alla memoria esplicita, ma siccome tale memoria non è matura nel bambino prima dei due anni di vita, tutto ciò che avviene prima entra nella memoria implicita e si deposita in una forma d’inconscio che non può essere rimossa.

Le tracce mnestiche depositate nella memoria implicita e nell’inconscio, che non può essere rimosso, costituiscono il marchio, la struttura portante, il carattere e la personalità dell’individuo, e continueranno a condizionare la vita affettiva, emotiva, cognitiva per sempre.

Queste osservazioni permettono un ampliamento del concetto di inconscio, ridimensionando l’aspetto legato alla rimozione a favore di esperienze non rimosse. L’inconscio è considerato come una funzione della mente indispensabile per conoscere anche la coscienza e per poter comprendere i comportamenti, i sentimenti e le sensazioni dell’individuo. In questo senso, i risultati delle ricerche neuroscientifiche aiutano a conoscere le strutture o a comprendere maggiormente come si organizza la memoria, sia quella implicita che esplicita, offrendo una misura di come si organizza l’inconscio.

 

L’estetica della crudeltà in Out di Roee Rosen
Articolo consigliato: L’estetica della crudeltà in Out di Roee Rosen

Una questione di particolare interesse affrontata da Mancia è il rapporto tra il concetto di non conscio o non consapevole (unaware) delle neuroscienze e quello di inconscio (unconscious) della psicoanalisi. Definire chiaramente i due concetti evita confusioni semantiche ed epistemologiche, infatti la non consapevolezza trattata dalle neuroscienze riguarda eventi esterni al proprio Sé (neglet, prosopoagnosia, anosognosia ecc), in quanto non radicati nella storia affettiva ed emotiva del soggetto né nella sua memoria esplicita o implicita mentre, invece, sono proprio questi ultimi aspetti che riguardano essenzialmente il concetto di inconscio della psicoanalisi. Riguardo alle emozioni, alcuni cognitivisti (Kihlstrom, 1987) utilizzano il concetto di “inconscio cognitivo” per sottolineare l’identità tra emozioni e inconscio, suggerendo proprio questo come punto di convergenza tra la psicoanalisi e le neuroscienze.

In relazione alla clinica, Mancia sottolinea che l’inconscio dinamico di Freud, permettendo il ricordo, si manifesta nel transfert attraverso la narrazione, mentre l’inconscio non rimosso si manifesta attraverso le funzioni simboliche del sogno e la musicalità del transfert.

 

Psicoanalisi analisi dei sogni - © rolffimages - Fotolia.com -
Articolo consigliato: "L’interpretazione dei sogni. Come fanno gli psicoanalisti ad essere così bravi?"

Il sogno ha la capacità simbolo-poietica di trasformare esperienze all’origine pre-simboliche in contenuti verbalizzabili, e l’analisi dei sogni può favorire questo processo ricostruttivo, offrendo immagini pittografiche ed emozioni che permettono di simbolizzare, mentalizzare quindi rendere pensabile ciò che il bambino non poteva pensare.

Il transfert, concetto cardine della psicoanalisi, è rielaborato da Mancia in una chiave originale. Fondandosi sulla relazione stabilita tra memoria implicita e inconscio non rimosso, ritiene che la voce materna sia il primo strumento, il primo stimolo con cui il bambino entra in relazione con l’esterno.

 

 

Ciro Imparato
Articolo consigliato: Lo Psicoterapeuta e la sua voce.

La voce materna rappresenta una sorta di imprinting perché attraverso la voce il bambino riconosce il carattere della madre, gli aspetti affettivi-emozionali e il bambino risulta, già in epoca molto precoce, sensibile all’intonazione e alla musicalità della voce materna, rappresentando quest’ultima la radice su cui si fonda la prima relazione affettiva del bambino con la madre. Questo ricomparirà nel transfert e l’inconscio non rimosso sarà presente nelle componenti verbali ed extraverbali. Mentre queste ultime saranno caratterizzate da agiti (postura, espressività facciale, modo di presentarsi ecc), la componente verbale deve essere colta nella doppia semantica del linguaggio che permette di dare un senso alla comunicazione del paziente, non tanto nel contenuto delle parole quanto attraverso tono, timbro, volume, ritmo, prosodia, sintassi e tempi del linguaggio.

La voce assume un determinato valore come esperienza di sé e, nello stesso tempo, come espressione di sé nella relazione psicoanalitica.

I messaggi trasmessi dalla vocalità raggiungono le voci dell’inconscio.

 

 

BIBLIOGRAFIA:  

  • Mancia M., Psicoanalisi e Neuroscienze, Springer Verlag, 2008
  • Mancia M., Sentire le parole, Bollati Boringhieri, 2004
  • Kihlstrom J. E. (1987). The Cognitive Unconscious, Science, 237, 1445-52

Il Dio Postmoderno ne La Trama del Matrimonio, di Jeffrey Eugenides

 

Il Dio Postmoderno ne La Trama del Matrimonio, di Jeffrey EugenidesAlcune osservazioni in aggiunta a quelle della mia amica Brunella Coratti, già uscite su State of Mind.  

Si il libro è bello, e due sono i motivi che me lo fanno amare, innanzitutto il viaggio nel disturbo bipolare, di uno dei tre protagonisti (Leonard). Per un terapista entrare nella sua mente è veramente molto interessante, sia quando non è consapevole della sua malattia e agisce rabbia o distanza dagli altri, sia quando entra nell’illusione onnipotente di controllare il farmaco e l’umore.

Si, non credere a pensieri ed emozioni che ci abitano nella mente è veramente difficile, distanziarsi da cose che viviamo come nostre è la grande scommessa della psicoterapia con i pazienti difficili. Siamo abituati a credere a ciò che pensiamo e proviamo come l’espressione autentica di noi stessi e occorre una grande disciplina interiore per fidarsi di chi ci dice che queste emozioni, questi pensieri sono il sintomo di un malessere e non l’unico modo privilegiato di leggere il mondo. Ma anche quando abbiamo capito, riuscire a criticare questi stati, a distanziarsi o vivere come se fossero non nostri, è una grande e difficile battaglia.

La Trama del Matrimonio: Recensione. -
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Il disturbo bipolare disgrega l’esistenza di Leonard, e il rapporto con Madeleine. Jeffrey Eugenides è benevolo però e ci promette che con il tempo e dopo molte distruzioni Leonard troverà un suo modo di convivere con la malattia.

Ma un’altra parte del libro è importante secondo me. Mitchell l’altro protagonista maschio del libro, intelligente, ostinatamente innamorato di Madeleine con il sapore perenne della sconfitta in bocca, attraversa una crisi spirituale che gli fa desiderare di divenire religioso, di avvicinarsi alla religione. Finisce in India nell’ospedale di Madre Teresa di Calcutta e ci rimane per qualche tempo tentando di fare i conti con il dolore dei malati e dei morenti. Con grande fatica e molto molto disgusto.

La domanda di religione e di spiritualità di Mitchell è tipicamente postmoderna, non nasce da un desiderio di spiegazione del mondo, del destino dell’uomo. Non nasce in un mondo oscuro e incomprensibile da un desiderio di ordine e organizzazione. Non ha lo scopo di spiegarsi l’aldilà, il dopovita, il senso stesso dell’esistenza. La sparizione degli affetti e la morte delle persone care.

No, la sua domanda di religione è molto simile a una domanda di psicoterapia, intima, solitaria, ansiolitica, antidepressiva.

E’ una domanda di Dio senza veramente bisogno di Dio.

Nasce da un’ infelicità esistenziale, emotiva, dall’amore infelice verso una donna, e non sembra spirituale ma psicologico. Ecco mi ha colpito questo Dio moderno che non spiega più il mondo ma serve a spiegare soprattutto la sofferenza psicologica umana. Un Dio intimista e psicoterapeuta più che un Dio di giustizia o di provvidenza.

Di Madeleine, la protagonista sana, sappiamo già tutto al’inizio, la sua sofferenza è sofferenza del crescere, e, al contrario della figlia giainista dello Svedese di Philip Roth, sappiamo che alla fine, dopo tanta confusione e sofferenza, si salverà. E qui Eugenides è meno grande che nella descrizione dei maschi del libro. Le donne le comprende di meno, e forse gli interessano di meno dei protagonisti maschi. E si vede.

 

 

BIBLIOGRAFIA:  

Riconsolidamento Mnestico: Manipolare la Memoria per trattare la Dipendenza da Sostanze

– Rassegna Stampa – 

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze PsicologicheUna procedura comportamentale che altera la memoria -in termini di apprendimento associativo- può essere utile per prevenire efficacemente il craving e le ricadute nei dipendenti da eroina.

Lo studio pubblicato in questi giorni su Science descrive tale procedura comportamentale come una manipolazione delle memorie derivanti da apprendimenti associativi riguardanti l’uso di sostanze. La prevenzione del craving e delle ricadute nell’ambiente quotidiano dei pazienti rappresenta uno dei nodi più critici del trattamento dell’addiction, proprio perché l’esposizione a stimoli legati alla sostanza vengono associati a livello mnestico agli effetti piacevoli a breve termine del suo utilizzo inducendo il craving e spesso anche l’abituale risposta d’uso.

La nuova procedura sottoposta a verifica nell’articolo combina l’esposizione agli stimoli triggers con la manipolazione del processo cognitivo chiamato riconsolidamento mnestico in cui l’informazione viene recuperata dai magazzini della memoria a lungo termine e quindi riattivata così che si possa ulteriormente consolidare. Subito dopo il recupero mnestico l’informazione appena recuperata viene resa temporaneamente instabile e soggetta ad alterazioni di contenuto. Già tra il 2009 e il 2010 LeDoux e Phelps della New York University avevano dimostrato che l’interferenza nel processo di riconsolidamento mnestico può indebolire le memorie fobiche nei topi e negli umani.

La nuova procedura sperimentata dai ricercatori del National Institute of Drug Dependence dell’Università di Beijing consiste nella manipolazione del riconsolidamento mnestico dei precedenti comportamenti di uso di sostanze e relativi stimoli correlati. Una prima serie di esperimenti ha dimostrato che tale procedura riduce il comportamento di ricerca della sostanza nei topi; similmente nei pazienti dipendenti da cocaina tale manipolazione si è dimostrata efficace nella riduzione del craving fino a sei mesi in un regime di ricovero per disintossicazione.

 

 

BIBLIOGRAFIA: 

Storie di Terapie #5 – Simone l’Ossessivo.


Nei casi clinici che seguono, l’arrosto sostanzioso dei vari pazienti è condito con il sugo della fantasia, per rendere non identificabili le persone e la lettura più avvincente. Spesso ho condensato in un solo paziente più persone e, quasi sempre ci sono scappati pezzetti di me stesso.    Leggi l’introduzione    

 

 

#5 – Simone l’Ossessivo

Storie di Terapie #5 - Simone l'Ossessivo. - Immagine: © Oleksii Sergieiev - Fotolia.com

Aveva già tentato altre terapie e, fosse stato per lui, si sarebbe arreso e sopportato le pene della malattia come il suo correligionario Giobbe. Ma Sara non ne poteva più e, siccome era lei a comandare in famiglia, lo prese metaforicamente per un orecchio e lo portò da me. Presenziò a gran parte del primo incontro, perché voleva sincerarsi che Simone elencasse effettivamente tutti i sintomi, dei quali si vergognava moltissimo. Se non avesse accettato la cura e non fosse guarito lei lo avrebbe lasciato e se ne sarebbe andata con il piccolo Gioele che iniziava, a soli otto anni, a manifestare le stesse manie del padre.

Simone aveva trentacinque anni ed era ufficialmente diventato ossessivo nel giorno del suo trentesimo compleanno, quando il padre gli aveva affidato la gestione del negozio.

Il vecchio Aronne, compiuti i settantacinque anni, aveva deciso di chiudere la sua vita lavorativa. Diviso il patrimonio immobiliare tra i suoi tre figli maschi e una figlia femmina, aveva affidato la gestione del negozio importante a Simone ,con l’impegno che continuasse a mantenere lui e la madre dando loro il 20% degli utili e un altro 10% a ciascuno dei fratelli. Il restante 50% sarebbe stato tutto suo. Ad Aronne sembrava così di non dividere il patrimonio familiare e di garantire una buona rendita a tutti. Simone ebbe netta l’impressione di averlo preso per l’ennesima volta in tasca da quel padre padrone che temeva e odiava. A lui sarebbe spettata la quota maggiore degli utili, ma anche tutto il lavoro e la responsabilità. Inoltre, erano stati sufficienti pochi mesi per capire che il padre si era ritirato per modo di dire; tutte le mattine si recava in negozio, consigliava Simone sulle scelte imprenditoriali da fare e criticava quelle già fatte.

Storie di Terapie - © Athanasia Nomikou - Fotolia.com
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I commessi stessi continuavano a rivolgersi ad Aronne per le indicazioni di lavoro e, non bastasse, ogni tanto arrivava la madre, la signora Giuditta a dirgli davanti a tutti che ormai lui era il capo, che come tale doveva comportarsi e che non era più il garzoncello entrato a bottega quando aveva dodici anni, con una paghetta di centomila al mese. Lo aveva inteso o no che era diventato il capofamiglia e tutti dipendevano da lui?

I sintomi ossessivi si svilupparono in due direzioni: il negozio e la galera. Circa il negozio, Simone sentiva una responsabilità enorme e temeva di commettere errori nelle scelte, per cui ogni scelta diventava difficilissima, veniva procrastinata il più possibile e ciò comportava dei danni rispetto agli spietati concorrenti. La decisione sul campionario nuovo o sulla data dei saldi erano per Simone un tormento.

Soprattutto, il sintomo si manifestava al momento di chiudere il negozio la sera: usciva per ultimo, tirava giù la serranda blindata chiudeva in successione i cinque lucchetti di cui tre con la chiave e tre con la combinazione, attivava l’antifurto e chiamava la centrale dei metronotte per avvertirli che passava a loro la consegna. Con un telecomando accendeva le telecamere di sorveglianza.

Una sera pensò che, oltre alla comunicazione acustica via telefono, sarebbe stato più sicuro mandare anche un messaggio visivo, di passaggio delle consegne, all’operatore che stava in centrale ad osservare il video trasmesso dalle telecamere. Si posizionò di fronte alla telecamera e fece un inchino con la riverenza, come a dire “ ora tocca a te, buona guardia e attenzione!” Ma come poteva essere certo che l’operatore fosse effettivamente stato attento nel momento del cambio della guardia? Pensò che sarebbe stato meglio riproporre la riverenza più volte, almeno tre, numero perfetto, a distanza di dieci minuti l’una dall’altra.

Una sera, trascorsa la mezz’ora dedicata alle riverenze, ebbe un dubbio, non ricordava esattamente i gesti fatti per chiudere i cinque lucchetti. Non poteva andarsene senza controllare. Per essere più sicuro riaprì di nuovo i lucchetti e ricominciò, sforzandosi di tener a mente ogni gesto, per ricordarlo con sicurezza, quando il demonio del dubbio sarebbe tornato a tentarlo. Giù la serranda. Aprire e chiudere i cinque lucchetti. Inserire l’antifurto. Telefonare alla centrale. Accendere le telecamere e iniziare il ciclo delle tre riverenze. Quando stava per concludere con successo, un gatto schizzò da sotto una macchina e lo distrasse. A quel punto, non era più sicuro di aver ricordato con precisione tutti i passaggi fatti e, dunque, forse ne aveva tralasciati alcuni.

La telefonata di Sara, preoccupata per il ritardo, lo riscosse dallo stato di trance in cui era sprofondato alle 22.00, due ore e mezzo dopo la chiusura del negozio La posta in palio era un furto al negozio, che avrebbe portato alla rovina tutta la famiglia.

Nei giorni successivi il problema si ripropose con ritardi crescenti, Simone sviluppò un rituale standardizzato che prevedeva una serie di controlli e conteggi e chiamò il tutto “pacchetto chiusura” e, quando lo aveva completato, spostava il portafoglio dalla tasca sinistra alla tasca destra dei pantaloni. Quel gonfiore a destra dei genitali stava a ricordargli “pacchetto chiusura” a posto.

Un Giorno di Ordinaria Follia #1 - Posso bere la Candeggina? - Psichiatria - Immagine: © Mario - Fotolia.com
RUBRICA CONSIGLIATA: Un Giorno di Ordinaria Follia. Psichiatria Pubblica, Lettere dal Fronte.

Una sera, tornato a casa, si tolse i pantaloni dopo aver levato chiavi e portafoglio. Era già in pigiama quando dovette rivestirsi e tornare al negozio per ricominciare da capo. Sarà spiegò al figlio che il papà aveva dimenticato una cosa. Dieci giorni dopo, dovendo ri-uscire tutte le sere, spiegò lui stesso al figlio che non stava bene e si sarebbe fatto curare.

L’altro grande filone ossessivo era quello della galera. Da sempre Simone era stato scrupoloso e particolarmente attento al rispetto delle leggi perché temeva di essere arrestato. Faceva risalire questo timore all’esperienza vissuta dal padre e dal nonno dell’arresto improvviso e ingiustificato degli ebrei romani al tempo del nazifascismo. Pagava le tasse ed era irreprensibile verso tutti i doveri di legge, ma ora stava esagerando. Temeva in effetti che, se fosse stato arrestato, non solo avrebbe sofferto le pene della detenzione, la vergogna e la solitudine, ma il negozio, senza più una guida, sarebbe andato incontro a fallimento e tutta la sua famiglia in rovina. Le precauzioni non sembravano mai sufficienti, non assunse più personale di sesso femminile perché temeva di essere accusato ingiustamente di molestie sessuali e, in seguito, non assunse più nessuno, restando solo con i vecchi e fidati commessi, perché pensò che anche i maschi potevano rivolgergli tale accusa e comunque esisteva la più generica accusa di mobbing.

La guida della sua auto divenne un calvario e alla fine vi rinunciò, pensava che avrebbe potuto investire qualcuno senza accorgersene e, perciò, essere incriminato per omissione di soccorso. Tornava continuamente indietro a ripercorrere la strada già fatta per cercare le tracce dell’incidente di cui poteva non essersi accorto, poi pensava che l’incidente potesse averlo provocato proprio nel giro di controllo e, così, non c’era mai fine, solo il motorino gli dava più sicurezza in quanto gli sembrava più difficile uccidere qualcuno senza avvedersene.

La moglie lo portò da me quando tornò a casa a piedi, in preda ad una crisi d’ansia incontenibile e comunicò che non avrebbe più usato nemmeno il motorino. Aveva pensato, infatti, che una pellicina avrebbe potuto staccarsi dalle dita della sua mano (si mangiava le unghie) e finire, trasportata dal vento, nell’occhio di qualche motociclista che lo seguiva. Il malcapitato sarebbe caduto mettendosi di traverso, sul suo veicolo fermo si sarebbero poi schiantati autobus, macchine e mezzi di ogni sorta, facendo una carneficina di cui lui sarebbe stato il responsabile.

Abbandonato il motorino iniziò ad andare in giro in autobus e a piedi ma anche questo durò poco, temeva di spingere involontariamente e senza accorgersene qualcuno in terra e di causarne così colpevolmente la morte. Pretese per un periodo di essere accompagnato dalla moglie in tutti gli spostamenti, sarebbe stata lei a badare ad eventuali reati da lui commessi, di se stesso non si fidava. Ad un certo punto lei si rifiutò e lui vide concreta la possibilità di chiudere il negozio.

Resosi conto della gravità della situazione, accettò di buon grado la psicoterapia, si sentì molto compreso e condivise appieno la lineare spiegazione del disturbo.

Disputing Monografia
MONOGRAFIA: Il Disputing in Psicoterapia

Nel presente, quello che succedeva era il tentativo “costi quel che costi” di non essere responsabile della rovina della sua famiglia attuale e di quella di origine. Se ciò si fosse verificato per sua responsabilità, sarebbe stato cacciato dalla famiglia e avrebbe perso tutti i suoi affetti meritandosi, come condanna, la morte.

Si rendeva conto che il negozio principale di famiglia non era come gli altri negozi minori che lui e i fratelli avevano. Rappresentava la famiglia stessa, il suo valore, la posizione nella comunità, la loro dignità e il riscatto dalla povertà che li aveva un tempo afflitti. Chi lo gestiva era il patriarca della famiglia e, da quando aveva ricevuto le consegne dal padre, si era sentito schiacciato da una responsabilità enorme, un suo piccolo sbaglio avrebbe mandato in malora il lavoro di generazioni e il loro buon nome. Capiva anche che il padre gli aveva sì affidato un compito importante ma contemporaneamente, con la sua costante presenza e le intromissioni nella gestione, stava lì a dirgli che non era in grado di cavarsela da solo.

Riconobbe che questo era stato un motivo ricorrente nel suo rapporto con il padre, che lo aveva sempre chiamato a rispondere a grandi aspettative in quanto primogenito, ma gli aveva anche lasciato sempre intendere che era un incapace.

Un primo importante filone di lavoro con Simone fu dunque la sua separazione dalla famiglia d’origine ed in particolare dal padre padrone. Lui era diverso, voleva altre cose, aveva modi diversi di fare, gli voleva bene ma era un’altra persona.

Sentì necessario un riposizionamento anche nei confronti dei fratelli, che si aspettavano che continuasse il ruolo paterno, guidandoli come se fossero figli. Potè permettersi di sentire rabbia verso i genitori, che non avevano accolto i suoi bisogni di bambino e ragazzo per farne subito un uomo al servizio della causa familiare. Il padre lo aveva ossessionato con la sua severità e la madre non lo aveva mai protetto. Durante questo lavoro giunse alla decisione che avrebbe investito più risorse sul suo proprio negozio e meno su quello di famiglia.

Ragionammo insieme sui rituali di controllo che, provocatoriamente, gli definivo ogni volta come insufficienti, suggerendo possibili falle del sistema e capì che il traguardo della certezza assoluta era utopico e che in realtà il suo affaccendarsi era utile più per sentirsi la coscienza a posto che per scongiurare effettivamente quanto temuto. Era una sorta di penitenza sacrificale che offriva a un Dio in cui diceva di non credere.

Da buon commerciante fu facile fargli valutare quanto tutto questo lavorio e la procrastinazione delle scelte non fosse senza costi. Si rese conto che stava colpevolmente (per dirla secondo la sua ottica) sacrificando tempo e risorse. Dunque, paradossalmente, ciò che faceva per evitare la colpa lo portava a essere colpevole.

Iniziò con enormi sforzi a ridurre il massiccio apparato compulsivo con compiti concordati di seduta in seduta soprattutto quando si avvide che, come una droga, le ossessioni si rinforzavano continuamente a motivo dell’immediato sollievo che gli procuravano, ma stavano portando alla rovina la sua vita relazionale. Iniziò a pensare che, nonostante i suoi sforzi, non poteva tenere tutto sotto controllo ma ciò significava anche che non era responsabile di tutto. Capire di non essere Dio e di non averne tutti i doveri di gestione universale lo sollevò molto.

Il Controllo è il Problema, non la Soluzione. - Immagine: © somenski - Fotolia.com
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Iniziammo ad affiancare, alla riduzione delle compulsioni, una serie di attività gratuite e ludiche che non avessero scopo produttivo, ma solo la scoperta e il raggiungimento del proprio piacere personale. Per Simone capire cosa davvero desiderasse fu molto difficile. Cosa voglio? Non era una domanda che si era mai posto, al contrario le domande che normalmente si poneva erano: cosa devo fare e cosa si aspettano da me? Indicatori esterni sull’andamento della terapia furono i crescenti ringraziamenti della moglie, liberata dal giogo degli accompagnamenti e le perplessità della famiglia d’origine che chiedevano quando, questa inutile e costosa terapia, si sarebbe conclusa. L’alleanza era ottima e non avevamo alcuna intenzione di chiudere la terapia ma, come avevamo lungamente argomentato con Simone, non tutto è sotto il nostro controllo.

Così, improvvisamente, una malattia acuta mi mise fuori gioco per circa dieci mesi.

Simone lo venne a sapere dagli altri colleghi del mio studio, con cui si tenne in contatto per avere mie notizie, ma non volle riprendere con loro la terapia, avrebbe provato da solo seguendo le mie indicazioni. Circa un anno dopo l’interruzione, mi telefonò per una seduta di bilancio e saluto che non avevamo avuto tempo di fare.

Mi ringraziò moltissimo per quanto avevo fatto per lui e mi disse che era completamente guarito. Fu interessante capire la spiegazione che si dava circa il mio intervento, a suo dire risolutivo per la guarigione.

Intanto bisogna fare una premessa: il negozio di famiglia era completamente andato distrutto in un incendio, un mese dopo la mia malattia e Simone costruì una teoria bizzarra e cioè che io ero certamente morto e dall’al di là gli avevo procurato l’incendio, sapendo che lo avrebbe guarito. La teoria in sé era facilmente confutata dalla mia presenza dietro la scrivania e, dunque, potevamo tornare a spiegazioni più terrene. Mi attribuiva un grande merito nella guarigione ma per qualcosa che, grazie a Dio, non avevo fatto.

Gli chiesi perché l’incendio fosse stato risolutivo e Simone mi spiegò che se l’incendio era avvenuto nonostante le sue esasperate precauzioni (numerosi impianti rilevatori del fumo, salvavita, controlli periodici dell’impianto elettrico) doveva proprio rassegnarsi che non poteva tenere tutto sotto controllo.

Gli chiesi anche perché, nel frattempo, mi avesse inviato altri pazienti, infatti era improbabile che io potessi morire ogni volta per organizzare dal paradiso un home work risolutivo per ciascun paziente. Allora mi spiegò, con pazienza, che era stato risolutivo il lavoro fatto insieme sulla responsabilità e l’impossibilità della certezza. Un tempo, di fronte all’evento incendio, si sarebbe detto che doveva controllare meglio e di più, non come aveva fatto questa volta rammentando il Magnifico e ripetendosi che “di doman non v’è certezza”.

Quando mi disse che Il nome del Magnifico gli era venuto in mente pensando al mio cognome e che forse questo era un segno, temetti di dover riprendere la psicoterapia o dargli dei farmaci per un altro disturbo che non avevo diagnosticato.

Lasciai perdere.

 

Alternative Evolutive e Costruttiviste al Disputing Cognitivo Standard.

 

DOVERE o PREFERENZA? Il Dilemma Dicotomico di Kelly e la via degli “opposti”. 

Alternative Evolutive e Costruttiviste al Disputing Cognitivo Standard. - Immagine: © koya79 - Fotolia.com

L’esito più felice del disputing è naturalmente la sdrammatizzazione per via logico-empirica (alla Beck) degli eventi o delle situazioni negative temute dal paziente. Ma non è sempre così semplice. In questi casi spesso il paziente invoca una sfasatura tra ciò che sente e ciò pensa, o meglio ciò che pensa in terapia.

Tra le possibili strategie alternative c’è l’analisi e la critica della doverizzazione alla Ellis, che abbiamo già visto. Alcune cose sono temute dal paziente non per il danno materiale che comportano, ma perché contraddicono alcune regole, alcuni “doveri” che per il paziente sono irrinunciabili.

Tuttavia la doverizzazione può anche presentarsi in maniera subdola come preferenza. La formulazione verbale può essere apparentemente accettabile. Il paziente non dice “deve essere così” ma “voglio, desidero”. Insomma, apparentemente parla di una preferenza. Tuttavia questa preferenza è vissuta in maniera rigida. Questa rigidità è nascosta perché il suo opposto è vissuto come assolutamente inaccettabile dal paziente.

Psicoterapia: Ellis & il Disputing sulla tolleranza della Frustrazione. - Immagine: © frenta - Fotolia.com
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In questo è utile il vecchio concetto kelliano di dilemma dicotomico (Feixas, Saúl, 2004) per cui possiamo veramente comprendere il significato soggettivo e personale di una credenza o di uno scopo di un paziente solo esplorando il suo opposto.

P.: Il mio problema è il timore di fallire

T.: Perché dovrebbe accadere?

P.: Perché voglio diventare brava. Per me è molto importante.

Notiamo come la paziente abbia giustificato il suo timore di fallire con la necessità di essere “brava”. Già intravediamo il dilemma kelliano che la danneggia.

T.: E perché è così importante?

P.: Esseri bravi è fondamentale. Le cose vanno fatte bene. Mostrare negligenza o incompetenza è immorale.

Psicoterapia: Il Disputing Logico-Empirico. - Immagine: © Carsten Reisinger - Fotolia.com
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Ecco che salta fuori il dilemma. Dilemma che rivela come lo scopo dell’essere “bravi” non sia una preferenza che orienta il comportamento in maniera flessibile e costruttiva, ma un dovere irrinunciabile e assoluto. E questa assolutezza dipende dal particolare concezione che questa persona ha dell’essere “bravi”, bravura che si definisce solo in rapporto al suo opposto, che per quella persona è l’essere immorali. È un percorso rigido (o “stretto” in termini kelliani) e non flessibile (o “lasso”, ancora in termini kelliani).

 

A questo punto si potrebbero imboccare varie strade. Si può direttamente chiedere alla persona di rendere più flessibile il suo costrutto (un costrutto, sempre in termini kelliani, è qualcosa di più di una credenza perché é definito dai due poli di un dilemma).

T.: Se nota, per lei essere bravi ed essere immorali sono collegati. Collegato un po’ rigidamente. Per lei non essere bravi significa essere immorali. Un costo non da poco. Ma perché non proviamo a vederla diversamente?

Psicoterapia: a che le serve ragionare così? Il Disputing Pragmatico secondo Ellis. - Immagine: © zero13 - Fotolia.com
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Vederla diversamente, e qui si apre il ponte della ristrutturazione cognitiva. Ma è possibile imboccare anche un altro sentiero, che è il seguente:

T.: Dove ha imparato che se non si è bravi si è immorali?

P.: In che senso mi chiede: dove lo ho imparato?

T.: Intendo dire che nel corso della nostra vita noi apprendiamo delle idee, delle convinzioni. Le apprendiamo nel corso di situazioni o di relazioni. Per esempio in relazioni con persone che per noi sono state importanti. Genitori, amici, insegnanti e così via. Dove, o da chi, potrebbe avere imparato che se non si è bravi si è immorali?

E questo è tutto un altro campionato. Si tratta della storia di vita e di come il paziente ha appreso le sue convinzioni disfunzionali. Ne parleremo in un altro capitolo.

 

 

BIBLIOGRAFIA: 

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