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Il Paese dei Misteri Buffi – Dario Fo & Giuseppina Manin – Recensione

 

Il paese dei misteri buffi è l’ultimo esilarante lavoro di Dario Fo, frutto della collaborazione con l’amica e giornalista Giuseppina Manin.

Il Paese dei Misteri Buffi – Dario Fo & Giuseppina Manin – Recensione. - Immagine: Book Cover, Proprietà di Guanda Editore
Il Paese dei Misteri Buffi. Di Dario Fo & Giuseppina Manin, Guanda Editore

Le loro conversazioni diedero vita qualche anno fa (2007), a “Il mondo secondo Fo”, in cui si racconta di quest’attore, drammaturgo, regista, scenografo, premio Nobel, pittore, artista e uomo impegnato nel politico e nel sociale, che è Dario Fo. Ma questa volta si tratta di tutt’altro. La Manin propone a Dario Fo di riprendere le fila del celeberrimo “Mistero Buffo”, (messo in scena per la prima volta nel 1969, che grazie alla potenza narrativa del suo grammelot gli valse il Premio Nobel per la letteratura nel 1997), per narrare di quell’insieme di misteri grotteschi che mortificano il nostro Paese da quasi mezzo secolo.

Il racconto inizia con un episodio “sconvolgente e tragico al tempo stesso. La scomparsa improvvisa e inspiegabile del Cavaliere Silvio Berlusconi”, Fo attraverso una carrellata di giullarate narra le vicende del Satrapo di Arcore, ripercorrendo scandali e stragi che ancora oggi lasciano numerosi interrogativi, attraverso un sottile filo conduttore.

All’avvento di Mario Monti al governo, segue la scomparsa di Silvio-Bingo (uno dei tanti appellativi utilizzati nel testo), generando scompiglio tra i suoi seguaci al punto da indire una squadra di ricerca presso il Mausoleo di Arcore, in cui, sulla scia dell’antico fatto di cronaca dello Smemorato di Collegno, saranno coinvolti tra gli altri, il fedele avvocato Ghedini, il fedele Fedele (ah no quello è un altro capitolo), il fedele Fede e con lui le “ragazze del Drago”, così definite da Fo quell’insieme di giovani miss e non, che risiedevano, o risiedono tutt’ora, nell’ormai celebre via dell’ospedale San Raffaele di Milano.

Berlusconi - Licenza d'uso: Creative COmmons - Proprietario: http://www.flickr.com/photos/spiritolibero85/
Articolo consigliato: Il pluralismo degli Stati Uniti, l’Italia e la fine di Berlusconi.

Ad avvenuto ritrovamento un’ immancabile speciale Porta a Porta e a questo punto, personalmente, mi chiedo se fosse presente o meno il plastico di Villa San Martino. Berlusconi è tornato, ma la lotteria indetta per il suo ritrovamento sta già fruttando un sacco di miliardi ai Monopoli di Stato, dunque l’unico e inimitabile viene rapito e portato davanti a una corte di giudici ai quali dovrà raccontare il perché della sua latitanza. Due creature demoniache lo hanno prelevato da casa per portarlo “in direttissima” negli Inferi, dove ad attenderlo c’era nientemeno che Minosse, il giudice infernale. I magistrati sbigottiti lo mandano in prigione. Da qui in avanti iniziano le innumerevoli storie cantate in prima persona, dal Silvio affabulatore ai suoi nuovi compagni detenuti. Dunque citando qua e là i suoi amici Dell’Utri, Previti, il “Divino Giulio”, Licio Gelli, Mangano e chi più ne ha più ne metta, scioglie all’urna un cantico che forse non morrà: Da Capaci ad Aldo Moro, dalla P2 al Banco Ambrosiano, da Piazza Fontana alla Fondazione Monte Tabor, dall’uno all’altro mar. Fu vera gloria? Ai posteri l’ardua sentenza.

Gli autori raccontano in modo allegorico e sarcastico uno squarcio di realtà, sottolineando che il vero mistero buffo dell’Italia sono gli italiani; gli stessi che dal novembre 2011, hanno dimostrato ancora una volta la propria imprevedibilità in seguito al mutamento politico-morale conseguenza del governo tecnico. D’altra parte, “tutti sanno che una cosa è impossibile da realizzare, finché arriva uno sprovveduto che non sapendolo la inventa” (A. Einstein).

 

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DARIO FO RACCONTA LA GENESI DEL LIBRO IL PAESE DEI MISTERI BUFFI,  SCRITTO INSIEME A GIUSEPPINA MANIN:

 

 

BIBLIOGRAFIA: 

Sindrome da Affaticamento Cronico (CFS): una malattia

Sindrome da Affaticamento Cronico. - Immagine: © lassedesignen - Fotolia.comLa sindrome da affaticamento cronico (Cronic Fatigue Syndrome: CFS) è un disturbo complesso caratterizzato da estrema fatica, che non può essere spiegato da alcuna condizione medica. Implica una profonda disregolazione del sistema nervoso centrale (Tirelli et al., 1998) e del sistema immunitario (Broderick et al., 2010), una disfunzione del metabolismo (Myhill et al., 2009) e anomalie cardiovascolari (Hollingsworth et al., 2010).

Le cause delle Sindrome da affaticamento cronico non sono ancora del tutto chiare, si spazia da infezioni virali a stress psicologici. Per questo motivo, non esiste attualmente alcun test per verificare la presenta della sindrome. Piuttosto, vengono effettuati svariati esami per escludere altre possibili patologie con sintomi simili.. Generalmente, la sindrome da affaticamento cronico viene considerata dagli esperti nel settore come il risultato di diversi fattori – biologici, ambientali… – combinati.

Secondo i criteri sviluppati e rivisti dai ricercatori americani di Atlanta (Fukuda et al., 1994), per potere fare diagnosi di Sindrome da affaticamento cronico (CFS) sono necessari almeno due criteri maggiori e quattro minori:

 

Amarezza cronica post-traumatica. Immagine: © 2011-2012 Costanza Prinetti -
Articolo consigliato: Amarezza cronica post-traumatica: una diagnosi per i precari.

Criteri maggiori:

  1. Il primo specifica le caratteristiche della stanchezza che deve essere debilitante e persistere da almeno sei mesi, non deve risolversi con il riposo a letto e risultare così grave da ridurre di oltre il 50% l’abituale attività fisica del soggetto.
  2. Il secondo criterio maggiore impone al medico di escludere, mediante una valutazione molto accurata basata sulla scrupolosa raccolta anamnestica, sull’esame clinico e appropriati test di laboratorio, qualsiasi condizione morbosa nota che possa essere responsabile di una sintomatologia simile a quella della Sindrome da Affaticamento Cronico.

Criteri minori (sintomi e segni obiettivi):

  • Difficoltà di concentrazione e/o memoria, faringodinia, linfoadenopatia cervicale o ascellare, mialgie, dolori articolari, cefalea qualitativamente diversa da quella che il paziente può aver esperito prima della comparsa della stanchezza, sonno non ristoratore e malessere prolungato dopo esercizio fisico. Di questi sintomi devono esserne presenti perlomeno quattro contemporaneamente e persistere o ricorrere da almeno sei mesi.

Questi aspetti sono stati sottolineati anche da medici e partecipanti all’Associazione Italiana CFS nel tentativo, arduo sicuramente, di sensibilizzare la gente su questo problema tutt’altro che secondario, poichè prostra il paziente che finisce col dibattersi ogni giorno in uno stato di astenia cronica.

Le conseguenze? Oltre alla stanchezza fisica si accumula una stress e una fatica mentale che porta a un notevole calo delle funzioni cognitive e a una riduzione dei riflessi, fattori che incidono pesantemente sulla performance, sul comportamento, nonché nell’attività fisica e psichica.

L’insorgenza della Sindrome da Affaticamento Cronico è estesa a giovani e donne di età intorno ai 35/40 anni, mentre gli anziani oltre i 70 anni di età ne sono esclusi, nei bambini è poco manifesta.
Decisivo il ruolo delle Istituzioni, considerato il fatto che a nulla è servito l’allarme lanciato dall’Organizzazione Mondiale della Sanità che ha definito tale Sindrome una malattia grave, cronica e invalidante e, nonostante ciò, chi si ammala di questa patologia non ottiene alcun riconoscimento del suo stato di invalido civile.

Di conseguenza, chi si ammala di tale sindrome non avrà diritto alcuno a permessi lavorativi retribuiti e la stessa società civile crea un muro d’abbandono verso chi soffre di questo disturbo, proprio per l’etichetta che viene spesso loro attribuita, quella di persone lavative, fannullone, indolenti.

 

 

BIBLIOGRAFIA

Reading the Brain during Film Viewing

@stateofmindwj: 

State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche. Twitter: @stateofmindwj - State of Mind's Tweets Cover Image © 2011-2012 State of Mind. Riproduzione riservata

Reading the Brain during Film Viewing:

This clip depicts the amount of within-subject correlation in appropriately extracted components of neural activity (scalp topographies shown on the left) and its relation to the plot trajectory.

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 ARTICOLI DI NEUROSCIENZE – NEUROPSICOLOGIA 

 

 

 

BIBLIOGRAFIA: 

 

 

 

L’attività Neurale durante la visione di film

– FLASH NEWS – 

L’attività neurale al “cinema”: la fruizione di stimoli altamente emotivi è collegata a specifici modelli di attività cerebrale.

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

Secondo un gruppo di ricercatori del City College of New York e della Columbia University gli stimoli visivi e uditivi che provocano un forte coinvolgimento emotivo sarebbero collegati a specifici modelli di attività cerebrale.

I ricercatori hanno utilizzato l’EEG (Elettroencefalogramma), che misura l’attività elettrica attraverso il cuoio capelluto, per raccogliere dati sulle onde cerebrali di 20 soggetti, che hanno visto scene di tre diversi film: i primi due, “Bang! Tu sei morto” di Alfred Hitchcock e “Il Buono, il Brutto e il Cattivo” di Sergio Leone, contenevano scene molto drammatiche in grado di suscitare forti reazioni emotive; il terzo, un film amatoriale di persone che camminano in un campus universitario, è stato utilizzato come controllo.

Le misure dell’attività alfa mostrano il grado di attenzione in una persona: forti oscillazioni dell’attività alfa indicano che una persona è rilassata, cioè non è emotivamente coinvolta; quando la sua attenzione cresce invece l’attività alfa è bassa.

I picchi di correlazione nell’attività neurale durante la visione si sono verificati in corrispondenza dei momenti più coinvolgenti dei film; questo effetto si riduce notevolmente alla seconda visione del film o quando la narrazione si interrompe e le scene vengono presentate in modo disconnesso.

Dopo aver dimostrato le correlazioni tra stimoli intensi e prevedibilità delle onde cerebrali, il team di ricerca vuole ora individuare dove si verifica la risposta cerebrale; a questo scopo il professor Parra vuole utilizzare una combinazione di risonanza magnetica funzionale (fMRI) e di EEG. Questa scoperta potrebbe portare a un modo nuovo di costruire film, programmi televisivi e spot pubblicitari sulla base del tipo di risposta emotiva del pubblico a determinate scene.

 

 Reading the Brain during Film Viewing:

This clip depicts the amount of within-subject correlation in appropriately extracted components of neural activity (scalp topographies shown on the left) and its relation to the plot trajectory.

 

 

BIBLIOGRAFIA: 

Asessualità: Scelta, Patologia o diverso Orientamento Sessuale?

 

ASESSUALITA’: UN FENOMENO RELATIVAMENTE NUOVO E ANCORA POCO STUDIATO.

Asessualità: Scelta, Patologia o diverso Orientamento Sessuale?. - Immagine: Screenshot illustrativo, a bassa risoluzione del TV Series "The Big Bang Theory" Proprietà di Warner Bros
Dr. Sheldon Cooper e Amy Farrah Fowler, dal telefilm “The Big Bang Theory”

Reduce dall’intensa, colorata ed emozionante esperienza del Bologna Pride (Vedi LGBT), in cui tutte le diversità – non solo sessuali – sono state celebrate e inorgoglite della loro legittima unicità, ..scopro per caso e con molto stupore dell’esistenza di una piccola comunità che si sarebbe sentita forse esclusa dal grido “fate l’amore con chi vi va e come vi va”: la comunità degli Asessuali (www.asexuality.org).

Presenti da molti anni come community, sono giunti per la prima volta quest’anno a manifestare il loro “pride” in occasione del Boston Pride. Una persona “asessuale” è una persona che non sente e non ha mai sentito nella vita nessun tipo di attrazione/desiderio sessuale. Diversamente dal celibato, di solito scelto volontariamente per qualsivoglia motivo, l’ asessualità secondo gli asessuali è parte della loro identità, un modo diverso di sentire e di stare nel mondo. Nessuna conseguenza negativa dunque nella vita relazionale ed emotiva, semplicemente si pongono scopi ed obiettivi che non includono il sesso. Definiscono le loro relazioni normali e caratterizzate da elementi comuni a tutti gli orientamenti sessuali, vicinanza intimità divertimento ironia fiducia condivisione, tranne che, appunto, il sesso.

Asessualità: Scelta, Patologia o diverso Orientamento Sessuale?. - Asexual Hand
“Asexual Hand”, i colori della bandiera del movimento.

Insomma il loro “pride” non sembra guidato da divieti morali o religiosi, o da tentativi di purificazione e ascesi spirituale, né da una stravagante moda del momento, quello che li distingue dagli individui sessuali è “solo” l’assenza di desiderio sessuale e di arousal fisiologico di fronte a stimoli erotici, entrambi sperimentati (o meglio non sperimentati!) da sempre nella vita.

Le ricerche sull’argomento sono poche e tutte da approfondire; un’importante ricerca epidemiologica (Bogaert, 2004) condotta su un campione di 18.000 cittadini inglesi, ha evidenziato come solo l’1% della popolazione potesse essere definita effettivamente “asessuale”, sulla base del solo criterio di assenza di attrazione sessuale verso un partner di qualunque orientamento; inoltre l’asessualità sembra correlare con molti altri fattori tra cui genere (più donne che uomini), bassa statura, problemi di salute, bassa istruzione e basso livello socio-economico, facendo ipotizzare la possibilità di un enorme ventaglio di fattori che possano concorrere nel determinarla.

Alcuni ricercatori (Brotto et al, 2010) hanno quindi provato a differenziare i criteri per definire meglio l’asessualità: le differenze significative emerse nei due gruppi sperimentali – sessuali e asessuali – sono state relative a risposte sessuali, isolamento sociale e alessitimia, mostrando caratteristiche riconducibili ad un Disturbo Schizoide di Personalità, anche se nella ricerca la tendenza ad avere questi tratti non è risultata in alcun modo patologica.

Altri studi (Brotto e Yule, 2011) si sono invece concentrati sugli aspetti fisiologici dell’assenza di desiderio sessuale, come possibile marker somatico dell’ asessualità, ma i risultati non hanno evidenziato differenze significative tra i due gruppi rispetto agli indici di attivazione fisiologica e le misure self report di arousal di fronte a stimoli erotici; nel solo gruppo degli asessuali è emersa una minore affettività positiva legata al desiderio sessuale, senza tuttavia sintomi di ansia e/o depressione. Nessuna prova dunque che si tratti di una disfunzione sessuale!

 

Le domande suscitate da questa curiosa community possono essere tante e del tutto simili a quelle che ci poniamo rispetto a tutti gli altri orientamenti sessuali: una volta escluse cause organiche e/ genetiche (es: Sindrome di Turner), la presenza di abusi sessuali che possano aver alimentato una cronica incapacità nel sentire l’eccitamento sessuale, sintomi depressivi o tratti patologici di personalità, potremmo allora davvero trovarci di fronte ad una nuova e diversa identità sessuale…. in cui indubbiamente uno dei principali sistemi motivazionali primari che siamo abituati a considerare, viene incredibilmente meno.

Ben venga in ogni caso il Boston Pride e la bandiera simbolo degli asessuali, se servirà ad informare e a dare più colori e sfumature ad un ambito, quello della sessualità, che nonostante l’evoluzione culturale incontra pre-giudizi e mal-informazione, queste si davvero poco evolute!

 

 

BIBLIOGRAFIA:

Il Disagio Psicologico? Punti di vista! il Self Discrepancy Monitoring

 

DISAGIO PSICOLOGICO: QUANTO CONTANO I PUNTI DI VISTA? NUOVA RICERCA SULLA SELF-DISCREPANCY  

Il Disagio Psicologico? Punti di vista! il Self Discrepancy Monitoring. - Immagine: © archinte - Fotolia.comLa prospettiva da cui si guarda il mondo non è rappresentativa del mondo stesso, ma di certo è predittiva degli stati d’animo e delle valutazioni su di sé e sul mondo che ne conseguono. Ogni situazione può essere osservata attraverso lenti diverse, che ci restituiscono diverse percezioni. Questo ce lo insegnano le immagini ambigue, i due profili bianchi che racchiudono una coppa nera, la giovane donna voltata che subito dopo diventa una anziana signora di profilo. E se questo è un effetto della diversità che caratterizza tutti noi, diventa problematico nel momento in cui facilita l’assunzione di un particolare punto di vista, che tende a riproporsi nelle diverse situazioni. Se è vero che i sistemi che funzionano sono i sistemi flessibili, quando un sistema è rigido, e in più anche settato su aspetti negativi e mancanti, questo può essere un problema che favorisce il mantenimento di emozioni sgradevoli.

Sembrerebbe la famosa storiella del bicchiere mezzo pieno o mezzo vuoto: l’acqua è un dato oggettivo, ma io cosa decido di guardare? Si è dimostrato, per esempio, che focalizzarsi in modo ripetitivo e inconcludente sulle cause del proprio umore depresso e sulle sue conseguenze faciliti le ricadute depressive (Nolen-Hoeksema, 2000), e per questo la “ruminazione” diventa un importante focus terapeutico per la prevenzione delle ricadute, una sorta di “boostering phase” della terapia, che rafforza appunto i risultati raggiunti.

Come o Perché? E le conseguenze per il pensiero.
Articolo consigliato: "Come o Perché? E le conseguenze per il pensiero"

Se non ci interessa più di tanto capire cosa spinge una persona a percepire la figura di giovane donna voltata o quella di anziana signora di profilo, per le scarse ricadute applicative, è interessante invece capire cosa spinga le persone a focalizzarsi più sull’acqua mancante o su quella presente, più sul tragitto percorso o su quello che si ha ancora davanti.

Perché decidiamo di utilizzare la lente del “cosa manca” piuttosto di quella della “cosa ho raggiunto”?

Wells negli ultimi 10 anni ha messo un importante focus sulle credenze metacognitive, intese come convinzioni che ognuno di noi possiede circa l’utilità o il danno di determinati stili di pensiero (Wells, 2000). Come dire, se pensi in questo modo sarà perché ne percepisci un’utilità.

Alla luce dell’importanza della prospettiva che si adotta nel valutare e interpretare un evento o una serie di situazioni, il Gruppo Ricerca della Scuola di Specializzazione Studi Cognitivi sta implementando uno studio che mira a:

  1. Raccogliere dati circa la frequenza con cui le persone appartenenti alla popolazione generale tendono a utilizzare uno stile di pensiero focalizzato su ciò che c’è o ciò che manca;
  2. Valutare se e in che misura questo stile di pensiero si correla con i livelli di sintomi ansiosi e depressivi;
  3. Esplorare le credenze che le persone hanno circa l’utilità o il danno di uno stile di pensiero focalizzato su ciò che manca, sul bicchiere mezzo vuoto.

 

A questo scopo, chiediamo il vostro aiuto nella compilazione di 4 questionari che potrete visionare e riempire tramite internet in circa 10 minuti.

 

Questo è l’indirizzo: https://www.surveymonkey.com/s/discrepancymonitoring

Ovviamente tutti i dati verranno raccolti in forma anonima.

I risultati saranno pubblicati presto su State of Mind!

 

 

LEGGI ANCHE: La Solitudine: il modello della Discrepanza Cognitiva in Psicologia

 

 

BIBLIOGRAFIA:

Impulsività e Gioco d’azzardo: Stimoli comportamentali per inibirli.

– FLASH NEWS – 

Impulsività: Un nuovo studio può avere importanti implicazioni pratiche per il trattamento delle dipendenze comportamentali.

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

Una nuova ricerca condotta da psicologi delle Università di Exeter e di Cardiff dimostra che le persone possono addestrare se stesse a diventare meno impulsive, con conseguente minore assunzione di rischi durante il gioco d’azzardo. La ricerca potrebbe aprire la strada a nuovi trattamenti per la dipendenza da gioco d’azzardo, droghe o alcool, nonché problemi di controllo degli impulsi e disturbi come l‘ADHD.

Lo studio, pubblicato su Psychological Science, ha evidenziato che se si chiede a una persona di smettere di fare semplici movimenti nel corso di una simulazione di gioco d’azzardo questo influenzerà il suo modo di scommettere, cioè se correrà più rischi o se sarà più cauto.

Durante gli esperimenti i partecipanti, impegnati a scegliere tra opzioni rischiose (alto guadagno e bassa probabilità di vincita) e sicure (basso guadagno e alta probabilità di vincita) venivano costretti a sospendere la scelta dall’introduzione di un segnale di stop; questo ha avuto l’effetto di rallentare il processo di gioco e sopratutto di rendere i giocatori più cauti nello scegliere opzioni rischiose.

Negli esperimenti successivi i ricercatori hanno testato la possibilità che il fenomeno osservato persistesse nel tempo, mantenendo i suoi effetti anche a lungo termine; i risultati indicano che un breve periodo di allenamento all’inibizione ha avuto l’effetto di ridurre il gioco d’azzardo del 10-15%, una piccola riduzione ma statisticamente significativa, e persistente nell’arco di almeno due ore.

Frederick Verbruggen dell’Università di Exeter, dichiara: “La nostra ricerca dimostra che con l’allenamento a bloccare i movimenti semplici della mano, le persone possono imparare a controllare i propri processi decisionali per evitare scommesse rischiose. Questo lavoro potrebbe avere importanti implicazioni pratiche per il trattamento delle dipendenze comportamentali, come ad esempio il gioco d’azzardo patologico, che sono state associate a un deficit di controllo degli impulsi e, più specificamente, a deficit nelle azioni di arresto. Stiamo anche esplorando la pertinenza dei nostri risultati ad altre dipendenze, come il fumo o l’eccesso di cibo“.

Nonostante i risultati incoraggianti, questo studio presenta diversi limiti:

  • Non dimostra che l’inibizione della risposta comportamentale riduce la dipendenza dal gioco. I partecipanti erano tutti adulti sani, non affetti da alcuna malattia psichiatrica.
  • Non dimostra che l’inibizione della risposta comportamentale elimina l’assunzione di rischi. L’effetto del training è risultato statisticamente significativa, ma portato solo a una riduzione del 10-15% del gioco d’azzardo.
  • Questo studio si è concentrato solo sul gioco d’azzardo e non ha osservato altri comportamenti impulsivi, come l’eccesso di cibo o il fumo.
  • Per motivi etici, gli esperimenti di gioco simulavano solo alcuni aspetti della vita reale del gioco d’azzardo. Anche se i partecipanti hanno giocato con soldi veri, gli importi erano piccoli (la vincita massima era di £ 4.20) e non potevano indebitarsi.

 

 

BIBLIOGRAFIA: 

Il Cambiamento in Psicoterapia – BOOKTRAILER –

IL CAMBIAMENTO IN PSICOTERAPIA – Boston Change Process Study Group –

BOOKTRAILER

 

In Anteprima per i nostri lettori: Raffaello Cortina Editore e State of Mind presentano: 

The Boston Change Process Study Group (2012). 

Il cambiamento in psicoterapia.

 

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LEGGI LA RECENSIONE

Il Boston Change Process Study Group rappresenta l’avanguardia nella ridefinizione del funzionamento del processo terapeutico. Con Il cambiamento in psicoterapia, l’intera evoluzione del pensiero e dell’opera del gruppo è stata delineata in modo chiaro ed efficace. Gli autori asseriscono che la relazione terapeutica stessa è condizione sufficiente per il cambiamento terapeutico e prendono in esame importanti argomenti psicoanalitici che comprendono: la collocazione dell’implicito, la creazione di significato, il processo clinico momento-per-momento e l’esperienza soggettiva del terapeuta.

IL BOSTON CHANGE PROCESS STUDY GROUP comprende gli analisti Alexander Morgan, Jeremy Nahum, Louis Sander, Daniel Stern, e Alexandra Harrison, i ricercatori dell’età evolutiva Karlen Lyons-Ruth e Edward Tronick, e la psichiatra infantile Nadia Bruschweiler-Stern.

 

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Il Cambiamento in Psicoterapia – Recensione

 

IL CAMBIAMENTO IN PSICOTERAPIA – Boston Change Process Study Group – RECENSIONE 

Boston Process Change Study Group. Il cambiamento in psicoterapia. - Copertina: proprietà di Raffaello Cortina Editore.
IL CAMBIAMENTO IN PSICOTERAPIA – Boston Change Process Study Group – Raffaello Cortina Editore

Oggi vi presentiamo in anteprima Il libro Il cambiamento in psicoterapia, edito da Raffaello Cortina.  Come si evince dal titolo stesso il tema fondante di questo libro è costituito dai processi di cambiamento che riguardano il contesto terapeutico e non solo.

Si fa riferimento soprattutto ad un insieme di idee e metodi innovativi elaborati  dal “The Boston Change Process Study Group” (composto da eminenti clinici e ricercatori, tra cui Louis Sander, Daniel Stern e Karlen Lyons-Ruth).

Questo lavoro è stato svolto all’interno di ambienti psicoanalitici, in cui  l’interpretazione è vista tradizionalmente come l’evento nodale che agisce all’interno della relazione transferale, ed è in grado di cambiarla, modificando l’ambiente intrapsichico.

In questo modello, invece, ci si focalizza su un processo reciproco nel quale, nella relazione implicita, il cambiamento avviene nei “momenti di incontro” attraverso modificazioni dei “modi di stare con”, ovvero il cambiamento è dato dalla relazione terapeutica stessa. Nella relazione si crea qualche cosa di nuovo che modifica l’ambiente intersoggettivo. L’esperienza passata viene ricontestualizzata nel presente, cosicché il soggetto arriva a operare con uno scenario mentale diverso, che produce nuovi comportamenti e nuove esperienze nel presente e nel futuro.

Secondo tale approccio l’incontro tra terapeuta e paziente è preceduto da un insieme di “momenti presenti” nei quali ci si muove soggettivamente l’uno verso l’altro. Quando un momento presente assume una forte valenza affettiva diviene rilevante nel processo terapeutico, ed è definito “momento ora”. Nel caso in cui venisse riconosciuto e accolto da entrambi i partner, durante la relazione terapeutica, porterebbe ad una reciproca sintonia, un vero momento di incontro e di intesa emotiva.

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Recensione di “La Svolta Relazionale” di Lingiardi, Amadei, Caviglia e De Bei. - Immagine: Raffaello Cortina Editore
Articolo consigliato: Recensione di “La Svolta Relazionale” di Lingiardi, Amadei, Caviglia e De Bei.

I “momenti di incontro” costituiscono l’evento focale che agisce all’interno della “relazione implicita condivisa” e sono in grado di cambiarla, modificando la conoscenza implicita, sia intrapsichica sia interpersonale.

Il cambiamento di uno stato diadico è ricollegabile all’emergere dei “momento di incontro” tra i due soggetti in interazione. Gran parte dell’ambiente intersoggettivo deriva dalla conoscenza relazionale implicita, che si ricostruisce nel corso della terapia. Il processo di cambiamento avviene durante la riattualizzazione della relazione implicita condivisa durante i “momenti di incontro”, aprendo in questo modo nuove e feconde prospettive al cambiamento terapeutico.

Quindi, il cambiamento terapeutico avviene:

1) in piccoli momenti meno carichi emotivamente o molto pregnanti come i “momenti ora” e “momenti di incontro”;

2) si verifica nel flusso attuale delle mosse relazionali di ciascun partner a livello locale;

3) nella conoscenza relazionale implicita riproponendo modi più coerenti di stare insieme;

4) attraverso un processo di riconoscimento della specificità dell’adattamento delle iniziative dei due partner.

 

Sviluppi Traumatici, Eziopatogenesi, clinica e terapia della dimensione dissociativa. Liotti G. Farina B. (2011). Cortina Editore. - Immagine: Copertina, Raffaello Cortina Editore
Articolo consigliato: Sviluppi Traumatici, Eziopatogenesi, clinica e terapia della dimensione dissociativa di Liotti G. Farina B. (2011).

In sintesi, quello che il Boston Change Process Study Group propone è di cambiare la cornice concettuale secondo cui il cambiamento terapeutico dipende dalla qualità degli interventi dell’analista. Lavorando da una prospettiva diadica, si rende nota la concezione della qualità all’interno di un modello relazionale che enfatizza le caratteristiche del processo tra due persone. Da questo punto di vista, la qualità della relazione è data dalla ricerca di direzionalità e adattamento, e dai tentativi di ampliare la gamma di esperienze emotivamente cariche che possono essere portate nella relazione terapeutica.

Nella misura in cui questi processi diadici vengono compresi, dovrebbe emergere nella relazione terapeutica un sentimento di fiducia e mutua vitalizzazione. Questi processi dinamici una volta attivati si muovono in direzione di una crescente integrazione, coerenza e scioltezza nella capacità del paziente di rendere il suo equilibrio all’interno di scambi significativi con gli altri.

Concludendo la presentazione de Il Cambiamento in Psicoterapia, il paradigma di cambiamento del Boston Change Process Study Group valorizza le singole sequenze del processo terapeutico come un percorso su cui si inscrivono momenti relazionali rilevanti che ne modificano il contesto intersoggettivo anche sul piano implicito.

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BIBLIOGRAFIA

Comportamenti Ecologici: Impatto e intenzioni a confronto

 

Comportamenti ecologici: è importante capire la differenza tra Impatto ecologico ed Intento ecologico, spesso confusa dalle nostre credenze psicologiche (BIAS).

I comportamenti ecologici:impatto e intenzione a confronto© Sergej Khackimullin - Fotolia.comIl termine “comportamento ecologico” è un’etichetta generica che rimanda a tutte quelle condotte che sono rilevanti per l’ambiente e/o significative in senso ambientale. Tuttavia, per la green psychology, significatività e rilevanza non sono sinonimi ma concetti distinti, anche se legati da una relazione reciproca, paragonabili alle facce della stessa medaglia.

Un comportamento, infatti, può essere “ambientalmente significativo”, per coloro che lo mettono in atto, senza essere rilevante nei suoi effetti (o esserlo in modo negativo). Viceversa, un comportamento può non essere “ambientalmente significativo”, per una persona, pur avendo rilevanza da un punto di vista ambientale. 

Per esempio, negli Stati Uniti ed in Europa, molte persone preferiscono non acquistare bombolette spray per non danneggiare ulteriormente la barriera dell’ozono, anche se i gas nocivi, un tempo utilizzati nella loro produzione, sono stati ormai banditi dalla legge da anni e non sono più presenti nelle confezioni. E’ quindi evidente che l’intenzione è significativa per l’individuo ma il suo comportamento non ha un reale  impatto ecologico. 

Riciclo e Raccolta Differenziata: Psicologia di un cambiamento. Immagine: © ana_klea - Fotolia.com
Articolo consigliato: Riciclo e Raccolta Differenziata: Psicologia di un cambiamento.

Inoltre, esistono situazioni in cui un comportamento, messo in atto per ragioni non strettamente “green”, finisce per essere particolarmente utile al benessere dell’ambiente. Per esempio, si pensi al caso di una persona che, al solo scopo di risparmiare, decida di utilizzare il mezzo pubblico anziché la propria automobile per recarsi al lavoro. Infine, occorre anche ricordare quelle situazioni in cui una persona agisce in maniera anti-ecologica senza esserne consapevole. Uno di questi comportamenti può essere mangiare molta carne senza conoscere gli effetti nefasti che l’allevamento intensivo produce sull’ambiente.

Comprendere la differenza tra impatto ed intento può sembrare banale ma gli esempi sopracitati dimostrano l’importanza e la forza delle idee e delle credenze psicologiche degli individui. Sebbene l’umanità abbia modificato profondamente l’ambiente con le proprie azioni, raramente lo scopo principale era distruggere l’ecosistema: le persone piuttosto agiscono nella ricerca di comfort, sicurezza, divertimento o status.

Per questo motivo, per evitare fallimenti e/o sprechi di risorse, prima di dare avvio a campagne per la salvaguardia dell’ambiente sarebbe utile indagare il grado di consapevolezza che gli individui possiedono riguardo alle loro azioni, nonché gli atteggiamenti e i valori che sono alla base.

 

 

BIBLIOGRAFIA:

Neuroscienze & Psicoanalisi: le basi Neurofisiologiche della Rimozione e dell’Inconscio

– FLASH NEWS –   Alla ricerca delle basi neurofisiologiche dei concetti freudiani di rimozione e conflitto inconscio

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

Un esperimento che riguarda la psicoanalisi freudiana, i conflitti inconsci e il loro legame con i sintomi ansiosi verrà presentato in questi giorni presso il 101st Annual Meeting of the American Psychoanalytic Association. (Link all’evento)

Il protagonista è Howard Shevrin, professore emerito di psicologia presso la University of Michigan Medical School’s Department of Psychiatry, che promette di fornire dati a supporto del legame tra il concetto psicoanalitico di conflitto inconscio e i sintomi esperiti consapevolmente dai pazienti ansiosi.

 I dati dimostrerebbero che l’esposizione subliminale alle parole riguardanti i conflitti inconsci seguita da una esposizione sovraliminare a parole riguardanti i sintomi ansiosi porterebbe a specifici patterns di onde cerebrali alfa rispetto ad altre combinazioni di esposizioni sub e sovraliminari.

 

Neuroscienze & Psicoanalisi: le basi Neurofisiologiche della Rimozione e dell’Inconscio. - Immagine: Property of University of Michigan, under Creative Commons License 3.0
Data from the experiment showing that subliminal exposure to words related to a person's unconscious conflict, followed by supraliminal exposure to words related to their anxiety symptoms, led to different alpha wave patterns compared with other scenarios. Fonte: University of Michigan, Department of Psychology

Il campione della ricerca è esiguo: 11 individui con diagnosi di disturbo d’ansia che sono stati sottoposti a una serie di sedute diagnostiche ad orientamento psicoanalitico. Da queste sedute diagnostiche lo psicoanalista ha inferito quale conflitto inconscio avrebbe potuto causare il disturbo d’ansia del paziente.

Le parole della seduta legate alla natura di tale conflitto inconscio ipotizzato dall’analista sono state estratte dalla conversazione e utilizzate come stimoli di laboratorio. Similmente, sono state selezionate dai trascritti anche parole riguardanti l’esperienza di ciascun paziente dei propri sintomi ansiosi.

Questi stimoli verbali sono poi stati presentati ai pazienti: per prima cosa venivano mostrate loro in modo subliminale le parole riguardanti il conflitto inconscio; subito dopo venivano presentate a livello sovraliminare le parole descrittive i sintomi ansiosi.

Durante tali esposizioni è stata rilevata la risposta cerebrale elettrica a tali stimoli misurando la frequenza delle onde alfache entro specifici range di frequenza avrebbero una funzione inibitoria di diverse funzioni cognitive e considerate quindi dagli autori come indicatori del processo di rimozione. Inoltre i pazienti sono stati esposti sia a livello sovrliminare che subliminare a una serie di parole di controllo che non avevano alcuna relazione con il conflitto inconscio ipotizzato o con i sintomi ansiosi.

La press release della University of Michigan Health System riporta la presenza di specifiche combinazioni di frequenze di onde alpha- che per l’appunto sarebbero indicative del processo di rimozione per dirla in termini di difese psicoanalitiche- in relazione alla seguente presentazione combinata: a livello subliminare le parole riguardanti il conflitto inconscio e a livello sovraliminare gli stimoli riguardanti i sintomi ansiosi.

Solo in questa combinazione di stimoli si manifesterebbe secondo l’autore il processo di rimozione, non nel caso in cui le parole del conflitto inconscio sarebbero presentate a livello sovraliminare, né quando a seguito della presentazione subliminare delle parole del conflitto inconscio seguirebbero parole di controllo non riguardanti i sintomi ansiosi.

 

Neuroscienze e Psicoanalisi. Il contributo di Mauro Mancia. - Immagine: © robodread - Fotolia.com
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Indubbiamente la presentazione dell’esperimento è intrigante, contorta ed elaborata, anche e soprattutto perché ad oggi non abbiamo disponibile ancora un articolo completo pubblicato su una rivista scientifica. A fronte degli sforzi di Shevrin di documentare a livello empirico le basi neurofisiologiche del concetto freudiano di conflitto inconscio e di rimozione assumendo un’ottica interdisciplinare, in attesa di una vera e propria pubblicazione i punti da chiarire rimangono molti tra cui la modalità di identificare il potenziale conflitto inconscio durante le sedute, la modalità di selezione dei trigger lessicali legati a conflitti inconsci e sintomi ansiosi, la specificità del tipo di indicatore neurofisiologico e l’assunzione di tale misura come indice di processo mentale di rimozione.

 

 

BIBLIOGRAFIA:  

EURO2012

@stateofmindwj: 

   Le Vicissitudini Psicologiche dell'Euro. - Immagine: © 2012 Costanza Prinetti.

Christine Lagarde sorveglia e segnala come un guardalinee, la Merkel imperterrita sentenzia le sorti delle “squadre europee”. Il parallelismo tra gli Europei di calcio 2012 e le dinamiche dell’Europa economica si gioca anche sulla terminologia, sul maggior rigore economico predicato dall’arbitro Merkel(arbitro peraltro molto severo e dal cartellino rosso facile), sull’espulsione dal campo per “comportamento scorretto”. Ma in gioco c’e ben più di una coppa calcistica, e le altre squadre lo sanno bene.

 

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Le vicissitudini psicologiche dell’ Euro

Le Vicissitudini Psicologiche dell'Euro. - Immagine: © 2012 Costanza Prinetti.
Christine Lagarde sorveglia e segnala come un guardalinee, la Merkel imperterrita sentenzia le sorti delle "squadre europee". Il parallelismo tra gli Europei di calcio 2012 e le dinamiche dell'Europa economica si gioca anche sulla terminologia, sul maggior rigore economico predicato dall'arbitro Merkel (arbitro molto severo e dal cartellino rosso facile), sull'espulsione dal campo per "comportamento scorretto". Ma in gioco c'e ben più di una coppa calcistica, e le altre squadre lo sanno bene.

Le vicissitudini dell’euro ci parlano di alcune delle più radicate insicurezze umane e sociali: il bisogno di appartenere e di essere riconosciuti come appartenenti al gruppo e il timore di essere esclusi.

Il desiderio di essere accettati, che però implica l’imbarazzo, e forse l’umiliazione, di bussare alla porta del club nel quale ci si vuole iscrivere. Mi accetteranno? E quanto brucia il dubbio di non poter essere all’altezza?

Amarezza cronica post-traumatica. Immagine: © 2011-2012 Costanza Prinetti -
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Plausibilmente i greci, o alcuni greci, ritengono che sia umiliante che la loro appartenenza all’Europa sia messa in dubbio per ragioni economiche. Non basta il contributo di civiltà? Omero, Eschilo, Socrate, Platone e Aristotele e il Partenone e tutto quel genere di cose? Oppure no.

Purtroppo la costruzione di uno Stato non è solo un fatto di appartenenza culturale. Si può avere molto o poco in comune e questo può essere un fattore influente o insignificante. E poi, cosa c’è di più labile di una comunanza culturale? La frattura tra Europa mediterranea e settentrionale può essere più profonda di quanto si possa sospettare. Basti leggere questo articolo dello storico americano Victor Davis Hanson per toccare con mano come forse il Reno sia più ampio del Mediterraneo e dell’Atlantico. Cosicché potrebbe esserci più affinità tra un tedesco e un americano che tra un tedesco e un europeo/mediterraneo. E così via, coinvolgendo nella diffidenza nordica non solo i greci, ma anche italiani, spagnoli, portoghesi e perfino i francesi.

Nella modernità succedono strane cose. Il senso di appartenenza si dissolve e al tempo stesso si acuisce.

Dietro un’apparente senso di comunanza universale può nascondersi un ancor più forte senso di esclusione. Il caso di Christine Lagarde è significativo. L’intronizzazione di questa francese al soglio del Fondo Monetario Internazionale avviene perché essa è erede dell’alta tradizione amministrativa della Francia o invece perché la Lagarde è una dei pochissimi non nativi di lingua inglese in grado di parlarlo davvero fluentemente? E davvero fluentemente non vuol dire parlare bene l’inglese. Significa molto di più. Significa parlarlo davvero bene come la tua lingua nativa. Ecco quindi che dietro l’internazionalismo finanziario si cela un etnicismo anglo-sassone efficientissimo proprio in quanto nascosto (Leggi l’articolo di Simon Kuper).

L’appartenere a un gruppo, a una cultura, a un popolo, o a tutte queste vecchie cose di pessimo gusto è uno di quei bisogni umani che sono disconosciuti dalla mentalità dei nostri tempi. Roy F. Baumeister è stato colui che ha dedicato i propri sforzi scientifici a studiare il bisogno di appartenenza come bisogno universale, dotato di aspetti affettivi da non disprezzare e capace di procurare sofferenza quando non soddisfatto, indipendente da altri bisogni e dotato di funzioni proprie. Certo, come tutti i bisogni può anche produrre danni quando ricercato in maniera pervasiva e distorta. Ma rimane un bisogno umano che va compreso e controllato, ma non può essere eliminato (Baumeister, Leary, 1995).

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Amica? Nemica! - Immagine: 2011-2012 © Costanza Prinetti.
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Negli altri si cercano anche le somiglianze, le conferme, le similitudini di gusto, di sensibilità, di storia personale, cercano perfino le stesse idiosincrasie e le stesse antipatie.

Le persone, scrivono Baumeister e Leary (1995) cercano nel contatto non solo la novità e lo stimolo, ma anche un certo grado di continuità affettiva, di fiducia reciproca, un’assicurazione che i rapporti siano ragionevolmente prevedibili e quindi amichevoli e fruttuosi.

Brewer (1991) ha riscontrato il benessere personale e il senso di stabilità del proprio sé dipendono non solo dalla personalità individuale, ma anche dalla possibilità di aderire a norme culturali condivise.

Senza questa possibilità, il disagio e l’angoscia fanno le loro apparizioni.

 

 

BIBLIOGRAFIA: 

Esercizi Comportamentali in Terapia Cognitiva

 

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Esercizi Comportamentali in Psicoterapia Cognitiva. - Immagine: © tiero - Fotolia.com

La terapia cognitiva-comportamentale (TCC) è, appunto, anche comportamentale. Talvolta alcuni terapeuti TCC sembrano trascurare la seconda parte del loro orientamento. Questo è parzialmente comprensibile: nella TCC l’intervento comportamentale è realmente subordinato a quello cognitivo. Infatti il cognitivismo clinico recupera il comportamentismo ma lo sottopone al paradigma dell’elaborazione mentale. Gli esercizi comportamentali, come l’esposizione, hanno valore come esposizione a nuove esperienze da cui imparare nuove informazioni e non come tentativi di instaurare nuovi riflessi comportamentali. Ogni esercizio comportamentale ha valore solo se discusso ed elaborato cognitivamente in seduta. Tuttavia subordinazione non deve diventare trascuratezza.

Gli esercizi comportamentali preferiti dal terapeuta TCC sono soprattutto di esposizione. Si tratta in fondo di ABC  in cui il paziente si sottopone volontariamente alla situazione problematica, allo stimolo A. Alcuni tipi di fobie si prestano particolarmente bene a questo tipo di esercizi. Sono quelli in cui l’esposizione alla situazione A è facilmente riproducibile, come in  casi di panico o fobia legati all’uso di mezzi di trasporto. Anche alcune fobie sociali sono facilmente riproducibili: il timore di mangiare in pubblico, ad esempio. Tuttavia non è sempre così. Quanto più la situazione sociale è sofisticata, tanto più diventa difficile ricrearla in un esercizio artificiale. Parlare in pubblico è una situazione che non può essere creata artificialmente. Occorre esplorare con il paziente quali saranno le prossime occasioni in cui sarà possibile prescrivere di esporsi. Ancora più difficile è affrontare timori di situazioni intime e confidenziali: timore di confidarsi con amici, timore di corteggiare una persona. Situazioni che vanno prescritte con delicatezza, tenendo conto che un eccesso di prescrizione potrebbe rendere l’esercizio troppo artificiale e perciò inefficace.

Un secondo tipo di esposizione è l’astensione da comportamenti di controllo. In questo caso quindi non  ci espone alle situazioni temute, ma si evita di mettere in atto i rituali ossessivi di controllo. Il terzo tipo di intervento comportamentale più usato dai terapeuti TCC è il rilassamento muscolare, che tratteremo a parte.

Ancora Disputing. - Immagine: © Albachiaraa - Fotolia.com
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La letteratura scientifica ci fornisce alcuni suggerimenti che dovrebbero rendere l’esposizione comportamentale più efficace. Si raccomanda un’esposizione intensa e quotidiana per almeno 30 minuti, e di valutare lo stato emotivo prima e dopo ogni esercizio con un scala da 0 a 100.

Fantasticare sulle conseguenze è una tecnica tra il comportamentale e l’immaginativo. Consiste nell’indurre il paziente ad immaginare le conseguenze di una certa situazione problematica, ed esporre le fantasie e le immagini riguardanti quella situazione. Laddove il paziente esprima delle fantasie realistiche il terapista ha la possibilità di indurre il paziente a ideare migliori strategie di padroneggiamento del pericolo temuto. Laddove invece il paziente produca delle fantasie irrealistiche, il terapeuta potrà utilizzare le tecniche di analisi delle evidenze e delle prove di fatto.

L’autoistruzione è una tecnica altamente direttiva, e richiede una elevata capacità retorica e persuasiva nel terapeuta. Si tratta di far notare al paziente che, solitamente, ciascuno di noi parla con se stesso, e che queste autoistruzioni hanno una influenza sul comportamento. Ognuno di noi ha quindi la naturale dote di dare a se stesso ordini, direttive, istruzioni, o altre informazioni necessarie a risolvere i vari problemi che si presentano. A questo punto si tratta di convincere il nostro paziente a darsi autoistruzioni alternative ai suoi pensieri disfunzionali automatici. Non sarà facile convincerlo della efficacia di questa operazione, che a prima vista potrà essere valutata come bislacca. Si può far provare al paziente direttamente in seduta l’efficacia di autoistruzioni positive, fargliele scrivere su carta, concordare momenti o orari prestabiliti, dei cerimoniali o dei riti che precedano l’autoistruzione. Soprattutto si tratta di far capire al soggetto che, come i pensieri automatici si sono cristallizzati fino ad apparire inamovibili, lo stesso si può fare con le autoistruzioni positive.

Lo stop del pensiero è, come le autoistruzioni, un impiego terapeutico della coscienza volontaria, delle cosiddette funzioni esecutive e deliberative della mente. Difficile da attuare, anche perché senza adeguata distrazione il soggetto tende a ricadere nei suoi pensieri automatici. Anche qui si possono introdurre dei rituali che accompagnino l’atto dello stop del pensiero. Ma soprattutto, occorre istruire il soggetto a riconoscere l’insorgenza dei pensieri disfunzionali. Una volta suonato il campanello di allarme, si deve stimolare nel paziente la consapevolezza che non è condannato a pensare quei pensieri negativi, che non ne è schiavo, e può fare altro. Infatti i pensieri disadattivi e disfunzionali hanno spesso un effetto a cascata per il soggetto. Un pensiero o una riflessione su un dato evento può partire come un qualcosa di inizialmente insignificante ma è in grado, se “lasciato libero”, di acquistare peso e forza. Una volta creati, questi processi disfunzionali hanno un tale impatto sull’individuo che può risultare difficile bloccarli.

Per fare questo il terapeuta può addestrare il soggetto a raffigurarsi in mente la parola “stop”, o assicurarla a un comportamento, un atto, come il rilasciare un elastico teso intorno al braccio, oppure può scriverla su un foglio e indicarla ed utilizzarla all’occorrenza nella seduta, oppure può attribuire il significato di “stop” ad un gesto che all’occorrenza può fungere da segnale per il paziente e un ausilio per lo stesso paziente a rafforzare il comando.

Naturalmente in terapia cognitiva non basta eseguire gli esercizi comportamentali con costanza e impegno. Ciò che è veramente importante è che in seduta essi siano sottoposti alla elaborazione cognitiva. L’obiettivo è che il paziente apprenda nuove informazioni durante l’esercizio, informazioni che facilitano l’intervento di decatastrofizzazione e sdrammatizzazione delle previsioni negative.

 

 

BIBLIOGRAFIA:

Storie di Terapie #9 – Agostino l’eremita. Un caso di Schizofrenia

STORIE DI TERAPIE

Nei casi clinici che seguono, l’arrosto sostanzioso dei vari pazienti è condito con il sugo della fantasia, per rendere non identificabili le persone e la lettura più avvincente. Spesso ho condensato in un solo paziente più persone e, quasi sempre ci sono scappati pezzetti di me stesso.   – Leggi l’introduzione –   

 

Lorenzini_Agostino l'eremita. - Immagine: © deviantART - Fotolia.com

I matti più gravi e più belli probabilmente non arrivano mai alla nostra osservazione e vivono la loro folle esistenza senza interferenze.

Una piccola schiera di insensati minori bussa alla porta dei Centri di Salute Mentale o degli studi privati, a seconda del censo e non della patologia. Intermedio tra i due gruppi precedenti ce n’è un altro: sono i matti così matti da non sapere di esserlo per cui non fanno alcuna richiesta, ma così fastidiosi, o così insopportabilmente dolenti, che sono gli altri, familiari, conoscenti o semplici vicini a richiedere le cure. 

I problemi che subito si presentano sono due: non hanno nessuna intenzione d’incontrarci, siamo noi a dover andare in trasferta nelle loro tane dove si rifugiano da un mondo pericoloso da evitare e non hanno alcuna intenzione di curarsi e di perdere tempo con noi. 

Parlando di questi pazienti ho immediatamente adottato il plurale infatti, un terapeuta solo non può sopportare la responsabilità, le frustrazioni e la continuità che il trattamento di pazienti del genere richiedono. 

Nella maggior parte dei casi tutto l’intervento avviene in emergenza per lo scatenarsi di una crisi. Allora si arriva con le sirene più o meno spiegate e l’animo rattrappito e si cerca di far ordine in un casino in cui tutti sono spaventati perché non capiscono cosa stia accadendo e si aspettano una magia. L’autorità di intervenire ci viene direttamente dalle forze dell’ordine, il  problema è, in genere, più di ordine pubblico che sanitario e lo psichiatra, se non sta attento, viene risucchiato nell’antico ruolo di castigamatti. Come ci si muove, in quel delicato ed esaltante frangente, pregiudicherà tutto il successivo sviluppo della relazione terapeutica.

Riaprono i Manicomi? - Immagine: © arquiplay77 - Fotolia.com
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Diverso è il caso di quando si è chiamati ad intervenire su una situazione grave ma assolutamente cronicizzata, in cui cronico non è solo il paziente ma anche le relazioni con il suo microcosmo, congelate e identiche per anni. La patologia non è vista dal paziente ma neppure dai familiari,  anche le cose più mostruose col tempo diventano normali, ci si abitua. 

Poi un giorno passa un estraneo, un occhio nuovo guarda e dice:

 “ma è orribile! bisogna fare qualcosa, chiamate qualcuno!” 

A noi ci chiamò il sindaco neoeletto di un piccolo paese, che aveva scoperto Agostino nel suo giro postelettorale alle famiglie che presumeva lo avessero votato.  

In paese non si sapeva più nulla di Agostino da dieci anni, alcuni lo credevano morto, altri definitivamente ricoverato in qualche residuo manicomio in Italia o all’estero. 

Bussammo alla porta di casa un martedì mattina piovoso di fine ottobre. Il primo risultato fu la precipitosa fuga di un gatto dalla buca gattaiola intagliata nel portoncino. Il tempo di raggiungere l’uscio e la madre ci aprì. Entrammo in una grande cucina con un caminetto spento, una scala laterale, una porta sul fondo e nessuna finestra.

Era una donna molto  bassa e altrettanto larga, ci scrutò con sospetto da capo a piedi e, sentito che il mandante era il sindaco, decise che eravamo innocui e ci fece entrare. Aveva una età indefinita tra i quaranta e i settant’anni e alle spalle una vita che le aveva incurvato la schiena tanto da rendere impossibile guardarla negli occhi.

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Lei era l’avamposto avanzato che difendeva il rifugio estremo di Agostino. Nel chiedergli del figlio, notammo un moto di sospettosità e un movimento quasi difensivo. Ci fece enorme tenerezza. Al contrario di tanti parenti che, stroncati dalla pesantezza di una assistenza impegnativa e difficile non chiedono altro che il congiunto sia ricoverato, la mamma di Agostino si preoccupava che glielo portassimo via e quasi si parò col corpo di fronte alla porta della camera del figlio. Le spiegammo che le leggi erano cambiate e che le cure e l’assistenza sarebbero stati esclusivamente domiciliari. 

Iniziò a fidarsi e ci raccontò la storia di Agostino. Era il più piccolo di tre figli maschi che, insieme al padre, erano emigrati in Belgio a fare i minatori quando Agostino aveva solo sedici anni. A suo avviso, la fatica e la lontananza dalle cure materne li aveva stroncati. Erano tornati in Italia quando Agostino aveva diciannove anni e aveva iniziato a fare bizzarrie sul lavoro che ne avevano provocato il licenziamento. In Italia, i due più grandi avevano ripreso a coltivare la terra e si erano sposati, vivevano in condizioni misere ma nessuno gli parlava dietro. Il marito aveva iniziato a bere, a giocare, sciupando così i pochi risparmi accumulati in Belgio. Il suo alcolismo lo aveva reso aggressivo e la povera donna, per non farlo uscire ogni sera, lo chiudeva con una catena ed un lucchetto nella stanza dove attualmente si trovava Agostino. Il padre usci da quella stanza solamente dopo morto nel sonno. 

Agostino era stato un ragazzino normale ma somaro a scuola, che aveva interrotto alla terza elementare. La madre ci raccontò con estrema naturalezza che aveva sofferto di enuresi, che era stata curata con il sistema diffusissimo del topo lesso. Assolutamente efficace e consistente, appunto, nel dare un tale alimento al bambino ogni mattina che si svegliava bagnato. Informatoci scoprimmo che si trattava di usanza assolutamente normale e giudicata da tutti insostituibile.

Alle stranezze in Belgio, che lei poco ricordava, era seguito un comportamento preoccupante anche al ritorno in Italia. Agostino metteva le mani addosso alle ragazze, si spogliava di fronte alla gente e gridava oscenità irripetibili, rubava  e si allontanava dal paese, a piedi e senza meta, per giorni e giorni, fughe che  si concludevano spesso con il ricovero presso qualche manicomio anche in parti lontane di Italia. Dal manicomio venivano chiamati i familiari e i fratelli se lo andavano a riprendere. 

Genitori maltrattanti: caratteristiche comportamentali e psicopatologia. - Immagine: © elisabetta figus - Fotolia.com
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Poi si ricominciava da capo: qualche molestia, qualche furto e poi la fuga e il ricovero. Da ogni ricovero, Agostino tornava peggiorato con i segni di percosse e apparentemente più istupidito, i familiari non volevano più ricoverarlo ma per i paesani rappresentava una minaccia e, più  volte, chiesero alle autorità un ricovero definitivo; a volte, in seguito a piccoli incidenti lo massacravano di botte fino a metterlo in pericolo di vita. 

A questo punto, la madre e i fratelli decisero di proteggerlo nascondendolo nel rifugio che era stato del padre: la porta con la catena si aprì per Agostino vi scomparve dentro. 

In quella tana stava recluso da otto anni senza mai uscire. 

Agostino, tuttavia, non era entusiasta della soluzione adottata e iniziò ad essere ostile con la madre, protettrice e secondina. Si rifiutò di andare a mangiare nella adiacente cucina con lei e si infilò a letto senza più uscirne. Smise di parlare, si alzava soltanto per prendere il cibo che la madre gli passava attraverso un foro praticato nella porta della camera e per fare i bisogni in un vaso che transitava dallo stesso buco. La madre non lo vedeva in faccia e non ne udiva più la voce da ormai sei anni, anni che lui aveva trascorso sdraiato o accovacciato su un letto ricoperto di residui alimentari e detriti corporei.

Ritenemmo con Vanni, mio straordinario collega, di procedere con estrema pazienza e lentezza, per non spaventare Agostino che si era rifugiato lì da un mondo che lo spaventava

Le prime tre visite trascorsero, nella adiacente cucina, a parlare con la madre e poi ad alta voce tra noi perché familiarizzasse con le nostre voci. Spiegammo le nostre intenzioni di offrirgli semplice compagnia, ma non eravamo affatto certi che ci sentisse o ci capisse. 

All’inizio del secondo mese togliemmo la catena alla porta e l’aprimmo, senza tuttavia varcare la soglia. Sotto la coperta si vedeva la presenza di un corpo ma il volto era completamente coperto dal lenzuolo che doveva essere stato bianco e appariva marrone scuro. La volontà di non essere invasivi e l’odore che proveniva dalla stanza ci trattenne fuori . 

Sviluppi Traumatici, Eziopatogenesi, clinica e terapia della dimensione dissociativa. Liotti G. Farina B. (2011). Cortina Editore. - Immagine: Copertina, Raffaello Cortina Editore
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Il modo di comunicare con Agostino era , per così dire, trasversale: Vanni ed io parlavamo tra noi e, talvolta, con la madre,  cercando di mandargli dei messaggi che veicolavano voglia di aiutarlo, curiosità per la sua situazione e la sua storia, disponibilità a fare ciò che lui voleva. Saputo dalla madre che da piccolo adorava dei tipici dolcetti da forno locali, iniziammo a portarglieli ogni volta e con la scusa di lasciarglieli a portata di mano, ci avvicinammo fino al comodino. Scoprimmo con piacere la settimana successiva che li aveva mangiati e aveva conservato la carta  piegata accanto al cuscino. Aveva accettato il dono e ci parve un grande successo. Dopo altri due mesi di dolcetti settimanali ci fu chiaro che gradiva la nostra presenza e addirittura aspettava il nostro arrivo, unico evento che interrompeva il fluire sempre uguale del tempo.

Ci sembrò il momento di fare un passo avanti e di guardarci in faccia. scoprimmo lentamente il viso sotto il lenzuolo. La madre, da lontano, scoppiò a piangere rivedendo il figlio dopo sei anni. Barba e capelli non erano stati mai tagliati, l’igiene dentale non era quella raccomandata dai migliori dentisti, ma gli occhi di Agostino brillavano vispi, pur se attenti ad evitare lo sguardo altrui.

Un contatto fisico ci parve una violazione intollerabile e andammo avanti con la comunicazione trasversale ma in sua presenza, trattenendo gli infermieri zelanti che volevano lavarlo e verificare le condizioni del corpo, a letto da sei anni. Lui non ci rivolse mai né parola nè sguardo, ormai senza speranza ci limitavamo a fargli compagnia, dopo i saluti iniziali parlavamo tra noi delle nostre cose e prima di andarcene lo sollecitavamo con la solita stereotipata frase “e dai Ago… perché non ci accompagni al bar una volta?!” 

Era una bellissima giornata di primavera inoltrata quando, sulla porta, ci raggiunse alle spalle una voce sconosciuta e un po’ fessa che disse senza esitazioni “No, grazie, un’altra volta”. Per poco non inciampammo l’uno sull’altro. Tornati indietro, lo trovammo impegnato in un severo rimprovero di se stesso, si diceva “te sei distratto” “maledizione alla tua distrazione” “ormai sei fregato”. Continuò a lungo con questo tono di rimprovero, che a noi piacque interpretare come il segno che Agostino si fosse dato il compito preciso di non parlare con nessuno, ma che le sue capacità cognitive fossero rimaste intatte. Era l’ottimismo che assiste e deve assistere i curanti e li porta a sopravvalutare i segni positivi, per continuare a curare.

 

Cambiare la Psichiatria Pubblica. - Immagine: © Andres Rodriguez - Fotolia.com
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Comunque, da quella mattina di primavera, Agostino tornò a parlare, usando un linguaggio particolare che chiamammo “agostinese” e, poiché anche noi lo usavamo per parlare con lui, divenne una abitudine, simpatica all’interno del Centro di Salute Mentale, ma sgradita in famiglia. 

Le regole fondamentali dell’agostinese erano che: il  soggetto si esprimeva sempre in terza persona per cui io vado via diventa “se ne va via”, Agostino definiva se stesso come “il più piccolo”, qualsiasi interazione con il mondo era considerata “una critica”, il concetto che alla fine andava sempre riaffermato con forza era che “vali uguale”, la sintesi della filosofia agostiniana era condensabile in un discorsetto del tipo “tra una critica e un’altra critica t’hanno offeso, e ridai sa, t’hanno offeso un’altra volta, ma il più piccolo lo sa che vale uguale”. 

E noi di rimando: “ma Agostino, il più piccolo, non si deve offendere, un consiglio non è una critica e lo sappiamo che vali uguale”

Con il passare dei mesi avevamo l’impressione di conoscere l’animo di Agostino e che lui conoscesse il nostro, tant’è che a volte interveniva nei nostri discorsi con suggerimenti colmi di frasi fatte. 

Il nostro obiettivo non era che si iscrivesse all’università ma solo di migliorare la sua qualità di vita. Iniziò ad alzarsi dal letto e a sedersi al tavolo di cucina per consumare i pasti. A quel punto fu possibile, senza forzarlo, tagliargli le unghie di mani e piedi che gli impedivano, dopo sei anni di abbandono, di camminare e usare le posate. Ormai l’ora che trascorrevamo settimanalmente insieme passava cucinando salsicce sul focolare della cucina, sfogliando e commentando le riviste che gli portavamo con sporadici suoi interventi sulle critiche e sul valore personale. 

Durante l’estate raggiungemmo il massimo della soddisfazione: uscimmo in piazza con Agostino vestito a festa, ci facemmo delle foto insieme e andammo a prendere un caffè al bar. 

Il mese dopo la madre morì per un carcinoma al retto.

Rimasto solo, Agostino sembrava destinato ad un ricovero, ma i fratelli si accordarono per continuare a portargli tutti i giorni il pranzo e la cena.

Un giorno ci chiamarono perché Agostino era strano e si lamentava vistosamente. Giunti al suo capezzale ci rendemmo conto che trattavasi di un addome acuto. Con fermezza lo invitammo a venire con noi in macchina all’ospedale. Al Pronto Soccorso ci lasciò di nuovo di stucco. Va considerato che non ci aveva mai chiamato per nome e mai si era rivolto a sé in prima persona. Al medico che lo interrogava disse testualmente: “  Sono Agostino…”, declinò le sue complete generalità, “loro sono come parenti e mi hanno accompagnato in macchina di corsa perché sto tanto male”.

Il medico deve essersi lungamente chiesto perché, due apparentemente garbati operatori della ASL, sibilassero all’unisono sottovoce “Agostino, ma vaff…..!!” 

L’infarto intestinale gli concesse altri tre giorni di vita. Al funerale eravamo in mezzo ai fratelli e pensai che il padreterno sapeva che, nonostante tutte le critiche, il più piccolo valeva uguale.

Padri Autorevoli vs Padri Autoritari: la Perseveranza nei figli.

– FLASH NEWS – Lo stile autorevole dei padri e la perseveranza dei figli adolescenti

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze PsicologicheUna nuova ricerca della Brigham Young University porta delle evidenze in favore della tesi secondo la quale i padri sarebbero in una posizione preferenziale per favorire la perseveranza rispetto a un obiettivo da raggiungere e l’impegno scolastico nei figli pre-adolescenti. I ricercatori sono giunti a tale risultato dopo aver seguito all’interno di uno studio longitudinale 325 famiglie – coinvolte nel Flourishing Families Project – con figli dagli 11 ai 14 anni per circa due anni e pubblicato pochi giorni fa su Journal of Early Adolescence.

Lo studio ha esaminato il ruolo della perseveranza come mediatore tra lo stile educativo autorevole dei genitori e i comportamenti prosociali, l’impegno scolastico e comportamenti delinquenziali nei figli adolescenti.

Dalle analisi dei dati emerge che specificamente lo stile educativo autorevole del padre (e non tanto della madre) correla positivamente con la perseveranza nel raggiungere un obiettivo, e che a sua volta tale perseveranza correla positivamente con il livello di impegno scolastico e negativamente con la presenza di comportamenti delinquenziali.

Sarebbe quindi lo stile autorevole- e non autoritario– del padre a favorire maggiori livelli di perseveranza che a loro volta impattano sul coinvolgimento scolastico e i comportamenti delinquenziali.

Gli autori sottolineano in modo sintetico tre caratteristiche chiave dello stile autorevole paterno:

  • Il figlio si sente emotivamente e affettivamente vicino al padre.
  • Vengono esplicitate le ragioni su cui si fondano le regole date.
  • Ai figli viene garantito un appropriato livello di autonomia.

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BIBLIOGRAFIA: 

Intervista a John Bowlby. Londra 1990 (A cura del Prof Leonardo Tondo)

 

John Bowlby: l'intervista del Prof. Leonardo Tondo al padre della teoria dell'attaccamento.
John Bowlby (1907–1990). Psicoanalista britannico padre della Teoria dell’Attaccamento.

SU GENTILE CONCESSIONE DI GIOVANNI FIORITI EDITORE, PUBBLICHIAMO L’INTERVISTA CHE IL PROF. LEONARDO TONDO CONDUSSE CON JOHN BOWLBY NEL 1990.
L’INTERVISTA, GIA’ EDITA IN INGLESE SULLA RIVISTA CLINICAL NEUROPSYCHIATRY, E’ STATA RECENTEMENTE TRADOTTA IN ITALIANO (TRADUZIONE A CURA DI ROSARIO ESPOSITO E SARA CAVALIERE, SITCC SEZIONE CAMPANIA). 

 

 

 

 

Introduzione

Trascorsi un intero pomeriggio con John Bowlby, nel suo ufficio sobriamente arredato presso il Dipartimento della Famiglia e del Bambino del Centro Tavistock di Londra, in una giornata umida e fredda, poco prima della sua morte nel 1990. Il luogo aveva una vecchia scrivania in legno, due sedie, molti libri e una finestra che dava su un cortile.

L’intervista si concluse verso sera nel momento in cui la luce rossa intensa del sole al tramonto riempiva la stanza. Al ritorno pensai che alcuni grandi uomini mostrano un certo grado di modestia sentendosi sicuri di sé. Credo che questa sia l’ultima intervista concessa dal Dott. Bowlby. In essa, oltre al ruolo fondamentale della separazione precoce e della perdita nello sviluppo della personalità futura, egli sottolinea: l’importanza della ricerca come base per l’avanzamento della conoscenza e il valore dell’informazione prospettica piuttosto che retrospettiva per tutti gli approcci psicologici in Psichiatria infantile. Inoltre, Bowlby raccomanda l’estrema utilità di valutare il comportamento passato e presente, le somiglianze (importanza dello sviluppo psicologico) e le differenze (osservazione piuttosto che speculazione filosofica) tra la sua teoria dell’attaccamento, la psicoanalisi e la terapia cognitiva, e il suo “condividere la critica” dei vecchi colleghi psicoanalitici. Infine, fornisce indicazioni essenziali circa lo sviluppo dei bambini disadattati, la loro diagnosi, la valutazione clinica e il trattamento, la loro gestione in ospedale e come aiutarli ad affrontare la separazione dai loro genitori.

Dell’intera intervista, le due affermazioni da me preferite sono quelle riferite al paragone dello psicoterapeuta come un compagno che può aiutare il paziente a scendere in un passaggio buio a prendere una palla, e quella che i terapeuti cognitivi dovrebbero imparare l’importanza delle emozioni, mentre gli psicoanalisti quella dei pensieri, oltre che degli eventi di vita.

 

Londra, 11 Gennaio, 1990

Leonardo Tondo: Posso chiederle quando e come ha iniziato a occuparsi di attaccamento e perdita?

John Bowlby: Tutto è iniziato negli anni ‘30, tra il 1936 e il 1940. Lavoravo come psichiatra dell’infanzia a Londra mentre completavo il mio training in psicanalisi. Uno dei concetti a cui mi interessai molto presto fu l’importanza delle prime relazioni genitore-figlio e la misura in cui esperienze avverse, all’interno della famiglia, avrebbero potuto avere un effetto negativo sulla salute fisica e mentale del bambino. A quel tempo molti colleghi psicoanalisti erano poco inclini a dare importanza agli eventi di vita avversi come fattore importante per lo sviluppo del bambino. Freud nei suoi primi lavori, intorno al 1895, attribuì i problemi di isteria all’abuso sessuale nell’infanzia e solo più tardi stabilì che questi eventi non erano accaduti realmente ma invece erano immaginari. Egli credeva che la paziente stesse descrivendo eventi immaginari dell’infanzia. Quello fu il periodo in cui la parola fantasia iniziò ad essere usata in psicoanalisi. E negli anni ‘30, a Londra, c’era un forte atteggiamento per cui non si sarebbe dovuto mai credere alle storie dei pazienti inerenti abuso sessuale o ogni altra esperienza avversa causata dai genitori, e che non bisognava fidarsi della validità del resoconto del paziente. Invece, io pensavo che gli eventi avversi fossero di grande importanza e, da giovane psicoanalista e giovane psichiatra dell’infanzia, tentai di dimostrare che gli eventi di vita reale della prima infanzia giocavano un ruolo preminente nel determinare la salute mentale. Ed è così che cominciò lo studio al quale fin da allora mi sono poi dedicato. A quel tempo sarebbe stato molto difficile fare qualsiasi ricerca sistematica sul maltrattamento dei bambini da parte dei loro genitori. Innanzitutto l’opinione diffusa era molto contraria a questa ipotesi e, in secondo luogo, senza registrazioni o videoregistrazioni non avevamo nessun mezzo per registrare in modo valido atteggiamenti, dichiarazioni o comportamenti avversi da parte dei genitori verso i figli; cosicché l’idea era irrealizzabile. Questa circostanza mi portò a concentrarmi sulla separazione e perdita, perché le separazioni e le perdite potevano essere registrate con validità – che si siano manifestate oppure no. Il motivo, quindi, perché io mi focalizzai su separazione e perdita fu, in parte, perché essa poteva essere oggetto di ricerca. Inoltre avevo osservato, alla Child Guidance Clinic, un numero di casi dove la personalità del bambino, diventato poi delinquente e ingestibile, mi sembrava essere stata precocemente preceduta da relazioni molto distruttive tra il bambino e la madre. Una volta considerati degli eventi antecedenti precoci si sarebbe potuta dimostrare una loro presenza in modo statisticamente significativo per studiare se fosse probabile una connessione importante. Esistevano molte evidenze cliniche interne che suggerivano che le prime esperienze avverse avevano portato a risultati che comprendevano bambini con scarse relazioni emotive o con un disinteresse per esse, che non sembravano essere influenzati dalla lode o dalla punizione, o che andavano per la propria strada. Essi marinavano la scuola, scappavano via, facevano piccoli furti e così via. Sebbene essi sembrassero abbastanza sereni, erano bloccati emozionalmente. Tutto è iniziato così; non mi stavo occupando di depressione, ma stavo partendo da una condizione che io credo rappresenti, in realtà, le fasi precoci di una personalità psicopatica.

 

Leonardo Tondo: Il passaggio della sua ricerca dalla psicoanalisi alla teoria dell’attaccamento ha cambiato il suo atteggiamento nei confronti della psicoanalisi?

John Bowlby: Non proprio. Ci sono due ragioni perché io penso che la psicanalisi sia stata un importante passo avanti. La prima è questa: che non c’è nessun altro gruppo professionale che nel passato, e certamente non dagli anni ‘30 ai ‘50, abbia posto attenzione alle relazioni intime personali ed emozionali familiari: gelosia, rabbia, colpa, vergogna, amore, dolore e così via. La psicoanalisi vedeva tali relazioni emozionali precoci come un problema da studiare a pieno titolo e nessun altro gruppo lo faceva. Gli psichiatri e gli psicologi non lo facevano come, d’altronde, nessun altro. L’unico gruppo professionale che si può dire si interessava di quest’area erano, naturalmente, i professionisti della religione. Preti e pastori della religione da sempre si occupano di questi problemi, benché non scientificamente. Freud e i primi psicoanalisti fecero un tentativo di studiare questi problemi. Un altro aspetto che mi ha interessato era che la teoria riguardava una forma di sviluppo mentale di psichiatria e psicologia che vedeva i problemi attuali di una persona nei termini della sua storia, a differenza della maggiore enfasi posta sulla fantasia dalla maggior parte degli altri analisti, in contrasto con i pochi che pensavano che gli eventi di vita reale fossero di grande importanza. Diverse persone davano agli eventi di vita gradi diversi di importanza. Io ho dato loro un peso notevole. Non avrei potuto trovare nessun altro gruppo che avesse tanto in comune con me, quanto con la società psicoanalitica in quel tempo, infatti rimasi membro attivo della società e divenni segretario del training e vice presidente. Ho avuto un ruolo importante nella società psicoanalitica britannica tra il 1944 e il 1962.

 

Leonardo Tondo:Ha avuto occasione di incontrare Freud?

John Bowlby: No, venne nel nostro paese nel 1938. Era molto vecchio e stava poco bene e vide solo pochi vecchi amici. Io ero uno psicanalista molto giovane a quel tempo.

 

Leonardo Tondo:Il suo primo studio sulla separazione e perdita ha avuto ulteriori sviluppi a partire dallo stadio iniziale?

John Bowlby: Il primo passo fu mettere insieme un gruppo di casi in cui pensavo che questo tipo di problema fosse presente. Quindi ciò che feci alla London Child Guidance Clinic di Londra dove lavoravo, fu confrontare due gruppi di pazienti: 44 bambini che erano stati indirizzati alla clinica per furto e 44 che erano stati indirizzati per ragioni diverse dal furto. Quelli che erano stati indirizzati per furto mostrarono un’incidenza statisticamente più significativa di relazioni precoci interrotte rispetto agli altri partecipanti. Questo studio fu pubblicato nel 1944 (Bowlby, 1944). Si trattava di studio retrospettivo, e cominciai la fase successiva dopo la guerra, quando prestai servizio come psichiatra dell’esercito dal 1940 al 1945. (nota al testo: Freud, Sigmund (1856-1939) e la sua famiglia fuggirono dalla persecuzione nazista il 4 giugno 1938 e si trasferirono da Vienna a Londra dove vissero al Gardens Marensfield 20 (ora museo). Fumatore cronico di sigaro egli soffrì di cancro alla bocca dal 1923 e morì di overdose di morfina da assistenza medica il 23 settembre 1939.).

 

Leonardo Tondo:Qui in Inghilterra?

John Bowlby: Ero in Inghilterra sì, e sono stato in un gruppo di ricerca molto tempo. Ci interessavamo di selezionare persone adatte, secondo la commissione, a diventare ufficiali. Io fui assegnato a questo lavoro dal 1942 in poi dopo aver ottenuto un training di ricerca sotto le armi che fu molto utile. Questa fu un’esperienza per me molto importante perché lavoravo con due o tre psicologi clinici. Quando ripresi la psichiatria infantile, dopo la guerra, all’inizio del 1946, mi fu offerto un posto alla Tavistock Clinic come responsabile di un dipartimento per bambini e genitori. E così il mio primo compito, naturalmente, fu di riorganizzare i servizi clinici, poi il training e poi iniziare il progetto di ricerca. Il mio piano, dall’inizio, fu riavviare la ricerca nella direzione degli effetti avversi delle rotture precoci nelle relazioni familiari.

 

Leonardo Tondo:Che tipo di prove di relazioni precoci distruttive rilevava?

John Bowlby: Un bambino poteva rimanere in un ospedale per un lungo periodo – 12 mesi o 2 anni. A quel tempo mi interessavo di rotture che duravano non meno di sei mesi, verificatesi prima del quinto compleanno e la rottura poteva essere dovuta al ricovero in un ospedale o l’essere in un istituto. In alternativa poteva essere dovuta a una madre che affidava un bambino a un’altra donna con un ritorno, in seguito, alla madre naturale; oppure poteva essere un figlio illegittimo che prima era qui, poi lì e poi altrove. C’erano molte condizioni sociali che portavano a queste rotture, ma le rotture erano il reale criterio per il mio studio.

 

Leonardo Tondo:Lo sviluppo della sua teoria è stato considerato in qualche modo legato alla psicoanalisi?

John Bowlby: Questa è una storia importante. La psicoanalisi è uno sviluppo della psichiatria, quindi modelli di sviluppo relativi alla prima infanzia sono rilevanti per la psicoanalisi. Cosi, studiavo gli ‘atomi’ di sviluppo nei primi anni. Certo Freud non l’ha mai fatto. La sua teoria dello sviluppo era concepita interamente in maniera retrospettiva. In Inghilterra ci fu sempre interesse per l’analisi infantile, che era più vicina al problema dello sviluppo. Voglio dire, durante gli anni 30, questo interesse era rappresentato da Melanie Klein, che esercitò un’influenza sostanziale a Londra. Poi, Anna Freud arrivò nel 1938 con suo padre ed ebbe un’altra influenza, di genere piuttosto diverso. Un’altra persona che divenne influente e ragionevolmente famoso fu Donald Winnicott, un pediatra che aveva punti di vista non differenti dai miei. Egli attribuì importanza agli eventi di vita reali. Quindi io ero uno di quegli analisti focalizzati sugli sviluppi primari e sugli effetti degli eventi di vita, ma ero il solo a fare una ricerca sistematica. Gli altri si occupavano di lavoro clinico e di fare osservazioni naturali, non programmate e incidentali. Io tentavo di porre il lavoro su basi più scientifiche. (note al testo: Klein, Melanie (1882-1960). Psicologa dell’infanzia, nata in Austria si trasferì a Londra nel 1926, dove

morì nel 1960 – Freud, Anna (1895-1982). Psicoanalista dell’infanzia, nata in Austria, figlia di Sigmund, si trasferì con il padre e il resto della sua famiglia a Londra nel 1938 – Winnicott, Donald (1896-1971). Pediatra inglese apportò importanti contributi alle teorie psicoanalitiche, specialmente alla teoria delle relazioni oggettuali focalizzata sulla relazione col genitore influente). 

 

Leonardo Tondo:Quanto era differente la sua ricerca da quella di Piaget?

John Bowlby: Beh, veda Jean Piaget era completamente interessato allo sviluppo della cognizione ed era disinteressato agli aspetti emotivi. D’altro canto, quella era la sua prospettiva ma non la mia. Ciò nonostante, in effetti, eravamo entrambi degli psicologi dello sviluppo.

 

Leonardo Tondo:Lei e Piaget avete avuto occasione di condividere i vostri risultati dal momento che entrambi stavate lavorando allo sviluppo infantile?

John Bowlby: Ci siamo incontrati un numero di volte tra il 1953 e il 1956. Per quattro anni questi incontri sono avvenuti con un gruppo, riunito a Ginevra dalla Organizzazione Mondiale della Salute, per discutere degli sviluppi psicobiologici dell’infanzia.

 

Leonardo Tondo:Chi erano i partecipanti?

John Bowlby: Includevano l’etologo Kornad Lorenz, l’antropologa Margaret Mead e Jean Piaget. Complessivamente eravamo circa una ventina. Altri di cui probabilmente conosce i nomi, erano Eric Erickson, che venne una volta o due, e Ludwig von Bertalanffy, l’importante teorico della teoria dei sistemi. Queste erano tutte persone di primaria importanza nei loro campi. Io ero un gradino sotto queste luminari. C’era un impegno a trovare principi comuni in questi approcci diversi. Ovviamente non ci siamo riusciti, ma le discussioni sono state molto proficue. Sono state anche pubblicate e hanno avuto abbastanza influenza (note al testo: Piaget, Jean (1896-1980). Psicologo svizzero dello sviluppo. Lavorò sullo sviluppo cognitivo del bambino – Lorenz, Kornad (1903-1989). Zoologo australiano e psicologo animalista, fondatore dell’etologia moderna. Studiò i processi di apprendimento associati all’imprinting – Mead, Margaret (1901-1978). Antropologa culturale statunitense che confrontò il passaggio dall’adolescenza all’età adulta tra società semplici e complesse – Erikson, Eric (1902-1994). Psicologo e psicoanalista tedesco che studiò lo sviluppo sociale e coniò l’espressione crisi di identità e descrisse gli otto stadi dello sviluppo psicologico – von Bertalanffy, Ludwing (1901-1972).  Biologo austriaco che si occupò della teoria dei sistemi e propose un modello matematico di crescita dell’individuo.).

 

Leonardo Tondo:Qual era lo scopo del workshop?

John Bowlby: Lo scopo era di cercare di integrare il modo di guardare ai problemi dello sviluppo infantile, per trovare cosa ognuna delle differenti discipline avesse da offrire che avrebbe potuto portare a una scienza unificata. Questo era lo scopo.

 

 Leonardo Tondo: Tornando alla sua ricerca, c’è stata qualche differenza tra l’inizio del suo lavoro e 10 o 20 anni più tardi?

John Bowlby: Non proprio, voglio dire, il mio interesse è stato porre la psicoanalisi su apposite basi scientifiche. Che è sempre stata la mia aspirazione. Io sentivo che essa studiava i giusti problemi ma era diventata molto poco scientifica nella sua metodologia. Il mio credo era che la psicoanalisi potesse fare progressi solo mediante lo sviluppo di una base scientifica migliore.

 

Leonardo Tondo: Molti psicoanalisti possono contestare sulla necessità della psicoanalisi di essere scientifica, perché essi trattano gli individui con risultati che non possono essere riproducibili.

John Bowlby: Non condivido questa parere, perché l’approccio scientifico va tenuto in considerazione. La scienza biologica certamente si occupa delle questioni generali che colpiscono una popolazione. Voglio dire, la fisiologia umana non si è interessata della fisiologia di una persona in particolare, si interessa del funzionamento di corpi umani, e, allo scopo di ottenere risultati validi, ha bisogno di una popolazione, di un campione, di una misura del battito cardiaco e così via, e per questo si usano strumenti statistici. La scienza non si occupa dei casi individuali ma delle generalità. La medicina è una scienza applicata. Certo, in una scienza applicata, noi ci occupiamo di operazioni particolari di processi fisiologici e patologici in un individuo, e questa è l’applicazione della scienza. Bene, la psicoanalisi è la stessa cosa. Quando si tratta un paziente non ci si comporta da scienziato, uno sfrutta il più possibile la conoscenza per il beneficio del paziente e sebbene, come con qualsiasi altra condizione, puoi trovare indizi molto utili per quello che ti serve, non si può arrivare ad una conclusione generale valida, a meno che non si confronti mediante altri metodi. Pertanto, non ho mai accettato la regola che la psicanalisi fosse differente da qualsiasi altra branca della medicina per quanto riguarda la sua rapporto con la scienza. La pratica clinica, l’arte della medicina, è un’abilità applicata. Essa richiede la presa in esame di tutte le circostanze di un paziente particolare, delle sue particolari condizioni, mentre la scienza si occupa di generalità, ritenute valide in maniera indiscriminata. In quanto ricercatori ci si occupa di un campione di pazienti che soffrono situazioni avverse e gli effetti di queste situazioni sui bambini. Nel lavoro clinico si è interessati a un approccio individuale, variabile e sintetico.

 

Leonardo Tondo: Le stesse persone che sostengono la teoria non scientifica della psicoanalisi, dicono che il cervello, che tratta le emozioni e lo sviluppo cognitivo, è molto diverso da altri organi del corpo.

John Bowlby: È una questione d’opinione, non penso di essere d’accordo.

 

Leonardo Tondo: Come si è trasferito il suo metodo dalla ricerca al trattamento?

John Bowlby: Penso che si è sostanzialmente d’accordo sul fatto che queste rotture nelle relazioni nei primi anni possono avere effetti molto nocivi; perciò devono essere evitate. Se possono essere evitate, dovrebbero esserlo a tutti i costi e molti passi pratici sono stati fatti in quella direzione. In secondo luogo se, per qualsiasi ragione, le prime rotture non sono impedite, noi possiamo capire le conseguenze su un bambino molto meglio e possiamo procedere in un ruolo terapeutico per aiutarlo e, forse, aiutare i genitori ad affrontare i problemi che sono sorti dalle separazioni nei primi anni di vita. Nel caso di un genitore che abbandona un figlio o muore, proviamo ad aiutare quelli che ora stanno accudendo il bambino nei suoi sforzi nell’affrontare il trauma della separazione o della morte. Queste sono pratiche di solito accettate in Gran Bretagna o in America e vengono generalmente utilizzate nel campo della psichiatria infantile.

 

Leonardo Tondo:Quindi c’è un primo passo che è la prevenzione. Se il trauma può essere evitato, dovrebbe essere evitato, ma se un trauma psicologico non è evitabile come la morte di uno o entrambi i genitori, consiglierebbe sempre un trattamento psicoterapeutico?

John Bowlby: Non necessariamente. Prendiamo un caso alquanto semplice, di un bambino che ha una malattia sufficientemente grave e deve rimanere in ospedale per due o tre settimane. Ciò di cui sto parlando vale particolarmente per i bambini più piccoli, ma anche per quelli più grandi. Per prima cosa, il bambino deve stare in ospedale, non si può evitare questo, ma sua madre può stare con lui in ospedale? Se fosse possibile allora molti problemi possono essere evitati e questo è il primo passo per evitare una separazione. Comunque, supponiamo, per esempio, che avendo altri figli non può stare in ospedale con questo bambino. Noi possiamo aiutare la madre in diversi modi. Parliamo, ad esempio, di un bambino di tre anni che ha avuto la febbre. Prima di tutto possiamo avvertirla che, quando va a prendere il suo bambino per portarlo a casa, il bambino può essere in una condizione di distacco emotivo in cui non riesce a riconoscerla o è oltremodo distaccato. Questo stato d’animo è molto stressante per una madre. Noi possiamo avvertirla che questa è il genere di reazioni che potrebbe accadere, così che lei non si sorprenda. Poi il bambino può cambiare e diventare intensamente attaccato a lei e molto apprensivo, per paura di soffrire un’altra separazione. Questa modalità di “attaccamento” è un fatto normale. La cosa da fare è rispondere ad esso in maniera affettuosa e rassicurante e non ignorarlo o scoraggiarlo. Se nel tempo la madre lo tratta in modo più tollerante egli gradualmente smetterà di farlo. Questo è molto importante perché, se la madre diviene severa e punisce il bambino quando si comporta in questo modo, allora il problema peggiorerà. Si tratta di una misura preventiva, se preferisce, una misura immediata che può aiutare in modo significativo. Io sono principalmente interessato a ciò che accade a un bambino quando egli è fuori dalla sua casa e senza i genitori. Ciò può essere molto più traumatico di quando le stesse cose accadono con i genitori presenti. Per cui la presenza dei genitori è la variabile importante. Soltanto quando la situazione degenera, la psicoterapia è richiesta, sebbene sia un intervento poco comune e difficile da fornire in questi casi.

 

Leonardo Tondo:Lei vuol dire che non può facilmente essere somministrata a tutti?

John Bowlby: Esattamente. Per cui deve essere dosata molto rigorosamente. Se, per esempio, un bambino ha avuto una serie di separazioni ed è diventato emozionalmente molto distante e distaccato, allora la psicoterapia è certamente auspicabile per aiutarlo ad aver di nuovo fiducia nelle persone.

 

Leonardo Tondo:In un paziente che ha avuto una relazione interrotta ed è ora un adolescente, che tipo di psicoterapia lei consiglierebbe? Un trattamento psicoanalitico o il suo tipo di psicoterapia?

John Bowlby: Ritengo che la terapia rivolta alla famiglia dovrebbe essere la prima scelta quando possibile. Posso dire che ho sviluppato la terapia familiare negli anni ‘70, e sono sempre stato molto favorevole a essa per molte ragioni. Sfortunatamente, non è sempre possibile; alcuni genitori possono essere morti o la famiglia può essere divisa. Ci sono molte ragioni del perché la terapia rivolta alla famiglia non può essere praticabile. Così se essa non è praticabile ci si deve proporre qualcosa di diverso. In questo caso io credo che la psicoterapia individuale che usa l’insight analitico sia l’alternativa. Quello che cercherei di fare con tali pazienti è aiutarli a esplorare le loro esperienze attuali. Esplorare, considerare, soffermarsi e riflettere sulle esperienze in corso e considerare come potrebbero essere legate a quelle del passato. A volte il paziente riesce a ricordare queste esperienze, altre volte no. Se riesce a ricordare, allora ci si deve preoccupare di aiutarlo a studiarle, prendere in considerazione tutti i dettagli e come si sentiva nel momento in cui si sono verificate così da capire il motivo per cui ora ha tanta paura di camici bianchi; perché quando era in ospedale, anni fa, i medici avevano camici bianchi e lui era terrorizzato di quello che stavano per fare. Così la sua fobia dei camici bianchi è naturalmente comprensibile. Non è stupida, irrilevante, o illogica, ma invece è collegata con una propria esperienza reale. Il bambino è allora in grado di considerare che forse la sua paura della gente in camice bianco potrebbe essere stata ragionevole una volta, ma forse ora comprende la situazione un po’ meglio e può non aver bisogno di sentire che i camici bianchi sono così minacciosi. In altre parole, usa un processo cognitivo per riflettere su questa associazione tra camici bianchi e il passato e tra camici bianchi e il presente e si rende conto che lui non è in trappola e non è un prigioniero. In poche parole, questo è quello che cerco di fare. Cerco di aiutare il paziente a scoprire perché il suo passato è così importante e, per quanto può, a liberarsene e guardare le cose in un modo nuovo. Certo, è un processo lento. Se non riesce a ricordare e si ha una sorta di amnesia, allora il compito è quello di aiutarlo a recuperare ciò che è passato. Aiutandolo a recuperare il passato, egli può fidarsi del terapeuta e diventare più coraggioso. Se una palla è caduta giù in un passaggio oscuro, un bambino forse ha paura di andare lì e prendere la palla, ma se io dico: “Guarda, verrò con te”, può essere contento. In psicoterapia, ci comportiamo come un amico verso un paziente che ha troppa paura di affrontare quello che gli è accaduto in passato. Così, noi lo accompagniamo nell’esplorazione per quanto possiamo e può essere utile in termini di psicoanalisi dire:

Sai che potrebbe essere questo o forse quest’altro ciò che è successo”,

cioè, si possono dare i suggerimenti che possono o non possono innescare una sorta di memoria. Naturalmente, in termini di ricerca o di scienza questo sarebbe del tutto inammissibile, ma non stiamo facendo gli scienziati, stiamo cercando di aiutare qualcuno (note al testo: John Bowlby si riferisce probabilmente all’introduzione ufficiale della terapia familiare in Inghilterra. In verità la terapia familiare era iniziato 20-30 anni prima dal lavoro combinato di diversi terapeuti in Europa e Stati Uniti.

 

Leonardo Tondo:I bambini adottati sono spesso affetti da disturbi del comportamento?

John Bowlby: Dipende a quale età sono stati adottati. Per quanto ne sappiamo, il bambino non costruisce una relazione di attaccamento fino al sesto mese di vita. L’attaccamento è a un livello molto prototipico in precedenza, e tutta l’evidenza dice che se un bambino passa da una figura materna all’altra prima dei sei mesi di età non mostra una reazione rilevante. Solo tra i 6 e i 12 mesi mostra una maggiore reazione; da 12 mesi in poi, la reazione è molto più intensa. Anche in questo caso, ovviamente, siamo in grado di aiutare la madre adottiva nel gestire il disagio avvertendola di ciò che potrebbe accadere e consigliandole il modo migliore per gestirlo. Così, in molti casi, il passaggio è abbastanza semplice e di discreto successo. Tuttavia, più grande è il bambino al momento dell’adozione, tanto più è difficoltosa la sua reazione, soprattutto se ha avuto alcune esperienze di vita disturbanti prima dell’adozione. Quindi tutto dipende da quando, dove e come.

 

Leonardo Tondo: C’è qualche sindrome particolare in soggetti che sono stati adottati dopo il primo anno di vita? Una sindrome che può apparire durante l’adolescenza?

John Bowlby: Penso che sia una questione di fiducia. Prendiamo l’esempio di un adolescente che è stato adottato all’età di cinque anni, dopo aver avuto diverse relazioni insoddisfacenti prima dell’adozione. Se ha avuto rapporti in cui le cose sono andate male ed è stato respinto, egli si aspetta unicamente che i suoi nuovi genitori lo rifiutino. La madre adottiva deve passare attraverso un periodo in cui lui non si fida di lei, ma col passare del tempo lui confiderà in lei sempre più. Molto dipende da quanto è perspicace la madre adottiva e anche il padre, naturalmente. Entrambi dovrebbero essere consapevoli che un bambino che è stato adottato non avrà fiducia in loro così come avrebbe fatto un loro figlio naturale. Il bambino potrebbe interpretare la loro partenza per tre settimane come un rifiuto. Questo è qualcosa di cui essi dovrebbero essere consapevoli. Alcuni genitori adottivi sono straordinariamente comprensivi e percettivi, e si rendono conto di tutto ciò. Altri, naturalmente, possono essere aiutati a capire che queste cose possono accadere. Alcuni non possono essere aiutati semplicemente perché non lo vogliono. Così, la forza del legame, il grado di fiducia nel legame tra genitori e figli è sempre più fragile in questi casi. Di conseguenza, un bambino può temere di essere respinto o abbandonato quando, in realtà, non è quello che sta succedendo. Naturalmente, il problema è che la mancanza di fiducia genera ulteriore mancanza di fiducia che può portare a uno scivolamento verso delinquenza o assunzione di droga. Questo è vero per ogni bambino non solo per i bambini adottati.

 

Leonardo Tondo:Problemi comportamentali dopo un’interruzione di una relazione genitoriale durante l’infanzia possono durare fino all’età adulta?

John Bowlby:   Oh, sì.

 

Leonardo Tondo:Oltre al comportamento psicopatico, quali altri disturbi potrebbero apparire in età adulta, a seguito di precoci relazioni disturbate in famiglia?

John Bowlby: Il comportamento psicopatico è il più comune e può condurre all’uso di droga e furto. Un’altra possibilità sono i legami interrotti con il sesso opposto.

 

Leonardo Tondo: I problemi comportamentali, mostrati dagli adolescenti al giorno d’oggi, possano derivare dai loro primi rapporti con i genitori, non essendo stati così intimi come quando la famiglia era un’unità più importante?

John Bowlby: Credo di sì, ma prima dobbiamo dimostrare che esiste una maggiore incidenza di tali associazioni, anche se non mi occupo dell’ambito epidemiologico. Penso che possiamo essere abbastanza fiduciosi, in ogni singolo caso o in un gruppo di casi, che i problemi di consumo di droga, o di comportamento psicopatico e disturbato, sono un effetto di malfunzionamento della famiglia che, di solito, inizia presto e continua. Una famiglia, che è abbastanza stabile e fornisce una buona potestà genitoriale nei primi anni, tende comunemente a continuare, anche se non sempre è così. Molti pericoli si possono verificare e può essere che un genitore muoia o abbandoni la famiglia. Voglio dire, ci sono prove abbondanti che questi pericoli, in forma di relazioni disturbate sono la causa di qualche tipo di problema. Credo che, statisticamente, questa conclusione sia abbastanza evidente.

 

Leonardo Tondo: Un’altra questione è se una coppia con figli decide di separarsi o stare insieme. Qual è la cosa migliore per i bambini: litigi continui o rimanere insieme per i bambini?

John Bowlby: Penso che sia molto difficile generalizzare. Si potrebbe dire che la mia deformazione sarebbe sempre quella di aiutare i genitori a cercare di continuare a vivere insieme. Se non possono o non vogliono, certamente io lo favorirei in ogni caso sulla base del fatto che la loro, forse, è una difficoltà temporanea che può essere superata. Dopo tutto, quando un matrimonio fallisce, la coppia potrebbe non funzionare bene in altri matrimoni. Se il matrimonio si scioglie, ci sarà molta sofferenza. Il coniuge che non vuole dividersi soffrirà così come i bambini. Se si vuole diminuirla si fa il possibile per scoraggiare la rottura e aiutare la coppia ad affrontare il problema. Questo è il ruolo dell’aiuto coniugale.

 

Leonardo Tondo:E per i bambini, pensa sia peggio vivere con genitori che non vanno d’accordo, ma rimangono ancora insieme?

John Bowlby: È quasi una domanda impossibile. Fino a che punto sono in disaccordo? È il genere di cosa su cui non si può generalizzare. Si deve semplicemente studiare il singolo caso e cercare di aiutare i genitori a trovare la soluzione migliore.

 

Leonardo Tondo:Durante l’infanzia, quale dovrebbe essere il ruolo del padre e della madre? È d’accordo con la visione piuttosto semplicistica che la madre può essere più importante del padre?

John Bowlby: Tale opinione, credo, sia ben dimostrata dalle informazioni che abbiamo. Perché dopo tutto, in ogni società, e non solo in quelle occidentali, studiate dagli antropologi, un bambino entra molto di più in contatto con la madre che con il padre, specialmente nei primi anni. Qualunque bambino vede più di tutti la madre nei primi cinque anni, ha molta più interazione sociale con lei che con il padre. Anche il tempo è un aspetto importante. Infatti, anche nel secondo quinquennio, la maggior parte dei bambini è ancora in contatto di più con la madre che con il padre in tutte le società. Non è così all’avvicinamento della pubertà, dove c’è una tendenza per i ragazzi ad essere più orientati verso il padre, in una sorta di apprendistato, si potrebbe dire, di una società maschile, e per le ragazze diventare sempre più orientate verso la madre, apprendiste di una società femminile. Questo è il modo in cui tutte le società operano. La mia preoccupazione è sempre per il rispetto della natura umana piuttosto che limitarmi alla cultura occidentale. Quando insegno ai miei studenti, dico:

Guardate, la prima cosa da ricordare è che la società occidentale non è una regola umana”.

Ci comportiamo in un modo in cui le società umane non si sono mai comportate in passato. Se le si considerano negli ultimi centomila anni per quanto ne sappiamo e in tutto il mondo, quelle occidentali sono del tutto particolari. Le nostre attività forse vanno bene, forse no, ma non si pensi che siano normali. Esse non sono il modo normale in cui gli esseri umani dovrebbero comportarsi.

 

Leonardo Tondo: A che cosa si riferisce?

John Bowlby: Per fare un esempio molto semplice, mi riferisco al mettere i bambini nelle carrozzine o culle; bambini che dormono in stanza diversa da quella dei genitori è totalmente atipico per gli esseri umani. Voglio dire, se si parla con qualcuno che cresce in Asia, essi considerano l’idea che il bambino debba essere in una culla in un’altra stanza, come folle, assolutamente folle; non si sognerebbero mai di farlo. Ed è solo un esempio. Voglio dire, i figli lasciati fuori da casa per un paio d’ore in una carrozzina? Impensabile. Diamo per buone cose che non sono mai state tali.

 

Leonardo Tondo: Prima si è riferito all’idea di bambini che dormono nella stessa camera con i genitori. Freud si preoccupava che loro fossero esposti alla vita sessuale dei loro genitori.

John Bowlby: Penso sia una totale assurdità. In tutta l’Asia e in Africa, queste cose accadono, così come accadono nella nostra cultura.

 

Leonardo Tondo: È facile essere d’accordo con lei, ma la nostra società si basa su molti tabù che sono probabilmente del tutto ignorati nelle altre.

John Bowlby: Direi di no. Per esempio, se un genitore dice: “Mio figlio di 15 mesi viene costantemente nel mio letto di notte e questa è una  brutta cosa”, io dico: “Sciocchezze! La cosa più semplice è quella di portarlo nella vostra camera da letto durante la notte in modo che tutti possiate avere una notte tranquilla”. I genitori possono accettare questo consiglio.

 

Leonardo Tondo: Questo appare sicuramente più naturale.

John Bowlby: E più semplice, suppongo. O si segue la natura umana o la si combatte. Se la si combatte si hanno problemi. Se non la si combatte la vita è molto più confortevole.

 

Leonardo Tondo: La sua opinione che i bambini possano dormire con i genitori è generalmente accettata? Per esempio in questo paese?

John Bowlby: Ci sono così tante convenzioni in un paese, così come tante culture. Sono sicuro che ci sono alcune culture in questo paese dove ci si aspetta che i bambini rimangano nella stanza con i genitori durante la notte, e, naturalmente, per molte persone con una piccola casa non c’è nessuna scelta. Tante di queste idee di bambini risalgono al secolo scorso, ma non vanno molto indietro nel tempo. C’era un famoso pediatra tedesco, di cui mi sfugge il nome, che era completamente pazzo e che, tra il 1850 e il 1880, aveva stabilito alcune regole rigide su come i bambini dovessero essere trattati, con la motivazione che queste si basavano su conoscenze mediche dei bambini. Naturalmente, non vi era alcuna base per tali regole molto severe che includevano il dar da mangiare ai bambini alle sette di sera, la convinzione che la masturbazione fosse dannosa e molte altre cose. Queste idee erano molto diffuse a cavallo del secolo ma fortunatamente non influenzeranno più del trenta percento dell’opinione pubblica.

 

Leonardo Tondo: La sua ricerca può portare a una migliore comprensione della depressione negli adolescenti?

John Bowlby: La cosa migliore è far riferimento al lavoro di George Brown, un sociologo ed epidemiologo, e Tirril Harris che hanno lavorato sulle origini sociali della depressione. Hanno scritto un libro intitolato “Le origini sociali della depressione” (Brown e Harris, 1978) che ora è uno studio standard. Loro lavorano agli stessi problemi, come me, da 20 anni. Ho sempre assistito a esperienze traumatiche durante l’infanzia e come esse influenzino lo sviluppo. Non ho mai fatto studi longitudinali, perché sono molto costosi e hanno bisogno di grandi équipe, quindi non so come i bambini che ho studiato io o quelli studiati dai miei colleghi sono diventati nel corso degli anni. Brown e Harris hanno guardato le persone adulte, cadute o meno in depressione, e hanno cercato una certa misura di eventi antecedenti. Tra gli altri risultati, hanno dimostrato che i bambini che hanno perso la madre durante l’infanzia sono due o tre volte più inclini alla depressione rispetto ai bambini che non l’hanno subita. È qui che entra in gioco il mio interesse. Hanno studiato tutte le donne tra i 18 e i 65 anni in uno dei quartieri di Londra, prendendo un campione completo di popolazione di 450 persone o giù di lì. In primo luogo hanno studiato le donne in termini del loro stato attuale. Hanno trovato un’incidenza spaventosa di depressione, la maggior parte della quale non si era manifestata all’attenzione psichiatrica, perché ciò che entra in un reparto di psichiatria è la piccola punta di un iceberg. Quelle che erano depresse erano paragonabili a pazienti che si sarebbero potuti trovare in un reparto psichiatrico. Dopodiché hanno fatto uno studio molto accurato delle singole situazioni di vita attuale e di eventuali eventi di vita gravi nei 12 mesi precedenti. Hanno anche ottenuto alcune informazioni elementari sulle perdite d’infanzia, includendo morti di padri o madri e a quale età. Le partecipanti con infanzia generalmente insoddisfacente che, in particolare, comportavano la perdita della madre prima dell’età di 11 anni, avevano una maggiore probabilità di sviluppare una depressione, soprattutto dopo un evento tanto grave da sconvolgere chiunque, come un’altra perdita. Così il quadro generale era che alcuni eventi avversi durante l’infanzia creano vulnerabilità a successivi disagi. Questo modello di depressione basato su eventi dell’infanzia che creano vulnerabilità e su successivi eventi maggiormente avversi che innescano una depressione, è un modello che, io credo, sia molto ben fondato. Brown e Harris hanno lavorato molto su questo modello e allora si può vedere dove i miei interessi coincidono con i loro.

 

Leonardo Tondo: Sono stati ispirati dalla sua ricerca?

John Bowlby: Penso che la perdita di una madre o un padre durante l’infanzia come variabile sia stata per la prima volta avanzata in questo paese e, per quanto ne so in nessun’altra parte, da uno psichiatra infantile chiamato Felix Brown, non parente di George Brown. Nel 1960 pubblicò alcuni risultati epidemiologici piuttosto sorprendenti in cui gli adulti che erano depressi mostravano una maggiore incidenza di perdita durante l’infanzia (Brown, 1966). Tale constatazione portò a un lungo periodo di polemica, riguardante la dimostrabilità statistica. Quando Felix Brown iniziò quel lavoro, lo conoscevo abbastanza bene e fui d’accordo con le sue opinioni. Malgrado la prolungata controversia sul provare la teoria per un periodo piuttosto lungo, il lavoro di George Brown e il suo gruppo effettivamente ha dimostrato che è vero, che non c’è più alcun dubbio che la perdita è un antecedente, ma solo quando è accoppiata con un grave evento di vita attuale.

 

Leonardo Tondo: Il modello di separazione della depressione è stato osservato anche nelle scimmie. Cosa ne pensa di questi studi?

John Bowlby: Lavoro sulla separazione e sulla perdita da prima della seconda guerra mondiale. Un altro psicoanalista, Rene Spitz che lavorò in America dalla metà degli anni ‘30 entrò in questo campo in tempo di guerra e attirò l’attenzione sulla condizione dei bambini negli istituti. Il suo lavoro stimolò alcune attività di ricerca negli Stati Uniti. Uno psicologo che iniziò il lavoro sulle scimmie è stato Harry Harlow alla fine degli anni ‘50 nel Wisconsin che venne influenzato dal lavoro di Spitz e dal mio. Quando Harlow e io ci incontrammo nel 1958 ci rendemmo conto che entrambi stavamo studiando fenomeni comparabili. Robert Hinde è stato un altro psicologo che ha lavorato sulle scimmie in Gran Bretagna, in gran parte stimolato dal mio lavoro. L’aspetto principale del lavoro sulle scimmie è stato che, con disegni e metodi sperimentali rigorosi, si sono dimostrati gli effetti nocivi della separazione e le sue ovvie conseguenze (Hinde 1966). Si tratta di un grande patrimonio letterario con cui avevo abbastanza familiarità negli anni ‘60 perché era molto drammatico, ma non l’ho seguito perché non si può essere al passo con tutto. Comunque ho familiarità con il genere di cose che sono in corso, o che a mio avviso sono molto importanti (note al testo: Spitz, René Arpàd (1887-1974). Psicanalista ungherese studiò la relazione madre-figlio e sviluppò alcune teorie sull’ospedalizzazione. Dimostrò nel 1945 che i bambini lasciati in ospedale non toccati presentavano problemi di sviluppo – Harrolw, Harry (1905-1981). Psicologo americano. Studiò gli effetti dell’isolamento sociale nelle scimmie. Nel 1959 trovò che i cuccioli di scimmie rhesus spesso preferivano abbracciare una “mamma” di stoffa confortevole che bere una bottiglia da una mamma di filo di metallo. Nello stesso anno Bowlby pubblicò Cura del bambino e crescita dell’amore materno, dimostrando che quando bambini piccoli sono separati dalle loro madri per un lungo periodo di tempo, provano dolore e depressione.).

 

Leonardo Tondo:Se, sia la depressione e i comportamenti psicopatici sono associati con la separazione precoce e la perdita, non pensa che queste due sindromi possano avere molto in comune?

John Bowlby: Non vi è alcun dubbio. Individui psicopatici sono cronicamente infelici e, naturalmente, tendono a suicidarsi. Vi è un’alta incidenza di suicidio tra di loro.

 

Leonardo Tondo:Questo è vero anche per i tossicodipendenti che il più delle volte iniziano il comportamento di abuso di sostanze a seguito di qualche tipo di depressione.

John Bowlby: Quindi è una sorta di depressione cronica, una depressione sub-acuta che cova.

 

Leonardo Tondo:Per cui forse potremmo dire che il suo contributo allo studio della depressione sia emerso dallo studio del comportamento psicopatico.

John Bowlby: Penso di sì, eccetto che George Brown ha usato gli stessi concetti nel suo lavoro con i pazienti che sono depressi nel senso ordinario del termine.

 

Leonardo Tondo:Che tipo di rapporto c’è tra i suoi studi e la terapia cognitiva?

John Bowlby: I terapeuti cognitivi, a partire da Aaron Beck, si sono interessati alle percezioni di una persona adulta su se stessa, la propria vita e il mondo in cui vive. Questa preoccupazione, naturalmente, può rendere depressa una persona per un giudizio negativo su di sé, sul proprio futuro e sul mondo in generale. Qualcosa del genere è il modo caratteristico di pensare di una persona depressa. Aaron Beck non si è interessato allo sviluppo di queste preoccupazioni, su come e perché queste idee si sviluppano. Egli le considera inadeguate e cerca di correggere il modo di pensare del paziente. Un approccio alternativo allo stesso problema è quello di chiedere come e da dove il paziente ha ricavato queste idee, come egli le ha sviluppate. Ora, una volta che fai questa domanda stai esaminando lo sviluppo e l’infanzia. I genitori possono parlare e intervenire con i figli in diversi modi. Alcuni genitori lodano un bambino, lo incoraggiano, sono sempre dalla sua parte. Altri sono costantemente alla ricerca di colpa, dicendo: “Non sei nulla di buono, nessuno ti amerà mai, non farai mai strada nella vita”. Alcuni genitori fanno molto per un figlio, lo aiutano e lo incoraggiano ad andare avanti, altri non si interessano a lui o dicono: “Non essere di fastidio; non sopporto di essere disturbato da te”. Penso che tutti questi comportamenti non gratificanti possano avere un effetto molto negativo sul bambino e dargli l’impressione che: “Io non sono bravo, non farò mai niente nella vita, nessuno avrà mai affetto per me, non c’è nulla nella vita per cui vale la pena di vivere”. Dopo tutto, un bambino rischia di vivere con un genitore giorno dopo giorno, anno dopo anno dopo anno, ascoltando lo stesso messaggio. Non c’è da meravigliarsi che cresca credendo di non essere bravo. E l’evidenza è che, quando ognuno di noi ha sviluppato un’idea, tendiamo a conservarla stabilmente nella nostra mente. Sappiamo che la Terra è piatta o la Terra è rotonda. E non importa come sia in realtà. Una volta che l’idea è ben incisa non cambia. Va bene, si è sempre saputo che la Terra è rotonda, ma se alcune prove speciali si fanno avanti per dire che è piatta, in un primo momento si contesta: “Non può essere vero, sono sicuro che non è vero”. Poi, se si accetta con riluttanza che è possibile che la terra è piatta, è sempre una convinzione più fragile di quello che si è sempre detto e saputo. Quindi le persone che hanno avuto un’infanzia difficile e molto denigrata possono lavorare molto duramente e possono anche avere un grande successo. Essi cercano sempre di dimostrare che il loro genitore si sbagliava e per lungo tempo. Possono avere successo per diversi anni, vincere premi e continuare molto bene nella loro carriera, ma rimangono sempre vulnerabili a un fallimento. Proprio quando pensavano che stavano per ottenere un lavoro importante, diventano terribilmente delusi e tornano all’inizio, cioè: “Non valgo niente!”. Questo è un quadro comune, per cui questo è il modo in cui io lo vedrei. Articoli di Giovanni Liotti rivelano che egli pensa evolutivamente ed è interessato all’origine di tali idee esattamente come lo sono stato io. Lo conobbi a Roma nel 1982 circa. Era molto preso dalle prospettive di sviluppo che avevo presentato e lui le adottò. Per cui egli è uno dei pochi terapeuti cognitivi che prende in considerazione lo sviluppo. Ma una volta che un terapeuta cognitivo pensa evolutivamente e in termini di processi inconsci e coscienti, egli è in sintonia con uno psicoanalista come me. Lui ed io abbiamo molto in comune e lo trovo molto incoraggiante (note al testo: Beck, Aaron (nato nel 1921). Psichiatra e psicologo americano che ha ideato la Terapia Cognitiva, un tipo di psicoterapia che inizialmente è stata studiata e praticata per trattare la depressione – Liotti, Giovanni (nato nel 1946). Psichiatra e psicoterapeuta italiano che ha studiato i sistemi motivazionali nell’attaccamento come altri comportamenti umani (accudimento, competizione, cooperazione, sessualità)).

 

Leonardo Tondo:È possibile affermare che la terapia cognitiva può essere vista come la parte operativa delle teorie dello sviluppo?

John Bowlby: Credo che queste etichette diventino piuttosto fuorvianti perché la terapia cognitiva che rappresenta Liotti e la terapia psicoanalitica che rappresento io convergono. Come chiamarla, non so. Dobbiamo sempre tenere a mente che, mentre i pensieri sono importanti, lo è anche l’emozione e che i due processi sono paralleli. Credo, infatti, che questo sia il modo corretto di guardare all’emozione. L’emozione è comunicativa, anche se questo punto spesso viene trascurato. Se si è arrabbiati, ci si comporta in modi che sia chiaro ad altre persone che si è arrabbiati. L’emozione è una comunicazione non verbale di base, un atteggiamento mentale e un’azione potenziale molto forte, e quindi bisogna considerare sia la comunicazione verbale che non verbale. I terapeuti cognitivi probabilmente sono stati troppo interessati alla comunicazione verbale, mentre gli psicoanalisti probabilmente non lo sono stati abbastanza. I terapeuti cognitivi devono imparare che l’emozione è comunicativa e gli psicoanalisti devono imparare che i pensieri sono importanti.

 

Leonardo Tondo:È interessante che, dopo tutto, la terapia cognitiva discenda dalla psicanalisi.

John Bowlby: È vero.

 

Leonardo Tondo:Posso chiederle come ha avuto inizio il suo interesse per la psichiatria?

John Bowlby: È iniziato a Cambridge, dove sono stato uno studente del triennio in medicina dal 1925 al 1928. Ho studiato le scienze mediche di base: zoologia, fisiologia, anatomia comparata, e così via, come mie discipline mediche precliniche. Mi sono interessato a quello che oggi si chiamerebbe psichiatria dello sviluppo, come alcune persone si sviluppano in un modo o nell’altro. Dopo aver lasciato Cambridge nel 1928, invece di completare gli studi per diventare medico ho trascorso un anno nelle scuole per i bambini disturbati. In una di queste, ho conosciuto quello che si potrebbe chiamare un punto di vista psicoanalitico dello sviluppo per quanto riguarda i bambini con problemi. Mi è stato poi consigliato di completare la mia formazione medica e diventare uno psichiatra infantile e iniziare una formazione come psicoanalista, che ho fatto negli anni ‘30. Ecco come è iniziato tutto.

 

Leonardo Tondo: Si ricorda qualche episodio particolare che è stato importante nella sua scelta?

John Bowlby: È difficile da dire, ma racconterò di un’importante esperienza che ho avuto in queste scuole per bambini disturbati. Era un posto molto piccolo con bambini di ogni età e diversi gradi di disturbo. Un bambino di otto anni mi seguiva tutto il giorno tutti i giorni, cosicché gli sono diventato familiare e si è sviluppato un attaccamento con lui. Un’esperienza opposta che si è verificata riguardava un ragazzo di 15 o 16 anni che era stato espulso da una nota scuola. Era molto chiuso sul piano emozionale anche se era molto socievole e non antisociale, ma era emotivamente introverso e aveva avuto una prima infanzia molto disturbata; era illegittimo e il parere della gente che gestiva la scuola era che un’esperienza nella sua prima infanzia aveva causato la sua condizione attuale. Questa è stata l’origine di ciò che seguo da allora.

 

Leonardo Tondo:Ha ricevuto delle critiche nei primi anni del suo lavoro da altri colleghi?

John Bowlby: I miei rapporti con il gruppo psicoanalitico di Londra sono stati sempre in termini personali molto buoni, ma essi consideravano errate le mie idee. Non sto dicendo su tutto, e le cose sono cambiate nel corso degli anni, ma ho ricevuto moltissime critiche quando ho iniziato a porre l’attenzione sull’importanza di eventi di vita reale e delle esperienze negative. La prima volta presentai un articolo su questo argomento prima della guerra nel 1939, continuai a presentare queste idee negli anni ‘40 e ‘50 e sviluppai una teoria dell’attaccamento alla fine degli anni ‘50. Questa fu duramente criticata quando la presentai alle società psicoanalitiche in America e altrove. Ci fu una strana tendenza a pensare che queste idee potessero essere importanti ma non avevano nulla a che fare con la psicoanalisi – un parere che io considero assurdo. Comunque ho ricevuto una buona quantità di critica.

 

Leonardo Tondo: Quando le sue idee sono state inizialmente accettate?

John Bowlby: Dipende dal gruppo. Assistenti sociali che si occupano di problemi di affidamento e sanno tutto di bambini senza genitori soddisfacenti, sono sempre stati entusiasti del mio lavoro. Psicologi moderni negli anni ‘50, che erano interessati alle teorie dell’apprendimento, odiavano le mie idee, e le consideravano sciocchezze. Gli operatori della psichiatria infantile, nel complesso, conoscevano i problemi e pensavano che avessi fatto la cosa giusta. Gli operatori del campo della psichiatria dell’adulto erano o totalmente disinteressati o consideravano il tutto come di nessuna importanza. È stata semplicemente una questione relativa a diverse discipline. Ogni volta che mi recavo da operatori sociali sapevo che sarebbero stati dei miei sostenitori, un gruppo di psicologi sarebbe stato critico o un gruppo di psichiatri avrebbe ignorato totalmente l’argomento e così via.

 

Leonardo Tondo: Possiamo dire che la sua teoria ha un aspetto anche ecologico?

John Bowlby: La storia è abbastanza semplice. Prima della guerra, avevo fatto uno studio retrospettivo pubblicato nel 1944 sui ladri minorenni. Dopo la guerra, decisi che quello che dovevamo studiare le conseguenze di un bambino che perde la sua figura genitoriale: le sue risposte nell’essere in un posto sconosciuto con gente sconosciuta, una situazione che un bambino piccolo trova estremamente spaventosa. Fu allora che i miei colleghi e io facemmo queste osservazioni, che il lavoro sulle scimmie confermò. La domanda successiva fu: se la rottura di un legame aveva effetti emotivi così potenti, qual è la natura del legame che viene interrotto? Tale questione fu in cima ai miei pensieri nel 1951 e in quel tempo, un conoscente psicologo diresse la mia attenzione al lavoro di Lorenz sull’imprinting. Egli disse: “Conosci il lavoro di Konrad Lorenz sull’imprinting? Credo che potrebbe interessarti”. Fu un’osservazione casuale che fece al termine di una riunione del comitato. Trovai una traduzione in inglese di alcuni lavori di Lorenz e li considerai molto emozionanti. Li trovai molto interessanti perché mi ero sempre interessato di scienza naturale. Poi ebbi l’opportunità di parlare con Julian Huxley che era stato uno dei primi ecologisti e un biologo noto in Gran Bretagna. Disse che era tutto molto interessante e importante dal punto di vista medico. Mi mise sulla strada giusta per i libri di Lorenz, nonché per lo studio dell’istinto di Nikolaas (“Niko”) Tinbergen. Passai tutto l’inverno del 1952-1953 a studiare etologia ed è così che è iniziato tutto. Quanto più la studiavo, tanto più ero impressionato dall’elevata qualità scientifica del loro lavoro e dalla misura in cui essi studiavano in altre specie problemi simili ai nostri in campo clinico. Così diventai un grande appassionato dell’approccio etologico, che portò alla mia teoria dell’attaccamento che riguarda un solo aspetto delle relazioni bambino-genitore e cioè che un bambino conserva i legami con un genitore se questo lo rassicura. Nei soggetti più grandi, le domande possono essere: “Perché si diventa esigenti? Perché si diventa dipendenti?” e così via. Fu interessante osservare che un comportamento molto simile si verifica in un gran numero di specie diverse. In secondo luogo, ci si può porre le domande: “Perché si manifesta? Qual è la sua funzione? Perché dovrebbe esistere?”. In passato questo ciclo di dipendenza era considerato solo come un fastidio, è semplicemente un qualcosa che accade, dovuto al fatto che una madre nutre il bambino che così si abitua. Il cibo è la cosa più importante e crea dipendenza. Non è una buona cosa e prima si diventa indipendenti, meglio è. Ora, io vedevo il tutto in modo completamente diverso. Non ho mai pensato che il cibo fosse così importante e nel 1958 dimostrai che non lo era. Poi, secondariamente, il punto che ho sempre sostenuto sull’attaccamento è che è una buona polizza assicurativa. Promuove la sicurezza, è emotivamente protettivo e ha una funzione importante nella natura umana. È da studiare come parte della natura umana e nel suo sviluppo maturo, e io attribuisco grande importanza a esso. Invece di considerarlo come un aspetto sconveniente di cui sbarazzarsi, qualcosa da evitare, esso è una semplice parte della natura umana e qualcosa da studiare (note al testo: Huxley, Julian Sorrel , Sir  (1887-1972). Biologo evolutivo inglese. Studiò come i tratti culturali possono rimanere in una società e persistere attraverso le generazioni – Timbergen, Nikolaas (1907-1988). Etologo e biologo olandese che vinse il Premio Nobel in Fisiologia (con Konrad Lorenz e Karl von Frisch) nel 1973 per i suoi studi sui modelli sociali di comportamento.).

 

Leonardo Tondo: Nella sua tecnica psicoterapeutica c’è qualcosa di speciale quando ha a che fare con un bambino o con un adolescente?

John Bowlby: Non penso che ci sia nulla di speciale. Penso di aver sempre preso sul serio i bambini, perché considero gli adulti semplicemente come bambini cresciuti e i bambini mi hanno sempre interessato. Credo che sia necessario trattarli il più possibile come dei pari e prestare attenzione a ciò che sentono, a quello che dicono, e prenderli sul serio, questo è tutto. Io non mi considero un terapeuta geniale. Faccio terapia, ma non è mai stata la maggiore delle mie specialità. Ho imparato molto praticandola e ho trattato persone di ogni età, compresi i bambini, adolescenti e adulti.

 

Leonardo Tondo: Tende verso l’approccio psicoanalitico, essendo non direttivo, o nella sua terapia lei è più supportivo e direttivo?

John Bowlby: Sono piuttosto non direttivo, anche se probabilmente sono diventato un po’ più direttivo col passare del tempo. Una questione importante nel mio lavoro terapeutico è che io sono un compagno di un paziente indifeso e ho intenzione di restare con lui per quanto posso e risolvere il suo problema.

 

Leonardo Tondo: Questo comporterebbe un profondo rapporto emotivo tra lei e il paziente?

John Bowlby: Sì, se arrivano a fidarsi di me. In realtà, ciò che succede è questo: un paziente per definizione, ai miei occhi, è qualcuno che ha avuto una relazione di attaccamento infelice e difficile durante l’infanzia e ha disabilità nelle sue relazioni di attaccamento nella vita adulta. Così, quando viene a trovarmi, io lo vedo come qualcuno che ha una difficoltà nello stabilire legami di attaccamenti di fiducia. Ora, se le cose vanno bene, egli crea un legame di attaccamento con me. La parola transfert è talvolta usata in questo contesto. Egli crea una relazione di attaccamento con me e io divento importante per lui ed egli sente che ho un certo valore nella sua vita. I disturbi nello schema di attaccamento che ha sviluppato da bambino inizieranno a manifestarsi anche nel suo attaccamento verso di me, perché quel modello è stata la sua difficoltà tutta la vita. Ciò sembra molto comune, tranne per la terminologia che uso. Quindi, se un paziente diventa molto arrabbiato con me se mi assento, considero ciò abbastanza naturale, qualcosa che le persone sentono. Se pensa che io abbia intenzione di abbandonarlo ed egli ha un’idea sbagliata di ciò, allora mi chiedo: “Bene, da dove ha ricavato quell’idea o come ha fatto a sviluppare il sospetto che io ho intenzione di abbandonarlo?” Così, ad ogni modo, io uso molti concetti psicoanalitici, ma a modo mio.

 

Leonardo Tondo: I normali strumenti psicoanalitici come libere associazioni?

John Bowlby: Sì, ma la libera associazione è un’arma a doppio taglio. Un paziente può usare la libera associazione perdendo tempo a parlare di tutto ciò che non ha importanza, e poi si deve intervenire e dire: ”Guarda, stai sprecando tempo”, e parlare di qualcosa che conta. Ci sono occasioni in cui io sono deciso e direttivo, ma sono momenti rari. La mia preoccupazione principale è di aiutare il paziente a rivedere la propria vita, a guardare i suoi problemi a modo suo, ed esaminare come le sue esperienze, nell’arco dei primi anni della sua vita, hanno creato i problemi che sta affrontando ora.

 

 

BIBLIOGRAFIA:

 

FONTI: 

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