Genitori maltrattanti: caratteristiche comportamentali e psicopatologia
Credo che essere genitori rimanga il mestiere più difficile del mondo. Infatti qualsiasi genitore, pur cercando di svolgere al meglio il proprio “ruolo”, può mettere in atto comportamenti non adeguati alle necessità del proprio figlio o al suo benessere psicologico. Al di là dei piccoli errori educativi che qualsiasi genitore commette almeno una volta, esistono ancora oggi genitori violenti e maltrattanti.
Per avere successo le cure genitoriali devono come prima cosa favorire le modalità di adattamento che consentano al bambino di sviluppare competenze adeguate, evitando l’instaurarsi di modelli di adattamento dannosi. Black et al. (2001) hanno individuato una serie di fattori di rischio che caratterizzano l’adulto maltrattante, tra cui l’essere stato a sua volta maltrattato nell’infanzia e nell’adolescenza e l’aver ricevuto scarso supporto familiare e sociale. Altri fattori di rischio comprendono la giovane età della madre, l’abuso di sostanze, la povertà, la disforia, lo stress familiare e le scarse capacità di coping del genitore (ovvero la capacità del genitore nel gestire in maniera attiva ed efficace le situazioni difficili).
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Il comportamento del genitore trascurante sembra essere quello meno analizzato fino ad oggi a livello scientifico. Gli studi che si sono interessati a questo aspetto hanno identificato in tali genitori bassa stime di sé, forte impulsività, scarso supporto sociale e figli che presentano spesso problemi di comportamento.
Per quanto riguarda la dimensione del maltrattamento psicologico alcuni studi hanno confrontato un gruppo di madri abusanti con un gruppo di madri non abusanti dal punto di vista psicologico. Dallo studio emerge come le madri abusanti siano portatrici in misura maggiore di sintomi nevrotici, aggressività, ostilità, alti livelli di ansia, bassa autostima e scarsi punteggi di ragionamento verbale.
Per quanto riguarda invece l’abuso sessuale la letteratura mette in evidenza una serie di caratteristiche tipiche psicologico-sociali dell’abusante, che tra l’altro non si differenziano da quelle dell’abusante extrafamiliare. Esse comprendono: problemi emotivi e sessuali, scarsa istruzione e povertà, incapacità di reggere lo stress, rigidità, solitudine e infelicità. Gli studi sull’abuso sessuale hanno indagato inoltre le caratteristiche delle famiglie nel loro complesso, le quali risultano essere caratterizzate da instabilità, irregolarità e repentini cambiamenti.
In merito al rapporto tra psicopatologia e violenza nell’infanzia, interessante è lo studio di Peerars e Capaldi; questi studiosi hanno svolto un significativo studio longitudinale in due fasi. Durante la prima fase hanno selezionato ed intervistato 109 soggetti per verificare la presenza di eventuali storie di maltrattamento. La seconda fase si è svolta dieci anni dopo, quando i ricercatori hanno intervistato gli stessi soggetti e i loro figli maschi per mettere in evidenza possibili correlazioni tra la loro pregressa storia di violenza, comportamenti violenti verso i figli, psicopatologia dei genitori, qualità delle cure primarie e stile educativo coerente. Dai risultati è emerso che i principali fattori di rischio per i figli, oltre alla pregressa storia di violenza dei genitori, riguardano due disturbi psicopatologici dei genitori: la depressione e il disturbo post-traumatico da stress (PTSD). La depressione sembra rendere i genitori nervosi e facilmente irritabili e questo sembra renderli anche maggiormente aggressivi e violenti verso i figli. Per quanto riguarda il PTSD esso non correla direttamente con condotte genitoriali violente ed aggressive ma sembra associarsi ad una destabilizzazione del funzionamento familiare che potrebbe evolvere verso manifestazioni di chiusura, rigidità e violenza verso i figli.
Infine è importante citare anche quella parte di studi che si è concentrata sugli effetti a breve e medio termine nell’avere assistito a violenza intrafamiliare. Si sono rilevati danni per i bambini in tutte le aree di funzionamento: cognitivo, comportamentale, psicologico, fisico ed emotivo. Questi bambini tendono a manifestare maggiore aggressività, crudeltà verso gli animali, difficoltà di empatia, disturbi alimentari, disturbi del ritmo sonno-veglia e scarse abilità motorie. In fase preadolescenziale e adolescenziale è stata riscontrata una più alta incidenza di comportamenti devianti (bullismo, fughe da casa, maggior violenza nei rapporti sentimentali e tendenza a gesti auto lesivi).
BIBLIOGRAFIA:
Black D.A. (2001) Risk factors for child sexual abuse, in “Aggression e violent behaviour”, 6, 15-32.
Camerini G.B. et al. (2011), Manuale di Valutazione delle capacità genitoriali, Scienze psicologiche e diritto, Maggioli editore.
Pears K.P., Capaldi D.M. (2001), International Trasmission of Abuse: a Two-Generational Prospective Study of an At-Risk Sample, in “Child abuse and
Neglect”, 25, 1439-1461.
Di che cosa discutiamo quando discutiamo di cinema?
Pietro Rizzi.
Di che cosa discutiamo, quando discutiamo di cinema? Le risposte possono essere molteplici, quanto è multiforme (o, con termine più nobile, polimorfo) il cinema. Prima di tutto, si discute di storie: per quanto si sia diventati tutti spettatori raffinati e annoiati, immersi in un flusso multimediale ininterrotto, tutto sommato solo per il fatto di essere andati al cinema, siamo entrati nel mondo delle azioni e delle percezioni.
Allora, il tentativo di organizzare e (se c’è stato piacere) di conservare la trama di azione/percezione cui abbiamo assistito, ci induce a parlare. Non sempre, e non solo, per riprendere un controllo razionale sul mondo di eventi complicati che ci ha catturato nei rituali 120’, ma proprio per l’impulso primitivo ad “agire insieme” con gli altri, il nostro compagno o compagna, il nostro gruppo di riferimento. In essi ci rispecchiamo, parlando (qualche volta in modo un po’ sconnesso) come i nostri antenati commentavano episodi di caccia, di raccolta e anche, ahimé, di guerra e saccheggio cui avevano partecipato.
Poco più in là, c’è il piacere di raccontare… il racconto. Piacere da sera accanto al fuoco, mentre fuori è notte: solo che qui usciamo dalla notte artificiale del cinema, per entrare spesso nell’altra notte luminosa e colorata delle città notturne. Ma se seguite, di soppiatto, una coppia che in una sera particolarmente tarda rientra a casa parlando di un film, vi accorgerete di quanto questa vicenda primaria (parlarsi di notte) risorga con tutta la sua forza rassicurante: e se il film era un giallo o un horror il dialogo, forse, continuerà a letto, prima o dopo aver spento la luce; mentre se il film era sentimentale, allora forse succederà dell’altro…almeno speriamo.
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Insomma, discutiamo di come eravamo: il cinema ci trascina sempre, in qualche modo, nel passato. Attraverso il passato individuale profondo attivato dalle identificazioni e proiezioni (e identificazioni proiettive) con cui il film ha lavorato dentro ciascuno, si attiva un passato ancor più primitivo che in termini un po’ aulici potremmo chiamare il passato psichico e storico della specie. Vedere, per credere, il ciclo de “Il pianeta delle scimmie” e il suo straordinario finale (per ora) ad opera di Tim Burton.
Ma se questa è la forma fenomenica del nostro discutere di cinema, che cosa troviamo alla sua base, nella sua sostanza?
Per lo psicoanalista, la risposta è in apparenza obbligata. Ci sono i fantasmi: noi non vediamo, ha detto qualcuno, non vediamo davvero altro che i nostri fantasmi. Soprattuttto oggi, i fantasmi proiettati sulla superficie ininterrotta delle immagini che ci scorrono davanti quotidianamente.
Non si parla forse di “scena fantasmatica”? Certo, sono le emozioni quello che ci sembra di catturare a parole: emozioni talora così intense che, come ben sa chi vuole condurre un dibattito al cineforum, producono dapprima una forma di afasia tale che è necessario un certo periodo di tempo per potervisi svincolare. Ma i veri protagonisti sono i fantasmi: la ghirlanda di fantasie inconsce che ciascuno si porta dietro e che la scena fantastica vista sullo schermo non può fare a meno di attivare. I fantasmi traspaiono dai discorsi, si fanno visibili da quella quota di “invisibile” che il film porta con sé e sta “dietro” la superficie del film: la fantasia comune (si veda “La rosa purpurea del Cairo” di Woody Allen) che dietro lo schermo si trovi un intero mondo infinito, di un’enorme ricchezza, ne è precisa testimonianza. Il linguaggio con il quale parliamo, che ci sembra spesso di coniare ad hoc per quel particolare film, è infiltrato da questo mondo fantasmatico tanto, che il fatto di poterlo condividere con altri ci rassicura profondamente: meno angoscia e quasi un sollievo, un piacere, di potersene liberare con poca fatica.
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E infine: quando discutiamo di cinema parliamo di qualcosa che non smette mai di abitarci e di inquietarci, anche quando è fonte di piacere. Parliamo, inconsapevolmente, del nostro corpo. Proprio del corpo: nostro inquilino/proprietario, che nel corso della visione del film ci è potuto sembrare assente o silente, soprattutto se siamo stati comodi e a nostro agio. Ma è proprio lui che è stato stimolato a dare risposte, a reagire, a com-muoversi: perché il film, come il nostro corpo, è un’ unità psicofisica o meglio psicosomatica, fatto di ben altro oltre che di immagini: di percezioni diverse, suoni, colori, gesti, azioni, oggetti animati e inanimati. Ognuno di questi elementi, e questi elementi tutti insieme, “fanno” l’unità psicosomatica del film. E, se è vero che il legame psichico con quanto avviene sullo schermo è prodotto dalla catena delle identificazioni, è pur vero che non può non esserci, in profondità, l’attivazione di una sorgente psichica primitiva, connessa con le esperienze più antiche della coesione intima di sé: appunto quell’unità psicosomatica che, lo sappiamo da Winnicott, è fondamentalmente legata all’esperienza di creatività. E’ una risonanza psicosomatica profonda, ciò che si attiva durante il film, mediata dal piacere cenestetico che un film promette, spesso fornisce, talvolta invece nega crudelmente. Quante volte si esce da un film con un senso di malessere, una sofferenza senza causa apparente che ci testimonia il cattivo incontro; quante volte, al contrario, si esce sollevati, leggeri, anche quando il film non è stato necessariamente altrettanto leggero? Non abbiamo forse sperimentato una quasi-felicità quando abbiamo visto un film ricco di vitalità, di humour, di arguzia: ciò che rende indimenticabile, per citarne solo uno, Chaplin/Charlot?
La parola, allora, è il tentativo (inevitabilmente riuscito solo a metà) di dire queste sofferenze o questa felicità, risuonando ancora, retrospettivamente, con il corpo del film e risuonando attualmente con il corpo dei nostri compagni e delle nostre compagne. La parola riscopre allora la sua stessa natura di unità psicofisica, di forma prima di tutto musicale, che ricompone il corpo al suo interno, e il corpo proprio con il grande corpo della realtà esterna, del mondo: è il momento magico nel quale la singolarità di ciascuno, il gruppo umano, la natura sembrano per un momento privi dei confini e delle trincee che li circondano, invece, nella vita di tutti i giorni. E’ un momento di profonda integrità e di libertà.
Così, continuiamo e continueremo a discutere, uscendo dal cinema. Da soli, in un soliloquio che in realtà è un dialogo tra i nostri sé; in compagnia, in un tentativo che per un momento non sarà del tutto illusorio, di essere insieme: insieme come in un piccolo Eden (era questo il nome di molte sale cinematografiche, un tempo); un Eden non più perduto, ma vivo come per magia, anche se solo per quel breve, effimero istante in cui muoviamo i primi passi fuori dalla sala, nella notte amica che ci attende.
Social Jetlag: Stanchezza Cronica e rischio di obesità.
– Rassegna Stampa –
Anzitutto che cosa è il Social Jetlag ? Con questo termine ci si riferisce a una sindrome della società contemporanea che riguarda lo sfasamento tra il nostro orologio biologico e i vincoli posti dalla nostra tabella di marcia quotidiana! Il più delle volte tale discrepanza tra il timing fisiologico (basato principalmente sull’alternanza di luce –buio) e il timing sociale (che segue le esigenze lavorative e sociali) esita in una deprivazione di sonno cronica, che può indurre le persone – cronicamente stanche- ad assumere maggiori quantità di caffeina, nicotina e alcool.
Ma c’è di più. Secondo uno studio epidemiologico su larga scala pubblicato on-line il 10 maggio su Current Biology il social jetlag contribuirebbe a far crescere il rischio di obesità.
Il team di ricercatori guidati da Till Roennenberg stanno compilando da dieci anni un enorme database sui comportamenti e sulle abitudini del sonno e della veglia negli esseri umani con la finalità di creare una sorta di mappa mondiale del sonno. Ora, a dieci anni di lavoro sono disponibili alcuni dati preliminari tra cui l’altezza, il peso e le abitudini del sonno dei partecipanti. Dalle analisi dei dati è emerso che le persone con un più grave social jetlag sono anche coloro che hanno maggiore probabilità di essere sovrappeso. In altre parole sembrerebbe che vivere in lotta con l’orologio costituirebbe un fattore di rischio per l’obesità.
“Svegliarsi con il suono della sveglia è un aspetto relativamente nuovo nella vita degli uomini” dice Roenneberg “Semplicemente significa che non abbiamo dormito a sufficienza e per questo motivo siamo spesso cronobiologicamente sfasati e cronicamente stanchi. Un sonno adeguato sia in quantità che in qualità non è una perdita di tempo ma una garanzia per migliore qualità della vita”.
Anche dal punto di vista della nostra forma fisica!
BIBLIOGRAFIA:
Till Roenneberg, Karla V. Allebrandt, Martha Merrow, Céline Vetter. Social Jetlag and Obesity. Current Biology, 2012; DOI: 10.1016/j.cub.2012.03.038
Dinamiche e stili Comunicativi nelle vittime di Disastri Ambientali
Vittima di disastri ambientali?… non se ne parla in famiglia!
Heather Orom dell’Università di Buffalo, insieme ad alcuni collaboratori, ha condotto la prima analisi sistematica volta ad indagare i costi sociali legati ai disastri ambientali, con particolare riferimento agli effetti psicologici negativi (TRAUMI)che questi provocano non solo sulla comunità, ma anche sull’ambiente familiare. Lo studio si propone di esplorare i possibili stili di comunicazione adottati dai membri della famiglie quando si trovano ad affrontare seri problemi di salute provocati da tali fenomeni.
Contrariamente a quanto ci si aspetterebbe i risultati mostrano che nelle famiglie non prevale un atteggiamento di sostegno vicendevole e l’unione tra i membri è tutt’altro che rafforzata, provocando forti ripercussioni sulle possibilità di cura delle vittime.Questo perché disastri ambientali come la presenza di rifiuti tossici sepolti nel terreno o la contaminazione di acque potabili tendono a provocare una divisione all’interno della comunità e le dinamiche familiari rispecchiano fedelmente quanto accade nella comunità allargata.
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Le reazioni della collettività trovano spesso spiegazione nelle conseguenze sociali che si verificano a fronte della notizia della contaminazione quali la svalutazione del mercato immobiliare e l’abbandono del territorio da parte delle imprese, così al disastro medico si aggiunge anche un disastro economico. Purtroppo, sottolinea Orom “Abbiamo scoperto che le persone in queste situazioni possono essere vittime due volte” in quanto oltre ad ammalarsi vengono spesso criticate da alcuni membri della comunità che non credono nella fondatezza della contaminazione e li accusano di mentire solo per ottenere un risarcimento, infangando così il buon nome della città.
La ricerca di Orom ha preso in considerazione la vicenda della cittadina di Libby, nel Montana, che per quasi 70 anni è stata al centro dei processi di estrazione e lavorazione dell’amianto vermiculite. I lavoratori della miniera e gli abitanti della città hanno subito un’esposizione quotidiana all’amianto che ormai è risaputo portare gravi malattie spesso letali (disturbi respiratori, tumore ai polmoni).
Dalla realizzazione di alcuni focus group condotti con residenti nell’area Libby sono stati individuati cinque modelli di comunicazione tra i membri delle famiglie colpite:
aperta–supportiva
silente–supportiva
aperta–conflittuale
silente–conflittuale
silente–negazionista
Il modello definito “aperto-supportivo” incoraggia il malato a prendersi cura di sé, a sottoporsi a screening medici, ad acquisire informazioni su quanto gli sta accadendo ed inoltre fornisce un importante supporto emotivo.
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Purtroppo le famiglie hanno spesso respinto la legittimità della malattia ed estraniato la persona malata assumendo stili di comunicazione silenti e conflittuali. Questi tendono a ridurre le possibilità di cura poiché ostacolano le persone nel cercare l’aiuto medico o psicologico di cui hanno bisogno e quindi nell’adottare atteggiamenti e comportamenti che potrebbero promuovere un miglioramento della salute. Inoltre questi stili comunicativi aumentano il livello di disagio psicologico.
Poiché gli effetti negativi considerati comprendono veri e propri costi sociali e finanziari che impattano sulle relazioni familiari (come ad esempio un aumento dei divorzi) l’autore sostiene che sarebbe auspicabile un maggior intervento da parte del mondo politico affinché questo possa essere più protettivo verso la propria comunità.
Un giorno di ordinaria follia #4 – Do You Speak Chinese?
PSICHIATRIA PUBBLICA: LETTERE DAL FRONTE. Naturalmente tutti i dati ed i nomi citati in queste lettere sono stati inventati e le storie raccontate sono ispirate alla realtà ed alla vita in un csm, ma per doverose ragioni di privacy sono state amalgamate tra loro per renderle irriconoscibili. Ciò nonostante, a volte la realtà supera la fantasia! Buona lettura.
Un Giorno di Ordinaria Follia
#4 Do You Speak Chinese?
Nihao-Buongiorno. Sono per flatelo. Qui mio flatelo.
Pausa, sospiro, sguardo intimorito, poi riprova. “Sono venuta qui per mio fratello.
Eh si certo non si preoccupi, il concetto è chiaro; ma cosa è successo a suo fratello signorina?
Eh lui è in Cina.
E’ cinese?
No, cioè si, è cinese, ma è in Cina.
Ok allora vediamo se ho capito…lei è cinese, suo fratello è cinese, lei è qui per suo fratello ma suo fratello è in cina?
Si si si bravo!
Nel frattempo si è creato un capannello di curiosi tra gli operatori del CSM ma la ragazza è troppo impegnata a farsi capire per preoccuparsene o forse ci è abituata, dalle sue parti non vanno troppo per il sottile in quanto a riservatezza…
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Ehhh ma come pensa che possiamo aiutarla signora, mica lavoriamo per corrispondenza!!! Ma non ho nemmeno finito di pronunciare questa frase che già me ne pento perchè la signora non sta per niente scherzando e soprattutto non ha colto l’ironia e io mi rendo conto che avrebbe fatto qualunque altra cosa prima di venire a chiedere aiuto a questi medici occidentali.
Così nel giro di una mezz’ora ricostruiamo la storia, o almeno un pezzetto di storia: Hu J. è un ragazzo di 25 anni. Ha vissuto con padre madre e sorella in un piccolo paese nella provincia dello Junnan fino all’età di 14 anni e poi si è trasferito in Italia a Torino. Fin qui tutto bene, poi inizia a lavorare nel negozio di famiglia, comprano un computer e lui si chiude sempre di più in se stesso non parla, non studia, non vuole lavorare e improvvisamente inizia a diventare molto aggressivo e non può essere mai contraddetto. Così dopo molte difficoltà i genitori decidono di mandarlo in Cina per sposarsi convinti che un cambiamento drastico possa risolvere il problema. Ora la sorella preoccupata ci racconta che anche a casa suo fratello non sta bene e che la moglie non sapendo cosa fare chiede aiuto a lei.
E così ci troviamo seduti intorno al grande tavolo della sala comune al CSM un po’ impressionati e un po’ commossi dalla domanda che ci viene posta. Ma cosa possiamo promettere? Se suo fratello torna qua cercheremo di aiutarlo, ma in realtà poi ce ne dimentichiamo.
Qualche mese dopo la vicenda torna attuale. In reparto c’è un ragazzo cinese, il nome corrisponde, almeno così pare, e i colleghi raccontano che hanno dovuto proprio mettercela tutta per riuscire a calmarlo. Lui non parla una parola di italiano, inglese nemmeno, mediatori culturali manco l’ombra, si propongono i parenti ma tra tutti la sorella è quella che se la cava meglio ed è … tutto detto!
Comunque alla fine Hu J. viene dimesso, diagnosi di psicosi, un po’ generico, ma pare l’approssimazione migliore. Ed ora tocca all’ambulatorio proseguire.
Il primo colloquio sembra una riunione di famiglia. “Venite voi” ci dice la sorella, “è più facile che convincerlo a uscire” .
“Cominciamo bene” penso io, con una maledizione ai ricoveri brevi e ai colleghi veloci…
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Partiamo in due, infermiere e psichiatra, alla volta del negozio dove la famiglia vive e lavora. Classico bazar che vende dalle banane colombiane agli scacciamosche ovviamente made in china, una montagna di merce di tutti i tipi stipata in un piccolo negozio tra la cui clientela si contano contemporaneamente almeno dieci nazionalità diverse, nel cuore multietnico e ultrapopolare di Torino. Sedia per Hu, sedia per me e infermiere, gli altri tutti in piedi, tutti intorno; conto almeno cinque facce, poi si aggiungono due bambini, tutti guardano, qualcuno ridacchia, nessuno dice una parola comprensibile … finalmente la sorella arriva ed inizia il nostro colloquio a tre voci che presto diventano quattro poi cinque man mano che i vari parenti vogliono dire la loro, commentano, aggiungono correggono.
Hu però a poco a poco si rilassa incrocia il nostro sguardo, annuisce energicamente soprattutto quando si tratta di ribadire che ora sta benone e che non ha assolutamente più bisogno di tornare in ospedale! Qualche tremore, qualche difficoltà a dormire, ma è davvero molto difficile spingersi oltre nella valutazione di questa persona così profondamente diversa e così terribilmente spaventata.
RUBRICA CONSIGLIATA: Un Giorno di Ordinaria Follia. Psichiatria Pubblica, Lettere dal Fronte.
Così si finisce per puntare tutto sull’assiduità: ci vedremo tutte le settimane anche di più se necessario e piano piano si spera qualcosa cambierà e ci conosceremo meglio. All’uscita dal negozio gran turbinio di teste, facce, parole ed aromi inconsueti finchè finalmente ripiombiamo nell’aria fresca del mattino nel quartiere di Porta Palazzo e ci accorgiamo che abbiamo anche ricevuto dei doni, succo di guava e qualche dolcetto.
Ha così inizio quella che chiamiamo la “terapia cinese” fatta di visite frequenti, dialoghi surreali e praticamente mai attinenti, compresse e flaconcini e succhi di frutta.
Oggi ho visto la sorella di Hu e ho pensato di raccontare questa storia. Ormai viene lei direttamente a raccontarci di suo fratello e a ritirare le medicine. Noi andiamo a trovarlo, ma meno di frequente. Sta bene ora ha due figli e il più piccolo magari andrà a scuola col mio. Il loro negozio continua a vendere qualunque cosa e la sorella di Hu ha imparato meglio l’italiano e si è rivelata una persona davvero spiritosissima e capace di grande ironia.
E noi in ambulatorio fantastichiamo di iscriverci ad un corso di cinese.
Psicoterapia Sensomotoria: il Ruolo del Corpo nelle Esperienze Traumatiche
Dando uno sguardo al panorama della letteratura scientifica attuale non si può non notare la crescente attenzione che il trauma sta risvegliando a livello sia clinico sia di ricerca: a differenza di un paio di decenni fa, quando di trauma non parlava quasi nessuno e imperava la visione freudiana che negava l’influenza delle esperienze reali sullo sviluppo della psicopatologia, oggi la psicotraumatologia sembra aver ritrovato nuovo splendore e riscoperto l’opera di Janet, sulle cui idee si fondano le moderne teorie relative al trauma (Howell, 2005).
Il lavoro sulle esperienze traumatiche (intese sia come eventi singoli sia come storie traumatiche di sviluppo) ha portato con sé la progressiva presa di coscienza del ruolo fondamentale ricoperto dal corpo.
Le memorie traumatiche non sono rimosse, ma fin dall’inizio non vengono integrate nella sintesi personale. L’esperienza, tuttavia, viene registrata in modo implicito, a livello di schemi corporei. Come ha efficacemente espresso van der Kolk: “The body keeps the score” (1994).
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Per questo le esperienze traumatiche non sono ricordate, ma rivissute. Non sono controllabili perché non integrate nella coscienza (van der Kolk e van der Hart, 1989). Il trauma viene rivissuto come fosse sempre attuale, la persona si sente ancora minacciata, il corpo è ancora iper-attivato. C’è una sorta di dispercezione temporale, per cui il passato è confuso con presente e col futuro. Parte importante del lavoro terapeutico con persone che hanno subito traumi, pertanto, consiste nel trasformare il rivivere in ricordare, collocando l’esperienza nel passato, integrando memoria implicita ed esplicita, dando voce alla narrazione muta del corpo.
Ma se il trauma agisce frammentando le funzioni della coscienza, sono sufficienti gli approcci terapeutici top-down (pensiero-emozioni-corpo), come ad esempio la terapia basata sulla mentalizzazione, l’interpretazione, la CBT classica, per trattare questo tipo di pazienti? (Bromberg, 2008). Sempre più clinici e ricercatori che si occupano di traumi propongono di integrare nelle terapie fondate sulla parola approcci bottom-up (corpo-emozioni-pensiero), basati sul corpo, che non necessitano di funzioni superiori integre, ma che possono integrarle.
Uno di questi approcci è laPsicoterapia Sensomotoria (PSM), sviluppata negli anni ’80 dalle tecniche di mindfulness e progressivamente integrata con i contributi della psicoterapia psicodinamica, cognitivo-comportamentale, delle neuroscienze, della ricerca sull’attaccamento e sulla dissociazione, orientata specificatamente al trattamento delle esperienze traumatiche dello sviluppo (Fisher and Ogden, 2009; Ogden & Minton, 2000; Ogden, Minton & Pain, 2006; Ogden, Pain and Fisher, 2006).
Questo approccio utilizza strumenti di osservazione e di intervento rivolti principalmente al corpo, che sono abitualmente esclusi da altri tipi di terapie. Il terapeuta si concentra sulla postura, sulle tensioni muscolari, sui movimenti, incoraggiando il paziente a riconoscere ed osservare come le sensazioni fisiche siano legate a particolari emozioni e pensieri e ad integrare queste esperienze corporee nel suo vissuto. Obiettivo principale della psicoterapia sensomotoria è aiutare il paziente a regolare le funzioni neurovegetative alterate, modificando i sintomi somatoformi e alcune credenze patogene, soprattutto riguardanti il corpo (Liotti e Farina, 2011).
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Migliorando la capacità di regolare l’attivazione corporea si facilita l’accesso a stati mentali problematici. Man mano che la relazione terapeutica si consolida e il paziente sperimenta un certo grado di sicurezza si possono gradualmente affrontare le sensazioni corporee collegate a momenti di difficoltà, concentrandosi sulle reazioni motorie e posturali legate al trauma senza giudicarle (con atteggiamento tipico della mindfulness).
Lentamente si aiuta il paziente a riconoscere la ripetizione degli schemi corporei di lotta e fuga, di freezing o di sottomissione, innescati dall’attivazione costante dei sistema di difesa (conseguenza della pervasiva sensazione di minaccia che caratterizza gli sviluppi traumatici) (Liotti e Farina, 2011). Il paziente impara a diventare consapevole del proprio corpo, acquisendo verso di esso una progressiva fiducia, imparando a riconoscere e rispettare i propri marcatori somatici.
Attraverso questa crescente integrazione mente-corpo, il paziente acquisisce una progressiva capacità di regolazione emotiva, autoriflessività e un maggiore senso di padronanza e competenza. Una rielaborazione ideale include elementi cognitivi, emotivi, comportamentali e sensomotori. Per questo è importante non aderire dogmaticamente ad una teoria, ma esplorare approcci diversi, tentarne l’integrazione, ove possibile, utilizzando ciò che di utile si può ricavare da ognuno di essi.
BIBLIOGRAFIA:
Bromberg, P.M. (2008). Mentalize THIS! Dissociazione, enactment e processo clinico. Tr.It. in Jurist, E.L., Slade, A., Bergner, S. (a cura di), Da mente a mente. Raffaello Cortina, Milano, 2010.
Fisher, J. & Ogden, P. (2009). Sensorimotor Psychotherapy. In Courtois, C. A., Ford, K. D.(a cura di), Treating Complex Traumatic Stress Disorder. Guildford Press, New York-London.
Howell, E.F. (2005). The Dissociative Mind. Analytic Press, Hillsdale, NJ.
Ogden, P., Minton, K. (2000). Sensorimotor Psychotherapy: One Method for Processing Traumatic Memory. Traumatology, 6, 3, 3.
Ogden, P., Minton, K., Pain, C. (2006). Trauma and the Body. A Sensorimotor Approach to Psychotherapy. New York: Norton.
Ogden, P., Pain, C., Fisher, J. (2006). A sensorimotor approach to the treatment of trauma and dissociation. Psychiatric Clinics of North America, 29, 263-279.
van der Kolk, B.A. (1994). The body keeps the score: Memory and the evolving psychobiology of post-traumatic stress”. Harvard Review of Psychiatry, 1, 253-265.
van der Kolk, B.A., van der Hart, O. (1989). Pierre Janet and the breakdown of adaptation in psychological trauma. American Journal of Psychiatry, 146, 1530-1540.
Facebook Addiction: la dipendenza dal Social Network. – Psicologia –
– Rassegna Stampa –
La pervasività di Facebook nella nostra quotidianità sta inevitabilmente portando le scienze psicologiche a occuparsene, sia dal punto di vista clinico che di ricerca. Al punto che presso la University of Bergen è in corso il progetto di ricerca Facebook Addiction.
Il progetto di ricerca ha già prodotto dati da poco pubblicati su Psychological Reports nonché la messa a punto di uno strumento specifico per la valutazione del grado di dipendenza da Facebook.
La Bergen Facebook Addiction Scale (BFAS) sviluppata dalla Facoltà di Psicologia della University of Bergen in collaborazione con la Bergen Clinics Foundation (Norvegia) è stata somministrata a 423 studenti, insieme ad altre scale self-report (quali ad esempio, Addictive Tendencies Scale, Online Sociability Scale, Facebook Attitude Scale, etc).
Ecco alcuni esempi di items:
Senti l’impulso di usare Facebook sempre di più
Utilizzi facebook per distrarti da tuoi problemi personali
Hai cercato di diminuire l’utilizzo di Facebook ma non ci sei riuscito
Utilizzi così tanto Facebook che questo crea un impatto negative sul tuo lavoro o studio
Ai soggetti è richiesto di rispondere secondo una scala likert a 5 passi, da (1) molto raramente a (5) molto spesso. La struttura fattoriale della scala è risultata buona, così come il coefficiente alfa e il test-retest.
Dai dati emerge come la dipendenza da Facebook si verifichi maggiormente negli utenti più giovani; sembrerebbe inoltre che le persone che presentino punteggi maggiori di ansia sociale utilizzino Facebook per più tempo rispetto a individui con minori punteggi in questo costrutto.
E’ emerso inoltre che le persone con elevati livelli di dipendenza da Facebook tendenzialmente presentano una disregolazione dei ritmi sonno-veglia.
Sarebbero invece meno a rischio di dipendenza da Facebook le persone più organizzate e più ambiziose che tendono ad utilizzare il social network come parte integrante nel loro lavoro in termini di networking; anche l’essere donne sembra essere un fattore protettivo dall’insorgenza della Facebook addiction.
La Facebook Addiction rappresenta un fenomeno da non sottovalutare, che sempre più spesso riscontriamo anche in terapia in associazione ad altri sintomi psicopatologici: ora abbiamo a disposizione uno strumento standardizzato per un assessment più puntuale di questo aspetto.
BIBLIOGRAFIA:
Andreassen C.S. Torbjørn T. Brunborg G.S. Pallesen S. (2012). Development of a Facebook Addiction Scale. Psychological Reports: Volume 110, Issue , pp. 501-517. doi: 10.2466/02.09.18.PR0.110.2.501-517
La Psicologia del Femminicidio
Unos Cuantos Piquetitos 1935 - Frida Kahlo.
Dall’articolo di Barbara Spinelli:“Nel 2006 in Europa 3413 persone sono morte in conseguenza della violenza domestica subita:, di questi, 1409 erano donne uccise dai partner o ex partner violenti (femminicidio), 1010 erano le donne che avevano scelto il suicidio a seguito della violenza domestica subita, 272 le donne che avevano ucciso i mariti violenti, 186 gli omicidi collaterali (padre che uccide i figli e la moglie, oppure persone accorse in soccorso e uccise per errore), 536 gli uomini che dopo aver ucciso la donna su cui avevano esercitato violenza si erano uccisi.
Se nel 2006 su 181 omicidi di donne 101 erano femmicidi, nel 2010 su 151 omicidi di donne 127 erano femmicidi. In italia il 70% delle vittime di femminicidio era già nota per avere contattato le forze dell’ordine,ovvero per aver denunciato, o per aver esposto la propria situazione ai servizi sociali. Un dato che ci accomuna agli altri Paesi europei:le ricerche criminologiche dimostrano che su 10 femmicidi, sette sono in media preceduti da altre forme di violenza nelle relazioni di intimità.
Cioè l’uccisione della donna non è che l’atto ultimo di un continuum di violenza di carattere economico, psicologico o fisico.”
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Questi dati richiedono un’attenta riflessione. La loro interpretazione e discussione può partire da una prospettiva sociale e politica, oppure da una prospettiva psicologica. In ultimo, bisogna che queste riflessioni ci aiutino a costruire strategie efficaci per la lotta a questo genere di violenza (alla violenza di genere).
Prospettiva sociale e politica
La riflessione sulla violenza di genere e il femminicidio da una prospettiva sociale e politica è di gran lunga la più diffusa, in questo momento, attraverso media ufficiali, blog e social network. È una prospettiva di analisi valida e ci aiuta a mettere a fuoco una serie di problemi:
In generale, la causa sociale della violenza viene attribuita alla tendenza maschile a non considerare le donne come individui indipendenti e con il diritto di autodeterminarsi, ma come cosa propria. L’aumento di casi di violenza e femminicidio viene spesso associato al fatto che in questo momento stiamo vivendo una fase di mutamento dell’identità femminile, che va verso l’emancipazione e la libertà, e viene quindi vissuta dagli uomini come una minaccia alla propria virilità o al proprio diritto al dominio sessista.
Su questo si è speso molto inchiostro e la battaglia da fare è tutta sociale e riguarda da una parte il proseguimento di questo processo di emancipazione (sia attraverso un potenziamento della legislatura delle pari opportunità, sia attraverso un coinvolgimento della società civile), e dall’altra attraverso la rappresentazione e narrazione di questa nuova identità femminile emancipata attraverso i media, i giornali, le pubblicità. Al momento, lo scollamento tra una rappresentazione della donna in larga parte patriarcale e antiquata e il ruolo attivo e importante che un numero sempre maggiore di donne ricopre nella vita reale non solo aiuta a creare ideologicamente terreno fertile per la violenza, ma rende anche la narrazione stessa della violenza nei media primitiva, stereotipata e sessista.
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Da un punto di vista politico, questa inadeguatezza della società a stare al passo con l’emancipazione femminile si riflette nella risposta delle istituzioni spesso tardiva o inadeguata alle denunce di violenza da parte delle vittime. Spesso vi è stata violenza per molto tempo in molte situazioni che si concludono con morte della donna (Schulman 1979, Johnson, 1995).
Questo problema determina, insieme a molti altri, la percentuale relativamente piccola di donne che denunciano violenza. Tuttavia anche fattori di tipo psicologico influiscono su questo. La denuncia a volte è difficile da fare perché vi è il concreto rischio di un aumento di maltrattamenti in condizioni di terrore, e chi è terrorizzato fa fatica a parlare. Lo stato dovrebbe dunque dedicare molto più tempo e molte più risorse nella costruzione di aree per l’ascolto delle donne, per l’indagine e per la protezione. In questo contesto i centri antiviolenza sono estremamente importanti, e dovrebbero essere messi in condizione di funzionare bene su tutto il territorio italiano.
Da un punto di vista legislativo, l’introduzione del concetto di femminicidio come aggravante, di cui si sta discutendo in questi giorni, sarebbe un passo avanti importante. Vedi ad esempio:
Spinelli B. (2012). Perchè si chiama femminicidio. La ventisettesima ora, Il Corriere della Sera online. 1 Maggio 2012
Petizione Pubblica. (2012). Petizione MAI PIU’ COMPLICI. http://www.petizionepubblica.it/ – Consultato il 9 Maggio 2012
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Mentre la prospettiva sociale e politica è largamente dibattuta, ci sembra che manchi, per ottenere una comprensione migliore del fenomeno e per contrastarlo più efficacemente, una discussione psicologica delle cause della violenza di genere (Straus e Gelles 1992; Dutton 1994). Potrebbe essere che la giusta critica alla rappresentazione di femminicidi come ‘momenti di follia’ o ‘folle gelosia’ o ‘omicidi passionali’ abbia contribuito a rendere riluttanti a occuparsi di questo aspetto molti autori altrimenti attenti al tema. A nostro avviso, invece, un’attenta analisi psicologica (al contrario di una superficiale narrazione maschilista o una lettura esclusivamente politica) lungi dal giustificare gli atti di violenza o in qualche modo ‘discolpare’ i colpevoli, può essere di grande aiuto per dare il giusto peso ai segnali di allarme e quindi, nei limiti del possibile, prevenire gli atti di violenza e, sul lungo termine, elaborare strategie vincenti per ridurre e combattere tali atti. Siamo convinte che le due spiegazioni (sociale/politica e psicologica) siano compatibili, e che anzi sia importante lavorare su entrambi questi aspetti per vincere la lotta alla violenza.
Ogni volta che un uomo è violento, questa violenza nasce da un sentimento di helplessness, di fragilità, considerata inaccettabile, alla quale egli cerca di resistere picchiando. La violenza è per molti nostri pazienti il tentativo di controllare la depressione, derivata da sentimenti di umiliazione inaccettabili. Spesso queste persone sono cresciute in ambienti violenti, essendo umiliate o maltrattate dalle figure di riferimento.
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Gli studi sul trasferimento transgenerazionale della violenza datano quasi tutti tra la fine degli anni 80 e la metà degli anni novanta. È dunque ormai conoscenza comune e asseverata che se un bambino o una bambina assistono a violenza sistematica da parte di un genitore verso l’altro genitore o verso un fratello o se essi stessi subiscono violenza, è più facile che poi utilizzino la violenza quando si trovano in condizioni di stress (Straus, 1998) . A fronte di una tendenza delle donne e degli uomini a essere egualmente conflittuali, la percentuale di crimini da violenza è tutta a favore dei maschi (90%) rispetto alle donne. Anche se bisogna tenere a mente che questi, naturalmente, costituiscono solo una piccola percentuale degli uomini. Infatti, l’80% dei maschi non sono violenti, il 12% è violento ogni tanto e l’8% è violento sempre. E sono questi i due gruppi che ci interessano per la nostra analisi.
Qui bisogna parlare di disturbi di personalità, che hanno un’incidenza importante negli assalti (80-90% a fronte di un 15% nella popolazione normale). Edwards et al (2003) hanno dimostrato che vi è una percentuale più alta di disturbi antisociali e borderline nella popolazione degli assaltatori, dei violenti verso le donne. E qui parliamo di una violenza intra-familiare, impulsiva e legata a disturbi di personalità.
Ma non è l’unico tipo di violenza. La violenza contro le donne può essere di diverso tipo:
Impulsiva preterintenzionale(ho intenzione di fare del male ma non di uccidere, mi arrabbio, do un pugno, la ragazza cade, batte la testa e muore).
Impulsiva e basta (ho intenzione solo in quel momento di uccidere, mi fa arrabbiare, perdo il lume della ragione e la strozzo, lei muore).
Strategica, Paranoidea (ho un piano di assassinio preparato da giorni: aspetto la mia ex donna che mi ha lasciato dietro un cespuglio, lei arriva e io l’ammazzo).
Di gruppo (con un gruppo di maschi dopo avere bevuto molte birre, ci prendiamo una ragazza e la violentiamo insieme, poi la buttiamo giù dalla macchina e lei muore).
Da fallimento della grandiosità narcisista (come si permette una come lei che avevo raccolto per strada di sfidarmi o lasciarmi, questa umiliazione, questa perdita della faccia è per me insopportabile e la uccido).
Antisociale / Amorale (Mi ha stufato, non mi serve più, ho un’altra più giovane e più bella, la uccido e così sono libero).
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La violenza dei disturbi di personalità nasce nelle famiglie. La violenza intra-familiare, la violenza di genitori a loro volta maltrattati e che divengono maltrattanti è all’origine di gran parte dei comportamenti violenti dei nostri pazienti. Va combattuta come un grave problema psichiatrico con risvolti sociali importanti. Citiamo da Otto Kernberg:
“Bambini maltrattati sviluppano maggiore dipendenza dai genitori abusanti e tendono a riprodurre i rapporti di maltrattamento nell’ età adulta”.
Se tratto male mio figlio, gli insegno che di fronte a problemi complessi, a minacce di abbandono e difficoltà, si sentirà impotente e maltratterà, spesso le donne. Se tratto male mia moglie, la umilio, la picchio di fronte ai miei figli, rischio di costruire persone che a loro volta tratteranno male e maltratteranno le loro compagne. E questo, data la diversa potenza muscolare tra maschi e femmine nella razza umana mette le donne a maggior rischio di essere maltrattate e uccise. La violenza familiare va dunque individuata e fermata fin dall’infanzia. Bambini violenti diventano uomini violenti, madri che accettano che il figlio assista alle botte che prende dal marito, lo mettono in contatto con la violenza come qualcosa di accettabile, donne che lasciano che il terrore le blocchi nella difesa dei figli, passano il bastone della violenza alla generazione successiva.
Da un punto di vista psicologico è però anche importante guardare alle donne, che se in alcuni casi riescono a uscire da relazioni violente e a denunciarle, in molti altri non fuggono da uomini violenti, non si proteggono, non leggono segnali preliminari che c’erano stati e spesso estremamente chiari. Donne che accettano la compagnia di uomini violenti sviluppano nei loro confronti spesso relazioni di dipendenza.. E la dipendenza femminile da uomini violenti ha anche origine in famiglie nelle quali la violenza e la prepotenza maschile è accettata o tollerata. Le ragazze che hanno padri violenti rischiano di divenire vittime di uomini violenti (Norwood).
È importante che le donne imparino a riconoscere le situazioni rischiose. Anche il più piccolo segnale di violenza, (un urlo improvviso, un gesto spazientito che fa saltare il telefono dal tavolo, due domande di troppo del tipo gelosia pericolosa) deve essere preso in considerazione ed interpretato come messaggio prezioso per considerare quella storia una storia non buona, che potenzialmente ci mette a rischio, e che quindi andrebbe chiusa. Un uomo violento non cambia con l’amore di una donna, non è curabile altro che con la conquista della consapevolezza del suo problema e il doloroso passaggio attraverso una buona psicoterapia. Le donne devono imparare ad essere prudenti e difendersi dai primi segnali dalla violenza maschile (Camille Paglia), e a non esporsi a chiarimenti o incontri di discussione in situazioni di conflitto e violenza.
Nessun amore maledetto vale la vita, nessun legame familiare ci costringe all’autodistruzione.
BIBLIOGRAFIA:
Spinelli, B. (2008). Femminicidio. Dalla denuncia sociale al riconoscimento giuridico internazionale. Roma: Franco Angeli.
Paglia C. (1990). Sexual personae: arte e decadenza da Nefertiti a Emily Dickinson, I ed., traduzione di Daniele Morante, Einaudi, 1993, pp. 924.
Norwood, R. (1990) Donne che amano troppo. Feltrinelli
Johnson.M.P., (1995) Patriarchal Terrorism and Common Couple Violence: Two Forms of Violence against Women. Journal of Marriage and the Family, 57, pp. 283-294
Straus M.A (1998). The controversy over domestic violence by women: a methodological theoretical and sociology of science analysis. Family Science Laboratory. University of New Hampshire, Durham,
Loseke, D.R., Gelles, R.G., Cavenaugh, M.: (2005) Current Controversies on family violence. Sage publications.Inc. Usa
Schulman, M.A., Survey of spousal violence against women in Kentucky. National Institute of Justice (no 792701, 1979). https://www.ncjrs.gov/pdffiles1/Digitization/65429NCJRS.pdf
Kernberg O.F. Aggressivity, (2004) Narcissism and self destructiveness in the psychotherapeutic relationship: new developments in the psychopathology and psychotherapy of severe personality disorders. Yale University Press. New Haven, Usa.
Edwards, D. W.; Scott, C. L.; Yarvis, R. M.; Paizis, C. L.; Panizzon, M. S. (2003) Impulsiveness, Impulsive Aggression, Personality Disorder, and Spousal Violence. Springer Publishing company
Psicoterapia: una Voce che aiuta a Guarire (Comunicazione Paraverbale)
Il primo strumento che abbiamo a disposizione in psicoterapia è la voce. Sempre, oltre a cosa diciamo, è fondamentale anche il tono della nostra voce, la vocalità con cui eseguiamo i nostri interventi con il paziente. Una modalità ancora poco studiata. Questi pensieri ci invitano a cercare un metodo operazionalizzato e falsificabile di definire l’aspetto vocale dei nostri interventi psicoterapeutici.
Con il termine “voce verde” viene definito un particolare modo di utilizzare la voce, formalizzato in alcuni parametri, con il quale è possibile facilitare l’attivazione di stati di benessere sia in chi parla che in chi ascolta. Secondo tale metodo, l’uso della voce verde facilita l’attivazione di fiducia e di coinvolgimento empatico. La “voce verde” è uno dei 6 codici emozionali vocali di cui Imparato ha creato un modello teorico che ha chiamato FourVoiceColors® (Imparato, 2009, 2011).
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Questo metodo è già stato sottoposto ad alcune verifiche preliminari. Un’equipe di psichiatri, appartenenti allo staff di Roberto Marino del Centro EOS per le Vittime di Traumi e Catastrofi a Pavia, alcuni mesi fa ha acquisito direttamente da Ciro Imparato le tecniche per utilizzare la voce verde in psicoterapia. L’equipe ha identificato diversi pazienti in “stallo terapeutico” (dove lo “stallo” è stato definito come una condizione nella quale non si riscontrano miglioramenti terapeutici da diverse settimane) ai quali sono stati somministrati dei questionari sintomatologici e di uno strumento più ad ampio raggio come il Cognitive Behavioural Assessment (CBA).
Durante la seduta l’equipe del dott. Marino ha fatto ascoltare a Imparato le registrazioni delle sedute con questi pazienti. Imparato ha trasmesso il codice vocale corretto. Obiettivo: sviluppare un cambiamento terapeutico usando uno strumento relazionalmente potente come la voce e combinandolo alla tecnica psicoterapica.
Il codice della voce teorizzato e insegnato da Imparato si basa su alcuni fattori vocali oggettivi da lui evidenziati (come volume, tono, tempo e così via) da utilizzare in una particolare combinazione operativa.
Alcuni risultati: i pazienti sembrano migliorati, manifestando tendenzialmente una maggiore propensione alla socialità, un migliore stato di benessere psicologico generale percepito e un abbassamento del livello di depressione (misurato con il Beck Depression Inventory) come misurato dai questionari somministrati.
Ovviamente si tratta di dati molto preliminari, tutti da verificare. Sarà interessante organizzare un vero e proprio studio di efficacia con metodi affidabili e replicabili. Ma se l’efficacia del metodo della voce verde dovesse essere confermata, si tratterebbe di una significativa aggiunta della cassetta degli attrezzi a disposizione degli psicoterapeuti. La voce verde, che fino ad oggi è stata utilizzata con successo nelle aziende e nei percorsi di crescita personale, apre una nuova strada al miglioramento terapeutico, segnando così un momento importante nello studio dei processi in psicoterapia.
È evidente che la voce verde non sostituisce la terapia di competenza psicologico-psicoterapica, ma al contrario può fornirne nuova linfa e aprire la strada a ricerche sugli “how” terapeutici. Infatti la voce verde, essendo un suono, spesso agisce a livello non-verbale e implicito, stimolando delle risposte neurofisiologiche in chi l’ascolta. Questo tipo di voce determina un maggior rilassamento del soggetto, un atteggiamento di maggior apertura e fiducia nei riguardi dell’interlocutore.
Schizofrenia: 50 anni di Farmaci Antipsicotici: una Meta-Analisi.
– Rassegna Stampa –
La schizofrenia è una condizione debilitante che colpisce gli individui nel corso della loro intera vita, ed ha una prevalenza di circa l’1%. Il trattamento elettivo per la schizofrenia sono i farmaci antipsicotici, che oltre ad essere costosi (nel 2010 sono stati spesi 18,5 miliardi di dollari a livello mondiale) possono anche causare gravi effetti collaterali, per questo è importante che il trattamento venga costantemente monitorato. Inoltre visto che il costo principale per la schizofrenia è rappresentato proprio dall’ospedalizzazione a causa della recidiva, un obiettivo importante del trattamento è proprio la prevenzione di recidive, molto comuni tra i pazienti schizofrenici.
Un team di ricercatori della Technische Universität München ha condotto una revisione sistematica ed una meta-analisi di 116 relazioni, pubblicati tra il 1959 e il 2011, provenienti da 65 trial che hanno coinvolto quasi 6.500 pazienti schizofrenici. Questa analisi mette in luce cinque decenni di evidenze a favore del fatto che i farmaci antipsicotici possono ridurre del 60% il rischio di recidiva nei pazienti schizofrenici.
Lo studio dimostra che i pazienti che assumono antipsicotici hanno anche una probabilità notevolmente inferiore di dover essere ricoverati in ospedale, si comportano in modo meno aggressivo, e godono di una migliore qualità della vita, rispetto a quelli che non prendono farmaci. Inoltre solo il 27% dei pazienti trattati con farmaci antipsicotici ha sofferto di recidive, rispetto al 64% di quelli trattati con placebo; e solo il 10% dei pazienti trattati con farmaci antipsicotici sono stati riammessi in ospedale, in confronto al 26% che ha assunto placebo.
A fronte di questi dati i ricercatori concludono:
“Abbiamo stabilito che il mantenimento del trattamento antipsicotico riduce notevolmente il rischio di ricaduta in tutti i pazienti affetti da schizofrenia, fino a 2 anni di follow-up. L’effetto è robusto in sottogruppi importanti come i pazienti che hanno avuto un solo episodio, quelli in remissione, e indipendentemente dall’interruzione brusca o graduale del trattamento o dall’uso di farmaci di prima generazione o di seconda generazione; ma i farmaci sembrano aver perso la loro efficacia nel tempo. Gli studi futuri dovrebbero concentrarsi sulla morbilità di lunga durata e sulla mortalità legata ai farmaci. “
Jim van Os della Maastricht University Medical Center in Olanda e Oliver Howes dal Kings College di Londra ribattono:
“Anche se le prove a favore dei farmaci antipsicotici sembrano robuste, diverse questioni importanti rimangono. Non sappiamo se i pazienti preferiscano farmaci placebo, e in quale misura il trattamento riguarda la partecipazione sociale. Anche se i farmaci antipsicotici possono ridurre la recidiva di psicosi, l’analisi costi-benefici per l’uso a lungo termine è imprecisa e non c’è evidenza che altri, più invalidanti, aspetti psicopatologici, quali alterazioni cognitive o l’insufficienza motivazionale vengano allo stesso modo alleviati.”
In psicoanalisi, per Svolta Relazionale si intende quel cambio di paradigma che descrive la psiche non più come un campo di pulsioni istintive da gestire, ma come un centro di bisogni, per lo più relazionali, da soddisfare.
La sofferenza psicologica non è più frutto di una mancata capacità di controllo e sublimazione di forze oscure, ma da una cosiddetta deprivazione emotiva, un mancato soddisfacimento che ha lasciato l’individuo debole e fragile e non ha permesso una crescita soddisfacente. Il paziente soffre non solo per questo mancato sostegno relazionale, ma anche a causa delle strategie surrogate che ha elaborato, strategie difensive che servono non tanto a trovare quel soddisfacimento emotivo in nuove relazioni adulte, quanto semmai a negarlo, attraverso stati narcisistici, paranoidei, dicotomici, ansiosi.
I legami con la teoria dell’attaccamento sono chiari. Anche John Bowlby non pensava più che lo sviluppo della psiche e delle sue deviazioni germogliasse da uno scontro tra Edipo e Laio, ma dall’accudimento sicuro e stabile, assicurato soprattutto dalla madre. Le conseguenze terapeutiche sono chiare. Non si tratta più di riprodurre in seduta le triangolazioni erotiche e conflittuali dell’Edipo, ma di vivere un relazione tra paziente e terapeuta meno tragica e più gentile e cortese.
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Per gli psicoanalisti di orientamento relazionale anche l’inconscio è un prodotto della relazione e rimanda costantemente alla relazione. Questa nuova concezione definisce l’inconscio in termini più funzionali e meno pulsionali, avvicinando la psicoanalisi alle concezioni cognitive. La mente non è più isolata ma intersoggettiva ed esiste solo nella relazione. il criterio operativo privilegiato diventa quello dell’intersoggettività che emerge nella relazione terapeutica.
Lingiardi, Amadei, Caviglia e De Bei ci forniscono una rassegna completa di questa svolta relazionale in psicoanalisi, parlando dello scenario sia statunitense che italiano. Gli autori descrivono la nascita della sensibilità relazionale (Ferenczi, Sullivan, Horney, Racker, Loewald, Gill, Kohut), l’elaborazione matura (Mitchell, Ghent, Bromberg, Fosshage), gli sviluppi recenti (Benjamin, Aron, Dimen, Harris, Beebe) e i contributi del gruppo italiano (Nebbiosi, Federici, Caviglia). Ci sono poi collegamenti con la teoria dell’attaccamento (Dazzi, De Bei), le scienze cognitive (Liotti), gli studi sull’adolescenza (Vanni) e la ricerca empirica (Lingiardi, De Bei). Infine c’è il confronto del modello relazionale con il modello psicoanalitico ortodosso (Moccia, Meterangelis) e con il modello junghiano (Giannoni).
In conclusione, anche la psicoanalisi è tentata di sciogliersi nella relazione terapeutica. Tentazione che, paradossalmente, condivide con gli sviluppi più recenti della terapia cognitiva. Questa tentazione è uno sviluppo, ma anche un rischio. Il rischio è quello di rinunciare troppo radicalmente al concetto di scoperta della verità e soprattutto di scoperta dell’errore, errore che per la terapia cognitiva risiede nelle cognizioni distorte e irrazionali e che per la psicoanalisi risiede nella ripetizione coatta del fantasma rimosso per svanire nell’ermeneutica dei significati personali tutti egualmente veri e falsi, e distinguibili solo nei termini pragmatici della loro funzionalità.
È un rischio che uno psicoanalista ha ben descritto, descrivendo gli sviluppi recenti delle teorie psicanalitiche che hanno accentuato sempre più certe caratteristiche interpersonali come l’empatia, la relazione, l’interazione e l’intersoggettività (Landoni, 2007). Rinunciando alla sua aspirazione di esplorare il rimosso nell’inconscio la psicoanalisi si modernizza, ma in parte rischia di perdersi nell’indistinto della relazione. Un rischio che corre anche la terapia cognitiva.
BIBLIOGRAFIA:
V. Lingiardi, G. Amadei, G. Caviglia, F. De Bei (2011) (a cura di). La svolta relazionale. Itinerari italiani Milano, Raffaello Cortina ACQUISTA ONLINE
Landoni, G. (2007), “Modifica della domanda”. In Atti della Giornata di studio: “La psicanalisi nei disagi della civiltà”, Milano dicembre 2007,
6 Segnali che predicono il Divorzio. 5 Regole per salvare il Matrimonio
E’ possibile individuare precocemente dei segni che potrebbero portare alla rottura di una relazione?
Secondo John Gottman, sì! In sedici anni di ricerca, ha imparato a prevedere quali sono le coppie che finiranno per divorziare e quali quelle che rimarranno solide nel tempo. È possibile realizzare questa previsione sulla base di una metodologia effettuata con una accuratezza pari al 91%. Da queste analisi sono emersi dei comportamenti che, se presenti, portano inevitabilmente alla rottura della coppia.
Il primo segno: Un approccio duro.
Il primo di questi segni è il modo in cui inizia una discussione. Quando uno dei partner inizia usando un approccio duro, come l’essere negativo, accusatorio o disprezzante, la discussione è essenzialmente destinata a finire in malo modo. D’altra parte, quando un partner inizia una discussione con dolcezza, molto probabilmente si concluderà con lo stesso tono positivo.
Il secondo segno: I quattro cavalieri dell’apocalisse.
La negatività presente in una coppia nelle sue normali interazioni può devastare un matrimonio o un unione. Infatti, ci sono quattro tipi di scambi negativi, letali in una relazione. Gottman li ha classificati come i Quattro Cavalieri dell’Apocalisse. Di solito, questi quattro cavalieri rappresentano la critica, il disprezzo, la difesa e l’ostruzionismo.
Lettura consigliata: La Relazione di Coppia. Monografia a cura di Serena MancioppiLa Critica. Il primo dei letali cavalieri è la critica. Le critiche sono diverse dalle lamentele, perché nel secondo caso si tratta di reclami riguardanti alcuni comportamenti dell’altro, che capitano comunemente a tutti. Il problema sorge quando le lamentele si trasformano in vere e proprie denunce, critiche. In pratica quando sorge un problema uno dei due partner decide di affrontare il discorso con l’altro incolpandolo dello stato delle cose. Esempio: “la casa è sempre in disordine perché TU sei disordinato!” Normalmente la critica che potrebbe essere circostanziata alla situazione specifica, viene invece generalizzata a tutta la persona. Gottman dice spesso che chi muove la critica è persino convinto di fare un favore all’altro aiutandolo a capire in cosa sta sbagliando, o meglio in cosa è sbagliato come persona, e non capisce come l’altro non riesca ad apprezzarlo.
Il Disprezzo. Il secondo cavaliere, il disprezzo, segue spesso la critica. Alcuni esempi di disprezzo si hanno quando una persona utilizza il sarcasmo, il cinismo, gli insulti, la beffa, lo scherno e l’umorismo ostile. Il disprezzo è il peggiore dei quattro cavalieri, perché comunica il disgusto per l’altra persona in maniera diretta e arrogante. Risultato: il conflitto tra i partner si intensifica. In genere, quando un partner usa il disprezzo, l’altro tende a difendersi, ed arriva il terzo cavaliere.
La Difesa. Molte persone assumono un atteggiamento di difesa se criticati, ma tale atteggiamento non porta a risolvere il problema, anzi lo intensifica. Difendersi consiste nel dare la colpa all’altro, “il problema non sono io ma sei tu”. Si ottiene, in questo modo un escalation tra i due e ben presto giunge il quarto cavaliere:
L’Ostruzionismo. Solitamente quando i primi tre cavalieri sono presenti in una discussione, uno dei partner si sintonizza sull’ostruzionismo, più comune negli uomini che nelle donne. È un modo per evitare la sensazione di essere sommersi che si verifica di solito quando un conflitto si aggrava. Infatti, mentre uno inveisce, l’altro si chiude in un marmoreo silenzio, a dimostrazione del fatto che nulla può scalfirlo. In pratica il dialogo è chiuso ed è completamente inutile parlare, per evitare di esplodere.
Ognuno di questi quattro cavalieri, se presenti, possono predire la fine imminente di un matrimonio o relazione.
Il Terzo Segno: il Flooding.
Quando una persona si sente invasa (sommersa) dai quattro cavalieri tende a proteggersi e a staccarsi dal proprio partner, ignorandolo come più può.
Il Quarto Segno: Linguaggio del corpo.
Si verificano di conseguenza dei cambiamenti fisiologici del corpo, come l‘aumento della frequenza cardiaca, della pressione sanguigna, che rappresentano l’essere costantemente in tensione e la resa dei conti è vicina.
Il Quinto Segno: l’incapacità di rimediare.
Falliti i tentativi di riparazione il quinto segno che il matrimonio è destinato a finire in un divorzio sono l’incapacità di rimediare ai conflitti subiti. I tentativi di riparazione sono sforzi compiuti dalla coppia per cercare di calmare il conflitto, ad esempio usare un gesto semplice come una risata, un sorriso o delle scuse; tutto ciò potrebbe aiutare la coppia a sistemare la tensione. Tuttavia, se un partner si sente soffocare, questi tentativi di riparazione sono fallimentari, perché il compagno si sgancia dalla discussione, rendendo inutile ogni tentativi di riparazione.
Il sesto Segno: Memorie cattive.
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Il segno finale che il divorzio è inevitabile, è quando la coppia ricorda il passato negativamente e utilizza questo materiale come fonte di costante rabbia nei confronti dell’altro. L’eccessiva negatività porta alla rilettura costante anche del presente. Epilogo doloroso della imminente fine!
Preservare la relazione di coppia.
Ma cosa significa avere una vita di coppia sana? Sicuramente, non andare d’amore e d’accordo su tutto, non pensarla sempre allo stesso modo, non significa avere un fronte unico sull’educazione dei figli. L’immagine della famiglia felice che corre spensierata sui prati in realtà, credo, non abbia mai convinto nessuno del tutto. Il problema è che in molti si identificano con questa immagine ideale della famiglia perfetta e nel momento in cui è necessario affrontare la realtà, devono fare i conti con un mondo che non collima con l’ideale.
Nella coppia vincente, che funziona, in pratica ognuno è pronto ad assumersi la sua parte di colpa per far sembrare il problema più comune di quanto forse non lo sia. Si tratta di conoscersi a vicenda, di avere il coraggio di raccontarsi i propri sogni, di rivolgersi l’uno all’altra, di cercare una soluzione comune ai problemi, e soprattutto di recuperare dopo un conflitto. La coppia vincente infatti non evita i conflitti, ma li supera senza calpestare uno dei due componenti della coppia. Le discussioni rimangono ad un livello pratico circostanziato al problema, e non vengono portate su un piano personale o tirando via con sé ogni evento del passato. A livello teorico sembra tutto semplice, alla fine si tratta di rispetto reciproco, eppure sappiamo tutti quanto la frustrazione, la stanchezza, la voglia di urlare, prendono facilmente il sopravvento. Quindi, proviamo a fare un esercizio: la prossima volta che abbiamo un problema, un qualcosa che ci infastidisce e di cui vorremmo parlare con il nostro partner proviamo a ricordarci alcune semplici regole.
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(1) Lamentarsi, sì, ma senza incolpare nessuno. Es: “La casa è in disordine. Mi avevi promesso di passare l’aspirapolvere e non l’hai fatto. Sono proprio arrabbiata/o con te!” Che è molto diverso da “La casa è in disordine. Avevi promesso di passare l’aspirapolvere. Possibile che io non possa mai fidarmi di te? Sei il solito egoista”.
(2) Parlare in prima persona. Es: “Mi sento trascurato” invece di “Non ti frega nulla di me”. Oppure: “Vorrei risparmiare soldi” invece di “Spendi tutto lo stipendio in shopping compulsivo”.
(3) Descrivere una situazione senza esprimere un giudizio in merito. Es: “Non so più come tenere il bimbo, sembra essere tutto sulle mie spalle oggi” e non “Non ti occupi mai di lui, sei sempre il solito menefreghista?!??”
(4) Essere gentili e ringraziare sempre anche quando un gesto è scontato.
(5) Esprimete con chiarezza i vostri bisogni.
Es: “Mi piacerebbe guardare la Tv anzichè andare a mangiare la pizza, potrebbe essere un problema? magari ordiniamo delle pizze a casa” che è diverso dal dire “Non voglio venire con te, non mi piace, non ho voglia“.
A tutti capita dirimuginaresu qualcosa, di impiegare il proprio tempo analizzando le situazioni da diverse prospettive, preoccupandosi delle possibili eventualità negative future e immaginandosi scenari catastrofici. Qualcuno lo fa per ipotizzare in anticipo le conseguenze e organizzare la controffensiva, qualcun altro pensa di non poterne fare a meno, altri infine sentono l’obbligo di rimuginare per debellare in modo magico la possibilità che lo scenario tanto temuto si realizzi.
Finché questo processo di pensiero non va a incidere in modo significativo sulla vita quotidiana, tutto bene.
Il problema si presenta quando rimuginare toglie tempo al resto, quando non si riesce a smettere e il rimuginio stesso diventa fonte di ansia e di preoccupazione.
In questa misura, il rimuginio patologico (che consiste nella preoccupazione per il fatto stesso di essere persone che si preoccupano), è stato individuato come caratteristica chiave del Disturbo d’Ansia Generalizzata (Wells, 2002). Ecco allora che diventa interessante indagare quali possano essere le caratteristiche in qualche modo prodromiche del rimuginio, le origini di questa forma di pensiero negativo ricorrente e le situazioni o esperienze che possono facilitare il suo apprendimento.
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Uno studio pubblicato online a giugno del 2011, ma stampato su carta solo in questi giorni, ha indagato proprio queste variabili facilitanti, ricercandole in due ambiti in qualche modo collegati tra loro: lo stile genitoriale e le credenze delle persone circa il rimuginio stesso. Più nello specifico, questa ricerca (Spada et al., 2012) ha indagato il ruolo dell’iperprotezione genitoriale e delle credenze metacognitive nel predire l’utilizzo del rimuginio. A questo scopo, una batteria composta da quattro questionari self-report è stata somministrata a 301 soggetti per valutarne l’iperprotezione genitoriale percepita, le credenze metacognitive, l’ansia e il rimuginio.
Con “credenze metacognitive” intendiamo le motivazioni con cui le persone spiegano a loro stesse la propria tendenza a rimuginare, come la convinzione che rimuginare abbia un esito efficace, oppure la tendenza a non percepire la possibilità di fermare il rimuginio, vivendolo come una sorta di automatismo al di fuori del proprio controllo.
Tra le caratteristiche dell’accudimento ricevuto nell’infanzia e nell’adolescenza, invece, sono state indagate in particolare l’iperprotezione, intesa come limite alla libertà del bambino di esplorare il mondo, e la cura, cioè la capacità di far percepire al bambino una sicurezza che ha sede nella figura del’adulto. Variabili in qualche modo collegate, dicevamo, nella misura in cui precedenti ricerche hanno mostrato come l’iperprotezione possa avere un’influenza diretta sul rimuginio ostacolando le esperienze esplorative dei bambini e non permettendo loro di apprendere strategie di fronteggiamento dei problemi orientate all’azione (Cheron, Ehrenreich and Pincus, 2009; Nolen-Hoeksema, Wolfson, Mumme and Guskin, 1995), oltre che un effetto indiretto, favorendo lo sviluppo di credenze metacognitive non adattive e non realistiche che sono associate all’attivazione del rimuginio e all’aumento di ansia (Wells, 2000).
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Analizzando i dati raccolti, Spada e i colleghi hanno notato come le credenze metacognitive circa l’utilità e la necessità di controllare il rimuginio fossero in grado di predire i livelli di rimuginio indipendentemente dal sesso, dai livelli di ansia e dal livello di iperprotezione genitoriale percepita. Inoltre, le credenze metacognitive sono state in grado di predire i livelli di ansia indipendentemente dal sesso, dal rimuginio e dall’iperprotezione genitoriale percepita.
Lo studio mostra quindi come la combinazione di un ambiente familiare percepito come iperprotettivo e alti livelli di credenze sulla necessità di controllare questa forma di pensiero e sulla sua utilità o inutilità siano un fattore di rischio per lo sviluppo del rimuginio.
Mentre sembra abbastanza immediato comprendere come credere nell’utilità del rimuginio faciliti la messa in atto di questa forma di pensiero perseverante, è curioso notare come credere che sia sempre e comunque necessario controllare tutti i propri pensieri sortisca lo stesso effetto. In questo senso, sembra che una buona strategia per evitare di incagliarsi nel rimuginio sia concederselo e permettersi di avere momenti e situazioni di ansia e preoccupazione (worry). Come impegnarsi a evitare di pensare all’elefante rosa non fa altro che ingrandire questa immagine nella mente, per non fare dell’elefante rosa un’ossessione basta lasciar scorrere il pensiero dalla proboscide alla coda.
Background: Parental overprotection may have a direct effect on worry through hindering children’s exploration experiences and preventing the learning of action-oriented coping strategies (Cheron, Ehrenreich and Pincus, 2009; Nolen-Hoeksema, Wolfson, Mumme and Guskin, 1995) and an indirect effect through fostering the development of maladaptive metacognitions that are associated with the activation of worry and the escalation of anxiety (Wells, 2000). Aim: The aim was to investigate the relative contribution of recalled parental overprotection in childhood and metacognitions in predicting current levels of worry. Method: A community sample (n = 301) was administered four self-report instruments to assess parental overprotection, metacognitions, anxiety and worry. Results: Metacognitions were found to predict levels of worry independently of gender, anxiety and parental overprotection. They were also found to predict anxiety independently of gender, worry and parental overprotection. Conclusions: The combination of a family environment perceived to be characterized by overprotection and high levels of maladaptive metacognitions are a risk factor for the development of worry.
BIBLIOGRAFIA:
Cheron, D. M., Ehrenreich, J. T. and Pincus, D. B. (2009). Assessment of parental experiential avoidance in a clinical sample of children with anxiety disorder. Child Psychiatry and Human Development, 40, 383–403.
Nolen-Hoeksema, S., Wolfson, A., Mumme, G. and Guskin, K. (1995). Helplessness in children of depressed and nondepressed mothers. Developmental Psychology, 31, 377–387.
Il Succo del’articolo è qualcosa che abbiamo già letto altrove e che probabilmente era nel sentire di molti italiani: non è vero che i suicidi sono aumentati, non si può e non si deve parlare di epidemia dei suicidi a causa della crisi economica.
“Ogni gesto estremo, come quelli che le cronache recenti raccontano, nasconde una tragedia umana e impone il massimo rispetto. Ma è difficile affermare, a oggi, che vi sia un aumento statisticamente significativo dei suicidi dovuto alla crisi economica. Temo che si stiamo facendo affermazioni forti, senza robuste evidenze scientifiche”. (Stefano Marchetti, responsabile dello studio ISTAT)
Dove le tabelle mostrano come il suicidio per ragioni economiche sia al penultimo posto nella scala delle motivazioni. I dati mostrano anche come la Grecia (economicamente allo sfascio) sia all’ultimo posto nella classifica dei suidici per nazioni, mentre la Finlandia (con una qualità della vita in termini economici superiore di 4 volte all’Italia) è al quarto posto per numero di suicidi (quadrupli rispetto all’Italia che si trova al terzultimo posto in Europa).
Claudio Mencacci, direttore del dipartimento di Neuroscienze dell’Ospedale Fatebenefratelli di Milano:
“È giusto affrontare il problema, ma interpretare la situazione attuale come una drammatica emergenza legata alla crisi è una forzatura. Ed è pericoloso, perché il fenomeno dei suicidi è a forte rischio emulazione.
Questo sì, è scientificamente provato. Studi epidemiologici internazionali dimostrano con certezza che le notizie dei suicidi da crisi economica, se presentate in modo sensazionalistico, inducono altri suicidi, innescando un pericoloso ‘effetto domino ’”… “Le persone che compiono questi gesti estremi sono nella grande maggioranza dei casi entrate da tempo nel tunnel della patologia psichica, prevalentemente depressiva, che toglie la possibilità di trovare soluzioni alternative. I gesti estremi possono essere scatenati da fatti contingenti che esasperano una situazione economica già complessa, ma s’innescano in personalità da tempo fragili e vulnerabili che non hanno avuto la possibilità di chiedere aiuto per la loro sofferenza psichica. L’appello rivolto a chi governa è che potenzino i servizi di salute mentale, in questo periodo di recessione. Perché c’è tanta gente che non sa a chi chiedere aiuto, ma non solo per motivi economici”.
“…Credo anche e mi costa dirlo, che in questi suicidi di imprenditori ci sia tristezza, paura per il futuro, senso di fallimento, ma che spesso sia presente una storia depressiva pregressa, che la situazione di difficoltà slatentizza, o porta alla luce. Si è più vulnerabili ad affrontare le difficoltà, ma si era vulnerabili da tanto tempo e non appariva perché le cose andavano bene. Molti imprenditori disperati oggi sono lì che lottano come matti, da vivi, per riinventarsi una vita decente e portarsi fuori dalle difficoltà. Non sono migliori degli altri, erano meno vulnerabili al dolore e a una definizione tragica della loro esperienza. Questo vuol dire che il dolore per le difficoltà c’è stato, le difficoltà sono vere, ma la lettura che queste persone danno è di tipo depressivo e tragico. Non è determinato dagli eventi che attraversano in modo necessario. Questo è diverso dallo scrivere: “si uccide perché la sua azienda va male”.
Questo è importante perché non mi piace mai dare la colpa alle cose e basta ma ragionare sugli aspetti psicologici in modo più utile che applicare tout court a una difficoltà oggettiva le categorie diagnostiche dell’ansia. o della depressione senza metterci in mezzo la lettura idiosincratica che ciascun individuo costruisce della sua realtà. Occorre guardare a ciascun individuo, alle sue storie, al suo modo di reagire in modo psicologico, fine. Questo ci aiuterebbe ad aiutare ciascun ragazzo precario depresso e passivo. Parlo da psicoterapeuta ovviamente, non da politica in questa sede…”
Una vacanza dalle e-mail riduce lo Stress e aumenta la Concentrazione
– Rassegna Stampa –
Secondo uno studio presentato proprio in questi giorni alla Computer-Human Interaction (CHI 2012) Conference di Austin, Texas, non avere accesso alla propria casella di posta elettronica riduce notevolmente lo stress sul lavoro e facilita molto la concentrazione.
I dipendenti di un ufficio sono stati collegati a dei cardiofrequenzimetri mentre erano al lavoro, contemporaneamente con l’aiuto di un software venivano conteggiati i passaggi effettuati tra le diverse schermate del loro computer. I risultati indicano che chi aveva accesso alle e-mail cambiava schermata due volte più spesso (in media 37 volte all’ora!) di chi non poteva accedervi, ed era in un costante stato di allerta caratterizzato da frequenze cardiache costanti.
I lavoratori che invece non avevano potuto accedere alla posta elettronica per cinque giorni consecutivi mostravano frequenze cardiache più naturali e variabili, inoltre, nonostante alcuni si siano sentiti un po’ isolati, nel complesso tutti hanno riferito di sentirsi meglio nello svolgere il proprio lavoro e di avere sperimentato maggiore concentrazione, grazie al minor stress e alla minor perdita di tempo a causa delle interruzioni.
Dal momento che altre ricerche hanno dimostrato che frequenze cardiache tipiche dello stato di costante allerta coincidono con alti livelli di cortisolo, un ormone legato allo stress, e che lo stress sul lavoro è a sua volta collegato a una gran varietà di problemi di salute, introdurre periodi di “vacanza” dalle e-mail, pur continuando a lavorare, sembrerebbe proprio una soluzione in grado di favorire sia la salute che le la qualità del lavoro.
L’inconfondibile tristezza della torta al limone. Di Aimee Bender – Recensione
Brunella Coratti.
Scritto con i toni surreali e inconsueti delle favole, L’inconfondibile tristezza della torta al limone di Aimee Bender è un romanzo originale e bizzarro, che vale proprio la pena di leggere.
Aimee Bender. L’inconfondibile tristezza della torta al limone. Ed. Minimum Fax
Rose Edelstein è una bambina di nove anni che, il giorno del suo compleanno, si accorge di possedere una qualità speciale: attraverso il cibo che mangia scopre i sentimenti, non sempre consapevoli, di chi ha cucinato. La torta di compleanno che la madre ha preparato non sa di limone, ma di vuoto e di solitudine, emozioni che la madre nasconde dietro un’apparente gioiosità.
Da quel momento Rose svilupperà una potente empatia nei confronti delle persone, stabilendo un’infallibile collegamento tra cibo cucinato e stati d’animo. Tuttavia, questo “cibo pieno di sentimenti” la priva del piacere del nutrimento: le emozioni altrui sono invadenti, inondano la sua mente e Rose talvolta è costretta ad ignorarle, mangiando prodotti industriali asettici e piuttosto anonimi.
Riesce anche ad indovinare, del cibo che mangia, alcuni aspetti concreti tra cui luogo di provenienza, caratteristiche del terreno o dell’acqua e anche questo è un modo che la ragazza utilizza per distanziarsi, quando l’altrui stato d’animo è troppo faticoso per lei; questo concentrarsi su un particolare per sfumare l’impatto emotivo dell’insieme sembra quasi un movimento dissociativo.
Rose vive in una famiglia alquanto originale.
La madre ha una personalità emotiva, irrequieta, il rapporto con la realtà è continuamente alterato da un pensiero magico attraverso cui legge le cose che accadono come se avessero significati speciali, segni di qualcosa che va interpretato. Figlia di una donna eccentrica e fredda, “mi chiamava camion della spazzatura quando le chiedevo troppe cose” è, al contrario, madre affettuosa e iperprotettiva ma inconsistente, a tratti fatua e trasognante.
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Il padre appare come una persona lineare, quasi mediocre, abitudinario e un po’ monotono che, solo verso la fine della storia, rivelerà alla figlia di essersi sempre difeso, attraverso una vita banale, dalla consapevolezza di avere anche lui delle qualità particolari , ereditate a sua volta dal proprio padre, che poteva raccontare la vita delle persone attraverso gli odori che emanavano, percepiti con intensità tale da dover portare sempre una benda sul viso.
Infine il fratello maggiore Joseph, il più enigmatico della famiglia, una sorta di genio solitario, che evita tutte le relazioni umane ( ad eccezione di un unico amico) comprese quelle con i suoi familiari. Non si fa toccare, fugge il contatto oculare e il suo sguardo è talmente angosciante e imbarazzante per tutti che, durante la cena, o legge libri oppure gli mettono davanti al piatto le scatole di cibo cosicchè lui possa leggere le etichette ed estraniarsi dal contesto. Joseph sembra appartenere ad un altro mondo, si colloca in una dimensione estranea e silenziosa del vivere e si esercita nell’ “arte delle sparizioni”, prima brevi poi via via sempre più significative.
Il libro è la narrazione della vita di questa famiglia attraverso lo sguardo fin troppo empatico di Rose, prima bambina, poi ragazza e adulta.
Rose inciampa nei segreti della madre, del fratello, infine del padre e questo le consente di conoscerli al di là delle apparenze, non sempre di capirli, ma comunque di amarli profondamente. E, nonostante sia la più piccola della famiglia, ne diventa la presenza regolatrice, il punto di riferimento, la confidente prediletta che modula emozioni sotterranee, convinzioni magiche, affetti inopportuni ed eccentricità.
Lei contiene tutto: i tradimenti della madre, le sparizioni del fratello, il silenzio un po’ fobico del padre, osservandoli in silenzio ed amandoli teneramente. In lei è potente l’istinto di proteggere i suoi familiari, si accorge di quanto siano fragili negli affetti, come se la realtà fosse, per ognuno di loro, fonte disorganizzante di caos emotivo.
Viene in mente il mestiere di psicoterapeuta, le emozioni suscitate dalla relazione clinica e utilizzate come ingredienti controtransferali di comprensione del mondo interiore del paziente, insieme ai rischi che il terapeuta corre, essere inondato dalle emozioni altrui al punto a volte di doversene difendere, oppure perdere il sapore della propria vita vivendo quella degli altri.
Articolo consigliato: Una stanza piena di gente. by Daniel Keyes. (Recensione).
Aimee Bender ci presenta una radice schizotipica familiare, sembrano tutti affetti dallo stesso disturbo che si plasma diversamente nell’espressività del linguaggio dei cinque sensi: è gustativa in Rose, olfattiva nel nonno paterno, visiva nel fratello, più genericamente mentale nella madre, compromessa dal pensiero magico.
Le modalità relazionali dei personaggi tra loro, con se stessi e con la realtà tutta, sembrano proprio ben descrivere questo genere di disturbo che si caratterizza per alcune convinzioni irrazionali alquanto bizzarre: l’idea di poter influenzare magicamente gli altri sia direttamente che indirettamente o di poterne essere influenzati, l’idea che sia possibile il controllo dei pensieri propri ed altrui, che si possano acquisire conoscenze attraverso canali speciali o a distanza e la disponibilità a mettere a disposizione degli altri le proprie doti “soprannaturali”.
Queste idee sono accompagnate da esperienze percettive insolite che possono arrivare alla depersonalizzazione, derealizzazione, talvolta ad illusioni ed allucinazioni. Anche a causa di una certa dose di ansia sociale, queste persone non sono inclini a rapporti affettivi importanti, ad esclusione della propria famiglia, dove rimane saldo il senso di appartenenza.
Solo in famiglia si parla lo stesso linguaggio, il resto del mondo è estraneo e poco comprensibile e la solitudine è ricercata come indispensabile e sicuro rifugio: viene da chiedersi se una piccola dose di schizotipia non sia un ingrediente costitutivo del disturbo evitante di personalità e della fobia sociale.
Una lettura, in definitiva, che concede molti spunti di riflessione significativi, nonostante la leggerezza dello stile.
Intervista con il Prof. Dimaggio – #1 La Terapia Metacognitiva-Interpersonale
Una chiacchierata con il prof. Dimaggio – Parte 1:
La Terapia Metacognitiva-Interpersonale
Che cos’è la Terapia Metacognitiva-Interpersonale e come funziona? Abbiamo cercato di scoprirlo grazie all’aiuto del prof. Giancarlo Dimaggio.
Gli strumenti nella cassetta degli attrezzi dello psicoterapeuta non sono mai abbastanza, soprattutto quando il paziente è affetto da un disturbo di personalità. Un interessante prospettiva viene proposta dalla Terapia Metacognitiva-Interpersonale (TMI), modello che è stato sviluppato in seguito all’osservazione di pazienti che non erano in grado di riflettere sui propri stati mentali e che quindi, avendo difficoltà ad identificare pensieri ed emozioni suscitati da un evento, traevano un minore beneficio dalle tecniche cognitive standard, come l’ABC (Bassanini 2012, Ruggiero 2012). La TMI nasce soprattutto per il trattamento dei pazienti con disturbi di personalità e insieme al prof. Dimaggio abbiamo cercato di comprendere meglio questo interessante approccio terapeutico.
(State of Mind) Buongiorno prof. Dimaggio. Potrebbe descrivere e riassumere brevemente per i lettori di State of Mind la terapia Metacognitiva- Interpersonale (TMI)?
(Dimaggio) L’approccio della terapia Metacognitiva-Interpersonale è sviluppato principalmente per il trattamento dei disturbi di personalità, ma include una struttura che permette di trattare i disturbi di Asse I correlati, depressione, ansia nelle varie forme, disturbi ossessivi, disturbi alimentari.
Articolo consigliato: La Terapia Metacognitiva (MCT): intervista con il Prof. Adrian Wells.
Le caratteristiche fondamentali di questo approccio sono due: metacognitiva e interpersonale. La prima tiene presente costantemente come focus del trattamento, ma anche come variabile di difficoltà del funzionamento da tenere in considerazione per adattare il trattamento al singolo paziente, le abilità di ragionare in termini di stati mentali, che è la metacognizione per come l’abbiamo intesa storicamente nel corso degli anni con gli ex colleghi del terzo centro, dove per metacognizione intendiamo: la capacità di identificare gli stati interni, di ragionare su di essi, di costruire catene di nessi psicologici causali, quale azione dell’altro ha causato una nostra emozione, reazione e cosa noi abbiamo causato nell’altro; la capacità di prendere distanza critica dai contenuti mentali e trattarli come tali, invece che come dati di fatto, e formarsi una teoria della mente dell’altro ricca, articolata e complessa; utilizzare gli stati mentali come contenuto di strategie di planning, di pianificazione, di risoluzione di problemi sociali e legati alla sofferenza soggettiva. Questo è quello che noi intendiamo con metacognizione, concetto che ha un ampio grado di sovrapposizione con quello di mentalizzazione di Fonagy, Bateman e colleghi.
La differenza principale per quello che intendiamo con metacognizione comprende una varietà di processi dai più puntiformi, per esempio l’identificazione emotiva, a quelli più ampi, che sono la capacità di integrare i diversi stati interni in diverse aree funzionali. La metacognizione non è mai stata focalizzata esclusivamente su quello che avviene nell’attaccamento, che erano formulazioni fino a poco tempo fa di Fonagy e Beckam, che ultimamente però sembra stiano allargando il campo di applicazione del concetto.
L’idea nucleare da questo punto di vista è che qualunque forma di trattamento psicologico, in particolare per i disturbi di personalità, nasce da una formulazione del caso che implica che il paziente abbia avuto accesso ai contenuti mentali, sia in grado di ragionare sugli affetti, di rendersi conto di quali sono, di distinguerli l’uno dall’altro, di capire cosa li evoca e di capire quali sono le proprie rappresentazioni prototipiche, di prenderne distanza critica e piano piano ragionare sugli stati interni al fine di modificarli; ragionare sui comportamenti al fine di trovare nuove soluzioni, capire il gioco che avviene tra due menti durante le relazioni e utilizzare questa comprensione per adattarsi e trovare nuove soluzioni ai problemi relazionali, conflitti, realizzazione di desideri condivisi, ecc.
L’idea è che molti pazienti abbiano difficoltà a formarsi questa comprensione metacognitiva degli stati interni e degli stati degli altri, per cui il trattamento o deve promuoverla oppure deve tenere conto che l’obiettivo della terapia, come diceva Semerari, è quello di aiutare il paziente a formarsi questo prerequisito, ovvero acquisire una conoscenza mentalistica degli stati interni propri e degli altri, che poi viene utilizzata come strumento di cambiamento. La terapia quindi da un lato ha come obiettivo quello di migliorare la meta cognizione, la terapia metacognitiva-interpersonale, dall’altro lato ha l’obiettivo di considerare quanto il paziente è capace metacognitivamente, in maniera da evitare interventi che siano troppo complessi e che il paziente non può capire perché si presume una conoscenza degli stati mentali che il paziente non ha, e per stati mentali intendo i fenomeni psicologici, pensieri, emozioni, catene causali, ecc. Questo per esempio è condiviso da alcuni altri approcci, ci sono alcune correnti di lavoro che più o meno ragionano nella stessa maniera; per esempio Fonagy e Beckman considerano che bisogna lavorare in maniera approssimale alle capacità di mentalizzazione del paziente, cioè chiedere troppo al paziente può essere contro produttivo, il paziente non risponde perché gli si chiede di padroneggiare un materiale che non capisce.
Articolo consigliato: Recensione di Terapia Metacognitiva dei disturbi d’Ansia e della Depressione. (A. Wells)
Recentemente nella tradizione di Bill Stiles e dei colleghi di orientamento narrativo portoghesi Miguel Gonçalves, si è sviluppato il concetto di zona terapeutica di sviluppo prossimale, dove gli interventi del terapeuta devono essere all’interno della zona di sviluppo prossimale, ovvero fornire un intervento al paziente immediatamente superiore alle capacità di comprensione mentalistica che il paziente possiede spontaneamente. Interventi che sono al di sotto della zona di sviluppo prossimale è probabile che non generino cambiamento, interventi che sono troppo al di sopra, per esempio chiedere al paziente di capire uno schema interpersonale, quando invece ancora fa fatica a comprendere le proprie emozioni è molto probabile che sia un intervento che viene rifiutato, viene non capito, genera deterioramento o semplicemente mancanza di progresso. Quello che facciamo è commisurabile con almeno questi altri approcci.
(State of Mind ) L’intervento TMI si articola quindi in tre grandi fasi: la prima è quella della strutturazione della complessità del caso, la seconda in cui con il paziente costruiamo uno stesso linguaggio “insegnandogli” la metacognizione e la terza infine, è quella che potremmo definire più terapeutica.
(Dimaggio) Cerchiamo di costruire col paziente una comprensione condivisa di cosa sono gli stati mentali, non necessariamente spiegando cos’è la metacognizione, ma spiegando che il comportamento è retto da stati mentali e facendo un lavoro che è soprattutto di sintonia relazionale, volto ad aiutare il paziente a capirli, a capirne l’importanza. C’è anche una componente a tratti psicoeducazionale, cioè se il paziente ha veramente una sorta di analfabetismo emotivo gli spieghiamo che cosa sono gli affetti, il loro valore evoluzionistico, da dove nascono, cosa generano e capire che è importante identificarli e discriminarli. Quindi c’è anche questa componente di nuovo apprendimento, si spiega al paziente che è parte del proprio funzionamento mentale e successivamente si cerca di promuoverlo.
Tutta la prima parte del trattamento, costruzione della scena, è finalizzata alla costruzione di una mappa condivisa tra paziente e terapeuta del funzionamento mentalistico del paziente, cioè paziente e terapeuta cercano insieme di capire cosa avviene nella mente del paziente, cosa va storto all’interno delle relazioni interpersonali significative e l’obiettivo è quello di acquisire una comprensione più dettagliata possibile nel corso del tempo. Quando sono stati raggiunti determinati livelli a quel punto si passa ad utilizzare questa conoscenza mentalistica per promuovere il cambiamento.
Ci sono dei passaggi della terapia, procedure iterattive che si ripetono ogni volta che il paziente torna indietro, magari ha acquisito delle consapevolezze in un area interpersonale, per esempio ha risolto alcuni problemi dell’attaccamento e si aprono problemi nell’area dell’antagonismo o del rango sociale a quel punto si ricomincia, perché magari in quell’area dimostra minori capacità metacognitive e bisogna risalire fino a che non comprende gli schemi interpersonali disfunzionali.
Maltrattamenti emotivi infantili e tendenza all’autocritica in amore
– Rassegna Stampa –
Secondo una ricerca condotta da un gruppo di ricercatori israeliani della Ben-Gurion University of the Negev (BGU) esisterebbe una correlazione marcata tra difficoltà sentimentali in età adulta e l’essere stato oggetto di maltrattamento emotivo nell’infanzia.
Il Childhood Emotional Maltreatment (CEM) comprende non solo abusi fisici e sessuali ma anche l’abbandono emotivo e, vista la frequenza con cui viene riferito nei centri di consulenza universitari, sembra essere in drammatico aumento.
In due diversi studi, pubblicati sul Journal of Social & Clinical Psychology, i ricercatori hanno analizzato la stabilità e la soddisfazione delle relazioni intime in un ampio gruppo di studenti universitari con una storia di maltrattamento emotivo infantile. L’analisi dei risultati mostra come la tendenza all’autocritica faccia da mediatore tra CEM e deterioramento delle relazioni sentimentali: data la scarsa capacità che ha un bambino di comprendere la circostanze che portano a situazioni di maltrattamento emotivo e fisico, queste vengono elaborate in termini di responsabilità personale favorendo un atteggiamento di autocritica; questa tendenza, consolidandosi nel tempo come parte della definizione della personalità, contribuirebbe a far deragliare le relazioni sentimentali.
La dott.ssa Lassri sostiene inoltre che, anche se questi risultati sono stati raccolti da persone in età universitaria, i comportamenti in questione potrebbero peggiorare durante l’età adulta.