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Intervista con il Prof. Dimaggio – #3 La TMI: Cicli Interpersonali vs Schemi Interpersonali

 

Una chiacchierata con il prof. Dimaggio – Parte 3:

La TMI: Cicli interpersonali vs Schemi interpersonali

 

Intervista con il Prof. Dimaggio – #3 La TMI: Cicli Interpersonali vs Schemi Interpersonali. - Immagine: © iQoncept - Fotolia.comDopo aver chiesto al prof. Dimaggio di parlarci della Terapia Metacognitivo – Interpersonale e di come funziona, abbiamo cercato di capire cosa produce il cambiamento nei pazienti e come la TMI può agire in questo senso. Questa settimana, nell’ultima parte dell’intervista, parliamo di cicli interpersonali

Uno degli elementi più difficili da gestire in terapia sono i Cicli interpersonali attivati dai pazienti. Questa difficoltà aumenta significativamente durante il trattamento di pazienti con disturbi di personalità e saper trasformare i cicli interpersonali del paziente in una risorsa utile alla terapia è particolarmente importante, ma non sempre semplice. Ne abbiamo parlato con il prof. Dimaggio nel corso dell’ultima parte dell’intervista: 

 

(State of Mind) Cicli interpersonali vs. schemi interpersonali. Quanto è importante secondo lei dividere gli interventi basati sugli schemi interpersonali da quelli sui cicli interpersonali?

(Dimaggio) Questo è un argomento a me carissimo. Probabilmente il problema è il risultato di un difetto del libro “I disturbi di personalità. Modelli e trattamento”, lo dico con fare autocritico. Non sono in grado di dire se dipende dal modo in cui il libro è stato scritto o da come è stato letto Certo è che ho notato come molti allievi che hanno studiato il libro, a partire da lì tendevano ad intervenire direttamente sui cicli interpersonali. Intendiamoci: il concetto di ciclo interpersonale è preziosissimo. Una dimensione centrale nella TMI è la costante attenzione, modulazione, monitoraggio e metacomunicazione sulla relazione terapeutica. Ovvero tutto quello che facciamo avviene costantemente con un terapeuta immerso nella riflessione sulla relazione terapeutica, sentendosi parte in causa, co-costruttore di un mondo relazionale, però capace di monitorare quello che accade e di uscire dal ciclo interpersonale per generare un funzionamento migliore.

Intervista con il Prof. Dimaggio – #1 La Terapia Metacognitivo-Interpersonale
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Quindi “ciclo interpersonale” è un costrutto di enorme utilità e tuttavia nelle prime parti della terapia metto in guardia i terapeuti in formazione dall’utilizzarlo per spiegare al paziente il suo malfunzionamento. Il ciclo interpersonale deve servire al terapeuta per capire il processo che avviene in seduta. Ovvero: “In che modo io sto contribuendo con il paziente a potenziare modalità relazionali disfunzionali attive nel qui ed ora della relazione terapeutica”. Questo soprattutto facendo attenzione al contributo del terapeuta nel peggiorare o mantenere le cose, assumendo ovviamente che il peso della psicopatologia nel determinare il ciclo è enorme.

Quando il focus si sposta invece sulla mente del paziente, ragionare in termini di ciclo interpersonale, come ho visto fare a tantissimi mie allievi o allievi di colleghi, secondo me rischia di diventare iatrogeno, soprattutto se fatto prematuramente. Questo perché si tratta sostanzialmente di dire al paziente che contribuisce a causare i problemi di cui soffre. Questo genera colpevolizzazione, perché è come dire al paziente: “Te la vai a cercare”, facendo sentire il paziente giudicato. Interventi del genere frequentemente generano un potenziamento dell’immagine negativa di sé, che a sua volta può generare depressione o ostilità. Il terapeuta viene così facilmente costruito come un giudice critico, dominante, ostile, e via dicendo, per cui penso che bisognerebbe davvero evitare, per lunghe fasi di trattamento, di far notare al paziente che in qualche modo la sofferenza è generata – in parte – dalle reazioni che il paziente stesso elicita negli altri.

Mentre invece un intervento molto più importante che, per quanto modellizziamo, andrebbe fatto rigorosamente prima dell’interpretazione del ciclo, è quello di aiutare il paziente a capire che soffre a causa di schemi. Ovvero non di ciò che fa fare agli altri o di ciò che altri gli fanno, ma di come legge le cose.

Quando il paziente è stabilmente consapevole di essere guidato da schemi, per esempio che soffre così tanto non per aver costretto il partner ad abbandonarlo, ma per avere uno schema cronico di abbandono; oppure non perché si sente ostracizzato o sfidato dai colleghi perché lui per primo li sfida, ma perché ha un tema cronico di percezione degli altri come ostili e dominanti, bene, solo a quel punto si può cominciare a suggerire: “Guardi, a partire da questo tema di vita – e noi vogliamo che lei se ne liberi per vivere una vita più leggera, realizzata e più in linea con i suoi piani – le azioni che lei compie possono evocare negli altri reazioni che le provocano dolore”.

Interventi di questo tipo però vengono fatti in fasi molto avanzate del trattamento, quando il paziente sa già che soffre per il modo in cui percepisce gli altri, e cosa ancora più importante il paziente ha avuto accesso a modalità sane e alternative di esperienza. Detto in termini semplici: “Guardi, vede come quando riesce a contattare questi aspetti sta meglio, funziona meglio e gli altri rispondo diversamente. Ora capiamo che quando invece si comportava nei modi usuali, gli altri non le rispondevano in maniera altrettanto felice”. È un intervento che si rivolge ad un paziente che ha già un’identità, in parte, nuova e più sana, un punto di vista più limpido dal quale poter osservare le sue disfunzioni.

 

(State of Mind) Qual è la probabilità, il rischio, che anche usando questa tecnica il paziente si colpevolizzi?

Allora, direi che non è un rischio, ma piuttosto una cosa che accade spesso. In un certo senso è un effetto previsto dell’intervento quando si mostra al paziente che nel suo mondo interno c’è uno schema che non va. Diciamo che è inevitabile. Quello invece che cerchiamo di fare è un intervento a due livelli. Intanto la formulazione dello schema, questa è una cosa sulla quale insisto moltissimo, non va fatta dal vertice della patologia. Cioè: “Lei ha una cosa disfunzionale”. Al contrario, io parto sempre dall’accesso al desiderio: “Lei desidera realizzare quello, si aspetta che gli altri reagiscano così e a causa di questo tende a cadere. La terapia tenta di darle una luce nuova nella vita”. Essenzialmente la riformulazione la faccio così. Questo già di suo dà speranza, è progettuale, proattivo, rinforza l’agency e quindi genera un’attitudine positiva verso la terapia.

Intervista con il Prof. Dimaggio – #2 La Terapia Metacognitiva-Interpersonale: Verso il Cambiamento. - Immagine: © Frederic Bos - Fotolia.com
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Già il modo in cui viene riformulato lo schema non è “Lei soffre, ha una tendenza a…”, ma “I suoi desideri sono ostacolati dalla percezione che… che bello sarebbe trovare delle strategie per liberarsi da queste aspettative negative per poter realizzare i propri obiettivi di vita”. È tutta un’altra cosa e un terapeuta TMI esperto, dopo tanto allenamento e osservazione, un intervento di questo tipo, con pazienti a discreto funzionamento metacognitivo, può farlo addirittura in una sola seduta.

Tuttavia in ogni caso parallelamente anche il terapeuta più bravo, sensibile ed esperto sta veicolando inevitabilmente un messaggio che rinforza gli schemi negativi del paziente. Con i disturbi di personalità di fatto accade sempre. Quello che dico sempre scherzando a lezione è: con i disturbi di Asse I fai la cosa giusta e il paziente migliora, con i disturbi di Asse II fai la cosa giusta e il paziente ti sta male da un’altra parte.

Allora quello che si fa, e questa è la componente relazionale, è monitorare costantemente la risposta del paziente e il significato che l’intervento ha a livello relazionale e a quel punto si interviene su quello. Per esempio, tornando all’esempio di prima, il paziente si sente giudicato, il terapeuta nota un segno di intristimento, abbattimento o autocritica e subito chiede: “Scusi, come sta prendendo quello che le ho detto?”. Il paziente potrebbe rispondere: “Guardi, c’è proprio qualcosa di sbagliato dentro di me!”. A quel punto l’intervento è su due livelli: “Sente che io la sto giudicando per quello che ho detto? Ha percepito una nota critica nei suoi confronti?”. Successivamente si può fare uno svelamento “Io in realtà provo l’opposto, provo il desiderio di vederla libero da…”. Oppure si va a lavorare sullo schema attivo nel transfert:

Caspita che bello, anche qui cercando di capire come uscire dal suo malessere, vede che si è attivata la sua tendenza a giudicarsi e sentirsi giudicato negativamente? La sua valutazione negativa del mondo è difficile che riesca a generarle una speranza, perché subito prende ogni informazione su di sé come prova del suo scarso valore personale. Accidenti, quanto la convinzione di non valere niente è forte dentro di lei! E veramente sarà importante che riusciamo io e lei a lavorare per riuscire a farla stare meglio”.

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Per cui si va a lavorare subito sullo schema attivo nella relazione. Lo schema, quindi, si attiva negativamente a causa dell’intervento del terapeuta, ma diventa subito l’oggetto della riflessione. Il terapeuta MIT è allenato ad essere prontissimo a questo tipo di eventi relazionali.

Importante è che la correttezza dell’intervento non si misura tanto da quanto l’intervento, la riformulazione, fosse teoricamente e tecnicamente corretta.La la bravura del terapeuta in un certo senso, almeno per come la pensiamo noi, è nel monitorare il feedback del paziente all’intervento.

L’intervento funziona quando il paziente da un feedback positivo e il terapeuta è bravo quando si accorge rapidamente del feedback negativo e lavora per correggerlo. Questo è quello che facciamo.

 

(State of Mind) Un’ultima domanda per gli amanti degli spoiler: sta lavorando ad un nuovo libro che ha definito essere un passo in avanti rispetto a “I disturbi di personalità. Modelli e trattamento”. Ci può dare qualche anticipazione?

Questo miglioramento/passo in avanti in qualche modo è già stato messo per iscritto in una serie di articoli o capitoli di libro. Per esempio nei capitoli sul trattamento che sono presenti nel libro che ho curato con Paul Lysaker, “Metacognizione e Psicopatologia” (Dimaggio, G.; Lysaker, P. 2011). Poi ho accennato a questi concetti in un articolo che ho scritto con i miei colleghi per il Journal of Personality Disorders (Dimaggio et al. 2012) proprio sulle procedure decisionali, articolo apparso in un numero speciale sul trattamento integrato dei disturbi di personalità, e in vari altri scritti pubblicati su diverse riviste internazionali.

Quello che sto facendo adesso, soprattutto con i colleghi del nuovo Centro di Terapia Metacognitiva Interpersonale, Raffaele Popolo, Giampaolo Salvatore è formalizzare ulteriormente tali procedure in un libro sul trattamento integrato per i disturbi di personalità che sto curando con John Livesley e John Clarkin. Mentre invece in italiano stiamo provvedendo a manualizzare gli ultimi sviluppi della TMI e questo lo stiamo facendo sempre con il contributo di Raffaele Popolo, Giampaolo Salvatore e Antonella Montano. Quest’ultima ci sta dando una grande mano nel rendere i concetti chiari e iper-formalizzare il trattamento. Quindi sì, diciamo che siamo in pieni lavori in corso e speriamo che venga fuori un miglioramento rispetto al lavoro del libro sui disturbi di personalità di cui parlavamo prima. Anche perché comunque ci collochiamo in un ambito scientifico, almeno quello che proviamo a fare, per cui un’idea terapeutica sviluppata circa dieci anni fa è plausibile che si sia evoluta. È per questo che continuiamo continuamente a riflettere e capire quello che facciamo per poter raffinare sempre più il modello.Per esempio il mio collega Raffaele Popolo porterà degli esempi alla SITCC anche con Giovanni Ruggiero, al fine di di descrivere delle procedure iterative per trattare proprio i sintomi nel contesto dei disturbi di personalità. La domanda non più semplicemente; “Si cura prima l’asse I o l’asse II?”, ma piuttosto “Come si cura un disturbo di Assi I nel contesto di un disturbo di personalità?”. Come si tratta, per esempio, un disturbo ossessivo compulsivo in un paziente che ha un disturbo evitante di personalità; come si tratta invece se il paziente ha un disturbo dipendente e tratti passivo aggressivi. Stiamo cercando di creare procedure proprio in questo senso e probabilmente nel nuovo libro riusciremo a dare un po’ conto di alcuni di questi sviluppi.

 LEGGI LA RISPOSTA DI SEMERARI A QUESTA INTERVISTA

 

 

BIBLIOGRAFIA:

  • Dimaggio, G., Semerari A. (2003) I disturbi di personalità. Modelli e trattamento. Stati mentali, metarappresnetazione, cicli interpersonali. Ed. Laterza
  • Dimaggio, G.; Lysaker P.H. (2011). Metacognizione e psicopatologia. Valutazione e Trattamento. Traduzione Italiana ed. Cortina
  • Dimaggio G, Salvatore, G., Fiore, D., Carcione, A., Nicolò, G. & Semerari, A. (2012). General principles for treating the overconstricted personality disorder. Toward operationalizing technique. Journal of Personality Disorders, 26, 63-83.  

Cinema – Antonioni e l’Incomunicabilità: alla ricerca di un senso.

 

Antonioni e l’Incomunicabilità: alla ricerca di un senso. -
Michelangelo Antonioni

“Quando tu, Antonioni, dichiari in un’intervista con Godard: ‘Provo il bisogno di esprimere la realtà in termini che non siano affatto realistici’, tu testimoni una corretta percezione del senso: non lo imponi, ma non lo abolisci. Tale dialettica conferisce ai tuoi film una grande sottigliezza: la tua arte consiste nel lasciare la strada del senso sempre aperta, e come indecisa, per scrupolo. E’ proprio in questo che tu assolvi il compito dell’artista di cui il nostro tempo ha bisogno: né dogmatico, né insignificante”.

Con queste parole, pronunciate da Roland Barthes in occasione della consegna del premio ‘Archiginnasio d’oro’ a Michelangelo Antonioni nel 1980, possiamo provare ad entrare nel mondo di un regista considerato tra i più grandi di tutti i tempi, precursore e inarrivabile indagatore di alcune tematiche psicologiche fondamentali. Su tutte l’incomunicabilità, che Antonioni analizzo’ con la celebre trilogia composta da “L’avventura”, “La notte” e “L’eclissi”.

Di che cosa discutiamo quando discutiamo di cinema? - Immagine: © fergregory - Fotolia.com
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Comprendere cosa accade quando le persone si distanziano senza un motivo apparente, quando uomini e donne si scoprono alienati da una realtà penetrata sotto la loro pelle senza comunicare il proprio arrivo, è impresa ardua e da terapeuti non di rado ne abbiamo esperienza. Il potere della parola si rivela limitato, l’analisi dei processi mentali spesso non è sufficiente a generare un reale cambiamento, e i nostri pazienti continuano ad essere sovrastati da emozioni che è difficile definire e ancor di più gestire. Coloro che osservano dall’esterno faticano a ricostruire un senso; il terapeuta si pone perciò l’obiettivo di decodificare il sistema di significati personali del paziente, assumendo la sua prospettiva nel tentativo di collocare i pensieri e le emozioni all’interno del suo peculiare habitus esplicativo.

La poetica di Antonioni fa propria la medesima esigenza, non si accosta all’animo umano suggerendo verità universali, bensì tratteggia i caratteri di una mente, di una relazione, mantenendo come riferimento costante l’ambiente esistenziale ed emotivo nel quale ha preso forma quell’esperienza.

Ne “La notte” Antonioni descrive la parabola di una relazione coniugale che nelle ore che dividono un tramonto dall’alba successiva si scopre svuotata, strappata di senso, priva di autentica speranza. Non ci sono litigi accesi ma silenzi che accrescono il frastuono di una festa, non vediamo alzarsi la tonalità emotiva che semmai si abbandona alla ricerca di una solitudine all’improvviso inevitabile se non addirittura provvidenziale. E assistiamo al lento vagabondare, nella periferia della metropoli, di un personaggio che per ciascuno di noi può essere uomo o donna, giovane o adulto. Il senso aperto, appunto. Non sappiamo, né il film ce lo svela con precisione, quale sia il reale stato d’animo dei protagonisti: si mostrano a noi smarriti, annoiati ma la loro potrebbe essere la rabbia di un fallimento, la tristezza per un progetto esistenziale naufragato, la paura di non riuscire a trovare uno scopo alternativo sul quale elaborare un tema di vita più evoluto.

I personaggi di Antonioni si aprono alla nostra interpretazione attraverso sguardi sottili, dialoghi essenziali e quasi lunari, come i paesaggi della città che si perde nelle sue architetture alienate; gli uomini e le donne dell’incomunicabilità si toccano e si lasciano come per inerzia, alludono al vuoto che li pervade ma non sanno quale forma conferirgli realmente, non sanno come condividerlo affinché diventi meno spaventoso. E’ questa, di fatto, l’incomunicabilità. Ogni protagonista procede lungo un sentiero che lo conduce a smarrire gli elementi fondamentali delle proprie certezze e perde progressivamente contatto con i compagni di viaggio, osservandoli sempre più da lontano mentre a loro volta affrontano interrogativi senza risposta. Antonioni racconta l’avvento di una società complessa, nella quale si moltiplicano i bisogni relazionali e la frustrazione di non riuscire a soddisfarli; l’essere umano si ritrova a fronteggiare compiti evolutivi spesso sfuggenti, poiché accanto all’esigenza di costruire e mantenere una propria individualità emerge la necessità di adattarsi ad un contesto sociale nel quale lo sguardo dell’altro diviene sempre più penetrante.

Kill Me Please, Suicidio Assistito e le nuove frontiere del Controllo. - Immagine: © 2012 Costanza Prinetti
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Le convenzioni vacillano, i codici comunicativi condivisi devono essere rinegoziati e le relazioni non sono pronte ad accogliere desideri, pulsioni, movimenti un tempo non previsti: e’ il caso della vicenda narrata ne “La notte”. In questa incertezza prende forma una terra di nessuno, all’interno della quale le persone non comprendono cosa sia richiesto loro e quale spazio debbano occupare le istanze più intime, più private. Affiorano nuovi scopi esistenziali ma ancora nebulosi, che si confondono con le strutture precedentemente assunte come pilastri; il conflitto fra dimensione interna ed esterna, bisogni riconosciuti e spinte evolutive più difficili da collocare nel contesto dei sentimenti accettabili, pone l’individuo dinanzi alla necessita’ di comunicare qualcosa che non può ancora congiungersi a parole affidabili.

Il senso e’ ancora prevalentemente emotivo, incostante, alienato da moti contrapposti, la consapevolezza non ancora chiara; la percezione soggettiva induce ad allontanarsi ma ancora bisogna comprendere da chi e per quale ragione. E’ questa l’incomunicabilità di Antonioni, la sua analisi del mondo umano sorto nel periodo più contraddittorio del secolo più sconvolgente, nei significati inconciliabili di un’umanità divisa e confusa, atterrita dalle più grandi tragedie della storia appena consumatesi e trascinata verso un progresso rapido ma disturbante. Nell’opera di questo regista per molti aspetti rivoluzionario osserviamo nitidamente alcuni concetti che sarebbero diventati sempre più centrali nella lettura delle dinamiche umane, su tutti la lotta per superare il disagio contemporaneo di relazioni parziali, convulse, sferzate dalla velocità dei mutamenti sociali e culturali che lasciano indietro il tempo interiore dell’uomo, la sua visione introspettiva, il suo passo talvolta stentato.

I Disturbi Alimentari e il Sistema di Ricompensa Dopaminergico

– Rassegna Stampa – Disturbi Alimentari e Neuroscienze

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze PsicologicheI risultati di uno studio recentemente pubblicato dalla University of Colorado School of Medicine suggeriscono che la disregolazione del comportamento alimentare, tipica dell’anoressia e dell’obesità, sia legata al sistema dopaminergico di ricompensa cerebrale, lo stesso coinvolto anche nelle dipendenze.

Un team di ricercatori ha usato la risonanza magnetica funzionale (fMRI) per esaminare l’attività cerebrale in 63 donne, anoressiche o obese, e compararla con quella di donne normopeso. Le prove sperimentali sono state studiate in modo da sollecitare i circuiti cerebrali implicati nella ricompensa: le partecipanti venivano condizionate ad associare alcune forme a una bevanda dolce o non-dolce, quindi ricevevano la bevanda attesa o quella inattesa.

Edimburgh - Immagine: Creative Commons - Attribution: By Yo (foto hecha por mí) [GFDL (www.gnu.org/copyleft/fdl.html) or CC-BY-SA-3.0-2.5-2.0-1.0 (www.creativecommons.org/licenses/by-sa/3.0)], via Wikimedia Commons
Articolo consigliato: EDRS 2011: le Neuroscienze all'assalto dei Disturbi Alimentari.

I risultati indicano che un inaspettato sapore dolce provoca nelle anoressiche un aumento di attivazione dei sistemi di ricompensa, il circuito risulta invece desensibilizzato nelle pazienti obese. Come nei roditori, la restrizione alimentare e la perdita di peso sono associate a maggior rilascio di dopamina in risposta alla ricompensa.

E ‘chiaro che negli esseri umani il sistema di ricompensa del cervello aiuta a regolare l’assunzione di cibo“, ha detto Guido Frank, ricercatore a capo dello studio, e aggiunge “Il ruolo specifico di queste reti nei disturbi alimentari come l’anoressia nervosa e l’obesità, rimane ancora poco chiaro, per questo sono necessarie ulteriori ricerche in questo settore.

 

 

BIBLIOGRAFIA:  

Psicoterapia: Il Disputing Logico-Empirico alla Beck – Parte 2

 

Secondo Clark e Beck (2010) il disputing logico-empirico della minaccia temuta dal paziente ansioso va articolato in 4 variabili: stima della probabilità, della gravità, della vulnerabilità e della sicurezza.

  • Psicoterapia: Il Disputing Logico-Empirico alla Beck – Parte 2. - Immagine: © Itaca55 - Fotolia.comStima della probabilità: siamo in grado di definire con esattezza, la minaccia? Di definire il danno che ne verrebbe? E di stimarne la probabilità di realizzazione? Dove, quando e come avverrebbe? E a quali condizioni?
  • Stima della gravità: definire con esattezza la minaccia significa anche valutarne con precisione la gravità del problema. Una minaccia può essere reale, ma in fondo poco pericolosa o molto meno pericolosa di quel che sembra. Spesso la gravità di una minaccia è sopravvalutata. Non dobbiamo scambiare la realtà di una minaccia con la sua pericolosità.
  • Stima della vulnerabilità: quanto siamo vulnerabili? Lo abbiamo valutato? Spesso scambiamo la presenza di una minaccia con la nostra vulnerabilità ad essa. Siccome una minaccia esiste, allora siamo vulnerabili. Invece no. Sono due variabili distinte. Una minaccia può esistere e noi possiamo essere poco vulnerabili a essa. Questo è un errore cognitivo piuttosto comune e diffuso.
  • Stima della sicurezza: ancora diversa dalla vulnerabilità è la nostra sicurezza personale, che dipende da fattori esterni e non dalla vulnerabilità personale. Anche in questo caso si tratta di una variabile facilmente trascurata e sottovalutata.

 

Questi aspetti dell’ansia possono essere affrontati direttamente, oppure prendendo in considerazione altri parametri altrettanto promettenti per una buona terapia cognitiva. La normalizzazione dell’ansia si articola in tre componenti (Beck, 1985):

Disputing Monografia
MONOGRAFIA: Il Disputing in Psicoterapia

Normalizzazione rispetto agli altri. Una delle convinzioni che catastrofizza i timore del soggetto ansioso è la convinzione che gli altri non condividano le sue paure e che egli sia l’unico al mondo o dei pochissimi a soffrire di ansie e paure. Farlo riflettere su episodi in cui egli ha potuto intuire che anche gli altri siano soggetti alle stesse sue paure o a simili timori lo aiuta a diminuire l‘estremo pessimismo delle sue valutazioni.

Normalizzazione rispetto al passato. Esplorare il passato facilita nel paziente la consapevolezza che minacce simili a quelle temute nel presente si sono presentate nel passato e sono state gestite in maniera accettabile.

Normalizzazione rispetto alle situazioni. Una volta che il paziente ha imparato a individuare le situazioni ansiogene, diventa possibile trovare situazioni simili che però sono gestite in maniera migliore o comunque in modo meno disfunzionale. Il paziente può quindi tentare di applicare questo modello anche alle situazioni legate ai suoi timori ansiosi.

Un’altra articolazione cognitiva del pensiero ansioso lo troviamo nei 4 parametri del pensiero negativo di Robichaud e Dugas (2005a, 2005b):

a) Percezione dei problemi come minaccia al benessere;

b) Dubbi d’inefficacia nella capacità di problem-solving;

c) Tendenza pessimista sugli esiti;

d) Bassa tolleranza alla frustrazione.

Anche questi parametri offrono buone opportunità per un disputing logico-empirico alla Beck. Il più originale è il primo. Infatti possiamo utilizzare la “percezione dei problemi come minaccia al benessere” come base per incoraggiare il paziente a capire che egli scambia la semplice e normale presenza di problemi per minacce. L’ansia è un segnale, un segnale che ci sono problemi, problemi da risolvere. In presenza di ansia la domanda da porsi è:

“Qual è il problema che devo affrontare?” E non: “Qual è la minaccia che devo evitare?”

Gli altri tre parametri sono meno originali e a essi si può applicare il disputing logico empirico alla Beck o quello pragmatico alla Ellis.

I dubbi d’inefficacia nella capacità di problem-solving vanno a loro volta sottoposti a critica. Perché il paziente ritiene di non essere in grado di risolvere i problemi? In base a quali valutazioni, a quali ragionamenti? Ragionamento analogo per la “tendenza pessimista sugli esiti”. In base a cosa il paziente pensa che l’esito sarà negativo? Infine, per la “bassa tolleranza alla frustrazione” valgono i suggerimenti di Albert Ellis.

 

 

BIBLIOGRAFIA: 

  • Beck, A. T., Emery, G., Greenberg, R. L. (1085). Anxiety disorders and phobias: A cognitive perspective. New York: Basic Books.
  • Clark, D. A., Beck, A. T. (2010). Cognitive Therapy of Anxiety Disorders. Science and Practice. New York: The Guilford Press.
  • Robichaud, M., & Dugas, M. (2005a). Negative problem orientation (Part I): Psychometric properties of a new measure. Behaviour Research and Therapy, 43, 391-401.
  • Robichaud, M., & Dugas, M. (2005b). Negative problem orientation (Part II): Psychometric properties of a new measure. Behaviour Research and Therapy, 43, 403-412.

Storie di Terapie #7 – Tredici centimetri e mezzo di Enrico

Nei casi clinici che seguono, l’arrosto sostanzioso dei vari pazienti è condito con il sugo della fantasia, per rendere non identificabili le persone e la lettura più avvincente. Spesso ho condensato in un solo paziente più persone e, quasi sempre ci sono scappati pezzetti di me stesso.    Leggi l’introduzione    

 

#7 – Tredici centimetri e mezzo di Enrico

 

 

Mi è capitato più volte di provare imbarazzo nel riconoscermi appartenente alla specie umana e, segnatamente, al genere maschile. Di solito ciò mi è capitato di fronte ai crimini sessuali, alcune perversioni ed abusi in cui i maschi superano sempre di gran lunga le donne. Dovevo però aspettare di diventare anziano per provare il disgusto verso la mascolinità che l’incontro con Enrico mi procurò. L’invio mi fu fatto da un collega amico, che ricordava il mio passato di sessuologo.

In effetti, Enrico presentava il problema di una disfunzione sessuale, in realtà Enrico era interamente una disfunzione sessuale; tecnicamente trattavasi di “ impotenza situazionale”.

Il padreterno non era stato generoso con lui che sembrava assemblato con pezzi di scarto: basso quanto basta per averne il complesso e sentirsi inferiore, occhi piccoli da pesce del lunedì, capelli radi grigio topo e impomatati, naso oversize con bitorzoli e colorito violaceo, colorito giallo verdognolo tendente a Shrek, totale assenza dell’apparato muscolare oltre a quello atto a mantenerlo seduto e, per finire, alitosi da distruzione di massa.

Storie di Terapie - © Athanasia Nomikou - Fotolia.com
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Enrico, forse per compensare l’aspetto orribile, o per sottolineare la comune amicizia con l’inviante, mostra una confidenzialità molto invadente. Mi ricredo immediatamente: il suo problema non è la bruttezza, ma la talentuosa antipatia. Tenta di compensare la sua goffaggine con l’applicazione stereotipata di regole di buona creanza che trasmettono un’idea di falsità, generatrice di imbarazzo. Questa mancanza di naturalezza e di senso comune avrebbe dovuto farmi accendere la spia rossa che indica il sospetto di psicosi, ma non accadde.

Il problema dichiarato da Enrico era il suo pene che funzionava a fasi alterne provocandogli un’ansia incontenibile, evitamenti delle situazioni potenzialmente erotiche ed un consumo industriale di Viagra e suoi derivati, pericoloso per il suo cuore già infartuato tre anni prima, a quarantun’anni. La raccolta della storia fu ostacolata dai continui richiami di Enrico al qui ed ora del suo pene capriccioso.

Nasce in una cittadina del sud, primo di tre figli di cui la seconda femmina. Il padre è un piccolo imprenditore molto conosciuto e in odore di camorra, violento con i figli che picchia selvaggiamente ad ogni presunta mancanza di rispetto. Tradisce spudoratamente la madre e si vanta con i figli maschi delle sue proverbiali prestazioni sessuali, insegna ai figli che il valore di un uomo lo si misura dalla lunghezza e durezza del suo pene. La madre è sconfitta e umiliata, ma resta in famiglia perché teme di lasciare la figlia femmina con il padre; il possibile abuso rispetto alla figlia femmina è considerato una possibilità reale, se non probabile.

Sesso & Coppia: Riaccendere la Passione quando il Viagra non basta. - Immagine: © mipan - Fotolia.com
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Il padre si rovina completamente per il gioco d’azzardo e, a quarantott’anni, viene trovato morto, un mattino, sulla via di casa. Enrico dice essersi trattato di un infarto, ma molte chiacchiere sono girate in paese. Della morte del padre non ha particolari ricordi, se non quello di una liberazione dal suo controllo svalutante su tutte le sue prestazioni.

Durante tutto il periodo scolastico Enrico è tormentato da pensieri ossessivi e compulsioni. Le ossessioni riguardano soprattutto la possibilità di avere la forfora o il sudore ascellare, ciò lo renderebbe disgustoso e non potrebbe “scoparsi” tutte le ragazze che vuole. Se ciò non avvenisse nessuno lo rispetterebbe e tutto il paese lo deriderebbe.

Finita ragioneria si fidanza con Rosa, la sua attuale moglie. Quando gli chiedo di raccontarmi del suo matrimonio fa una sintesi stringata: per i primi tre mesi ha avuto difficoltà nei rapporti sessuali, poi ha preso il via e tutto andava bene senza aiutini, se si eccettua il ricorso a stimolazioni orali. Non si è mai chiesto se la moglie abbia l’orgasmo, ma dice che non si è lamentata mai anzi, dopo il coito, la coppia si concede un altro rapporto orale.

Enrico, che sottovaluta continuamente ogni segno psicopatologico e, mentendo, dice che le ossessioni sono ormai poca cosa, mi racconta la prima importante crisi, ma sempre sminuendone la portata.

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Dopo tre anni di matrimonio, quando il primo figlio ha sei mesi, gli capita, durante una trasferta, di avere un approccio sessuale con una collega a lui sottoposta. Naturalmente non dice nulla alla moglie, ma al primo tentativo di rapporto sessuale con la consorte perde subito l’erezione, dopo il pretrattamento orale. E’ la prima volta che gli succede.

Tentare di indagare le emozioni che precedettero (colpa?) e seguirono (ansia? tristezza?) l’episodio di impotenza è come chiedere ad un tavolino il senso della poetica di Dante.

I fatti successivi, però, li ricorda. Esce di casa, raggiunge la piazza del paese, è pronto a dar battaglia se vedrà dei capannelli di gente che lo deride. Essendo notte fonda non incontra nessuno, ma sa con certezza che, dietro le finestre illuminate e quelle falsamente buie, non si parla d’altro.

Poi i suoi ricordi iniziano a riorganizzarsi dal momento in cui lo zio materno, psichiatra, viene a prenderlo in SPDC (Servizio Psichiatrico per la Diagnosi e Cura), assumendosi la responsabilità della dimissione. Lo zio, per tre mesi, gli somministra forti neurolettici; da allora li ha smessi solo dopo l’infarto, per lasciar spazio alla terapia cardioprotettiva. Sei mesi fa è nato il suo secondo figlio e lui ha consapevolmente pensato che, considerata l’astinenza con la moglie nell’ultimo periodo di gravidanza e nel puerperio, poteva essere il momento adatto per farsi qualche bella scopata extra e non solo le solite seghe con cui tiene in allenamento il meccanismo, “svuotandosi” almeno tre volte a settimana.

La scelta cadde su Stefania, una collega nota per i dissapori con il suo partner e la spregiudicatezza sessuale. Solo molto tempo dopo ciò gli apparirà come una serissima minaccia: Enrico dichiara apertamente di essere preoccupato di un possibile coinvolgimento affettivo, che Stefania dimostrerà sin dall’inizio e gli chiederà. Per lui, invece, Stefania è solo tutto ciò che sta intorno alla sua fica, l’unica emozione che sente nei suoi confronti è il timore del giudizio.

Perciò si organizza con accuratezza e, prima ancora di tentare un approccio, va a visita dal cardiologo per concordare il dosaggio massimo e le modalità di assunzione del Viagra. Gli faccio notare che non c’era stato nessun fallimento, ma lui ribatte che prevenire è meglio che curare e che la prima impressione è quella che conta. Affitta una casa fuori città per la moglie e i figli, in modo che possano fare due mesi di mare, impegnandosi a raggiungerli nei fine settimana

Viene in terapia da me per due motivi.

Poiché le prestazioni “viagrasostenute” sono state davvero buone, non sa come fare per continuare a stupire Stefania. Ha aumentato progressivamente la dose fino a quella massima consentita e non sa cos’altro inventarsi senza rischiare un infarto.

In secondo luogo vorrebbe capire cosa siano quelle attenzioni affettive che Stefania gli chiede e che lui connota come “tutte quelle smorfiose sciocchezze che si fanno per ottenere la fica.

Storie di Terapie #6 – Sesso & Potere: il caso di Matteo. - Immagine: © Vladimyr Adadurov - Fotolia.com
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Vuole che gli insegni a recitare. Attraverso una serie di confidenti infiltrate tra le amicizie di Stefania, sa che lei parla molto bene del loro rapporto ed è terrorizzato che si possa sapere che non è lui, ma il viagra. Se una cosa del genere si sapesse in ufficio, perderebbe ogni dignità e si darebbe volontariamente la morte. Poiché il nonno paterno lo ha fatto veramente, questa dichiarazione non mi lascia affatto tranquillo e insisto per l’assunzione di serotoninergici che, gli dico, avranno anche l’effetto collaterale di ritardare l’eiaculazione. Accetta con gioia.

Stavo per suggerirgli di non intrapendere la psicoterapia e di continuare con il trattamento di viagra e con il solo serotoninergico, poiché ritenevo del tutto inutile una psicoterapia essendo chiaramente di fronte ad una assenza della psiche stessa, quando mi raccontò due fatti significativi.

 

E’ brutto ammetterlo ma, fino a quel momento, mi stavo terribilmente annoiando e credo fossi finito  in un circolo vizioso: più lo trovavo noioso e forse, mi duole ammetterlo, lo giudicavo negativamente, meno lo guardavo con interesse, ma era proprio questo disinteresse a generare la noia.

I due particolari invece mi diedero la misura della sua sofferenza e riattivarono l’interesse.

Quando aveva sette anni Enrico era già un onanista professionista e si identificava completamente con il suo pene. A dispetto della presunta legge (certamente inventata e diffusa ad arte dai bassi di statura) per cui la lunghezza del pene è inversamente proporzionale all’altezza, lui era basso e il suo pene arrivava, se ben stirato, a soli undici centimetri.

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In quinta elementare, per essersi rifiutato di cedere la sua merenda al boss della classe, fu sottoposto alla pratica della “stira”: gettato per terra nel cortile della scuola e tenuto fermo dai compari del boss, gli furono tolti i pantaloni e stirato il pene davanti a tutti per mostrarne la pochezza, finchè non chiese perdono e cedette la merenda. Ricorda ancora con vividezza il sentimento di umiliazione che lo pervase e la rabbia nei confronti del padre che, saputa la vicenda, lo sgridò a sua volta per non aver fatto rispettare il suo glorioso cognome. Ma non tutto il male vien per nuocere: in una misurazione nei giorni successivi si accorse che il pene aveva raggiunto i dodici centimetri. Iniziò dunque una serrata terapia consistente in uno stiramento quotidiano del pene. Pensò anche di attaccarci dei pesi che lo tenessero in tensione durante il sonno, ma il marchingegno ideato era troppo vistoso e dovette rimandare il progetto a quando avrebbe vissuto da solo. Si limitava dunque a violente strattonate in bagno ogni volta che doveva urinare e a due sedute di allungamento prima e dopo la masturbazione serale a letto. Faceva ciò con la meticolosità ossessiva che lo avrebbe accompagnato per sempre e iniziava allora a manifestarsi.

A quattordici anni Enrico era un ragazzo mingherlino di un metro e sessantatré centimetri di statura, ma con ben tredici centimetri e mezzo di pene. Ora nessuno lo avrebbe più preso in giro, secondo l’ enciclopedia “Conoscere il corpo umano” rientrava nella media dei ragazzi italiani che andavano da tredici a diciassette centimetri.

L’altro fatto che riaccese il mio interesse fu il motivo che lo spingeva a chiedere una terapia. A lui non interessava affatto godere di più la vita sessuale, per la verità non ne aveva mai goduto e non gli importava nulla. Ogni rapporto che doveva affrontare era un compito gravoso che gli generava prima un senso di preoccupazione e dopo, se tutto era andato bene, un senso di sollievo al pensiero che poteva concedersi un po’ di tempo di pausa prima di doversi ripresentare per un nuovo esame.

Si era cacciato nella storia extraconiugale con Stefania semplicemente perché, a suo avviso, un dirigente del suo livello deve avere famiglia e figli per evitare che si pensi che sia frocio e avere un’amante che ne decanti segretamente le sue doti amatorie durante le pause pranzo.

La trappola era scattata quando si era accorto che, da un lato Stefania si stava coinvolgendo e lo chiamava a manifestazioni affettive che lo trovavano del tutto impreparato e per le quali chiedeva suggerimenti, dall’altro lei era molto più scaltra di lui sessualmente e chiedeva molto.

La percepiva come esigente e giudicante e non trovava con lei quella rassicurante routine che permettevano ai suoi tredici centimetri e mezzo di dare il meglio di sé nel letto coniugale con Rosa, nell’intervallo tra il pompino d’apertura di incoraggiamento e quello finale di ringraziamento per la prova superata.

Valutammo con lui i vantaggi e i rischi delle due alternative contrapposte dove la prima consisteva nel fare outing con tutti sulle sue difficoltà sessuali e verificare quanti davvero gli avrebbero voltato le spalle e quanti invece avrebbero continuato ad amarlo per quello che era. Il rischio era di perdere qualcuno e qualche punto di stima, ma il vantaggio era di smettere questa faticosissima rincorsa, i camuffamenti, i calcoli orari per l’assunzione di nascosto della pasticchina-salva-stima-sociale e di riportare la sessualità nella categoria dei piaceri da quella dei lavori forzati in cui si trovava.

L’altra alternativa era di continuare così, aumentando costantemente il sostegno chimico per raggiungere nuovi record. Aveva pensato anche a due exit strategy da questa seconda alternativa: una prima ipotesi prevedeva che, raggiunto l’apice della notorietà come incontenibile stallone, avrebbe potuto chiedere il trasferimento in altra sede. Lì la sua fama lo avrebbe preceduto, ma lui non si sarebbe lanciato in nessuna avventura, conservando intatto il patrimonio accumulato. La seconda ipotesi prevedeva che, un giorno, il suo cuore già malandato avrebbe ceduto durante un amplesso dopato dal viagra con la vogliosa Stefania, ma cosa c’era di meglio di un’ uscita di scena del genere? Sarebbe stato come per un attore morire a sipario aperto, il mitico Enrico che “morì sulla botta”, tanto la moglie e i figli, pur venendone a conoscenza, non avrebbero potuto fargli ritorsioni di sorta.

La terapia andò avanti per altri sei mesi fino a quando fu miracolosamente liberato: Stefania rimase incinta del suo compagno (Enrico si era vasectomizzato dopo la seconda gravidanza della moglie perché il numero giusto di figli per un dirigente è due, uno per sesso, come i suoi) e decise di porre fine alla relazione.

Mi ringraziò come gli avessi salvato la vita. Ora lui non vedeva altri motivi per continuare la terapia. Anch’io ebbi il dubbio se, più in generale, continuare la professione di psicoterapeuta, ma “ tengo famiglia”.

La Depressione e il modo in cui si utilizza Internet

– Rassegna Stampa – 

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze PsicologicheUna nuova ricerca condotta alla Missouri University of Science and Technology ha analizzato l’uso di Internet tra gli studenti universitari; sembra che gli studenti depressi tendano a navigare sul web in modo più casuale degli altri, passando tra applicazioni diverse, ad esempio, utilizzando servizi di file sharing più dei loro compagni, e inviando e-mail e chattando on-line più degli altri studenti. Gli studenti che mostrano segni di depressione hanno anche la tendenza a utilizzare applicazioni a banda larga, spesso associate a video on-line e giochi.

Psicologia e Tecnologia: nuova App per Smartphones contro la Depressione. - Immagine: © 2012 Costanza Prinetti
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Lo studio è il primo nel suo genere che utilizza dati reali, raccolti in internet in modo discreto e anonimo: i ricercatori hanno raccolto in forma anonima un mese di dati sul comportamento in Internet di 216 studenti universitari. Gli studenti sono stati testati anche per la presenza di segni di depressione e circa il 30 per cento di loro ha raggiunto i criteri per una depressione lieve. I ricercatori hanno poi analizzato i dati relativi al comportamento in rete e hanno scoperto che gli studenti che mostravano segni di depressione hanno utilizzato Internet in modo molto diverso rispetto agli altri partecipanti allo studio. Chellappan, ricercatore a capo dello studio, pensa che la casualità del comportamento in rete rifletta la difficoltà di concentrazione, una caratteristica associata alla depressione.

L’obiettivo di Chellappan adesso è di utilizzare questi risultati per sviluppare un software che, installato sul computer di casa, aiuti, discretamente, a determinare quando un certo modo di usare la rete può indicare segni di depressione; il software potrebbe anche consigliare di consultare un medico o informare direttamente i counselor degli studenti nei campus universitari di situazioni a rischio.

 

 

BIBLIOGRAFIA: 

  • Raghavendra Kotikalapudi, Sriram Chellappan, Frances Montgomery, Donald Wunsch and Karl Lutzen. Associating Depressive Symptoms in College Students with Internet Usage Using Real Internet Data. IEEE Technology and Society Magazine, 2012

Psichiatria Pubblica: Riaprono i Manicomi?

Sandra Sassaroli e Giovanni M. Ruggiero

 

Riaprono i Manicomi? - Immagine: © arquiplay77 - Fotolia.comL’articolo appena approvato dalla Commissione per la riforma della legge Basaglia fa già litigare molti (LINK Articolo su La Stampa). Si tratta dell’istituzione di un trattamento extra-ospedaliero senza consenso del paziente e prolungabile fino a un anno.

Gli schieramenti politici hanno già fatto esplodere il confronto, inevitabilmente con toni forti ed estremi. È vero che i rischi di una simile novità sono evidenti: il trattamento diventa definitivamente possibile senza il consenso del paziente e si può prolungare per tempi medio-lunghi, fino a un anno. È qualcosa che effettivamente può somigliare a una riapertura dei manicomi. È legittimo temere che possa essere un prima passo in quella direzione. Un rischio da cui guardarsi.

 

La chiusura dei manicomi criminali - OPG (Ospedale Psichiatrico Giudiziario) - Immagine: © victor zastol'skiy - Fotolia.com -
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Però è anche vero che ogni operatore sa che questo tipo di ricovero prolungato per alcuni pazienti è inevitabile e che il consenso del paziente in questi casi non sempre è possibile. E stiamo parlando di pazienti che a volte rischiano la vitaCome ad esempio le pazienti anoressiche: le più gravi di loro, quelle che davvero sono a rischio vita, non sono consenzienti.

Inoltre il trattamento prolungato in strutture non territoriali (ovvero, senza lasciare il paziente a casa sua) nella pratica già esiste. Teoricamente esso avviene con il consenso volontariamente concesso dal paziente, almeno in termini legali. Ma da un punto di vista pratico esso prende piuttosto la forma di un dissenso non esplicito. Il paziente subisce il ricovero e le circostanze lo dissuadono dall’esporre il suo disaccordo. Paradossalmente questo può incrementare il margine di arbitrarietà, poiché il personale medico e giuridico non è obbligato a giustificare l’obbligatorietà del provvedimento di ricovero, dato che il consenso è dato per scontato. Una nuova cornice giuridica che ponga fine a questa ambiguità avrebbe un effetto positivo: obbligherebbe medici, sindaci e magistrati a dover giustificare giuridicamente in atti legali espliciti la loro decisione di ricoverare una persona contro la sua volontà.

La chiusura degli OPG: una speranza di civiltà. - Immagine: © tribalium81 - Fotolia.com -
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Inoltre non dimentichiamo che gli abusi del manicomio erano legati a un servizio sanitario molto più degradato e inferiore di quello attuale e una società molto più feroce di quella odierna. Una società in cui era facile e comune liberarsi di un parente fastidioso ricoverandolo in manicomio. Oggi non è più così. Oggi si parla di ricoveri di non più di un anno in comunità terapeutiche di qualità e vivibilità immensamente superiori rispetto ai vecchi manicomi. Comunità in cui il paziente ha a disposizione mille attività ricreative e ha la possibilità di uscire e passeggiare in luoghi molto migliori dei quartieri degradati di periferia in cui spesso vive ed è cresciuto. Le comunità terapeutiche moderne sono localizzate in campagna e nella prossimità di piccoli paesi nei quali socializzano con i locali. Stiamo pensando all’esperienza delle comunità terapeutiche bergamasche, nelle quali uno degli autori di questo articolo ha potuto lavorare.

Questi sono i due corni del dilemma. Per ora non aggiungiamo altro, se non la nostra attonita perplessità di fronte alla complessità di questi problemi. Siamo consapevoli che in questi casi diventa troppo facile comprendere tutte le ragioni.

Concludiamo osservando che rimane comunque giusto conservare degli argini, morali e legali, contro i rischi di abuso del ricovero coatto.

 

 

BIBLIOGRAFIA: 

Qualità di vita nei malati di Huntington

Elisabetta Caletti. Psicologa e volontaria AICH MILANO Onlus

 

Qualità di vita nei malati di . - Immagine: © fontriel - Fotolia.comAccertare la natura soggettiva del concetto di qualità di vita legato alla salute è quanto mai necessario in malattie dove la sintomatologia può portare a importanti limitazioni nello svolgersi della normale vita quotidiana. Tuttavia il grado d’impatto dei sintomi sulla vita, potrebbe variare secondo le persone, a volte in un modo non linearmente prevedibile in base alla compromissione della funzionalità motoria, cognitiva e psichica.

Nello studio di Hocaoglu et al. (2012) sono state prese in considerazione 105 coppie di pazienti e i loro caregiver, che hanno completato il questionario sulla qualità della vita correlata alla salute nella malattia di Huntington (HDQoL), uno strumento risultato valido e affidabile per quantificare l’esperienza di cura anche al fine di implementare e valutare gli interventi terapeutici, sviluppato dagli stessi autori con l’intento di cogliere il vero impatto del vivere con la malattia di Huntington. I pazienti sono stati suddivisi in gruppi, sulla base di 5 tappe principali di progressione della malattia:

  • Stadio iniziale (1) – le persone sperimentano cambiamento dell’umore e del controllo motorio mentre rimane intatta la funzionalità a casa e al lavoro
  • Stadio moderato (2 e 3) – la corea diventa più pronunciata, vengono sperimentate difficoltà nel pensiero, nel ragionamento, nel linguaggio e nella deglutizione. Gli individui possono ancora essere in grado di lavorare ma a un livello inferiore, oppure (stadio 3) non possono più lavorare e avere bisogno di assistenza nelle attività giornaliere
  • Stadio avanzato (4 e 5) – i pazienti con HD non sono più capaci di eseguire indipendentemente le attività quotidiane e richiedono l’assistenza di un caregiver a casa (stadio 4), o richiedono assistenza infermieristica (stadio 5).
Le reazioni psicologiche dei pazienti con scompenso cardiaco - Immagine: © Petr Vaclavek - Fotolia.com -
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Nel lavoro di Hocaoglu e colleghi sono state prese in considerazione anche persone con mutazione critica ma non ancora sintomatica e persone a rischio (ossia un membro di famiglia di HD ma con status genetico non ancora conosciuto).

Lo studio ha dimostrato un buon accordo tra paziente e caregiver, soprattutto nello stadio avanzato della malattia. È tuttavia interessante notare come la correlazione tra paziente-caregiver sia più bassa nello stadio di malattia moderato rispetto agli stadi iniziali e avanzati. In particolare, i caregiver riportavano una migliore valutazione rispetto ai pazienti nelle scale “Speranze” e “Preoccupazioni” mentre riferivano una peggior percezione dello stato cognitivo, fisico e funzionale. La dimensione Speranze e Preoccupazioni potrebbe quindi essere particolarmente difficoltosa da interpretare, forse molto più interiorizzata di altre dimensioni psicosociali, che mette in luce pertanto un minore accordo paziente-caregiver rispetto a dimensioni fisiche più obiettive.

Il risultato potrebbe essere spiegato perché vi è maggiore variabilità e velocità di progressione della malattia nello stadio moderato se comparati con le altre fasi di malattia; i soggetti in questo stadio (stadi 2 e 3) sarebbero il gruppo più eterogeneo e più mutevole col tempo, costituendo così una difficoltà nei loro caregiver di formarsi giudizi stabili. Quello che emerge è che lo stadio moderato della malattia può essere particolarmente complesso per i pazienti che cominciano a sperimentare un ribasso fisico e psicologico che loro e la loro famiglia, hanno lungamente temuto. È stato anche constatato che le stime dei caregiver degli aspetti psicosociali di HrQoL risultavano sensibili allo stato psicologico dei pazienti, così come la gravità dei sintomi. Concludendo, l’indicazione HRQL da parte del caregiver non può sostituire il report del paziente nello stadio moderato della malattia; viceversa in virtù del buon accordo evidenziato nello stadio avanzato, la valutazione del caregiver con il questionario HDQoL potrebbe essere particolarmente utile e complementare al self-report. Infatti, il resoconto del caregiver potrebbe essere l’unico punto d’informazione possibile quando il paziente può non essere in grado di riportare il suo effettivo HRQL o semplicemente non essere in grado di completare il questionario a causa dell’impairment motorio o cognitivo prodotto dalla malattia nella fase avanzata.

 

 

BIBLIOGRAFIA:

Creatività Musicale e Intelligenza

Umberto Castiglione.

“Il processo creativo che interviene nell’attività artistica è curativo e arricchisce la vita”.

Creatività Musicale e Intelligenza. - Immagine: © puckillustrations - Fotolia.comNon deve sorprendere che questa idea sia costitutiva della musicoterapia, date le molte somiglianze fra processo creativo e processo terapeutico. Entrambi riguardano il trovare alternative nuove a vecchi modi di essere, pensare, sentire e interagire. Il processo creativo e quello terapeutico offrono l’occasione di esplorare e sperimentare nuove idee e modi di essere. Entrambi sono atti di innovazione , improvvisazione, trasformazione. In entrambi i processi interviene un incontro col sé più profondo: in musicoterapia l’incontro è mediato dalla musica e dall’esperienza di produrre arte.

Ritornando alla parola creatività, diversi studi e ricerche, hanno sottolineato il fatto che la creatività e intelligenza sono due funzioni distinte del pensiero: la creatività è espressione del pensiero divergente; l’intelligenza del pensiero convergente. Le caratteristiche del primo sono: mentalità aperta, insofferenza per le regole rigide, curiosità, indipendenza dal campo, flessibilità, complessità, avversione per l’ovvio e le stereotipie, abitudine a trovare problemi più che risolverli; il pensiero convergente, invece, è più regolare, più prevedibile, punta alla risoluzione del problema, è dipendente dal campo, più rigido e rispettoso delle regole, è meno fluido e meno flessibile.

Le Canzoni nei giardini che nessuno sa. Gruppo di Ascolto Musicale in Ospedale. - Immagine: © spiral - Fotolia.com
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Ormai è accertato che i diversi test di intelligenza, misurano il pensiero convergente (abitudine a trovare una soluzione ad un problema ed a prevederne le conseguenze), piuttosto che quello divergente (abitudine a trovare più soluzioni, a mettere in discussione lo stesso problema, a non accontentarsi dell’ovvio e dello scontato). Il pensiero divergente è quello che produce la creatività, quello convergente, rappresenta l’intelligenza misurata dai test. Pertanto con persone con deficit cognitivi, se stimoliamo la creatività potremo stimolare anche l’intelligenza; quindi sviluppando la creatività del bambino svilupperemo anche la sua l’intelligenza.

Nel corso della mia esperienza, ho realizzato, un programma di intervento che ha come scopo quello di insegnare ad apprendere e a pensare; l’obiettivo principe è quello di cercare di potenziare/sviluppare la struttura cognitiva sia nei soggetti non clinici sia nei soggetti con difficoltà di apprendimento, cercando di trasformare il loro stile cognitivo da passivo e dipendente in quello caratteristico di chi pensa in maniera autonoma. L’intervento ha come obiettivo quello di utilizzare il parametro “musicale” cercando di rendere il soggetto capace di apprendere nuove informazioni e di saperle utilizzare, di renderlo più efficiente nell’acquisizione di nuove tecniche e più capace di trovare vie ottimali alle risoluzioni dei problemi; in cui il soggetto viene esortato a diventare una persona, che percepisce attivamente e organizza la sua esperienza.

Il laboratorio, nasce dall’esigenza di sviluppare un apprendimento intrinseco , che miri allo sviluppo dell’auto-realizzazione della creatività della persona.(… perché egli possa aiutarsi da solo…).

Infatti come afferma E. H. Boxill lo scopo dell’educazione musicale è il raggiungimento di un’abilità musicale; mentre quello della musicoterapia, è il conseguimento di abilità di vita attraverso la modalità della musica. Nell’ambito dell’apprendimento intrinseco, si vuole dare importanza a l’essere o meglio al divenire creativi, chiamando in causa una serie di fenomeni rilevanti,come: saper progettare, pianificare , costruire, innovare, “saper fare” e “saper essere”….. che le metodologie e attività proposte, cercano di favorire.

Nel programma realizzato, vengono presentati una serie di eserciziproblem-solving, strumenti di apprendimento e giochi musicali i quali sviluppano, i diversi elementi della musica (timbro, altezza,intensità,durata…) e della teoria musicale (note, figure, pause, pentagramma, chiavi….): ogni tema sviluppa dieci stelle (dieci operazioni cognitive) rendendo quindi il soggetto più efficiente nell’acquisizione di nuove tecniche e informazioni, divenendo sempre più capace di trovare vie ottimali nel fronteggiare le diverse situazioni problematiche quotidiane. Le numerose attività musicali realizzate, sono utilizzate con il fine di aiutare la persona ad acquisire e trasferire determinati processi e strategie cognitive in altri ambiti di apprendimento e nelle diverse esperienze di vita, apprendendo quindi uno stile di vita che miri verso l’auto-realizzazione (…affinché egli possa aiutarsi da solo…)

Una scuola che educa a essere se stessi, anzi a “diventare” se stessi : a sviluppare al meglio le proprie risorse e le proprie tipicità affettive, intellettive, fisiche, estetiche, etiche, pratiche; dunque a costruire la propria autonomia. Il paradigma dinamico è un modello “autonomizzante”: aspira a far conquistare e padroneggiare i “mezzi” (10 operazioni cognitive) per orientarsi nel mondo, per agire positivamente, per compiere le proprie scelte, per decidere, per realizzarsi. Punta sulla realizzazione dell’io autentico, sull’intenzione critica con gli altri, sul cambiamento.

A noi tocca fornire all’allievo sia strumenti mentali, sia materiali diversi fra loro (fino al limite del brain-storming) tra i quali esercitare scelte per sviluppare il suo senso critico. Quanto la creatività musicale sia veicolo primario per la conquista dell’autonomia lo suggerisce il concetto di “Metacultura”; un’educazione metaculturale viene cioè a coincidere con la costruzione di uno spirito critico, antidogmatico. Si diventa autonomi, dunque , se si impara a decidere in proprio, a trovare soluzioni personali ai problemi, a offrire spazi espressivi alla propria interiorità.

In una parola a essere creativi !

 

 

BIBLIOGRAFIA

  • Malchiodi, A. (2009). Arteterapia: L’arte che cura. Giunti: Firenze
  • Boxill, E. (1991). La musicoterapia per bambini disabili. Omega: Torino.
  • Abbruzzese, A. (2000). Imparare dalle differenze. Suma: Bari

 

Contatta l’autore: [email protected] 

L’immagine di sé, la Pressione Sociale e i Disturbi Alimentari

– Rassegna Stampa – 

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze PsicologicheUn team di ricercatori della University of Arizona ha studiato i fattori che aiutano le donne ad avere un immagine del proprio corpo positiva allo scopo di prevenire il rischio di disturbi alimentari, così diffusi in molte culture occidentali contemporanee.

Lo studio si è concentrato sulle giovani studentesse del college, nella realtà sociale del college infatti l’apparenza è molto valorizzata e il continuo confronto con i pari può facilmente suscitare vergogna, imbarazzo e timidezza.

301 ragazze al primo anno di college hanno compilato questionari basati sul modello teorico Choate (Choate Theoretical Model), secondo questo modelloi il sostegno della famigla, insieme alla scarsa pressione per l’adeguamento a canoni estetici di bellezza, sono correlati al rifiuto dell’ideale di perfezione femminile, alla valorizzazione della abilità fisica e all’uso di strategie efficaci per contrastare lo stress; questi fattori sarebbero a loro volta associati al benessere e a un auto-immagine positiva.

I ricercatori hanno quindi applicato il modello Choate alla situazione di ‘vita reale’ e, come previsto dal modello, hanno visto che le ragazze che godevano di un buon supporto familiare, ed erano al riparo dalla pressione sociale e culturale di familiari, amici e media per il raggiungimento di canoni estetici di bellezza ideale, avevano effettivamente un’auto-immagine corporea migliore; le stesse ragazze hanno inoltre respinto l’ideale di superwoman e si sono dimostrate attrezzate delle competenze necessarie per affrontare lo stress.

Secondo gli autori questo studio fornisce alcune indicazioni per i programmi di prevenzione dei disturbi alimentari giovanili, che dovrebbero porsi l’obiettivo di aiutare le ragazze a prendere coscienza delle aspettative molteplici e spesso contraddittorie che la società contemporanea propone; insegnando loro ad utilizzare adeguate capacità di coping e promuovendo il senso positivo di competenza attraverso l’esercizio fisico e la salute psico-fisica. Aiutandole quindi a sviluppare un senso di autostima che non si basi solo sull’apparenza, ma che sia in grado di far fronte alle pressioni derivanti dalla famiglia, dagli amici o dai media.

 

 

BIBLIOGRAFIA: 

Affidamento condiviso: figli più sicuri ed equilibrati

 

Affidamento condiviso: figli più sicuri ed equilibrati. - Immagine: © pressmaster - Fotolia.comAttualmente sempre più frequenti sono le separazioni, i divorzi, le famiglie allargate e nel mondo occidentale il principio della bigenitorialità viene applicato con sempre maggiore vigore e intensità. 

Questo a partire dalla Convenzione sui diritti del fanciullo, fatta a New York il 20 Novembre 1989. Nel nostro paese, solo attraverso un lavoro faticoso, costato 4 legislature, si è riusciti a fare passare come forma prediletta l’affidamento condiviso. Uno degli ultimi disegni di legge, in Italia, relativo all’affidamento condiviso dei figli di genitori separati, risale al 16 novembre 2010 (ddl 2454). I punti salienti del nuovo disegno di legge comprendono:

A. Diritto del minore ad un rapporto effettivamente equilibrato con entrambi i genitori; cosa che non si realizza se il figlio trascorre con uno di essi poco più di un fine settimana al mese.

B. Presenza di un doppio domicilio; ovvero percepire come propria sia la casa del papà sia quella della mamma.

C. È importante che il minore percepisca che entrambi i genitori provvedono ai suoi bisogni, anche di tipo economico; quindi ricevere cura e accudimento da entrambi nella quotidianità.

D. Effettuare un percorso di mediazione parentale, prima che cominci la parte contenziosa.

 

Non imparo perché sono pigro o per dire qualcosa a mamma e papà? - Immagine: © olly - Fotolia.com -
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Questo passaggio legislativo è molto importante, se ben applicato, per la tutela e la salute dei figli di genitori separati.

Il minore oggi si trova all’interno di un percorso di crescita che comporta molte incertezze, per tale motivo è importante che possa fare riferimento in maniera indistinta ad entrambi i genitori. Molto spesso accade che in seguito alla separazione il figlio venga affidato in maniera prevalente ad uno dei due genitori (genitore “collocatario”, quindi prevalente nella cura e nel mantenimento del minore). Questo fenomeno può portare il minore ad identificare il genitore collocatario come unica figura di riferimento e ciò può ridurre la capacità genitoriale nell’affrontare l’incertezza evolutiva del bambino/ragazzo; può accadere infatti che l’altro genitore abbia poi difficoltà ad intervenire ed agire in modo efficace quando ad esempio il genitore di riferimento non è stato in grado di gestire aspetti critici nella cura, educazione e mantenimento del figlio/a.

Per questo motivo è importante promuovere il principio della bigenitorialità: la stabilità del minore non è data dalla stabilità logistica (cioè il fatto che il minore abbia come punto di riferimento una sola casa) ma dalla possibilità di poter godere nella quotidianità della presenza equilibrata di entrambi i genitori.

Tra gli studi più significativi possiamo riportare uno studio francese (G. Poussin, E Martin, 1999) il quale attesta che sono i bambini che vivono con entrambi i genitori a percepirsi più sicuri di se stessi se comparati con bambini che vivono con un solo genitore. In particolare, lo studio evidenzia come i bambini che vivono in un regime di residenza alternata abbiano livelli di autostima maggiori rispetto ai bambini che vivono in residenza monoparentale.

Altro studio interessante è quello condotto da Robert Bauserman per il Dipartimento della Salute Statunitense (Bauserman, 2002) nel quale sono stati analizzati un ampio numero di bambini residenti con un solo genitore e bambini con residenza alternata. L’indagine attribuisce ai bambini in residenza alternata un comportamento più adeguato rispetto alle norme scolastiche, un maggiore livello di autostima e una maggiore soddisfazione rispetto alle loro relazioni familiari.

Infine vi sono diversi studi, tra cui quello di Anna Sarkadi (2008) i quali mettono in evidenza come il coinvolgimento paterno, inteso come tempo di coabitazione, impegno e responsabilità, abbia influenze positive sullo sviluppo dei figli. In tale studio il coinvolgimento dei papà sembra migliorare lo sviluppo cognitivo, diminuire la delinquenza giovanile e ridurre la frequenza di problemi connotati come “comportamentali”.

 

BIBLIOGRAFIA:

  • G. Poussin, E.Martin Leubern “Consequences de la sèparation parentale chez l’enfant”, Editore Eres, 1999.
  • R. Bauserman, Child adjustament in Joint-Custody versus Sole Custody, Journal of family psychology, vol 16, March 2002.
  • Anna Sarkadi et al., Father’s involvement and children developmental outcomes: a systematic review of longitudinal studies, Acta Pediatrica 2008.

Il sé-concettualizzato: la maschera (scomoda) che indossiamo

 

Il sé-concettualizzato: la maschera (scomoda) che indossiamo. - Immagine: © olly - Fotolia.comVi è mai capitato di… dimenticare alcuni oggetti in giro? Non ascoltare ciò che viene detto da un’altra persona (magari qualcosa di importante)? Camminare mentre parlate al cellulare? Mangiare qualcosa guardando la tv e leggendo il giornale? Percorrere una strada a noi arcinota sovrappensiero, in modo automatico? Pensare a qualcosa che non sta succedendo in quell’esatto momento in cui la pensate? Non ricordarsi il nome di una persona che si è appena presentata?

Bene, benvenuti nel mondo degli sbadati, “senza testa”!

La quotidianità di tutti noi è fondata su queste piccole (e grandi) distrazioni. Freud li chiamerebbe “atti mancati, oggi noi cognitivisti le chiamiamo esperienze di “mindlessness”: letteralmente “senza mente”. Più precisamente, potremmo definire la mindlessness quell’insieme di comportamenti e/o pensieri che noi mettiamo in atto senza essere del tutto consapevoli a noi stessi nel momento stesso in cui li mettiamo in atto. Quando rifletto sulle mie (e dei miei pazienti) piccole esperienze di mindlessness, mi trovo a chiedermi sempre la stessa cosa:

E’ possibile che queste esperienze di mindlessness le mettiamo in atto anche quando ci troviamo a ricoprire un ruolo, ripetuto ricorsivamente a cui, sebbene dannoso per noi stessi, ci affezioniamo, nonostante ci porti talvolta solo molta sofferenza?

Il Controllo è il Problema, non la Soluzione. - Immagine: © somenski - Fotolia.com
Articolo consigliato: Il Controllo è il Problema, non la Soluzione.

Cercherò di spiegarmi meglio. Quante volte ci troviamo a sentire frasi del tipo: “sono sempre il solito stupido, il solito casinista, il solito pasticcione, il solito depressone, il solito ansioso, il solito guastafeste etc…

Queste sono le nostre trappole (o Schemi Maladattivi Precoci), per usare un termine da Schema Therapy (Young et al., 2003) o per dirla con Steven Hayes (2003), è il nostro sé-concettualizzato, la nostra maschera, talmente incollata alla pelle del nostro viso che ci scordiamo di averla addosso e diventa i nostri occhi, le nostre orecchie e la nostra bocca.

In breve, il sé concettualizzato contiene una descrizione complessa di noi stessi, a cui ci siamo affezionati e che presto diventa così cristallizzato che noi lo scambiamo per la realtà assoluta. Quindi, una problematica come un problema d’ansia (ma vale veramente per qualsiasi tipo di difficoltà) si trasforma nel sé concettualizzato “io sono un ansioso” e non importa quante esperienze io faccia in cui non ho provato quell’ansia forte e spaventosa, io continuo a descrivermi verbalmente con “io sono un ansioso”.

Pensiamo anche ad altri tipi di descrizioni di tipo “sé concettualizzato” come “il figlio debole”, “quello che nelle relazioni lascia/è lasciato”, “quello che se la cava da solo”, “quello con la testa sulle spalle” e pensiamo a quanto il linguaggio contribuisce a creare questa “narrativa” di sé, in cui il passato il presente e il futuro, alla fine del processo, si confondono e si fondono in una descrizione di sé a cui ci affezioniamo ma che spesso è molto poco utile a ciò che vogliamo per la nostra vita, ai nostri valori personali e alle nostre risorse.

In che modo può essermi utile fondermi con un pensiero del tipo “sono un fallito” per impegnarmi a non esserlo più?

A questo punto sorge una seconda questione: se io leggo la realtà attraverso gli occhiali di una maschera a cui sono affezionato e che però mi ha sempre fatto soffrire, che cosa traggo dall’esperienza che faccio ogni giorno, momento per momento? Probabilmente leggerò solo ciò che i limiti della mia maschera mi permettono e mi concedono di leggere… e questo non può che farmi perdere tanto delle mie esperienze e più in generale della vita.

 

 

BIBLIOGRAFIA: 

  • Hayes, Steven C.; Kirk D. Strosahl, Kelly G. Wilson (2003). Acceptance and Commitment Therapy: An Experiential Approach to Behavior Change. The Guilford Press. ISBN 1-57230-955-5.
  • Young, J.E., Klosko, J.S., & Weishaar, M. (2003).  Schema Therapy: A Practitioner’s Guide.Guilford Publications: New York.

 

I Disturbi mentali in Italia: Numeri e Dati.

 

I Disturbi Mentali in Italia 

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze PsicologicheIn Italia, studi recenti (2001)condotti sia a livello nazionale che locale, hanno mostrato che la prevalenza annuale dei disturbi mentali nella popolazione generale è dell’8% circa ed un recente sondaggio, condotto su un campione di psichiatri italiani, ha riscontrato un aumento rispetto a dieci anni fa della frequenza con cui vari disturbi mentali giungono all’osservazione clinica. Anche in Italia, come in altri Paesi industrializzali, i disturbi mentali costituiscono una delle maggiori fonti di carico assistenziale e di costi per il Servizio Sanitario Nazionale; si presentano in tutte le classi d’età, sono associati a difficoltà nelle attività quotidiane, nel lavoro, nei rapporti interpersonali e familiari e alimentano spesso forme di indifferenza, di emarginazione e di esclusione sociale.

Studio del 2001 di Tansella e De Girolamo: DOWNLOAD PDF

 

I Disturbi Alimentari in Italia: (Dati forniti da ProYouth)

  • I disturbi alimentari compaiono con la maggiore frequenza durante l’adolescenza o la prima età adulta, ma possono anche svilupparsi durante l’infanzia o nella tarda età adulta. Le donne e le ragazze hanno maggiori probabilità dei maschi di sviluppare un disturbo alimentare, ma anche i ragazzi e gli uomini possono presentare qualsiasi tipo di disturbo alimentare.
  • Anoressia nervosa: tra lo 0.3 e l’1% delle giovani donne sono anoressiche (il che rende l’anoressia diffusa quanto l’autismo)
  • Bulimia nervosa: dall’1 al 3% delle giovani donne presenta bulimia nervosa
  • Disturbo da alimentazione incontrollata: circa il 3% della popolazione presenta questo disturbo
  • Tra il 4% e il 20% delle giovani donne presenta schemi alimentari non sani come stare a dieta, mettere in atto comportamenti di eliminazione e abbuffarsi.
  • Attualmente, circa una giovane donna su 20 nella popolazione generale ha un disturbo alimentare

 VISITA IL SITO DI PROYOUTH

 

I Disturbi di Personalità in Lombardia (Dati 2009-2011)

Dati tratti dalla tesi di laurea magistrale:  “Metodologia clinica dei disturbi di personalità” di Milko Prati

 

Riportiamo di seguito una tabella riepilogativa dei dati, triennio 2009-2010-2011 e il numero di soggetti che hanno ricevuto una diagnosi di disturbo di personalità.

 

Anno

Numero persone ricorse al CPS

Diagnosi di Disturbo di personalità

Incidenza % Disturbi di personalità

2009

1.017

78

7,67

2010

1.024

77

7,52

2011

851

66

7,76

 

 

 

Incidenza percentuale DDP Maschi vs Femmine

 

Anno

Maschi

Femmine

Totale

Maschi diagnosi DDP

Incidenza % DDP

Femmine diagnosi DDP

Incidenza % DDP

2009

375

642

1.017

36

9,60

42

6,54

2010

372

652

1.024

35

9,41

42

6,44

2011

283

568

851

36

12,72

30

5,28

 

 

Incidenza percentuale per fascia d’età

 

 

2009

2010

2011

Età

Totale M/F

Diagnosi DDP

% DDP

Totale M/F

Diagnosi DDP

% DDP

Totale M/F

Diagnosi DDP

% DDP

< 24

131

10

7,63

125

17

13,60

86

15

17,44

24/34

246

24

9,76

267

22

8,24

248

10

4,03

35-44

230

15

6,52

251

21

8,37

215

21

9,77

45-54

158

17

10,76

174

10

5,75

105

12

11,43

55-64

97

8

8,25

89

5

5,62

79

5

6,33

> 64

155

4

2,58

118

2

1,69

118

3

2,54

Totale

1.017

78

7,67

1.024

77

7,52

851

66

7,76

 

 

 

Anno 2009

Nel corso del 2009 le tipologie di disturbo di personalità maggiormente diagnosticate sono state le seguenti.

A seguito delle evidenze riscontrate, abbiamo ritenuto utile approfondire il livello dell’analisi indagando le percentuali di incidenza dei disturbi, sia nelle diverse fasce d’età che in rapporto alla differenza di genere. Abbiamo, in un primo momento, analizzato la situazione dei soggetti maschi suddividendoli per fascia d’età e, successivamente, la stessa modalità è stata seguita per le femmine.

Com’è possibile rilevare dai risultati emersi, si è confermata anche per i soli soggetti maschi la prevalenza delle diagnosi di Disturbo non specificato di personalità (33,33%), Disturbo paranoide di personalità (25,00%) e Disturbo borderline di personalità (16,67%).

Di rilevante importanza è anche il fatto che detti disturbi si sono concentrati nella fascia d’età 24/34, registrando una percentuale di incidenza pari a 38,89%.

Anno 2010

L’analisi delle incidenze percentuali dei disturbi riferite alle femmine, ha evidenziato un cambiamento rispetto alla graduatoria presentata in occasione dell’analisi dei dati aggregati, infatti le incidenze delle tipologie di disturbi di personalità maggiormente diagnosticati sono stati:

  • Disturbo paranoide di personalità, 11 casi pari al 26,19%

  • Disturbo borderline di personalità, 7 casi pari al 16,67%

  • Disturbo non specificato di personalità, 7 casi pari al 16,67%

 

Anno 2011

Nel corso del 2011 le tipologie di disturbo di personalità maggiormente diagnosticate sono state le seguenti.

  • Disturbo non specificato di personalità, 16 casi pari al 24,24%

  • Disturbo paranoide di personalità, 14 casi pari al 21,21%

  • Disturbo borderline di personalità, 9 casi pari al 13,64%

Le incidenze percentuali delle tipologie di disturbi di personalità maggiormente diagnosticati sono stati:

  • Disturbo borderline di personalità, 8 casi pari al 26,67%

  • Disturbo paranoide di personalità, 7 casi pari al 23,33

 

Le incidenze percentuali dei disturbi rispetto alle fasce d’età sono risultate distribuite maggiormente tra le fasce < 24, 24/34 e 35/44 rispettivamente con la presenza di 8 casi pari al 26,67%, 6 casi pari al 20,00% e 8 casi pari al 26,67%.

Riassumendo (totale di tutto), i risultati della prima parte dell’analisi consentono di affermare quanto segue.

  • Sostanziale stabilità dell’incidenza dei disturbi di personalità nei soggetti che hanno fatto ricorso ad una prestazione presso gli enti afferenti la struttura ospedaliera Niguarda.

  • Maggiore incidenza dei disturbi di personalità nei maschi rispetto alle femmine, nonostante un numero maggiore di femmine abbia richiesto una consultazione.

  • Incremento delle diagnosi di disturbo di personalità nella fascia d’età di soggetti con meno di 24 anni e decremento dell’incidenza percentuale di detti disturbi nella fascia d’età
    24-34.

 

Riassumendo, i risultati della seconda parte dell’analisi consentono di affermare quanto segue.

  • Complessivamente, nel corso del triennio 2009-2010-2011, le tipologie di disturbo di personalità maggiormente diagnosticate sono state il Disturbo non specificato di personalità, il Disturbo paranoide di personalità e il Disturbo borderline di personalità.

  • Negli anni 2009 e 2010 si è registrato un andamento pressoché costante delle tipologie di disturbo di personalità diagnosticate con maggiore frequenza, valutando anche separatamente il gruppo dei maschi da quello delle femmine.

  • Nel corso dell’anno 2011 si è registrata una differenza tra i due gruppi di soggetti: nel gruppo dei maschi il Disturbo borderline di personalità ha avuto un peso minore mentre sono stati maggiormente diagnosticati il Disturbo non specificato di personalità e il Disturbo paranoide di personalità; nel gruppo delle femmine è diminuita l’incidenza percentuale del Disturbo non specificato di personalità mentre sono aumentate quelle dei disturbi borderline e paranoide di personalità.

 

Ictus e mortalità maschile: il TMT test

– Rassegna Stampa – 

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze PsicologicheNonostante i progressi di trattamento, l’ictus è ancora oggi una delle principali cause di morte e disabilità. Ma un semplice drawing-test può predire il rischio di morte dopo un primo ictus tra gli uomini più anziani.

Il team di ricercatori ha analizzato i dati del Uppsala Longitudinal Study, che ha monitorato i diversi fattori di rischio per malattie cardiache e ictus in un campione di 2322 uomini dai 50 anni di età in poi. Lo studio attuale si basa su un più ristretto campione di 1000 tra questi uomini, di età compresa tra i 65 e i 75 anni, che non avevano avuto infarti e la cui capacità cognitiva è stata valutata al momento della selezione con il Trail Making Test (TMT), e il Mini Mental State (MMSE), test ampiamente usato per testare per la demenza.

Il TMT consiste nel tracciare con una matita il più rapidamente possibile delle linee tra numeri e/o lettere in ordine crescente, mentre il MMSE valuta attività cognitive generali come l’orientamento, la memoria e calcolo.

Durante i 14 anni di monitoraggio, dal 1991 al 2006, 155 uomini hanno avuto un primo ictus maggiore o minore, conosciuto come TIA (attacco ischemico transitorio). Poco più della metà di loro (84, 54%) sono deceduti dopo in media di 2,5 anni, e 22 morti entro un mese dell’infarto.

L’analisi dei risultati indica che, tenendo conto dei fattori di rischio noti, come l’età avanzata, l’ipertensione, l’istruzione e il background sociale, coloro che avevano eseguito male il TMT avevano più probabilità di essere morti.

Gli uomini i cui punteggi al drawing-test sono stati inferiori al 30% hanno avuto tre volte più probabilità di morire dopo l’ictus di quelli che hanno superato il 30%. Nessuna correlazione invece tra mortalità e punteggi bassi al MMSE.

Secondo i ricercatori è probabile che il TMT rilevi menomazioni cognitive latenti, causate dalla malattia cerebrovascolare silenziosa, cioè che non ha ancora sintomi evidenti.

I TMT test sono facilmente disponibili e, anche se non possono essere utilizzati come strumenti per identificare il rischio di ictus, possono però essere considerati importanti predittori di mortalità dopo che questo ha avuto luogo. Avere a disposizione uno strumento predittivo affidabile potrebbe anche migliorare le informazioni fornite ai pazienti e ai loro familiari.

 

 

BIBLIOGRAFIA:  

Disgusto o umanità? Contro l’Omofobia

Giornata Internazionale contro l’Omofobia e la Transfobia

Video: Disgusto o Umanità? Contro l’Omofobia.

 

Le persone omosessuali sono sempre state oggetto della “politica del disgusto”.

Un disgusto che si oppone alla nostra umanità e la annienta. È giunto il momento di promuovere la “politica dell’umanità”, in nome dell’uguaglianza, del rispetto, dell’immedesimazione.

Oppure preferiamo coltivare paura, disprezzo e ostilità che ci rendono violenti e ingiusti, al punto da negare alle nostre concittadine lesbiche e ai nostri concittadini gay diritti fondamentali, come quello di sposarsi?

Una libertà che Hannah Arendt, nel 1959, quando in America ferveva il dibattito sul matrimonio interrazziale e anche allora si levavano voci indignate, ha definito “un diritto umano elementare”.

Una libertà su cui Barack Obama si è recentemente espresso: “le coppie dello stesso sesso dovrebbero potersi sposare”.

In questo video, la filosofa Martha Nussbaum (autrice di “Disgusto e umanità”, il Saggiatore), l’attrice Lella Costa, lo psichiatra e psicoterapeuta Vittorio Lingiardi, la filosofa Nicla Vassallo, l’attore e regista Ascanio Celestini, il giurista Stefano Rodotà testimoniano a favore dei diritti umani e civili delle persone lesbiche, gay, transgender.

Il video (regia di Serena Gargani, lettering di Francesca Biasetton) è realizzato da Genova Palazzo Ducale-Fondazione per la cultura, in occasione della Giornata Internazionale contro l’Omofobia e la Transfobia (17 maggio 2012).

Vittorio Lingiardi

 

BIBLIOGRAFIA:

 

ARTICOLI CONSIGLIATI:

Recensione di Sviluppi traumatici (2011) di Liotti e Farina.

 

Sviluppi traumatici di Giovanni Liotti e Benedetto Farina è la più recente esposizione del modello di terapia cognitiva-evoluzionista.

Sviluppi Traumatici, Eziopatogenesi, clinica e terapia della dimensione dissociativa. Liotti G. Farina B. (2011). Cortina Editore. - Immagine: Copertina, Raffaello Cortina Editore
Sviluppi Traumatici, Eziopatogenesi, clinica e terapia della dimensione dissociativa. Liotti G. Farina B. (2011). Raffaello Cortina Editore.

Il libro è uscito nel 2011 per Cortina editore. In questa edizione gli autori riespongono, sviluppandoli, i principi strutturali di questo modello: l’attenzione per le basi neurali ed evolutive dell’attività mentale e dei suoi disturbi, il tentativo di conciliare queste basi con una visione cognitiva e quindi rappresentazionale e computazionale dell’attività mentale e infine la proposta della dissociazione come processo patologico centrale.

Il merito principale dell’ipotesi evoluzionista è di tenere conto che, dopo i più recenti modelli connessionisti costruiti con i dati provenienti dallo studio neuroanatomico del cervello, non è più possibile mantenere un modello teorico puramente computazionale della mente, sia nella forma del computazionalismo clinico e un po’ ingenuo di Beck che nelle forme sofisticate del primo Fodor. Inoltre, lo sforzo del secondo autore Farina è stato di avere aggiunto alla passione teorica di Liotti l’attenzione per la clinica e per il processo terapeutico.

Recensione di “La Svolta Relazionale” di Lingiardi, Amadei, Caviglia e De Bei. - Immagine: Raffaello Cortina Editore
Articolo consigliato: Recensione di “La Svolta Relazionale” di Lingiardi, Amadei, Caviglia e De Bei.

La terapia, per Liotti e Farina, rispecchia la loro ipotesi psicopatologica. Il disturbo emozionale deriva da uno sviluppo emotivo non corretto, favorito da una relazione di accudimento dolorosa se non addirittura traumatica. Questa dolorosa situazione relazionale ed emotiva genera un mancato sviluppo cognitivo delle funzioni superiori, cosicché il soggetto non è in grado di gestire piani di vita complessi che soddisfino i bisogni individuali. La conseguenza è lo sviluppo di vari disturbi emotivi che oscillano dall’ansia fino ai casi più gravi dell’impulsività e della dissociazione.

Ma questo libro ha anche un altro merito: questa volta Liotti e Farina hanno compiuto un significativo passo avanti nel loro percorso di definizione di quali siano i principi pratici ed esecutivi della terapia cognitivo-evoluzionista. Liotti e Farina sottolineano il valore curativo della relazione interpersonale paritetica tra terapeuta e paziente, relazione che poi innescherebbe la crescita di facoltà metacognitive più sofisticate di quelle a disposizione del paziente prima della terapia. Questo principio terapeutico è sicuramente utile e empiricamente forte e si ricollega al precedente libro di area cognitivo-evoluzionista, il Manuale AIMIT di Liotti e Monticelli (2008). In quel libro era particolarmente apprezzabile la volontà di definire le interazioni armoniche e disarmoniche in terapia.

Wells: Terapia Metacognitiva dei disturbi d'Ansia e della Depressione. Recensione a cura di Gabriele Caselli. - Immagine: Eclipsi Editore
Articolo consigliato: Recensione di Terapia Metacognitiva dei disturbi d’Ansia e della Depressione. (A. Wells)

Dal punto di vista clinico credo che l’aspetto più sofisticato della proposta di Liotti e Farina sia la loro distinzione tra funzione cooperativa e paritetica della terapia e funzione di accudimento. Questa distinzione fa si che la terapia non si riduca mai a una semplice rigenitorializzazione vicaria. Cooperare è un’attività da pari a pari e non corrisponde ad accudire.

Il passo successivo che ci aspettiamo da Liotti e Farina è un manuale ancora più pratico e dettagliato di gestione della relazione terapeutica sulla base dei sistemi motivazionali. In ogni caso, “Sviluppi traumatici” è già un passo avanti verso una maggiore definizione terapeutica di di una linea di riflessione teorica e di ricerca empirica ormai matura.

 

 

BIBLIOGRAFIA: 

 

L’effetto del Pensiero Desiderante sull’esperienza di Craving

 E il pensiero si fa voglia

e la voglia si fa desiderio

e il desiderio si fa bramosia

e la bramosia si fa cedimento

mentre inerte ed impotente

guardi la tua debolezza

prendere il sopravvento.

M.S.

QUESTO ARTICOLO E’ UNA PRESENTAZIONE DELLA RICERCA: The effect of desire thinking on craving: an experimental investigation. RIPORTATA IN BIBLIOGRAFIA.

L’effetto del Pensiero Desiderante sull’esperienza di Craving. - Immagine: © Stuart Miles - Fotolia.comIl pensiero desiderante viene identificato come un processo di pensiero volontario, che orienta il soggetto a prefigurarsi immagini, informazioni, a risalire a memorie
e ricordi relativi ad un’esperienza, attribuendo a questa una valenza positiva (Caselli, Spada, 2010).

Quando si parla di craving si fa riferimento ad una forte pulsione soggettiva a raggiungere l’oggetto desiderato (May, Andrade, Panabokke, Kavanagh, 2004). Identificato come appetizione compulsiva patologica, il craving è stato considerato da sempre all’interno dell’ambito delle dipendenze patologiche anche se ad oggi non esiste ancora una definizione chiara ed univoca. Pensiero desiderante e craving possono essere visti come due processi separati dove il primo rappresenta uno stile cognitivo ed il secondo un’esperienza motivazionale ed automatica. Ciò che affascina del pensiero desiderante è che questo consente di pregustare l’ottenimento dell’oggetto attraverso la creazione di immagini mentali, pensieri verbali, e ricordi. Sono questi infatti che danno sapore e colore al pensiero; un soddisfacimento puramente mentale, virtuale che viene vissuto come reale, viene sentito nella carne, ed è proprio la vividezza delle immagini mentali che rende possibile tutto questo.

Concedersi le Preoccupazioni per non Rimuginare. - Immagine: © Dawn Hudson - Fotolia.com
Articolo consigliato: Concedersi le Preoccupazioni per non Rimuginare.

Infatti più un immagine è vivida, più nella persona si genereranno reazioni emotive e fisiologiche intense da cui scaturisce una tensione fisica. Le immagini mentali pare giochino un ruolo chiave in questo processo in quanto hanno un forte ascendente sul craving, attivano una serie di emozioni e motivano l’ individuo al passaggio all’atto. A partire proprio da questa ipotesi si è voluto indagare, attraverso la manipolazione del soggetto, e delle sue immagini mentali, se queste portassero delle modifiche all’esperienza di craving.

È stato così messo a punto un disegno sperimentale (Caselli, Soliani, Spada, 2012) a cui hanno preso parte 48 studenti universitari suddivisi in tre gruppi (Pensiero desiderante, Distrazione, Ragionamento verbale).

Le ipotesi che stanno alla base di questa ricerca sono le seguenti:

1. L’induzione del pensiero desiderante potrebbe avere un impatto maggiore sul craving rispetto al ragionamento verbale focalizzato sull’oggetto del desiderio o alla distrazione

2. L’influenza del pensiero desiderante potrebbe mantenere dei livelli alti anche in seguito alla resting-phase

3. L’effetto del pensiero desiderante sul craving è indipendente dal livello di stress percepito

4. L’attivazione del pensiero desiderante durante i tre giorni d’astinenza potrebbe portare un innalzamento maggiore del livello di craving rispetto alla distrazione o al ragionamento verbale.

Una volta che il soggetto ha scelto un attività dalla quale dovrà astenersi per i tre giorni a seguire, prende il via la prima parte dell’esperimento. Compila una batteria di questionari (General Craving Scale, Desire Thinking Questionnaire , Metacognitive Desire Thinking Questionnaire), in seguito viene sottoposto ad un compito di induzione che consiste in un audio registrazione volta a stimolare, a seconda della condizione di appartenenza, pensiero desiderante, ragionamento verbale, o a distrarre lo studente. In seguito, per liberare la mente da ogni pensiero, viene invitato a giocare a tetris. Dopo ogni fase di questa prima parte viene invitato a compilare delle check-list volte ad indagare il livello di craving corrente e il livello di stress percepito. A questa prima parte dell’esperimento ne segue una seconda in cui i soggetti si sono astenuti per tre giorni dall’oggetto, o dall’attività, da loro indicata e al termine di ogni giornata hanno compilato un diario atto ad indagare il livello di craving corrente.

Psicoterapia cognitiva: le dipendenze patologiche e il lato oscuro del desiderio. - Immagine: © Andrea Danti - Fotolia.com
Articolo consigliato: Psicoterapia cognitiva: le dipendenze patologiche e il lato oscuro del desiderio

Dalla prima parte dell’esperimento è emerso che solo nella condizione di pensiero desiderante i livelli di craving aumentano notevolmente in seguito alla manipolazione e decrescono altrettanto in seguito alla resting-phase (fase di riposo). Questo ci consente di dire che la manipolazione ha avuto effetto e che quindi il pensiero desiderante ha effettivamente influito sul craving. È emerso inoltre che i risultati sono indipendenti da una variazione nei livelli di stress percepito. Tuttavia l’ipotesi per cui l’influenza del pensiero desiderante potrebbe mantenere dei livelli alti anche in seguito alla resting-phase non viene confermata. Potremmo dare una spiegazione di ciò facendo riferimento al fatto che il campione non è clinico, pertanto i soggetti che non hanno problemi a gestire la propria esperienza di craving, potrebbero riuscire ad interrompere con minore difficoltà il processo di attività desiderante una volta cessata l’induzione sperimentale. Questo consente di dare una spiegazione logica ai risultati ottenuti, e di affermare che l’assenza di un controllo flessibile sull’attività desiderante potrebbe rappresentare la caratteristica principale di un esperienza di craving patologica.

Dalla seconda parte dell’esperimento è emerso che, nella condizione di distrazione, si ha un aumento costante dei livelli di craving durante i tre giorni; questo consente di dire che l’uso della distrazione potrebbe portare ad una diminuzione dei livelli di craving a breve termine, mentre, a lungo termine, potrebbe divenire una strategia di coping che consente di raggiungere una negazione cognitiva ed emozionale, che potrebbe interferire coi processi emozionali ed aumentare il numero di pensieri intrusivi relazionati a specifici target attraverso un effetto di ripercussione (Davies & Clark, 1998).

Il contributo apportato da questa ricerca è stato quello di dimostrare che, in un campione rappresentativo di una popolazione non clinica, il pensiero desiderante ha avuto un impatto sull’esperienza di craving maggiore rispetto a quello di altre forme di pensiero che riguardano comunque oggetti e/o attività desiderate, ed inoltre è indipendente da una variazione nei livelli di stress percepito. Questi risultati sostengono pertanto la concettualizzazione che vede il pensiero desiderante come fattore di rischio in quei soggetti che mostrano una tendenza a condotte quali la dipendenza ed il discontrollo degli impulsi. Se quanto osservato in questo studio verrà confermato anche in ricerche future allora potrà rappresentare un contributo per il trattamento delle dipendenze in psicoterapia.

 

ABSTRACT:  

Desire thinking is a voluntary cognitive process involving verbal and imaginal elaboration of a desired target. Recent research has revealed that desire thinking and craving are distinct constructs and that desire thinking may play a significant role in the escalation of craving. The goal of this study was to explore the effect of desire thinking induction on craving in a nonclinical sample. Forty-five volunteers with no current diagnosis of psychological disorders chose a desired activity and were randomly allocated to three thinking manipulation tasks: distraction, verbal reasoning, and desire thinking. Craving was measured before and after manipulation and during a 3-day period of abstinence from the desired activity. Findings showed that desire thinking had a significant effect on craving after manipulation. This effect appeared to be independent of baseline levels of craving and desire thinking as well as perceived stress changes during the manipulation. Both distraction and verbal reasoning inductions did not lead to a significant change in craving. Desire thinking impacts craving and is a risk factor for craving-related problems.

 

 

BIBLIOGRAFIA:

  • Caselli G., Spada M., (2010) Metacognition in desire thinking: A preliminary investigation, Brief clinical report. Behavioural and Cognitive Psychotherapy, 38, 629–637.
  • Caselli G., Soliani M., Spada M., (2012) The effect of desire thinking on craving: an experimental investigation, Psychology of Addictive Behaviors, published in first view on 9th April, 2012
  • Davies, M. I., & Clark, D. M. (1998). Thought suppression produces a rebound effect with analogue post-traumatic intrusions. Behavior Research and Therapy, 36, 571–582.
  • May, J., Andrade, J., Panabokke, N., Kavanagh, D., (2004) Images of desire: Cognitive models of craving, MEMORY, 12 (4), 447-461  

Il Senso dello Smartphone per la Privacy.

– Rassegna Stampa – 

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze PsicologicheChi non ha avuto modo di rifletterci? E’ in atto un vero e proprio cambiamento del tradizionale concetto di privacy nella sfera pubblica ad opera dei nuovi artefatti tecnologici che ridefiniscono i confini tra pubblico e privato.

Alcuni studiosi della Tel Aviv University si sono posti l’obiettivo di misurare l’impatto del fenomeno smartphone sulla privacy, sulle regole di comportamento e sull’utilizzo dello spazio pubblico.

Per esaminare questi aspetti, i ricercatori hanno messo a punto un survey cui hanno preso parte circa 150 soggetti, per metà possessori di smartphone e per metà utilizzatori di un cellulare standard. I risultati sono curiosi.

Gli utilizzatori del comune e vecchio cellulare tengono fede alle modalità comportamentali del buon costume socialmente condivise relativamente all’uso del telefono (ovvero: rimandano le conversazioni private a spazi privati e valutano l’appropriatezza dell’uso del cellulare in spazi pubblico). Gli utilizzatori di smartphone invece, sembrano pensare e agire in modo diverso.

Anzitutto i fan degli smartphones hanno meno probabilità (del 50%) di essere infastiditi dalle telefonate di altri che invadono i luoghi pubblici, così come di rendersi conto che le proprie telefonate potrebbero irritare persone vicine. Inoltre, se spazi pubblici come piazze, parchi, mezzi di trasporto erano visti una volta come punti di incontro, ora gli individui dotati di smartphone tendono a essere sempre più immersi nei loro dispositivi elettronici mentre si trovano in luoghi pubblici. Secondo i ricercatori è dunque plausibile pensare che gli smartphones creino un’illusoria “bolla privata” in cui gli utenti si sentono avvolti. Altro dato interessante riguarda una sorta di emotività legata al dispositivo elettronico: i possessori di smartphone sembrano più dipendenti e legati ai loro telefoni. Chiedendo come si sentivano quando erano senza smartphone la maggior parte di loro ha utilizzato descrittori negativi come “perso”o “teso”, mentre chi possedeva un cellulare standard generalmente ha riportato associazioni positive all’idea di essere senza telefono, come ad esempio tranquillità e libertà. Il progetto di ricerca non è ancora concluso e prevederà nuove fasi di rilevazione ambientale dell’uso degli smartphones in ambienti pubblici.

 

 

BIBLIOGRAFIA:  

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