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Neuroscienze: l’evoluzione parallela di Intelligenza e Worry.

– Rassegna Stampa – 

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze PsicologicheSecondo una recente ricerca del SUNY Downstate Medical Center il worry potrebbe essersi evoluto con l’intelligenza: i ricercatori hanno scoperto che sia elevati punteggi di QI e che elevati livelli di worry (che si può intendere come attività mentale caratterizzata dalla predominanza di predizioni ansiose e paure  di possibili futuri eventi negativi) correlano positivamente con l’attività cerebrale nella materia bianca subcorticale.

Nello studio 26 pazienti con diagnosi di disturbo d’ansia generalizzato (GAD) sono stati confrontati con 18 soggetti di controllo per valutare la relazione tra l’intelligenza (QI), il worry, e l’attività metabolica della materia bianca subcorticale. I partecipanti sono stati valutati mediante il Penn State Worry Questionnaire e  Wechsler Abbreviated Scale of Intelligence, e sottoposti a una tecnica particolare di brain imaging in grado di valutare l’attività metabolica della materia bianca subcorticale.

I risultati evidenziano che i pazienti con GAD, rispetto ai soggetti di controllo, presentavano un livello significativamente maggiore di worry, punteggi più elevati al QI e una minor concentrazione di colina nella materia bianca subcorticale. Combinando i dati dei soggetti GAD e del gruppo di controllo, una bassa concentrazione di colina subcorticale era associata sia a punteggi elevati di QI che a maggior worry; analizzando invece le correlazioni tra intelligenza e worry nei singoli gruppi è emerso che nel campione di controllo, elevati QI erano associati  con bassi livelli di worry, mentre nei pazienti con GAD, punteggi più alti di QI erano associati a un maggior grado di worry. Il che significa che la correlazione tra ansia e intelligenza assume un rapporto direttamente proporzionale nei pazienti con GAD mentre inversamente proporzionale nei soggetti non patologici.  

In generale, sia elevati punteggi di worry che di intelligenza sarebbero entrambi legati a un comune substrato neurale, e cioè la riduzione della colina nella materia bianca subcorticale, facendo ipotizzare un rapporto di  co-evoluzione tra i processi tipici dell’ansia e l’ intelligenza, caratteristica considerata tra le più adattive nell’evoluzione umana.

I risultati di questo studio dal titolo “The Relationship between Intelligence and Anxiety: An Association with Subcortical White Matter Metabolism” sono stati pubblicati in un recente numero di Frontiers in Evolutionary Neuroscience 

 

 

BIBLIOGRAFIA: 

Precario il Lavoro, Stabile l’Ansia – Il Ritratto Psicologico di una Generazione

 

Precario il Lavoro, Stabile l'Ansia - Il Ritratto Psicologico di una Generazione. - Immagine: © nuvolanevicata - Fotolia.comNell’attuale dibattito politico e sociale si è inserito con forza il tema del precariato, inteso non solo come condizione lavorativa nella quale l’individuo viene privato delle sicurezze economiche e contrattuali, ma anche come stato psicologico ed emotivo che un numero crescente di persone è costretto ad affrontare in conseguenza di un lavoro incerto o assente.

La dimensione psicologica del precariato è stata però fino a questo momento sottovalutata da una parte consistente degli osservatori e dei legislatori, incapaci di comprendere gli effetti che si determinano quando un individuo non intravede un futuro per sé e per la propria famiglia. Le fonti a cui attingere per ricavare informazioni in merito sono molteplici; l’operato di un giornalismo onesto che ancora dipinge in modo obiettivo la realtà italiana ci consente di ascoltare e leggere quotidianamente le esperienze di coloro che oltre ad occuparsi della ricerca di un lavoro sempre più difficile da trovare, devono convivere con sentimenti depressivi e un’angoscia profonda che si legano al venir meno di un progetto esistenziale gratificante.

Amarezza cronica post-traumatica. Immagine: © 2011-2012 Costanza Prinetti -
Articolo consigliato: Amarezza cronica post-traumatica: una diagnosi per i precari.

La sindrome del precario è ormai una realtà, come conferma l’Eurodap (Associazione europea disturbi da attacchi di panico) che per bocca della sua presidente, Paola Vinciguerra, traccia il bilancio di un’indagine condotta nel 2010.

“Su 300 persone tra i 25 e i 55 anni, il 70% ha dichiarato di trovare proprio sul posto di lavoro la maggiore fonte di stress. Di questi, il 60% teme i colleghi mentre il 40% si dice completamente assoggettato al capo per paura di essere licenziato. L’aria che si respira in ogni luogo di lavoro è totalmente artefatta e altamente conflittuale. La paura di perdere il posto dà luogo a dinamiche fortemente competitive, con richieste di prestazioni dei dipendenti da parte dei datori di lavoro che difficilmente possono essere disattese dai lavoratori terrorizzati di perdere la loro fonte di sopravvivenza”.

Ne deriva un’elevata sospettosità, una rappresentazione del luogo di lavoro come ambiente nel quale combattere una duplice battaglia quotidiana: da un lato infatti i colleghi e i superiori vengono percepiti come figure ostili da cui difendersi, dall’altro si fa strada la convinzione di doversi mettere in mostra per apparire meritevoli di una chance lavorativa. Entrambi i vissuti generano un sentimento di costante agitazione, una crescente intolleranza all’incertezza e, non ultima, una rabbia profonda che nell’ambiente di lavoro viene repressa per poi riverberarsi nelle relazioni della sfera affettiva.

Scarica e leggi: LA REPUBBLICA DEL LAVORO, Vivere in Italia ai tempi del precariato.  Speciale 2011 de Il Contesto. 

Il Contesto, La Repubblica del Lavoro. Numero Speciale Luglio 2011. - Immagine: © 2011-2012 Il Contesto ONLUS
SCARICA IL NUMERO SPECIALE: La Repubblica del Lavoro. Su Gentile concessione de Il Contesto ONLUS

La nostra esperienza clinica ci pone inoltre a contatto con i danni che il paziente coinvolto nelle dinamiche del precariato subisce all’immagine di sé, compromessa dall’impossibilità di costruire una propria posizione autonoma nel mondo; prevale un senso di inutilità, una demotivazione alla lotta e un disimpegno che gradualmente depotenziano le risorse dell’individuo, la sua capacità di cercare nuove strade. E’ realistico pensare che non tutti i giovani siano ugualmente competenti e motivati nel cambiare il proprio futuro, tuttavia il dramma che si sta consumando riguarda persone appartenenti a fasce d’età molto diverse che vengono respinte dal mondo del lavoro e si confrontano ogni giorno con vissuti di disperazione, di inadeguatezza, tanto più dolorosi quanto più sono connessi ad un bilancio esistenziale che appare privo di prospettive evolutive.

Tale scenario si ritrova sia nelle categorie lavorative tradizionalmente svantaggiate sia nella realtà dei commercianti, dei piccoli imprenditori, di alcune libere professioni. Il precariato rende angusto lo spazio entro il quale un soggetto può dare organizzazione e significato allo sviluppo della propria esistenza, ostacola la possibilità di strutturare un tema di vita gestendo quote sopportabili di incertezza, amplifica il rimuginio ansioso sulle insidie dell’ambiente e accresce la diffidenza all’interno dei contesti relazionali, poiché la convinzione secondo cui la disponibilità di appoggi significativi, non fondati sulle capacità dimostrate permette l’accesso ad un riconoscimento sociale e professionale altrimenti irraggiungibile, viene spesso confermata dai fatti.

Questo genera una modalità depressiva di entrare in contatto con l’ambiente, uno stile di pensiero e di conoscenza che rifiuta l’esplorazione considerandola infruttuosa e illusoria. Il precario è perciò un individuo sfiduciato, che smarrisce la forza di cogliere eventuali opportunità di crescita e deve ristrutturare il proprio pattern di aspettative, bisogni, desideri collocandoli in una cornice strettamente quotidiana, elementare, nella quale coltivare un progetto esistenziale di largo respiro è esercizio quasi impraticabile. Come non bastasse, il precario è spesso costretto a svolgere lavori che nulla hanno a che vedere con il suo percorso di studi, con le sue aspirazioni; in questi casi, alle difficoltà economiche procurate da retribuzioni insufficienti si aggiunge la complessa gestione emotiva di una rappresentazione di sé che modifica i termini con cui il soggetto si percepisce.

Occorre reinventarsi, ripensarsi, prendere contatto con una narrazione di sé che si allontana pericolosamente dai pilastri fondamentali su cui era stata edificata; la paura di dover chiudere per sempre in un cassetto il ritratto di ciò che si voleva essere è un elemento centrale del precariato. Possa la politica ripartire dall’individuo, e l’individuo dalle sue aspirazioni più autentiche.

 

 

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BIBLIOGRAFIA: 

 

CNOP, PRESENTATO IL DECALOGO PER UNA NUOVA RIFORMA DELLA FORMAZIONE DEGLI PSICOLOGI

ORDINE DEGLI PSICOLOGI
Consiglio Nazionale

CNOP, PRESENTATO IL DECALOGO PER UNA NUOVA RIFORMA DELLA FORMAZIONE DEGLI PSICOLOGI

Numero chiuso per l’accesso alla facoltà universitaria, prove di ammissioni comuni nello stesso
giorno a livello nazionale, riforma della cosiddetta laurea breve, migliore qualità del tirocinio e
revisione dell’esame di Stato. Sono questi i punti salienti presentati oggi a Roma dagli Stati generali
della psicologia per garantire una nuova e migliore formazione professionale.

Ordine Nazionale Psicologi - Logo

Roma, 12 aprile 2012 – Realizzare nuovi percorsi formativi per facilitare l’accesso dei giovani
professionisti al mercato del lavoro e garantire agli utenti adeguati livelli di qualità del servizio.
Sono questi alcuni dei capisaldi della linea di azione che il Consiglio nazionale dell’Ordine degli
Psicologi, in sinergia con la Conferenza dei Presidi delle facoltà di Psicologia, con la Consulta dei
Direttori di Dipartimento di Psicologia e con l’Associazione italiana di Psicologia, ha tracciato ed
elaborato in un documento ufficiale, presentato oggi a Roma durante una conferenza stampa, una
proposta in grado di rivoluzionare il percorso di formazione e l’accesso alla professione.
Secondo i dati ufficiali raccolti dal CNOP sono circa 83.000 i professionisti in Italia iscritti all’Albo
degli Psicologi. E ogni anno il numero medio degli iscritti aumenta di circa 5.000 unità. Ma oltre la
metà degli iscritti non riesce a esercitare la professione di psicologo. Ecco perché il CNOP presenta
oggi alle istituzioni un vero e proprio decalogo ufficiale di proposte, ma anche di azioni già
avviate, che riguardano in particolare l’accesso alla professione, la sperimentazione di nuovi
percorsi formativi e professionali, il tirocinio, la riforma degli esami di Stato.
“La precarietà che registriamo in alcune fasce dei nostri professionisti potrebbe essere attribuita al
rilevante numero di laureati che, negli ultimi quindici anni, sono usciti dalle Università come
conseguenza della proliferazione dei corsi di laurea”, ha dichiarato Giuseppe Luigi Palma,
Presidente del Cnop. Nel 2010 sono stati attivati più di 40 corsi di laurea di I Livello e più di 60
corsi di laurea di II Livello. Ma, “a fronte di un simile aumento nell’offerta di formazione, continua
Palma, è mancata una programmazione degli accessi rispetto al fabbisogno nazionale degli
psicologi. Ecco perché il documento propone di definire un numero adeguato di accessi annuali,
periodicamente aggiornabile e in base a criteri condivisi di ammissione in modo da
decongestionare da una parte il sovraffollamento universitario e dall’altra, garantire l’accesso al
mondo del lavoro, una volta conseguito il diploma di laurea. ORDINE DEGLI PSICOLOGI
Consiglio Nazionale

Sempre su questa linea si propone l’abolizione della sezione B dell’Albo degli psicologi. “Sulla
base dell’esperienza maturata con l’istituzione dei corsi triennali”, ha spiegato Palma, “tre anni
sono necessari per porre le basi di una cultura psicologica, ma non sono sufficienti per una
formazione professionale. A fronte degli oltre 83.000 iscritti, solo circa 200 risultano gli iscritti
all’Albo B. Ecco perché riteniamo opportuna l’abolizione o la sua messa in esaurimento”.
Il documento punta, inoltre, a una migliore qualificazione del tirocinio professionalizzante, che
oggi si configura ormai come un lavoro semi-indipendente svolto nell’ambito di un team
professionale e in contesti sempre più eterogenei, come cliniche e laboratori di ricerca, servizi
sociosanitari, aziende, scuole, tribunali, strutture di accoglienza, centri sportivi.
Legato a doppio filo con il praticantato è lo sviluppo professionale continuo che, soprattutto nella
categoria degli psicologi, ha un’incidenza elevata. Secondo stime dell’Ordine, infatti, il 97 per
cento dei laureati proseguono la loro formazione frequentando corsi di specializzazione, master o
dottorati di ricerca.
Il documento, ancora, contiene proposte concrete sulla sperimentazione di una nuova forma di
ciclo quinquennale per la laurea in Psicologia, in sostituzione del cosiddetto “3+2”. Infine, si
invoca una vera riforma dell’esame di Stato, prestando maggiore attenzione agli aspetti
deontologici e professionali. In particolare, l’Ordine chiede che gli esami si possano svolgere in
tutte le sedi di corsi di laurea in psicologia, prevedendo solo due prove, di cui una uguale per tutte
le sedi e monitorata a campione su tutto il territorio nazionale.

SCARICA IL COMUNICATO STAMPA (PDF)

Ufficio Stampa CNOP
Piazzale di Porta Pia, 121 – 00198 Roma
tel. +39-06-44290601 fax +39-06-44254348
[email protected] www.psy.it

Psicologia & Dipendenze (Fumo): la Sicurezza che dà la Sigaretta.

 

Il fumo è come una bella donna, l’ami ma ti rendi conto che non è quella giusta per te.
La lasci. Poi cominci a vagheggiarla, ti rendi conto che la tua giornata è triste senza di lei.
E pian piano dimentichi guai e tormenti, incominci a scriverle, a pregarla di tornare con te.
L’amore fa male, ma la mancanza d’amore ancora di più.
(David Lynch)

 

Psicologia & Dipendenze (Fumo): la Sicurezza che ci dà la Sigaretta. - Immagine: © dred2010 - Fotolia.com Almeno una volta nella vita di ogni fumatore c’è stato un momento in cui il pensiero è andato verso l’ultimo pacchetto di sigarette e verso l’idea di porre fine a questa costosa e quotidiana dipendenza. Quanti ultimi pacchetti quante ultime sigarette nella storia di noi fumatori.

Oggi una nuova ricerca pubblicata sul Journal of Abnormal Psycology ci aiuta a motivare la nostra fatica a smettere. Nell’abitudine al fumo si identificano una dipendenza fisica e una dipendenza psicologica che vanno ad alimentarsi l’un l’altra, con il conseguente raggiungimento di un piacevole buon umore a cui difficilmente si riesce a rinunciare.

Fumare, tenere tra le mani una sigaretta, portarla alla bocca, la gestualità in sé ci infonde sicurezza, ci da in un qualche modo la sensazione di poter avere il controllo sugli eventi esterni e di poter recuperare una quota di controllo di sé. Lo studio dei ricercatori dell’Università della Florida del Sud – Moffit Cancer Center, di Tampa (Usa), ha coinvolto 132 soggetti fumatori.

Ricerca Craving Fumo
PARTECIPA ALLA RICERCA! TUTTI I DATI SARANNO TRATTATI IN FORMA ANONIMA

Il campione è stato poi casualmente diviso in due gruppi. Ad entrambi i gruppi è stato fatto vedere un video contenente immagini di degrado ambientale ad alta valenza emotiva. Ad un gruppo, però, è stato permesso di esprimere in modo naturale le proprie reazioni emotive senza perdere però il controllo, mentre all’altro gruppo è stato permesso di esprimere le emozioni provate dando ai partecipanti anche la possibilità di perdere l’autocontrollo. Dopo questa prima fase a metà dei partecipanti di uno e dell’altro gruppo è stato permesso di fumare una sigaretta mentre all’altra metà no. Contemporaneamente è stato chiesto ai partecipanti dello studio di compiere un compito frustrante che richiedeva autocontrollo.

PARTECIPA ALLA RICERCA! 

I risultati dello studio mostrano una differenza significativa nella risposta comportamentale di chi ha potuto fumare una sigaretta rispetto a chi non aveva avuto questa possibilità. È stato infatti verificato che chi si è fumato una sigaretta ha recuperato più velocemente degli altri la percezione di controllo sulla situazione e sul sé e conseguentemente il buonumore.

Certo per quanto il ritrovare una condizione di self-control e di buonumore sia una buona motivazione per accendersi una sigaretta,

è necessario ricordare che lo è ma in modo disadattivo, quindi forse la soluzione starà nel trovare delle strategie alternative che permettano ai fumatori di ritrovare quella piacevole sensazione di buonumore e relax.

 

 

BIBLIOGRAFIA: 

  • Heckman,B.W., Ditre,J.W. and Brandon,T.H. The restorative effects of smoking upon self-control resources: A negative reinforcement pathway.. Journal of Abnormal Psychology, 2012; 121 (1): 244

 

La Memoria di Lavoro Visiva è maggiore nelle persone Socialmente Ansiose

– Rassegna Stampa – 

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze PsicologicheLa capacità della memoria di lavoro costituisce una delle più importanti funzioni cognitive che influenzano le caratteristiche individuali, come il controllo dell’attenzione, la fluidità dell’intelligenza, e alcuni tratti psicopatologici.

Secondo uno studio recentemente condotto da due ricercatori della Ghent University e della Hiroshima University, la capacità della memoria di lavoro visiva aumenterebbe con l’aumentare dell’ansia sociale di tratto. Già ricerche precedenti suggerivano che l’ansia fosse associata a una compromissione di questa funzione cognitiva ed è stata evidenziata scarsa capacità della memoria di lavoro verbale in persone con elevata ansia di tratto.

Tuttavia, pochi studi hanno indagato la capacità della memoria di lavoro visiva in relazione all’ansia. Nonostante la scoperta di questa correlazione il rapporto tra ansia di tratto e capacità di memoria di lavoro visiva non è ancora chiaro: l’ipotesi fatta dai ricercatori è che le persone che si sentono costantemente minacciate impiegano una più ampia porzione di attenzione visiva per individuare il pericolo, per questo motivo la capacità della memoria di lavoro visiva risulterebbe più elevata proprio nelle persone ansiose. La specificità di questa correlazione è confermata anche dal fatto che l’ansia di stato non appare invece correlata con la capacità della memoria di lavoro visiva.

Questi risultati indicano che le persone socialmente ansiose potrebbero contenere una grande quantità di informazioni nella memoria di lavoro visiva, tuttavia, a causa di una compromissione di questa funzione cognitiva, non riuscirebbero a inibire stimoli irrilevanti, e questo deficit determinerebbe una riduzione delle prestazioni in condizioni molto impegnative. Nel parlare in pubblico, ad esempio, presterebbero attenzione alle reazioni di molti spettatori cogliendo in questo modo anche le reazioni negative di alcuni; a causa di questo anche se il loro intento non è quello di rivolgere l’attenzione ai membri del pubblico, ma di parlare con fluidità e padronanza, potrebbero non riuscire a ignorare le reazioni del pubblico, perdendo di vista l’obiettivo principale.

 

 

BIBLIOGRAFIA: 

Una ricerca sul Binge Eating Disorder – Partecipate!

 

PRESENTAZIONE DELLA RICERCA

 

PARTECIPA ALLA RICERCA! 

Una ricerca sul Binge Eating Disorder - Partecipate! - Immagine: © waterlilly - Fotolia.comQuando si parla di Disturbi Alimentari, quello che viene subito in mente ha a che fare con l’anoressia e la bulimia, quindi con un comportamento alimentare “viziato” verso la restrizione (il regime alimentare con un ridotto apporto calorico delle anoressiche) o le condotte di eliminazione (il vomito auto indotto, l’abuso di lassativi o diuretici e l’esercizio fisico eccessivamente intenso delle bulimiche).

Uno dei disturbi che ha a che fare con l’alimentazione ma che non ha ancora trovato piena dignità nel manuale statistico diagnostico dei disturbi mentali (DSM-IV) è il Binge Eating Disorder (BED).

Il Binge Eating Disorder è caratterizzato da ricorrenti abbuffate non seguite da comportamenti di compensazione, e questa mancanza di vomito e lassativi è ciò che lo distingue dalla Bulimia Nervosa. Mentre nella visione popolare questo modo di alimentarsi per abbuffate viene spesso sovrapposto all’obesità, alcuni ricercatori (Cassin & von Ranson, 2007) ipotizzano addirittura che il BED sia una forma di dipendenza da sostanze, e in particolare di dipendenza dall’abbuffata stessa.

Sembra allora che il Binge Eating Disorder sia un disturbo ancora da approfondire e da inquadrare, a seconda che si utilizzi il criterio del funzionamento psicologico (che sembra essere molto simile a quello che si ritrova nelle dipendenze) o all’oggetto di questa dipendenza (il cibo).

A prescindere da quale sia la categoria diagnostica che meglio può inquadrare il disturbo (per questo, attendiamo gli sviluppi nel DSM-V), in un’ottica di prevenzione e trattamento ci interessa di più sapere quali sono le variabili che incidono sulla probabilità di sviluppare un Binge Eating Disorder.

In sostanza: quali sono quelle caratteristiche del temperamento, dello stile di pensiero, oppure relative all’accudimento ricevuto da bambini, che aumentano la vulnerabilità a sviluppare un BED o che al contrario possono funzionare da fattori protettivi in questo senso?

Con lo scopo di comprendere meglio quale sia il quadro complessivo all’interno del quale si colloca un disturbo come il BED, il Gruppo Ricerca di Studi Cognitivi insieme al Dipartimento di Psicologia dell’Università degli Studi di Pavia ha dato il via a una ricerca esplorativa, composta da una serie di questionari che è possibile compilare online, utilizzando un po’ del vostro tempo per aiutarci a comprendere meglio il disturbo alimentare finora più trascurato, ma anche così comune nella popolazione generale (in Italia la prevalenza è stimata intorno al 7.5-8.3% nelle donne e 4.2% negli uomini; Ricca, Mannucci, Moretti, Di Bernardo, Zucchi, Cabras e Rotella, 2000).

Se avete voglia di aiutarci a capire quali possono essere le caratteristiche che espongono a un maggiore o minore rischio di abbuffarsi in modo patologico, vi chiediamo solo 20 minuti del vostro tempo per completare una serie di questionari.

Per partecipare alla ricerca, non è necessario avere problemi con il cibo o essere abituati alle abbuffate: le domande cercano di capire meglio come siete fatti voi e come vi rapportate (anche in un modo “sano”) con il cibo. Basta cliccare su questo link:

https://www.surveymonkey.com/s/binged

 

NOTA: TUTTI I DATI SONO TRATTATI IN FORMA RIGOROSAMENTE ANONIMA. 

 

Grazie a tutti per la vostra collaborazione. Vedrete presto i risultati su State of Mind!

 

 

BIBLIOGRAFIA: 

Psicologia delle Migrazioni: Globalizzazione & Nostalgia di Casa

Michela Adele Pozzi.

 

Psicologia delle Migrazioni: Globalizzazione & Nostalgia di Casa. - Immagine: © carlosgardel - Fotolia.comSu “La Repubblica” del 28 marzo sono apparsi due articoli molto interessanti, firmati da Federico Rampini e Gabriele Romagnoli, in cui, a partire da considerazioni inerenti il fenomeno delle migrazioni, sono presenti numerosi spunti di riflessione a livello sociale e psicologico.  

Rampini presenta dei dati che ci consentono di accostare l’imponenza del fenomeno migratorio nel mondo:

«In totale, in questo istante un miliardo di abitanti del pianeta vivono l’esperienza dell’emigrazione: un essere umano su sette […] Un terzo dell’umanità si sente psicologicamente sul piede di partenza, disponibile o costretto, attirato o rassegnato a doversi rifare una vita “altrove”».

Trascurando (non certo per importanza) di considerare gli innumerevoli casi di migrazioni dovute alle difficili condizioni di vita nel Paese di origine, vorrei qui soffermarmi sul fatto che moltissime persone scelgono spontaneamente di trasferirsi all’estero, in modo più o meno definitivo, al fine di trovare migliori opportunità di studio o lavoro. Questo fenomeno ci costringe ad una rappresentazione del migrante molto diversa dall’immagine dei numerosi profughi disperati che raggiungono le nostre coste via mare.

Psicopatologia delle Migrazioni: la Diagnosi in terra straniera. - Immagine: © Antonio Gravante - Fotolia.com
Articolo consigliato: Psicopatologia delle Migrazioni: la Diagnosi in terra straniera.

Innanzitutto, dobbiamo pensare ad una persona mossa da desideri di autorealizzazione, carriera, acculturazione, che sceglie per questi di lasciare il proprio Paese, la propria città, la propria famiglia, spesso sapendo che vi tornerà solo per brevi vacanze: tale immagine risulta oggi vincente a livello sociale, in quanto mobilità, flessibilità ed adattabilità costituiscono valori forti nella nostra cultura.

Tornando all’articolo, Rampini ci pone una domanda cruciale: «Ma è proprio vero che il XXI secolo ci ha reso tutti cittadini del mondo, cosmopoliti e flessibili?». Attraverso l’esperienza di Susan Matt, studiosa americana delle migrazioni, l’Autore ci porta a considerare i notevoli (ma spesso taciuti) effetti psicologici di questa scelta di vita: spaesamento, depressione, sindromi da stress di acculturazione, in una definizione «Sindrome nostalgica».

Mentre un tempo tale condizione era clinicamente riconosciuta, oggi parlare di nostalgia pare anacronistico, anzi, è un vero e proprio tabù: d’altronde, quando è possibile mettersi in contatto con chiunque all’istante, contraendo in modo vertiginoso lo spazio e il tempo della distanza, ha ancora senso l’esistenza di questo termine? Forse non nei dizionari cui accediamo tramite gli smartphone, ma certamente si nel nostro alfabeto emotivo.

Con le parole della Matt, «Sembra quasi che le emozioni e i danni affettivi dell’emigrazione siano un ostacolo imbarazzante sulla strada del progresso e della prosperità individuale. L’idea che sia facile e che ci si debba sentire a casa propria in ogni angolo del pianeta deriva da una visione dell’umanità che celebra l’individuo solitario, mobile, facilmente separabile dalla sua famiglia, dalle sue radici, dal suo passato».

Già, sentirsi a casa propria: possiamo domandarci se, dopo “nostalgia”, “casa” sia un altro termine che si sta cercando di eliminare dal dizionario?

A questo riguardo, l’articolo di Romagnoli offre una suggestione interessante: «Metti di aver cambiato 8 città in 4 continenti. Ventisei appartamenti aperti e chiusi (trauma da trasloco? Basta sopravvivere la prima volta). Poi qualcuno ti chiede: non hai nostalgia di casa? Cerchi la risposta, ma quel che non trovi è “casa”». Come farà l’Autore nel corso dell’articolo, ognuno di noi può proporre una propria definizione, provando ad immaginarne le possibili variazioni in base a diverse circostanze:

Amarezza cronica post-traumatica. Immagine: © 2011-2012 Costanza Prinetti -
Articolo consigliato: Amarezza cronica post-traumatica: una diagnosi per i precari.

Cos’è per noi “casa” se siamo adolescenti o una giovane coppia in procinto di sposarsi, cosa quando non vediamo l’ora di partire per le vacanze o quando siamo sfiniti dopo una giornata di lavoro, cosa quando scegliamo di trasferirci all’estero per poter praticare il nostro lavoro o quando atterriamo in mezzo a persone che non parlano la nostra lingua? La differenza, qui, la fanno le emozioni, non certo la presenza di quattro mura, un pavimento e un tetto. I sentimenti che si muovono dentro di noi quando ci confrontiamo con il concetto di casa attengono a qualcosa di profondo, riguardante le nostre origini.

Non a caso, per lo psichiatra e psicoanalista svizzero Carl Gustav Jung, nel sogno la casa rappresenta «una specie di immagine della psiche» (C.G. Jung, 1961), in cui la discesa ai piani inferiori e sotterranei si accompagna alla scoperta di strati più remoti appartenenti all’inconscio personale e collettivo: «La coscienza era rappresentata dal salotto: aveva un’atmosfera di luogo abitato, nonostante lo stile di altri tempi. Col pianterreno cominciava l’inconscio vero e proprio. Quanto più scendevo in basso, tanto più diveniva estraneo e oscuro. Nella caverna avevo scoperto i resti di una primitiva civiltà, cioè il mondo dell’uomo primitivo in me stesso, un mondo che solo a stento può essere raggiunto o illuminato dalla coscienza».

LIFE IN A DAY - 2011
Articolo consigliato: Life in a day: un Poema Audiovisivo 2.0

La casa, «il luogo tra i luoghi» (B. Massimilla, 2009), concentra su di sé un carattere archetipico, oltre che un significato personale: anche se possiamo trasferirci ed adattarci a vivere praticamente ovunque, quella nostalgia che cerchiamo affannosamente di negare mediante il ricorso ai più svariati mezzi di comunicazione costituisce un richiamo primitivo a quello spazio intimo fatto di persone, oggetti, ricordi, emozioni.

Essa è dunque testimone della presenza di un legame indissolubile, che può risultare scomodo rispetto ai nuovi valori che nel giro di poche generazioni si sono affermati: ma questo lasso di tempo storico è infinitamente piccolo rispetto ad un tempo interiore, che ci lega al mondo animale e ai nostri antenati primitivi che, dopo la scoperta del fuoco, presero a riunirsi intorno a un focolare.

 

 

BIBLIOGRAFIA:

Psicologia del Lutto #2: Angoscia, Meccanismi di Difesa e Comunicazione.

Parte #2: Angoscia di morte, malattia e meccanismi di difesa

Psicologia del Lutto #2: Angoscia, Meccanismi di Difesa e Comunicazione. - Immagine: © olly - Fotolia.comDiversi autori (Kubler-Ross, 1976; Zapparoli e Adler Segre, 1997; Biondi G., Rossi A., Donfrancesco A., 2001; Ferro, 1986; Rubbini Paglia e Di Giovanni, 2001; Soccorsi, Lombardi, Rubbini Paglia, 1984; Soccorsi, 1986; Soccorsi, Di Giovanni, Ruggiero, Rubbini Paglia, 2001; Bowen, 1979) che nel loro percorso professionale si sono trovati a lavorare con malati terminali o comunque con situazioni ad alto rischio di morte, hanno evidenziato in chi è malato, nei suoi familiari e nel personale medico, la mobilizzazione di meccanismi di difesa, che possono essere più o meno funzionali rispetto alla situazione da affrontare e più o meno rigidi rispetto alla possibilità di un cambiamento evolutivo.

La difesa forse più radicale all’idea della propria morte è la psicosi; secondo Zapparoli (1997) “la psicosi stessa è alla base dell’illusione di immortalità […] la psicosi garantisce l’immortalità, poiché permette loro [ai morenti] di vivere una condizione di eccezionalità, di diversità dagli altri; permette di conseguenza di raggiungere la sicurezza di avere una diversità anche nel senso di non condividere con il resto dell’umanità il destino comune di invecchiare e morire. La “normalità” invece è connessa all’essere mortali”.

Accettazione del Lutto. - Immagine: © bruniewska - Fotolia.com
Articolo consigliato: Psicologia del Lutto: Accettazione & Elaborazione

La costruzione di una “personale” realtà psicotica permette l’illusione dell’allontanamento dalla condizione “collettiva” del resto dell’umanità. Anche Searles (1965) sottolinea come la ricerca dell’illusione di immortalità sia una costante nelle produzioni psicotiche: l’illusione di immortalità permette allo psicotico di non affrontare la realtà che la vita è per sua natura legata alla morte.

Da questo punto di vista ciò che accomuna i pazienti psicotici alle persone morenti è il comune bisogno di una difesa in termini di illusione, per non vivere emotivamente panico e terrore di fronte ai propri limiti. Il passaggio da momenti di profonda consapevolezza della malattia e della morte imminente è spesso alternato a momenti in cui questa consapevolezza viene persa grazie allo sviluppo di quella che Zapparoli e Serge chiamano “area illusionale”. L’area illusionale è uno spazio mentale ed emotivo nel quale è possibile, nonostante l’approssimarsi della fine, attingere a fantasie che permettano di continuare ad elaborare aspetti vitali e costruttivi dell’esistenza. Lo sviluppo di questa area illusionale permette di evitare l’impatto diretto con l’idea della morte mediando tra due componenti: quella che sa che la morte è imminente e quella che si illude di avere ancora tempo di vivere e fare le cose che non ha fatto in passato. L’area illusionale diviene il mezzo con cui l’individuo può accettare di identificare le sue risorse per trascorrere il tempo che rimane nel modo più costruttivo; allo stesso tempo è uno dei mezzi più efficaci per aiutare chi sta morendo ad accettare il limite del proprio essere “finito”. Aggiungendo una realtà extracorporea, trascendendo la realtà costituita dalla fisicità, si arricchisce l’esistenza di una dimensione di cui fanno parte tutti gli elementi che da sempre aiutano gli uomini ad affrontare le difficoltà della realtà.

Lo sviluppo di un’ area illusionale sostitutiva appartiene all’area della patologia e solitamente il lavoro terapeutico è volto a ridurla per favorire un maggiore contatto con la realtà; con i pazienti terminali, in certe fasi, è necessario ribaltare questo rapporto e considerare la possibilità di utilizzare l’illusione come realtà sostitutiva di certe gratificazioni al momento impossibili, allo scopo di minimizzare e ridurre gli aspetti angosciosi e terrifici della realtà legata alla morte. La differenza rispetto alla patologia è che si tratta sempre di un area parziale, nel senso che è sempre presente anche un esame di realtà e non compare mai la comunicazione delirante dello psicotico.

Anche Kubler-Ross (1976) mette in evidenza come la possibilità di mantenere una speranza fino alla fine sia un elemento fondamentale nel processo di pacificazione con la morte. In particolare l’autrice sottolinea un duplice aspetto legato alla speranza: se da un lato è fondamentale che i pazienti possano conservare, finché ne hanno bisogno, la speranza che possa succedere qualcosa di imprevisto, che possano avere una remissione clinica o che possano vivere più a lungo del previsto, dall’altro, quando il paziente stesso è pronto a morire, è per lui fonte di grande angoscia l’incapacità dei familiari di accettare questo fatto e il loro attaccarsi disperatamente alla speranza.

Bambini nel tempo: Comunicare la Malattia e l' Accudimento Invertito. - Immagine: © 1998-2012 Hoepli Editore. Immagine Riprodotta su gentile concessione dell'Editore.
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Riuscire a rispettare i tempi e i bisogni di chi sta morendo è sicuramente uno degli aspetti più importanti del lavoro con i malati terminali e in generale del rapporto tra queste persone e chi gli sta vicino. A tal proposito è interessante notare come il processo di elaborazione del lutto sia simile in chi ha subito la perdita di qualcuno e in chi sa di approssimarsi alla fine. In entrambe le situazioni si passa attraverso una serie di fasi nelle quali si susseguono e intervallano rifiuto, incredulità, rabbia, invidia, depressione, fino a giungere, seppur non sempre, all’accettazione della morte. (Bowlby, 1979; Kubler-Ross, 1976; Zapparoli e Adler Segre, 1997)

Saper riconoscere le varie fasi del percorso verso la morte e sapere ascoltare e accogliere sentimenti di rifiuto della realtà della morte, di rabbia per quelli che non devono affrontare la fine, di invidia per i sani e di tristezza al pensiero di dover lasciare tante persone e luoghi cari, è l’unico modo per essere veramente di aiuto a chi si accinge ad intraprendere un percorso che nel migliore dei casi lo porterà all’accettazione del destino di morte.

La libertà di comunicare pensieri, emozioni, sentimenti e fantasie alle persone vicine è una caratteristica di quelli che Bowen (1979) chiama “sistemi aperti”. Al contrario un “sistema di comunicazione chiuso” è un “riflesso emotivo automatico per cui ciascuno si protegge dall’ansia presente negli altri” evitando di affrontare argomenti e di esprimere sentimenti o fantasie potenzialmente angosciose. La morte è il principale argomento tabù: al processo intrapsichico, per cui c’è un certo diniego della morte in ognuno, si aggiunge il “sistema chiuso”, per cui le persone non possono comunicare i loro sentimenti senza turbare gli altri.

EMDR, Cardiopatia e Salute Psico-Fisica - Immagine: © Little sisters - Fotolia.com
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Intorno alla persona con una malattia terminale ruotano, secondo Bowen, tre sistemi chiusi: il primo agisce all’interno del paziente e ha a che fare con la profonda consapevolezza della propria morte imminente, consapevolezza che quasi sempre il morente ha ma che tuttavia spesso non comunica a nessuno; la famiglia amplifica questa incomunicabilità distorcendo e reinterpretando tutte le informazioni fornite dal medico, così che spesso si crea un alone di mistero attorno alla natura della malattia e al suo decorso, mistero che naturalmente incrementa sia il livello di ansia, che la possibilità di affrontarla; il terzo sistema chiuso è quello del medico curante e del personale medico che è un sistema di comunicazione basato su dati medici, tanto più incomprensibili per la famiglia tanto più vengono usati del medico stesso per gestire la sua emotività e la sua angoscia.

Perché il sistema di comunicazione rimanga aperto e al suo interno sia possibile condividere emozioni, vissuti e dati di realtà, per poter “morire con il paziente” (Eissler, 1995), il presupposto è la consapevolezza intellettuale e l’accettazione emotiva che la morte è una condizione universale: accettare che la morte esiste come parte della vita e come suo punto finale ci mette di fronte a un limite, che è sia il limite di fronte al quale ci pone chi sta morendo, cioè ciò che possiamo fare per lui in quel momento, sia il limite di quello che potremo fare per noi stessi quando vivremo la stessa condizione.

È la presenza della morte nel nostro futuro il dato di realtà che ci rende possibile annullare l’elemento di fondo di disuguaglianza con la persona che sta morendo e stabilire un rapporto di ascolto e di aiuto che non risenta della sovrapposizione di nostri meccanismi di difesa e negazione.

Nel prossimo articolo verrà affrontato il tema dei meccanismi di difesa che l’intero nucleo familiare mobilita quando si ammala un bambino.

 

 

BIBLIOGRAFIA:

  • Biondi G., Rossi A., Donfrancesco A. (2001) Il paziente terminale in età pediatrica, la sua famiglia, lo staff, quale interazione? Informazione psicologia, psicoterapia, psichiatria. Anno 12, 43: 50-55
  • Bowen M. (1979) Dalla famiglia all’individuo. Astrolabio, Roma
  • Eissler K.R. (1995) The psychiatrist and the dying patient. International University Press, New York.
  • Kubler-Ross E. (1976) La morte e il morire. Cittadella Editrice, Assisi.
  • Rubbini Paglia P., Di Giovanni S. (2001) Relazione d’aiuto e accompagnamento alla morte al bambino oncologico e alla sua famiglia. In-formazione psicologia, psicoterapia, psichiatria. Anno 12, 43: 56-59.
  • Searles H.F. (1965) Scritti sulla schizofrenia. Bollati Boringhieri, Torino, 1974.
  • Soccorsi S. (intervista a) (1986) Il bambino e il tumore: l’esperienza di una terapeuta sistemica. Ecologia della mente, 1: 4-12.
  • Soccorsi S., Di Giovanni S., Ruggiero A., Rubbini Paglia P. (2001) Percorso della famiglia tra appartenenza e separazione dal centro oncologico. Acta med. Rom., 39:82-86-
  • Soccorsi S., Lombardi F., Rubbini Paglia P. (1984) La famiglia come risorsa nel trattamento del bambino oncologico. Terapia Familiare, 16: 47-66.
  • Soccorsi S., Rubbini Paglia P. (1989) La malattia oncologica del bambino come incidente evolutivo della famiglia. Terapia familiare, 29: 5-15.
  • Zapparoli G.C. & Adler Segre E. (1997) Vivere e morire. Un modello di intervento con i malati terminali. Campi del Sapere, Feltrinelli, Milano.

Le grandi decisioni e l’influenza dell’aspettativa di vita percepita.

– Rassegna Stampa – 

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze PsicologicheSecondo uno studio recentemente pubblicato negli Archives of Sexual Behaviour le decisioni importanti che scandiscono il ciclo di vita delle persone sarebbero influenzate dalla valutazione inconscia sulla propria aspettativa di vita. Secondo questa teoria evolutiva, nota come Life History Evolution Theory, eventi come il matrimonio, il divorzio, decidere di abortire o di mettere al mondo un figlio, o di frequentare o meno l’università dipenderebbero, proprio come avviene nel mondo animale, da quanto si stima di poter vivere.

La ricerca, condotta alla Queen’s University con i dati provenienti dalla Statistics Canada, ha evidenziato che a fronte di un orizzonte temporale limitato ci si affretta a sposarsi e a riprodursi, mentre orizzonti temporali più lunghi aumentano la probabilità di interruzioni sia di gravidanza che delle relazioni, favorendo invece gli investimenti nel campo dell’istruzione.

L’aspettativa di vita quindi correla positivamente con i parametri di fertilità specifici per età, con l’età del primo matrimonio, di divorzio, di aborto, con il raggiungimento del diploma di scuola superiore e con gradi di istruzione superiore (fatta eccezione per i mestieri) e con numero medio di anni di scolarità. Queste associazioni, dice Daniel Krupp, sono anche mediate da valutazioni individuali, spesso non consapevolmente elaborate, sulla propria aspettativa di vita: ho una buona salute? Quali rischi corro con il mio lavoro? I miei nonni sono ancora vivi? Qual’è la storia di malattia della mia famiglia?

Insomma un primo interessante passo è stato fatto, ma sono necessarie ulteriori ricerche prima di poter trarre delle conclusioni certe.

 

 

BIBLIOGRAFIA: 

I CYBORG SOGNANO? VISIONI DEL POST-UMANO NE IL CACCIATORE DEI SOGNI DI SHINYA TSUKAMOTO

State of Mind e Editrice Clinamen presentano: 

Giuseppe Civitarese

 

Perdere la Testa

Abiezione, conflitto estetico 

e critica psicoanalitica

 Giuseppe Civitarese - Perdere la Testa - Immagine: © Editrice Clinamen

Booktrailer: Capitolo 4 

I CYBORG SOGNANO? VISIONI DEL POST-UMANO NE IL CACCIATORE DEI SOGNI DI SHINYA TSUKAMOTO 

 

Nightmare Detective - Immagine: Theatrical Poster Cover1. Il cacciatore dei sogni

 

“Il mio interesse per gli incubi riguarda il tempo della mia infanzia. La cosa più orribile per me era addormentarmi, perché subito precipitavo in sogni che mi facevano paura”: nel girare Nightmare Detective (Akumu Tantei,2006), come spiega egli stesso in un’intervista2, Shinya Tsukamoto si è ispirato agli spettri che lo tormentavano da bambino. Non stupisce che sia diventato uno dei registi più capaci di raffigurare il mondo onirico e che abbia eletto a suoi maestri David Cronenberg e David Lynch. Anche se non conosciutissimo dal grande pubblico, Tsukamoto è uno degli autori di maggior talento del cinema giapponese contemporaneo, consacrato da numerosi premi tra cui, per Snake of June (2002), quello speciale della giuria al festival di Venezia.

Il tema chiave del mondo poetico del regista è l’alienazione umana che si produce quando la costruzione del soggetto è stata segnata da traumi. Per scavare in questa infelicità, che vediamo tutti i giorni nella stanza d’analisi, Tsukamoto ha scelto il linguaggio dell’immaginario cyberpunk. Il filone, inaugurato da Blade Runner (1982), preconizza un’era dominata dai computer e un’umanità asservita alle macchine. È la nuova società dei cyborg in cui, come la (fanta)scienza promette, le menti saranno trasferibili come file. Nuove tecnologie parassitano il corpo o lo plasmano a propria immagine. Dispositivi sempre più invasivi o, al contrario, inglobanti, sottraggono umanità all’individuo e alla società. Si spostano i confini tra umano e non-umano.

In questo modo, sviluppando la metafora centrale dell’uomo-macchina per trattare della deumanizzazione, Nightmare Detective è anche una meditazione sul moderno disagio di civiltà. Illuminando con una luce cruda la cultura del cosiddetto post/trans-umano, Tsukamoto ci mostra come si sta ridefinendo la soggettività. In sostanza, egli ci ripropone il medesimo mondo poetico dei primi film, insieme geniali e sconcertanti. Ma lo fa con uno stile assai meno espressionistico e riesce – è la sorpresa che ci riserva – afarci vedere che la tecnosfera è già entrata insidiosamente nella nostra vita quotidiana. Basterebbe pensare alle tecnologie della realtà virtuale, all’ingegneria riproduttiva e genetica, alla chirurgia plastica, all’intelligenza artificiale, ai nuovi media ecc.

Giuseppe Civitarese - Perdere la Testa - Immagine: Immagine di Copertina © Editrice Clinamen
LEGGI LA RECENSIONE: Critica Psicoanalitica: Recensione di Perdere la Testa di Giuseppe Civitarese - A cura di GIovanni M. Ruggiero

Il film può interessare gli analisti perché tratta dell’angoscia e del suicidio e perché , a mio avviso, raggiunge risultati insuperati nella raffigurazione dell’incubo. Le scene in cui alcuni personaggi s’incontrano nella realtà del sogno sono straordinariamente suggestive. Che io sappia, non ci sono immagini più evocative del concetto di spazio comune del sogno, che è centrale in alcuni modelli della psicoanalisi contemporanea. In queste note mi propongo di mostrare come l’autore intrecci efficacemente i temi dell’infelicità individuale e collettiva con l’esplorazione della dimensione onirica: cosa significa sognare o fare sogni interrotti, come si può riprendere a sognare, che tipo di causalità circolare si può venire a creare tra l’utilizzo della tecnologia come difesa e la tecnologia come fattore in sé di alienazione sociale. Ma conviene prima riassumere la trama del film, che spesso è volutamente ambiguo, proprio perché tratta dell’ambiguità del sogno.

 

 

 

2. Zero

 

Sdraiata a letto, insonne, la detective Keiko Kirishima (la pop star Hitomi alla prima prova come attrice), da poco in forza al nucleo operativo della squadra omicidi di un distretto di Tokyo, sfoglia nervosamente il libro sui sogni di Medard Boss. Poi, lo lascia cadere. In un flash le riappaiono le drammatiche immagini della scena del delitto su cui sta indagando: una ragazza punk è stata trovata morta nella sua stanza in circostanze misteriose con il corpo dilaniato da numerose ferite da taglio. È il primo caso che le è stato assegnato e non si presenta certo come uno dei più semplici. La porta della stanza era chiusa dall’interno. Tutto lascia pensare a un suicidio. Keiko però non ne è del tutto convinta, anche perché ha scoperto che prima di morire la ragazza aveva composto al cellulare un numero di telefono, registrato nella rubrica con “0” (zero), e le è sembrato un indizio prezioso per provare a risalire all’assassino.

Lasciatasi alle spalle una brillante carriera accademica come criminologa, Keiko ha sentito il bisogno di confrontarsi con l’orrore sul campo, ma per ben due volte non regge la vista del sangue. Si capisce che al commissariato sia accolta con ironia mista a sufficienza dall’ispettore anziano, Sekya (Ren Osugi), incredulo di fronte a questa collega che anche sul lavoro calza i tacchi alti. Tuttavia la sua debolezza, sintomo di un fondo di malessere, allo stesso titolo dell’espressione assorta e come assente del viso, si rivelerà la sua forza.

Intanto, in circostanze altrettanto insolite un uomo si uccide nel sonno a fianco della moglie che assiste inorridita. Prima di togliersi la vita in modo così crudele, si scopre, anche l’uomo ha fatto la misteriosa chiamata. Tradizionalista, pragmatico, anche piuttosto cinico, Sekya vorrebbe archiviare i due crimini come casi di suicidio. Invece Keiko e Wagamya (Masanobu Ando), un collega più giovane di Sekya, sono incaricati di seguire altre vie, extra- o paranormali. Poiché entrambe le vittime sembrano essere state assassinate mentre facevano un incubo, i due decidono di affidarsi a un esperto: Kyoichi Kagenuma (Ryuhei Matsuda), il detective dei sogni.

Il regista lo ha già presentato nella prima scena del film quando come dal nulla si materializza nel sogno di un altro personaggio. Si tratta d’un uomo d’affari (Yoshio Harada) in coma in un letto d’ospedale. Nei suoi incubi è perseguitato da una figlia mai nata perché, senza dirglielo, la moglie aveva abortito. Kagenuma glielo rivela nel tentativo di liberarlo del suo dolore e di ridargli la voglia di risvegliarsi dal suo stato. È quanto gli hanno chiesto di fare i parenti dell’uomo. Riuniti al suo capezzale, vorrebbero prolungargli la vita per dargli modo di firmare il testamento o almeno per capire a chi debba andare la cospicua fortuna che lascia.

Kagenuma è un giovane sensitivo affetto da tendenze suicidarie – se fosse un terapeuta professionista, diremmo che è decisamente burn out -, ha la capacità di entrare nei sogni delle persone e di percepire i pensieri di quelli che gli stanno attorno. È perché è così depresso e disgustato dalla vita che, quando Keiko e Wagamya lo vanno a trovare, Kagenuma li respinge violentemente.

Deluso dalla sua reazione, per stanare lo strano assassino, ipoteticamente identificato con il destinatario delle telefonate e per questo ormai noto come Zero, ed esponendosi in prima persona alle sue perverse suggestioni, Wakamya si decide a comporre il numero fatale. Sconvolta perché teme per la vita del collega, Keiko torna a implorare Kagenuma di entrare nel suo sogno e di salvarlo. Egli accetta, ma l’avverte:

 

KAGENUMA Voglio… voglio solo che sia chiara una cosa. Entrare… nei sogni della gente non è il mio lavoro. L’ho fatto solo per salvare delle persone che conosco dai loro incubi. Posso… entrare nei sogni. Tutto qui, ma non posso garantire niente. Finiscono sempre tutti così male! Ho affrontato cose orribili, disgustose. E io…io, non voglio farlo mai più. Se mi hai chiesto aiuto, avrai i tuoi buoni motivi, ma giocare col fuoco è pericoloso. Lo è per me, ma soprattutto per colui che sogna. Potrebbe svegliarsi con dei seri problemi. Perciò… questa sarà l’ultima volta. Me lo devi promettere.

KEIKO Va bene.

KAGENUMA Anche se… entrerò nella sua mente, non è detto che possa aiutarlo. Se c’è pericolo… io me ne torno indietro. Non faccio niente. È chiaro? Hai capito?

KEIKO Sì. D’accordo. Voglio solo che tu gli stia accanto. Non ti chiedo altro.

 

Wakamya, però, non ce la fa e muore egli stesso “suicida” perché non riesce a resistere alla pulsione di morte che Zero gli risveglia nell’animo. È qui che il regista ci fa vedere per la prima volta Zero. Rintracciato dalle sue vittime su internet, e poi contattato al cellulare, Zero le seduce a un suicidio a due (in internet esistono davvero comunità del genere): vi parteciperà egli stesso, spiega ogni volta, in una specie di rituale condiviso, anche se a distanza. Poi s’insinua nei loro sogni e le uccide. Nell’istante in cui la vittima si colpisce, lo si vede mentre anch’egli si infligge delle profonde ferite con un coltello. Però, poiché è una specie di zombie (un non-morto), rinasce sempre nella mente del prossimo suicida.

Morto Wakamya, Keiko si decide lei stessa a digitare il medesimo contatto in rubrica. Pensa in questo modo di forzare Kagenuma, sempre più riluttante, a superare le proprie paure per farsi aiutare di nuovo nella lotta contro Zero. Come accada, si vede nella scena più drammatica del film. Penetrati ormai entrambi nell’incubo della giovane donna, nel finale si svolge un’impressionante sfida tra Kagenuma, il detective dei sogni, e Zero, il demone che si trova nella mente dei suicidi, e che in queste scene si sdoppia in un mostro sanguinolento e senza pelle, del tutto simile a certi “scorticati” anatomici.

 

NOTE:

Critica Psicoanalitica: Recensione di Perdere la Testa di Giuseppe Civitarese

 

Giuseppe Civitarese - Perdere la Testa - Immagine: Immagine di Copertina © Editrice Clinamen
Giuseppe Civitarese: Perdere la Testa, Abiezione, conflitto estetico e critica psicoanalitica” (Editrice Clinamen, 2012)

Giuseppe Civitarese ha pubblicato “Perdere la testa. Abiezione, conflitto estetico e critica psicoanalitica” (Editrice Clinamen, 2012), una raccolta di saggi di analisi letteraria e cinematografica effettuata con gli strumenti concettuali della psicoanalisi (Critica Psicoanalitica).

Il libro analizza alcuni classici letterari e del cinema: la novella Lisabetta del Decameron, alcune poesie tra decadentismo e futurismo di Corrado Govoni, un sogno raccontato ne “La montagna magica” (o “La montagna incantata”) di Thomas Mann, i film “Persona” di Bergman e “Il servo” di Losey. Ma ci sono anche capitoli dedicati a opere meno classiche, come il film “Il cacciatore di sogni” del giapponese Shinya Tsukamoto, “Niente da nascondere” di Michael Haneke e perfino l’installazione “The last riot” del gruppo AES+F.

Civitarese è ben conscio che la critica letteraria psicoanalitica rischia di essere una facile testa di moro da attaccare e da abbattere, un campo di esercitazione del cosiddetto “Freud-bashing”, quel genere letterario che consiste nel rivelare i vari punti deboli dell’opera di Freud al fine di randellare e pestare (bashing) senza pietà, svalutandone l’intera opera. È vero che talvolta gli psicoanalisti hanno trattato le opere artistiche come “sintomi” da decodificare. Questa tecnica di analisi rischia facilmente di scadere in una naiveté semplicistica e chiusa in se stessa, fina dai tempi dei saggi di Freud su Leonardo da Vinci.

Civitarese G. - Perdere la Testa - BOOKTRAILER
BOOKTRAILER DEL LIBRO: Capitolo 4: I CYBORG SOGNANO? VISIONI DEL POST-UMANO NE IL CACCIATORE DEI SOGNI DI SHINYA TSUKAMOTO

Civitarese però sfugge al rischio perché sa unire competenza psicoanalitica (soprattutto di derivazione kleiniana e Bioniana, come spesso accade nella psicoanalisi italiana) e competenza letteraria e cinematografica. Le opere non sono ridotte a sintomi, ma descritte con rispetto e conoscenza. Inoltre, il libro non è una collana di saggi sconnessi ma segue un filo rosso, un tema unificatore.

Tema che è la violenza che si annida nel cuore dell’attrazione affettiva ed erotica. Violenza non generica e nemmeno simbolica, ma di un tipo ben determinato: il taglio della testa, la decapitazione. Tutti i testi analizzati, a cominciare da Lisabetta di Boccaccio, mostrano quest’atto sanguinario.

Nella decapitazione Civitarese cerca un legame simbolico tra violenza ed eliminazione della vita psicologica, la testa. E l’arte stessa, suggerisce Civitarese, è tesa paradossalmente tra approfondimento dei movimenti dell’anima e loro eliminazione, quasi che l’estrema consapevolezza di se stessi sconfini nella malattia e nella morte.

Forse per questo la serie di saggi si conclude con il sogno di Hans Castorp nella Montagna Magica, romanzo di Mann completamente dedicato al rapporto tra arte e malattia.

Naturalmente colleghi di formazione non analitica potrebbero trovare il gergo freudiano comunque estraneo. È possibile, ma il libro comunque si raccomanda per la felice semplicità di analisi di varie opere e per la capacità di utilizzare lo strumento dell’analisi simbolica in maniera prudente e comprensibile.

In ogni caso, anche altri orientamenti psicologici, come quello cognitivo, stanno iniziando ad esplorare il funzionamento dei meccanismi associativi di tipo metaforico in terapia. Vedi ad esempio la recente “Oxford Guide to Metaphors in CBT” di Richard Stott.

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Capitolo 4 – I CYBORG SOGNANO? VISIONI DEL POST-UMANO NE IL CACCIATORE DEI SOGNI DI SHINYA TSUKAMOTO 

 

BIBLIOGRAFIA: 

Psicoterapia: Il DSM 5, i clinici di campagna e i Disturbi di Personalita’

Pubblichiamo con piacere un contributo di Antonio Semerari sul problema della diagnosi dei disturbi di personalità tra DSM-IV e DSM-5

ContadiniHo un grande rispetto per gli statistici, sostegno prezioso e misterioso delle nostre modeste ricerche, e provo anche una sorta di reverenziale soggezione nei loro confronti.Ma a volte esagerano! E combinano guai se non vengono tenuti al loro posto da noi rudi clinici di campagna.

Il primo guaio l’avevano combinato con le categorie dei disturbi di personalita’ del DSM-IV. Per garantirsi la coerenza interna dei criteri hanno forzato molti disturbi descrivendoli in base ad un solo criterio ripetuto più volte.

Così il paranoide sospetta e basta, ma sospetta in sei contesti diversi che corrispondono ai vari criteri. L’evitante si sente inadeguato e teme il giudizio per sei volte in diverse circostanze. Il risultato è stato di offrirci caricature. Ma loro non si sono preoccupati di questo. Si sono preoccupati del fatto che, così facendo si ritrovavano per le mani un risultato inaccettabile dal punto di vista statistico. Le sovrapposizioni delle diagnosi. Se un borderline è sospettoso o teme il giudizio ecco che diventa anche paranoide o evitante.

Otto Kernberg, Lectio Magistralis Milano-Bicocca, Narcissistic personality disorder, towards DSM-5 - Lectio Magistralis by Otto Kernberg and Frank Yeoman (2) - Immagine: © 2012 State of Mind - Anteprima
Articolo consigliato: DSM-V: Quando l’ideologia sconfigge la scienza: sulla Lectio Magistralis di Kernberg a Milano

Che male c’è se diverse malattie condividono alcuni sintomi? Si chiede il clinico di campagna. Nessuno. Gli edemi, ad esempio, sono presenti in disturbi molti diversi. Ma noi, con la nostra rozza praticaccia, sappiamo ben fare una diagnosi differenziale. Ma non è stata la strada della ricerca dei criteri differenziali quella intrapresa. C’era bella è pronta una teoria accademica della personalità che si presta molto a procedure di validazione statistica. Qualcosa di adattissimo ai questionari.

La teoria dei tratti, si chiama. Studia le dimensioni, il più e il meno, il troppo e il poco del nostro stile comportamentale. Ed è nata proprio dai questionari. Che c’è di meglio per far tornare i conti? Che poi il concetto di tratto sorvoli su quello che pensa e prova un paziente e che non è affatto dimostrato che abbiano rilevanza clinica e potere discriminativo è cosa secondaria. I conti torneranno. Non avremo sovrapposizioni diagnostiche e nemmeno mancherà la coerenza interna. Peccato che la diagnosi richiederà un numero strabiliante di tratti e di crocette da mettere. Poco male. Alla fine nessuno, tranne qualche Pierino primo della classe la userà.

 

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Psicologia & Filosofia: Viaggio alla ricerca della libertà

Stefano Terenzi. 

Psicologia & Filosofia: Viaggio alla ricerca della Libertà. - Immagine: © gunnar3000 - Fotolia.comIn riferimento all’articolo precedente Corpi diversi, menti diverse una questione ancora più ampia riguarda il dibattito tra determinismo e libero arbitrio. L’argomento ha una valenza sia sociale che antropologica e dirige, più o meno inconsciamente, gli agiti dell’individuo e delle masse da tempi probabilmente antecedenti alla scrittura.

Per quanto ad esso concerne ritengo molto interessante la lezione tenuta sul tema dal Prof. Nicola Zippel, docente del Dipartimento di Filosofia dell’Università “La Sapienza” di Roma e dal Dott. Giuseppe Tropeano, già primario di Psichiatria dell’Ospedale San Camillo-Forlanini di Roma, Direttore Scientifico della rivista “Mente e Cura” e docente dell’Istituto Romano di Psicoterapia Psicodinamica Integrata, nel febbraio 2012.

L’argomentazione ci conduce lungo la storia della filosofia presentando ataviche visioni fatalistiche e recenti concettualizzazioni neurofilosofiche; introducendo brillanti riflessioni e stimolanti teorizzazioni che, con le sue ripercussioni sociologiche, coinvolgono sia la psicologia che la filosofia. Il tema trattato implicherebbe molte pagine, solo per le dovute riflessioni riguardo le teorie dei diversi filosofi e studiosi. Ma cercherò, attraverso brevi riflessioni, di seguire un filo logico, del tutto personale, che possa essere uno spunto per futuri approfondimenti e confronti.

Corpi diversi, Menti diverse: the Body-Specificity Hypothesis
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Partendo dalla letteratura classica greca, nei versi dell’Iliade, è proposta una visione fatalistica della libertà umana. Nel libro XXIV dell’opera di Omero, infatti, Priamo, giunto grazie ad Ermes nella tenda di Achille, chiede al “Pelide” la restituzione del corpo di Ettore, il proprio figlio, ucciso dal semidio. Quest’ultimo, colpito dal coraggio del Re di Ilio, parla del destino proponendo un’idea d’azione umana intrecciata, smossa e trasportata dal fato.

Nondimeno Esiodo, nella Teogonia, evidenziava come Cronos, padre degli dei, pur riuscendo a mangiare i propri figli, risultò alla fine sconfitto da Zeus. Appare quindi, ai nostri occhi, una visione fatalista della vita, almeno della vita degli dei. Nella letteratura classica latina, invece, Cicerone, nel libro sul fato, argomentava sulla libertà dell’individuo e sul ruolo del destino su di essa, ritenendo che esso vada accettato; e che da questa accettazione sia presente una capacità di agire liberamente. Tale considerazione si incrocia con il concetto di “responsabilità”, affrontata nelle sue argomentazione sulla “causa determinante”. Di diverso avviso era Epicuro. Egli riteneva che la libertà si adattasse alla casualità: essa è un movimento imprevedibile, che riscuote e riporta tutto in crisi.

Percorrendo la linea del tempo, Agostino, sul libero arbitrio affermava come il male, commesso volontariamente, potesse essere punito. Egli riteneva l’individuo in grado, a differenza degli animali, di essere cosciente e, di conseguenza, di essere responsabile delle proprie azioni: la libertà dell’uomo intelligente è, dunque, la volontà di poter scegliere, la capacità di poter volere quello che più egli gradisce. Degna di nota è la concettualizzazione di Pelagio che, nella sua “eresia”, giunse a dare il libero arbitrio all’uomo; a livello assoluto. Egli negava l’importanza del peccato originale, ed affermava il principio secondo il quale ognuno è responsabile solo dei peccati che ha commesso, personalmente. A seguito delle teorie evoluzionistiche di Darwin che hanno scientificamente dimostrato che Adamo ed Eva non sono mai esistiti, come dargli torto?

Il problema del libero arbitrio ha continuato però ad imperversare, fino ai giorni nostri.

Un altro grande pensatore del passato che ha affrontato il tema è stato Lutero. Egli si opponeva all’esistenza del libero arbitrio e ricollegava tutto alla grazia divina. Ma Erasmo ipotizzava che, pur non esistendo il libero arbitrio, tale considerazione non poteva essere divulgata poiché avrebbe portato con sé la conseguente concezione di poter fare tutto ciò che si voleva; non avendone responsabilità alcuna. Lutero, in aggiunta, pensava che l’uomo stesso era una deviazione dal bene e che l’unica forma di salvezza fosse la grazia divina. Egli riteneva la grazia divina predestinata ed affermava l’impossibilità di avere alcun merito nelle opere compiute poiché il destino era predefinito. Inoltre, la predestinazione divina non era data sapere poiché per noi è imprescrutabile. Quel che voleva Lutero è liberare il fedele dalla mediazione della Chiesa con Dio ma così facendo libera anche il fedele dalla libertà di incidere sulla propria salvezza.

Forse i due opposti ,“determinismo e libero arbitrio” delimitano un agire libero; in assenza di alternative. Possiamo, dunque, teorizzare la vita come una catena di cause a cui noi siamo inanellati? La scelta può essere solo un’illusione poiché non c’è ragione nella nostra scelta?

Psicoterapia: Ellis & il Disputing sulla tolleranza della Frustrazione. - Immagine: © frenta - Fotolia.com
Articolo consigliato: Psicoterapia: Ellis & il Disputing sulla tolleranza della Frustrazione.

Attualmente, la neurofilosofia dibatte sul tema del libero arbitrio e considera il nesso tra le nuove scoperte neuroscientifiche e le teorizzazione filosofiche più accreditate. Tra le teorie più controverse, quella di Libet, pioniere nello studio della coscienza umana e primo vincitore del Virtual Nobel Prize in Psychology nell’1983, evidenzia come non esista libertà di azione poiché nel momento in cui si agisce si è già agito.

Neurologicamente, sappiamo che nella corteccia Ventromediale e Dorsolaterale si intrecciano emozioni e ragionamenti (corteccia cingolata). Quest’area potrebbe essere quella adibita alle scelte?

Un esempio interessante è il caso di una donna, colpita da un trauma nella corteccia cingolata, conseguentemente affetta da mutismo acinetico; pur essendo in grado di parlare non lo faceva poiché non lo riteneva necessario. Possiamo dunque ipotizzare che il libero arbitrio si trovi proprio in quest’area, dove emozioni e cognizioni si uniscono e ipoteticamente generano le nostre scelte? Risulta plausibile ritenere che esso dipenda dalla causalità delle nostre scelte, dall’influenza determinante dell’ambiente e dalla nostra storia?

Siamo forse co-fatali, come diceva Lisippo?

Un’altra riflessione importate è quella proposta da Derrett, professore emerito di Oriental Laws alla University of London, che considera come noi probabilmente non siamo “nel circuito” ma siamo “il circuito”. Metzinger in “The Ego Tunnel” afferma nientemeno che noi , ovvero l’io, non c’è: l’io non è altro che un processo biologico. In quest’ottica anche la scelta compiuta, dal processo, non è altro che un altro processo biologico. Ciò può comportare che l’io, in quanto concetto umanisticamente inteso, non esista.  A riguardo, Kant, nella Critica della Ragion Pura, evidenzia come non si possa parlare di libertà e di libero arbitrio, con i termini propri della logica, poiché ciò non porterebbe a nessuna risoluzione.

Giudizio morale: una questione di stomaco. Immagine: © Andy Dean - Fotolia.com -
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Va quindi riconsiderata la libertà come concetto. Essa è una speculazione di cui non si hanno elementi, termini e parametri adeguati ad un suo inquadramento e per una sua definizione.

Possiamo quindi ipotizzare che il libero arbitrio sia una concezione, un fenomeno, che non possiamo conoscere o chiarire con lo strumento proprio della ragione e della logica. Il concetto di libertà sfugge dunque al nostro intelletto, non possiamo imbrigliarlo in modo universale poiché esso può benissimo essere un elemento inesistente che noi, in quanto processi biologici, elaboriamo per necessità, per dare un significato al nostro agire, per fornire un senso al nostro fine. La libertà può anche non esistere e noi non siamo altro che processi biologici poiché la sua discussione non è avallabile attraverso la logica e la terminologia umana. Di conseguenza, il concetto in questione, se ipoteticamente insito nella natura umana, non può essere compreso veramente poiché deficitario di elementi di paragone o di corrispondenza.

 

 

 BIBLIOGRAFIA: 

  •  Cicerone, M.T. (1994).De fato-Sul Destino a cura di Magris A.. Ugo Mursia Editore.
  •  De Liquori, A.M.(1825). Storia delle eresie colle loro confutazioni. Monza.
  •  Erasmo da Rotterdam (1969). Il libero arbitrio (testo integrale) – Martin Lutero, Il servo arbitrio (passi sceltia cura di Roberto Jouvenal, Claudiana, Torino.
  •  Kant, I.(2005). Critica della Ragion Pura. Laterza. Roma.
  •  Libet, B., Gleason, C. A., Wright, E. W., and Pearl, D. K.(1983)Time of conscious intention to act in relation to onset of cerebral activity (readiness-potential). The unconscious initiation of a freely voluntary act. Brain.
  •  Lutero, M. (1993). Il servo arbitrio( 1525) a cura di De Michelis Pintacuda. Torino.
  •  Mesnard, P.(1971). Erasmo. La vita, il pensiero, i testi esemplari (1969), Milano-Firenze. Accademia Sansoni.
  •  Metzinger, T. (2009).The Ego Tunnel: The science of the mind and the myth of the self. New York, Basic Books.
  •  Pacioni, V. (2004).Agostino d’Ippona. Prospettiva storica e attualità di una filosofia, Mursia editore.
  •  Parente, M.I.(1993).Epicuro: Opere. Tea.
  •  Sanasi, P. Esiodo: Teogonia. Web.
  •  Santi, G. (2003).Agostino d’Ippona filosofo, Roma, Lateran university press.
 
  • Rivista Mente e Cura, Organo ufficiale dell’Istituto Romano di Psicoterapia Psicodinamica Integrata  www.menteecura.it

Dislessia: valutare le capacità di Attenzione Visiva per prevenirla

– Rassegna Stampa – 

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze PsicologicheSecondo un nuovo studio pubblicato su Current Biology la diagnosi di dislessia può essere fatta ancor prima che un bambino impari a leggere; sembra infatti che deficit di attenzione visiva siano predittivi di successivi disturbi nella lettura, più di quanto lo siano le capacità linguistiche in fase di pre-lettura. Secondo Andrea Facoetti dell’Università degli Studi di Padova questa scoperta mette fine a un lungo periodo di dibattito sulle cause della dislessia e apre la strada a un nuovo pioneristico approccio per l’identificazione precoce e l’intervento in quel 10% dei bambini che lottano con difficoltà di lettura estreme.

Per un periodo di tre anni i ricercatori hanno studiato i bambini di lingua italiana, dalla fase pre-lettura dell’asilo fino alla seconda elementare. Il team ha valutato le abilità di attenzione visuo-spaziale, cioè la capacità di filtrare l’informazione rilevante da quella irrilevante, l’identificazione sillabica, la memoria verbale a breve termine, e la denominazione rapida del colore, seguita nel corso dei due anni successivi dalla valutazione delle abilità di lettura.

Psicopedia - Immagine: © 2011-2012 State of Mind. Riproduzione riservata
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I risultati hanno rivelato che i bambini che inizialmente avevano difficoltà di attenzione visiva erano gli stessi che in seguito lottavano con difficoltà di lettura.

“Questo è un cambiamento radicale del quadro teorico che spiega la dislessia” ha detto Facoetti “ci costringe a riscrivere ciò che si conosce della malattia e a cambiare i trattamenti riabilitativi per ridurne l’impatto.” Egli sottolinea che semplici compiti di attenzione visiva dovrebbero aiutare a identificare i bambini a rischio di dislessia, inoltre visto che questi recenti studi dimostrano che specifici programmi di pre-lettura sono in grado di migliorare le abilità di lettura, i bambini a rischio di dislessia potrebbero essere trattati con i programmi di prevenzione basati sull’ attenzione visiva spaziale prima ancora di imparare a leggere.”

 

 

BIBLIOGRAFIA: 

Psicoterapia: Ellis & il Disputing sulla Tolleranza della Frustrazione

 

Testa e cuore (e anche altro): il disputing alla Ellis sulla tolleranza della frustrazione

Psicoterapia: Ellis & il Disputing sulla tolleranza della Frustrazione. - Immagine: © frenta - Fotolia.com Nel capitolo precedente abbiamo visto come Ellis punti molto sulla critica delle doverizzazioni come primo pilastro per abbattere queste cosiddette convinzioni irrazionali. Questa critica, per Ellis, deve essere condotta in maniera aggressivamente propagandistica, poiché la radice delle doverizzazioni è profondamente radicata nell’essere umano da forze sociali e storiche il cui obiettivo è l’oppressione e il controllo sociale. Forze anti-individualistiche, quindi.

Nel terzo capitolo di Ragione ed emozione in psicoterapia Ellis discute e critica undici idee irrazionali, e si tratta per lo più di idee sociali. Parrebbe dunque che la terapia di Ellis sia tutta volta al superamento di una sorta di oppressione sociale storicamente determinata da poteri sociali: lo stato, l’opinione pubblica, il decoro, la reputazione, i tabù religiosi. Una terapia ribelle e individualistica.

Nel quarto capitolo tuttavia questo quadro si ribalta. Ellis affronta un nuovo problema, quello della frustrazione e della sua tollerabilità. Per quanto Ellis sia un individualista egli tuttavia non è un ottimista, o almeno non è un ottimista ingenuo. Egli non crede che rigettando tutti i “must”, tutte le doverizzazioni, l’uomo si liberi di tutte le sue infelicità, di tutti i suoi disagi. Anzi, scopriamo che al fondo della terapia di Ellis si cela un nucleo di pessimismo stoico.

Psicoterapia: a che le serve ragionare così? Il Disputing Pragmatico secondo Ellis. - Immagine: © zero13 - Fotolia.com
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E lo scopriamo leggendo il rapporto di un lungo dialogo terapeutico tra Ellis e un suo paziente, tale Mervin Snodds di 23 anni. Costui si lamenta del fatto di dover stendere dei noiosi inventari, suo compito da svolgere per un tirocinio che egli sta completando. Qui vediamo Ellis all’opera per cambiare le convinzioni di Mervin. E il metodo che Ellis usa è appunto stoico: accettazione della frustrazione. Accettazione che avviene attraverso due strade.

La prima è ancora di tipo conoscitivo: la riformulazione in termini sopportabili dell’esperienza negativa. Fedele alla sua impostazione, per la quale la sofferenza psicologica dipende dalle piccole sciocche frasi che ci diciamo, dagli indottrinamenti che ci infliggiamo, Ellis incoraggia Mervin a capire che cosa egli dice a se stesso mentre compila l’inventario. Egli dice che si tratta di un compito noiosissimo, insopportabile, tremendo. A essere sinceri, è piuttosto Ellis che suggerisce a Mervin che egli dica questo a se stesso. Ma effettivamente Mervin da il suo assenso. Dopodiché Ellis esorta Mervin a dire a se stesso che il tutto è piuttosto una situazione effettivamente abbastanza noiosa, ma non tremenda e tantomeno insopportabile. La tecnica di Ellis è quindi di trasformare l’etichetta da “evento catastrofico insopportabile” a “evento negativo ma sopportabile”.

Nella stessa pagina dell’edizione italiana Ellis consiglia addirittura a Mervin di accettare il compito di avere cura dell’inventario e di comprendere le ragioni del suo datore di lavoro, e addirittura di comprenderne le ragioni umane perfino nel caso in cui il capo effettivamente sbagliasse nell’aver affidato a Mervin la responsabilità di chiudere l’inventario. Un bel rovesciamento delle aspettative: il ribelle Ellis che diventa il propangandista della stoica accettazione dell’inevitabile male del mondo. O meglio dell’inevitabile fastidiosità del mondo.

Non esistono dunque per Ellis emozioni insopportabili. Siamo noi che le rendiamo tali definendole insopportabili. È sufficiente invece etichettarle in maniera più neutra come emozioni fastidiose ma sopportabili. Un elenco di queste emozioni sopportabili comprende la delusione, la preoccupazione, il fastidio stesso, la noia, la tristezza, il rammarico e infine la frustrazione.

Questo ultimo passaggio, occorre sottolinearlo, avviene per pura tecnica persuasiva. Ellis si limita a esortare il paziente e spiegargli che egli semplicemente può sopportare e accettare tutto, se semplicemente lo dice a se stesso convincendosene. Non c’è alcun particolare disputing o ragionamento logico da effettuare qui. Si tratta solo di ridefinire, rietichettare, riformulare. E forse di credere.

La dimostrazione migliore della natura persuasiva e non logica di questa mossa, che si può definire la mossa finale di ogni terapia REBT o ellisiana che dir si voglia, la si può trovare in un video pubblicato su Youtube: 

 

Cliccando ascoltiamo, dopo una breve introduzione, Ellis in persona che parla con un suo allievo, Jeffrey Guterman. Allievo che si definisce “depresso”. Vediamo cosa gli risponde Ellis.

  • Ellis (nel video al minuto 3’58”): Giusto. Ma per quale motivo sei depresso? Right. But what are you depressed about?
  • Guterman: Beh, per una serie di cose. Well, a series of events.
  • Ellis: Si Yeah.
  • Guterman: Una è che ho portato l’auto in officina e ho scoperto che devo spendere, uh, più di 600 dollari. One was I took my car in and I found out I had to, uh, spend over $600.
  • Ellis: Bene, è spiacevole, ma cosa stai dicendo a te stesso? Che è orribile? O cosa? Alright, so that’s unfortunate, but what are you telling yourself? That it’s horrible? Or what?
  • Guterman: Si, più o meno quello. Yeah. Pretty much so.
  • Ellis: Bene. Ma tu faresti meglio a pensare “è veramente una regale inculata, ma posso sopravvivere” Right. But you better go back to, “It’s a royal pain in the ass, but I could live with it!.”
  • Guterman: Hmm Well…
  • Ellis: Perché tu puoi. Because you can.
  • Guterman: Huh?
  • Ellis: Perché tu puoi. Because you can.
Psicoterapia: Il Disputing Logico-Empirico. - Immagine: © Carsten Reisinger - Fotolia.com
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Vediamo qui in azione una REBT in poche, pochissime frasi. L’individuazione dell’evento. L’immediato spostarsi dell’attenzione all’esplorazione di ciò che Guterman dice a se stesso. La conseguente svalutazione dell’evento in sé: conta solo ciò che ti dici. La formulazione catastrofica, con Ellis che spinge molto in questa direzione. Ti sei detto che è orribile? Si, più o meno, risponde Guterman. E infine la sostituzione con il negativo sopportabile. È spiacevole. Anzi, è una regale inculata, ma puoi sopravvivere. Perché tu puoi. Detto due volte, ben martellato nella testa del paziente.

In tutto questo anche la colorita frase di Ellis (a royal pain in the ass: una regale inculata) ha il suo senso. Il linguaggio, brutale ma in fondo fumettisticamente recitato da duro cinematografico, è caratteristico di Ellis e svolge il compito di dare sostanza emotiva allo scambio dialogico. Ellis vuole che Guterman senta il dolore proprio li, nel suo culo. Solo così egli potrà convincersi di poter sopravvivere ai suoi dolori. Vi è una componente esperienziale da non sottovalutare in Ellis. Per Ellis il disputing della frustrazione è un’esperienza reale, anzi regale: un regale dolore nel culo da provare in seduta, almeno virtualmente. O no?

In conclusione, non dimentichiamo che per Ellis la sua terapia è razionale ed emotiva, e coinvolge testa e cuore. 

 

 

BIBLIOGRAFIA: 

Ellis A. (1989). Ragione ed Emozione in Psicoterapia. Ed. Astrolabio 

Psicologia & Musica: Il Suicidio nella Canzone d’Autore Italiana #2

La guerra è finita

per sempre è finita

almeno per me.

La guerra è finita, Baustelle, 2005

 

 

Psicologia & Musica: Il Suicidio nella Canzone d’Autore Italiana #2 - Immagine:  © lassedesignen - Fotolia.comIl primo atto di questo triste viaggio tra i suicidi delle canzoni d’autore si concludeva con un’impiccagione in carcere (La ballata del Michè di Fabrizio de Andrè). 

Utilizza lo stesso metodo anche il protagonista di Morire di Leva (1973) di Claudio Lolli, canzone dedicata a un amico siciliano che si suicida durante il servizio militare. Il corpo viene trovato da due ubriachi: “uno a quell’altro ha detto non ci credi, quel lampadario mi sembrano due piedi”, un verso a mio avviso tragicamente efficace, che ti porta direttamente dentro la scena come fosse un film, degno davvero di un grandissimo poeta. Rispetto al significato del gesto, dal testo appare come le difficoltà legate al cambiamento di vita che si presentavano durante il servizio militare obbligatorio non siano la causa principale del suicidio, ma che costituiscano l’evento stressante che si inserisce su una situazione di vulnerabilità preesistente. “Diceva sempre, io sono sfortunato, sia maledetto il giorno che sono nato”, e di seguito “Però lo sento, che il giorno si avvicina, che finirò per sempre la mia benzina”.

Il Suicidio nella Canzone d'Autore Italiana. #1 - Immagine: © olly - Fotolia.com
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Questa ipotesi si inserisce nell’ambito del celebre modello stress-vulnerabilità, una teoria esplicativa della patogenesi dei disturbi mentali, secondo la quale in alcune persone l’effetto combinato della vulnerabilità genetica e di fattori stressanti supera la soglia di adattamento bio-psico-sociale e favorisce la comparsa dei sintomi del disturbo mentale a cui la persona è vulnerabile (Zubin et al., 1992). Risulta dal testo anche un verosimile problema con la famiglia di origine, dove il padre si dispera per l’accaduto, mentre la mandre mostra una reazione più distaccata “e lui che piange, la madre è una donna forte, scappare da lei riuscì solo con la morte, scappare da lei riuscì solo con la morte”. Sembra quindi che in questo caso non si tratti di un suicidio indotto da episodi di nonnismo, come talvolta si legge nelle cronache, o da “metodo del tenente Hartman” (come si vede in Full Metal Jacket di Stanley Kubrick), ma di un disagio mentale comunque preesistente. Recenti studi sottolineano come sia importante la prevenzione e il trattamento del disagio psichico nelle forze armate, che in certi contesti (ad esempio negli Stati Uniti) hanno tassi di suicidio superiori alla popolazione civile.

Nel finale troviamo una nota polemica con l’attitudine cattolica di giudizio morale nei confronti del suicidio: “Il cappellano si associa al risultato, ricorda a tutti che uccidersi è un peccato”, che è presente anche Nella ballata del Michè (1968) di Fabrizio de Andrè (“domani alle tre, nella fossa comune sarà,
senza il prete e la messa perché d’un suicida 
non hanno pietà”). Da queste parole emerge l’atteggiamento laico e non giudicante di questi due cantautori, che si sforzano di comprendere il gesto suicidiario e quasi di empatizzare con la vittima di un dolore intollerabile.

Roberto Vecchioni nella canzone Tommy (1997) racconta del suicidio per impiccagione di un amico dentista che “non aveva niente da sognare
, aveva già passato tutto il suo avvenire”, che sottolinea uno degli elementi psicopatologici associati al suicidio la cosiddetta hopelessness (Pompili, 2011), la mancanza di speranza nel futuro. Nel brano Vecchioni si rivolge a un Dio benevolo (diverso dal cappellano giudicante di prima) pregandolo di “trattare bene” l’amico ed esprime una sorta di senso di colpa per non aver impedito il gesto “digli che io c’ero e non ho fatto in tempo”. Sentimenti di impotenza e di colpa, compaiono quasi sempre nei famigliari e nelle persone vicine al suicida e anche negli operatori che erano entrati in contatto con la persona prima del gesto. Uno delle poche cose che possono essere di consolazione in questi casi è il pensare che quando una persona raggiunge un forte grado di determinazione nel voler commettere il suicidio, è difficile che qualsiasi opera di prevenzione possa essere efficace.

Faust’O propone la canzone Suicidio (1978), che dà il titolo all’album, in cui esprime una sorta di riflessione sull’argomento con capacità di disincanto e drammatizzazione. Il modo ironico in cui canta il ritornello (“Ah suicidio…”) e alcuni versi (“sento tutto quello che mi gira intorno è noia, noia, noia. Anche il terremoto adesso mi dà solo noia, noia, noia”) ricordano un’attitudine un po’ dandy, un po’ decadente e orgogliosamente narcisistica. Alla fine non è chiaro se il protagonista della canzone scelga davvero la via del suicidio (“Ma penso che valga la pena di andare!”).

Le Metafore Psicologiche dei Cantautori Italiani. - Immagine: © nmarques74 - Fotolia.com
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Anche Giorgio Gaber ha scritto un monologo intriso di ironia dal titolo Il suicidio (1978) in cui racconta di un uomo che si guarda allo specchio interrogandosi sul senso della propria esistenza e considerando il gesto estremo come soluzione. Il finale è comunque incoraggiante in quanto conclude con “…e vedremo come va a finire. C’è una fine per tutto e non è detto che sia sempre la morte”. In questi casi sembra che la possibilità della libera scelta possa convincere la persona a non portare a termine il gesto, o quanto meno a rimandarlo. E’ chiaro che la disperazione e lo “psychache”, come lo aveva definito il padre della suicidologia Shneidman (1964), non devono essere troppo forti in questi casi. Forse si tratta dell’ideazione suicidiaria che può interessare anche persone non affette da gravi patologie psichiatriche. Possiamo definirla come “l’ideazione autolesiva del ceto medio”, se è vero che uno studio sulla popolazione che accede agli studi del medico di medicina generale ha mostrato come ben il 3,3% dei soggetti avesse un’ideazione suicidiaria, dato ben superiore a quello dei suicidi portati a termine o tentati (Zimmerman et al., 1995).

Rimandare il suicidio è l’invito di Franco Battiato nel brano Breve invito a rimandare il suicidio (1995): “Va bene, hai ragione, se ti vuoi ammazzare. Vivere é un offesa che desta indignazione…ma per ora rimanda”. L’attitudine di Battiato nella canzone ha un sapore quasi paradossale che ricorda gli interventi sistemici della Scuola di Palo Alto (Watzlawick et al., 1974). Anche Giorgio Gaber nella canzone Far finta di essere sani (1973) esprime lo stessa idea “per ora rimando il suicidio e faccio un gruppo di studio, le masse, la lotta di classe, i testi gramsciani, far finta di essere sani”.

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Gianna Nannini nella canzone Suicidio d’amore (2007) racconta di un suicidio per amore verosimilmente per defenestrazione “Angelo mio saltiamo, in fondo al buio andiamo, cadendo giù per sempre liberi”. La defenestrazione, o in generale il gettarsi dall’alto è un metodo suicidiario ad altissimo potenziale autolesivo. Chi sopravvive di solito riporta importanti disabilità sia fisiche che psicologiche. Dalla letteratura si apprende che oltre il 50% delle persone che mettono in atto questo gesto è affetta da gravi problemi psichiatrici (Joyce and Flemingher, 1998). Gli studi inoltre sottolineano una forte variabilità geografica rispetto a questa modalità, con picchi in città asiatiche come Hong Kong, con alta densità geografica e presenza massiccia di edifici alti.

Anche il brano Nancy (1975) di Fabrizio De Andrè (ma rifacimento del brano So long ago Nancy di Leonard Cohen del 1969) racconta la storia di una ragazza che si suicida per defenestrazione “E un po’ di tempo fa col telefono rotto , cercò dal terzo piano la sua serenità”.

Ultimo amore (1991) di Vinicio Capossela è una struggente ballata dal sapore sudamericano che racconta l’incontro tra un uomo e una donna entrambi segnati da profonde delusioni sentimentali, lui lasciato e lei vedova. L’incontro pare ridare speranza nel futuro alla coppia per un breve periodo, ma lei continua a provare un profondo disagio “lei aveva occhi tristi e beveva volteggiava e rideva ma pareva soffrir”, misto a una fortissima nostalgia del passato “ma giunta che era la sera, girata nel letto piangeva, pregava potere dal suo amore riuscire a ritornar”. La storia si chiude con il suicidio della donna che si butta sotto un treno, “la poteron riconoscere soltanto dagli anelli bagnati dal suo pianto” e con lui che annega il proprio dispiacere nell’alcol, “il liquore pareva mai finire”.

Concludiamo questa macabra rassegna con il tentativo di suicidio, sempre in ambito ferroviario, forse più celebre della canzone d’autore italiana: La locomotiva (1972) del Maestrone Francesco Guccini. La canzone si ispira a un fatto realmente accaduto nel 1893 quando il ferroviere anarchico Pietro Rigosi si impossessò di una locomotiva, dirigendosi a tutta velocità verso la stazione di Bologna, con l’obiettivo di investire “un treno pieno di signori” . Verosimilmente un gesto fortissimo e clamoroso di protesta sociale. Sembra che l’emozione che animi il gesto sia la rabbia e una sorta di bisogno di vendetta proletaria “E un giorno come gli altri, ma forse con più rabbia in corpo pensò che aveva il modo di riparare a qualche torto”. La deviazione della locomotiva lungo un binario morto impedisce la tragedia, ma causa comunque gravi ferite all’uomo, che non svelò mai i veri motivi del gesto.

 

 

BIBLIOGRAFIA:  

  • Zubin, J., Steinhauer, S. R. &Condray, R. (1992) Vulnerability to Relapse in Schizophrenia. British Journal of Psychiatry, 161, 13-18.
  • Zimmerman  M, Lish  JD, Lush  DT, Faber  NJ, Plescia  G, Kuzma  MA.  Suicidal ideation among urban medical outpatients.  J Gen Intern Med.  1995;10:573–6.
  • Bachynski KE, Canham-Chervak M, Black SA, Dada EO, Millikan AM, Jones BH.(2007). Mental health risk factors for suicides in the US Army, 2007-8. Injury Prevention Program, US Army Public Health Command, Aberdeen Proving Ground, Maryland, USA.
  • Shneidman, E. S. (1964). Grand old man in suicidology. A review of Louis Dublin’s Suicide: a sociological study. Contemporary Psychology, 9, 370-371.
  • Watzlawick, P., Weakland, J.H., Fisch, R. (1974). Change. La formazione e la soluzione dei problemi. Roma: Astrolabio.
  • Pompili M. Comprendere e aiutare l’individuo a rischio di suicidio. In Palmieri G, Grassilli C. Psicantria: Manuale di Psicopatologia cantata, La Meridiana, 2011
  • Joyce J. and Fleminger S. (1998) Suicide attempts by jumping. Psychiatric Bulletin, 22:424-427. 

All’origine dell’ Omofobia: Contesto Culturale e Attrazione Repressa.

– Rassegna Stampa – 

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze PsicologicheLa teoria che dietro all’omofobia possa celarsi una particolare attrazione, seppur repressa, proprio per persone dello stesso sesso è supportata da uno studio pubblicato su Journal of Personality and Social Psychology.

Secondo i ricercatori gli individui omofobici vivrebbero un forte conflitto interno tra la propria attrazione verso persone dello stesso sesso e l’imperativo a reprimerla a causa di un educazione familiare repressiva e autoritaria in questo senso; nel momento in cui queste angosciose preferenze e tendenze vengono riconosciute nel confronto con gay e lesbiche tale conflitto verrebbe esternalizzato, prendendo la forma di paura intensa e viscerale degli omosessuali, atteggiamenti omofobi e discriminatori, ostilità verso i gay e anche nell’adozione di idee politiche anti-gay.

Omofobia - Immagine: © jjayo - Fotolia.com -
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Lo studio comprende quattro esperimenti separati, condotti negli Stati Uniti e in Germania, e ogni studio coinvolge una media di 160 studenti universitari. Sono state messe a confronto misure implicite ed esplicite di orientamento sessuale e omofobia e il tipo di atteggiamento genitoriale lungo un continuum da democratico ad autoritario.

I risultati forniscono nuove prove empiriche a sostegno della teoria psicoanalitica che la paura, l’ansia e l’avversione che alcune persone, apparentemente eterosessuali, hanno verso i gay e le lesbiche possano svilupparsi proprio dai loro desideri repressi; i risultati supportano anche la più moderna teoria dell’auto-determinazione, sviluppata da Ryan e Edward Deci alla University of Rochester, che collega lo stile genitoriale controllante alla scarsa accettazione di sé e alla difficoltà di valutare se stessi in modo incondizionato.

 

 

BIBLIOGRAFIA: 

Un giorno di ordinaria follia #2 – Gli Alieni al CSM -Psichiatria-

Elena Ponzio.

PSICHIATRIA PUBBLICA: LETTERE DAL FRONTE.  
Naturalmente tutti i dati ed i nomi citati in queste lettere sono stati inventati e le storie raccontate sono ispirate alla realtà ed alla vita in un csm, ma per doverose ragioni di privacy  sono state amalgamate tra loro per renderle irriconoscibili. Ciò nonostante, a volte la realtà supera la fantasia! Buona lettura.

 

Un Giorno di Ordinaria Follia

  #2 – Gli Alieni al CSM  

 

Un giorno di ordinaria follia #2 – Gli Alieni al CSM -Psichiatria- Immagine: © Anatoly Maslennikov - Fotolia.comCi sono alcuni volti che sono di casa. Ci sono alcune persone che a forza di entrare e uscire e poi rientrare giorno dopo giorno in ambulatorio diventano così familiari che certe volte ti sembrano più vicini dei tuoi vicini, più intimi dei cugini, quasi qualcuno di famiglia e devi fare attenzione a non lasciarti troppo andare.

Per chi non è mai entrato in un Centro di Salute Mentale (Centro Psicosociale etc etc secondo la regione) sarà forse un po’ difficile immaginare questi luoghi strani, difficili, eterogeni ma anche molto “tipicamente ASL”. La location tanto per incominciare, è sempre un po’ casuale… e il mobilio di fortuna, ma le storie e le vite che si incontrano e si incrociano in quei corridoi stretti e ingombri di scartoffie sono davvero affascinanti per chi, incuriosito, ha voglia di starle a guardare.

Un Giorno di Ordinaria Follia #1 - Posso bere la Candeggina? - Psichiatria - Immagine: © Mario - Fotolia.com
Articolo consigliato: Un Giorno di Ordinaria Follia #1 – Posso bere la Candeggina?

C’era un signore, Giovanni, che da molti anni frequentava la psichiatria in tutte le sue forme. Un signore di una dignità ammirevole, molto compreso del suo problema e della sua peculiarità che attribuiva a contatti ravvicinati con gli extraterrestri. C’erano state molte ipotesi dei medici sulla sua patologia e c’erano anche state molte ipotesi di Giovanni su di sé e su ciò che gli alieni gli avevano fatto l’onore di fargli. Poi come a volte capita ci si era accordati per un compromesso. Psicosi per i primi, fantamistero per il secondo. Alle visite partecipava e partecipa in modo abbastanza preciso e regolare io credo per una certa curiosità e gratificazione che gli ispirano le nostre teorie e il nostro interesse per i suoi discorsi.

Un giorno Giovanni molto serio aprì le braccia e portando con gesto ampio, lento e ripetitivo del braccio un dito alla tempia disse: “C’è una vocina che mi dice che gli extraterrestri non esistono” – sorpresa poi rapido e incredulo sollievo del medico –“…e..” – altro braccio altro dito, altro ampio movimento dito tempia – “c’è un’altra vocina che mi dice che gli extraterrestri esistono…!!!”. Dei due il più veloce a riaversi e a riprendere il discorso fu Giovanni:

“Dottoressa questi signori sanno tante cose su di me, sanno così tante cose e così precise che ho pensato che nessun altro a parte me potrebbe saperle e quindi quegli alieni sono io, sono io il mio alieno”.

Poi tutto è ripartito come prima. Però c’era una nuova complicità. Per un istante avevamo trovato un punto di incontro esplicito al di fuori della metafora: “sono io e nonostante ciò non sono io, il mio onore e il mio onere, la mia vita e la mia malattia”. Per un momento insomma non era stato necessario ricorrere a alieni, strane locuzioni, persino assonanze e insalate di parole, nei momenti più bui, per parlare di sé.

Ogni settimana Giovanni viene a trovarmi, parliamo di alieni spesso senza nominarli, e a forza di farlo sembra proprio una metafora, un simbolo cui sia io sia lui attribuiamo significati molto simili, uno specchio attraverso cui è possibile comunicare emozioni stati d’animo e necessità altrimenti inesprimibili.

Un appuntamento che se viene annullato, mi manca.

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