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Intervista a John Bowlby. Londra 1990 (A cura del Prof Leonardo Tondo)

 

John Bowlby: l'intervista del Prof. Leonardo Tondo al padre della teoria dell'attaccamento.
John Bowlby (1907–1990). Psicoanalista britannico padre della Teoria dell’Attaccamento.

SU GENTILE CONCESSIONE DI GIOVANNI FIORITI EDITORE, PUBBLICHIAMO L’INTERVISTA CHE IL PROF. LEONARDO TONDO CONDUSSE CON JOHN BOWLBY NEL 1990.
L’INTERVISTA, GIA’ EDITA IN INGLESE SULLA RIVISTA CLINICAL NEUROPSYCHIATRY, E’ STATA RECENTEMENTE TRADOTTA IN ITALIANO (TRADUZIONE A CURA DI ROSARIO ESPOSITO E SARA CAVALIERE, SITCC SEZIONE CAMPANIA). 

 

 

 

 

Introduzione

Trascorsi un intero pomeriggio con John Bowlby, nel suo ufficio sobriamente arredato presso il Dipartimento della Famiglia e del Bambino del Centro Tavistock di Londra, in una giornata umida e fredda, poco prima della sua morte nel 1990. Il luogo aveva una vecchia scrivania in legno, due sedie, molti libri e una finestra che dava su un cortile.

L’intervista si concluse verso sera nel momento in cui la luce rossa intensa del sole al tramonto riempiva la stanza. Al ritorno pensai che alcuni grandi uomini mostrano un certo grado di modestia sentendosi sicuri di sé. Credo che questa sia l’ultima intervista concessa dal Dott. Bowlby. In essa, oltre al ruolo fondamentale della separazione precoce e della perdita nello sviluppo della personalità futura, egli sottolinea: l’importanza della ricerca come base per l’avanzamento della conoscenza e il valore dell’informazione prospettica piuttosto che retrospettiva per tutti gli approcci psicologici in Psichiatria infantile. Inoltre, Bowlby raccomanda l’estrema utilità di valutare il comportamento passato e presente, le somiglianze (importanza dello sviluppo psicologico) e le differenze (osservazione piuttosto che speculazione filosofica) tra la sua teoria dell’attaccamento, la psicoanalisi e la terapia cognitiva, e il suo “condividere la critica” dei vecchi colleghi psicoanalitici. Infine, fornisce indicazioni essenziali circa lo sviluppo dei bambini disadattati, la loro diagnosi, la valutazione clinica e il trattamento, la loro gestione in ospedale e come aiutarli ad affrontare la separazione dai loro genitori.

Dell’intera intervista, le due affermazioni da me preferite sono quelle riferite al paragone dello psicoterapeuta come un compagno che può aiutare il paziente a scendere in un passaggio buio a prendere una palla, e quella che i terapeuti cognitivi dovrebbero imparare l’importanza delle emozioni, mentre gli psicoanalisti quella dei pensieri, oltre che degli eventi di vita.

 

Londra, 11 Gennaio, 1990

Leonardo Tondo: Posso chiederle quando e come ha iniziato a occuparsi di attaccamento e perdita?

John Bowlby: Tutto è iniziato negli anni ‘30, tra il 1936 e il 1940. Lavoravo come psichiatra dell’infanzia a Londra mentre completavo il mio training in psicanalisi. Uno dei concetti a cui mi interessai molto presto fu l’importanza delle prime relazioni genitore-figlio e la misura in cui esperienze avverse, all’interno della famiglia, avrebbero potuto avere un effetto negativo sulla salute fisica e mentale del bambino. A quel tempo molti colleghi psicoanalisti erano poco inclini a dare importanza agli eventi di vita avversi come fattore importante per lo sviluppo del bambino. Freud nei suoi primi lavori, intorno al 1895, attribuì i problemi di isteria all’abuso sessuale nell’infanzia e solo più tardi stabilì che questi eventi non erano accaduti realmente ma invece erano immaginari. Egli credeva che la paziente stesse descrivendo eventi immaginari dell’infanzia. Quello fu il periodo in cui la parola fantasia iniziò ad essere usata in psicoanalisi. E negli anni ‘30, a Londra, c’era un forte atteggiamento per cui non si sarebbe dovuto mai credere alle storie dei pazienti inerenti abuso sessuale o ogni altra esperienza avversa causata dai genitori, e che non bisognava fidarsi della validità del resoconto del paziente. Invece, io pensavo che gli eventi avversi fossero di grande importanza e, da giovane psicoanalista e giovane psichiatra dell’infanzia, tentai di dimostrare che gli eventi di vita reale della prima infanzia giocavano un ruolo preminente nel determinare la salute mentale. Ed è così che cominciò lo studio al quale fin da allora mi sono poi dedicato. A quel tempo sarebbe stato molto difficile fare qualsiasi ricerca sistematica sul maltrattamento dei bambini da parte dei loro genitori. Innanzitutto l’opinione diffusa era molto contraria a questa ipotesi e, in secondo luogo, senza registrazioni o videoregistrazioni non avevamo nessun mezzo per registrare in modo valido atteggiamenti, dichiarazioni o comportamenti avversi da parte dei genitori verso i figli; cosicché l’idea era irrealizzabile. Questa circostanza mi portò a concentrarmi sulla separazione e perdita, perché le separazioni e le perdite potevano essere registrate con validità – che si siano manifestate oppure no. Il motivo, quindi, perché io mi focalizzai su separazione e perdita fu, in parte, perché essa poteva essere oggetto di ricerca. Inoltre avevo osservato, alla Child Guidance Clinic, un numero di casi dove la personalità del bambino, diventato poi delinquente e ingestibile, mi sembrava essere stata precocemente preceduta da relazioni molto distruttive tra il bambino e la madre. Una volta considerati degli eventi antecedenti precoci si sarebbe potuta dimostrare una loro presenza in modo statisticamente significativo per studiare se fosse probabile una connessione importante. Esistevano molte evidenze cliniche interne che suggerivano che le prime esperienze avverse avevano portato a risultati che comprendevano bambini con scarse relazioni emotive o con un disinteresse per esse, che non sembravano essere influenzati dalla lode o dalla punizione, o che andavano per la propria strada. Essi marinavano la scuola, scappavano via, facevano piccoli furti e così via. Sebbene essi sembrassero abbastanza sereni, erano bloccati emozionalmente. Tutto è iniziato così; non mi stavo occupando di depressione, ma stavo partendo da una condizione che io credo rappresenti, in realtà, le fasi precoci di una personalità psicopatica.

 

Leonardo Tondo: Il passaggio della sua ricerca dalla psicoanalisi alla teoria dell’attaccamento ha cambiato il suo atteggiamento nei confronti della psicoanalisi?

John Bowlby: Non proprio. Ci sono due ragioni perché io penso che la psicanalisi sia stata un importante passo avanti. La prima è questa: che non c’è nessun altro gruppo professionale che nel passato, e certamente non dagli anni ‘30 ai ‘50, abbia posto attenzione alle relazioni intime personali ed emozionali familiari: gelosia, rabbia, colpa, vergogna, amore, dolore e così via. La psicoanalisi vedeva tali relazioni emozionali precoci come un problema da studiare a pieno titolo e nessun altro gruppo lo faceva. Gli psichiatri e gli psicologi non lo facevano come, d’altronde, nessun altro. L’unico gruppo professionale che si può dire si interessava di quest’area erano, naturalmente, i professionisti della religione. Preti e pastori della religione da sempre si occupano di questi problemi, benché non scientificamente. Freud e i primi psicoanalisti fecero un tentativo di studiare questi problemi. Un altro aspetto che mi ha interessato era che la teoria riguardava una forma di sviluppo mentale di psichiatria e psicologia che vedeva i problemi attuali di una persona nei termini della sua storia, a differenza della maggiore enfasi posta sulla fantasia dalla maggior parte degli altri analisti, in contrasto con i pochi che pensavano che gli eventi di vita reale fossero di grande importanza. Diverse persone davano agli eventi di vita gradi diversi di importanza. Io ho dato loro un peso notevole. Non avrei potuto trovare nessun altro gruppo che avesse tanto in comune con me, quanto con la società psicoanalitica in quel tempo, infatti rimasi membro attivo della società e divenni segretario del training e vice presidente. Ho avuto un ruolo importante nella società psicoanalitica britannica tra il 1944 e il 1962.

 

Leonardo Tondo:Ha avuto occasione di incontrare Freud?

John Bowlby: No, venne nel nostro paese nel 1938. Era molto vecchio e stava poco bene e vide solo pochi vecchi amici. Io ero uno psicanalista molto giovane a quel tempo.

 

Leonardo Tondo:Il suo primo studio sulla separazione e perdita ha avuto ulteriori sviluppi a partire dallo stadio iniziale?

John Bowlby: Il primo passo fu mettere insieme un gruppo di casi in cui pensavo che questo tipo di problema fosse presente. Quindi ciò che feci alla London Child Guidance Clinic di Londra dove lavoravo, fu confrontare due gruppi di pazienti: 44 bambini che erano stati indirizzati alla clinica per furto e 44 che erano stati indirizzati per ragioni diverse dal furto. Quelli che erano stati indirizzati per furto mostrarono un’incidenza statisticamente più significativa di relazioni precoci interrotte rispetto agli altri partecipanti. Questo studio fu pubblicato nel 1944 (Bowlby, 1944). Si trattava di studio retrospettivo, e cominciai la fase successiva dopo la guerra, quando prestai servizio come psichiatra dell’esercito dal 1940 al 1945. (nota al testo: Freud, Sigmund (1856-1939) e la sua famiglia fuggirono dalla persecuzione nazista il 4 giugno 1938 e si trasferirono da Vienna a Londra dove vissero al Gardens Marensfield 20 (ora museo). Fumatore cronico di sigaro egli soffrì di cancro alla bocca dal 1923 e morì di overdose di morfina da assistenza medica il 23 settembre 1939.).

 

Leonardo Tondo:Qui in Inghilterra?

John Bowlby: Ero in Inghilterra sì, e sono stato in un gruppo di ricerca molto tempo. Ci interessavamo di selezionare persone adatte, secondo la commissione, a diventare ufficiali. Io fui assegnato a questo lavoro dal 1942 in poi dopo aver ottenuto un training di ricerca sotto le armi che fu molto utile. Questa fu un’esperienza per me molto importante perché lavoravo con due o tre psicologi clinici. Quando ripresi la psichiatria infantile, dopo la guerra, all’inizio del 1946, mi fu offerto un posto alla Tavistock Clinic come responsabile di un dipartimento per bambini e genitori. E così il mio primo compito, naturalmente, fu di riorganizzare i servizi clinici, poi il training e poi iniziare il progetto di ricerca. Il mio piano, dall’inizio, fu riavviare la ricerca nella direzione degli effetti avversi delle rotture precoci nelle relazioni familiari.

 

Leonardo Tondo:Che tipo di prove di relazioni precoci distruttive rilevava?

John Bowlby: Un bambino poteva rimanere in un ospedale per un lungo periodo – 12 mesi o 2 anni. A quel tempo mi interessavo di rotture che duravano non meno di sei mesi, verificatesi prima del quinto compleanno e la rottura poteva essere dovuta al ricovero in un ospedale o l’essere in un istituto. In alternativa poteva essere dovuta a una madre che affidava un bambino a un’altra donna con un ritorno, in seguito, alla madre naturale; oppure poteva essere un figlio illegittimo che prima era qui, poi lì e poi altrove. C’erano molte condizioni sociali che portavano a queste rotture, ma le rotture erano il reale criterio per il mio studio.

 

Leonardo Tondo:Lo sviluppo della sua teoria è stato considerato in qualche modo legato alla psicoanalisi?

John Bowlby: Questa è una storia importante. La psicoanalisi è uno sviluppo della psichiatria, quindi modelli di sviluppo relativi alla prima infanzia sono rilevanti per la psicoanalisi. Cosi, studiavo gli ‘atomi’ di sviluppo nei primi anni. Certo Freud non l’ha mai fatto. La sua teoria dello sviluppo era concepita interamente in maniera retrospettiva. In Inghilterra ci fu sempre interesse per l’analisi infantile, che era più vicina al problema dello sviluppo. Voglio dire, durante gli anni 30, questo interesse era rappresentato da Melanie Klein, che esercitò un’influenza sostanziale a Londra. Poi, Anna Freud arrivò nel 1938 con suo padre ed ebbe un’altra influenza, di genere piuttosto diverso. Un’altra persona che divenne influente e ragionevolmente famoso fu Donald Winnicott, un pediatra che aveva punti di vista non differenti dai miei. Egli attribuì importanza agli eventi di vita reali. Quindi io ero uno di quegli analisti focalizzati sugli sviluppi primari e sugli effetti degli eventi di vita, ma ero il solo a fare una ricerca sistematica. Gli altri si occupavano di lavoro clinico e di fare osservazioni naturali, non programmate e incidentali. Io tentavo di porre il lavoro su basi più scientifiche. (note al testo: Klein, Melanie (1882-1960). Psicologa dell’infanzia, nata in Austria si trasferì a Londra nel 1926, dove

morì nel 1960 – Freud, Anna (1895-1982). Psicoanalista dell’infanzia, nata in Austria, figlia di Sigmund, si trasferì con il padre e il resto della sua famiglia a Londra nel 1938 – Winnicott, Donald (1896-1971). Pediatra inglese apportò importanti contributi alle teorie psicoanalitiche, specialmente alla teoria delle relazioni oggettuali focalizzata sulla relazione col genitore influente). 

 

Leonardo Tondo:Quanto era differente la sua ricerca da quella di Piaget?

John Bowlby: Beh, veda Jean Piaget era completamente interessato allo sviluppo della cognizione ed era disinteressato agli aspetti emotivi. D’altro canto, quella era la sua prospettiva ma non la mia. Ciò nonostante, in effetti, eravamo entrambi degli psicologi dello sviluppo.

 

Leonardo Tondo:Lei e Piaget avete avuto occasione di condividere i vostri risultati dal momento che entrambi stavate lavorando allo sviluppo infantile?

John Bowlby: Ci siamo incontrati un numero di volte tra il 1953 e il 1956. Per quattro anni questi incontri sono avvenuti con un gruppo, riunito a Ginevra dalla Organizzazione Mondiale della Salute, per discutere degli sviluppi psicobiologici dell’infanzia.

 

Leonardo Tondo:Chi erano i partecipanti?

John Bowlby: Includevano l’etologo Kornad Lorenz, l’antropologa Margaret Mead e Jean Piaget. Complessivamente eravamo circa una ventina. Altri di cui probabilmente conosce i nomi, erano Eric Erickson, che venne una volta o due, e Ludwig von Bertalanffy, l’importante teorico della teoria dei sistemi. Queste erano tutte persone di primaria importanza nei loro campi. Io ero un gradino sotto queste luminari. C’era un impegno a trovare principi comuni in questi approcci diversi. Ovviamente non ci siamo riusciti, ma le discussioni sono state molto proficue. Sono state anche pubblicate e hanno avuto abbastanza influenza (note al testo: Piaget, Jean (1896-1980). Psicologo svizzero dello sviluppo. Lavorò sullo sviluppo cognitivo del bambino – Lorenz, Kornad (1903-1989). Zoologo australiano e psicologo animalista, fondatore dell’etologia moderna. Studiò i processi di apprendimento associati all’imprinting – Mead, Margaret (1901-1978). Antropologa culturale statunitense che confrontò il passaggio dall’adolescenza all’età adulta tra società semplici e complesse – Erikson, Eric (1902-1994). Psicologo e psicoanalista tedesco che studiò lo sviluppo sociale e coniò l’espressione crisi di identità e descrisse gli otto stadi dello sviluppo psicologico – von Bertalanffy, Ludwing (1901-1972).  Biologo austriaco che si occupò della teoria dei sistemi e propose un modello matematico di crescita dell’individuo.).

 

Leonardo Tondo:Qual era lo scopo del workshop?

John Bowlby: Lo scopo era di cercare di integrare il modo di guardare ai problemi dello sviluppo infantile, per trovare cosa ognuna delle differenti discipline avesse da offrire che avrebbe potuto portare a una scienza unificata. Questo era lo scopo.

 

 Leonardo Tondo: Tornando alla sua ricerca, c’è stata qualche differenza tra l’inizio del suo lavoro e 10 o 20 anni più tardi?

John Bowlby: Non proprio, voglio dire, il mio interesse è stato porre la psicoanalisi su apposite basi scientifiche. Che è sempre stata la mia aspirazione. Io sentivo che essa studiava i giusti problemi ma era diventata molto poco scientifica nella sua metodologia. Il mio credo era che la psicoanalisi potesse fare progressi solo mediante lo sviluppo di una base scientifica migliore.

 

Leonardo Tondo: Molti psicoanalisti possono contestare sulla necessità della psicoanalisi di essere scientifica, perché essi trattano gli individui con risultati che non possono essere riproducibili.

John Bowlby: Non condivido questa parere, perché l’approccio scientifico va tenuto in considerazione. La scienza biologica certamente si occupa delle questioni generali che colpiscono una popolazione. Voglio dire, la fisiologia umana non si è interessata della fisiologia di una persona in particolare, si interessa del funzionamento di corpi umani, e, allo scopo di ottenere risultati validi, ha bisogno di una popolazione, di un campione, di una misura del battito cardiaco e così via, e per questo si usano strumenti statistici. La scienza non si occupa dei casi individuali ma delle generalità. La medicina è una scienza applicata. Certo, in una scienza applicata, noi ci occupiamo di operazioni particolari di processi fisiologici e patologici in un individuo, e questa è l’applicazione della scienza. Bene, la psicoanalisi è la stessa cosa. Quando si tratta un paziente non ci si comporta da scienziato, uno sfrutta il più possibile la conoscenza per il beneficio del paziente e sebbene, come con qualsiasi altra condizione, puoi trovare indizi molto utili per quello che ti serve, non si può arrivare ad una conclusione generale valida, a meno che non si confronti mediante altri metodi. Pertanto, non ho mai accettato la regola che la psicanalisi fosse differente da qualsiasi altra branca della medicina per quanto riguarda la sua rapporto con la scienza. La pratica clinica, l’arte della medicina, è un’abilità applicata. Essa richiede la presa in esame di tutte le circostanze di un paziente particolare, delle sue particolari condizioni, mentre la scienza si occupa di generalità, ritenute valide in maniera indiscriminata. In quanto ricercatori ci si occupa di un campione di pazienti che soffrono situazioni avverse e gli effetti di queste situazioni sui bambini. Nel lavoro clinico si è interessati a un approccio individuale, variabile e sintetico.

 

Leonardo Tondo: Le stesse persone che sostengono la teoria non scientifica della psicoanalisi, dicono che il cervello, che tratta le emozioni e lo sviluppo cognitivo, è molto diverso da altri organi del corpo.

John Bowlby: È una questione d’opinione, non penso di essere d’accordo.

 

Leonardo Tondo: Come si è trasferito il suo metodo dalla ricerca al trattamento?

John Bowlby: Penso che si è sostanzialmente d’accordo sul fatto che queste rotture nelle relazioni nei primi anni possono avere effetti molto nocivi; perciò devono essere evitate. Se possono essere evitate, dovrebbero esserlo a tutti i costi e molti passi pratici sono stati fatti in quella direzione. In secondo luogo se, per qualsiasi ragione, le prime rotture non sono impedite, noi possiamo capire le conseguenze su un bambino molto meglio e possiamo procedere in un ruolo terapeutico per aiutarlo e, forse, aiutare i genitori ad affrontare i problemi che sono sorti dalle separazioni nei primi anni di vita. Nel caso di un genitore che abbandona un figlio o muore, proviamo ad aiutare quelli che ora stanno accudendo il bambino nei suoi sforzi nell’affrontare il trauma della separazione o della morte. Queste sono pratiche di solito accettate in Gran Bretagna o in America e vengono generalmente utilizzate nel campo della psichiatria infantile.

 

Leonardo Tondo:Quindi c’è un primo passo che è la prevenzione. Se il trauma può essere evitato, dovrebbe essere evitato, ma se un trauma psicologico non è evitabile come la morte di uno o entrambi i genitori, consiglierebbe sempre un trattamento psicoterapeutico?

John Bowlby: Non necessariamente. Prendiamo un caso alquanto semplice, di un bambino che ha una malattia sufficientemente grave e deve rimanere in ospedale per due o tre settimane. Ciò di cui sto parlando vale particolarmente per i bambini più piccoli, ma anche per quelli più grandi. Per prima cosa, il bambino deve stare in ospedale, non si può evitare questo, ma sua madre può stare con lui in ospedale? Se fosse possibile allora molti problemi possono essere evitati e questo è il primo passo per evitare una separazione. Comunque, supponiamo, per esempio, che avendo altri figli non può stare in ospedale con questo bambino. Noi possiamo aiutare la madre in diversi modi. Parliamo, ad esempio, di un bambino di tre anni che ha avuto la febbre. Prima di tutto possiamo avvertirla che, quando va a prendere il suo bambino per portarlo a casa, il bambino può essere in una condizione di distacco emotivo in cui non riesce a riconoscerla o è oltremodo distaccato. Questo stato d’animo è molto stressante per una madre. Noi possiamo avvertirla che questa è il genere di reazioni che potrebbe accadere, così che lei non si sorprenda. Poi il bambino può cambiare e diventare intensamente attaccato a lei e molto apprensivo, per paura di soffrire un’altra separazione. Questa modalità di “attaccamento” è un fatto normale. La cosa da fare è rispondere ad esso in maniera affettuosa e rassicurante e non ignorarlo o scoraggiarlo. Se nel tempo la madre lo tratta in modo più tollerante egli gradualmente smetterà di farlo. Questo è molto importante perché, se la madre diviene severa e punisce il bambino quando si comporta in questo modo, allora il problema peggiorerà. Si tratta di una misura preventiva, se preferisce, una misura immediata che può aiutare in modo significativo. Io sono principalmente interessato a ciò che accade a un bambino quando egli è fuori dalla sua casa e senza i genitori. Ciò può essere molto più traumatico di quando le stesse cose accadono con i genitori presenti. Per cui la presenza dei genitori è la variabile importante. Soltanto quando la situazione degenera, la psicoterapia è richiesta, sebbene sia un intervento poco comune e difficile da fornire in questi casi.

 

Leonardo Tondo:Lei vuol dire che non può facilmente essere somministrata a tutti?

John Bowlby: Esattamente. Per cui deve essere dosata molto rigorosamente. Se, per esempio, un bambino ha avuto una serie di separazioni ed è diventato emozionalmente molto distante e distaccato, allora la psicoterapia è certamente auspicabile per aiutarlo ad aver di nuovo fiducia nelle persone.

 

Leonardo Tondo:In un paziente che ha avuto una relazione interrotta ed è ora un adolescente, che tipo di psicoterapia lei consiglierebbe? Un trattamento psicoanalitico o il suo tipo di psicoterapia?

John Bowlby: Ritengo che la terapia rivolta alla famiglia dovrebbe essere la prima scelta quando possibile. Posso dire che ho sviluppato la terapia familiare negli anni ‘70, e sono sempre stato molto favorevole a essa per molte ragioni. Sfortunatamente, non è sempre possibile; alcuni genitori possono essere morti o la famiglia può essere divisa. Ci sono molte ragioni del perché la terapia rivolta alla famiglia non può essere praticabile. Così se essa non è praticabile ci si deve proporre qualcosa di diverso. In questo caso io credo che la psicoterapia individuale che usa l’insight analitico sia l’alternativa. Quello che cercherei di fare con tali pazienti è aiutarli a esplorare le loro esperienze attuali. Esplorare, considerare, soffermarsi e riflettere sulle esperienze in corso e considerare come potrebbero essere legate a quelle del passato. A volte il paziente riesce a ricordare queste esperienze, altre volte no. Se riesce a ricordare, allora ci si deve preoccupare di aiutarlo a studiarle, prendere in considerazione tutti i dettagli e come si sentiva nel momento in cui si sono verificate così da capire il motivo per cui ora ha tanta paura di camici bianchi; perché quando era in ospedale, anni fa, i medici avevano camici bianchi e lui era terrorizzato di quello che stavano per fare. Così la sua fobia dei camici bianchi è naturalmente comprensibile. Non è stupida, irrilevante, o illogica, ma invece è collegata con una propria esperienza reale. Il bambino è allora in grado di considerare che forse la sua paura della gente in camice bianco potrebbe essere stata ragionevole una volta, ma forse ora comprende la situazione un po’ meglio e può non aver bisogno di sentire che i camici bianchi sono così minacciosi. In altre parole, usa un processo cognitivo per riflettere su questa associazione tra camici bianchi e il passato e tra camici bianchi e il presente e si rende conto che lui non è in trappola e non è un prigioniero. In poche parole, questo è quello che cerco di fare. Cerco di aiutare il paziente a scoprire perché il suo passato è così importante e, per quanto può, a liberarsene e guardare le cose in un modo nuovo. Certo, è un processo lento. Se non riesce a ricordare e si ha una sorta di amnesia, allora il compito è quello di aiutarlo a recuperare ciò che è passato. Aiutandolo a recuperare il passato, egli può fidarsi del terapeuta e diventare più coraggioso. Se una palla è caduta giù in un passaggio oscuro, un bambino forse ha paura di andare lì e prendere la palla, ma se io dico: “Guarda, verrò con te”, può essere contento. In psicoterapia, ci comportiamo come un amico verso un paziente che ha troppa paura di affrontare quello che gli è accaduto in passato. Così, noi lo accompagniamo nell’esplorazione per quanto possiamo e può essere utile in termini di psicoanalisi dire:

Sai che potrebbe essere questo o forse quest’altro ciò che è successo”,

cioè, si possono dare i suggerimenti che possono o non possono innescare una sorta di memoria. Naturalmente, in termini di ricerca o di scienza questo sarebbe del tutto inammissibile, ma non stiamo facendo gli scienziati, stiamo cercando di aiutare qualcuno (note al testo: John Bowlby si riferisce probabilmente all’introduzione ufficiale della terapia familiare in Inghilterra. In verità la terapia familiare era iniziato 20-30 anni prima dal lavoro combinato di diversi terapeuti in Europa e Stati Uniti.

 

Leonardo Tondo:I bambini adottati sono spesso affetti da disturbi del comportamento?

John Bowlby: Dipende a quale età sono stati adottati. Per quanto ne sappiamo, il bambino non costruisce una relazione di attaccamento fino al sesto mese di vita. L’attaccamento è a un livello molto prototipico in precedenza, e tutta l’evidenza dice che se un bambino passa da una figura materna all’altra prima dei sei mesi di età non mostra una reazione rilevante. Solo tra i 6 e i 12 mesi mostra una maggiore reazione; da 12 mesi in poi, la reazione è molto più intensa. Anche in questo caso, ovviamente, siamo in grado di aiutare la madre adottiva nel gestire il disagio avvertendola di ciò che potrebbe accadere e consigliandole il modo migliore per gestirlo. Così, in molti casi, il passaggio è abbastanza semplice e di discreto successo. Tuttavia, più grande è il bambino al momento dell’adozione, tanto più è difficoltosa la sua reazione, soprattutto se ha avuto alcune esperienze di vita disturbanti prima dell’adozione. Quindi tutto dipende da quando, dove e come.

 

Leonardo Tondo: C’è qualche sindrome particolare in soggetti che sono stati adottati dopo il primo anno di vita? Una sindrome che può apparire durante l’adolescenza?

John Bowlby: Penso che sia una questione di fiducia. Prendiamo l’esempio di un adolescente che è stato adottato all’età di cinque anni, dopo aver avuto diverse relazioni insoddisfacenti prima dell’adozione. Se ha avuto rapporti in cui le cose sono andate male ed è stato respinto, egli si aspetta unicamente che i suoi nuovi genitori lo rifiutino. La madre adottiva deve passare attraverso un periodo in cui lui non si fida di lei, ma col passare del tempo lui confiderà in lei sempre più. Molto dipende da quanto è perspicace la madre adottiva e anche il padre, naturalmente. Entrambi dovrebbero essere consapevoli che un bambino che è stato adottato non avrà fiducia in loro così come avrebbe fatto un loro figlio naturale. Il bambino potrebbe interpretare la loro partenza per tre settimane come un rifiuto. Questo è qualcosa di cui essi dovrebbero essere consapevoli. Alcuni genitori adottivi sono straordinariamente comprensivi e percettivi, e si rendono conto di tutto ciò. Altri, naturalmente, possono essere aiutati a capire che queste cose possono accadere. Alcuni non possono essere aiutati semplicemente perché non lo vogliono. Così, la forza del legame, il grado di fiducia nel legame tra genitori e figli è sempre più fragile in questi casi. Di conseguenza, un bambino può temere di essere respinto o abbandonato quando, in realtà, non è quello che sta succedendo. Naturalmente, il problema è che la mancanza di fiducia genera ulteriore mancanza di fiducia che può portare a uno scivolamento verso delinquenza o assunzione di droga. Questo è vero per ogni bambino non solo per i bambini adottati.

 

Leonardo Tondo:Problemi comportamentali dopo un’interruzione di una relazione genitoriale durante l’infanzia possono durare fino all’età adulta?

John Bowlby:   Oh, sì.

 

Leonardo Tondo:Oltre al comportamento psicopatico, quali altri disturbi potrebbero apparire in età adulta, a seguito di precoci relazioni disturbate in famiglia?

John Bowlby: Il comportamento psicopatico è il più comune e può condurre all’uso di droga e furto. Un’altra possibilità sono i legami interrotti con il sesso opposto.

 

Leonardo Tondo: I problemi comportamentali, mostrati dagli adolescenti al giorno d’oggi, possano derivare dai loro primi rapporti con i genitori, non essendo stati così intimi come quando la famiglia era un’unità più importante?

John Bowlby: Credo di sì, ma prima dobbiamo dimostrare che esiste una maggiore incidenza di tali associazioni, anche se non mi occupo dell’ambito epidemiologico. Penso che possiamo essere abbastanza fiduciosi, in ogni singolo caso o in un gruppo di casi, che i problemi di consumo di droga, o di comportamento psicopatico e disturbato, sono un effetto di malfunzionamento della famiglia che, di solito, inizia presto e continua. Una famiglia, che è abbastanza stabile e fornisce una buona potestà genitoriale nei primi anni, tende comunemente a continuare, anche se non sempre è così. Molti pericoli si possono verificare e può essere che un genitore muoia o abbandoni la famiglia. Voglio dire, ci sono prove abbondanti che questi pericoli, in forma di relazioni disturbate sono la causa di qualche tipo di problema. Credo che, statisticamente, questa conclusione sia abbastanza evidente.

 

Leonardo Tondo: Un’altra questione è se una coppia con figli decide di separarsi o stare insieme. Qual è la cosa migliore per i bambini: litigi continui o rimanere insieme per i bambini?

John Bowlby: Penso che sia molto difficile generalizzare. Si potrebbe dire che la mia deformazione sarebbe sempre quella di aiutare i genitori a cercare di continuare a vivere insieme. Se non possono o non vogliono, certamente io lo favorirei in ogni caso sulla base del fatto che la loro, forse, è una difficoltà temporanea che può essere superata. Dopo tutto, quando un matrimonio fallisce, la coppia potrebbe non funzionare bene in altri matrimoni. Se il matrimonio si scioglie, ci sarà molta sofferenza. Il coniuge che non vuole dividersi soffrirà così come i bambini. Se si vuole diminuirla si fa il possibile per scoraggiare la rottura e aiutare la coppia ad affrontare il problema. Questo è il ruolo dell’aiuto coniugale.

 

Leonardo Tondo:E per i bambini, pensa sia peggio vivere con genitori che non vanno d’accordo, ma rimangono ancora insieme?

John Bowlby: È quasi una domanda impossibile. Fino a che punto sono in disaccordo? È il genere di cosa su cui non si può generalizzare. Si deve semplicemente studiare il singolo caso e cercare di aiutare i genitori a trovare la soluzione migliore.

 

Leonardo Tondo:Durante l’infanzia, quale dovrebbe essere il ruolo del padre e della madre? È d’accordo con la visione piuttosto semplicistica che la madre può essere più importante del padre?

John Bowlby: Tale opinione, credo, sia ben dimostrata dalle informazioni che abbiamo. Perché dopo tutto, in ogni società, e non solo in quelle occidentali, studiate dagli antropologi, un bambino entra molto di più in contatto con la madre che con il padre, specialmente nei primi anni. Qualunque bambino vede più di tutti la madre nei primi cinque anni, ha molta più interazione sociale con lei che con il padre. Anche il tempo è un aspetto importante. Infatti, anche nel secondo quinquennio, la maggior parte dei bambini è ancora in contatto di più con la madre che con il padre in tutte le società. Non è così all’avvicinamento della pubertà, dove c’è una tendenza per i ragazzi ad essere più orientati verso il padre, in una sorta di apprendistato, si potrebbe dire, di una società maschile, e per le ragazze diventare sempre più orientate verso la madre, apprendiste di una società femminile. Questo è il modo in cui tutte le società operano. La mia preoccupazione è sempre per il rispetto della natura umana piuttosto che limitarmi alla cultura occidentale. Quando insegno ai miei studenti, dico:

Guardate, la prima cosa da ricordare è che la società occidentale non è una regola umana”.

Ci comportiamo in un modo in cui le società umane non si sono mai comportate in passato. Se le si considerano negli ultimi centomila anni per quanto ne sappiamo e in tutto il mondo, quelle occidentali sono del tutto particolari. Le nostre attività forse vanno bene, forse no, ma non si pensi che siano normali. Esse non sono il modo normale in cui gli esseri umani dovrebbero comportarsi.

 

Leonardo Tondo: A che cosa si riferisce?

John Bowlby: Per fare un esempio molto semplice, mi riferisco al mettere i bambini nelle carrozzine o culle; bambini che dormono in stanza diversa da quella dei genitori è totalmente atipico per gli esseri umani. Voglio dire, se si parla con qualcuno che cresce in Asia, essi considerano l’idea che il bambino debba essere in una culla in un’altra stanza, come folle, assolutamente folle; non si sognerebbero mai di farlo. Ed è solo un esempio. Voglio dire, i figli lasciati fuori da casa per un paio d’ore in una carrozzina? Impensabile. Diamo per buone cose che non sono mai state tali.

 

Leonardo Tondo: Prima si è riferito all’idea di bambini che dormono nella stessa camera con i genitori. Freud si preoccupava che loro fossero esposti alla vita sessuale dei loro genitori.

John Bowlby: Penso sia una totale assurdità. In tutta l’Asia e in Africa, queste cose accadono, così come accadono nella nostra cultura.

 

Leonardo Tondo: È facile essere d’accordo con lei, ma la nostra società si basa su molti tabù che sono probabilmente del tutto ignorati nelle altre.

John Bowlby: Direi di no. Per esempio, se un genitore dice: “Mio figlio di 15 mesi viene costantemente nel mio letto di notte e questa è una  brutta cosa”, io dico: “Sciocchezze! La cosa più semplice è quella di portarlo nella vostra camera da letto durante la notte in modo che tutti possiate avere una notte tranquilla”. I genitori possono accettare questo consiglio.

 

Leonardo Tondo: Questo appare sicuramente più naturale.

John Bowlby: E più semplice, suppongo. O si segue la natura umana o la si combatte. Se la si combatte si hanno problemi. Se non la si combatte la vita è molto più confortevole.

 

Leonardo Tondo: La sua opinione che i bambini possano dormire con i genitori è generalmente accettata? Per esempio in questo paese?

John Bowlby: Ci sono così tante convenzioni in un paese, così come tante culture. Sono sicuro che ci sono alcune culture in questo paese dove ci si aspetta che i bambini rimangano nella stanza con i genitori durante la notte, e, naturalmente, per molte persone con una piccola casa non c’è nessuna scelta. Tante di queste idee di bambini risalgono al secolo scorso, ma non vanno molto indietro nel tempo. C’era un famoso pediatra tedesco, di cui mi sfugge il nome, che era completamente pazzo e che, tra il 1850 e il 1880, aveva stabilito alcune regole rigide su come i bambini dovessero essere trattati, con la motivazione che queste si basavano su conoscenze mediche dei bambini. Naturalmente, non vi era alcuna base per tali regole molto severe che includevano il dar da mangiare ai bambini alle sette di sera, la convinzione che la masturbazione fosse dannosa e molte altre cose. Queste idee erano molto diffuse a cavallo del secolo ma fortunatamente non influenzeranno più del trenta percento dell’opinione pubblica.

 

Leonardo Tondo: La sua ricerca può portare a una migliore comprensione della depressione negli adolescenti?

John Bowlby: La cosa migliore è far riferimento al lavoro di George Brown, un sociologo ed epidemiologo, e Tirril Harris che hanno lavorato sulle origini sociali della depressione. Hanno scritto un libro intitolato “Le origini sociali della depressione” (Brown e Harris, 1978) che ora è uno studio standard. Loro lavorano agli stessi problemi, come me, da 20 anni. Ho sempre assistito a esperienze traumatiche durante l’infanzia e come esse influenzino lo sviluppo. Non ho mai fatto studi longitudinali, perché sono molto costosi e hanno bisogno di grandi équipe, quindi non so come i bambini che ho studiato io o quelli studiati dai miei colleghi sono diventati nel corso degli anni. Brown e Harris hanno guardato le persone adulte, cadute o meno in depressione, e hanno cercato una certa misura di eventi antecedenti. Tra gli altri risultati, hanno dimostrato che i bambini che hanno perso la madre durante l’infanzia sono due o tre volte più inclini alla depressione rispetto ai bambini che non l’hanno subita. È qui che entra in gioco il mio interesse. Hanno studiato tutte le donne tra i 18 e i 65 anni in uno dei quartieri di Londra, prendendo un campione completo di popolazione di 450 persone o giù di lì. In primo luogo hanno studiato le donne in termini del loro stato attuale. Hanno trovato un’incidenza spaventosa di depressione, la maggior parte della quale non si era manifestata all’attenzione psichiatrica, perché ciò che entra in un reparto di psichiatria è la piccola punta di un iceberg. Quelle che erano depresse erano paragonabili a pazienti che si sarebbero potuti trovare in un reparto psichiatrico. Dopodiché hanno fatto uno studio molto accurato delle singole situazioni di vita attuale e di eventuali eventi di vita gravi nei 12 mesi precedenti. Hanno anche ottenuto alcune informazioni elementari sulle perdite d’infanzia, includendo morti di padri o madri e a quale età. Le partecipanti con infanzia generalmente insoddisfacente che, in particolare, comportavano la perdita della madre prima dell’età di 11 anni, avevano una maggiore probabilità di sviluppare una depressione, soprattutto dopo un evento tanto grave da sconvolgere chiunque, come un’altra perdita. Così il quadro generale era che alcuni eventi avversi durante l’infanzia creano vulnerabilità a successivi disagi. Questo modello di depressione basato su eventi dell’infanzia che creano vulnerabilità e su successivi eventi maggiormente avversi che innescano una depressione, è un modello che, io credo, sia molto ben fondato. Brown e Harris hanno lavorato molto su questo modello e allora si può vedere dove i miei interessi coincidono con i loro.

 

Leonardo Tondo: Sono stati ispirati dalla sua ricerca?

John Bowlby: Penso che la perdita di una madre o un padre durante l’infanzia come variabile sia stata per la prima volta avanzata in questo paese e, per quanto ne so in nessun’altra parte, da uno psichiatra infantile chiamato Felix Brown, non parente di George Brown. Nel 1960 pubblicò alcuni risultati epidemiologici piuttosto sorprendenti in cui gli adulti che erano depressi mostravano una maggiore incidenza di perdita durante l’infanzia (Brown, 1966). Tale constatazione portò a un lungo periodo di polemica, riguardante la dimostrabilità statistica. Quando Felix Brown iniziò quel lavoro, lo conoscevo abbastanza bene e fui d’accordo con le sue opinioni. Malgrado la prolungata controversia sul provare la teoria per un periodo piuttosto lungo, il lavoro di George Brown e il suo gruppo effettivamente ha dimostrato che è vero, che non c’è più alcun dubbio che la perdita è un antecedente, ma solo quando è accoppiata con un grave evento di vita attuale.

 

Leonardo Tondo: Il modello di separazione della depressione è stato osservato anche nelle scimmie. Cosa ne pensa di questi studi?

John Bowlby: Lavoro sulla separazione e sulla perdita da prima della seconda guerra mondiale. Un altro psicoanalista, Rene Spitz che lavorò in America dalla metà degli anni ‘30 entrò in questo campo in tempo di guerra e attirò l’attenzione sulla condizione dei bambini negli istituti. Il suo lavoro stimolò alcune attività di ricerca negli Stati Uniti. Uno psicologo che iniziò il lavoro sulle scimmie è stato Harry Harlow alla fine degli anni ‘50 nel Wisconsin che venne influenzato dal lavoro di Spitz e dal mio. Quando Harlow e io ci incontrammo nel 1958 ci rendemmo conto che entrambi stavamo studiando fenomeni comparabili. Robert Hinde è stato un altro psicologo che ha lavorato sulle scimmie in Gran Bretagna, in gran parte stimolato dal mio lavoro. L’aspetto principale del lavoro sulle scimmie è stato che, con disegni e metodi sperimentali rigorosi, si sono dimostrati gli effetti nocivi della separazione e le sue ovvie conseguenze (Hinde 1966). Si tratta di un grande patrimonio letterario con cui avevo abbastanza familiarità negli anni ‘60 perché era molto drammatico, ma non l’ho seguito perché non si può essere al passo con tutto. Comunque ho familiarità con il genere di cose che sono in corso, o che a mio avviso sono molto importanti (note al testo: Spitz, René Arpàd (1887-1974). Psicanalista ungherese studiò la relazione madre-figlio e sviluppò alcune teorie sull’ospedalizzazione. Dimostrò nel 1945 che i bambini lasciati in ospedale non toccati presentavano problemi di sviluppo – Harrolw, Harry (1905-1981). Psicologo americano. Studiò gli effetti dell’isolamento sociale nelle scimmie. Nel 1959 trovò che i cuccioli di scimmie rhesus spesso preferivano abbracciare una “mamma” di stoffa confortevole che bere una bottiglia da una mamma di filo di metallo. Nello stesso anno Bowlby pubblicò Cura del bambino e crescita dell’amore materno, dimostrando che quando bambini piccoli sono separati dalle loro madri per un lungo periodo di tempo, provano dolore e depressione.).

 

Leonardo Tondo:Se, sia la depressione e i comportamenti psicopatici sono associati con la separazione precoce e la perdita, non pensa che queste due sindromi possano avere molto in comune?

John Bowlby: Non vi è alcun dubbio. Individui psicopatici sono cronicamente infelici e, naturalmente, tendono a suicidarsi. Vi è un’alta incidenza di suicidio tra di loro.

 

Leonardo Tondo:Questo è vero anche per i tossicodipendenti che il più delle volte iniziano il comportamento di abuso di sostanze a seguito di qualche tipo di depressione.

John Bowlby: Quindi è una sorta di depressione cronica, una depressione sub-acuta che cova.

 

Leonardo Tondo:Per cui forse potremmo dire che il suo contributo allo studio della depressione sia emerso dallo studio del comportamento psicopatico.

John Bowlby: Penso di sì, eccetto che George Brown ha usato gli stessi concetti nel suo lavoro con i pazienti che sono depressi nel senso ordinario del termine.

 

Leonardo Tondo:Che tipo di rapporto c’è tra i suoi studi e la terapia cognitiva?

John Bowlby: I terapeuti cognitivi, a partire da Aaron Beck, si sono interessati alle percezioni di una persona adulta su se stessa, la propria vita e il mondo in cui vive. Questa preoccupazione, naturalmente, può rendere depressa una persona per un giudizio negativo su di sé, sul proprio futuro e sul mondo in generale. Qualcosa del genere è il modo caratteristico di pensare di una persona depressa. Aaron Beck non si è interessato allo sviluppo di queste preoccupazioni, su come e perché queste idee si sviluppano. Egli le considera inadeguate e cerca di correggere il modo di pensare del paziente. Un approccio alternativo allo stesso problema è quello di chiedere come e da dove il paziente ha ricavato queste idee, come egli le ha sviluppate. Ora, una volta che fai questa domanda stai esaminando lo sviluppo e l’infanzia. I genitori possono parlare e intervenire con i figli in diversi modi. Alcuni genitori lodano un bambino, lo incoraggiano, sono sempre dalla sua parte. Altri sono costantemente alla ricerca di colpa, dicendo: “Non sei nulla di buono, nessuno ti amerà mai, non farai mai strada nella vita”. Alcuni genitori fanno molto per un figlio, lo aiutano e lo incoraggiano ad andare avanti, altri non si interessano a lui o dicono: “Non essere di fastidio; non sopporto di essere disturbato da te”. Penso che tutti questi comportamenti non gratificanti possano avere un effetto molto negativo sul bambino e dargli l’impressione che: “Io non sono bravo, non farò mai niente nella vita, nessuno avrà mai affetto per me, non c’è nulla nella vita per cui vale la pena di vivere”. Dopo tutto, un bambino rischia di vivere con un genitore giorno dopo giorno, anno dopo anno dopo anno, ascoltando lo stesso messaggio. Non c’è da meravigliarsi che cresca credendo di non essere bravo. E l’evidenza è che, quando ognuno di noi ha sviluppato un’idea, tendiamo a conservarla stabilmente nella nostra mente. Sappiamo che la Terra è piatta o la Terra è rotonda. E non importa come sia in realtà. Una volta che l’idea è ben incisa non cambia. Va bene, si è sempre saputo che la Terra è rotonda, ma se alcune prove speciali si fanno avanti per dire che è piatta, in un primo momento si contesta: “Non può essere vero, sono sicuro che non è vero”. Poi, se si accetta con riluttanza che è possibile che la terra è piatta, è sempre una convinzione più fragile di quello che si è sempre detto e saputo. Quindi le persone che hanno avuto un’infanzia difficile e molto denigrata possono lavorare molto duramente e possono anche avere un grande successo. Essi cercano sempre di dimostrare che il loro genitore si sbagliava e per lungo tempo. Possono avere successo per diversi anni, vincere premi e continuare molto bene nella loro carriera, ma rimangono sempre vulnerabili a un fallimento. Proprio quando pensavano che stavano per ottenere un lavoro importante, diventano terribilmente delusi e tornano all’inizio, cioè: “Non valgo niente!”. Questo è un quadro comune, per cui questo è il modo in cui io lo vedrei. Articoli di Giovanni Liotti rivelano che egli pensa evolutivamente ed è interessato all’origine di tali idee esattamente come lo sono stato io. Lo conobbi a Roma nel 1982 circa. Era molto preso dalle prospettive di sviluppo che avevo presentato e lui le adottò. Per cui egli è uno dei pochi terapeuti cognitivi che prende in considerazione lo sviluppo. Ma una volta che un terapeuta cognitivo pensa evolutivamente e in termini di processi inconsci e coscienti, egli è in sintonia con uno psicoanalista come me. Lui ed io abbiamo molto in comune e lo trovo molto incoraggiante (note al testo: Beck, Aaron (nato nel 1921). Psichiatra e psicologo americano che ha ideato la Terapia Cognitiva, un tipo di psicoterapia che inizialmente è stata studiata e praticata per trattare la depressione – Liotti, Giovanni (nato nel 1946). Psichiatra e psicoterapeuta italiano che ha studiato i sistemi motivazionali nell’attaccamento come altri comportamenti umani (accudimento, competizione, cooperazione, sessualità)).

 

Leonardo Tondo:È possibile affermare che la terapia cognitiva può essere vista come la parte operativa delle teorie dello sviluppo?

John Bowlby: Credo che queste etichette diventino piuttosto fuorvianti perché la terapia cognitiva che rappresenta Liotti e la terapia psicoanalitica che rappresento io convergono. Come chiamarla, non so. Dobbiamo sempre tenere a mente che, mentre i pensieri sono importanti, lo è anche l’emozione e che i due processi sono paralleli. Credo, infatti, che questo sia il modo corretto di guardare all’emozione. L’emozione è comunicativa, anche se questo punto spesso viene trascurato. Se si è arrabbiati, ci si comporta in modi che sia chiaro ad altre persone che si è arrabbiati. L’emozione è una comunicazione non verbale di base, un atteggiamento mentale e un’azione potenziale molto forte, e quindi bisogna considerare sia la comunicazione verbale che non verbale. I terapeuti cognitivi probabilmente sono stati troppo interessati alla comunicazione verbale, mentre gli psicoanalisti probabilmente non lo sono stati abbastanza. I terapeuti cognitivi devono imparare che l’emozione è comunicativa e gli psicoanalisti devono imparare che i pensieri sono importanti.

 

Leonardo Tondo:È interessante che, dopo tutto, la terapia cognitiva discenda dalla psicanalisi.

John Bowlby: È vero.

 

Leonardo Tondo:Posso chiederle come ha avuto inizio il suo interesse per la psichiatria?

John Bowlby: È iniziato a Cambridge, dove sono stato uno studente del triennio in medicina dal 1925 al 1928. Ho studiato le scienze mediche di base: zoologia, fisiologia, anatomia comparata, e così via, come mie discipline mediche precliniche. Mi sono interessato a quello che oggi si chiamerebbe psichiatria dello sviluppo, come alcune persone si sviluppano in un modo o nell’altro. Dopo aver lasciato Cambridge nel 1928, invece di completare gli studi per diventare medico ho trascorso un anno nelle scuole per i bambini disturbati. In una di queste, ho conosciuto quello che si potrebbe chiamare un punto di vista psicoanalitico dello sviluppo per quanto riguarda i bambini con problemi. Mi è stato poi consigliato di completare la mia formazione medica e diventare uno psichiatra infantile e iniziare una formazione come psicoanalista, che ho fatto negli anni ‘30. Ecco come è iniziato tutto.

 

Leonardo Tondo: Si ricorda qualche episodio particolare che è stato importante nella sua scelta?

John Bowlby: È difficile da dire, ma racconterò di un’importante esperienza che ho avuto in queste scuole per bambini disturbati. Era un posto molto piccolo con bambini di ogni età e diversi gradi di disturbo. Un bambino di otto anni mi seguiva tutto il giorno tutti i giorni, cosicché gli sono diventato familiare e si è sviluppato un attaccamento con lui. Un’esperienza opposta che si è verificata riguardava un ragazzo di 15 o 16 anni che era stato espulso da una nota scuola. Era molto chiuso sul piano emozionale anche se era molto socievole e non antisociale, ma era emotivamente introverso e aveva avuto una prima infanzia molto disturbata; era illegittimo e il parere della gente che gestiva la scuola era che un’esperienza nella sua prima infanzia aveva causato la sua condizione attuale. Questa è stata l’origine di ciò che seguo da allora.

 

Leonardo Tondo:Ha ricevuto delle critiche nei primi anni del suo lavoro da altri colleghi?

John Bowlby: I miei rapporti con il gruppo psicoanalitico di Londra sono stati sempre in termini personali molto buoni, ma essi consideravano errate le mie idee. Non sto dicendo su tutto, e le cose sono cambiate nel corso degli anni, ma ho ricevuto moltissime critiche quando ho iniziato a porre l’attenzione sull’importanza di eventi di vita reale e delle esperienze negative. La prima volta presentai un articolo su questo argomento prima della guerra nel 1939, continuai a presentare queste idee negli anni ‘40 e ‘50 e sviluppai una teoria dell’attaccamento alla fine degli anni ‘50. Questa fu duramente criticata quando la presentai alle società psicoanalitiche in America e altrove. Ci fu una strana tendenza a pensare che queste idee potessero essere importanti ma non avevano nulla a che fare con la psicoanalisi – un parere che io considero assurdo. Comunque ho ricevuto una buona quantità di critica.

 

Leonardo Tondo: Quando le sue idee sono state inizialmente accettate?

John Bowlby: Dipende dal gruppo. Assistenti sociali che si occupano di problemi di affidamento e sanno tutto di bambini senza genitori soddisfacenti, sono sempre stati entusiasti del mio lavoro. Psicologi moderni negli anni ‘50, che erano interessati alle teorie dell’apprendimento, odiavano le mie idee, e le consideravano sciocchezze. Gli operatori della psichiatria infantile, nel complesso, conoscevano i problemi e pensavano che avessi fatto la cosa giusta. Gli operatori del campo della psichiatria dell’adulto erano o totalmente disinteressati o consideravano il tutto come di nessuna importanza. È stata semplicemente una questione relativa a diverse discipline. Ogni volta che mi recavo da operatori sociali sapevo che sarebbero stati dei miei sostenitori, un gruppo di psicologi sarebbe stato critico o un gruppo di psichiatri avrebbe ignorato totalmente l’argomento e così via.

 

Leonardo Tondo: Possiamo dire che la sua teoria ha un aspetto anche ecologico?

John Bowlby: La storia è abbastanza semplice. Prima della guerra, avevo fatto uno studio retrospettivo pubblicato nel 1944 sui ladri minorenni. Dopo la guerra, decisi che quello che dovevamo studiare le conseguenze di un bambino che perde la sua figura genitoriale: le sue risposte nell’essere in un posto sconosciuto con gente sconosciuta, una situazione che un bambino piccolo trova estremamente spaventosa. Fu allora che i miei colleghi e io facemmo queste osservazioni, che il lavoro sulle scimmie confermò. La domanda successiva fu: se la rottura di un legame aveva effetti emotivi così potenti, qual è la natura del legame che viene interrotto? Tale questione fu in cima ai miei pensieri nel 1951 e in quel tempo, un conoscente psicologo diresse la mia attenzione al lavoro di Lorenz sull’imprinting. Egli disse: “Conosci il lavoro di Konrad Lorenz sull’imprinting? Credo che potrebbe interessarti”. Fu un’osservazione casuale che fece al termine di una riunione del comitato. Trovai una traduzione in inglese di alcuni lavori di Lorenz e li considerai molto emozionanti. Li trovai molto interessanti perché mi ero sempre interessato di scienza naturale. Poi ebbi l’opportunità di parlare con Julian Huxley che era stato uno dei primi ecologisti e un biologo noto in Gran Bretagna. Disse che era tutto molto interessante e importante dal punto di vista medico. Mi mise sulla strada giusta per i libri di Lorenz, nonché per lo studio dell’istinto di Nikolaas (“Niko”) Tinbergen. Passai tutto l’inverno del 1952-1953 a studiare etologia ed è così che è iniziato tutto. Quanto più la studiavo, tanto più ero impressionato dall’elevata qualità scientifica del loro lavoro e dalla misura in cui essi studiavano in altre specie problemi simili ai nostri in campo clinico. Così diventai un grande appassionato dell’approccio etologico, che portò alla mia teoria dell’attaccamento che riguarda un solo aspetto delle relazioni bambino-genitore e cioè che un bambino conserva i legami con un genitore se questo lo rassicura. Nei soggetti più grandi, le domande possono essere: “Perché si diventa esigenti? Perché si diventa dipendenti?” e così via. Fu interessante osservare che un comportamento molto simile si verifica in un gran numero di specie diverse. In secondo luogo, ci si può porre le domande: “Perché si manifesta? Qual è la sua funzione? Perché dovrebbe esistere?”. In passato questo ciclo di dipendenza era considerato solo come un fastidio, è semplicemente un qualcosa che accade, dovuto al fatto che una madre nutre il bambino che così si abitua. Il cibo è la cosa più importante e crea dipendenza. Non è una buona cosa e prima si diventa indipendenti, meglio è. Ora, io vedevo il tutto in modo completamente diverso. Non ho mai pensato che il cibo fosse così importante e nel 1958 dimostrai che non lo era. Poi, secondariamente, il punto che ho sempre sostenuto sull’attaccamento è che è una buona polizza assicurativa. Promuove la sicurezza, è emotivamente protettivo e ha una funzione importante nella natura umana. È da studiare come parte della natura umana e nel suo sviluppo maturo, e io attribuisco grande importanza a esso. Invece di considerarlo come un aspetto sconveniente di cui sbarazzarsi, qualcosa da evitare, esso è una semplice parte della natura umana e qualcosa da studiare (note al testo: Huxley, Julian Sorrel , Sir  (1887-1972). Biologo evolutivo inglese. Studiò come i tratti culturali possono rimanere in una società e persistere attraverso le generazioni – Timbergen, Nikolaas (1907-1988). Etologo e biologo olandese che vinse il Premio Nobel in Fisiologia (con Konrad Lorenz e Karl von Frisch) nel 1973 per i suoi studi sui modelli sociali di comportamento.).

 

Leonardo Tondo: Nella sua tecnica psicoterapeutica c’è qualcosa di speciale quando ha a che fare con un bambino o con un adolescente?

John Bowlby: Non penso che ci sia nulla di speciale. Penso di aver sempre preso sul serio i bambini, perché considero gli adulti semplicemente come bambini cresciuti e i bambini mi hanno sempre interessato. Credo che sia necessario trattarli il più possibile come dei pari e prestare attenzione a ciò che sentono, a quello che dicono, e prenderli sul serio, questo è tutto. Io non mi considero un terapeuta geniale. Faccio terapia, ma non è mai stata la maggiore delle mie specialità. Ho imparato molto praticandola e ho trattato persone di ogni età, compresi i bambini, adolescenti e adulti.

 

Leonardo Tondo: Tende verso l’approccio psicoanalitico, essendo non direttivo, o nella sua terapia lei è più supportivo e direttivo?

John Bowlby: Sono piuttosto non direttivo, anche se probabilmente sono diventato un po’ più direttivo col passare del tempo. Una questione importante nel mio lavoro terapeutico è che io sono un compagno di un paziente indifeso e ho intenzione di restare con lui per quanto posso e risolvere il suo problema.

 

Leonardo Tondo: Questo comporterebbe un profondo rapporto emotivo tra lei e il paziente?

John Bowlby: Sì, se arrivano a fidarsi di me. In realtà, ciò che succede è questo: un paziente per definizione, ai miei occhi, è qualcuno che ha avuto una relazione di attaccamento infelice e difficile durante l’infanzia e ha disabilità nelle sue relazioni di attaccamento nella vita adulta. Così, quando viene a trovarmi, io lo vedo come qualcuno che ha una difficoltà nello stabilire legami di attaccamenti di fiducia. Ora, se le cose vanno bene, egli crea un legame di attaccamento con me. La parola transfert è talvolta usata in questo contesto. Egli crea una relazione di attaccamento con me e io divento importante per lui ed egli sente che ho un certo valore nella sua vita. I disturbi nello schema di attaccamento che ha sviluppato da bambino inizieranno a manifestarsi anche nel suo attaccamento verso di me, perché quel modello è stata la sua difficoltà tutta la vita. Ciò sembra molto comune, tranne per la terminologia che uso. Quindi, se un paziente diventa molto arrabbiato con me se mi assento, considero ciò abbastanza naturale, qualcosa che le persone sentono. Se pensa che io abbia intenzione di abbandonarlo ed egli ha un’idea sbagliata di ciò, allora mi chiedo: “Bene, da dove ha ricavato quell’idea o come ha fatto a sviluppare il sospetto che io ho intenzione di abbandonarlo?” Così, ad ogni modo, io uso molti concetti psicoanalitici, ma a modo mio.

 

Leonardo Tondo: I normali strumenti psicoanalitici come libere associazioni?

John Bowlby: Sì, ma la libera associazione è un’arma a doppio taglio. Un paziente può usare la libera associazione perdendo tempo a parlare di tutto ciò che non ha importanza, e poi si deve intervenire e dire: ”Guarda, stai sprecando tempo”, e parlare di qualcosa che conta. Ci sono occasioni in cui io sono deciso e direttivo, ma sono momenti rari. La mia preoccupazione principale è di aiutare il paziente a rivedere la propria vita, a guardare i suoi problemi a modo suo, ed esaminare come le sue esperienze, nell’arco dei primi anni della sua vita, hanno creato i problemi che sta affrontando ora.

 

 

BIBLIOGRAFIA:

 

FONTI: 

La costruzione di Narrative Personali in Terapia Cognitiva #2

LEGGI LA PRIMA PARTE DELL’ARTICOLO

PARTE II

La costruzione di narrative personali in terapia cognitiva. parte 2 - Immagine: © frenta Fotolia.comL’esperienza di clinici, ma prima ancora di esseri umani, ci mostra che “la narrazione di storie e in particolare il racconto di aspetti ed episodi della propria vita, e’ parte essenziale dell’esistenza di ogni persona ed e’ un processo che presenta una connotazione squisitamente sociale. Lo studio delle modalità narrative e interattive implicate nel racconto di storie e nelle conversazioni autobiografiche può contribuire a far luce sulle modalità con cui gli individui organizzano le attività della propria mente e creano coerenza all’interno di essa” (Lenzi, Bercelli, 2010, p. 119).

Bruner (1964) sostiene che la formazione della mente affonda le proprie radici nell’atto di inventare narrativamente l’io: la narrazione genera e chiarisce le relazioni esplicative tra pensieri, emozioni e comportamenti. Poiché le narrative rispettano convenzioni stilistiche e regole di genere, gli elementi fondanti di un’esperienza raccontata sono rappresentati sia dalle caratteristiche di genere e stile che la esprimono – la modalità con cui viene strutturata la narrazione, gli interlocutori cui e’ rivolta, le reazioni di questi ultimi – sia dai contenuti specifici dell’intreccio. Bruner afferma che i passaggi più importanti di un’esistenza non coincidono con accadimenti esterni al soggetto, bensì con le revisioni delle storie utilizzate per raccontare la propria esperienza.

La costruzione delle narrative personali in terapia cognitiva.
Articolo consigliato: La costruzione delle narrative personali in terapia cognitiva

In un’ottica cognitivista la narrazione degli eventi di vita consente di tradurli in rappresentazioni coerenti con il pensiero, l’intenzionalità e la progettualità coscienti; una delle operazioni fondamentali con cui attiviamo questo processo e’ la ricostruzione della memoria, attraverso cui miglioriamo il nostro sistema predittivo, costruiamo una modalità identitaria e ben riconoscibile di adattamento all’ambiente, modifichiamo gli automatismi di risposta agli stati emotivi e generiamo una migliore capacità di orientare evolutivamente le nostre azioni.

Le neuroscienze suggeriscono che l’elaborazione di narrative sulla propria vita favorisce molteplici processi di integrazione conoscitiva, dalla capacità di riunire le differenti categorie percettive in un ordine e in una sequenza spazio-temporale (Edelman, 1992), all’integrazione sensomotoria del sé in un continuum non frammentato tra passato, presente e futuro identificabile con quella che Wheeler e collaboratori (1997) chiamano coscienza autonoetica, fino ai meccanismi che regolano le funzioni specializzate dei due emisferi cerebrali. Le narrative assumono la funzione di modificatori della memoria (Siegel, 1999) ristrutturando i diversi sistemi nei quali si articolano le facoltà mnestiche e concentrandosi in particolare sulle memorie episodiche, che dalla riformulazione di storie traggono una maggiore armonia semantica; in questa direzione si muovono anche gli approcci cognitivisti, che pongono al centro della propria analisi il peculiare significato che il soggetto attribuisce alla propria esperienza.

Assunto di base della terapia cognitiva e’ infatti che il pensiero influenza il comportamento e può essere modificato e monitorato (Dobson, 2009); lo stile di conoscenza del paziente viene indagato dal clinico allo scopo di individuare i margini entro i quali sia possibile generare un cambiamento, e la costruzione di narrative e’ uno strumento fondamentale per rendere visibile al paziente lo stile con cui egli elabora i propri schemi, le proprie opinioni sull’ambiente. Il cognitivismo clinico si e’ sviluppato spostando l’attenzione dall’oggetto dell’elaborazione conoscitiva al suo soggetto, conferendo centralità alla conoscenza emozionale (Liotti, 2001), alle organizzazioni di significato personali (Guidano, 1987; Reda, 1984), agli aspetti metacognitivi(Semerari, 2000; Dimaggio, Semerari, 2003), alla dimensione evolutiva della conoscenza individuale (Guidano, Liotti, 1983). Il metodo della terapia cognitiva si e’ anch’esso modificato, da un lato conservando l’eredità culturale di Beck ed Ellis che introdussero un approccio più focalizzato sull’esperienza del paziente – in opposizione ai tradizionali modelli psicoanalitici che l’avevano trascurata a vantaggio delle interpretazioni oggettivanti del terapeuta (Stanghellini, 2004) – e dall’altro estendendo il concetto di attività cognitiva ad altri elementi della conoscenza personale. L’organizzazione narrativa dell’esperienza rientra a pieno titolo fra queste acquisizioni.

 

La metodologia di intervento cognitivista si dedica alla ricerca e all’analisi di elementi specifici dell’attività cognitiva che vengono poi rielaborati; si tratta di una scomposizione dell’esperienza in componenti di base che sono in seguito ricollocati all’interno di uno schema più generale in grado di spiegare il funzionamento del paziente. La costruzione di narrative può avvalersi di tecniche codificate, ad esempio la moviola, oppure svolgersi mediante una ristrutturazione di significato alla quale il terapeuta collabora con interventi che propongono una ridefinizione dell’esperienza del paziente; l’elemento comune e’ però il continuo rimbalzare tra il senso dell’esperienza immediata e la narrazione cosciente di sé. Ogni evento della vita del soggetto rientra infatti in entrambe le modalità di conoscenza; vi e’ una prima reazione comportamentale, cognitiva ed emotiva nella quale vengono applicati schemi di conoscenza del mondo, convinzioni irrazionali, ricordi di esperienze precedenti in apparenza simili, e questo livello può essere affrontato in terapia accrescendo nel paziente le capacità di auto-osservazione, collaborando con lui nell’individuazione degli aspetti disfunzionali per poi strutturare in termini razionali una o più strategie alternative di adattamento all’ambiente; la costruzione di narrative aggiunge a questo passaggio una dimensione dal contenuto più globale, che si riferisce al rapporto fra il dialogo interno e l’immagine di sé (Lenzi, 2009).

Come i ricordi influenzano le emozioni. - Immagine: © adimas - Fotolia.com
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Il paziente viene condotto ad integrare lo stato emotivo dell’esperienza immediata, la spiegazione degli eventi che egli produce monitorando introspettivamente il proprio vissuto e il significato che questo assume per lui in termini di immagine personale, identità, tema di vita. Si attivano vissuti sensoriali, motori, cenestesici, viscerali, neurovegetativi (Lenzi, Bercelli, 2010) che contribuiscono a definire il valore narrativo di un evento, il significato profondo di un’esperienza all’interno della storia peculiare con cui l’individuo rende conto del proprio esistere, del proprio mondo e del tema di vita che lo caratterizza.

Estraendo un episodio dalla vita del paziente per ristrutturarne i contenutie ricollocarlo nel flusso narrativo globale, il lavoro clinico persegue l’integrazione di memoria semantica ed episodica; il paziente, contestualizzando un evento e cogliendo di esso alcuni aspetti che aveva trascurato a causa dell’attivazione di schemi automatici, ridefinisce la qualità emotiva di quell’episodio e l’impatto sull’immagine di sé. Il contesto relazionale e’ fondamentale nel determinare contenuti e modi del racconto (Wiedemann, 1986); le modalità narrative non solo influenzano la percezione che il soggetto ha di sé, ma anche le reazioni degli altri e da esse vengono a loro volta condizionate. Come dire, raccontiamo noi stessi anche attraverso l’effetto che abbiamo suscitato nell’altro e quell’effetto e’ dovuto in parte a come ci siamo raccontati.

 

 

BIBLIOGRAFIA:

La Meditazione migliora l’umore e la plasticità cerebrale

– FLASH NEWS – 

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze PsicologicheMeditazione: In un recente articolo apparso online su Proceedings of the National Academy of Sciences (PNAS) gli scienziati Yi-Yuan Tang del Texas Tech e Michael Posner della University of Oregon hanno rilevato un miglioramento del tono dell’umore e livelli di neuroplasticità in individui che praticavano una particolare forma di meditazionedefinita dagli autori “integrative body-mind training” (IBMT), una pratica meditativa derivata dalla medicina tradizionale cinese-  per un mese per un minimo di undici ore totali.

Al di là di precedenti risultati che dimostravano cambiamenti nella connettività cerebrale a seguito della pratica meditativa, questo studio ha ulteriormente coinvolto 68 studenti universitari cinesi della Dalian University of Technology definendo in modo più specifico la natura di tali alterazioni.

A seguito della pratica, nel gruppo sperimentale sono stati rilevati un aumento della mielinizzazione e della densità assonale in particolare in relazione alla corteccia cingolata anteriore rispetto al gruppo di controllo sottoposto per pari tempo a un più generico training di rilassamento. Parimenti lo studio ha rilevato cambiamenti nel tono dell’umore attraverso questionari self-report a seguito del periodo di pratica meditativa.

Questo pattern dinamico di neuroplasticità della materia bianca localizzato in relazione alla corteccia cingolata anteriore – area importante nell’autoregolazione e i cui deficit di attivazione sono presenti in alcuni disturbi quali ADHD, depressione e schizofrenia– può considerarsi un contributo a livello neurobiologico per comprendere i meccanismi che sottendono gli effetti della peculiare pratica meditativa indagata. Resta comunque da verificare con cautela la generalizzabilità di tali esiti ad altre tipologie di tecniche di mindfulness, gli effetti a lungo termine anche di una pratica più intensa e duratura e una correlazione dei cambiamenti neuroplastici a outcome emotivo-cognitivo e comportamentali più specifici

 

 

BIBLIOGRAFIA

Malattia di Huntington: Abuso di sostanze e insorgenza precoce

Elisabetta Caletti, psicologa e volontaria AICH MILANO Onlus

 

L’abuso di sostanze è un fattore di rischio per l’insorgenza precoce della Malattia di Huntington?

 

Malattia di Huntington: Abuso di sostanze e insorgenza precoce. - Immagine: Property of National Institute of Neurological Disorders and Stroke (2004-10-13). Retrieved on 14-062012
Immagine: Property of National Institute of Neurological Disorders and Stroke

QUESTO ARTICOLO E’ UNA VERSIONE RIVISTA E AGGIORNATA DI QUELLO GIA’ PUBBLICATO SUL SITO DELL’AICS (ASSOCIAZIONE ITALIANA CORE DI HUNTINGTON SEZIONE DI MILANO)

Come ampiamente descritto in letteratura, la Malattia di Huntington (HD) è una malattia neurodegenerativa ereditaria, causata da una espansione del numero di triplette CAG ripetute nel gene che codifica per la proteina huntingtina. Il numero di triplette rappresenta da metà fino a tre quarti la varianza esistente nell’età di insorgenza: in generale maggiore è l’espansione minore è l’età di insorgenza. Tuttavia vi sono altri fattori che contribuiscono a determinarla; i fattori ambientali possono contribuire fino a un terzo della varianza nell’età di insorgenza e tuttavia non sono noti quali (Wexler et al., 2004). 

Lo studio di Byars et al. (2012) ha appurato e tenuto conto della lunghezza dell’espansione CAG in 136 soggetti con Huntigton, per considerare la possibilità che il numero delle ripetizioni abbia un effetto mediatore sul comportamento di abuso di sostanze. È il primo lavoro che mostra un’associazione tra l’abuso di sostanze e l’età di insorgenza Huntigton verificando il numero di ripetizioni CAG.  

 

Qualità di vita nei malati di Huntington. - Immagine: © fontriel - Fotolia.com
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Fumo e abuso alcolico sono associati ad aumentato rischio di malattie neurodegenerative anche diverse da Huntigton; il fumo è legato ad un maggiore e precoce rischio d’insorgenza della Malattia di Alzheimer (AD), a un aumento del rischio di demenza in generale, e un maggior rischio e una più grave progressione della Sclerosi Multipla (Ascherio et al., 2007; Sabia et al., 2008). Secondo numerose ricerche l’alcolismo è associato a un esordio più precoce dell’AD e all’aumentato rischio di demenze non-AD (Harwood et al., 2007; Thomas & Rockwood, 2001). L’abuso di altre droghe, in particolare di amfetamine e cocaina, è associato ad alterazioni strutturali cerebrali e a deficit cognitivi, anche se la loro relazione con le malattie neurodegenerative è meno studiata (Robbins et al., 2008). 

Byars e colleghi (2012) puntualizzano che è cruciale controllare la lunghezza nell’espansione CAG nel valutare la relazione tra abuso di sostanze ed età di insorgenza; questa non soltanto eserciterebbe una forte influenza sull’età di esordio ma le discrepanze nel numero di triplette CAG ripetute nei tossicodipendenti e nei non abusatori potrebbe tradursi in un effetto mediatore della lunghezza dell’espansione sul comportamento di abuso di sostanze. Per esempio, gli individui con numero molto elevato di triplette CAG ripetute potrebbero diventare sintomatici prima ancora di avere l’opportunità di utilizzare sostanze d’abuso. Al contrario, persone con una storia familiare di un’insorgenza precoce della malattia dovuta a più alte ripetizioni CAG potrebbero avere atteggiamenti fatalistici verso il futuro e pertanto non preoccuparsi delle conseguenze negative determinate dall’uso di sostanze come il cancro, la cirrosi, e l’HIV. 

Le maggiori espansioni porterebbero a sintomi psichiatrici prodromici in un’età più giovane, risultando in un tentativo di auto-medicazione proprio con le sostanze d’abuso; la giovanile introduzione di sostanze incrementa poi il rischio di un successivo passaggio all’abuso. 

La descrizione di un caso di gemelli monozigoti di sesso femminile che aveva lo stesso numero di ripetizioni CAG ha messo in luce una discrepanza di oltre 7 anni nell’età di esordio di Huntigton: la gemella con esordio più precoce fumava pesantemente, a differenza dell’altra sorella (Friedman et al., 2005). 

Per quanto riguarda le differenze di genere, le donne progrediscono più velocemente degli uomini dall’uso iniziale alla dipendenza di sostanze, a indicare forse una maggiore vulnerabilità cerebrale (p. es. Hernandez-Avila et al., 2004). Le donne che abusano di alcol soffrono di più degli uomini di complicazioni epatiche e cardiache e mostrano maggiore suscettibilità all’atrofia cerebrale alcol-correlata rispetto ai maschi. Per il fumo vale lo stesso: le donne che fumano hanno più malattie fumo-correlate rispetto ai fumatori di sesso maschile. 

Anche il corso della Malattia di Huntington può variare tra uomini e donne. Anche se il sesso non influisce sull’età di insorgenza di Huntigton, alcuni studi hanno trovato una più lenta progressione della malattia nelle donne (p.es. Pekmezovic et al., 2007) . I dati sugli animali indicano che gli estrogeni possono proteggere contro le modificazioni dell’Huntigton ai danni del cervello, e che roditori di sesso femminile possono mostrare un’insorgenza più tarda e una progressione più lenta. 

Demenza, Alzheimer & Stimolazione Cognitiva: Use it or Lose it! - Immagine: © Yuri Arcurs - Fotolia.com
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Gli autori hanno ipotizzato che gli individui con abuso di sostanze avevano un esordio più precoce della malattia e che questo effetto era maggiore nelle donne. Alla ricerca hanno partecipato 136 persone di cui si conosceva età di insorgenza, numero di triplette CAG ripetute sull’allele espanso Huntigton, e una storia di abuso di sostanze, reclutate tra 320 pazienti ambulatoriali afferenti al Centro di Eccellenza presso l’University of Iowa Huntington Disease Society of America (HDSA) tra il 1997 e il 2009. Solo i partecipanti per i quali erano conosciute età di insorgenza (definita in funzione della presenza dei sintomi Huntington motori, cognitivi, o psichiatrici), numero di triplette CAG e storia d’abuso di sostanze, sono state incluse nello studio, classificate in gruppi e successivamente confrontate tra loro con test statistici. La lunghezza di ripetizione CAG è stata usata come covarianza in tutte le analisi, in quanto rappresenta il determinante più significativo dell’età di insorgenza Huntington. Sono stati esaminati il rapporto tra abuso di sostanze, l’età di insorgenza Huntington e il sesso,  in quanto le donne possono avvertire un maggiore danno alla salute dall’abuso di sostanze. L’abuso lifetime di alcool e l’abuso di lifetime di droghe sono stati associati a precoce esordio Huntington; un andamento simile è stato osservato per l’abuso corrente di tabacco. L’associazione tra abuso di sostanze e precoce esordio Huntington è stata evidenziata soprattutto nelle donne. Infatti per loro l’abuso lifetime di alcool è associato a più precoce esordio di Huntington, con un andamento analogo per l’abuso lifetime di droghe. Tuttavia, l’abuso di alcool, droghe e tabacco non erano significativamente associate con l’età di esordio negli uomini. Ciò è coerente con altri studi che indicano che l’abuso di sostanze è più pericoloso nelle donne. 

 

Gli autori concludono che anche se lo studio non ha potuto valutare la causalità – ossia una vera e propria interazione tra gene, ambiente e sesso per abuso di sostanze ed età di insorgenza Huntington  – ha comunque importanti implicazioni cliniche e teoriche. Se si dimostra che l’abuso di sostanze provoca un esordio più precoce della malattia, tutti i soggetti a rischio, qualora sia noto lo stato del gene, potrebbero trarre vantaggio dall’evitare abuso di sostanze: gli individui che si rivelano gene positivi possono ritardare l’insorgenza della malattia per diversi anni, e gli individui gene negativi che vivono una vita normale possono evitare le note conseguenze mediche determinate dagli abusi di queste sostanze. Se l’abuso di sostanze è realmente un fattore di rischio causale per un esordio più precoce di Huntington, un numero considerevole di persone potrebbe beneficiare di più anni di vita priva della malattia, addirittura fino a 8 anni come si è visto nelle donne, un effetto clinicamente rilevante. 

Inoltre, se l’abuso di sostanze influenza veramente l’età di insorgenza di Huntington, scoprire i meccanismi attraverso cui questo si verifica potrebbe illuminare anche il processo di patogenesi della malattia. I percorsi plausibili attraverso cui gli effetti diretti delle sostanze tossiche di abuso potrebbero causare un esordio più precoce includono effetti sul fattore neutrofico derivato dal cervello e sul segnale del calcio poiché è dimostrato che questi fattori sono influenzati dall’abuso di sostanze, e che sono implicati nel processo neurodegenerativo di Huntington. 

L’abuso di sostanze potrebbe causare un’anticipata insorgenza di Huntington a causa di un diretto effetto tossico sul cervello, o rappresentare una variabile proxy a causa di una ridotta coscienza o per cattive abitudini di salute generale condotte dall’individuo; la prematura comparsa dei sintomi prodromici Huntington potrebbe anche portare a un’auto-medicazione fatta con alcol, droghe o tabacco in età giovanile, quando c’è la tendenza ad avere una maggiore vulnerabilità allo sviluppo del comportamento di abuso. È altresì possibile che comuni fattori genetici influenzino sia la propensione all’abuso di sostanze che l’età di insorgenza Huntington. Studi futuri dovrebbero analizzare il rapporto esistente tra età di insorgenza Huntington ed età d’esordio e cessazione di abuso di sostanze e le quantità specificatamente utilizzate. 

 

 

BIBLIOGRAFIA: 

Disturbi del Comportamento Alimentare e Impulsività

 

Disturbi del comportamento alimentare. Impulsività come caratteristica temperamentale, base delle comorbilità cliniche e dei gesti suicidari.

Disturbi del comportamento alimentare e impulsività. - Immagine:  © Olivier Le Moal - Fotolia.comL’impulsività è un tratto presente nei Disturbi del comportamento alimentare? Che peso ha nella gravità del comportamento patologico? Che ruolo gioca nei rapporti di comorbilità con altre sindromi cliniche e disturbi di personalità? Come può incidere sul rischio di comportamento suicidario?

Nel presente lavoro si cercherà di rispondere a tutte queste domande raccogliendo dati interessanti da recenti revisioni della letteratura che trattano il tema della relazione tra DCA, impulsività, comorbilità clinica e rischio suicidario.

 

Disturbi del Comportamento Alimentare e Disturbo Bipolare (DB)

Sanna Passino e Perugi (2005) si interessano della correlazione tra DCA e spettro bipolare, riscontrando che alla base delle sindromi sono presenti molti fattori di sovrapposizione tra DCA e DB: alterazioni del peso, impulsività, alterazioni del quadro emotivo (labilità, ciclicità, atipicità), compresenza di stati mentali opposti (disforia-euforia, compulsività-impulsività, etc.), possibili cadute. La revisione della letteratura attuata dagli autori dimostra una comorbilità accentuata tra forme bipolari II attenuate, ciclotimia e DCA; nello specifico il quadro ipomaniacale sembra essere quello maggiormente presente nei DCA in cui si presentano abbuffate alimentari (Binge Eating Disorder –BED– e Bulimia Nervosa –BN-). Inoltre le sovrapposizioni tra Ipomania e Anoressia Nervosa (AN) sono significative: ridotta alimentazione, perdita di peso, ottimismo eccessivo, iperattività, vitalità eccessiva, rifiuto-negazione della malattia, etc. Le correlazioni tra BED e DB sono altrettanto rilevanti: depressione prevalente ed atipica, appetito e senso di sazietà, iperfagia, aumento del peso, bassa autostima, senso di colpa, etc. 

Storie di Terapie #6 – Sesso & Potere: il caso di Matteo. - Immagine: © Vladimyr Adadurov - Fotolia.com
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Una specifica disamina è stata compiuta sul peso dell’impulsività in queste patologie. Essa comporterebbe il rischio di condotte suicidarie, aggressività autoindotta, disturbi del controllo degli impulsi con varie manifestazioni cliniche. Nei DB l’impulsività è considerata  un correlato dell’instabilità timica (dell’umore). Il rapporto tra impulsività e DB è studiato anche da Swann e colleghi (2001) che hanno compiuto uno studio sull’impulsività in pazienti con episodi bipolari non attivi al momento della valutazione, riscontrando che l’impulsività è un tratto stabile nei soggetti con diagnosi di DB.

Anche nei Disturbi del Comportamento Alimentare è marcata la presenza di impulsività e aggrava il quadro patologico: una marcata comorbilità è riscontrata tra DB e Obesità, patologia in cui si presentano comportamenti impulsivi di binge eating e abbuffate.

 

Disturbi del Comportamento Alimentare e Tossicodipendenza (TD)

Da una revisione di studi metanalitici di Pozzi e colleghi (2010) emerge una comorbilità tra DCA e Tossicodipendenza che si aggira tra il 17 e 46%. La base comune dei due disturbi sarebbe un deficit del controllo dell’impulsività e della capacità di gestione emotiva. Nello specifico l’Anoressia Nervosa (AN) con condotte di eliminazione e l’AN con abbuffate presentano quadri di discontrollo emotivo e marcata impulsività che correlano maggiormente con i disturbi da uso di sostanze. La co-presenza di queste due sindromi viene spiegata da modelli diversi: teoria dell’eziologia comune; teoria di una relazione causale tra i disturbi. L’aspetto importante di questa doppia diagnosi è, secondo gli autori, l’aumento del rischio suicidario quando si ha co-presenza dei due disturbi che hanno loro stessi un altissimo tasso di mortalità

 

Siracusano e colleghi (2003) riscontrano fattori comuni tra BED e Dipendenza d’uso di sostanza proprio nella perdita di controllo e nel craving, due meccanismi che sono caratterizzati da risposte impulsive e discontrollo emotivo e comportamentale.

 

Disturbi del Comportamento Alimentare, tratti di personalità e Disturbi di Personalità

Da una ricerca di Tridente e colleghi (2005) è stata provata l’esistenza di specifici tratti nei soggetti con DCA. La Bulimia Nervosa (BN) purgativa presenta maggiore frequenza di tratti evitanti, borderline e paranoidi (83%);  i Disturbi Alimentari Non altrimenti specificati (DANAS) di tipo Restrittivo hanno maggiore frequenza di tratti di evitamento (63%) e borderline (59%). Nei pazienti con AN Restrittiva i tratti maggiormente correlati sono quelli di evitamento (83%), ossessivo compulsivo (70%) e depressivo (65%), tratti non caratterizzati da discontrollo e impulsività bensì da controllo e perfezionismo. Nei disturbi DANAS di tipo BED emergono invece parimenti elevati (71%) di tratti borderline ed evitanti. In ultimo i DANAS di tipo bulimico hanno una maggiore correlazione con i tratti ossessivo-compulsivi. Questa ricerca conferma solo in parte una correlazione tra DCA e impulsività. L’impulsività fa parte solo di una specifica fascia del campione ed è prevalentemente collegata ad instabilità emotiva, relazionale e dell’immagine di sé. Dal punto di vista comportamentale l’impulsività e maggiormente presente nei soggetti con condotte bulimiche o BED. Siracusano e colleghi (2003) sostengono che non esiste uno specifico quadro di personalità alla base delle sindromi di DCA, ma che vi sono tratti tra loro molto diversi anche nello stesso soggetto che rendono difficile confermare una correlazione tra un specifico DCA e uno specifico DP.

L’effetto del Pensiero Desiderante sull’esperienza di Craving. - Immagine: © Stuart Miles - Fotolia.com
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Il rapporto tra impulsività e DP è stato studiato da molti autori. Dowson e colleghi (2004) hanno studiato la presenza di impulsività nel disturbo borderline di personalità in linea a specifiche caratteristiche neurocognitive. Dallo studio emergono deficit in capacità correlate al lobo frontale dorsolaterale, come disorganizzazione e mancanza di perseveranza nello svolgimento di compiti; deficit nella presa di decisione, correlata alle aree orbitofrontali; e deficit nei compiti di coordinazione.  Tutti questi comportamenti confermano il quadro dell’impulsività costituzionale del soggetto BPD.

 

Disturbi del Comportamento Alimentare e Tentato Suicidio (TS)

Nei pazienti con DCA la percentuale di morte a causa di suicidio è particolarmente elevata, nonostante si pensi comunemente che la causa primaria di morte siano le complicanze mediche associate alla malattia. Secondo Pompili e colleghi (2003) la presenza di tendenze suicidarie è una caratteristica specifica dei disturbi indipendentemente dalla presenza di una comorbilità in asse I con i Disturbi dell’Umore. Sembra inoltre che gli atti suicidari siano maggiormente presenti in soggetti con AN che con BN; inoltre lo stato depressivo incide di più sui soggetti con BN rispetto al rischio di agiti suicidari. Nell’AN le percentuali di suicidio oscillano tra 1,8%- 7,3%, e soprattutto la manifestazione suicidaria si presenterebbe in soggetti anoressici con stile purgativo o con pratiche di vomito auto-indotto, soggetti in cui l’impulsività è di certo maggiore che negli anoressici restrittivi.  Altro dato rilevante riportato dagli autori è che i soggetti con AN tendono a manifestare comportamenti suicidari associati ad Abuso di Alcol. Vi sarebbero alcuni indici di maggiore rischio suicidario: la non efficacia di trattamenti precedentemente svolti, l’età tardiva dei soggetti, la cronicità della patologia, una maggiore frequenza di comportamenti ossessivi, abuso di alcol e/o droghe e BMI inferiore. Anche la presenza di una doppia diagnosi di Depressione o precedente Episodio Depressivo aumenta il rischio suicidario.

Nel quadro bulimico i soggetti a maggior rischio sono quelli con BN purgativa, in comorbilità con quadri depressivi e Disturbo Borderline di Personalità.  In questi pazienti i comportamenti di tentato suicidio non sono però collegati a gravità della patologia o condotte di eliminazione.  La presenza in anamnesi di un precedente tentato suicidio è invece un fattore di rischio per la ripetizione dell’atto. Nella BN è da considerare la tendenza all’autolesionismo che può determinare acting suicidari.

 

Conclusioni

Alla luce dei dati riportati in queste ricerche è di certo confermata una correlazione tra alcune manifestazioni di DCA e impulsività. Nello specifico: BED, Obesità, AN con condotte di eliminazione e BN sembrano essere i quadri più caratterizzati da impulsività. Questo tratto può anche spiegare alcune comorbilità tra DCA e sindromi di asse I: Bipolarità, Ipomania, Tossicodipendenza, Abuso di alcol; e di asse II: Disturbi della Personalità del cluster C (caratterizzato da condotte ansiose e/o inibite).

Sembra inoltre interessante cogliere il rapporto tra tutti questi dati clinici e il rischio suicidario, particolarmente elevato nell’AN, con condotte che presentano impulsività più che restrizione, e in BN con comorbilità con Disturbi dell’Umore e Borderline di personalità.

 

 

BIBLIOGRAFIA

  • Dowson, J., Bazanis, E., Rogers, R., et all. (2004). Impulsivity in Patients With Borderline Personality Disorder. Comprehensive Psychiatry, 45, (1), (January/February), pp 29-36.
  • Pompili, M., Mancinelli, I., Girardi, P., et all. (2003). Suicidio e Tentato suicidio nell’Anoressia Nervosa e nella Bulimia Nervosa. Ann. Ist. Super. Sanità, 39 (2), pp. 275-281. (DOWNLOAD)
  • Pozzi, M., Luxardi, G.L., Sabbion, R. (2010). Disturbi del comportamento alimentare e disturbi da uso di sostanze: una revisione della recente letteratura. Dip. Pat., 2, pp.59-66. (DOWNLOAD)
  • Sanna Passino, C., Perugi, G. (2005). Rapporti tra spettro bipolare, disturbi della condotta alimentare e obesità. Giornale Italiano di Psicopatologia, 11, pp. 326-346. (DOWNLOAD)
  • Siracusano, A., Troisi, A., Marino, V., Tozzi, F. (2003). Comorbilità nei disturbi della condotta alimentare: revisione critica della letteratura. Noos, 1, pp.7-26. (DOWNLOAD)
  • Swann, A.C.,  Anderson, J.C., Dougherty, D.M., Moeller, F.G. (2001).  Measurement of inter-episode impulsivity in bipolar disorder. Psychiatry Research,  101, pp. 195-197.
  • Tridente A., Palmieri, S., Cecchi, G., et all. (2005). La diagnosi di personalità per una terapia integrata dei disturbi del comportamento alimentare. Giornale Italiano di Psicopatologia, 11, pp.170-178. (DOWNLOAD)

Sindrome di Asperger (AS) e Differenze di Genere

– FLASH NEWS – 

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze PsicologicheI disturbi dello spettro autistico sono presenti in misura  maggiore nel genere maschile rispetto al femminile. Alcuni scienziati tra cui Simon Baron-Cohen -uno dei più autorevoli studiosi di autismo -hanno deciso di indagare il ruolo delle differenze di genere nella funzionalità neurocognitiva in soggetti affetti da autismo. Utilizzando la tecnica della risonanza magnetica funzionale (fMRI) 15 maschi e 14 femmine con diagnosi di sindrome di Asperger (AS), insieme a un gruppo di controllo di 16 maschi e 16 femmine con un profilo di sviluppo non patologico – senza alcuna diagnosi di disturbo dello sviluppo-  sono stati sottoposti alla rilevazione delle attivazioni cerebrali durante compiti di rotazione mentale e di fluenza verbale.

Dai risultati emerge che a partità di simili prestazioni nei due diversi compiti nei quattro gruppi coinvolti,  nel compito di fluenza verbale gli individui – sia maschi che femmine- con sindrome di Asperger hanno mostrato maggiori attivazioni della corteccia occipitoparietale e prefrontale rispetto ai soggetti di controllo.

Durante il compito di rotazione mentale inoltre si è riscontrato un effetto di interazione diagnosi per genere: i maschi con diagnosi di sindrome di Asperger e le femmine del gruppo di controllo hanno mostrato una maggiore attivazione delle regioni occipitali, temporali, parietali e frontali mediane rispetto alle femmine con diagnosi di Asperger e ai maschi del gruppo di controllo.

Questi risultati suggeriscono quindi una complessa relazione tra autismo e differenze di genere nel dominio verbale e in quello visuospaziale.

 

 

BIBLIOGRAFIA 

Ansia da Studio & Università: al di là di Decaloghi e Luoghi Comuni

Dr Michele Rossi.

Ansia da Studio e Problemi di rendimento all’università: superare i pregiudizi per un aiuto concreto agli studenti.

Ansia da Studio & Università: al di là di Decaloghi e Luoghi Comuni. - Immagine: © auremar - Fotolia.comL’esperienza maturata supportando studenti universitari in crisi con le diverse fasi del ciclo di studi suggerisce che i problemi di rendimento non sempre sono causati dalla poca predisposizione o dall’assenza di voglia e motivazione, ma in molti casi si originano da veri e propri problemi psicologici, da affrontare in modo adeguato assieme ad un esperto.

Di sicuro ci sono casi in cui gli studenti semplicemente non hanno voglia o interesse: magari vogliono fare qualche anno di “dolce vita” a spese dei genitori oppure, al contrario, non hanno nessun desiderio di frequentare l’università e si sono iscritti solo per le pressioni ricevute dalla famiglia. Anche se nel senso comune queste spiegazioni sembrano spesso le più plausibili, molti studenti dallo scarso rendimento sono invece fortemente motivati. Sarebbero disposti a studiare duramente in cambio di voti anche modesti, ma fanno fatica a ottenere risultati e, progressivamente, iniziano ad evitare lo studio fino alla completa paralisi.

Disturbo Specifico dell'Apprendimento. Immagine: © Leah-Anne Thompson - Fotolia.com -
Articolo consigliato: Non imparo perché… sono pigro e incapace. O per dire qualcosa a mamma e papà?

Spesso questi studenti hanno reali problemi e andrebbero aiutati adeguatamente. Molto, troppo spesso, però questo non accade. La mia esperienza di psicologo scolastico e assistente universitario mi ha infatti permesso di osservare una curiosa caratteristica del nostro sistema scolastico: se uno studente delle scuole elementari o medie ha problemi di studio, molto spesso viene interpellato lo psicologo, dato che si sospetta la presenza di qualche problema psicologico alla base dello scarso rendimento. Al contrario, se uno studente universitario non riesce a rendere come dovrebbe, nella maggior parte dei casi viene subito “marchiato” come svogliato o troppo limitato per laurearsi. Questa è una visione miope che condanna molti studenti motivati al fallimento.

Quando qualcuno riesce ad andare oltre a questi giudizi semplicistici, la spiegazione più comune è che lo studente “studia male”, che non possiede un metodo adeguato ad affrontare i complessi studi universitari. Anche se questo a volte può essere vero, voglio mettere in guardia dai possibili problemi insiti nel ricercare soluzioni ai problemi di rendimento all’università solo nei famosi “decaloghi”, nelle liste di consigli che è possibile trovare in Internet.

Alcuni sono semplici articoli civetta, creati per catturare i lettori e indirizzarli verso i centri per il recupero scolastico. Altri sono seri tentativi di dare buoni consigli agli studenti. In ogni caso, il limite di questi lavori è sempre lo stesso: considerare i problemi metodologici la causa principale di tutti i problemi. In alcuni casi, in verità, è possibile trovare anche riferimenti a una generica ansia da studio e alcuni buoni consigli per superarla.

In effetti nelle crisi di rendimento universitario l’ansia c’è, praticamente sempre, ma in molti casi subentra in un secondo momento, come conseguenza di difficoltà originate da fattori molto diversi. Spesso i problemi che hanno causato le prime difficoltà sono infatti cosa molto diversa dalle complicazioni intervenute in seguito, creando situazioni complesse che gli studenti raramente riescono a razionalizzare e contrastare efficacemente.

Non imparo perché sono pigro o per dire qualcosa a mamma e papà? - Immagine: © olly - Fotolia.com -
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Il più delle volte i decaloghi contengono interessanti proposte di riflessione, come per esempio: chi soffre d’ansia da studio (o “da esame”) fa dipendere la sua autostima da un riconoscimento esteriore; ridimensionate l’importanza dell’esame; fatevi un programma di studio; studiate con altre persone… Per uno studente in cerca semplicemente di buoni consigli per migliorare l’efficienza forse queste liste possono essere fonte di ispirazione, ma immaginate che frustrazione possono provocare in uno studente che cerca di seguire da tempo queste buone pratiche senza ottenere risultati. Dopo aver provato e riprovato senza successo può arrivare ad una sola conclusione: “l’università non fa per me!”. La situazione non è molto diversa da un malato che prende continuamente aspirine, ma la febbre non cala mai: è logico che pensi di essere un malato cronico, quando il problema è invece l’infezione a monte e la cura sarebbe un antibiotico specifico. In questi casi, quindi, provare ad applicare le liste di buoni consigli può diventare decisamente controproducente.

Proviamo ora a fare un esempio pratico su un caso da me realmente trattato, per capire in che modo i problemi psicologici possono a volte compromettere il rendimento di studenti motivati:

Psicopedia - Immagine: © 2011-2012 State of Mind. Riproduzione riservata
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Un paziente si rivolge in consultazione e riferisce problemi di scarso rendimento all’università. Racconta di Iniziare a studiare gli esami con fiducia in momenti di particolare motivazione, ma dopo alcuni “periodi buoni” si stanca, non riesce più ad andare avanti. Tentativo dopo tentativo crescono i dubbi e le paure sull’avere le capacità necessarie a completare un percorso universitario. Iniziano a strutturarsi forme di evitamento, ansia in sede di esame (le poche volte che arriva a provarci) e molti altri fenomeni a base ansiosa.

La tentazione poteva essere quella di iniziare ad aiutarlo a vincere l’ansia da studio attraverso strategie comportamentali, le stesse contenute a volte nei vademecum di buoni consigli. L’analisi della storia di vita del paziente segnalava però che l’incostanza, l’oscillazione di voglia e motivazione, era presente da tempo e non riguardava solo lo studio. Inviato allo psichiatra di riferimento è stato rilevato un problema di instabilità dell’umore (a volte anche da un giorno con l’altro) oltre a periodi di lieve depressione. Il medico ha quindi prescritto farmaci adeguati, al fine di rendere il ragazzo meno soggetto alle oscillazioni e ai picchi negativi. A questo punto è risultato chiaro che azioni intraprendere a livello terapeutico: lo studente è stato reso consapevole del suo problema ed aiutato a gestire la residua variabilità di umore, comunque diminuita grazie dall’assunzione dei farmaci. Assieme a lui è stato ricostruito il percorso che, progressivamente, ha strutturato in lui l’ansia, al fine di eliminare la convinzione (ormai radicata) che i suoi problemi derivassero da insufficienti capacità. Solo in seguito, una volta chiariti questi aspetti, lo studente è stato aiutato con strategie comportamentali adeguate a superare i problemi causati dai suoi stati ansiosi nello studio e durante gli esami.

Musica didattica metacognitiva - © Tommi - Fotolia.com
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Al fine di evitare riduzionismi opposti a quelli contenuti dei decaloghi, bisogna anche dire che a volte i problemi all’università sono davvero originati in primo luogo da dinamiche di tipo ansioso. Anche in questi casi però è molto pericoloso provare a risolverli con la sola forza di volontà, o cercando di applicare le liste di buoni consigli. Non tutti capiscono davvero che l’ansia, oltre una certa soglia, è una vera e propria psicopatologia e come tale va affrontata assieme ad un esperto. Anche se non raggiunge livelli patologici, inoltre, non è sempre facile capire in che modo agisce e questo rende comunque consigliabile rivolgersi ad una persona competente.

Facciamo un’altro esempio pratico:

Una studentessa bloccata ai primi esami di giurisprudenza riferisce molta ansia da studio. Cerca di seguire il più possibile tutti i consigli che gli offrono e studia molto, ma in sede d’esame non riesce a ricordare ciò che ha studiato. Ad un’attenta analisi del suo metodo di studio emerge che la studentessa non ripete mai. Sa che le altre compagne ripetono a mente o addirittura ad alta voce, ma lei non riesce. Di sicuro è consapevole di non applicare una tecnica ritenuta da tutti valida, ma quando legge gli elenchi di buoni consigli questa pratica è solo una delle tante consigliate. Non sarà proprio tutta lì l’origine del problema? E invece sì. La studentessa provava forte ansia nel ripetere, perché al primo elemento non ricordato si attivavano forti pensieri negativi. Gli insuccessi derivanti da questa lacuna metodologica avevano poi generato una serie di errate convinzioni sulle sue capacità, strutturando progressivamente una complessa dinamica di evitamenti. Aiutata a comprendere la sua difficoltà iniziale e le varie conseguenze sulla sue “percezione di efficacia”, la sua resa universitaria è progressivamente migliorata.

In conclusione voglio semplicemente ribadire il concetto centrale di questo articolo: dietro ai problemi universitari ci sono spesso veri e propri problemi psicologici: prima di “marchiare” uno studente in difficoltà come demotivato, svogliato o troppo limitato per il compito che ha davanti, è consigliabile verificare che siano davvero queste le cause dell’insuccesso.  

Mindfulness e Psicoterapia Cognitiva: una riflessione critica #1

 

LEGGI GLI ARTICOLI PRECEDENTI: Mindfulness e Psicoterapia Cognitiva: il lato opaco dei cimbali Parte 1Parte 2 

Mindfulness e Psicoterapia Cognitiva: una riflessione critica #1. - Immagine: © artida - Fotolia.comInizio questo articolo ringraziando l’amico e collega Gabriele Caselli per avermi indirizzato la sua interessante e stimolante serie di riflessioni sulla Mindfulness noti come il “lato opaco dei cimbali”. Cerco pertanto, di integrare con alcune considerazioni sulla mindfulness che potrebbero contribuire a sollecitare il dibattito che si è attivato su State of Mind, e ancor prima durante i lunghi e sempre stimolanti scambi con Caselli.

 

– 1 – “Mindfulness fascists”? Per prima cosa, credo sia importante evitare di diventare “mindfulness fascists”, per usare un’espressione coniata da Russ Harris (2009). Rendere tutto mindfulness-based o intravedere nella mindfulness la soluzione di tutte le problematiche è davvero molto pericoloso. Uno dei rischi principali è che, a parere di chi scrive, il percorso terapeutico venga confuso con un percorso iniziatico in cui l’allievo deve imparare un “modus vivendi”.

 

MINDFULNESS E PSICOTERAPIA COGNITIVA: IL LATO OPACO DEI CIMBALI #2. - Immagine: © EpicStockMedia - Fotolia.com
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– 2 – Anti-Mindfulness tout cour? È anche vero il contrario… mi riferisco in particolare all’atteggiamento scettico di alcuni colleghi che vedono nella mindfulness il pericolo di una nuova fase new age anni ’70 che potrebbe far perdere di vista la scientificità e la legittimità della mindfulness all’interno di protocolli di intervento terapeutici, e sottolineo “terapeutici” e non di supporto/sostegno a persone che sostanzialmente stanno già bene. Alcuni dati di efficacia sono già stati citati nella brillante serie di Caselli qui su State of Mind. In sintesi, la mindfulness sembra migliorare le capacità di decentramento, la regolazione delle emozioni (Baer et al., 2006; Brown & Ryan, 2003), ha un effetto sulle capacità di spostamento volontario del focus attentivo, rappresenta un modalità con potenziali anti-rimuginio ansioso e/o anti-ruminazione depressiva… LEGGI QUI e promuove un atteggiamento di accettazione

Purtroppo il concetto di mindfulness per sua natura non si presta in modo lineare alle regole ferree dell’evidence based, ciononostante la letteratura scientifica sta andando verso questa direzione e questo riflette un aspetto fondamentale per non confondere la mindfulness con altro, per certi versi prezioso, stimolante e utile, che però non è psicoterapia.

 

-3-  Ma come viene concettualizzata la mindfulness? Costrutto molto complesso da comprendere se non coadiuvato da una pratica (anche breve e esplorativa) personale, sembra esserci un certo accordo nel considerare la mindfulness come un modello bi-componenziale (Bishop et al., 2004) che include:

  • Una componetente di autoregolazione dell’attenzione – l’allenamento a mantenere l’attenzione su ciò che avviene nel qui ed ora permetterebbe di accrescere il riconoscimento e il distacco critico dai pensieri disfunzionali nel momento presente;
  • Una seconda componente di curiosità e apertura – tale competenza permetterebbe di sperimentare un atteggiamento funzionale verso l’esperienza del momento presente.

Inoltre, la mindfulness si pone come concetto alquanto transteorico, integrabile e utilizzabile in diverse forme di psicoterapia, tra cui (oltre alla terapia cognitiva) approcci, costruttivisti (più o meno radicali), psicodinamici, umanistici, gestaltici, etc… e, forse, in un periodo in cui si avverte un bisogno di integrazione nella teoria, di consenso e sinergia nella clinica e di “grandi modelli” che spieghino il funzionamento del paziente nel più ampio raggio possibile (vedi Schema Therapy e ACT ad esempio… ) un concetto come questo, se studiato e validato secondo i principi dell’evidence-based, potrebbe aprire scenari futuri: di ricerca e soprattutto di applicazioni cliniche.

 

Ruminazione - Immagine: Fotolia.com
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– 4 – Fare, fare e fare… Un concetto caro alla mindfulness e che credo sia utile in questo dibattito è quello chiamato del doing mode, la modalità del fare, che rappresenta l’atteggiamento anti-mindfulness per eccellenza. Espressione utilizzata in ambiente mindfulness per indicare il rimanere incastrati nella modalità del fare e non concentrarsi mai su osservare quel che si sta facendo in modo decentrante e mentalizzante, cioè consapevole.

Proviamo a pensarci, quando viviamo esperienze per noi negative proviamo emozioni negative, il provare emozioni negative ci fa desiderare che le cose siano in modo diverso da quello che sono (o che noi crediamo che siano…) e cosa facciamo? Iniziamo a rimuginare sul futuro, o a ruminare nel passato, ci giudichiamo, giudichiamo gli obiettivi che ci eravamo prefissati, desideriamo allontanarci a tutti i costi da quella situazione che noi non vogliamo assolutamente tra i piedi…

In queste situazioni si attiva ciò che viene chiamato il doing mode, concetto molto vicino al sé concettualizzato di cui ho parlato su State of Mind. Tra le caratteristiche principali di tale modalità troviamo l’utilizzo quasi esclusivo della parte verbale (il linguaggio della nostra mente), che considera i nostri pensieri come l’unica realtà possibile, che viaggia nel tempo (avanti o indietro in base alle “preferenze” personali), che si pone come obiettivo principale l’allontanare e il non voler avere a che fare con ciò che ci fa soffrire, un evitamento in sostanza e che, dopo anni e anni di cattiva abitudine, diventa automatico, scontato e per molte persone l’unica modalità possibile (perché “sono fatto così”…).

Il sé-concettualizzato: la maschera (scomoda) che indossiamo. - Immagine: © olly - Fotolia.com
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Il doing mode sembra di fatto un atteggiamento molto diverso dall’esperienza di flow, citata da Caselli. Scrive:

È possibile che una persona scelga consapevolmente di godersi una modalità del fare ‘sana’ dove non è presente a sé stesso momento dopo momento? Penso all’esperienza che viene descritta con il concetto di ‘flow’ che è ‘ottimale’, ‘soddisfacente’ e che è caratterizzata tra le altre cose da assenza di percezione del tempo e da scarsa autoconsapevolezza.

A mio parere la risposta è sì. Nel flow, però, manca totalmente (o quasi…) l’aspetto della disfunzionalità e della automaticità, tanto che il flow viene considerato come un’esperienza ottimale in cui ottimizzo il tempo e massimizzo la prestazione. Il doing mode, però, non ha tali vantaggi, bensì porta a micro-episodi di alienazione disfunzionale non coerente e utile allo scopo prefissato (cosa che invece avviene nell’esperienza di flow…).

 

LEGGI LA SECONDA PARTE

 

 

BIBLIOGRAFIA:

Instabilità Emotiva e la Percezione che abbiamo del nostro reddito

– FLASH NEWS –

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze PsicologicheL’economista Eugenio Proto, del Centre for Competitive Advantage in the Global Economy (CAGE), insieme ad Aldo Rustichini della University of Minnesota, hanno studiato come i tratti della personalità possano influenzare, in termini di soddisfazione di vita, il modo in cui percepiamo il nostro reddito.

Sembra infatti che chi possiede un particolare tratto della personalità, l’instabilità emotiva, possa addirittura vivere un aumento di stipendio o di reddito come un fallimento, se questo non è in linea con ciò che si attende.

L’instabilità emotiva è considerata un tratto fondamentale della personalità (vedi Big Five Personality Traits) e si riferisce alla tendenza a sperimentare emozioni negative, come rabbia, ansia o depressione e ad essere particolarmente vulnerabili allo stress. Chi riceve un punteggio alto in relazione a questo tratto della personalità è più propenso a interpretare le situazioni ordinarie come una minaccia e le piccole frustrazioni come situazioni di grande difficoltà; inoltre le reazioni emotive negative tendono a persistere a lungo nel tempo, il che significa che si tratta di persone che sono spesso di cattivo umore. Questi problemi di regolazione emotiva possono diminuire la capacità di una persona di pensare con chiarezza, di prendere decisioni e affrontare efficacemente lo stress, oltre che contribuire alla mancanza di soddisfazione nelle proprie conquiste di vita e aumentare le probabilità di sviluppare una depressione clinica.

Secondo i ricercatori chi ha alti livelli di instabilità emotiva ha buone probabilità di vedere un aumento di stipendio come un fallimento se il suo reddito è già alto; infatti mentre un aumento di stipendio con un reddito basso è più facilmente vissuto come un successo, un aumento di stipendio con un reddito alto potrebbe non corrispondere alle aspettative, ed essere interpretato come un obiettivo mancato, piuttosto che come un traguardo raggiunto, andando così ad incidere negativamente sul livello di soddisfazione esistenziale di chi lo riceve. Questi risultati suggeriscono che in alcuni casi usiamo un aumento di denaro come sistema per misurare il nostro valore personale in termini di successi e fallimenti piuttosto che come un mezzo per ottenere un maggiore comfort.

 

 

BIBLIOGRAFIA:

Parlare da soli: follia? No, stimolo cognitivo

 

“Le chiavi.. dove saranno le chiavi della macchina?”

Poi finiscono con il parlare da soli.
Non c’è mica niente di male però non cominciare a risponderti figliolo. 

Jack Keruoak

 

Parlare da soli: follia? No, Stimolo Cognitivo. - Immagine: © Petr Vaclavek - Fotolia.comParlare da soli: Quante volte ci capita di osservare il nostro compagno, la nostra amica, nostra madre a “parlottare” tra sé e sé? Quante volte non ne capiamo il senso e ci chiediamo se dobbiamo preoccuparci e se questi sono i primi segni di un giorno di ordinaria follia, di “qualche rotella fuori posto”?

In uno studio pubblicato sul Quarterly Journal of Experimental Psychology, ci vengono dati gli elementi per arrivare a dire che parlare da soli non solo non è segno di follia, ma al contrario è uno strumento efficace e regala importanti benefici cognitivi. Infatti, questo bizzarro uso del linguaggio per fini apparentemente non comunicativi, sembra avere un preciso ruolo di stimolo per alcune funzioni cognitive.

Gli autori, gli psicologi Gary Lupyan (Università del Wisconsin) e Daniel Swingley (Università della Pennsylvania), hanno condotto una serie di esperimenti per scoprire se parlare da soli sia d’aiuto nella ricerca di oggetti particolari. Questa ricerca trova spunto nell’immaginario comune, per cui spesso, quando perdiamo qualcosa o quando stiamo cercando, ad esempio, le chiavi della macchina prima di uscire, siamo soliti parlare da soli, quasi a richiamare l’oggetto stesso: “Il cellulare, dove avrò messo il cellulare?”.

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche
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Pronunciare il nome dell’oggetto cercato oltre ad esprimere una richiesta d’aiuto per le persone che abbiamo vicino, ci aiuta anche a focalizzare l’attenzione sull’oggetto stesso.

In un primo esperimento, i partecipanti sono stati divisi in due gruppi: dopo che era stata mostrata ad entrambi una serie di immagini di oggetti, ad un gruppo era stata data la consegna di cercare un oggetto target (cercate la teiera), mentre al secondo gruppo era stata data la consegna di nominare a voce alta gli oggetti mentre li cercavano. Dai risultati è emerso che gli appartenenti al secondo gruppo trovavano gli oggetti molto più rapidamente. In un secondo esperimento, è stata invece simulata la spesa al supermercato, ed anche in questo caso le persone a cui era stato chiesto di nominare a voce altra l’oggetto sono risultate essere più veloci ed efficaci nella ricerca degli alimenti.

Dai risultati della ricerca si evince che: “Ripetendo il nome dell’oggetto cercato, è come se stimolassimo il cervello a focalizzarsi meglio sulla ricerca”; “Troviamo le cose più rapidamente, parlando. Soprattutto quando c’è una forte e diretta associazione tra il nome e l’obiettivo”. Questo studio va nella direzione del non considerare il linguaggio soltanto come uno strumento per comunicare con i propri simili, ma anche come un modo per influenzare i propri processi cognitivi:

«Questo nostro lavoro è il primo che esamina gli effetti del parlare da soli rispetto a un compito visuale relativamente semplice, e si aggiunge alla letteratura esistente che mostra come il linguaggio abbia una serie di funzioni extracomunicative e, in certe condizioni, possa arrivare a modulare i processi visivi».

Un altro studio sull’abitudine di parlare da soli condotto dagli Psicologi della Toronto University, al termine di una serie di test su volontari, ora pubblicati sulla rivista online Acta Psychologics, sono giunti alla conclusione che parlare da soli non solo non è da “matti”, ma al contrario fa bene, aiuta nei processi decisionali, aumenta l’autocontrollo e diminuisce i comportamenti impulsivi. In alcuni compiti sperimentali, ad alcuni soggetti veniva impedito di parlare con sé stessi; coloro che potevano parlare con sé stessi a voce alta hanno regolarmente ottenuto risultati migliori ai test.

Mind Wandering. - Immagine: © auremar - Fotolia.com
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«Ci siamo resi conto che la gente agisce in modo più impulsivo quando non può usare la propria voce interiore e dunque, in sostanza, parlare con sé stessa, mentre fa qualcosa»,afferma il professor Michael Inzlicht, che ha diretto la ricerca. «Senza la possibilità di verbalizzare messaggi a sé stessi, i volontari esaminati nei nostri test non erano in grado di esercitare lo stesso ammontare di autocontrollo». Di fatto, giorno dopo giorno mandiamo continuamente dei messaggi a noi stessi con l’intenzione di aiutarci – accudirci, esaminarci, motivarci. «Parlando con noi stessi ci diciamo, per esempio, che dobbiamo continuare a correre anche se siamo stanchi mentre facciamo jogging, oppure di smettere di mangiare anche se avremmo voglia di un’altra fetta di torta, o di trattenerci dal perdere le staffe nel pieno di una discussione. Talvolta questi messaggi esistono solo a livello di pensieri, restando silenziosi, altre volte vengono esplicitati, in una sorta di conversazione ad alta voce con noi stessi. Il nostro esperimento dimostra che questo dialogo interiore è comunque utile e molto diffuso, anche se non sempre la gente si rende conto di farlo.» Sicché, la prossima volta che vediamo qualcuno parlare da solo, non diciamo che è un po’ matto. Anche perché la volta dopo potremmo essere noi a parlare da soli, senza accorgercene. 

“E ‘ bello scrivere perché riunisce le due gioie: parlare da solo e parlare a una folla.”

(Cesare Pavese, 4 maggio 1946)

 

 

BIBLIOGRAFIA: 

 

Sister (2012) Recensione. Regia: Ursula Meier, Orso d’argento a Berlino

 

Sister: Il bambino abbandonato e la sua ferocia dolente. – Recensione – 

Sister (2012) Recensione. Regia: Ursula Meier, Orso d’argento a Berlino. - Immagine: Sister 2012. Cinema Movie Cover.
Sister (2012). Regia: Ursula Meier, Orso d’argento al festival di Berlino. Immagine: Locandina Cinematografica

Il bambino abbandonato è Simon. Sister è un film intelligente e doloroso. Abbiamo un bambino che fatica, fatica per vendere scarponi, guanti e sci sottratti ai ricchi, lassù sulla montagna, ai meno ricchi che vorrebbero gli oggetti del desiderio e non possono permetterseli. Simon vive con una “sorella”, Louise, che si fa maltrattare dagli uomini e non riesce a tenere un lavoro.

Louise è più grande di lui, ma si comporta come se fosse sua figlia, discontinua, dalla presenza vaga e a volte crudele e ricattatoria. Simon ha solo rapporti mercenari e si scontra con il mondo con la durezza di chi ha visto già tutto. Come se fosse già anziano. Sa che è l’unico responsabile e garante della propria sopravvivenza e il mondo è un ring in cui deve faticare ed essere più rapido e intelligente degli altri. Se perde (e sa prendere, senza una parola di recriminazione, botte e umiliazioni) subito ricomincia a fare il suo lavoro di piccolo ladro. Simon non ha molto interesse per il mondo là fuori e come molti bambini abbandonati e soli vede il mondo come qualcosa di estraneo e da usare in modo cinico e duro. L’unica cosa che conta è la determinazione con cui trascina la sua pesante slitta di sci rubati e la durezza con cui contratta con gente che ha 10, 20 anni più di lui. Ma lui è più disperato degli altri e così a volte è più duro e lucido. E li corrompe, oppure estrae dagli altri l’aspetto meschino e volgare che immagina e che conosce per sfruttarlo a suo vantaggio.

Kill Me Please, Suicidio Assistito e le nuove frontiere del Controllo. - Immagine: © 2012 Costanza Prinetti
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Simon ama solo una persona, Louise, piena dei lividi della vita. Anche l’amore per questa sorella è un amore duro. Può capitare di raccoglierla ubriaca per strada e di cacciare gli uomini che le ronzano intorno e che lui non vuole avere tra i piedi.

Anche con la sorella Simon non ha scrupoli, la vuole vicina, la vuole viva, ma la vuole come vuole lui, tutta per se. E caccia via come può tutti gli uomini che si avvicinano. Le offre soldi se lei è arrabbiata con lui e non vuole averlo vicino e consolarlo. Simon e Louise sono due personaggi tragici che vivono un mondo ai confini della strada, desolato e solitario, dove non c’è speranza di riscatto. E poi litigano e Simon per un momento si lascia andare a lacrime di bambino, da solo, nella stazione sciistica chiusa per fine stagione: è solo nella notte della montagna e piange. Ma poi arriva il mattino: forse quel mattino porta la fine della vecchia vita e la speranza che l’amore reciproco diventi maturo e porti la salvezza.

Questo film, Sister, ci parla in modo poetico della durezza dei bambini abbandonati e soli.

Al di là di ogni pietismo, Sister indica con forza, indica agli adulti che avranno a che fare con ragazzi come Simon le difficoltà che incontreranno quando dovranno scontrarsi con una forza umana e di sopravvivenza così allenata a regole che gli altri -gli umani privilegiati- neanche immaginano.

 

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 Sister. (2012). Regia: Ursula Meier. Orso d’argento al festival di Berlino. TRAILER IN ITALIANO:

Cool! ma non più come una volta… Evoluzione del concetto di Coolness

– FLASH NEWS – 

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze PsicologicheIl concetto di cool si è sviluppato dopo la Seconda Guerra Mondiale ed è stato incarnato da personaggi come James Dean e Miles Davis.

L’essere cool è stato tradizionalmente associato a freddezza, ribellione, controllo emotivo, durezza, ricerca di emozioni forti e più in generale al comportarsi secondo i propri desideri e inclinazioni, preferendo l’individualismo al conformismo delle norme imposte dalla società.

Cool! ma non più come una volta… Evoluzione del concetto di Coolness. - Immagine: Licenza Creative Commons 2.0 - Autore: Eliza Peyton
James Dean: un'icona culturale che ha brillato per 60 anni.

Secondo un originale studio condotto alla University of Rochester Medical Center, però, il concetto di cool è radicalmente cambiato nel corso degli anni, perdendo gran parte delle sue origini storiche e connotazione di individualismo contro-corrente. Infatti, sembra proprio che James Dean non sia più sinonimo di cool, o meglio, la versione più cupa del cool è ancora lì, ma non è più l’aspetto principale; ciò che i ragazzi oggi si chiedono è piuttosto: “mi piace questa persona? è gentile con gli altri? È attraente? Sicura? di successo?”

Nello studio Dar-Nimrod e i suoi colleghi hanno reclutato quasi 1.000 persone perchè rispondessero a un ampio questionario su quali aggettivi, comportamenti e personaggi fossero, secondo loro, associati alla parola cool.

La felpa di Mark Zuckerberg a Wall Street. - Immagine: Facebook. https://www.facebook.com/photo.php?fbid=409670752382205
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I ricercatori hanno condotto tre studi separati. Nello primo studio, i partecipanti hanno identificato le caratteristiche che definiscono l’essere cool. Nel secondo studio, due campioni di partecipanti hanno valutato decine di queste caratteristiche su due dimensioni: freddezza e la desiderabilità sociale. Nel terzo studio infine, i partecipanti hanno valutato i loro amici sia rispetto alla loro freddezza e che rispetto a una serie di descrittori di personalità che sono stati identificati come rilevanti negli altri studi.

I risultati indicano che un numero significativo di partecipanti ha usato aggettivi che esprimevano aspetti positivi e socialmente desiderabili della personalità, come l’essere amichevole, competente, trendy ed attraente.
Per certi versi, i partecipanti allo studio hanno apprezzato gli elementi tradizionali del concetto di cool, come la ribellione e il distacco, ma non tanto quanto l’amicizia, il calore e la passionalità.

Abbiamo una sorta di concetto di coolness schizofrenico nella nostra mente”, ha detto Dar-Nimrod.

“Come si può coniugare l’idea di cool – emotivamente controllato e distante – con passione? Suggeriamo che stia avvenendo il passaggio da una versione tradizionale del cool contro-culturale a una versione “it’s good and I like it” più generica di esso. Ma questa transizione non è in alcun modo compiuta”.

Le modificazioni del concetto di cool, concludono i ricercatori, possono avere un impatto significativo sulla scelta di comportamenti salutari e orientare ricerche future sull’uso di droghe, comportamenti alimentari e sessuali.

 

 

BIBLIOGRAFIA

  • Dar-Nimrod, I., Hansen, I.G., Proulx,T., Lehman, D.R., Chapman, B.P., &  Duberstein, P.R. (2012). Coolness: An Empirical Investigation. Journal of Individual Differences. 33(3): 175-185.  

Disputing alla Beck #3: individuare gli Errori Logici – Psicoterapia –

 

Disputing: Leggi la monografia. 

Ancora Disputing alla Beck. Individuare gli errori logici. -  Immagine: © Albachiaraa - Fotolia.comLo stile terapeutico di Aaron T. Beck si può riassumere in una sola domanda: in base a cosa dici questo? Che prove puoi portarmi?

Naturalmente in una seduta reale il terapeuta si esprime in termini non sfidanti e aggressivi, ma coinvolgenti e concilianti, usando il noi terapeutico, ovvero: “Tutti noi siamo soggetti a errori logici. Per esempio, per me parlare in pubblico significa essere soggetto all’erronea conclusione che il discorso non sia gradito perché mi focalizzo troppo sulle mie imperfezioni. Occorre imparare a riconoscere gli errori e non saltare immediatamente alle conclusioni” (Clark e Beck, 2010, pag. 209).

Nella sua terapia, Beck dà importanza centrale al concetto di verità empirica e logica e alla scoperta degli errori. Le sue liste di errori sono differenti nelle varie edizioni della sua opera. Nel libro del 2010 di Clark e Beck troviamo 6 possibili errori:

 

Catastrofizzare: i possibili eventi negativi sono percepiti come intollerabili catastrofi piuttosto che essere valutati in una prospettiva più moderata. Ad esempio, una brutta figura vissuta come una catastrofe terribile e non come una situazione semplicemente imbarazzante e spiacevole. (“è terribile se…).

Psicoterapia: Il Disputing Logico-Empirico. - Immagine: © Carsten Reisinger - Fotolia.com
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Saltare alle conclusioni: passare dalla formulazione di un possibile problema al suo esito negativo senza esplorare i passaggi intermedi e quindi tutti i possibili esiti, non solo quello peggiore.

Visione tunnel sulla minaccia: un unico aspetto di una situazione complessa è il focus dell’attenzione, a altri aspetti rilevanti della situazione sono ignorati. Ad esempio, focalizzare un commento negativo in un giudizio sul proprio lavoro trascurando altri commenti positivi.

Imminenza percepita della minaccia: la minaccia è percepita con esattezza, ma l’errore riguarda l’imminenza della minaccia, sentita come ravvicinatissima, a portata di mano.

Ragionamento emotivo: considerare le reazioni emotive come prove attendibili della minacciosità di una situazione. Ad esempio, concludere che, dato che ci si sente sfiduciati, la situazione è senza speranza. (“se mi sento male allora andrà male“).

Pensiero dicotomico: le cose sono viste in termini di categorie mutualmente escludentisi senza gradi intermedi. Ad esempio, una situazione o è un successo oppure è un fallimento; se una situazione non è proprio perfetta allora è un completo fallimento.

 

Beck presenta questa lista di errori al paziente scritta su un foglio con le descrizioni di ogni singola distorsione cognitiva. Il paziente deve poi segnare i processi che riconosce come suoi e descrivere situazioni in cui ha usato quei processi distorti. Insomma, è un addestramento cognitivo al pensiero logico.

L’uso di fogli scritti facilita un intervento che, per il suo elevato grado di formalizzazione, non è facile da eseguire in maniera puramente colloquiale. Occorre facilitare il compito al paziente aiutandolo con una lista scritta.

Psicoterapia: Il Disputing Logico-Empirico alla Beck – Parte 2. - Immagine: © Itaca55 - Fotolia.com
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In altri testi di Beck si trovano anche altri possibili errori, come ad esempio:

 

Ipergeneralizzazione: un singolo evento è visto come capace di connotare negativamente un’intera vita o un’intero ambiente piuttosto che come essere un evento tra tanti. Squalificare il lato positivo: le esperienze positive che sono in contrasto con la visione negativa sono trascurate e svalutate. Ad esempio, non credere ai commenti positivi di amici e colleghi, ritenendo che facciano commenti positivi solo per gentilezza.

Lettura del pensiero: un soggetto può sostenere che altri individui stiano formulando giudizi negativi non in base a giudizi espliciti o altre prove evidenti ma per una sua percezione emotiva che gli fa credere di essere in grado di comprendere il giudizio altrui, quasi leggendo nella loro mente.

Riferimento al destino: l’individuo pensa e agisce come se le proprie aspettative negative sugli eventi futuri siano fatti inevitabili stabiliti dal destino. Ad esempio, il pensare che qualcuno lo abbandonerà, e che lo sa già, e agisce come se ciò fosse vero.

Minimizzazione: il valore e il significato delle esperienze e le situazioni positive sono minimizzati.

Doverizzazioni: l’uso di “dovrei”, “devo”, “bisogna”, si deve”, segnala la presenza di un atteggiamento rigido in diretta connessione con regole personali.

Etichettamento: identificare qualcuno tramite una etichetta globale piuttosto che riferirsi a specifici ambiti, eventi o azioni. Ad esempio, il pensare di essere un fallimento piuttosto che si è inadatti a fare una determinata cosa.

Personalizzazione: assumere che noi stessi si è causa di un particolare evento negativo quando, nei fatti, sono responsabili altri fattori. Ad esempio, considerare che una momentanea assenza di amicizie è il riflesso della propria inadeguatezza piuttosto che un caso.

 

Il disputing alla Beck è una tra le più neutrali e spersonalizzate delle tecniche cognitive, quella più lontana dai cosiddetti significati personali. È vero che un termine come “significati personali” rischia di essere generico e vago. Le differenze tra credenze e significati personali non sono chiarissime. Eppure, riflettendo sulla tecnica di Beck, una differenza la troviamo tra credenze e significati personali.

I significati personali sono credenze che assumono un particolare colore soggettivo e culturale, essendo esperienze personali di apprendimento che associamo a certi stati d’animo e che utilizziamo per giudicare le situazioni, per decidere cosa ci piace e per capire cosa desideriamo. Hanno quindi a che fare con i valori personali, le preferenze e i desideri. A differenza quindi degli errori logici di Beck, non hanno molto a che fare con il concetto di verità assoluta.

 

 

BIBLIOGRAFIA

Infant Night Waking: quando sono le madri a svegliare i figli

 

Infant Night Waking

Infant Night Waking. - Immagine: © WavebreakMediaMicro - Fotolia.com“Quindi, per farla breve, se ne starà sveglia tutta notte

e se per caso le capiterà d’appisolarsi,

io sbraiterò e mi agiterò e con gran chiasso la terrò in allarme.

È l’unico modo, questo,

per annientare una moglie con la gentilezza.”

 

William Shakespeare, La Bisbetica Domata

  

 

 

All’inizio del film “Voglia di tenerezza” di James Brooks vediamo la madre della protagonista che non si dà pace perché teme che il sonno (beato e regolare) della figlia neonata nasconda in realtà una minaccia di morte, e prova sollievo solo svegliandola e sentendola piangere; e la scena si ripete anche qualche anno più tardi quando la madre, turbata dalla recente morte del marito, insiste a distogliere la figlia dal sonno, solo per assicurarsi che stia bene.

Una situazione che appare abbastanza anomala e invertita, se si pensa che solitamente una delle più classiche ansie anticipatorie delle donne in dolce attesa è proprio espressa nel ritornello “mi auguro solo che di notte dorma”.

Psicopatologia Post-Partum e Perinatale. Notizie dai Convegni.
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Considerazione scontata ma del tutto condivisibile, se pensiamo a quanto una marcata deprivazione di sonno possa interferire drammaticamente con il proprio equilibrio mentale.

Nello specifico, diversi studi in ambito pediatrico hanno dimostrato la stretta correlazione tra un sonno disturbato in bambini tra i 6 e i 12 mesi e una peggiore percezione della qualità di vita delle madri, che può arrivare fino a configurarsi come una vera e propria depressione post-parto (Hiscock et coll, 2006).

Fin qui nulla di nuovo, se si pensa che la prevalenza stimata delle madri che lamentano tribolazioni notturne legate alla presenza molesta di un neonato urlante oscilla intorno al 46% (Halbower & Marcus, 2003; Lozoff, Wolf, & Davis, 1985).

Esiste però un altro fenomeno, più inconsueto e meno esplorato, che rovescia la medaglia e ribalta i ruoli, e che consiste nel comportamento delle madri (in particolare madri depresse)  che tendono a svegliare e disturbare il sonno dei propri bambini, senza che ce ne sia un effettivo bisogno; in un recente studio si è voluto proprio verificare un’idea audace in questa direzione, nel tentativo di confermare l’ipotesi che sindromi depressive associate a credenze disfunzionali sul sonno infantile porterebbero le madri a svegliare inutilmente e con troppa frequenza i neonati durante la notte.

Le partecipanti allo studio sono state 45 madri con bambini di età compresa tra 1 e 24 mesi; dopo aver raccolto dati circa le loro convinzioni inerenti il comportamento notturno infantile e la presenza di una sintomatologia depressiva, il comportamento materno è stato videoregistrato per una notte intera, e infine dettagliatamente codificato.

I risultati ottenuti confermano l’ipotesi, ossia individuano una correlazione tra depressione, convinzioni disfunzionali materne e la tendenza delle madri stesse ad interrompere inutilmente il sonno del bambino.

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche
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Benché gli autori siano giustamente cauti nel sostenere che esista una vera e propria relazione di causa-effetto tra i due fattori, emerge comunque il dato che madri depresse o esageratamente preoccupate dei possibili bisogni notturni dei propri figli tendono ad essere più intrusive e disturbanti, a reagire con troppa solerzia anche a vocalizzazioni neutre (come ad esempio i balbettii, che non segnalano alcuna richiesta di assistenza da parte dei piccoli), a toglierli dai loro letti per portali senza motivo nel letto dei genitori (svegliandoli, nel frattempo) e a cullarli senza che ce ne sia bisogno.

L’idea sottesa è quindi che le madri troppo preoccupate per il benessere notturno dei figli tendano ad intervenire, incuranti del fatto che il loro intervento sia richiesto o meno, e che tale atteggiamento risponda in realtà al bisogno di  placare le proprie ansie e il proprio disagio emotivo connessi al timore che i figli possano essere affamati, assetati, scomodi, sconsolati e così via.

Malgrado gli ovvi limiti di un simile esperimento, soprattutto in termini di generalizzabilità dei risultati ottenuti,  una delle idee suggerite dagli autori è che, in specifici casi potenzialmente identificabili, potrebbero risultare utili interventi di psicoeducazione, affinché le madri imparino a capire meglio il significato del pianto o dei vocalizzi notturni dei propri bambini.

Simili interventi potrebbero aiutarle a regolare più efficacemente le emozioni negative che il pianto notturno infantile può evocare, a rispondere al meglio alle esigenze notturne dei figli e a promuovere la loro capacità di calmarsi anche da soli, il tutto a vantaggio di una più distesa relazione madre-bambino.

 

 

BIBLIOGRAFIA

Il potere di Suggestione & Aspettative sul Comportamento

– FLASH NEWS – 

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze PsicologicheDue scienziati, Maryanne Garry e Robert Michael, della Victoria University di Wellington, insieme a Irving Kirsch della Harvard Medical School e Plymouth University, hanno studiato il fenomeno della suggestione approfondendo il rapporto tra suggestione, cognizione e comportamento.

Durante la loro carriera di ricerca, Garry e Kirsch hanno entrambi studiato gli effetti della suggestione sulla conoscenza e sul comportamento; nel corso di molti studi sperimentali hanno dimostrato che la suggestione intenzionale può influenzare la performance durante compiti di apprendimento e memoria e la risposta a integratori e farmaci, come avviene nell’ormai noto effetto placebo.

Ma cosa può spiegare l’effetto potente e pervasivo che la suggestione ha nella nostra vita? La risposta sta nelle nostre ‘aspettative di risposta’, cioè nel modo in cui anticipiamo le nostre risposte in varie situazioni. Le nostre aspettative infatti ci spingono verso risposte automatiche che influenzano il modo in cui raggiungeremo il risultato che ci aspettiamo. Se ci aspettiamo un certo risultato, i nostri pensieri e comportamenti successivi saranno indirizzati a portare a compimento questo risultato.

Per esempio, se una persona normalmente timida si aspetta che un bicchiere di vino la aiuterà a rilassarsi a un cocktail party, probabilmente si sentirà meno inibita, avvicinerà più gente, e si farà coinvolgere in diverse conversazioni nel corso della festa. Anche se il vino fa la sua parte, è chiaro che le sue aspettative su come questo la fa sentire svolgono un ruolo importante. Ma non è solo la suggestione deliberata a influenzare i nostri pensieri e comportamenti, infatti anche la suggestione non intenzionale può avere gli stessi effetti, come nell’effetto Hawthorne, per il quale la sola presenza di osservatori può provocare momentanee variazioni di un fenomeno o di un comportamento.

Secondo Garry questo è l’aspetto più preoccupante del fenomeno della suggestione, perchè sottovalutandolo si correrebbe addirittura il rischio di approvare l’uso di un farmaco o di un trattamento, perdendo di vista il fatto che siamo noi a reagire alla malattia.
Secondo i ricercatori il fenomeno della suggestione involontaria spiegherebbe addirittura i recenti fallimenti nel replicare i risultati di alcune ricerche. Mentre la ricerca ha fornito evidenze e spiegazioni per il fenomeno della suggestione, c’è ancora molto da imparare sul rapporto sottostante tra suggestione, la cognizione e il comportamento.

Come sottolineano gli autori, i ricercatori non conoscono ancora i confini e i limiti di questi effetti; concludono affermando che la comprensione di questi temi ha importanti implicazioni nel mondo reale: “Se siamo in grado di sfruttare la potenza della suggestione, possiamo addirittura migliorare la vita delle persone”.

 

 

BIBLIOGRAFIA

La costruzione di narrative personali in terapia cognitiva.

 

Parte 1


La costruzione delle narrative personali in terapia cognitiva.
Parlare di sé con un esperto dei sé. di Silvio Lenzi e Fabrizio Bercelli. Eclipsi Editore

 Leggendo il volume di Lenzi e Bercelli “Parlar di sé con un esperto dei sé – L’elaborazione delle narrative personali: strategie avanzate di terapia cognitiva” (2010), e’ possibile comprendere meglio cosa si intenda per narrativa personale nel contesto terapeutico e quale sia la modalità adottata dalla terapia cognitiva per aiutare il paziente a ricostruire un tema di vita personale soddisfacente.

Il libro analizza dapprima le tecniche utilizzate in seduta da terapeuti diversi, allo scopo di tracciare un quadro esaustivo delle interazioni che si vengono a creare fra il clinico e il paziente; se da un lato infatti si tratta di conversazioni il cui sviluppo e’ talvolta simile a quello di un normale scambio dialettico che potrebbe avvenire anche al di fuori del setting, dall’altro e’ molto più frequente notare come sia il terapeuta stesso, attraverso interventi verbali e non verbali, ad indirizzare la seduta verso temi e aspetti che egli si propone di approfondire.

Il libro di Lenzi e Bercelli analizza le sedute utilizzando strumenti della pragmatica linguistica, tra cui la teoria degli atti linguistici di Austin (1967) e la logica conversazionale di Grice (1975, 1989), nonché teorie dell’interazione sociale come la frame analysis di Goffman (1974). Accanto a questi approcci emerge però il riferimento costante all’Analisi Conversazionale (Leonardi, Viaro, 1990; Bercelli, Leonardi, Viaro, 1999; Galatolo, Pallotti, 1999; Hutchby, Wooffitt, 1998), che servendosi della trascrizione fine degli scambi linguistici, e inserendo in essa elementi paralinguistici (pause, sovrapposizioni di parola) e non verbali (mimica, postura, gesti, sguardi), ricostruisce la negoziazione locale dei significati fra i partecipanti.

Terapia. Immagine: © Lisa F. Young - Fotolia.com
Articolo consigliato: Le esperienze di rottura nel terapeuta e nel paziente.

L’Analisi Conversazionale si dedica esclusivamente allo studio dei significati che i partecipanti all’atto dialettico condividono, evitando di addentrarsi nelle interpretazioni ipotetiche che fanno riferimento ad interventi dall’alto del terapeuta, come ad esempio accade nei setting di impostazione psicodinamica. E’ il gioco interattivo fra clinico e paziente a definire il senso complessivo della conversazione e i significati locali che si esprimono con le singole mosse verbali e non verbali dei partecipanti. Il terapeuta conduce la seduta utilizzando un repertorio di interventi tecnici:

  • domande tematiche, con le quali non viene esternata alcuna ipotesi sul funzionamento del paziente ma semplicemente viene stabilito o proposto un ambito di pertinenza di eventuali domande successive; 
  • domande informative, con cui il clinico fa capire al paziente di aver formulato una tesi sugli accadimenti del suo mondo interno e la condivide con lui; 
  • domande di precisazione, utili per raccogliere maggiori informazioni sul tema che si sta trattando e per farsi descrivere dal paziente un quadro più approfondito delle sue esperienze; riassunti, mediante i quali il terapeuta riformula con parole proprie il racconto del paziente e si assicura di averlo compreso correttamente.

Ogni intervento terapeutico può naturalmente racchiudere più tipologie di domanda, ogni mossa può cioè avere una natura mista, oppure possiamo incontrare un contenuto ambiguo che verrà chiarito nei successivi scambi linguistici. La qualità e la funzione degli interventi terapeutici sono date anche dalla reazione del paziente, e allo stesso modo le affermazioni di quest’ultimo si collocano in un’area di significato che viene sempre negoziata col clinico; abbiamo perciò momenti informali o di ironia che alleggeriscono il peso emotivo dei contenuti precedenti, racconti molto lunghi del paziente che il terapeuta ascolta senza interrompere perseguendo l’obiettivo di favorire nell’interlocutore un distanziamento emotivo dai fatti narrati –il racconto e’ una forma narrativa che consente a chi la elabora di divenire in parte spettatore del proprio intreccio, con un conseguente aumento di risorse emotive e metacognitive fruibili per ristrutturare i significati – oppure conversazioni in cui si riflette su un tema di vita strutturante per il paziente.

In tutti questi scambi avviene una condivisione dello sfondo e delle finalità; in altri termini, terapeuta e paziente si accordano con modalità verbali e non verbali su quale sia lo scopo comunicativo di quella fase della seduta, e lo condividono. In altri casi invece il frame terapeutico, la cornice relazionale che secondo Goffman può essere colta rispondendo alla domanda “che cosa sa succedendo qui?” viene scelto e impostato dal clinico.

  • Possiamo individuare il frame “indovina il tuo segreto” nel quale il terapeuta si avvale della propria competenza su come e’ generalmente organizzata l’esperienza e cerca di guidare il paziente, che invece e’ competente sui contenuti dell’esperienza propria, verso la presa di consapevolezza di un meccanismo di funzionamento che il clinico già conosce o ipotizza.
  • Nel frame “verifica la mia ipotesi su di te” le prerogative di terapeuta e paziente appaiono più sfumate; il primo chiede al secondo una descrizione dei suoi stati interni, invitandolo a confrontarla con una tesi elaborata dal terapeuta sulla base della propria competenza, ma l’approccio e’ più dubitativo rispetto al precedente e il dialogo assume quasi il carattere di un confronto alla pari. 
  • Un terzo frame e’ quello dell’ “ornitorinco”, in cui da un lato sono rintracciabili, in momenti diversi, i due approcci appena enucleati, dall’altro vengono introdotti due elementi ulteriori, l’esercitazione terapeutica e l’inserto pedagogico. 
Quando la relazione terapeutica non cura: i Cicli Interpersonali. - Immagine: © Betacam-SP - Fotolia.com -
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Col primo strumento il terapeuta gestisce direttamente il comportamento del paziente, fornisce istruzioni e direttive precise – la cui funzione può essere spiegata – per modificare in seduta alcuni pattern emotivi e cognitivi problematici attraverso il ricorso ad esercizi concreti, verificabili nell’immediato; col secondo, il dialogo terapeutico si arricchisce di consigli, istruzioni e informazioni che il clinico trasmette al paziente utilizzando marcatori verbali, non verbali e paralinguistici, e nel corso di tale scambio il terapeuta assume una ben riconoscibile posizione di esperto, peraltro non dissimile dal ruolo carismatico che egli svolge allorché guida il paziente nell’esercitazione terapeutica. Appare chiaro come una delle tematiche di fondo della pratica clinica sia la capacità del terapeuta di curare le due dimensioni che Leonardi e Viaro (1990) hanno chiamato Principio di Normalità e Principio di Reticenza. Il primo afferma che il paziente porta all’attenzione del clinico esperienze comprensibili, orientate da scopi ed emozioni relazionali riconducibili all’universo della normalità umana; il secondo sottolinea l’opportunità di lasciare che la seduta si sviluppi intorno ai resoconti del paziente e alla conoscenza che egli ha di sé, mentre l’intervento del terapeuta e il suo parere di esperto possono rimanere marginali e manifestarsi a chiusura del dialogo. Quest’ultimo aspetto e’ centrale e la misura in cui viene applicato caratterizza sia lo stile del singolo terapeuta sia i tratti peculiari di una singola seduta.

 

La prossima settimana la SECONDA PARTE dell’articolo

 

 

BIBLIOGRAFIA

 

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