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Prosegue oggi la disanima critica della Mindfulness a cura di Gabriele Caselli.
6. Applicabilità ecologica: a causa del carico di lavoro richiesto negli approcci MBCT può risultare arduo applicarle con continuità se non in presenza di un forte coinvolgimento e convincimento nella pratica meditativa, a cui non sempre gli individui coinvolti possono essere attivamente interessati. E allora? L’unica alternativa è accontentarsi e far slittare gli obiettivi del percorso terapeutico o meglio optare per altri interventi? E soprattutto, quante persone applicano nella loro quotidianità gli esercizi previsti dall’intervento MBCT così come vengono richiesti?
7. Coping o non Coping: la mindfulness non è una strategia di gestione delle emozioni negative, né si tratta di un farmaco da usare al bisogno, ma un esperienza complessa che costituisce il substrato entro il quale far crescere quelle abilità di autoconsapevolezza che poi si proiettano sul miglioramento globale dell’individuo. Questo è chiaro nella teoria. Nella pratica emergono due aspetti delicati e controversi. Innanzitutto, come essere sicuri che non venga usata come strategia di coping e che i suoi effetti benefici non dipendano da questo eventuale utilizzo (che metterebbe in discussione alcune componenti dell’impianto teorico)? Secondariamente, questo principio di base appare in sé discordante con alcune pratiche interne all’MBCT (es: i tre minuti sul respiro) che vengono proprio consigliate come risposta a momenti di attivazione stressante e quindi come strategie di gestione del malessere emotivo.
8. Una fine tecnica di distrazione: l’uso del respiro o di altri elementi corporei come ancoraggio (elemento da cui tornare gentilmente una volta notato ove ci conduce la mente) potrebbe anche diventare una forma raffinata della più semplice strategia di distrazione. Se così non è, allora occorre definire con maggior dettaglio in cosa si differenzia, non tanto a livello teorico-filosofico ma effettivamente a livello cognitivo e pragmatico. Se si tratta, come in effetti vorrebbe essere, di una strategia in grado di aumentare (1) consapevolezza e (2) flessibilità cognitiva, potrebbe aver senso insegnare varie modalità di rifocalizzazione attentiva e non solo quella che si orienta dal pensiero al corpo. In ogni caso occorre tracciare un disegno di ricerca che permetta di verificare il meccanismo di effetto.
9. Mettere i pensieri sulle foglie che cadono: il rapporto con i pensieri automatici descritto dagli approcci MBCT mostra altri punti delicati. Da un lato si sostiene la posizione contemplativa rispetto alla propria vita mentale. Dall’altro si mettono i pensieri su foglie che cadono. Certo questa è una metafora molto affascinante per rendere l’idea, ma quante persone pensano in parole scritte? Esistono ricerche in tal direzione? In effetti, il pensiero risulta più simile a immagini, a una piccola voce interiore oppure a un testo scritto? Ma se non pensiamo per testo scritto, allora prendere il pensiero, rileggerlo in parole, metterlo sulle foglie e farlo scorrere non è un’azione concreta e attiva sulla propria vita mentale? Allo stesso modo, quanto del ‘notare i pensieri, riconoscerli e tornare sul corpo’ può indurre una forma raffinata di controllo? Quanto invece potrebbe essere utile solcare consapevolmente il flusso di pensieri tipici dell’attività di mind wandering? Insomma, se siamo al telefono in casa, con la televisione accesa (nella metafora la nostra ruminazione), possiamo liberamente lasciarla andare nello sfondo della nostra percezione piuttosto che mettere l’apparecchio su una foglia e lasciarla scorrere fuori dalla finestra.
10. La mancanza di una concettualizzazione: un altro punto critico che accompagna approcci radicalisti è l’assenza di una concettualizzazione individualizzata (tutti i depressi sono uguali?) che invece caratterizza i percorsi cognitivi e cognitivo-comportamentali. Certo che esperti clinici possano integrare capacità di concettualizzazione con le tecniche MBCT, nasce un problema per i giovani terapeuti in formazione che potrebbero acquisire un protocollo in cui manca la capacità di accertare, concettualizzare e restituire (prima di tutto a sé stessi) un’adeguata e idiosincratica formulazione del caso e del percorso terapeutico.
11. La panacea e l’evitamento: ne consegue un altro rischio professionale, quello di considerare la mindfulness come una panacea o ancor peggio come una tecnica da replicare in modo uguale a prescindere dalle condizioni psicopatologiche. Sicuramente è più facile applicare una tecnica che ‘sporcarsi la testa’ con una concettualizzazione complessa o ‘sporcarsi il cuore’ con la molteplicità del dolore emotivo che certi pazienti ci portano. E quindi, volenti o nolenti, può essere accattivante per tutti l’ipotesi di risolverla sempre in mindfulness. Qualcuno potrebbe obiettare che entriamo nel campo delle responsabilità personali. Vero, ma in parte. E se la perplessità ha un senso logico, la ricerca in formazione dell’MBCT dovrebbe valutare l’impatto di un simile rischio e approntare adeguati interventi formativi per fronteggiarla, per quanto ciò forse implichi uscire forse dal radicalismo.
12. Tutti Zen?: Infine, ultimo punto che vale la pena toccare. Un rischio implicito del radicalismo mindfulness sta nel condire il ‘saper essere’ con una filosofia di approccio alla vita che implica anche scelte personali che alcuni individui potrebbero anche non sentire proprie. È possibile che una persona scelga consapevolmente di godersi una modalità del fare ‘sana’ dove non è presente a sé stesso momento dopo momento? Penso all’esperienza che viene descritta con il concetto di ‘flow’ che è ‘ottimale’, ‘soddisfacente’ e che è caratterizzata tra le altre cose da assenza di percezione del tempo e da scarsa autoconsapevolezza. Insomma, bene la riscoperta dei valori orientali, ma che si confronti con l’idea di una psicoterapia come percorso verso il libero arbitrio, o perlomeno un condizionato arbitrio dipendente oltre che dal saper essere anche dal sapere (risorse, doti, limiti, scopi) e dal piacere di saper fare.
BIBLIOGRAFIA
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