Recensione di “La confusione è precisa in amore” di Vittorio Lingiardi
Il collega psichiatra e psicoanalista Vittorio Lingiardi si cimenta con la poesia e “State of Mind” lo recensisce. Diciamo subito che, per fortuna, il Lingiardi poeta dimentica di essere psicologo e terapeuta e si lascia andare alla musica del verso senza fare uso delle sue conoscenza scientifiche dell’anima. Il risultato sarebbe stato pedante. Questo ci risparmia la noiosa necessità di cercare nelle poesie di Lingiardi l’insegnamento psicologico. La buona poesia non insegna nulla, per fortuna.
State of Mind, a sua volta, non possiede alcuna competenza letteraria, e quindi ci si abbandona al gusto della lettura senza la pedante maschera della competenza.
Le poesie di Lingiardi che più mi sono piaciute sono quelle del frammento e del pensiero rapido e bruciante. Il ritmo e le immagini mi ricordano Sandro Penna, anche lui rapido come un aiku giapponese.
Per esempio:
“Dove credi di andare?
Io sono quello
che ti ha spezzato il cuore”.
Oppure:
“Con te rimango
prima della soglia.
Come nel tango
accordo legge e voglia”.
O infine:
“Ti penso come lo potrebbe fare il vento,
con rabbia, foglie in cielo, accanimento”.
Altre volte il respiro si allunga e il verso sfiora il mondo più disteso di Montale. Ma poi, mi pare, si torna al morso improvviso del ritmo di Penna. Nella seconda metà del libretto, Lingiardi tenta anche l’esperimento pasoliniano. Probabilmente le mie limitate conoscenze letterarie m’impediscono di cogliere consonanze con altri poeti. Lingiardi ci lancia i suoi indizi, e cita Robert Frost, Elsa Morante, Pierpaolo Pasolini e Rainer Maria Rilke. Ma è inutile tentare un’analisi di cui, mi mancano gli strumenti.
Mi basta avere incuriosito il lettore.
Vittorio Lingiardi ha pubblicato “La confusione è precisa in amore” per i tipi Gransasso Nottetempo. Un libretto maneggevole e tascabile da leggere in solitudine.
Attachment is typically assessed by observing child behavior in response to a standardized situation termed ‘the Strange Situation Procedure’ (SSP) (Ainsworth, Blehar, Waters & Wall 1978). It is theorized that, within the SSP, the children’s behavior is a measure of the parent’s ability to provide emotional security and stability, and also to meet the physical needs of their child.
The SSP is the standardized procedure for observing, coding and classifying attachment security in infancy. The procedure is separated into eight standardized individual episodes which are organized from least to most stressful. During the SSP, an infant is placed in an unfamiliar room with their mother and is encouraged to explore various toys. A stranger then enters the room and makes a gradual approach to the child. The mother then leaves the child alone with the stranger. The mother subsequently re-enters the room, the stranger leaves, and the mother remains with the child for a further period. The mother then leaves and the child is alone for the next episode, then the stranger re-enters the room. Finally the mother re-enters and the stranger leaves (Ainsworth, 1978). The SSP is videotaped, child behavior is coded and then the attachment style is determined.
Ainsworth, Bell and Stayton described the three principal categories of attachment, these include: 1) secure; 2) anxious/resistant; 3) anxious/avoidant. Subsequently, Main and Weston, (1981) studied behavior characteristics of infants who were judged unclassifiable within the Ainsworth system. The behaviors of these infants were allocated to the fourth attachment category, disorganized.
Recommended: Parents’ words and Anxiety Disorders.
This section will provide a brief description of the characteristic behaviors of infants with secure, anxious/resistant, anxious/avoidant and disorganized attachment styles, and the parental behavior which is theorized to promote each attachment style.
Securely attached infants display confidence in their mothers’ ability to be available and helpful in uncertain or stressful situations. This attachment style is theorized to develop through maternal displays of prompt, sensitive and consistent parenting and their ability to provide protection for their infant.
An infant who displays an anxious/resistant style is characterized by showing a lack of confidence in their parent’s ability to be available or responsive to them. This is theorized to develop through unreliable and inconsistent parental care. The lack of consistent care generates uneasiness and strains the dyads’ relationship.
An anxious/avoidant attachment style is characterized by an infant who expects to be rejected when they seek attention and care from their parents and therefore learns to avoid displaying their needs. This attachment is theorized to be promoted by parents who constantly reject their infant’s approaches for security and comfort.
Lastly, a disorganized attachment style is characterized by the infants’ appearing to be disorientated and dazed. This attachment style is theorized to be displayed by infants of mothers who act in a withdrawn or intrusive style or who display behavior that is fearful or unexpected for the infant. Therefore, the infants are fearful of the figure they also depend on. Commonly, many studies form a composite binary variable which combines the attachment classifications into secure (secure only) versus insecure attachment (anxious/resistant, anxious/avoidant, and disorganized).
In my next installment I will begin discussing attachment development in the context of maternal psychopathology.
REFERENCES
Ainsworth, M. D. S., Blehar, M. C., Waters, E., & Wall, S. (1978). Patterns of attachment: A psychological study of the strange situation. Hillsdale, New Jersey: Erlbaum. (see on Google Books)
La Depressione è un Disturbo dell’Umore. Generalmente chi ne soffre mostra e prova frequenti e intensi stati di insoddisfazione e tristezza e tende a non provare piacere nelle comuni attività quotidiane. Le persone che soffrono di depressione vivono in una condizione di costante malumore e con pensieri negativi e pessimisti circa sé stessi e il proprio futuro.
Spesso la depressione nasce dall’incapacità di accettare una perdita o il non raggiungimento di un proprio scopo (che viene vissuto come un fallimento insuperabile). Si tratta per esempio di tutte le forme depressive che nascono da lutti personali piuttosto che dalla perdita del lavoro o dalla rottura di un’importante relazione affettiva.
La sintomatologia tipicamente è più intensa al mattino e migliora nel corso della giornata, ma vi sono delle eccezioni. La depressione può manifestarsi con diversi livelli di gravità.
Alcune persone presentano sintomi di bassa intensità, legati ad alcuni momenti di vita, mentre altre si sentono cosi depresse da non riuscire a svolgere le normali attività quotidiane.
Si può soffrire di depressione in modo acuto (con fasi depressive molto intense ed improvvise) oppure soffrirne in modo cronico e continuo, anche se in forma leggera, con alcuni improvvisi momenti di peggioramento.
Spesso i parenti spronano chi ne soffre a reagire. Questo avviene naturalmente in buona fede, ma può generare sentimenti di colpa nella persona con disturbo depressivo. In circa il 15% dei casi la depressione diventa un disturbo cronico con una durata di oltre 3 anni. Si hanno ricadute nel 50% dei casi. Dopo una prima ricaduta la probabilità di ricadere aumenta fino al 75%.
Quanto è diffusa la depressione?
Molte persone sperimentano emozioni e sensazioni fortemente negative nell’arco della propria vita. Nel mondo si stima che circa 340 milioni di persone soffrano di depressione. La fascia di età più colpita è quella compresa tra 30 e 49 anni. Il disturbo è circa due volte più frequente tra le donne. Nel corso degli ultimi anni la prevalenza della depressione è aumentata costantemente e allo stesso tempo l’età di insorgenza è diminuita. Attualmente la depressione è considerata dall’Organizzazione Mondiale della Sanità la seconda causa di disabilità nel panorama delle malattie fisiche e psicologiche, seconda solo all’infarto.
Come si manifesta la depressione?
Sentirsi depressi significa vedere il mondo attraverso degli occhiali con le lenti scure: tutto sembra più opaco e difficile da affrontare, anche alzarsi dal letto al mattino o fare una doccia. Molte persone depresse hanno la sensazione che gli altri non possano comprendere il proprio stato d’animo e che siano inutilmente ottimisti.
I sintomi più comuni sono la perdita di energie, senso di fatica, difficoltà nella concentrazione e memoria, agitazione motoria e nervosismo, perdita o aumento di peso, disturbi del sonno (insonnia o ipersonnia), mancanza di desiderio sessuale e dolori fisici. Le emozioni tipiche sperimentate da chi è depresso sono la tristezza, l’angoscia, disperazione, insoddisfazione, senso di impotenza, perdita della speranza, senso di vuoto.
I sintomi cognitivi sono la difficoltà nel prendere decisioni e nel risolvere i problemi, la ruminazione mentale (restare a pensare al proprio malessere e alle possibili ragioni), autocriticismo e autosvalutazione, pensiero catastrofico e pessimista. I comportamenti che contraddistinguono la persona depressa sono l’evitamento delle persone e l’isolamento sociale, i comportamenti passivi, frequenti lamentele, la riduzione dell’attività sessuale e i tentativi di suicidio.
Quali sono le cause della depressione?
La depressione può colpire chiunque. E’ dovuta a cause molteplici e diverse da persona a persona (ereditarietà, ambiente sociale, lutti familiari, problemi di lavoro,…). Le ricerche mostrano tuttavia la presenza di due fattori di rischio principali:
il fattore biologico: alcune persone nascono con una maggiore predisposizione genetica verso la malattia;
il fattore psicologico: le esperienze e i comportamenti appresi nel corso della propria storia di vita (es: la ruminazione mentale) possono rendere vulnerabili alla depressione.
Quali sono le conseguenze della depressione?
La depressione può avere importanti ripecussioni sulla vita di tutti i giorni. L’attività scolastica o lavorativa della persona può diminuire in quantità e qualità soprattutto a causa dei problemi di concentrazione e di memoria che tipicamente presentano le persone depresse. Questo disturbo, inoltre, porta al ritiro sociale e con il tempo danneggia le relazioni con il/la partner, figli, amici e colleghi. L’umore del depresso condiziona anche il rapporto con sé stessi e il proprio corpo. Tipicamente, infatti, chi è depresso ha difficoltà a curare il proprio aspetto, mangiare e dormire in modo regolare.
Rimuginio: il cervello delle ragazze in ansia funziona a pieni giri!
Secondo un team di scienziati della Michigan State University i cervelli delle ragazze in ansia e impegnate nel rimuginio lavorerebbero molto di più rispetto a quelli dei ragazzi, che presentano gli stessi livello di ansia. La scoperta nasce da un esperimento in cui un campione di studenti universitari ha svolto un compito relativamente semplice, mentre veniva misurata la loro attività cerebrale. Solo nelle ragazze che si sono definite “particolarmente ansiose e preoccupate” si è registrata un elevata attività cerebrale quando queste hanno commesso errori durante il compito.
Lo studio, pubblicato sull’International Journal of Psychophysiology, è il primo a misurare la correlazione tra worry e la risposta cerebrale agli errori nei due sessi utilizzando un campione statisticamente omogeneo e significativo (79 studentesse, 70 maschi).
Nonostante le ragazze abbiano registrato prestazioni simili a quelle dei ragazzi in compiti semplici, la loro attività cerebrale è risultata più intensa e, quando il compito è diventato più impegnativo, le ragazze ansiose hanno avuto prestazioni peggiori dei maschi ansiosi; questo suggerisce che i cervelli delle ragazze ansiose debbano lavorare di più per eseguire il compito, perché sono distratte da pensieri e preoccupazioni. Questo “iperpensare” induce a una sorta di burn-out, che le predispone alle difficoltà scolastiche. Jason Moser, ricercatore responsabile del progetto, sostiene che i risultati possono aiutare i professionisti della salute mentale a riconoscere quali studentesse possono essere soggette a problemi di ansia, come il disturbo ossessivo compulsivo e il disturbo d’ansia generalizzato: “E ‘un altro pezzo del puzzle che ci permette di capire perché le donne in generale hanno più disturbi d’ansia degli uomini”.
Attualmente Moser e il suo team stanno studiando se gli estrogeni, gli ormoni più comuni nelle donne, possano essere responsabili di questa maggiore risposta cerebrale. Infatti è noto come il rilascio di dopamina sia mediato dagli estrogeni e come questo neurotrasmettitore svolga un ruolo chiave nell’apprendimento e nel processamento degli errori nella parte anteriore del cervello; questo spiegherebbe le differenze di genere mese in evidenza dallo studio.
Uno dei primi esempi clinici portati dal Dott. Papageorgiou al Workshop sulla Terapia Metacognitiva sono di quelli che rimangono in testa per molto tempo:
“Se due studenti vengono bocciati ad un esame ed uno prova solo tristezza mentre l’altro avrà un episodio depressivo è per come hanno reagito al primo pensiero negativo”.
Silenzio in sala, il disorientamento ha invaso la mia mente e i dubbi si sono moltiplicati per dieci, tutta la mia formazione incentrata sull’importanza dell’intervento sulle credenze che regolano le emozioni in fumo. Dal cosa pensiamo al come pensiamo, un cambiamento di prospettiva non da poco. Poi però è successo qualcosa; è successo che procedendo nella spiegazione del modello il disorientamento ha lasciato il posto alla scoperta/riscoperta di contenuti estremamente chiari ed utili da integrare all’interno del proprio modello clinico con lo scopo di aumentare i propri strumenti nell’analisi degli stili di pensiero.
Articolo consigliato: La Terapia Metacognitiva (MCT): intervista con il Prof. Adrian Wells.
Questa è una delle sensazioni che ho provato nel fine settimana sulla terapia metacognitiva (MCT) per la depressione condotta dal Dott. Papageorgiou in cui è stato presentato il modello per la ruminazione. Un modello che all’apparenza si pone in parallelo alla visione classica della terapia cognitiva standard spostando il focus su come noi rispondiamo al pensiero negativo iniziale, per dirla con Wells:
“Le persone restano intrappolate nel disturbo emotivo poiché le loro metacognizioni causano un particolare pattern di risposta a esperienze interne che mantengono l’emozione negativa e rafforzano le credenze/idee negative” (Wells,2009, p.1).
Questo pattern di risposta è chiamato Sindrome Cognitivo-Attentiva (CAS) ed è composto da credenze metacognitive positive e negative che mantengono la tristezza ed i pensieri negativi. Nella depressione questo pattern consiste nella ruminazione, rimuginio, monitoraggio della minaccia e strategie di coping disadattive. Tutti questi aspetti fanno parte del focus del trattamento che ha come scopo non la modifica del pensiero negativo, viene infatti più volte ripetuto come anche i soggetti non clinici abbiano questi pensieri, ma della risposta a questi pensieri:
“l’obiettivo finale è consolidare e rafforzare processi metacognitivi alternativi da utilizzare per controllare le risposte ai futuri stimoli scatenanti depressogeni”.
Il modello metacognitivo della depressione parte dall’identificazione del trigger, un pensiero negativo: “Sono un fallimento” magari in seguito alla bocciatura in un esame. Quel pensiero negativo attiva credenze metacognitive positive sulla ruminazione come “pensare al fallimento mi aiuterà ad uscire da questa situazione”. A questo può far seguito una ruminazione del tipo: “perché capita sempre a me?”, “rimarrò così per sempre”, ”non riuscirò mai a fare nulla nella vita”, determinando un aumento della tristezza e portando all’attivazione di credenze metacognitive negative “non riesco a controllare la ruminazione”. A questo stile di pensiero potranno seguire quindi reazioni comportamentali quali “ho deciso di rimanere a casa”, il peggioramento dell’umore “mi sono sempre sentito più depresso mentre ruminavo”, e il mantenimento di pensieri quali “sono uno che non vale” che di fatto mantengono e rinforzano il problema depressivo.
Articolo consigliato: Recensione di Terapia Metacognitiva dei disturbi d’Ansia e della Depressione. (A. Wells)
La struttura dell’intervento avrà come punto iniziale la concettualizzazione del caso, inserire cioè l’episodio ruminativo all’interno dello schema e aiutare il paziente a familiarizzare con esso anche attraverso l’uso di metafore che hanno la funzione di aumentare la meta-consapevolezza sulla ruminazione. A questo punto entrano in gioco le due tecniche principali della terapia metacognitiva, l’una propedeutica per l’altra.
Il Training Attentivo (ATT) viene usato per sviluppare la consapevolezza ed il controllo sul pensiero ruminativo e consiste nel prestare un’attenzione flessibile su una varietà di stimoli uditivi. Il razionale di questa tecnica è quello di mantenere la consapevolezza dei pensieri senza lasciare che l’attenzione sia connessa alla ruminazione.
Articolo consigliato: Mindfulness o Detached Mindfulness? Questo è il problema.
Una volta fatto esperienza dell’ATT il terapeuta introduce la Detached Mindfulness (DM) con lo scopo di rispondere ai trigger della ruminazione. Questa tecnica propone al paziente il core della Terapia Metacognitiva, e qui forse c’è la maggior differenza rispetto alla CBT standard andando invece nella direzione dei modelli della terza ondata, in cui lo scopo non è modificare i pensieri ma lasciare che ci siano osservandoli da spettatore passivo. Solo dopo l’intervento verterà sulla modificazione delle credenze negative e positive che sostengono la ruminazione. Di fatto viene attuato un disputing metacognitivo chiedendo al soggetto domande tipo: “Se la ruminazione ti aiuta come mai sei ancora depresso?”.
La sensazione alla fine del workshop è stata di aver appreso uno strumento estremamente utile da integrare all’interno di un modello clinico che possa così dare il giusto spazio sia all’analisi delle credenze sia a come esse vengono gestite dal soggetto.
Il ruolo centrale della memoria autobiografica nella modulazione delle emozioni negative nel presente.
Anche se memoria ed emozione hanno da tempo suscitato grande interesse nella ricerca in psicoterapia, la stragrande maggioranza di questa ricerca si è concentrata sulla relazione tra questi due sistemi e soprattutto su come le emozioni possano influenzare i ricordi. Ad esempio, la ricerca ha esaminato come lo stato d’animo dell’individuo influisca sul richiamo di ricordi congruenti con l’umore attuale, per un processo denominato Mood Congruity Effect (Bower, 1981).
È interessante notare che il rapporto inverso, come cioè la memoria influenzi le emozioni attuali dell’individuo, abbia ricevuto molta meno attenzione.
Solo recentemente i ricercatori hanno cominciato a esaminare il modo in cui la memoria per gli eventi delle propria vita possa avere una importante funzione per diversi esiti adattivi, tra cui l’esperienza emotiva attuale (Pillemer, 2003). La funzione direttiva della memoria autobiografica si riferisce proprio al ruolo delle esperienze passate nel guidare pensieri, emozioni e comportamenti attuali e futuri delle persone (Bluck, Alea, Habermas e Rubin, 2005). Un processo attraverso il quale la memoria può influenzare l’esperienza emotiva è l’uso deliberato delle memorie autobiografiche attraverso il ricordo, ad esempio attraverso l’uso di un diario o l’avvio di un percorso di psicoterapia.
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Pillemer (2003) suggerisce che la funzione direttiva della memoria autobiografica possa verificarsi in maniera automatica sulla base delle somiglianze tra gli stimoli ambientali e le memorie acquisite. Le memorie autobiografiche attivate da determinati stimoli vengono poi elaborate da strutture cognitive di ordine superiore (Smith & Kirby, 2000).
Andersen e Baum (1994) hanno illustrato questo processo in uno studio che dimostra come le persone sperimentino emozioni negative nel momento in cui sta per verificarsi un incontro con uno sconosciuto che può sembrare simile a un’altra persona (altro significativo) incontrata nel passato e con il quale si erano avute esperienze negative.
Le esperienze codificate nella memoria relative al passato condiviso con l’altra persona, sembrano influenzare la valutazione attuale delle persone che ci circondano poiché le esperienze emozionali nuove e passate condividono alcune caratteristiche simili. Questo processo è simile al processo associativo nella cognizione sociale studiato nella formazione degli atteggiamenti impliciti (Gawronski e Bodenhausen, 2006). Una spiegazione diretta di questo processo di stimolo/attivazione automatico è data in gran parte da un meccanismo insito nella mente e dai processi di apprendimento attivati per facilitare una risposta rapida e generica all’interno del nostro contesto di vita, per un meccanismo di semplificazione e generalizzazione (Philippe, Lecours, e Beaulieu-Pelletier, 2009).
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Una risposta meno rapida e più ragionata, ma che sarebbe in realtà più funzionale al nostro benessere, impegnerebbe un tempo eccessivo e ci costringerebbe a soffermarci di volta in volta su ogni nuovo stimolo che si presenta nel nostro campo visivo, emotivo e cognitivo. Una spiegazione per questi meccanismi di semplificazione mentale lo troviamo nel modello esplicativo dell’uomo come economizzatore di risorse cognitive di Taylor (1981). Di conseguenza, ricordi attivati da un tema specifico (ad esempio, la perdita e il lutto) o situazioni particolari (ad esempio, l’aver subìto un’ingiustizia) fanno scattare in maniera automatica dei ricordi legati al tema, che a loro volta dovrebbero far prevedere degli esiti correlati al tema o situazione specifica (ad esempio, l’attivazione dell’esperienza emotiva negativa associata all’evento passato o il comportamento disfunzionale messo in atto all’epoca della prima esperienza con lo stimolo attivante).
Un’altra caratteristica importante di questo sistema è che quando il ricordo è attivo possono attivarsi anche altre memorie collegate al tema, dato che il ricordo si diffonde come un’onda attraverso un complesso network neurale associativo di attivazione (Christianson e Engelberg, 1999).
Spesso durante la nostra vita incontriamo stimoli associati alla perdita di un “altro significativo”, alla perdita di un oggetto importante, alla perdita della salute o alla perdita di un ruolo. Secondo queste spiegazioni, vivendo una situazione di perdita o incontrando stimoli correlati alla perdita, si possono attivare specifici ricordi autobiografici associati in una rete. Vale la pena ricordare che la perdita è stata associata sia a livello teorico che empirico all’esperienza delle emozioni depressive (Monroe, Rohde, Seeley, e Lewinsohn, 1999). Pertanto, se una nuova perdita nella nostra vita viene valutata sulla base delle informazioni contenute nella rete di memoria attivata e sul proprio passato, si sperimenteranno emozioni depressive già vissute.
Secondo questi studi però, è meno probabile che le persone cerchino di sfruttare volontariamente la funzione direttiva delle proprie memorie autobiografiche quando necessario (Pillemer, 2003). È molto più probabile che tale funzione direttiva si verifichi in maniera automatica e in gran parte al di fuori della nostra consapevolezza o volontà (Conway & Pleydell-Pearce, 2000).
Il lavoro della psicoterapia, al contrario, starebbe proprio nello sfruttare le potenzialità della funzione direttiva dei ricordi per modulare le emozioni negative nel presente, attraverso un processo di rivalutazione e ricostruzione del proprio passato. Questo processo attivo durante la psicoterapia è stato denominato dalla letteratura con la nozione generica di Ristrutturazione Cognitiva. Attraverso l’apprendimento di nuove modalità di valutazione dell’esperienza attuale e futura, e sulla base dell’acquisizione di un approccio critico e di sintesi tra emotività e razionalità, l’individuo diventa capace di gestire i propri stati emotivi dolorosi (Sassaroli e Lorenzini, 2000).
Ma come mai la natura non ci ha fatto dono di una spontanea capacità di ristrutturarci cognitivamente in maniera autonoma? Come mai il cambiamento e il nostro benessere sono collegati e dipendenti dall’esclusiva possibilità di raccontare noi stessi nell’intimità della relazione con un altro significativo? Come mai abbiamo, per far questo, necessità di condividere ed amare?
Bower, G. H. (1981). Mood and memory. American Psychologist, 36 (2) pp. 129-148.
Christianson, S.-A., & Engelberg, E. (1999). Organization of emotional memories. In T. Dalgleish & M. Power (Eds.), Handbook of cognition and emotion, pp. 211-227.
Taylor, S. E. (1981). The interface of cognitive and social psychology. Cognition, social behaviour and environment.
Senzazioni tattili? Sempre mediate dalle nostre Credenze -Neuroscienze-
– Rassegna Stampa –
I neuroscienziati del California Institute of Technology (Caltech), hanno scoperto che l’associazione tra l’elaborazione delle sensazioni tattili e le emozioni inizia nella regione cerebrale della corteccia somatosensoriale primaria, regione generalmente riconosciuta come deputata all’elaborazione delle caratteristiche fisiche degli stimoli tattili e non tanto della loro qualità emotiva.
Il gruppo di ricercatori ha coinvolto individui di genere maschile che si autodefinivano eterosessuali e li ha sottoposti a risonanza magnetica funzionale per rilevare le loro attivazioni cerebrali mentre ricevevano una carezza su una gamba, ma attenzione, a due condizioni diverse: in un primo caso venivano indotti a credere che a toccare la loro gamba fosse una donna (guardando il video di una donna attraente che si chinava per accarezzarli all’esterno della risonanza magnetica); in un secondo caso guardavano il video di ragazzo mascolino fare la stessa cosa sviluppando quindi la credenza che chi li stesse toccando fosse un uomo.
I soggetti erano di fatto all’oscuro che la carezza che di fatto ricevevano sulla gamba era la medesima in entrambe le condizioni, della stessa intensità e soprattutto sempre effettuata da una donna!
Ciò che quindi poteva creare una differenza in termini emotivi e di attivazione cerebrale era quindi la credenza di essere toccati da un uomo o da una donna.
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Gli uomini che hanno partecipato allo studio hanno riferito come piacevole l’esperienza in cui credevano di essere stati toccati da una donna; viceversa hanno riportato uno stato emotivo negativo avversativo nel momento in cui credevano che fosse un uomo a toccarli.
Questa differenza in termini di valenza edonica dell’esperienza emotiva ha trovato un simmetrico aspetto differenziale nelle attivazioni cerebrali della corteccia somatosensoriale primaria.
Nello specifico la corteccia somatosensoriale primaria risultava maggiormente attiva se i soggetti credevano di essere toccati da una donna rispetto a quando ritenevano di essere accarezzati da un uomo.
Questa attivazione differente della corteccia somatosensoriale primaria segnala come tale area non sia solo responsabile dell’elaborazione di aspetti sensoriali fisici di base di uno stimolo ma è anche implicata in una elaborazione edonica emotiva delle esperienze tattili.
In altre parole, nemmeno le sensazioni tattili possono essere un esempio di elaborazione oggettiva di uno stimolo, ma la nostra percezione è costantemente e pervasivamente modulata dalle nostre credenze.
Prossimi passi in termini di ricerca dovrebbero muoversi nella direzione di indagare lo stesso fenomeno anche nelle donne e in generale in individui omosessuali.
La maggior parte degli studi volti ad approfondire i processi attentivi, si sono occupati di approfondire come e perché la mente si diriga verso stimoli esterni percepiti come “interessanti” per qualsivoglia motivo, mentre poche sono le ricerche che si sono occupate di come l’attenzione venga rapita e trascinata verso stimoli interni (“train of thoughts”) e scollegati dal contesto percepito in quel momento (mind wandering). Le neuroscienze negli ultimi 10 anni hanno cercato di scoprire cosa succede nella mente durante i periodi di riposo, o meglio di assenza di un preciso compito cognitivo, e dalla registrazione dell’attività del Default Mode Network sono emersi due dati principali:
più del 50% dei nostri pensieri coscienti sono indipendenti dagli stimoli esterni (noti anche come Stimulus Indipendent Thoughts, SIT);
sia i pensieri generati dal “dialogo interiore” che l’attività neurale ad essi associata non sembra correlata agli stimoli esterni percepiti in quel dato momento.
la capacità di estraniarsi dagli stimoli esterni (perceptual decoupling) e
l’abilità di essere consapevoli dei propri pensieri in corso (“meta-awareness”).
Un dato interessante emerso dagli studi sul perceptual decoupling è che gli eventi mentali (pensieri, immagini,..) che si innescano indipendentemente dagli stimoli esterni sembrano interferire con il processo di analisi delle informazioni sensoriali provenienti dal contesto in cui siamo, mentre la consapevolezza di essere estraniati dalla realtà (meta-awareness) e di vagabondare senza meta tra i nostri pensieri rimane apparentemente intatta, il più delle volte.
Ma quali sono i parametri più frequentemente utilizzati per misurare il mind wandering?
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“Mente distratta”: alcuni esperimenti (Smallwood, 2007) hanno dimostrato che durante l’attività di mind wandering, l’elaborazione degli stimoli esterni risulta deficitaria e carente, sia nei soggetti con una tendenza di base ad essere “assorti nei propri pensieri”, sia nei casi in cui il mind wandering viene indotto sperimentalmente. Il riconoscimento, l’identificazione e la memoria delle informazioni percettive cui vengono esposti i soggetti sperimentali durante il mind wandering, risultano significativamente deficitarie durante episodi di mind wandering.
Lettura e comprensione del testo: se è vero che l’attenzione appare dissociata dalle capacità percettive in presenza di SIT, allora la lettura e la comprensione di un testo potrebbero essere compromesse dalla presenza di questi pensieri; questa ipotesi è supportata dall’osservazione di una correlazione negativa tra episodi di mind wandering durante la lettura e accuratezza nella comprensione dei contenuti del testo. In particolare, sembra che la deficitaria comprensione sia legata al fatto che i SIT interferiscono con la capacità di immaginare un scenario della situazione raccontata, che sia sufficientemente dettagliato da permettere di fare deduzioni corrette rispetto alla narrazione che si sta leggendo. Insomma, si perde il filo durante la lettura di un racconto perché le incursioni improvvise dei nostri pensieri, non attinenti all’attività in corso, ci impediscono di creare e mantenere una cornice generale della storia che stiamo leggendo!
Self-report: nella maggior parte degli esperimenti, parallelamente ai compiti cognitivi e alle misure neuro cognitive, viene chiesto ai soggetti di segnalare la presenza di episodi di mind wandering ogni volta che accadono. E’ una misura soggettiva, ma utile da affiancare ad altri strumenti e interessante per verificare la consapevolezza o meno degli episodi di mind wandering.
MISURE NEUROCOGNITIVE:
Event Related Potentials (ERP): l’attenzione rivolta a stimoli esterni, aumenta in genere l’ampiezza delle risposte neurali evocate durante i compiti cognitivi somministrati, quindi la presenza di SIT dovrebbe ridurre l’ampiezza di questo potenziale. In un recente esperimento (Smallwood, 2008) ai partecipanti era richiesto di svolgere un semplice Go/No-go task (basso carico cognitivo e maggiore capacità di generare SIT) durante il quale veniva loro chiesto, in modo intermittente, di svolgere compiti cognitivi più complessi, in cui era invece necessario mantenere attenzione sostenuta nel tempo: le ERP hanno mostrato un’ampiezza ridotta durante l’insorgenza di pensieri intrusivi provenienti dall’interno (SIT) rispetto ai momenti del compito in cui i soggetti erano concentrati sulle richieste a più alto carico cognitivo. Studi successivi, hanno evidenziato inoltre come la presenza di SIT sembra ridurre sia le risposte corticali (EPR) legate agli stimoli target che quelle legate ai distrattori utilizzati durante gli esperimenti, evidenziando come le deficitarie capacità attentive prodotte dal mind wandering siano legate allo spostamento dell’attenzione al servizio di un focus “interno” e consapevolmente orientato, ad esempio a “mantenere il filo” dei propri pensieri, piuttosto che ad un mero processo di distrazione.
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Risonanza Magnetica Funzionale (fMRI): l’area identificata come Default Mode Network (DMN), mostra una ridotta attività durante lo svolgimento di compiti a medio/alto carico cognitivo, mentre al contrario una maggiore attivazione del DMN sembra significativamente correlata ad una bassa performance in compiti che richiedono un’attenzione focalizzata sugli stimoli provenienti dall’esterno (Kim, 2011). Ulteriori prove del legame tra DMN e SIT vengono dagli studi che correlano l’attività rilevata durante l’fMRI con le misure di self-report richieste ai soggetti rispetto all’insorgenza di episodi di mind wandering, quando consapevole, durante la risonanza.
Movimenti oculari: recenti studi si sono occupati di quantificare il processo del mind wandering confrontando la registrazione dei movimenti oculari durante compiti di lettura e comprensione del testo, e durante episodi di mind wandering; questo metodo ha permesso di utilizzare una misura oggettiva e impossibile da controllare in modo volontario, dando la possibilità di osservare come cambiano i movimenti oculari in base al tipo di processo cognitivo in corso. In particolare vengono utilizzati il tempo di fissazione e il numero e l’ampiezza delle saccadi (Uzzaman, 2011) come indici su cui basare il confronto tra episodi di lettura normali e attività di mind wandering concomitante.
Nonostante il crescente numero di strumenti utilizzati dai ricercatori per intercettare e definire il vagabondare della mente, il mind wandering resta un’attività che sfugge il più delle volte al controllo consapevole, così come sfugge il suo ruolo nel funzionamento globale della nostra mente!
La frequenza e la diffusione di questa esperienza tuttavia, fa ipotizzare un legame importante tra questa attività di pensiero (apparentemente inutile e anzi dannosa per le nostre performance!) e la generale capacità dell’uomo di mantenere un stato di coscienza, un senso unitario di sé e un contatto con i propri pensieri…anche quando intorno regna il caos!
6. Applicabilità ecologica: a causa del carico di lavoro richiesto negli approcci MBCT può risultare arduo applicarle con continuità se non in presenza di un forte coinvolgimento e convincimento nella pratica meditativa, a cui non sempre gli individui coinvolti possono essere attivamente interessati. E allora? L’unica alternativa è accontentarsi e far slittare gli obiettivi del percorso terapeutico o meglio optare per altri interventi? E soprattutto, quante persone applicano nella loro quotidianità gli esercizi previsti dall’intervento MBCT così come vengono richiesti?
7. Coping o non Coping: la mindfulness non è una strategia di gestione delle emozioni negative, né si tratta di un farmaco da usare al bisogno, ma un esperienza complessa che costituisce il substrato entro il quale far crescere quelle abilità di autoconsapevolezza che poi si proiettano sul miglioramento globale dell’individuo. Questo è chiaro nella teoria. Nella pratica emergono due aspetti delicati e controversi. Innanzitutto, come essere sicuri che non venga usata come strategia di coping e che i suoi effetti benefici non dipendano da questo eventuale utilizzo (che metterebbe in discussione alcune componenti dell’impianto teorico)? Secondariamente, questo principio di base appare in sé discordante con alcune pratiche interne all’MBCT (es: i tre minuti sul respiro) che vengono proprio consigliate come risposta a momenti di attivazione stressante e quindi come strategie di gestione del malessere emotivo.
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8. Una fine tecnica di distrazione:l’uso del respiro o di altri elementi corporei come ancoraggio (elemento da cui tornare gentilmente una volta notato ove ci conduce la mente) potrebbe anche diventare una forma raffinata della più semplice strategia di distrazione. Se così non è, allora occorre definire con maggior dettaglio in cosa si differenzia, non tanto a livello teorico-filosofico ma effettivamente a livello cognitivo e pragmatico. Se si tratta, come in effetti vorrebbe essere, di una strategia in grado di aumentare (1) consapevolezza e (2) flessibilità cognitiva, potrebbe aver senso insegnare varie modalità di rifocalizzazione attentiva e non solo quella che si orienta dal pensiero al corpo. In ogni caso occorre tracciare un disegno di ricerca che permetta di verificare il meccanismo di effetto.
9. Mettere i pensieri sulle foglie che cadono: il rapporto con i pensieri automatici descritto dagli approcci MBCT mostra altri punti delicati. Da un lato si sostiene la posizione contemplativa rispetto alla propria vita mentale. Dall’altro si mettono i pensieri su foglie che cadono. Certo questa è una metafora molto affascinante per rendere l’idea, ma quante persone pensano in parole scritte? Esistono ricerche in tal direzione? In effetti, il pensiero risulta più simile a immagini, a una piccola voce interiore oppure a un testo scritto? Ma se non pensiamo per testo scritto, allora prendere il pensiero, rileggerlo in parole, metterlo sulle foglie e farlo scorrere non è un’azione concreta e attiva sulla propria vita mentale? Allo stesso modo, quanto del ‘notare i pensieri, riconoscerli e tornare sul corpo’ può indurre una forma raffinata di controllo? Quanto invece potrebbe essere utile solcare consapevolmente il flusso di pensieri tipici dell’attività di mind wandering? Insomma, se siamo al telefono in casa, con la televisione accesa (nella metafora la nostra ruminazione), possiamo liberamente lasciarla andare nello sfondo della nostra percezione piuttosto che mettere l’apparecchio su una foglia e lasciarla scorrere fuori dalla finestra.
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10. La mancanza di una concettualizzazione: un altro punto critico che accompagna approcci radicalisti è l’assenza di una concettualizzazione individualizzata (tutti i depressi sono uguali?) che invece caratterizza i percorsi cognitivi e cognitivo-comportamentali. Certo che esperti clinici possano integrare capacità di concettualizzazione con le tecniche MBCT, nasce un problema per i giovani terapeuti in formazione che potrebbero acquisire un protocollo in cui manca la capacità di accertare, concettualizzare e restituire (prima di tutto a sé stessi) un’adeguata e idiosincratica formulazione del caso e del percorso terapeutico.
11. La panacea e l’evitamento: ne consegue un altro rischio professionale, quello di considerare la mindfulness come una panacea o ancor peggio come una tecnica da replicare in modo uguale a prescindere dalle condizioni psicopatologiche. Sicuramente è più facile applicare una tecnica che ‘sporcarsi la testa’ con una concettualizzazione complessa o ‘sporcarsi il cuore’ con la molteplicità del dolore emotivo che certi pazienti ci portano. E quindi, volenti o nolenti, può essere accattivante per tutti l’ipotesi di risolverla sempre in mindfulness. Qualcuno potrebbe obiettare che entriamo nel campo delle responsabilità personali. Vero, ma in parte. E se la perplessità ha un senso logico, la ricerca in formazione dell’MBCT dovrebbe valutare l’impatto di un simile rischio e approntare adeguati interventi formativi per fronteggiarla, per quanto ciò forse implichi uscire forse dal radicalismo.
12. Tutti Zen?: Infine, ultimo punto che vale la pena toccare. Un rischio implicito del radicalismo mindfulness sta nel condire il ‘saper essere’ con una filosofia di approccio alla vita che implica anche scelte personali che alcuni individui potrebbero anche non sentire proprie. È possibile che una persona scelga consapevolmente di godersi una modalità del fare ‘sana’ dove non è presente a sé stesso momento dopo momento? Penso all’esperienza che viene descritta con il concetto di ‘flow’ che è ‘ottimale’, ‘soddisfacente’ e che è caratterizzata tra le altre cose da assenza di percezione del tempo e da scarsa autoconsapevolezza. Insomma, bene la riscoperta dei valori orientali, ma che si confronti con l’idea di una psicoterapia come percorso verso il libero arbitrio, o perlomeno un condizionato arbitrio dipendente oltre che dal saper essere anche dal sapere (risorse, doti, limiti, scopi) e dal piacere di saper fare.
Affective Computing: la Frustrazione nell’Interazione Uomo-Macchina
– Rassegna Stampa –
Un nuovo studio di Affective Computing condotto presso il Media Lab del MIT diretto da Rosalind Picard dimostra che è possibile sorridere quando si è frustrati nel momento in cui interagiamo con un computer.
La ricerca rientra nel filone che in ambito scientifico viene chiamato Affective Computing, una branca di studi che interseca psicologia e informatica e che si occupa di studiare e implementare come i computer sono in grado di rilevare e riconoscere le emozioni degli utenti ma anche di rispondervi adeguatamente secondo specifici scopi che si vogliono raggiungere nell’interazione uomo-macchina.
Negli esperimenti di questo studio ai soggetti è stato chiesto di riprodurre con il volto espressioni facciali di gioia o frustrazione mentre una webcam li video registrava; in seguito, sempre mentre venivano videoregistrati, i partecipanti ricevevano l’indicazione di compilare un modulo on-line progettato per indurre in loro frustrazione (le molte informazioni inserite venivano cancellate al momento in cui cliccavano su “conferma”) oppure di guardare un video finalizzato a indurre sperimentalmente una risposta di contentezza o gioia.
Nel 90% dei casi quando i soggetti simulavano l’espressione facciale della frustrazione non compariva nessun tipo di sorriso; viceversa, con l’induzione di una frustrazione genuina e non simulata mediante il compito di compilare un modulo on-line non funzionante ecco il sorriso comparire sul volto dei soggetti che esperivano frustrazione legata a quella situazione.
Le immagini statiche non fanno rilevare grandi differenze tra i due tipi di sorrisi; invece considerando il processo dinamico dell’evoluzione temporale dell’espressione facciale si dimostra che la progressione dei due tipi di sorriso frustrato o gioioso è differente: generalmente il sorriso della gioia si manifesta gradualmente con tempi più dilatati, mentre il sorriso della frustrazione compare molto velocemente e parimenti si dissolve in modo rapido.
Questo lavoro evidenzia l’importanza dell’analisi dell’evoluzione temporale e dinamica delle espressioni facciali delle emozioni: le espressione facciali possono essere trappole pericolose in termini inferenziali se considerate solo in fotogrammi statici e come indizi – ad esempio il sorriso- rigidamente legati a una specifico stato mentale. Riflessione da non sottovalutare nei più svariati contesti che chiamano in causa le emozioni, dalla human-computer interaction ai setting clinico-terapeutici.
Il Trauma nei Bambini: l’approccio Trauma-Focused TF-CBT #2
Nella prima parte di questo articolo abbiamo introdotto il modello di terapia basata sul trauma per l’infanzia, sottolineandone le evidenze scientifiche. La TF-CBT è ad oggi considerata una delle terapie più efficaci nel trattare bambini con significativa sintomatologia legata all’esposizione a traumi.
Vediamo ora più nel dettaglio in che cosa consiste. Si tratta di un trattamento breve – possono essere sufficienti anche solo 12 sedute – che però può essere facilmente adattato al singolo caso, in base alle esigenze del bambino e della famiglia. Come in ogni tipo di psicoterapia, il primo passo sarà quello di costruire un’alleanza terapeutica con il bambino e con suoi i genitori, conquistandosene la fiducia. Solo così porremo le basi per un trattamento efficace. Nel protocollo sono previsti incontri individuali con il bambino alternate a sessioni con i soli genitori, così come sedute che vedono genitori (o caregiver) e bambini insieme. Vediamone ora i punti essenziali:
Il primo passo della terapia sarà quello di fornire una base psicoeducazionale al bambino e ai genitori riguardo il trauma, spiegandone le “normali” conseguenze negative sul minore e validandone quindi i vissuti.
Verranno poi fornite ai genitori indicazioni su come comportarsi per facilitare l’adattamento emotivo e comportamentale del bambino.
Per ogni bambino verranno quindi elaborate specifiche strategie di rilassamento e di gestione dello stress, che possono essere utilizzate anche con i genitori.
A questo punto si passa al lavoro sulle emozioni: al bambino (se opportuno anche ai genitori) vengono illustrate e spiegate le diverse emozioni, le relative espressioni e vissuti e come possono essere modulate, in modo tale che il bambino acquisisca consapevolezza di ciò che prova e possa identificare e far fronte a una vasta gamma di esperienze emotive, dandone un nome.
Solo successivamente vengono identificati i processi di pensiero e si iniziano a fare collegamenti tra pensieri, emozioni e comportamenti. Questo intervento aiuta genitori e bambini a modificare eventuali pensieri distorti o dannosi relativi al trauma.
Si passa poi alla narrazione del trauma da parte del bambino. Questa parte, da effettuarsi solamente quando gli altri step sono consolidati, è di fondamentale importanza al fine del trattamento.
Durante la fase del racconto si aiuta il bambino a identificare quelle situazioni che non sono più pericolose in sé ma che egli evita per il ricordo di ciò che ha subito. Questa fase viene fatta in vivo, ovvero mentre il bambino parla con noi dell’evento traumatico.
A questo punto vengono introdotte delle sessioni che vedono insieme il genitore e il bambino finalizzate a facilitare la comunicazione del trauma tra di loro.
L’ultima fase del trattamento prevede incontri sul senso di sicurezza, su come il bambino possa re-inserirsi nella propria storia di sviluppo e su altri eventuali bisogni che il bambino manifesta prima di terminare gli incontri.
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Seguendo questi passi, si è visto che non solo vengono ridotti i sintomi legati al trauma – come la presenza di ricordi intrusivi o l’evitamento di situazioni legate al trauma – ma anche sintomi ansiosi o depressivi, problemi comportamentali, viene ridotto il senso di vergogna legato all’essere stato vittima di un trauma implementando la fiducia personale e le competenze sociali. Le linee guida considerano la TF-CBT non adatta, invece, almeno inizialmente, in tutti quei casi in cui il bambino viene segnalato per problemi diversi, anche se conseguenti a esperienza traumatiche. Rientrano in questi casi bambini con comportamenti aggressivi o provocatori ad esempio, per cui è essenziale un intervento mirato a risolvere tali comportamenti, prima di potere lavorare sul trauma. Vengono esclusi anche i casi di adolescenti che abusano sostanze o con importanti sintomi depressivi e ideazione suicidaria. Anche qui è importante fornire un trattamento specifico per tali patologie, anche se vi sono traumi pregressi.
Perdere ad un gioco a premi non è solo una questione di sfortuna; infatti, la sfortuna generalmente è dovuta ad un errore di calcolo (B. Brecht, Vita di Galileo). Il problema è che il nostro cervello è tristemente portato a commettere tale errore, soprattutto quando si tratta di stimare la probabilità che si verifichi un evento: spesso imbocchiamo un tunnel della mente e senza accorgercene giungiamo a conclusioni errate (incappando soventi in veri Bias Cognitivi).
Il paradosso di Monty Hall è forse la più spettacolare illusione probabilistica che sia mai stata presentata, a dimostrazione di quanto siamo scarsi nel calcolo delle probabilità. Questo dilemma suscitò grandissimo scalpore anche negli ambienti didattici più illustri; se noi giovani studenti di psicologia ci cascammo facilmente quando Piattelli Palmarini lo presentò a lezione, ci consola sapere che anche Nobel per la fisica, famosi professori di matematica ed esperti statistici sono rimasti intrappolati in questo tunnel della mente.
Leggenda vuole che quando Marilyn Von Savant, la donna con il più alto Q.I. al mondo, presentò questo giochino in “Parade Magazine” (2 dicembre 1990), ricevette 10000 lettere di protesta da parte di lettori increduli che non volevano rassegnarsi all’idea di aver preso una cantonata probabilistica.
E voi? Riuscirete a portarvi a casa la vincita? Mettetevi alla prova:
Il conduttore del gioco a premi vi mostra tre scatole identiche, una delle quali contiene 100000 euro, e vi chiede di sceglierne una. Avete scelto? Bene. Ora il conduttore, che sa quali scatole sono vuote e quale è piena, apre una scatola vuota tra le due che gli sono rimaste. Rimanete così con due pacchi in gioco: il vostro e quello del conduttore. Ed ecco la fatidica domanda: cambiate il pacco o lo tenete? Qual è la strategia migliore?
Articolo Consigliato: Scienze Cognitive: L’illusione di Sapere. Bias & Euristiche.
Se la vostra risposta è “Ma è indifferente, la probabilità è del 50%, sono rimaste due scatole!!”, sappiate che avete appena ridotto drasticamente la probabilità di tornare a casa milionari.
Infatti, all’inizio del gioco la vostra scatola ha 1/3 di probabilità di contenere i soldi. Le altre due scatole hanno anch’esse ciascuna 1/3 di probabilità di contenere i soldi e quindi, insieme, hanno 2/3 di probabilità di contenerli; nel momento in cui viene aperta la scatola vuota, la seconda scatola, da sola, varrà 2/3. La strategia vincente, pertanto, è cambiare, SEMPRE!
Perplessi? Guardiamola da un altro punto di vista: una volta su tre beccherete la scatola con i soldi; in questo caso se cambiate il pacco restate a bocca asciutta. Due volte su tre, invece, sceglierete la scatola vuota e cambiando vincerete sicuramente i soldi. Ecco che cambiare il pacco risulta essere sempre la mossa migliore (Avrete 2/3 di probabilità di vincere)!
L’errore più comune è quello di non considerare ciò che è successo prima che si rimanesse con due pacchi, ma di focalizzarsi sul momento in cui in gioco rimangono solo le due scatole.
Se ancora non ne siete convinti, non posso che rassegnarmi. Infatti, “Tutto ciò è terribilmente controintuitivo, ma razionalmente impeccabile” afferma Piattelli Palmarini, però a volte anche la migliore dimostrazione razionale nulla può contro le illusioni che ci crea la nostra mente.
Il paradosso di Monty Hall spiegato in una scena tratta dal film 21 (2008) di Robert Luketik (Scheda del film su IMDB)
Volitional Reconsumption: ancora la stessa canzone?
Volitional Reconsumption– Rassegna Stampa –
A chi non è capitato di rivedere più e più volte un film preferito o di riascoltare fino alla nausea una canzone? Quale meccanismo si nasconde sotto questo bizzarro fenomeno di scelta di “rifruizione intenzionale” (in inglese definito volitional reconsumption )?
Non si tratta di semplice nostalgia vintage. In uno studio che verrà pubblicato in Agosto su Journal of Consumer Research, Cristel Russell, professoressa di Marketing della University of Chicago, ha indagato le motivazioni che spingono le persone a rileggere lo stesso libro, rivedere un film o riascoltare una canzone più e più volte. Attenzione, gli autori mettono in guardia: la Volitional Reconsumption è un fenomeno che ben si differenzia da comportamenti altamente ripetitivi ritualistici e quotidiani al limite della dipendenza.
I soggetti della ricerca, selezionati in Nuova Zelanda e Stati Uniti, sono stati intervistati per indagare perché sceglievano deliberatamente di ripetere tali comportamenti di fruizione di prodotti culturali. Dalle analisi delle interviste è emerso che i comportamenti di Volitional Recomsumption rispondono principalmente a cinque fattori motivazionali: regressivo, progressivo, ricostruttivo, relazionale e riflessivo. Alcuni soggetti desiderano ritornate mentalmente ed emotivamente a momenti passati (fattore regressivo), altri hanno il desiderio di confermare o modificare le impressioni lasciate dalla precedente fruizione (fattore progressivo), altri ancora semplicemente di rinfrescarsi la memoria alla scoperta di nuovi dettagli (fattore ricostruttivo); c’è chi vuole condividere l’esperienza con altre persone (fattore relazionale) e infine chi riferisce che ri-fruire un libro, una canzone o un film porta a un aumento di consapevolezza oltre che di esperienza edonica positiva (fattore riflessivo).
Quindi smettetela di sfottere il vostro amico che continua a riproporvi lo stesso video o canzone: le motivazioni sottostanti non sembrano affatto banali!
Un degli errori cognitivi più ricorrenti alla base del pensiero negativo, soprattutto di tipo ansioso, è la sottovalutazione delle proprie capacità di fronteggiare e gestire la minaccia. Ma, più che sottovalutazione, occorre parlare di vera e propria dimenticanza e negligenza. Il paziente ansioso è completamente focalizzato sui problemi che lo preoccupano, e la loro stessa esistenza è già motivo di sensazioni di minaccia.
Con l’attenzione completamente assorbita dalle sue preoccupazioni, il paziente ansioso tende a non pensare a come affrontare queste minacce. La sua immaginazione è congelata sul momento in cui la minaccia si presenta, senza approfondire cosa potrebbe accadere dopo. Per lui o per lei, la semplice presenza della minaccia è già prova della sua ingestibilità.
Proprio per questo è bene invece chiedere come potrebbe reagire ai problemi tramite il disputing delle risorse. Es:
(Terapeuta): “Lei ha ragione, questo potrebbe essere un problema. Ma cosa potremmo fare in quella situazione?”
(Terapeuta): “Mi sembra che per lei tutto si risolva nel fatto che esiste questo problema. Ma potremmo anche pensare a cosa fare per risolverlo. Che ne dice?”
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L’idea da far passare è che “Tu sei più forte di quel che pensi” (Clark, Beck, 2010, pag. 187). Il paziente ansioso, poco abituato a ragionare su come si affrontano le minacce, spesso sottovaluta la sua capacità di gestire i problemi. Eppure, se il paziente è qui da noi in terapia, questo vuol dire che in qualche modo in passato il paziente ha già saputo superare i suoi momenti difficili. Occorre quindi raccogliere informazioni su episodi passati.
(Terapeuta): “Bene, mi ha raccontato questa sua difficile esperienza passata di ansia e, forse, addirittura di panico. Ma ora mi racconti come a fatto a cavarsela, quella volta”.
In questo modo, sarà possibile scoprire che in realtà l’esito finale fu meno catastrofico di come se lo ricordasse il paziente. In fondo la tecnica rimane sempre quella: non dare mai nulla per scontato, mai nulla per garantito. Formulazioni e definizioni generiche vanno evitate. Occorre verificare se veramente gli episodi rievocati dal paziente come prova della realtà dei suoi problemi siano stati così negativi come lui sostiene. Le descrizioni dettagliate e non le definizioni vaghe e generiche, ci danno vera informazione.
Storie di Terapie #8 – La storia di Ofelia e della sua Ipocondria Ossessiva
Nei casi clinici che seguono, l’arrosto sostanzioso dei vari pazienti è condito con il sugo della fantasia, per rendere non identificabili le persone e la lettura più avvincente. Spesso ho condensato in un solo paziente più persone e, quasi sempre ci sono scappati pezzetti di me stesso.
Alcuni pazienti li seguo da così tanti anni da aver dimenticato l’invio e il motivo originario.
Naturalmente non si tratta di un trattamento continuativo, sono interventi spot che vengono richiesti in momenti difficili, in passaggi esistenziali stretti. La difficoltà maggiore, in questi casi, consiste nel mantenere un setting terapeutico senza scivolare in una sorta di consulenza. Con questi pazienti si invecchia insieme, si è reciprocamente testimoni delle fasi dell’esistenza.
Ofelia è una di queste pazienti. Frugando nella mia lacera memoria, negli scaffali dedicati ad Ofelia, mi viene in mente l’immagine di un arancio e cerco di partire da lì: potrebbe trattarsi di un rimando al colore rossastro dei capelli che, a ventott’ anni, la rendevano bella e provocante. E’ vero, ma non si tratta della pista giusta, poi a me le provocanti vistose non sono mai piaciute, mi intimidiscono. Ecco! La connessione è la buccia d’arancio, Ofelia venne da me perché aveva un’ipocondria ossessiva circa la possibilità di avere un tumore al seno.
La presenza di pelle a buccia d’arancio intorno al capezzolo sinistro aveva insospettito il suo ginecologo che le aveva prescritto una mammografia. Era risultata negativa, ma Ofelia era ormai partita per una strada scivolosa, quella del dubbio e della ricerca della certezza assoluta. Trascorreva almeno due ore al giorno nella palpazione del seno secondo le regole che le aveva indicato il ginecologo e, siccome aveva capito l’importanza della diagnosi precoce, la palpazione avveniva la mattina, dopo pranzo e alla sera. Stava sperperando i soldi in uno studio radiologico vicino casa dove si faceva un’ ecografia ogni settimana.
Il marito, Settimio, non sopportava più le continue richieste di rassicurazioni e le lunghe sedute in cui doveva osservare il seno nudo della moglie per smentire modificazioni della forma. Sul seno, con un pennarello nero, aveva tracciato i confini della buccia d’arancio per controllare eventuali alterazioni. A vent’otto anni, come a sessanta, Ofelia fumava in continuazione ed altrettanto faceva il marito.
Settimio era un bell’uomo, convinto di essere irresistibile come maschio. Il suo atteggiamento da latin lover era talmente esibito da far sospettare una insicurezza sessuale, sembrava Alberto Sordi in “Un americano a Roma” quando cerca di conquistare la pittrice statunitense.
Entrambi ebrei romani, possedevano due banchi ambulanti, lei di calzini e lui di pantofole.
Il mio intervento fu richiesto quando Ofelia smise di andare a lavorare, avendo deciso che la salute veniva prima di tutto. Passava la giornata in bagno, davanti allo specchio e Settimio, al ritorno la sera, la trovava piangente. L’ipocondria di Ofelia era specifica, non temeva in generale le malattie, certamente la morte le era sgradita e l’idea di lasciare i figli Giordana e Luca la preoccupava, ma ciò non le impediva di fumare in continuazione e di placare le ansie con generose dosi di alcolici. Al centro delle sue preoccupazioni c’era il tumore al seno e solo quello, le altre malattie non riuscivano a rubargli la scena e quando le chiedevo il perché di questa differenza tra le malattie, singhiozzando Ofelia mi diceva che se le avessero tolto un seno sarebbe stata una mezza donna, certamente Settimio sarebbe stato disgustato dal suo corpo e l’avrebbe lasciata.
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Immaginarsi da sola era per lei impossibile, le sembrava di precipitare in un pozzo buio senza fondo, mettendo in relazione questa disperante solitudine con la colpa di non essersi impegnata sufficientemente nella prevenzione possibile del carcinoma del seno. La malattia e il conseguente sprezzante abbandono da parte di Settimio le apparivano come una meritata punizione per la sua colpevole trascuratezza, che in altri campi le era sempre stata rimproverata soprattutto da Sara, la madre.
Era la seconda di quattro figli; la primogenita, Erminia, aveva sempre attirato le attenzioni dei genitori perché, sin da piccola, aveva mostrato comportamenti bizzarri, a tredici anni era diventata anoressica e a diciotto, dichiarandosi lesbica, era andata a vivere con la sua compagna.
Il terzo figlio era Anselmo, subentrato al padre nella gestione del banco di famiglia, gestiva le sorti economiche, sempre zoppicanti, dell’intera tribù. L’ultima, Giovanna, era sempre stata in conflitto con Ofelia che mal sopportava il suo mostrarsi perfettina, ordinata e sempre obbediente alle aspettative dei genitori e della sorella. Tra le due, c’era sempre stata una gelosiaesplicita e una competizione per aggiudicarsi le attenzioni di mamma Sara. In questa partita, Giovanna ha assunto l’identità della figlia in gamba, di successo, solida e sana mentre Ofelia, per contrasto, si è distinta come debole, malata e bisognosa d’aiuto.
Il padre Antonio, era sopravvissuto ai campi di sterminio nazista ma non era più tornato a vivere veramente. Passato precocemente il testimone della guida economica della famiglia ad Anselmo, si era ritirato in un silenzio da cui usciva raramente, solo per andare a bere con gli amici ed ubriacarsi con cadenza settimanale o per andare a scommettere sui cavalli, sperperando quanto tutta la famiglia riusciva a guadagnare.
Ofelia era affezionata a questo padre che, tuttavia, sentiva come un nonno, benevolo ma impotente; lei si era sempre percepita senza protezione e incapace di cavarsela da sola. Per questo si innamorò dell’atteggiamento da gradasso e da bulletto di periferia di Settimio.
In questa fase iniziale della terapia non riuscii ad arginare Settimio che, più di una volta, si intromise con il suo fare da “maqualèilproblemacipensoio”. Del resto, lui era effettivamente coinvolto per le continue richieste di rassicurazioni e per lo stravolgimento della vita familiare e lavorativa che ormai giravano intorno ai controlli senologici di Ofelia. Lei ne era contenta, perché era un modo per avere ancora più vicino Settimio. Ho sempre sospettato che ci fosse anche un altro recondito motivo in questa volontà condivisa di essere entrambi in terapia: Settimio era geloso della moglie e mal tollerava che avesse una relazione, seppure terapeutica, da cui lui fosse escluso. Ofelia, che era sempre esposta alle effettive e soprattutto raccontate performance seduttive di Settimio con le altre donne, avrebbe potuto vendicarsi.
Per tutta la vita Ofelia si è ritenuta una bella donna ed ha amato esibirsi, anche con eccessi giovanilistici che, soprattutto in vecchiaia, l’hanno talvolta esposta al ridicolo. L’abbigliamento provocante di Ofelia è sempre stato oggetto di critiche da parte dei genitori e di gelosia da parte del marito, ciononostante lei non ha mai avuto un altro uomo neppure in fantasia, la sua mente e il suo corpo sono stati sempre e solo per Settimio.
La non voluta presenza del marito in terapia fu comunque provvidenziale: tanto più Ofelia si convinceva che lui le voleva effettivamente bene e che non l’avrebbe mai lasciata, tanto meno la terrorizzava la prospettiva di perdere un seno per tumore. Rassicurata sulla relazione con il marito, abbandonò progressivamente le preoccupazioni ipocondriache e le compulsioni di controllo per scongiurare la sua responsabilità nella genesi della malattia.
Per i successivi sette anni i contatti con Ofelia si limitarono agli auguri per le feste comandate che segnalavano “tutto a posto!”.
A trentacinque anni Ofelia richiese un nuovo intervento perché, a suo dire, era precipitata nelladepressione. In effetti, sembrava che fossero passati più di sette anni, la sua vivacità, a volte persino eccessiva, era spenta, il suo aspetto impolverato, le gonne allungate sotto il ginocchio, le calze sfilate, i maglioni trattenevano odore di fumo.
Il momento più difficile era al mattino appena sveglia: immaginando la sua giornata come in un film, nulla di tutto quello che l’aspettava la interessava, aveva paura della fatica che sapeva le sarebbero costate tutte le normali incombenze, temeva di non farcela, di sbagliare, di arrendersi e di essere criticata da tutta la sua famiglia d’origine e da Settimio come pigra, incapace, malata mentale, un peso e una buona a nulla.
Il corpo sembrava non farcela a staccarsi dal letto, un macigno sembrava attaccato all’esofago che sentiva strattonato verso il basso.
L’esistenza le sembrava un esame difficilissimo e lei uno studente impreparato. Passava mentalmente in rassegna la giornata che stava per cominciare e i giorni successivi e non vedeva che pesantezza e paure. Quando si sentiva in questo stato penoso piangeva sommessamente e si lamentava chiedendo aiuto come una bambina di cinque anni smarritasi nel bosco, con l’effetto di ricevere un coro di critiche per la sua debolezza e mancanza di volontà e il sistematico allontanamento degli altri.
In questa seconda tranche della terapia ci concentrammo su tre aspetti: la stabilizzazione di una idea di se stessa che non fosse così totalmente dipendente dal giudizio degli altri, l’identificazione di strategie diverse per chiedere aiuto, che fossero più adulte e assertive del fallimentare trasformarsi in una bambina lamentosa e umidiccia, la creazione di interessi e spazi di attività propri.
Ofelia si iscrisse ad una scuola di ebraico, a corsi sulle sacre scritture e avviò un banco tutto suo, coinvolgendo il fidanzato di Giordana.
Seguì un periodo lungo di relativo benessere, riuscì a sospendere gli ansiolitici diventati compagni inseparabili delle sue giornate ed ebbe accesso a ricordi perduti. In una seduta drammatica, riferì di aver vomitato svegliandosi di soprassalto la notte precedente: aveva ricordato nitidamente un tentativo di abuso da parte del padre, una notte che era tornato ubriaco quando lei aveva dodici anni. Ricordava con senso di colpa che, spaventata all’idea di essere presa con la forza e già a conoscenza delle questioni sessuali, aveva consenzientemente masturbato il padre perché finisse al più presto possibile. Aveva sempre scusato il padre attribuendo il suo comportamento all’esperienza del lager.
Ofelia era anche convinta di due cose: che sorte peggiore fosse toccata ad Erminia, la sorella maggiore e che ciò fosse stato decisivo nello sviluppo della sua omosessualità e che la madre avesse intuito, se non proprio saputo, quanto accadeva, tacendo per tenersi comunque il marito.
Sfortuna volle che, a distanza di un mese esatto da queste rivelazioni, il padre decise di seguire l’esempio di Primo Levi e di prendere la scorciatoia della tromba delle scale. Si cercò di camuffare l’evento con un malore, ma la volontà suicidaria era evidente. I motivi del gesto furono cercati in varie direzioni: le presenti difficoltà economiche causate dal vizio delle scommesse sui cavalli, la preoccupazione permalattie fisiche incurabili, l’impossibilità di superare l’esperienza del lager con il conseguente senso di colpa che accompagna sempre i sopravvissuti e altro ancora. Nessuno seppe mai la risposta.
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Ofelia si convinse che fosse sua la colpa del gesto del padre, avendomi rivelato il segreto che la legava a lui e nella sua testa, la mia immagine professionale dovette essere associata con questa presunta colpa e risultare, perciò, dolorosa, sta di fatto che per dieci anni non ebbi notizie di lei neppure per le feste comandate.
“Si ricorda di me, dottore?”
Con questo incipit, che tradiva con l’utilizzo del “lei” un avvenuto allontanamento, Ofelia iniziava, con una telefonata alle sei del mattino, la sua terza richiesta di aiuto. Si meravigliò molto che la riconoscessi immediatamente e questo mi meravigliò a mia volta: lei non si aspettava di poter essere a lungo nella mente di un altro.
L’ora della telefonata denotava una certa urgenza, confermata dal tono di acuta disperazione. Non sembrava più la bambina umida, abbandonata nel bosco, ma pur sempre una donna disperata. Sentirsi da me riconosciuta le consentì il recupero di una respirazione meno singhiozzante, che fosse compatibile con il parlare e mi raccontò che, la sera precedente, aveva scoperto dei preservativi nel portafoglio di Settimio. Messo alle strette, aveva confessato una relazione triennale con una donna più giovane e la ferma intenzione di separarsi.
Ci accordammo per vederci il giorno seguente e mi opposi alla presenza di Settimio, che voleva esserci per esporre le proprie ragioni.
Quando si rivede, dopo parecchi anni, un proprio coetaneo non si può fare a meno di immaginare i segni del tempo sul nostro aspetto vedendoli nell’altro. Stava invecchiando malamente, come fanno spesso i belli da giovani, era ingrassata, nascondendo le forme che l’avevano resa famosa nel suo ambiente, il seno, sfuggito alla temuta malattia, era esibito generosamente ma lo sguardo vi rimbalzava per soffermarsi sulle occhiaie che, scure e profonde, incorniciavano uno sguardo perduto, che non vedeva nulla perché non c’era per lei più nulla da vedere.
Il suo mondo aveva perduto la luce, la rabbia non aveva ancora avuto modo di istallarsi sul volto, era una maschera da tragedia greca di tristezza mista a sorpresa e la bocca non sapeva se restare aperta o pendente ai lati.
Ebbi paura. Per decidere se ricoverarla o meno ripercorsi mentalmente tutti gli indicatori di rischio suicidario e mi fermai, ad un passo dalla asticella decisiva, soprattutto scelsi di correre il rischio perché un ricovero avrebbe confermato, a lei e agli altri, l’idea di essere una povera matta inaffidabile. Ci accordammo per telefonate giornaliere, incontri bisettimanali e abuso di ansiolitici. Il lavoro da riprendere in questa fase aveva gli stessi obiettivi della precedente, in sintesi la conquista dell’autonomia che diventava urgente a motivo dell’imminenteseparazione. Settimio, nell’andar via, portò con sé quante più risorse possibili e Ofelia vide materializzarsi i due mostri con cui aveva sempre combattuto, la solitudine e la povertà.
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Superati i cinquant’anni, Ofelia riteneva impossibile crearsi una nuova relazione affettiva e pensò di dedicarsi al ruolo di madre e di nonna dei quattro nipotini. Inaspettatamente, però, Luca e Giordana si schierarono apertamente con il padre. Sebbene fosse stato lui ad andare a convivere con una trentaduenne molto chiacchierata nella comunità e avesse prosciugato i conti in banca familiari, la responsabile era Ofelia che lo aveva stremato con il suo carattere. Lo stesso atteggiamento di condanna venne dalla sua famiglia di origine, che continuò a mantenere buoni rapporti con Settimio. La madre, Sara, andava fiera del conservato buon rapporto con il genero e organizzava pranzi con i nipoti, i bisnipoti, Settimio e la nuova compagna. L’unica indesiderata era Ofelia.
La vendita della casa coniugale per permettere l’acquisto di una abitazione per la nuova coppia la costrinse ad un importante cambiamento: dovette spostarsi in un monolocale sul litorale romano acquistato con la parte a lei spettante. Quella coppia, che avevo giudicato simbiotica e fusionale, sembrava effettivamente e definitivamente separata.
Passato quasi un anno, provavo orgoglio per il risultato di autonomia raggiunto da Ofelia, quando fu lei a stupirmi. A motivo delle pratiche per la separazione aveva dovuto incontrare più volte Settimio e, con grande soddisfazione per la rivincita sulla rivale, era diventata la sua amante clandestina. Avevano ripreso un’attività sessuale clandestina e trasgressiva con una frequenza quasi giornaliera. Nel monolocale a Torvajanica o nella Mercedes di Settimio nei parcheggi romani, avevano ritrovato la passione travolgente dei diciotto anni.
Un giorno Ofelia ebbe persino il timore di poter essere rimasta incinta, nonostante i suoi cinquantaquattro anni si era sentita così eccitata da aver fantasticato un’ ovulazione straordinaria ad hoc per l’uomo di tutta la sua vita.
Quella coppia, che non riusciva a stare insieme e non riusciva a lasciarsi, aveva su di me un certo fascino, erano stati tutta la vita impegnati in un gioco erotico di seduzione e tradimenti graffiante, doloroso e impenetrabile agli altri. Settimio aveva avuto molte donne e molte di più ne vantava. Io ero stato l’unico “altro uomo” di Ofelia attraverso tutte le stagioni della sua sofferta esistenza.
…
Lo venni a sapere dalla conoscente che mi aveva inviato Ofelia venticinque anni prima: Settimio era stato trovato morto per un ictus in un motel sulla Roma-Aquila, dove si era recato per incontrare una prostituta. Mi sentii in dovere di partecipare al funerale. Anche durante la cerimonia si percepiva nettamente la separazione di Ofelia sia dalla sua famiglia d’origine che da quella attuale: figli e nipoti la ritenevano responsabile della separazione e della conseguente morte di Settimio.
Violando qualsiasi norma di setting la invitai a farmi visita. Quando entrò nel mio studio, per quell’ultima volta, non aveva nulla della ventottenne rossastra che era arrivata lì trent’anni prima, sembrava una ex prostituta dedita ai gatti quando gli uomini prendono a disprezzarla.
Aveva il tipico aspetto della barbona: vestiti lisi, con puzzo di fumo misto a urina stantia, pantofole invernali con la lampo sul davanti, capelli grossolanamente tinti di nero corvino con ricrescita candida di almeno un mese, giaccone maschile, evidente dono della Caritas diocesana e borsa per la spesa sottratta da un cassonetto alla smania riciclatoria dell’AMA.
Due cose erano rimaste praticamente intatte: il seno esposto a sfidare il mondo e l’immancabile sigaretta senza filtro tra le labbra grigie. Mi disse, sfibrata nell’animo, che i figli le avevano fatto causa per prendersi il monolocale di Torvaianica, sostenendo che lo aveva comprato con i soldi del lavoro del padre e, dunque, spettava a loro.
Quindici giorni dopo, fui di nuovo al cimitero per un’altra funzione funebre, la sua.
Quando gli addetti richiusero la lapide con le due bare fresche e i parenti si allontanarono, ebbi un pensiero irriverente: là sotto, Settimio e Ofelia, avrebbero scopato per l’eternità.
La foto del profilo su Facebook: le differenze tra diverse culture.
– Rassegna Stampa –
Per milioni di utenti la foto profilo dei social network, in particolare di Facebook, sembra essere una questione rilevante: si tratta della prima impressione che possiamo suscitare negli altri e in qualche modo siamo perfettamente consci di quali caratteristiche sono chiaramente visibili e di quali invece sono nascoste scegliendo una foto piuttosto che un’altra.
Anche il fattore culturale però sembra avere un peso. Secondo un nuovo studio pubblicato su International Journal of Psychology vi sarebbero differenze crossculturalinella scelta delle foto del profilo di Facebook: gli utenti occidentali (culture individualiste, americani in questa ricerca) tendono a preferire immagini in primo piano che si focalizzano sul viso del singolo individuo rispetto agli utenti orientali (culture collettivistiche – taiwanesi in questa ricerca) le cui foto di profilo includono maggiori caratteristiche del contesto, cioè del background che sta attorno alla persona ritratta nella foto.
Un aspetto ulteriormente intrigante sarebbe indagare sistematicamente le modalità di autopresentazione sui social network di individui biculturali, per esempio studenti asiatici che frequentano università americane: cosa potremmo aspettarci che accada in questi casi?
Brillanti, sexy, indipendenti e orgogliose: ecco Cougar Town!
Cougar Town - Locandina cinematografica. - Immagine: Proprietà di ABC Studios.
Molto spesso la televisione ci aiuta a rappresentare e comprendere fenomeni sociali complessi, rendendoli semplici e accessibili anche al grande pubblico. Non fa eccezione il telefilm Cougar Town, in onda sul canale americano ABC da Settembre 2009 e trasmesso in Italia a Febbraio 2010 (FoxLife) e maggio 2011 (Canale5).
La protagonista, Jules, è un’avvenente quarantenne da poco divorziata, madre di un ragazzo di 17 anni, che decide di rimettersi in gioco sentimentalmente con uomini più giovani, imbarcandosi in un viaggio alla scoperta di se stessa. Il telefilm ha un taglio leggero e comico, presentando tutte le fragilità di Jules, ma anche la sua forza d’animo.
Il titolo della serie tv ci consente di riflettere su un fenomeno sociale che sembra essere di tendenza negli ultimi anni, stando anche alle riviste di moda e di costume: le cougar women, o donne puma.
Secondo la definizione comune, le cougar sono donne sulla quarantina (o oltre) che scelgono di uscire con uomini decisamente più giovani. Se volessimo trovare “un’icona”, potremmo pensare a Demi Moore e Ashton Kutcher,15 anni di differenza; o ad Amanda Lear e Manuel Casella.
Generalmente, le donne-puma – come Jules nel telefilm – sono economicamente indipendenti, spesso in carriera e con una o più relazioni importanti chiuse alle spalle (tendenzialmente un matrimonio). Si rappresentano come donne impegnate, piene di interessi, attente alla loro forma fisica, alla ricerca dunque di una relazione che possa regalare emozioni e non necessariamente un legame duraturo.
Credo siano molto interessanti gli aggettivi che Linda Franklin, autrice del best seller Don’t ever call me Ma’am – The Real Cougar Guidebook for a life over 40 e fondatrice della community “The real cougar woman” utilizza per descrivere se stessa e le proprie affiliate, tutte donne-puma: smart, sexy, indipendent and proud, (ossia brillanti, sexy, indipendenti e orgogliose). La definizione più completa, invece è la seguente: una donna puma compie scelte non per dovere o per obbligo, ma solo a partire dalla consapevolezza di ciò che è meglio per lei. E’ sempre in crescita e il cambiamento non la spaventa. Capisce quanto sia importante vivere ogni giorno in maniera positiva.
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Definizioni che aiutano forse ad arricchire il mondo delle cougar e ad allargare anche i nostri orizzonti, evitando il rischio di etichettarle esclusivamente come “cacciatrici di uomini più giovani”.
Il fenomeno delle cougar sembra piuttosto sentito – a quanto pare – negli Stati Uniti, dove sono nati anche diversi siti internet che favoriscono gli incontri tra donne mature e uomini più giovani (CougarLife, per citare forse il più famoso).
Il cambiamento della società, e dei legami che la regolano, ha portato – come più volte sottolineato, anche in altri articoli – a mutamenti profondi: assistiamo dunque anche ad un ribaltamento di ruoli. Se prima, infatti, la definizione di predatore o cacciatore era riservata esclusivamente all’uomo, con l’affacciarsi sulla scena delle cougar la situazione si è equiparata o, addirittura, ribaltata.
Ciò che credo sia importante, però, per non banalizzare il discorso e per non rischiare di renderlo uno stereotipo, è il senso di rivincita e di riscatto che sembra accomunare i molti siti “dedicati” alle donne over 40, che si sentono sufficientemente sicure di sé da scegliere un compagno più giovane, senza timore di incorrere in pregiudizi, non per sentirsi loro stesse più giovani, ma forse per valorizzare proprio la femminilità acquisita e maturata lungo gli anni. Il boy-toy (o ragazzo giocattolo), come spesso viene definito il compagno anagraficamente più giovane, perde forse sotto questa luce l’aspetto di oggetto o strumento, per acquisire il valore di compagno di avventura.
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Potremmo forse pensare alle cougar come delle dissidenti rispetto al modello femminile che ultimamente viene proposto, soprattutto dai media. Al di là dell’accompagnarsi ad un ragazzo più giovane – aspetto che fa certamente parte della definizione, ma che non la esaurisce – le donne cougar cercano di portare in primo piano l’indipendenza, la volontà, la capacità di affrontare le sfide che ogni donna ha dentro di sé. In questo modo, e sotto questa luce, potrebbero essere un modello alternativo alla donna piacente a tutti i costi, un po’ bambola, alla ricerca di una gioventù passata. Bisognerebbe capire quanto l’orgoglio per la propria età e l’accettazione dei propri limiti e delle proprie capacità siano effettivi all’interno del “movimento cougar” e, quanto, magari, non sia ancora l’ennesimo adattamento ad una società che vuole i propri componenti assolutamente sempre perfetti.
Psicologia Crossculturale: le Espressioni Facciali non sono universali
Un sorriso e un cipiglio significano la stessa cosa ovunque, o almeno così dicono molti antropologi e psicologi evolutivi, che per oltre un secolo hanno sostenuto che tutti gli esseri umani esprimono le emozioni di base allo stesso modo. Ma sarà davvero così?
Un nuovo studio della percezione delle persone di facce generate al computer suggerisce che le espressioni facciali non possono essere universali e che la nostra cultura modella fortemente il nostro modo di leggere ed esprimere le emozioni.
L’ipotesi che le espressioni facciali trasmettano lo stesso significato nel mondo ci riporta a Charles Darwin. Il famoso naturalista identificò sei stati emozionali di base: la felicità, sorpresa, paura, disgusto, rabbia e tristezza. Questo suo studio fu poi ripreso e rielaborato scientificamente dal prof. Paul Ekman.
Questa la base del ragionamento di Darwin: se le espressioni facciali sono tratti culturali, tramandati attraverso le generazioni per imitazione, il loro significato nel mondo sarebbe oggi divergente. Un sorriso sarebbe il segnale di felicità per alcuni e disgusto per gli altri. Ma non è quello che ha trovato, in base alla sua corrispondenza con i ricercatori di tutto il mondo utilizzando le foto delle varie espressioni facciali. Quindi Darwin ha concluso che gli antenati comuni di tutti gli esseri umani viventi hanno avuto le stesse emozioni di base, con le corrispondenti espressioni facciali come parte della nostra eredità genetica. Sorrisi e cipigli sono biologici, non culturali.
Oppure? Rachael Jack, una psicologa dell’Università di Glasgow nel Regno Unito, dice che c’è un difetto fondamentale negli studi di espressione facciale condotti dai tempi di Darwin: i ricercatori hanno utilizzato le sei espressioni di base di Darwin come punto di partenza, ma bisogna tenere conto del fatto che queste espressioni sono stati identificate da scienziati europei occidentali studiando volti europei occidentali. Il fatto che soggetti non occidentali siano in grado di riconoscere le emozioni da fotografie di tali espressioni facciali è stata presa come supporto per l’ipotesi di universalità (celando così un errore causato da un approccio eurocentrico). Ma cosa succede se le culture non occidentali hanno diverse espressioni di base che sottendono le loro emozioni? Tali espressioni possono essere simili a quelle degli occidentali, ma con sottili differenze che sono passate inosservati perché nessuno le ha indagate.
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Per testare la vera universalità delle sei categorie emozionali di Darwin, la dottoressa Jack e colleghi hanno usato un programma di computer per creare le facce virtuali con 4800 espressioni. Il programma genera le facce dalla contrazione virtuale di muscoli facciali, tirando gli angoli della bocca su o giù, allargando o restringendo gli occhi, e così via. La metà delle espressioni sono state mostrate su un volto occidentale caucasico e l’altra metà su un viso orientale.
Poi il team di Jack ha chiesto ai volontari di decidere quali emozioni i volti stavano esprimendo. I ricercatori hanno testato 15 immigrati asiatici, con un sondaggio per assicurarsi che avevano trascorso solo un minimo periodo di tempo in occidente. Hanno anche reclutato 15 occidentali caucasici come gruppo di controllo. Per ciascuno dei 4800 volti, i soggetti potevano scegliere una delle sei categorie emozionali di base di Darwin e il livello di l’intensità dell’espressione su una scala a cinque punti. Se non percepivano una chiara espressione su un volto, i soggetti potevano riferire, “Non lo so.” Se le emozioni fondamentali di Darwin sono universali, tutti i soggetti devono far corrispondere le stesse facce con le stesse emozioni.
Non è quello che il team di ricerca ha trovato. Per gli occidentale caucasici, le sei espressioni emozionali di base di Darwin corrispondono per tipo e intensità. Ma i soggetti asiatici non hanno visto le facce allo stesso modo : il team lo riporta oggi on-line nei Proceedings della National Academies of Science . Sorridere significava la stessa cosa per tutti, ma le risposte da parte dei soggetti asiatici non hanno formato categorie chiare, soprattutto per i volti che esprimevano sorpresa, paura, disgusto e rabbia.
I ricercatori concludono che gli occidentali caucasici utilizzano una serie distinta di muscoli facciali per esprimere le emozioni di base. Ogni cultura può avere espressioni fondamentali, ma non sono necessariamente condivise da altre culture. Per gli asiatici, Jack ipotizza che le espressioni facciali siano costruite da altre emozioni fondamentali, come “vergogna, orgoglio, o senso di colpa.”
Lo studio è “una forte sfida alla convinzione diffusa che certe espressioni emotive abbiano una base biologica “, spiega Lisa Feldman-Barrett, ricercatore della Northeastern University di Boston. “Questa convinzione sta facendo del male” dice “Per prima cosa, le difficoltà a riconoscere le espressioni facciali possono essere usate per diagnosticare le patologie psichiatriche. Inoltre, nei soli Stati Uniti, milioni di dollari ogni anno vengono spesi sull’applicazione della legge e la formazione alla sicurezza per ‘leggere’ l’emozione sui volti“. Ma se questi volti appartengono a persone di culture diverse, le loro emozioni e le intenzioni possono essere in qualche modo “illeggibili”.