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Neuroscienze e Psicologia: Intervista a Cristiano Castelfranchi

 

Neuroscienze e Psicologia: Intervista a Cristiano Castelfranchi.
Cristiano Castelfranchi, docente di Scienze Cognitive all'Università di Siena, e direttore dell'Istituto di Scienze e Tecnologie della Cognizione

Abbiamo incontrato il Professor Cristiano Castelfranchi, docente di Scienze Cognitive all’Università di Siena, e direttore dell’Istituto di Scienze e Tecnologie della Cognizione -CNR, a Roma. L’attività di ricerca del Prof. Castelfranchi abbraccia diversi campi della psicologia e spazia dai Sistemi Multi-agente, alle Simulazioni Sociali e alle Scienze Cognitive.

 

D.: La Psicologia ha dei modelli ancora primitivi, per usare le sue parole. Secondo lei quale direzione dovrebbe prendere la ricerca per creare modelli migliori del funzionamento della mente?

Il problema dei modelli della psicologia è che non c’è sufficiente attenzione all’analisi sistematica dei concetti e una approfondita discriminazione tra essi e la ricerca di modelli operazionali. Operazionali vuol dire che i processi implicati e i costituenti postulati sono definiti in modo disambiguo, in maniera computazionale, implementati ingegneristicamente, sui computer, simulati, resi espliciti. Facendo attenzione al rischio di un eccessivo “senso comune” dei concetti. Ad esempio per modellare la “Fiducia” devi fare prima un lavoro analitico e sistematico su cosa centralmente significa, i vari tipi, i sottotipi, lo stesso per il “Senso di Colpa”: cosa esattamente significa, qual è quello veramente tipico, qual è un abuso del termine e via dicendo. In psicologia non c’è molta pazienza per questo tipo di lavoro analitico. Lo si prende per un lavoro da filosofi, invece il lavoro sulla teoria è fondamentale, in caso contrario si avranno sempre modelli “abborracciati” o puramente induttivi, cioè desunti a posteriori dalle correlazioni tra i dati empirici. E’ chiaro che il dato empirico è fondamentale per validare e sviluppare il modello, ma non puoi desumerlo e costruire la teoria dalle correlazioni tra dati empirici.

Un’altra direzione inevitabile è rapportarsi alle neuroscienze. I modelli di psicologia per essere validi dovranno trovare corrispondenza nei processi cerebrali e in generale corporei. Tuttavia le neuroscienze ad oggi procedono in modo ancora più grezzo e pretendono di trovare dei correlati immediati di fenomeni comportamentali o psicologici, facendo un lavoro di localizzazione, che dice quasi nulla. Fa una specie di mappatura geografica del cervello: qui sta la fiducia, qui sta la paura, qui sta la previsione, qui sta la pianificazione. Non si chiede: in che consiste il processo di pianificazione? Perchè si attivano queste aree e non queste altre? Questo si può fare solo con modelli molto articolati, che la psicologia dovrebbe fornire e con un riscontro in chiave cerebrale di questi modelli articolati, di sottofunzioni e sottomeccanismi che vengono identificati.

Queste due direzioni, lavoro teorico più serio, modelli computazionali e simulati e loro corrispettivo neurale sono quelle verso cui la psicologia si dovrebbe sviluppare.

 

D.: Lo sviluppo di queste due direzioni che vantaggi potrebbe avere dal punto di vista clinico?

L’analiticità in clinica dovrebbe dare l’anatomia su cui si lavora. Se non conosco le componenti di un determinato fenomeno, quali sono le strutture retrostanti implicate, i micro meccanismi nascosti, non so esattamente su che cosa opero. E magari vedo, per tradizione, una o due manovre possibili, quando invece ne potrei fare dieci diverse andando a incidere sulle specifiche sottoparti e i sotto meccanismi di quel processo o rappresentazione mentale.

 

D.: Un intervento più mirato, più efficace…

Forse più efficace, ma con maggiore consapevolezza dei meccanismi in ballo e di cosa vado a toccare e vado a cambiare. Ovviamente non con una visione atomistica sommatoria, con la consapevolezza che se un fenomeno implica 5 componenti, queste hanno dei rapporti tra loro, in una dialettica interna, non sono una somma, separate. Sono una molecola, una struttura organica. Quindi hanno delle proprietà collettive e interferiscono l’una con l’altra.

 

D.: Cambiando un po’ argomento… lei ha detto che la società sembra proceda verso una fobia della sofferenza e che richieda all’individuo di essere sempre attivo, un ideale dell’uomo “cocainomane”

Una delle ragioni è il sistema economico attuale. In cui c’è un’enfasi fortissima alla produttività e alla produzione ed ogni aspetto della vita umana è sottoposto e reso strumentale allo sviluppo e all’andamento economico. Una volta eravamo prima di tutto produttori, adesso siamo prima di tutto consumatori. L’imperativo tassativo è “consumare, consumare, consumare” e “produrre, produrre, produrre”. Il tuo valore dipende da questo. Il tuo esito sociale dipendo da questo. L’andamento della società dipende da questo. C’è una coazione disperata a rendere ogni aspetto della vita produttivo, incoraggiare gli atteggiamenti, le competenze, i vissuti e le emozioni in chiave produttiva. Un cambiamento culturale spettacolare negli anni: nell’Ottocento esisteva la forza lavoro, il capitale era le macchine, il denaro, le proprietà e il capitale umano: la forza lavoro. Poi il capitale è diventato la conoscenza, un capitale cognitivo.

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Il patrimonio cognitivo e il capitale cognitivo dell’azienda come parte qualificante, quello che contava era la conoscenza. Quindi il problema del manager era la gestione della conoscenza, come tirarla fuori, farla circolare, come renderla patrimonio collettivo. Adesso non basta più, la conoscenza e il saper fare, i cosiddetti patrimoni untangibles, adesso conta anche la motivazione, l’umore. Diventa un problema dello stesso mondo capitalistico “la tua felicità”, diventa un indice importante non solo la misura del benessere, ma anche quella della felicità, il volere motivare in questa direzione. Tutto questo ha due facce, una positiva che fa una visione più completa ed equilibrata del benessere, una, preoccupante, che individua fattori diretti di produzione economica fattori del tutto personali e privati, come gli stati dell’umore, le conoscenze, le motivazioni. C’è un’ingerenza potentissima nel nostro sviluppo personale, subordinato agli interessi generali e allo sviluppo della ricchezza nel senso di denaro, di mercato. Questa è la ragione di questa strana “pompatura” in certe direzioni produttive della vita. Poi ci sono gli aspetti culturali, che non dipendono da quelli economici. E’ certamente impressionante che ci sia questa rimozione degli aspetti dolorosi della vita, il lutto, che la comunità non voglia comunicare spazio e attenzione alla morte, al supporto del lutto, alla memoria, che non voglia supportare le persone che stanno male, che bisogna sbrigarsi rapidamente ad uscirne.

Dovremmo interrogarci su questo, gli psicologi soprattutto; stiamo adottando un ideale di vita deformato, strano, anomalo, in cui “lo star bene veramente” si traduce con uno stato dell’umore non solo piacevole, ma anche attivo e motivato. Una volta non era così, il sentimento più positivo era la serenità, la letizia della vita contemplativa, non attiva, “gasata”. Dovremmo preoccuparci di questi cambiamenti culturali, tanto più se nell’immaginario si diffonde inconsciamente che soffrire, avere dolore, star male, stare in pena è una cosa da sgombrare, da mandare via, è patologico, qualcosa da curare. No! E’ un equivoco, non è che star bene di mente è stare lieti e motivati. Uno può essere molto contento, molto lieto, molto gasato ed essere da ricovero coatto. La letizia è giustificata dagli eventi, dai fatti? O è uno stato dell’umore improprio e delirante? Non è la qualità dell’umore che lo rende sano o non sano, ma la sua appropriatezza e pertinenza. Anche lo psicologo deve stare attento alla richiesta che gli viene fatta e a questi stereotipi culturali e deve domandarsi se lo stato dell’umore sia cattivo in sé perché la persona sta male o perché sia effettivamente fuori luogo. Se lo prova su pensieri infondati, in circostanze, con modalità, con intensità inappropriate o se non è in grado di provare certi stati dell’umore auspicabili.

 

D.: Lo psicologo-psicoterapeuta dovrebbe allontanarsi da questo tipo di valori della società?

Dovrebbe avere la capacità di porsi a un metalivello, di osservare se stesso e la propria professione e la domanda che la società gli pone da fuori, chiedendosi se è giusto il ruolo che gli si attribuisce o se passa da una deformazione culturale e commerciale. Osservare se stesso e la propria professione in maniera critica. Non è facile. Ma in tutte le professioni dovrebbe essere così, anche un insegnante dovrebbe osservarsi da fuori.

 

D.: Un’ultima domanda, se dovesse dare un consiglio allo psicologo-psicoterapeuta moderno, quale sarebbe?

Rivendicare nel modo giusto il proprio ruolo e la propria professionalità. Non confondere il proprio valore, il proprio riconoscimento, il riconoscimento di un setting, che è una pura ritualità, il riconoscimento di certe modalità “devo fare il colloquio chiuso nella stanza, sennò non sto facendo il mio mestiere”, queste sono scempiaggini! E creano grossi problemi nei Servizi. La capacità e la professionalità dello psicologo consiste nella sua modalità di leggere i fenomeni, nel leggere i comportamenti individuali, relazionali e sistemici con chiavi di lettura che gli altri non hanno e sulla base di questo il significato di certi interventi, verbali, affettivi, relazionali o anche pratici. E’ l’unico che ha le chiavi di lettura per un progetto di intervento unitario, che sa mettere insieme l’aspetto sociale e l’aspetto economico, di colloquio. Lì deve rivendicare la sua professionalità, non in cose simboliche e rituali, ma che gli venga riconosciuto che ha gli strumenti interpretativi e di lettura degli interventi e di cosa si può cambiare che gli altri non hanno. Questo gli deve essere riconosciuto esplicitamente, senza delegare ad altre figure competenze sue, non avere come ideale il setting privato e come rivendicazione il colloquio settimanale. Si può essere un grande psicologo e fare un eccezionale lavoro clinico anche andando a casa, accompagnando la persona al bar, vedendo i familiari. Il problema è solo come lo fa.

 

Bergen Work Addiction Scale: per misurare la Dipendenza dal Lavoro.

– Rassegna Stampa – 

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze PsicologicheSulla scia della globalizzazione e delle nuove tecnologie i confini tra lavoro e vita privata sono sempre più sfumati e si assiste ad un aumento della dipendenza da lavoro; workaholic è il termine usato per descrivere proprio la tendenza di alcuni a lavorare troppo e in modo compulsivo.

Secondo diversi studi la dipendenza da lavoro, oltre a creare conflitto tra lavoro e vita familiare, sarebbe associata all’insonnia, a problemi di salute, burnout e stress. Un team di ricercatori guidati dal dott. Cecilie Schou Andreassen della facoltà di psicologia dell’università di Bergen (UiB) in collaborazione con la Bergen Clinics Foundation e la Nottingham Trent University, ha sviluppato uno strumento per misurarla: la Bergen Work Addiction Scale. Questo nuovo strumento, primo del suo genere in tutto il mondo, si basa su elementi nucleari riconosciuti come criteri diagnostici in molte forme di dipendenza.

Autosomministrandosi la Bergen Work Addiction Scale, le persone possono testare il loro grado di dipendenza da lavoro: non-addicted, leggermente drogato o workaholic.

La scala, che è stata costruita testando dipendenti norvegesi provenienti da 25 diversi settori, riesce a distinguere in modo affidabile tra maniaci del lavoro e non; per questo si pone come un ottimo strumento di screening che può facilitare sia il trattamento che la stima dell’entità del problema nella popolazione generale di tutto il mondo.

Volete fare una prova? Rispondete al breve questionario che segue e testate il vostro livello di dipendenza dal lavoro!

La Bergen Work Addiction Scale utilizza sette criteri di base per identificare la dipendenza del lavoro, ciascun item avrà uno dei seguenti punteggi: (1) Mai, (2) Raramente, (3) A volte, (4) Spesso, e (5) Sempre:

– Pensi a come avere più tempo a disposizione per lavorare.

– Spendi molto più tempo lavorando di quanto inizialmente previsto.

– Lavori per ridurre il senso di colpa, ansia, impotenza e depressione.

– Capita che altri vi dicano che dovete ridurre il lavoro, senza che voi gli diate retta

– Ti senti stressato se non ti è permesso di lavorare.

– Togliete importanza agli hobby, al tempo libero, e all’esercizio fisico a causa del vostro lavoro.

– Lavorate così tanto che questo ha influenzato negativamente la vostra salute.

 

Lo studio di Andreassen mostra che il punteggio di 4 (spesso) o 5 (sempre) in almeno quattro dei sette elementi è un indicatore della probabilità di essere un workaholic…

 

 

BIBLIOGRAFIA: 

Riciclo e Raccolta Differenziata: la Psicologia dietro al cambiamento

 

Riciclo e Raccolta Differenziata: Psicologia di un cambiamento.  Immagine:  © ana_klea - Fotolia.comDa un punto di vista psicologico, il riciclo e la raccolta differenziata  non consistono semplicemente nel gettare una bottiglia, o un pezzo di carta in un particolare cestino, ma costituiscono un’operazione che coinvolge diversi processi all’interno di contesti specifici.

Il fatto che le autorità locali e le compagnie di servizi siano ritenute capaci di fornire infrastrutture sufficienti per il riciclo non è solo un problema pratico ma anche una questione di percezione pubblica. Pertanto, l’importanza del contributo psicologico diventa evidente ogni volta che l’attenzione è rivolta agli atteggiamenti che sottostanno alla percezione della raccolta differenziata e del riciclo, al contesto sociale in cui questa attività ha luogo, nonché alla relazione tra le attività ecologiche e l’immagine di Sé.

Oggigiorno, un numero sempre più consistente di prove consente di affermare che gli interventi classici, caratterizzati dalla manipolazione del comportamento, come premi e punizioni, non sembrano avere il potenziale per promuovere cambiamenti a lungo termine, ma funzionano come semplici meccanismi per incrementare i livelli di partecipazione durante le fasi iniziali dei programmi di raccolta differenziata.

Psicologia delle Migrazioni: Globalizzazione & Nostalgia di Casa. - Immagine: © carlosgardel - Fotolia.com
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Diversamente, interventi basati sull’impegno (commitment interventions), sulla fissazione di obiettivi (goal-setting), sui feedback o sulla stimolazione (prompting) risultano più efficaci perché fanno appello ad una dimensione normativa, personale e sociale, che mobilita meccanismi auto-regolatori dell’individuo e/o del gruppo verso una partecipazione continuativa.

È stato ampliamente dimostrato che l’induzione di una norma chiara sul riciclo in gruppi psicologicamente influenti, come i membri di un vicinato, sia fondamentale per la promozione di una ristrutturazione nei comportamenti di ciascun membro della comunità. A prescindere dagli atteggiamenti personali riguardanti il riciclaggio e l’ambiente, l’assenza di tale norma costituisce un grosso ostacolo alla partecipazione ai programmi di raccolta differenziata dei rifiuti e favorisce lo sviluppo di pregiudizi nei confronti di chi ricicla. Essi, infatti, vengono facilmente etichettati come “strani”, “diversi”, “alternativi”, perché non aderiscono a norme sociali più forti, incompatibili con questo comportamento ecologico.

In conclusione, appare evidente che per favorire lo sviluppo di norme ecologiche pro-riciclo e di una cultura del riciclaggio sia necessario presentare degli stimoli che descrivano la raccolta differenziata con un’immagine di successo, in cui tutti abbiano da guadagnare, nonché promuovere un’atmosfera sociale nella quale l’immagine di sé come riciclatore sia positiva ed incoraggiata.

 

 

BIBLIOGRAFIA:  

  • Lyons, E., Uzzell, D. L., Storey, L. (2002). Surrey waste attitudes and actions study: Final report (Report). University of Surrey, Guildford.
  • Nigbur, D., Lyons, E., Uzzell, D., Muckle, R. (2004). The Surrey scholar research project in waste recycling 2003-2004 (Full Report). University of Surrey, Guildford.
  • Oskamp, S., Burkhardt, R. L., Schultz, P. W., Hurin, S., Zelezny, L. (1998). Predicting three dimensions of residential kerbside recycling: An observational study. Journal of Environmental Education, 29, pp. 37-42.
  • Ouwerkerk, J. W., De Gilder, D., De Vries, N. K. (2000). When the going gets tough, the tough get going: Social identification and individual effort in intergroup competition. Personality and Social Psychology Bulletin, 26, pp. 1550-59.
  • Porter, B. E., Leeming, F. C., Dwyer, W. O. (1995). Solid waste recovery: A review of behavioural programmes to increase recycling. Environment and Behaviour, 27, pp. 122-52.
  • Nigbur, D., Lyons, E., Uzzell, D. (2010). Attitudes, norms, identity and environmental behaviour: Using an expanded theory of planned behaviour to predict participation in a kerbside recycling programme. British Journal of Social Psychology, 49, pp. 259–284
  • Vining, J., Ebreo, A. (2002). Emerging theoretical and methodological perspectives on conservation behaviour. In: R. B. Bechtel, A. Churchman (Eds.), Handbook of environmental psychology (pp. 541-59), Wiley, New York.

Stereotipi, Pregiudizi ed Euristiche

Stereotipi, Pregiudizi ed Euristiche. - Immagine: © 1012 Costanza Prinetti.
Immagine: Stereotipi © 1012 Costanza Prinetti.

 

Nella società contemporanea sempre più spesso sono propinati dai media stereotipi di qualsiasi genere, basti pensare che nel linguaggio comune spesse volte si parla facendo riferimenti a immagini viste in pubblicità o motti proposti da fantomatici comici. Nel lungo periodo tutto questo si riflette sulle nostre abitudini fino a non farci distinguere cosa è realmente giusto da cosa non lo è, e lo stereotipo diventa un pregiudizio, che se non sottoposto a critica induce a comportamenti classisti e razzisti. Entrando nel vivo del discordo è opportuno effettuare delle precisazioni.

Il concetto di stereotipo proviene dall’ambiente tipografico ed indica la riproduzione di immagini a stampa per mezzo di forme fisse. Dopo essere stato introdotto nell’ambito delle scienze sociali assunse la connotazione di mezzo atto a conoscere la realtà attraverso delle immagini mentali (apprese o fantasticate).

Una storia di Pregiudizio. - Immagine: © sunnychicka - Fotolia.com
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Tali immagini sono delle semplificazioni spesso molto rigide, e si formano facendo riferimento agli usi e ai costumi specifici di una determinata realtà culturale e possono avere valenza positiva o negativa. Sono acquisiti dai singoli individui e utilizzati per una efficace comprensione della realtà. Gli stereotipi svolgono una funzione difensiva per la persona: contribuiscono al mantenimento di una cultura e salvaguardano le posizioni acquisite.

Lo stereotipo, in molti casi, è intimamente legato al pregiudizio, poiché è una rappresentazione mentale di un preconcetto, vale a dire l’insieme degli elementi di informazione e delle credenze circa una certa categoria di oggetti, rielaborati in un’immagine coerente e tendenzialmente stabile, in grado di sostenere e riprodurre il pregiudizio nei loro confronti. Il pregiudizio come afferma la parola stessa è un giudizio che precede l’esperienza, si forma in assenza di dati empirici, per questo spesse volte errati, forzosi, affettati.

Già Bacone fornì una classificazione degli errori o illusioni dello spirito (idola mentis) che si allontanano dalla vera conoscenza del mondo. Di conseguenza si determina la tendenza ad esprimere un giudizio, su qualcuno o qualcosa, sulla base di pregiudizio che condiziona in maniera pesante le sue scelte.

Ma come si passa dallo stereotipo al pregiudizio?
Qualsiasi cambiamento, da sempre, genera ansia e intolleranza all’incertezza, che nel momento in cui diventa ingestibile determina uno schema mentale molto rigido attraverso il quale si interpreta la realtà. Quindi, accade che le persone o i gruppi creino delle rappresentazione degli altri, sulla base di inadeguate informazioni che permettono di generalizzare un comportamento, basandosi su dati reali esagerati (stereotipo). Se ad esso vengono associati giudizi, opinioni e sentimenti negativi, sostenuti persino di fronte alla prova del contrario, si genera un pregiudizio. Si può affermare che lo stereotipo è legato a un livello percettivo – mentale, ossia quell’insieme di credenze negative che un gruppo sociale ha nei confronti di un altro gruppo.

Il pregiudizio, invece, rientra nella sfera emotiva: è una valutazione a priori che un gruppo effettua nei confronti di un altro gruppo. Esso influenza le scelte e gli atteggiamenti (l’agito). Una persona è, allora, catalogata e valutata in base a tali modelli precostituiti, che hanno la funzione di allontanare da un pericolo presunto, ma impediscono una conoscenza reale della persona concreta. 

La mente umana mantiene gli stereotipi non per una deprecabile tendenza all’errore, ma per non rimanere senza schemi e senza aspettative; talvolta per ottenere la riduzione degli stereotipi è sufficiente fornire alternative. Questo processo il più delle volte diventa difficile, poiché interagendo con gli altri sulla base dei propri stereotipi si selezionano, caleidoscopicamente, solo una serie di comportamenti e azioni che confermano lo schema mentale e in quanto tale portano all’affermazione del pregiudizio, profezia che si auto-avvera.

Tutto questo, da un punto di vista cognitivo porta benefici a lungo termine, ovvero crea la possibilità di acquisire informazioni con il minimo sforzo e di incamerarne altre facendo riferimento a quanto già appreso. Si creano in questo modo delle euristiche, ossia strategie di pensiero semplificate, delle vere e proprie scorciatoie cognitive che permettono alle persone di giungere rapidamente a valutazioni e decisioni.

Si ricorre alle euristiche quando è necessario elaborare giudizi complessi e il numero delle informazioni a disposizione è troppo elevato. In questo caso la mente cerca degli escamotage che permettano di ridurre il tempo di elaborazione dei dati al fine di prendere una decisione economica in termini cognitivi. Tuttavia le euristiche, se da un lato semplificano il lavoro della nostra mente, dall’altro possono portare a conclusioni errate o semplicistiche. Sicuramente per la mente operare secondo questi stili decisionali apporta dei benefici in termini di economia cognitiva, per questo veloci e sbrigativi. E’ necessario sapere che questa modalità di pensiero potrebbe non corrispondere esattamente alla realtà dei fatti e per questo andrebbe sottoposta a una ulteriore e più approfondita valutazione.

 

 

BIBLIOGRAFIA:  

  • Mazzara, B.M. (1997). Stereotipi e pregiudizi. Il Mulino, Bologna.
  • Tversky, A., & Kahneman, D. (1974). Judgment under uncertainty: Heuristics and biases. Science, 185, 1124–1131.
  • Tversky, A., & Kahneman, D. (1981). The framing of decisions and the psychology of choice. Science, 211, 453–458.
  • Tversky, A., & Koehler, D. J. (1994). Support theory: A nonextensional representation of subjective probability. Psychological Review, 101, 547–567.

Una storia di Pregiudizio.

 

Una storia di Pregiudizio. - Immagine: © sunnychicka - Fotolia.comQualche giorno fa, dopo una lunga ed estenuante giornata di lavoro, mi accingevo a tornare finalmente a casa. La metropolitana era gremita di gente, soprattutto tifosi entusiasti nell’attesa di poter assistere alla tanto ambita partita milan-barcellona. Ed ecco arrivare la mia corsa, e la voglia di casa impazzava. In attesa di poter salire, una signora di mezza età dal fare austero mi spinge contro il poggia mani, che prontamente cerco di afferrare senza successo facendomi male ad una spalla. Di conseguenza, invito la signora a non perseverare e lei difende il suo fare sostenendo che se non mi avesse spinta io non mi sarei spostata, ignorando la restante parte di gente. Ha continuato ammonendomi, “proprio TU devi stare zitta!”. Ed io, “come mai signora, cosa ho fatto?”. E dopo aver farfugliato insulti che vi risparmi ecco le educate parole, “tu sei una di campagna, quindi devi stare zitta!?!”. Per la prima volta nella mia vita sono stata oggetto di razzismo, di pregiudizio, o di giudizio. Che brutta sensazione! Tanta rabbia, tanta amarezza! Allora, decido di fare un passo a ritroso e capire realmente cosa succede, quando si è soggetti a queste manifestazioni.

Stereotipi, Pregiudizi ed Euristiche
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Sicuramente, il pregiudizio e il razzismo hanno causato enormi sofferenze attraverso la storia, proprio per questo è molto importante cercare di capire come agiscono. Cosa si intende, per pregiudizio e per Razzismo? Entrambi i termini si riferiscono a una visione negativa di un gruppo di persone basate unicamente sulla loro appartenenza a quel gruppo o etnia. Il razzismo, in particolare, è una specifica forma di pregiudizio, che coinvolge gli atteggiamenti o comportamenti pregiudizievoli nei confronti dei membri di un gruppo etnico. Di conseguenza, si creano degli stereotipi, ossia si individuano tratti particolari che portano una persona a sentirsi parte di un determinato gruppo. Si tratta, dunque, di luoghi comuni, ad esempio gli asiatici sono laboriosi e studiosi, gli ispanici sono dei “macho”, i bibliotecari sono introversi, e le cubiste sono donne di “cattivo affare”.

A lungo andare questi stereotipi assumono connotazioni e accezioni negative e seguono di pari passo il pregiudizio. Quando ciò accade il pregiudizio si fonde con lo stereotipo. Per definizione, gli stereotipi sono limitativi e ignorano l’individualità delle persone, si perde quello che realmente si è per diventare stereotipo stesso.

Quindi, chi è immigrato, diventa automaticamente emarginato, poiché non autoctono, non integrato, e perpetuando questi schemi, non lo sarà mai.

Credo che in ognuno di noi ci sia una parte dedita al pregiudizio, in fondo fa parte del nostro essere e se così non fosse stato non avrebbe creato dei problemi. D’altra parte ciascuno potrebbe essere vittima di pregiudizi per un motivo qualsiasi. La soluzione non è celarsi dietro falsi perbenismi, o moralismi, ma accettare di poterlo esprimere e di esserne vittima. Solo l’accettazione potrebbe portare a una soluzione, il riconoscere i propri limiti aiuta a non vedere inutili appendici o false etichettature negli altri.

 

BIBLIOGRAFIA: 

  • Brewer, MB & Campbell, D. (1976) atteggiamenti etnocentrismo e Inter-Group:.. Prove East African New York: Sage Publications.
  • Processi del Gruppo Brown, R. (2000)., 2nd Edition. Malden, MA: Blackwell Publishing.
  • Wright, D. & Taylor, DM (2009). “La psicologia sociale della diversità culturale: Social pregiudizi, stereotipi e discriminazione,” SAGE Handbook of Social Psychology, Student Edition Concise. M. Hogg & J. Cooper (a cura di), Los Angeles, CA: SAGE Publications, pps. 361-387.  

Magrezza non è bellezza. Ansia di Perfezione e il ruolo dei genitori nei Disturbi Alimentari.

Sandra Sassaroli:
Magrezza non è bellezza. L’ansia di perfezione e il ruolo dei genitori nei disturbi alimentari. 
 
 
 

Sviluppi traumatici e rischio di Psicosi in età adulta.

– Rassegna Stampa – 

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze PsicologichePer molti anni la ricerca nel campo della salute mentale si è concentrata sui fattori biologici che stanno dietro patologie psichiatriche come la schizofrenia, il disturbo bipolare e la depressione psicotica, ma ci sono sempre più evidenze che suggeriscono che questi disturbi non possano essere del tutto compresi senza considerare le esperienze di vita dei singoli pazienti.

Un team di ricercatori della Liverpool e della Maastricht University nei Paesi Bassi sostiene che bambini che soffrono di traumi gravi sono tre volte più a rischio di sviluppare la schizofrenia in età adulta. La ricerca che gli ha permesso di arrivare a questi risultati è la prima a riunire ed analizzare i risultati di più di 30 anni di studi che si sono occupati dell’associazione tra trauma infantile e lo sviluppo di psicosi. I ricercatori hanno esaminato più di 27.000 articoli di ricerca per estrarre i dati provenienti da tre diversi tipi di studi: quelli sui progressi di bambini con un infanzia difficile; studi randomizzati; e ricerche sui pazienti psicotici che sono stati interrogati sulla loro infanzia.

In tutti i tre tipi di studi i risultati hanno portato a conclusioni simili: i bambini che hanno sperimentato traumi prima dei 16 anni hanno circa tre volte più probabilità di diventare psicotici in età adulta rispetto a quelli selezionati in modo casuale. I ricercatori hanno trovato una relazione tra la gravità del trauma e la probabilità di sviluppare una malattia psichiatrica successivamente nel corso della vita: in chi ha subito gravi traumi precoci il rischio è fino a 50 volte più alto, rispetto a chi ha subito traumi più lievi.

La squadra di Liverpool non si è limitata ad analizzare i risultati di ricerche precedenti, ma ha anche condotto un nuovo studio che ha esaminato la relazione tra sintomi psicotici specifici e tipo di trauma vissuto nell’infanzia: traumi di tipo diverso conducono a sintomi differenti. L’abuso sessuale infantile, per esempio, è stato associato ad allucinazioni, mentre il crescere in orfanotrofio è stato associato alla paranoia. La ricerca suggerisce inoltre una forte relazione tra l’ambiente e lo sviluppo della psicosi, e fornisce indizi circa i meccanismi che portano alla malattia mentale grave.

I ricercatori si occuperanno ora dei processi psicologici e cerebrali coinvolti nei diversi tipi di sintomi psicotici e nei diversi tipi di trauma. La ricerca futura avrà anche lo scopo di chiarire perché i sintomi psicotici possono esprimersi solo in età avanzata, nonostante si siano innescati molti anni prima, durante l’infanzia.

 

 

BIBLIOGRAFIA:  

Superare la colpa in due terapeuti italiani: Davide Lopez e Francesco Mancini

 

Superare la colpa di due terapeuti italiani: Davide Lopez e Francesco Mancini - Immagine: © Andrea Danti - Fotolia.comDavide Lopez e Francesco Mancini sono due terapeuti italiani che si sono entrambi occupati di colpa. Oltre ciò, apparentemente nulla in comune tra loro. Non solo perché l’uno psicoanalista e l’altro cognitivista. È una coppia improbabilissima. A essi si adatta bene la metafora troppo usata dell’acqua e dell’olio. Non si mescolano e non interagiscono. Chi conosce Lopez quasi sicuramente nulla sa di Mancini, e viceversa. È necessario quindi fornire qualche cenno biografico.

Davide Lopez è stato un importante psicoanalista italiano. Si formò a Londra, dove incontrò Anna Freud, Winnicott, Bion e altri ancora. Entrò quindi in contatto con l’ortodossia (anna)freudiana, con la semieresia kleiniana e con gli indipendenti del terzo gruppo. Tornato in Italia negli anni ’60, in quarant’anni sviluppò un suo percorso molto personale, a tratti quasi idiosincraticamente personale. L’originalità di Lopez risiedeva nel fatto che nell’ultima fase della sua ricerca teorica era (quasi) giunto a metter Nietzsche al posto di Freud. Questo significava che Lopez raccomandava un tipo di sanità mentale fondato sul riconoscimento del desiderio e non sul controllo morale esercitato dal SuperIo, mentre invece –secondo Lopez- il tardo Freud indulgeva al moralismo superegoico (le mani mi tremano mentre uso questi termini a me –cognitivista- poco familiari). In termini cognitivisti potrei azzardare che Lopez sembrava raccomandare un intervento di accettazione non giudicante dei propri stati mentali accanto alla loro ristrutturazione razionalistica e adattativa. Egli, spesso in compagnia della sua collega e compagna Loretta Zorzi, espose questi suoi pensieri in libri dal sapore quasi sapienziale e applicò gli aspetti clinici alla cura dei depressi (Lopez, 2011; Lopez, Zorzi, 2003).

Storie di Terapie #5 - Simone l'Ossessivo. - Immagine: © Oleksii Sergieiev - Fotolia.com
Articolo consigliato: Storie di Terapie #5 – Simone l’Ossessivo.

È vero che il Nietzsche di Lopez è –per fortuna- quello più solare e sorridente e bisognoso di contatto umano e di affetto (ah, leggiamo una biografia di Nietzsche e scopriamo quanto fosse solo al mondo e timidissimo e affamato d’amore e d’amicizia come un tenero cagnolino–era un supercagnolino, in verità- e così goffo e perfino bislacco nel ricercarle), mentre le smargiassate più provocatorie di Nietzsche, quelle della bestia bionda, del disprezzo della massa degli schiavi, sono respinte da Lopez come megalomania adolescenziale. Per fortuna, di nuovo.

Francesco Mancini è uno dei maggiori cognitivisti clinici italiani. Da sempre interessato alla comprensione del disturbo ossessivo compulsivo, lo ha descritto in termini cognitivi come frutto di un senso eccessivo e pervasivo di responsabilità. Ipotesi che era già di Paul Salkovskis. Tuttavia Mancini l’ha sviluppata, dimostrando con un esperimento elegante che lo stato mentale della colpa, il timore di fare del male a qualcuno, quando si aggiunge a quello della responsabilità, del dover rispondere che qualcosa sia fatto secondo correttezza, è in grado di aggravare il livello di ossessività controllante. In seguito Mancini ha ulteriormente approfondito con finezza vari tipi di senso di colpa, distinguendo (anche dal punto di vista neurologico) senso di colpa altruistico –timore di recare danno ad altri- e senso di colpa deontologico –timore di violare le regole-. E così via.

Mancini però non è soltanto un ricercatore, ma anche e prima di tutto un terapeuta. E per curare il paziente ossessivo Mancini sfodera un aspetto dionisiaco e nicciano che in qualche modo lo apparenta, sia pure alla lontana, con Lopez. Infatti Mancini raccomanda un intervento di accettazione: il paziente ossessivo non si libererà mai del suo timore di essere immorale, della sua paura di poter essere colpevole (Castelfranchi, Mancini, Miceli, 2008; Paciolla, Mancini, 2010). Lopez (forse) direbbe: del suo SuperIo giudicante. E la soluzione, dice Mancini, non può essere solo ristrutturare razionalisticamente questo pensiero colpevolizzante. Al contrario, esso va accettato. Accettato come rischio: è vero, è possibile, è possibilissimo che capiti di essere nella vita di essere colpevoli di qualcosa. Questa eventualità va messa nel conto e non ossessivamente prevenuta o controllata o espiata, come vorrebbe fare e tenta di fare il paziente. In tal modo la colpa, da rischio terrificante da eliminare assolutamente diventa eventualità possibile, da affrontare laicamente solo se e quando si presenterà. In qualche modo Mancini, sia pure in modi meno martellanti e dionisiaci di Nietzsche, esprime lo stesso “si alla vita” del superuomo.

Insomma, io vedo in Mancini e Lopez, al di là delle grandi differenze di due storie diversissime, una strana somiglianza. In entrambi una volontà solare e mediterranea di vita si oppone al chiuso colpevolismo nordico e protestante. In entrambi si illumina una capacità di sdrammatizzare e di dire di si alla vita, ma in termini più moderati e, oserei dire, più italiani del dionisismo tragico e catastrofico di Nietzsche. E in entrambi è presente anche però una pietosa e francescana capacità di comprendere le radici emotive della sofferenza, diffidando delle prescrizioni ossessive della moralità colpevolizzante. In definitiva, entrambi appartengono a quella tradizione di pensiero emotivo e vivente che, come scrive il filosofo Roberto Esposito, è il marchio di fabbrica della tradizione sapienziale italiana (Esposito, 2010).

 

 

BIBLIOGRAFIA:  

  • Lopez, D., Zorzi, L. (2003). Terapia psicoanalitica delle malattie depressive. Milano: Cortina.
  • Lopez, D. (2011). La strada dei maestri. Vicenza: Colla Editore.
  • Castelfranci, C., Mancini, F., Miceli, M. (2008). Fondamenti di cognitivismo clinico. Torino: Bollati Boringhieri.
  • Esposito, R. (2010). Pensiero Vivente. Torino: Einaudi.
  • Paciolla, A., Mancini, F. (2010). Cognitivismo esistenziale. Dal significato del sintomo al significato della vita. Roma: Franco Angeli.

La Solitudine: il modello della Discrepanza Cognitiva in Psicologia

La ricerca scientifica e psicoterapica ha comunemente distinto l’esperienza della solitudine (loneliness) dall’effettiva condizione dell’essere soli (being alone).

Immagine: The Loneliness of a Sappy Man. © 2012 Marco Piunti. www.trattogrullo.com
The Loneliness of a Sappy Man. © 2012 Marco Piunti. www.trattogrullo.com

Secondo questa distinzione, è possibile che alcuni individui socialmente isolati possano sentirsi abbastanza soddisfatti nonostante il loro oggettivo scarso numero di interazioni sociali. Al contrario, altri individui possono essere oggettivamente coinvolti in un gran numero di relazioni interpersonali ma, nonostante questo, sentirsi profondamente insoddisfatti sotto alcuni importanti aspetti della loro vita (ad esempio, la qualità dei propri rapporti o la mancanza di un particolare tipo di relazione, come una relazione romantica e sentimentale) e fare di conseguenza esperienza di un doloroso senso solitudine.

Per comprendere la differenza tra isolamento sociale e solitudine è stato sviluppato il modello della discrepanza cognitiva (Perlman e Peplau, 1982). Secondo questo modello, le persone sviluppano uno standard interno di comparazione, un modello ideale e mentale con il quale confrontano e giudicano le loro relazioni interpersonali nella loro vita reale ed esterna. Se le loro relazioni con gli altri superano questo standard, l’individuo non sperimenterà sentimenti di solitudine e sarà soddisfatto delle proprie relazioni, sia in termini di quantità che di qualità. Al contrario, se le loro relazioni reali con gli altri sono al di sotto di questo standard e aspettativa interna, l’individuo sarà insoddisfatto e farà esperienza della solitudine, con un dolore più o meno intenso a seconda dei casi.

Il modello della discrepanza cognitiva della solitudine rappresenta un ampliamento delle precedenti teorie sviluppate da Thibaut e Kelley (1959). Questi autori presentarono un’analisi della soddisfazione e dell’attrazione nelle relazioni diadiche (di coppia) in base al livello di comparazione interno (Comparison Level, CL). Secondo questi ricercatori, se il risultato sperimentato dall’individuo in un determinato rapporto è al di sopra di questo livello di comparazione, allora l’individuo sarà soddisfatto ed avrà piacere di relazionarsi con l’altro. Al contrario, se il risultato di questa comparazione è al di sotto di un certo livello, l’individuo sperimenterà insoddisfazione e non percepirà attrazione.

Il Disturbo Narcisistico di Personalità secondo la Teoria di Kernberg. - Immagine: © marcodeepsub - Fotolia.com
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Il modello della discrepanza cognitiva della solitudine di Perlman e Peplau propone invece che l’individuo sviluppi un livello di comparazione per l’intera rete delle proprie relazioni sociali.

Questo livello di comparazione può essere pensato come la rappresentazione della quantità o della qualità del contatto sociale desiderato dalla persona e viene utilizzato dall’individuo per valutare l’adeguatezza della propria rete sociale attuale. Paradossalmente, secondo questa teoria, anche una persona apparentemente mai sola (come ad esempio un personaggio pubblico, un attore o un cantante), può provare profondi sentimenti di solitudine (e di conseguenza, di tristezza) se il suo modello di comparazione interno prevede una forte discrepanza tra quello che vorrebbe e quello che in realtà si trova ad avere.

Un altro fattore ipotizzato da Thibaut e Kelley (1959), utile nel determinare il livello di comparazione dell’individuo, è il confronto sociale. Vale a dire, l’individuo formula delle aspettative riguardo al numero e al tipo di relazioni sociali che secondo lui dovrebbe avere, in parte anche sulla base delle relazioni sociali di persone vicine o simili a sé (parenti, amici, vicini di casa, conoscenti del quartiere, ma anche modelli proposti dai mass media). Questo fattore complica leggermente le cose poiché a determinare l’esperienza della solitudine interverrebbe non solo il confronto con i propri standard interni, ma anche il confronto con degli standard esterni presentati dalle persone vicine all’individuo. D’altra parte, un modello esaustivo di spiegazione deve comunque necessariamente comprendere fattori di tipo sociale, oltre che individuale.

Una questione interessante riguarda il “come” le discrepanze tra le relazioni interpersonali reali e desiderate siano correlate al livello di soddisfazione dell’individuo. Kelley e Thibaut (1978) suggeriscono che l’associazione sia di tipo non-lineare. Russell, Steffen, e Salih (1981) hanno infatti trovato che il rapporto tra l’aumento del numero di amicizie intime e il senso di solitudine (o in modo inverso, di soddisfazione personale) era lineare fino al punto in cui le amicizie attuali e desiderate della persona si stabilizzavano sullo stesso numero in termini di quantità e di qualità. Con un ulteriore aumento del numero di amicizie intime, quindi al di sopra del livello di comparazione interno, non vi era alcun ulteriore aumento del grado di soddisfazione personale. Vale a dire, se si hanno più amici di quelli che si desidera, il livello di soddisfazione personale dell’individuo non aumenta, né diminuisce il senso di solitudine. Al contrario, se siamo al di sotto del nostro livello di comparazione interno (cioè, abbiamo meno amici di quanti ne vorremmo), la sensazione di solitudine aumenta con l’aumentare del numero di amici in meno rispetto a quanti ce ne aspettiamo.

Per comprendere questo dato, possiamo fare l’esempio della persona che desidera 5 amici ma ne ha effettivamente 4. Questa persona può essere maggiormente soddisfatta di una persona che ha 10 amici ma che, al contrario, ne vorrebbe avere 30. Allo stesso modo, una persona con 3 amici intimi che ne desidera effettivamente 3, può sentirsi più soddisfatta della persona che ha 4 amici ma ne desidera 5, pur avendo quindi oggettivamente meno amici, e così via. Diversamente, se la persona con 3 amici desiderati ha nella realtà 10 amici effettivi, secondo questi studi, non percepirà un aumento del senso di soddisfazione poiché quelli che effettivamente desidera, per così dire, già li possiede.

Un modello ancora più generale, sulla stessa onda della discrepanza cognitiva, è stato proposto da Higgins (1987) per spiegare il senso di disagio sperimentato dall’individuo nelle diverse situazioni della vita. Higgins parla di discrepanza del Sé (Self-Discrepancy Theory). Secondo questo autore, l’individuo ha una rappresentazione di come vorrebbe e gli piacerebbe essere (Sé ideale), di come è nella realtà (Sé reale), e di come la società o la morale impone che dovrebbe essere (Sé normativo). Ogni discrepanza tra queste tre rappresentazioni provoca un coinvolgimento emotivo più o meno rilevante per il soggetto, spingendolo, nel migliore dei casi, a costruire attivamente delle strategie per ridurre la discrepanza tra queste.

Se la discrepanza tra Sé reale e Sé ideale (per esempio, “sono grasso ma vorrei essere più magro; sono timido ma vorrei essere socievole; sono solo ma vorrei avere più amici; ecc.”) non viene attivamente risolta, l’individuo sperimenterà emozioni più o meno intense connotate nello specifico da un senso di scoraggiamento (insoddisfazione, delusione e tristezza). Se non è superata la discrepanza tra Sé reale e Sé normativo (per esempio, “sono pigro e dovrei essere più attivo; sono lento e dovrei essere più svelto; sono solo e dovrei avere più amici; ecc.”), invece, il soggetto sperimenterà più emozioni connotate nella direzione dell’agitazione (senso di minaccia incombente, irrequietezza, ansia e paura).

Insomma, le conclusioni a cui arrivano i diversi autori sarebbero più o meno fondate sullo stesso semplice ed identico concetto. Sembrerebbe a questo punto banale concludere con una citazione celebre (di Oscar Wilde, per esempio), ma è probabile che sia l’unico modo per riassumere il senso di un intero articolo in un’unica frase chiara e pertinente: la felicità non è avere quello che si desidera, ma desiderare quello che si ha.

Ma allora, forse dovremmo trovare una risposta ad un’altra domanda: cosa porta l’individuo a desiderare più di quanto già possiede?

 

 

BIBLIOGRAFIA:

  • HIGGINS, E. T., (1987). Self-discrepancy: A theory relating self and affect., Psychological Review, 94, pp. 319-340.
  • KELLEY, H. H., THIBAUT, J.W. (1978). Interpersonal relations: A theory of interdependence. New York: Wiley Interscience.
  • PERLMAN, D., PEPLAU, L. A. (1982). Loneliness: A sourcebook of current theory, research, and therapy., New York: Wiley Interscience, pp. 123-134.
  • RUSSEL, D. W., CUTRONA, C. E., MCRAE, C., GOMEZ, M. (2012). Is Loneliness the Same as Being Alone?, The Journal of Psychology, 146 (1-2), pp. 7-22.
  • RUSSELL, D., STEFFEN, M., SALIH, F. A. (1981). Testing a cognitive model of loneliness. Paper presented at the symposium “New Directions in Loneliness Research” at the Annual Convention of the American Psychological Association in Los Angeles, California.
  • THIBAUT, J.W., KELLEY, H. H. (1959). The social psychology of groups. New York: Wiley.

 

Cooperazione ed Evoluzione dell’intelligenza.

– Rassegna Stampa – 

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze PsicologicheSecondo uno studio condotto da due ricercatori del Trinity College di Dublino in collaborazione con il dottor Sam Brown dell’Università di Edimburgo la cooperazione e il lavoro di gruppo influenzerebbero l’evoluzione dell’intelligenza e lo sviluppo delle dimensioni del cervello.

L’idea che le interazioni sociali siano alla base della evoluzione dell’intelligenza si sviluppa sin dalla metà degli anni ’70, e il supporto a questa ipotesi è venuto in gran parte dagli studi di correlazione che hanno osservato cervelli di grandi dimensioni negli animali sociali. Gli autori dello studio in questione forniscono la prima evidenza che collega meccanicamente il processo decisionale nelle interazioni sociali con l’evoluzione dell’intelligenza.

I ricercatori hanno costruito modelli computerizzati di organismi artificiali con cervelli artificiali, ognuno con un massimo di 10 processi interni e 10 nodi di memoria associati; nel corso dello studio 50 di questi cervelli semplici sono stati messi in competizione gli uni con gli altri con l’uso di giochi classici che condensano l’interazione sociale umana, come “Il dilemma del prigioniero”. La competizione nella quale sono stati ingaggiati i cervelli artificiali, proprio come nella vita reale, ha favorito gli individui di successo; i migliori, cioè quelli che hanno ottenuto il punteggio più alto, al netto della grandezza del loro cervello, potevano riprodursi e dare così vita alla seconda generazione di organismi.

Permettendo ai cervelli digitali di evolvere liberamente, i ricercatori sono riusciti a dimostrare che il passaggio alla società cooperativa favorisce fortemente la selezione dei cervelli più grandi. I cervelli più grandi in sostanza lavorano meglio quando la cooperazione aumenta.

Le strategie sociali che emergono spontaneamente in questi cervelli più grandi e più intelligenti mostrano una memoria complessa e processi decisionali. Comportamenti come il perdono, la pazienza, l’inganno e astuzia machiavellica evolvono all’interno del gioco quando i singoli cercano di adattarsi al loro ambiente sociale.

Questo modello, sostiene l’autore principale dello studio Luke McNally, si differenzia da quelli precedenti in quanto combina la teoria dell’evoluzione con l’uso delle reti neurali artificiali per dimostrare che effettivamente c’è un vero e proprio meccanismo di causa-effetto tra un cervello di grandi dimensioni e il bisogno di competere-contro e collaborare-con gli altri membri del proprio gruppo sociale.

Il nostro livello di intelligenza straordinaria ci definisce come esseri umani e ci distingue dal resto del regno animale. Ci ha dato l’arte, scienza e linguaggio, e soprattutto la capacità di mettere in discussione la nostra stessa esistenza e meditare le origini di ciò che ci rende unici, sia come individui e come specie“, conclude McNally.

 

 

BIBLIOGRAFIA: 

Un giorno di ordinaria follia #3 – Lo Psicologo Errante

PSICHIATRIA PUBBLICA: LETTERE DAL FRONTE.  
Naturalmente tutti i dati ed i nomi citati in queste lettere sono stati inventati e le storie raccontate sono ispirate alla realtà ed alla vita in un csm, ma per doverose ragioni di privacy  sono state amalgamate tra loro per renderle irriconoscibili. Ciò nonostante, a volte la realtà supera la fantasia! Buona lettura.

 

Un giorno di ordinaria follia

#3 Lo Psicologo Errante

 

Un Giorno di Ordinaria Follia #3 - Lo Psicologo Errante. - Immagine: © Noedelhap - Fotolia.comArriva in bicicletta, cappello a cono calcato a fondo fin sulle sopracciglia, un’ombra di barba dimenticata lì da qualche giorno, giacca a vento sportiva che ha visto tempi migliori ma che reca anche i segni di grandi vittorie, occhio lucido, rapido, furbo, sorridente che cerca lo sguardo solo un attimo di più del dovuto per far capire che lui c’è, ma è troppo di fretta per restare lì….chi è? Ma è lo psicologo errante, straordinaria figura mitologica che potrete incontrare in certe Asl…chissà, magari persino nella vostra!

Nel nostro caso questo ruolo è ricoperto da un simpatico e dinamico signore che chiameremo Umberto. Umberto è un grande sportivo e grazie a questo forse meno di altri accusa la fatica strettamente fisica dello spostamento. Ma, certo, anche se stoicamente non ne parla quasi mai, resta invece l’impresa eroica di affrontare un monte ore distribuito su ambulatori, comunità, centro diurno e una costellazione di gruppi appartamento più uno stuolo di interlocutori tra colleghi pazienti e loro familiari.

Un giorno di ordinaria follia #2 – Gli Alieni al CSM -Psichiatria- Immagine: © Anatoly Maslennikov - Fotolia.com
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Esperto di terapia sistemica viene chiamato in aiuto tutte le volte che il problema di un paziente si rivela particolarmente connesso alle dinamiche familiari. Con un territorio di riferimento che copre all’incirca un bacino di 200.000 residenti l’impresa, come potrete immaginare, è epica ma non capita facilmente di sentirlo alterato . Inoltre i molti anni di militanza fanno di lui un personaggio noto, radicato, e gli conferiscono quel diritto, che deriva dal generale riconoscimento, di guardarsi intorno con tono scanzonato senza risparmiare colpi a nessuno e men che meno alle figure gerarchiche.

Così tra il faceto e il serio Umberto anche oggi è riuscito ad approdare alla riunione d’equipe, o meglio di una delle equipe, per discutere i suoi casi. Sorride, sguardo scherzoso, aspetta che il gruppo finisca di discutere animatamente lasciandoti quel lieve senso di disagio che deriva dal non sentirti davvero sicuro che non sia venuto al lavoro perché il lavoro sei tu…! Da noi può effettuare ben due ore e mezzo di lavoro alla settimana e nonostante ciò i casi su cui confrontarsi sono molti.

Un Giorno di Ordinaria Follia #1 - Posso bere la Candeggina? - Psichiatria - Immagine: © Mario - Fotolia.com
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Qualcuno ride quando inizia a parlare in modo leggero, veloce e arguto dei pazienti ma subito lo stile cambia se c’è il rischio di non essere preso sul serio perché in effetti lui, Umberto, il suo lavoro lo prende molto sul serio e in quattro frasi ben piazzate e ben costruite zittisce la platea. Come si è arrivati alla richiesta del suo intervento, come ha concettualizzato il caso, condivisione del progetto e contratto terapeutico. Improvvisamente tutti ascoltano perché se è vero che a volte il lavoro al CSM è affannato e concitato è anche vero che per sopravvivere devi esserne appassionato e un approccio fatto bene porta entusiasmo e ottimismo a tutti.

Poi Umberto sorride si alza con la giacchetta, il cappello che si era dimenticato di togliersi, una manciata di biscotti rubata dal tavolo e con chiavi della catena in mano si congeda rapido per volare al prossimo appuntamento, qualche quartiere più in là. La dura vita dello psicologo errante non lo abbatte e sfreccia via sulla sua fidatissima bici.

 

Spegnere il Cervello. La Meditazione per contrastare il Rimuginio

 

Spegnere il Cervello. La Meditazione per contrastare il Rimuginio. - Immagine: © hollymolly - Fotolia.com Nuovi dati a conferma dell’efficacia della meditazione nel contrastare efficacemente il rimuginio come stile di pensiero negativo e ricorrente e nel migliorare le capacità di gestire le eccessive preoccupazioni per il futuro.

Grazie alle tecniche di meditazione sarebbe dunque più facile riuscire a concentrarsi sul momento presente. La conferma di questo dato, già noto nella letteratura scientifica di riferimento, ci arriva da uno studio di un gruppo di ricerca del Department of Psychiatry della Yale University School of Medicine. Il contributo di questa ricerca sta nell’aver identificato che attraverso alcune tecniche di meditazione è possibile “spegnere” una specifica area del cervello, indicata nello studio come Default Mode Network, considerato come motore automatico interno in grado di generare quel continuo emergere di idee e pensieri che in un qualche modo interferiscono con ciò che in quel momento si sta facendo.

Mind Wandering. - Immagine: © auremar - Fotolia.com
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Quest’attività di produzione automatica dei pensieri è presente per circa la metà del tempo della veglia, e può portare alla luce ricordi spiacevoli e contribuire al nascere di preoccupazioni per il futuro, creando così uno stato di ansia e di depressione nella persona che in un qualche modo è vittima del suo stesso pensare.

Nello studio sono state prese in considerazione tre diverse tecniche di meditazione:

1. CONCENTRAZIONE: il razionale di questa tecnica è che il praticante deve concentrarsi sul respiro, sentendo l’aria che entra e che esce dal naso, percependo la pancia che si riempie e si svuota, e ogni qual volta che si presenta un pensiero con fermezza deve lasciarlo andare distogliendo l’attenzione da esso.

2. AMARE-GENTILEZZA: in questa tecnica il praticante deve ricordare e visualizzare una situazione nella quale ha desiderato il bene di qualcuno per lui significativo e lo utilizzerà per desiderare per estensione il bene degli altri.

3. CONSAPEVOLEZZA: questa tecnica consiste nel prestare attenzione momento per momento a quello che sta succedendo, a quello che arriva alla coscienza del praticante stesso, senza tentare di modificare il pensiero o la sensazione appena arrivata ma semplicemente accettandola.

Il campione di questo studio sono stati 12 praticanti esperti che sono stati confrontati tramite Risonanza Magnetica Funzionale con 13 soggetti volontari che non hanno mai avuto esperienza di meditazione.

Lo studio ha messo in luce tramite la risonanza magnetica funzionale che i soggetti esperti sono in grado di “spegnere” l’attività delle aree cerebrali comprese nel Default Mode Network, come la corteccia cingolata e la corteccia prefrontale mediale. Ma non solo rispetto alle persone non dedite alle pratiche meditative gli esperti mostrano un’attività della DMN ridotta anche fuori dalla pratica stessa come se “l’allenamento” portasse i suoi effetti benefici anche fuori dalla pratica in sé. Uno degli aspetti che viene messo in luce in questo studio a favore della meditazione è il suo essere di basso costo e facilmente accessibile per un grande numero di persone.

Brewer sottolinea poi a conclusione del suo lavoro che nonostante siano necessari altri studi prospettici, i risultati di questo studio aprono interessanti scenari per l’uso della meditazione nel trattamento del disturbo da deficit dell’attenzione. Inoltre un’ iperattivazione della DMN è stata riscontrata anche in pazienti affetti da Alzheimer e potrebbe essere responsabile della deposizione nelle cellule cerebrali di una sostanza chimica, beta-amiloide, tipica di questa forma di demenza. L’uso di tecniche meditative potrebbe spegnere questa attivazione e quindi avere un possibile effetto “protettivo”.

 

 

BIBLIOGRAFIA: 

 

Ottimismo & Felicità: Fattori Protettivi per Malattie Cardiovascolari

– Rassegna Stampa –

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze PsicologicheSecondo l’American Heart Association negli Stati Uniti muore a causa di malattie cardiovascolari una persona ogni 39 secondi.

Un gruppo di ricercatori di Harvard sostiene che emozioni e stati mentali positivi, come l’ottimismo e la felicità, siano importanti fattori protettivi per la salute del cuore: secondo i risultati dello studio in questione, frutto della prima e più ampia rassegna sistematica del suo genere, sembra infatti che il benessere psicologico ed emotivo possa ridurre il rischio di attacchi cardiaci, ictus e altri eventi cardiovascolari e in generale rallentare la progressione delle malattie cardiovascolari. Per esempio, gli individui più ottimisti hanno il 50% di rischio in meno di vivere un evento iniziale cardiovascolare rispetto ai loro coetanei meno ottimisti.

Mentre numerosi studi si sono concentrati sugli effetti negativi di rabbia, ansia, ostilità e depressione sulla salute del cuore, sappiamo ben poco della relazione tra stati positivi e malattie cardiovascolari. Le autrici principali dello studio, Julia Boehm e Laura Kubzansky, sottolineano che l’assenza di stati negativi non è uguale alla presenza di stati positivi, infatti fattori come l’ottimismo, la soddisfazione di vita, e la felicità sembrano essere associati a un più basso rischio di malattia cardiovascolare indipendentemente da variabili quali l’età, lo stato socio-economico, il peso corporeo e dai tradizionali fattori di rischio e malessere, come il fare uso di tabacco o alcol.

Inoltre il senso di benessere rende le persone più propense a seguire una dieta equilibrata, a dormire a sufficienza ed è legato a una più bassa pressione sanguigna, meno grassi nel sangue e ad un peso corporeo normale.

Questi risultati hanno implicazioni importanti rispetto a come si può intervenire nella prevenzione delle malattie cardiovascolari e nella cura dei pazienti cardiopatici, infatti non basta limitarsi a ridurre il malessere psicologico che accompagna queste malattie, ma è anche importante lavorare sulle risorse individuali per promuovere e rafforzare stati di benessere psicologico ed emotivo.

 

 

BIBLIOGRAFIA:

Psicologia dello Sport: L’importanza dell’ambiente sportivo per lo sviluppo Psicologico.

Elisa Morosi.

 

ALLENARE GIOVANI SPORTIVI: CRESCERE PERSONE CONSAPEVOLI O ATLETI VINCENTI? (o tutte e due?) 

Psicologia dello Sport: Ambiente Sportivo e Sviluppo Psicologico. - Immagine: © Monkey Business - Fotolia.comSecondo una ricerca del Michigan State University sullo sport giovanile, fare sport in un ambiente focalizzato sul miglioramento e lo sviluppo di sé piuttosto che sulla competitività o sull’agonismo crea un senso del gruppo più forte e permette un migliore sviluppo dello spirito di iniziativa, delle competenze sociali e dell’identità personale.

Questo è quanto emerso da uno studio condotto da Daniel Gould, Ryan Flett e Larry Lauer pubblicato ad Agosto 2011 sulla rivista Psychology of Sport and Exercise e che conferma quanto già riscontrato da altri ricercatori, cioè che l’attenzione all’insegnamento e al clima della squadra hanno importanti influenze sullo sviluppo personale dei giovani atleti; più nello specifico i dati della ricerca di Gould, Flette e Lauer indicano ciò che gli allenatori dovrebbero promuovere. Più che il desiderio di vincere, è l’incremento delle abilità e competenze personali degli atleti attraverso un atteggiamento accogliente e interessato nei loro confronti.

Cosa non farei per la danza! - Immagine: © olly - Fotolia.com
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Gli atleti che hanno preso parte allo studio erano 239, di età compresa tra i 10 e i 19 anni, provenienti da aree urbane svantaggiate, con carenza di servizi e difficoltà economiche e sociali; il campione è stato sottoposto alla somministrazione di diversi test quali Youth Experiences Scale (YES-2), Sport Motivational Climate Scale e Caring Climate Scale ed è stata misurata l’importanza data dagli allenatori allo sviluppo psicologico e della persona.

I risultati indicano che un clima di maggior attenzione ai ragazzi e un orientamento al compito anziché alla competizione o alla vittoria durante gli allenamenti portano a sviluppi positivi per il gruppo e per i singoli.

Quando un giovane atleta entra a far parte di un gruppo sportivo entrano in gioco molti meccanismi che vanno al di là dell’allenamento motorio o tecnico, ma che hanno a che fare con le relazioni tra pari e con un adulto che svolge il ruolo di conduttore di quel gruppo e con tutte le dinamiche che si intrecciano al suo interno, passando dalla ricerca di un’identità personale e di un proprio ruolo all’interno di quel gruppo, dalla collaborazione con altri per raggiungere un fine comune, fino ad arrivare al rapporto con l’avversario e a tutti i vissuti che ne derivano. Appare evidente quanto competenze acquisite sul campo da gioco si possano facilmente esportare nella vita oltre lo sport e viceversa, e quanto sia importante esserne ben consapevoli.

La sfida degli allenatori dovrebbe quindi essere quella di riuscire a motivare gli atleti al gioco e alla competizione avendo sempre in primo piano obiettivi più ambiziosi e alti che hanno a che fare con lo sviluppo della persona nella sua totalità; con queste premesse non si esclude certamente l’attenzione alla prestazione e alle competenze prettamente sportive, che, secondo Lauer, potranno trarre giovamento dal fatto che i giovani atleti imparino ad essere persone responsabili, relazionalmente competenti ed emotivamente competenti.

 

 

BIBLIOGRAFIA:

Malattia infantile: Meccanismi di Difesa Familiare

  

Malattia infantile: Meccanismi di Difesa Familiare. - Immagine:  © 1998-2012 Hoepli Editore. Immagine Riprodotta su gentile concessione dell'Editore
Accudimento Invertito. © 1998-2012 Hoepli Editore. Immagine Riprodotta su gentile concessione dell'Editore

L’uso di meccanismi di difesa specifici (Rubbini Paglia e Di Giovanni, 2001; Soccorsi, Lombardi, Rubbini Paglia, 1984; Soccorsi, 1986; Soccorsi, Di Giovanni, Ruggiero, Rubbini Paglia, 2001) è stato osservato nelle famiglie dove a rischiare la morte sono i bambini. La malattia oncologica, ma non solo, e il rischio di morte che questo tipo di malattia porta con sé, spinge tutta la famiglia a reagire tempestivamente con un disperato tentativo di circoscrivere e incistare, quella massa estranea nella speranza di neutralizzarla (Soccorsi, Lombardi e Rubbini Paglia, 1984).

Il tempo si ferma, i rapporti tra le persone si cristallizzano, il bisogno di controllare l’evoluzione degli eventi porta all’immobilità; il tentativo è quello di fermare il ciclo vitale della famiglia al momento prima dell’insorgenza della malattia. Cristallizzare le relazioni, impedendo che i modi di rapportarsi gli uni agli altri si modifichino nel tempo, permette di esercitare un controllo sull’angoscia dell’ignoto, cioè sull’angoscia di morte: questa staticità è un’attualizzazione della morte stessa in quanto negare il cambiamento è negare l’espressione di processi vitali, ma fermare il tempo è anche garanzia di immortalità. Attualizzando la morte la famiglia si illude di poterla controllare.

Bambini nel tempo: Comunicare la Malattia e l' Accudimento Invertito. - Immagine: © 1998-2012 Hoepli Editore. Immagine Riprodotta su gentile concessione dell'Editore.
Articolo consigliato: Bambini nel tempo: Comunicare la Malattia e l' Accudimento Invertito.

Le autrici (Soccorsi, Lombardi e Rubbini Paglia, 1984; Soccorsi e Rubbini Paglia, 1989) hanno identificato due diversi gruppi di meccanismi di difesa: un primo gruppo comporta la abnorme redistribuzione dei ruoli all’interno della struttura familiare; un secondo gruppo riguarda invece le modificazioni radicali della struttura spazio-temporale della famiglia che arrivano a intaccare anche i confini individuali, fino alla fusione. Il passaggio dagli uni agli altri avviene senza soluzione di continuità.

Il primo livello di destrutturazione riguarda la cristallizzazione della dinamicità degli spazi: la famiglia si organizza al suo interno secondo rigide funzioni statiche, ruoli che sono funzionali a una reciproca protettività dall’angoscia di morte. Spesso nei bambini malati si osservano sintomi di infantilismo e adultismo (mentre nei fratelli sani è comune l’orfanità) grazie ai quali il bambino nega di “sapere” per evitare di aumentare l’angoscia dei genitori: in questo modo il bambino assume una funzione protettiva nei loro confronti, la barriera generazionale si infrange e il bambino si ritrova ad occupare la posizione generazionale dei nonni invece che quella di figlio (Role Reversing o Accudimento Invertito); in questo modo viene meno la possibilità di accogliere e contenere le sue angosce, che comunque permangono come fantasmi di cui è impossibile parlare.

Nelle famiglie che adottano questo meccanismo di difesa assume un particolare significato la somministrazione dei farmaci, infatti la terapia medica e i relativi controlli clinici comportano una somministrazione che scandisce il tempo e permette una ritualizzazione dell’evento. Se l’inversione dei ruoli genitoriali, l’infantilismo, l’adultismo e l’orfanità sono meccanismi nascosti e “non autorizzati”, l’uso del rito dei farmaci è invece legalizzato ed esplicito e allo stesso modo utilizzato per soddisfare il bisogno che la famiglia ha di cristallizzare lo spazio per negare lo scorrere del tempo e controllare l’angoscia. Nella fase iniziale del processo di guarigione, la sospensione della terapia farmacologia può essere un utile elemento terapeutico destabilizzante in grado di indurre una crisi e sbloccare la tendenza omeostatica della famiglia, per permettere la ripresa dell’evoluzione del ciclo vitale.

Con il protrarsi della malattia è possibile che la famiglia aumenti la rigidità dei meccanismi di difesa utilizzati perdendo ogni parametro spaziale. La rigidità aumenta favorendo processi fusionali che garantiscono il massimo grado di protettività omeostatica: ogni tentativo di separazione viene vissuto come pericolosissimo perché capace di provocare la morte propria e degli altri.

Spesso anche separarsi fisicamente per poco tempo gli uni dagli altri è intollerabile.

È a questo livello che, nel tentativo stesso di difendersi da essa, la famiglia attualizza la morte: la protettività garantisce l’omeostasi bloccando il ciclo vitale della famiglia e anticipando, paradossalmente, la morte stessa.

Il bisogno di fusionalità e l’impossibilità di definirsi come individui separati si esprime nel “fare finta”; questa modalità relazionale si manifesta nell’uso del linguaggio, che è una potente minaccia nei confronti della fusione: la parola detta ha un alto potere di definizione della realtà e di mediatore delle relazioni interpersonali, in quanto è difficile espropriare una parola del suo significato e scindere “chi” dice qualcosa da “cosa ha detto”. Gli effetti malefici e angosciosi della malattia sono scongiurati e negati dagli sforzi per evitare di pronunciare parole come leucemia o tumore o dall’uso di neologismi; spesso tra i membri della coppia cala il silenzio. In altri casi la famiglia ricorre a eccessive razionalizzazioni che hanno ugualmente la funzione di controllare l’angoscia di morte.

Accettazione del Lutto. - Immagine: © bruniewska - Fotolia.com
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In queste famiglie la crisi indotta dalla sospensione dei farmaci non è sufficiente a produrre una destrutturazione tale da promuovere la ripresa dell’evoluzione del ciclo vitale. Il protrarsi di livelli elevati di angoscia di morte ha provocato “l’appiattimento di ogni affermazione di individualità”. In questo caso la famiglia può essere aiutata a ritrovare la parola ripercorrendo il cammino a ritroso: rompendo il silenzio e riappropriandosi del linguaggio verbale è possibile rincominciare a comunicare, a condividere e a ridefinirsi rispetto agli altri.

I meccanismi di difesa dall’angoscia di morte, individuali e familiari, fanno riflettere sul bisogno che tutti abbiamo di proteggerci dall’idea della nostra morte e di quella di chi amiamo; l’idea della fine è qualcosa che necessita di un tempo e di uno spazio, di ascolto e condivisione, per essere accettata o anche solo pensata. A questo proposito è importante sottolineare il concetto di “atto terapeutico”, che contrapponendosi al “processo terapeutico”, invita i terapeuti che lavorano nei reparti ospedalieri a “esserci” nel qui ed ora della relazione con i pazienti e la famiglia che si trova a fare i conti con le sue angosce di morte.

L’atto terapeutico, scavalcando il rigore del metodo e le regole del setting, che impongono uno spazio e un tempo definiti, consente al terapeuta di attualizzarsi nella relazione con la famiglia e di fornire un’occasione per veicolare una ridefinizione della relazione. Un aspetto che caratterizza l’atto terapeutico è il tempo: l’atto terapeutico è specifico per una fase avanzata della malattia, come a sottolineare che è necessario concedere alla famiglia di usare i suoi meccanismi di difesa durante la fase più critica del trattamento intensivo. Il bisogno che la famiglia ha di “fermare il tempo” la rende impossibilitata a utilizzare un rapporto psicoterapeutico di per sé processuale.

Il bisogno di difendersi e di prendere tempo “fermando il tempo” prima di poter utilizzare la crisi affinché la differenziazione, l’individuazione e la crescita dei suoi membri sia nuovamente possibile, è rispettato anche dal permettere che la famiglia sviluppi una dipendenza dal centro di cura. Dopo aver visto la morte così da vicino, dopo averla addirittura “attualizzata” attraverso la paralisi, per tornare a vivere è necessario rinascere: il centro di cura, permettendo alla famiglia di sperimentare una dipendenza-appartenenza da esso, si pone come contenitore delle angosce di morte e come una sorta di “base sicura” dalla quale è possibile separarsi per ricominciare a crescere.

 

 

BIBLIOGRAFIA:  

  • Rubbini Paglia P., Di Giovanni S. (2001) Relazione d’aiuto e accompagnamento alla morte al bambino oncologico e alla sua famiglia. In-formazione psicologia, psicoterapia, psichiatria. Anno 12, 43: 56-59.
  • Soccorsi S., Di Giovanni S., Ruggiero A., Rubbini Paglia P. (2001) Percorso della famiglia tra appartenenza e separazione dal centro oncologico. Acta med. Rom., 39:82-86-
  • Soccorsi S., Lombardi F., Rubbini Paglia P. (1984) La famiglia come risorsa nel trattamento del bambino oncologico. Terapia Familiare, 16: 47-66.
  • Soccorsi S., Rubbini Paglia P. (1989) La malattia oncologica del bambino come incidente evolutivo della famiglia. Terapia familiare, 29: 5-15.

Ascoltare la propria Musica preferita migliora la Performance Sportiva

– Rassegna Stampa – 

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze PsicologicheSia musica classica, death metal o punk, ascoltare le canzoni preferite può favorire la prestazione e il coinvolgimento nella pratica delle discipline sportive.

Questo risultato è stato presentato ieri 18 aprile presso la British Psychological Society Annual Conference che si sta tenendo a Londra in questi giorni. Precedenti studi avevano già dimostrato il potere motivazionale della musica, ma per la prima volta si analizzano gli effetti sulla performance sportiva di una specifica musica o canzone preferita dall’individuo.

La ricerca ha coinvolto 64 partecipanti e ha confrontato tre gruppi di soggetti praticanti diverse discipline sportive: football, netball e corsa. Dopo avere identificato canzoni e generi preferiti individualmente, i partecipanti sono stati sottoposti ad assessment sia prima che durante allenamenti e competizioni sportive, nella condizione in cui era loro consentito di praticare l’attività fisica con o senza la loro musica/canzone preferita. Ogni sessione è stata valutata dai partecipanti in termini di diverse variabili tra cui motivazione percepita, coinvolgimento emotivo, consapevolezza e grado dello sforzo percepito.

Dai risultati è emerso che ascoltare la propria musica preferita migliora in tutti i gruppi i punteggi di coinvolgimento percepito e motivazione alla sfida dettata dall’attività sportiva, in particolare durante gli allenamenti; si è rilevata invece una ridotta percezione dello sforzo e della fatica sia negli allenamenti che nelle fasi di competizione.

Ecco i favourites nelle playlist per ciascun gruppo di sportivi:

  • Netball: Rihanna e Black Eyed Peas
  • Running: Eminem, Pendulum, Blondie e Muse
  • Football: Kings of Leon, Florence and the Machine, Survivor e Foo Fighters

Attenzione! “Eye of the Tiger” era presente nelle playlist di tutti i gruppi coinvolti!

 

 

 

BIBLIOGRAFIA:  

 

 

Recensione di The Artist: possiamo fare a meno delle parole?

 

Recensione di The Artist: possiamo fare a meno delle parole?L’esperienza di vedere un film muto è piuttosto particolare, ci riporta indietro nel tempo e anzi, è il vissuto peculiare di un tempo che non esiste più.

L’esperienza di vedere The Artist, film francese pluripremiato alla recente cerimonia degli Oscar, è un viaggio in emozioni che sembravano dimenticate, smarrite dentro suoni e frastuoni, confuse fra colori sempre più vivi ma talvolta unificati secondo logiche poco immaginative, attente soprattutto ai gusti del pubblico di massa. The Artist è una scommessa, un film senza parole e senza colori, sebbene il bianco e nero sia spesso il colore della poesia, del cinema più intimo, della fotografia più minimalista e insieme introspettiva.

E’ il colore di Chaplin e Buster Keaton, di Humphrey Bogart e Ridolini, che unisce magia e oscurità, sorriso lieve e frenesia delle espressioni. Ascoltare un film muto, le carezze sottili con cui gli attori curano la propria interpretazione, e la musica che accompagna ogni scena col ritmo di un passo che addolcisce e spiega, penetra e riformula, è la possibilità che The Artist offre allo spettatore, scavando una piccola grotta di significato antico nell’universo attuale di un cinema che globalizzandosi rischia di appiattire parte dell’esperienza e di marginalizzare le diversità, le poetiche più originali, le scelte creative più private.

Cinema - Recensione di A Simple Life (2011) di Ann Hui. - Immagine: Theatrical Release Poster for A Simple Life, Copyright © 2011 by Distribution Workshop.
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The Artist racconta di un attore del cinema muto esaltato dal pubblico e poi dimenticato allorché prende il sopravvento il sonoro; sullo sfondo e poi sempre più centrale, l’amicizia con una ragazza che da sconosciuta fan del grande divo diventa stella del cinema, superando in fama e successo l’uomo grazie al quale si era avvicinata a quel mondo. Le emozioni scorrono delicate ma robuste, l’intreccio narrativo è semplice ma si avvale di trovate poetiche e geniali, come gli svenimenti di un cagnolino ammaestrato o un balletto che i due attori abbozzano divisi da uno schermo che fa intravedere loro solo le gambe dell’altro, senza svelarne l’identità.

 

 

L’assenza delle parole, che compaiono solo in pochi sottotitoli senza partecipare alla raffigurazione emotiva dei personaggi, è particolarmente stimolante per chi di parole vive e lavora utilizzandole nel setting terapeutico come principale strumento di relazione col paziente. La nostra esperienza clinica, le riflessioni teoriche che formuliamo riguardo alla pratica terapeutica, si nutrono di parole e dei loro significati condivisi, costantemente rinegoziati nella creazione di un codice comunicativo che semplifichi il nostro rapportarci col mondo; in questo continuo rinnovarsi di suoni crediamo spesso di generare una facilitazione espressiva, una modalità più agevole di comprendere ed essere compresi, un canale più lineare attraverso il quale fare scorrere i nostri significati affinché giungano all’altro.

Sinfonia d'Autunno: Bergman ci insegna la ciclicità delle emozioni. - Immagine: Poster Cover from 1978 Movie: Autumn Sonata
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Non di rado dobbiamo invece constatare che non è così, che le parole possono diventare eloquio confuso e confusivo, e quei segnali che sembrano comporre un quadro comunicativo, non solo coerente ma anche rassicurante, sono in grado di trasformarsi in una fonte sempre attiva di incomunicabilità. Da qui nasce forse la catartica sensazione originata dall’immergersi in un film muto, nel quale i tempi sono più dilatati e più dilatate le espressioni degli attori, più vivide le loro emozioni. Sospeso il ritmo serrato delle parole siamo costretti a dare ai gesti un valore totalizzante, individuando in essi l’autentica natura delle relazioni; l’innamoramento di una ragazza nei confronti dell’uomo che ha sempre desiderato da lontano e che ora per una sequenza di eventi casuali le rivolge la propria attenzione, viene espresso con l’abbraccio ad un cappotto vuoto, infilando il braccio in una manica per immaginare di essere avvolta dall’amore dell’altro.

Kill Me Please, Suicidio Assistito e le nuove frontiere del Controllo. - Immagine: © 2012 Costanza Prinetti
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E’ assai raro ammirare in una pellicola parlata la stessa raffinatezza comunicativa, la medesima capacita’ di rappresentare il reale ricorrendo a sfumature tenui; e’ assai raro in un film di parole l’incontro con un’arte altrettanto elevata nell’accompagnare il fruitore lungo sentimenti complessi eppure resi con eccezionale semplicità. Il muto rallenta l’incedere dell’azione amplificandone il significato profondo, come un treno che compiendo i primi passi della partenza ci fa cogliere la soluzione di continuità del nostro movimento. L’assenza di parole ci mette alla prova, ci conduce a percepire la realtà attraverso sfondi ed equilibri differenti: “The Artist” ha un colore speciale, libero e sorprendente.

 

 

Kill Me Please, il Suicidio Assistito e le nuove frontiere del Controllo.

 Kill Me Please, Suicidio Assistito e le nuove frontiere del Controllo. - Immagine: © 2012 Costanza Prinetti

Per uno psicologo, soprattutto di matrice cognitivista, può essere piuttosto frequente riscontrare che uno dei crucci su cui spesso si arrovellano i pazienti è il fatto di non riuscire ad avere tutto sotto controllo.

Ognuno di loro poi, a seconda della forma che il nucleo doloroso più profondo decide di assumere per far capolino in superficie, sceglie la propria strategia vincente per rincorrere la chimera della Certezza Assoluta; c’è chi trova sollievo nel monitorare in modo coatto l’apporto calorico di carote e zucchine, chi si consola ripetendo con ritualità kafkiana l’ispezione di interruttori e valvole del gas, oppure chi si costruisce una vita mentale parallela in cui, a ritroso o con pretese da Nostradamus, si scervella su quanto di brutto può aver combinato in passato o su quanto di brutto potrebbe capitare in futuro, illudendosi che la fatica di un simile lavorìo mentale abbia il potere di incidere sulla realtà dei fatti o di modificare il corso degli eventi.

Il Controllo è il Problema, non la Soluzione. - Immagine: © somenski - Fotolia.com
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Tra i possibili scenari minacciosi che potrebbero favorire un bisogno di controllo, la morte è di certo l’evento più inevitabile e allo stesso più imprevedibile (nella forma e nei tempi) che possa capitare (e che capiterà di sicuro) ad un essere umano, e quindi non stupisce che ci sia chi pretende di dominare anche questo aspetto misterioso della propria esistenza, sostituendosi al destino nella funzione di decidere tempi e modi del congedo finale.

Ma è davvero possibile controllare la propria morte o (ribaltando il punto di vista) mettere sotto controllo la pulsione di morte altrui?

A primo impatto verrebbe da dire di sì; nonostante il dibattito sull’eutanasia sia estenuante e si abbia spesso l’impressione che sia vero tutto e il contrario di tutto, tutt’altra storia è il suicidio assistito, in quanto ogni individuo è sovrano nelle scelte che riguardano la sua sfera privata.

Pertanto, bando ai cavilli etici, morali, politici, filosofici o legislativi del caso, il giudizio di chi decide di stabilire quando e come morire rimane del tutto insindacabile.

La commedia noir “Kill Me Please” del regista belga Olias Barco smentisce però questa prospettiva e interpreta l’attuale rivendicazione occidentale del diritto al suicidio assistito (e istituzionalizzato) smascherandone, con sguardo cinico e divertito, la follia. Nel film un medico illuminato gestisce una clinica sontuosa, simile a quella realmente esistente in Svizzera, in cui si offre a pagamento un suicido assistito e ad personam a chi lo richiede; ciascun paziente è libero di decidere di farla finita quando e come crede, e ha diritto di essere affiancato e supportato da uno staff esclusivo nell’attuazione del proprio progetto di morte.

I pazienti che arrivano alla clinica, strampalati e grotteschi, spesso non hanno nessuno dei requisiti che ci si aspetterebbe da degli aspiranti suicidi, bensì rappresentano un campione di umanità mediamente sofferente, in cui tanti potrebbero, per certi versi, riconoscersi: li accomuna il desiderio (e la pretesa) che per loro si organizzi una morte su misura, studiata in ogni dettaglio a seconda dei gusti individuali. E il Dottor Kruger asseconda e accarezza insieme a loro questo sogno di terrena onnipotenza, facendosi paladino del diritto di ciascuno a morire con dignità e consapevolezza e, soprattutto, nel pieno rispetto delle proprie fantasie.

Il Suicidio nella Canzone d'Autore Italiana. #1 - Immagine: © olly - Fotolia.com
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Ma nonostante il meccanismo sembri progettato alla perfezione, entrambe le parti capiranno presto che dominare le dinamiche della vita e della morte è un’illusione, non foss’altro perché la semplice esistenza dei rapporti interpersonali introduce un gradiente di complessità impossibile da addomesticare (e nel film la complessità è rappresentata ad esempio dall’ingerenza dello Stato e delle istituzioni nella vita dei pazienti, dall’ostilità dei cittadini che si oppongono con violenza all’attività ambigua della clinica, e dai rapporti allucinanti che si creano tra i pazienti stessi e che stravolgono continuamente i piani prestabiliti).

Si intuisce insomma una critica al mito della “dolce morte” e all’attitudine nevrotica con cui l’uomo moderno si illude di avere il controllo della propria sofferenza eludendola anziché indagandone le motivazioni.

“Kill Me Please” è una pellicola divertente e a tratti molto disturbante, che tra le altre cose ammonisce sull’impossibilità di spostare fuori da sé la gestione dei propri drammi personali e ci ricorda come il bisogno assoluto di controllo sugli eventi, vissuto come un obbligo e una meta da raggiungere a tutti i costi, venga spesso scambiato per una soluzione intelligente, quando in realtà altro non è se non un grosso problema.

 

 

BIBLIOGRAFIA: 

  • Sassaroli S., Lorenzini R., Ruggiero G.M. (a cura di) (2006) Psicoterapia cognitiva dell’ansia – Rimuginio, controllo ed evitamento. Raffaello Cortina Editore
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