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Enclothed Cognition: Come i vestiti influenzano i nostri pensieri.

 

DIMMI COME TI VESTI E TI DIRO’ COSA PENSI! 

Enclothed Cognition. Dimmi come ti vesti e ti dirò cosa pensi! - Immagine: © Monika 3 Steps Ahead - Fotolia.comSe fino ad oggi avete speso minuti preziosi davanti allo specchio interrogandovi sulle possibili reazioni al vostro abbigliamento, dopo aver letto questo post il tempo abitualmente dedicato a ciò non sarà più sufficiente poichè, parola di autorevoli ricercatori, il tipo di vestito indossato non solo influenza l’altrui pensiero ma anche il vostro.

Ognuno di noi, soprattutto nelle occasioni che contano, quando indossa un determinato vestito lo fa con l’idea più o meno consapevole che ciò inciderà sull’opinione che gli altri hanno di lui/lei.

Quante giovani donne al primo appuntamento aprono l’armadio e scartano un maglietta che ha le pretese di essere un abitino con commenti del tipo “non vorrei mi prendesse per una poco di buono” oppure quanti uomini, depilati da testa a piedi, si rifiutano però di indossare una camicia rosa perchè temono di essere giudicati poco virili?

Insomma, noi tutti ci aspettiamo che il modo di vestirci possa influenzare le nostre relazioni sociali e, a quanto pare, tale fenomeno è enfatizzato dal fatto che l’abbigliamento sembra esercitare una discreta influenza anche sui nostri pensieri.

Lavati e non ci pensi più. Ma i processi mentali restano. Immagine: Lady Macbeth by George Cattermole - Wikimedia Commons Public Domain Art -
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La embodied cognition, un approccio emergente all’interno delle scienze cognitive, ci parla infatti di una mente “incorporata”, collocata in un ambiente esterno con cui ha un rapporto interattivo e dialettico. In tal senso i processi cognitivi non possono essere analizzati a prescindere dal rapporto che l’individuo intrattiene con il proprio ambiente e quindi anche con la posizione e lo stato dei nostri corpi.

In un precedente articolo avevo già discusso di come, per esempio, l’operazione di lavarsi le mani potesse indurre pensieri di purezza morale.

Sulla scia di ciò, in un recente studio, Adam e Galinsky, ci dicono che  anche i vestiti esercitano un potere sui nostri pensieri, un fenomeno a cui danno il nome di enclothed cognition. Ciò che contraddistingue tale fenomeno dalla embodied cognition è la capacità di agire in maniera meno diretta sui pensieri poichè mediato da due fattori: il significato simbolico dell’abbigliamento e il fatto di indossarli effettivamente.

L’ESPERIMENTO: 
I ricercatori hanno dapprima testato l’effetto dell’indossare camici bianchi da scienziato. 58 studenti sono stati invitati a svolgere un famoso test di attenzione selettiva (Stroop Test). I 24 che hanno indossato il camice bianco hanno commesso la metà degli errori rispetto alla media del restante campione.

La conferma che sia proprio il fatto di indossare un indumento a determinare modifiche nei nostri pensieri è data dall’evidenza che coloro che effettivamente hanno indossato il camice da laboratorio hanno registrato una migliore performance rispetto ai soggetti che l’hanno solo visto adagiato su una scrivania. Anche indossare lo stesso camice, informati però del fatto che esso appartenesse a un pittore, è stato associato a una performance più scarsa rispetto al primo gruppo del campione, confermando l’importanza del valore simbolico dell’abbigliamento.

Tuttavia sembra che gli effetti della enclothed cognition vadano al di là di una semplice identificazione con il ruolo attribuito all’abbigliamento. Gli studenti che hanno indossato il camice hanno mostrato prestazioni migliori di coloro i quali hanno soltanto scritto un saggio riguardo a come si sarebbero sentiti nell’abito di uno scienziato.

Non sembrano esserci dubbi: indossare un abito, piuttosto che un altro, esercita un discreto potere sulla percezione che abbiamo di noi stessi.

Mi chiedo allora se parte del coraggio dei vigili del fuoco non derivi proprio dalla loro uniforme, se i giudici sono così autorevoli grazie alla toga, se Belen sarebbe ugualmente sexy con il mio pigiama di flanella e se magari io con il suo abito sanremese…

no, direi no!

 

 

BIBLIOGRAFIA: 

Sesso & Coppia: Riaccendere la Passione quando il Viagra non basta.

 

Sesso & Coppia: Riaccendere la Passione quando il Viagra non basta. - Immagine: © mipan - Fotolia.comParlare di impotenza (Disfunzione Erettile) per gli uomini rappresenta un vero e proprio tabù e talvolta prima di prendere di petto la situazione si lascia passare molto tempo.

Inoltre non è detto che, trovato il coraggio, affrontata la prima visita e prescritta la cura farmacologica questa vada a buon fine. Infatti si ha un abbandono del trattamento in una percentuale che va dal 20 al 50 %. Stanley Althof in un suo articolo descrive il paziente tipo che può richiedere un trattamento per una disfunzione erettile.

Il Signor C. è uomo di 54 anni, è sposato, e per due anni ha vissuto nell’ombra di questa problematica prima di riuscire a chiedere aiuto. In questo periodo ha sviluppato un forte senso d’inadeguatezza, ansia legata alla performance, risentimento e depressione. A questo si aggiunge una modifica nei comportamenti di coppia, come l’andare a letto più tardi della compagna, il fornire scuse quali : ” sono troppo stanco”, “oggi è stata una giornata faticosa” o il più classico “non ho più 20 anni tesoro” (in realtà la disfunzione erettile è diffusa anche nei giovani).

L'impotenza (o Disturbo dell'Erezione) - Immagine: © goccedicolore - Fotolia.com -
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Ma dietro queste scuse cosa si nasconde? Imbarazzo e paura di fallire, sentimenti comuni a tutti i Signor C. che soffrono di impotenza. I rapporti sessuali si vanno pian piano diradando nel tempo fino a scomparire, e con essi anche qualsiasi possibile scambio di effusione che possa essere frainteso dalla partner. La compagna potrebbe porsi domande quali: “Non mi ama più?”, “Ha un’altra relazione?”, “ Non è più attratto da me?” ed iniziare a sentire il suo uomo come lontano, triste, preoccupato, irritabile e sulle difensive.

Quando un uomo decide di andare a parlare con uno specialista può coinvolgere oppure no la propria partner e, nel momento in cui viene intrapresa una cura col Citrato di Sildenafil, più comunemente conosciuto come Viagra, questa può esserne all’oscuro. A seconda del vissuto della partner durante il periodo d’astinenza, la scoperta della famosa pillola blu può portarla a pensare che sia la chimica e non più l’attrazione ad aver ri-attivato il loro rapporto, si potrebbe pertanto prendere il via un circolo vizioso in cui la donna è restia alle effusioni, l’uomo è ancora sotto il facile cedimento all’ansia e potrebbe pensare che il rifiuto della compagna possa essere dovuto alla prestazione che non è all’altezza, e questo può portare alla sospensione della cura. Questo è un possibile scenario; di seguito vengono riportate le cause di una possibile resistenza psicologica che può contribuire all’interruzione del trattamento con Sildenafil:

1. La durata del periodo di astinenza sessuale

2. Il tipo d’approccio adottato dall’uomo nel riattivare la vita sessuale

3. La prontezza sia fisica (non solo dell’uomo ma anche della donna che potrebbe infatti andare incontro all’inizio della menopausa) che emotiva mostrata dalla partner

4. Il significato che ciascun partner attribuisce alla cura farmacologica a base di Viagra

5. La qualità e l’importanza degli aspetti puramente affettivi all’interno della coppia

6. Vanno inoltre tenute in considerazione quelle circostanze in cui il calo del desiderio nei confronti della compagna e la mancata erezione sono legati a desideri inespressi (come per esempio fantasie sadomasochistiche). In queste circostanze molto spesso l’uso del Sildenafil si rivela inutile in quanto non induce alcun tipo di risposta genitale.

L’efficacia di un trattamento farmacologico per la disfunzione erettile va dal 44 al 91% e nonostante ciò numerose sono le interruzioni della cura. A tal proposito è stato indagato un metodo che al trattamento prettamente farmacologico associ un percorso di sostegno psicologico. Il gruppo era composto da 57 uomini dai 21 ai 75 anni d’età con problemi di disfunzione erettile da un minimo di un mese ad un massimo di 38 anni. Ciò che emerge in generale è che l’interazione tra le due terapie risulta funzionale nella maggior parte dei casi.

Sotto le lenzuola: Uomini troppo “golosi” e troppo “ruminatori”? Cause o correlazioni nella Disfunzione Erettile - Immagine: Costanza Prinetti © 2012
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Guardare al rapporto sessuale soltanto dal punto di vista di un puro e semplice fallimento fisiologico è di gran lunga riduttivo, numerosi sono i fattori che possono interferire col ri-raggiungimento dell’intesa e dell’atto sessuale. Parlare di accettazione dei cambiamenti avvenuti nella propria vita, dagli eventi stressanti, al naturale mutamento cui il corpo, sia esso maschile o femminile, va incontro, alle conseguenze che determinati tipi di malattie possono aver portato, non sarà di certo sufficiente da sé a far risbocciare la passione ma risulta fondamentale. Infatti, se non affrontati, tali impedimenti psicologici rendono del tutto inutile anche la cura medica più appropriata. Il terapista non solo può aiutare la coppia ad andare verso un nuovo modo di vedersi ed accettarsi, ma può anche aiutarli a ritrovare quel romanticismo andato perduto negli anni, coinvolgendoli in conversazioni che li preparino sia fisicamente che psicologicamente a ritornare di nuovo amanti.

Se nella coppia c’è una rabbia irrisolta da tanto tempo, l’astinenza sessuale potrebbe essere una semplice conseguenza di questa, per cui va da sé che se non si affronta il primo scoglio sarà difficile superare il secondo. Vanno poi tenute in considerazione le aspettative nei confronti della cura farmacologica, spesse volte sono irrealistiche supponendo che, con il ritorno dell’erezione, aumenti la frequenza dei rapporti, oppure che questa possa rendere l’uomo un “amante di successo”… qualora tutto ciò non accadesse è facile che venga data la colpa alla cura e non alle aspettative irrealistiche.

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È inoltre fondamentale ricordare che il Sildenafil è un farmaco che non agisce se non c’è da parte dell’uomo desiderio nei confronti della propria partner. Pertanto un colloquio con una persona non soltanto specializzata, ma neutrale e che si mostri priva di ogni giudizio potrebbe rivelarsi utile anche per la scelta della cura farmacologica più adeguata. Diversi sono i farmaci che consentono una riattivazione fisiologica dell’apparato genitale maschile, oltre al Sildenafil, vi sono anche delle iniezioni intracavernose di sostanze stimolanti quali la Papaverina. È un tipo di cura che, sebbene assicuri l’erezione, risulta essere alquanto invasiva e interferisce notevolmente con l’aspetto affettivo del rapporto, tuttavia se il caso non risponde ad altri tipi di cura resta comunque un rimedio valido da tenere in considerazione.

Se l’uomo confida di avere fantasie sessuali, sia convenzionali che non convenzionali, che differiscono notevolmente da quelle della propria partner, e sa di non poterle portare a compimento, allora la strada del Viagra potrebbe essere quella sbagliata, proprio per l’aspetto legato al desiderio, e prima di abbandonare ogni speranza si potrebbe considerare d’intraprendere una via d’intervento quale la precedente. Se ci sono aspetti psicologici che possono portare ad un blocco nella vita sessuale di un uomo, e conseguentemente anche di una coppia, una semplice pillola non è sufficiente a sistemare la situazione.

La vergogna, il timore del giudizio, la paura di non poter tornare ad essere quelli di prima, i desideri e le fantasie nascoste e volutamente smorzate da troppo tempo, sono tutti fattori che vanno presi in considerazione ed affrontati, affinché si ritrovi un equilibrio di coppia nuovo e perché no altrettanto soddisfacente.

 

 

BIBLIOGRAFIA:

Il Ritorno alla Coscienza: Neuroimaging del risveglio dall’anestesia generale.

– Rassegna Stampa – 

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze PsicologicheIl risveglio dall’anestesia generale è un’esperienza fenomenologicamente affascinante spesso associata a una fase iniziale di subcoscienza prima di accedere a un completo recupero del proprio stato di coscienza vigile e di ri-orientamento spazio temporale: basti sentire i racconti di chi l’ha vissuta.

Un gruppo di ricercatori guidati dal professor Harry Scheinin (University of Turku, Finland) in collaborazione con University of California, Irvine, USA ha sottoposto a tecniche di neuroimaging il processo del ritorno alla coscienza a seguito di un’anestesia generale. A venti giovani volontari è stata somministrata un’anestesia generale mentre veniva monitorata a livello di neuroimaging la loro attività funzionale cerebrale attraverso la tecnica PET.

Ecco cosa accadeva durante il processo del recupero di uno stato di coscienza vigile (valutato mediante una risposta motoria del soggetto a un commando verbale): ciò che iniziava ad attivarsi per primo durante tale processo di risveglio era un network di aree subcorticali e limbiche, quali il tronco cerebrale, il talamo, l’ipotalamo, la corteccia cingolata anteriore, profonde, primitive e filogeneticamente più antiche rispetto alla neocorteccia; solo in un secondo momento sono state poi rilevate le attivazioni a livello neocorticale

La coscienza umana è uno tra gli aspetti più misteriosi e complessi da indagare a livello scientifico, piccoli tasselli empirici possono aiutarci a comprenderlo: in questo caso il brain imaging ci fornisce dati in merito alle aree filogeneticamente più antiche, rispetto alla neocorteccia, che sembrano avere un ruolo primario nel processo del recupero di coscienza. Certo il come queste meccanismi neurali arrivino poi a creare la sensazione soggettiva puramente fenomenica del “risveglio” da un così particolare stato alterato di coscienza è ancora tutto da esplorare.

 

 

BIBLIOGRAFIA: 

  

Una stanza piena di gente, by Daniel Keyes (Disturbo Dissociativo)

Condannereste il Dr. Jekyll per i crimini commessi da Mr. Hyde?

Una stanza piena di gente. by Daniel Keyes. (Recensione). Recensione di: UNA STANZA PIENA DI GENTE  by Daniel Keyes

Siete seduti in salotto a guardare la tv, quando la polizia fa irruzione in casa vostra e in men che non si dica vi ritrovate con una pistola puntata contro, mentre un poliziotto vi ammanetta e vi legge i vostri diritti. Siete accusati di aver rapito, stuprato e rapinato tre studentesse e le prove contro di voi sono assolutamente schiaccianti. Non c’è dubbio che siate colpevoli, peccato che voi non abbiate alcun ricordo di quanto avete commesso. Come vi sentite?

Questo è quanto accade al ventiduenne Billy Milligan ed è così che comincia la storia che nel 1978 ha profondamente scosso e indignato l’opinione pubblica americana. Nonostante prove inconfutabili, Milligan viene infatti dichiarato non colpevole per infermità mentale poiché dalla perizia psichiatrica emerge una verità sconvolgente: Billy Milligan soffre di Disturbo di Personalità Multipla. Mai nella storia giudiziaria degli Stati Uniti era stato emesso un tale verdetto in caso di reati così gravi, tanto che questa sentenza all’epoca suscitò grandissimo scalpore.

Trauma e dissociazione: riflessioni teoriche e cliniche verso il DSM-5 - Immagine: © Redshinestudio - Fotolia.com
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Una stanza piena di gente racconta la vera storia di Billy – dagli abusi subiti durante l’infanzia fino al ricovero in una clinica, passando attraverso l’intero processo giudiziario – e sotto forma di romanzo offre una descrizione reale, accurata e dettagliata di uno dei più affascinanti disturbi psichiatrici.

Il Disturbo di Personalità Multipla, oggi ribattezzato Disturbo Dissociativo dell’Identità (DID), comporta il passaggio di una persona a differenti stati di personalità che prendono il controllo del suo pensiero e del suo comportamento. Queste personalità sono ben distinte e definite: ciascuna ha il proprio nome, i propri ricordi, la propria postura, il proprio modo di vestire e parlare (Steinberg, 2000); addirittura ogni personalità ha una propria calligrafia, una propria voce, proprie allergie e malattie (es. disturbi della vista) e persino propri tracciati EEG (Coons, 1988).

Il lettore può apprezzare la complessità di questa malattia facendo conoscenza con ciascuna delle 24 identità che si alternano in Billy, tra cui il londinese saccente Arthur (“quando parlò l’accento era quello dell’alta società britannica”), il violento iugoslavo Ragen (“Non sembrava l’imitazione di un accento slavo. La sua voce ora aveva davvero quel sibilo caratteristici di chi è cresciuto nell’Europa dell’Est e ha imparato l’inglese senza però perdere l’accento”), il quattordicenne fobico Danny e la dolce piccola Christene di 3 anni.

Ogni volta pare di trovarsi di fronte ad una persona diversa: una personalità è dislessica mentre un’altra legge e scrive correntemente l’arabo, una è esperta di arti marziali mentre l’altra è timorosa ed indifesa. Solitamente il passaggio da una personalità all’altra avviene in uno stato di trance rapidissimo, della durata di 5 secondi (Putnam, 1985): “Il corpo di Milligan sembrò ritirarsi in se stesso. Impallidì, e gli occhi si velarono come se fossero sul punto di rovesciarsi. Muoveva le labbra come se stesse parlando con se stesso […] Gli occhi di Milligan vagavano da una parte all’altra. Si guardò in giro, come qualcuno che si è appena svegliato da un profondo sonno.”

In un paziente affetto da Disturbo Dissociativo dell’Identità non è detto che tutte le personalità si conoscano ed interagiscano tra di loro. A volte alcune assumono il controllo e stabiliscono quale personalità possa uscire in determinate situazioni; per esempio alcune identità di Billy (soprannominate Gli Indesiderabili) erano state bandite perché ritenute pericolose per la sopravvivenza delle altre.

Psicopatia - Immagine: © Gina Sanders - Fotolia.com -
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Il libro è stato scritto da Daniel Keyes con la collaborazione del Maestro – la sintesi di tutte le personalità di Billy – il risultato dell’efficace psicoterapia a cui il protagonista è stato sottoposto (le sedute narrate sono tratte direttamente dai nastri registrati).

“Una stanza piena di gente” apre una profonda riflessione su un disturbo controverso dal punto di vista medico-legale. Negli USA alcune corti negano la validità di tale disturbo o ne ribadiscono la mancanza di prove scientifiche a sostegno, sebbene la dissociazione sia un fenomeno ampiamente osservato e documentato in ambito clinico. Qualora invece siano ammesse testimonianze a favore dell’esistenza del DID, questo disturbo rappresenta una grande sfida in ambito forense quando sulla base di tale diagnosi si invoca la non colpevolezza per infermità mentale.

Solitamente la linea di difesa adottata è impostata sull’analisi di quale delle personalità detenesse il controllo dell’imputato al momento del reato e se tale personalità fosse in grado di intendere e di volere. Posto che uno stato dissociativo può realmente ridurre la capacità di controllo delle proprie azioni e quindi diminuire la responsabilità criminale, spesso appellarsi alla presenza di un DID viene accolto con scetticismo a causa della possibilità che l’imputato possa simulare tale disturbo per evitare la detenzione, e raramente ha successo (Farrell, 2011).

Ma se tutte le prove indicassero che l’imputato soffre effettivamente di Disturbo Dissociativo dell’Identità, e foste voi il giudice, assolvereste il Dr. Jekill o condannereste Mr Hyde?

BIBLIOGRAFIA: 

  • Keyes, D. (2009) Una Stanza Piena di Gente (titolo originale: The Minds of Billy Milligan). Nord.
  • Steinberg, M. & Schnall M. (2006) La dissociazione. I cinque sintomi fondamentali. Cortina Raffaello, Milano.
  • Farrell, H.M. (2011) Dissociative Identity Disorder: Medicolegal Challenger. J Am Acad Psychiatry Law 39:402-6, 2011
  • Coons, P.M. (1988) Psychophysiologic Aspects of Multiple Personality Disorder: A review Dissociation 1:1, March 1988
  • Putnam, F.W. (1985). The switch process in multiple personality disorder. PROCEEDING OF THE SECOND INTERNATIONAL CONFERENCE ON MULTIPLE PERSONALITY/DISSOCIATIVE STATES, In B.G. Braun (Ed), (p.4). Chicago: Rush-Presbyterian-St Lukes medical Center

Narcisismo: Quanto mi amo?… e gli effetti sul colloquio di lavoro.

– Rassegna Stampa – 

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze PsicologicheIl segreto per il successo nei colloqui di lavoro sembra stare nel “quanto tu ti piaci” e non nel “quanto piaci” a coloro che ti stanno valutando secondo un nuovo studio che verrà pubblicato sul Journal of Applied Social Psychology.

Lo studio ha valutato l’efficacia di diversi tipi di comportamento – generalmente visti come maladattivi- che il narcisista mostra durante il colloquio di lavoro. In una prima parte dello studio 72 soggetti sono stati videoregistrati durante la simulazione di un colloquio di lavoro. Come ci si aspettava, i narcisisti tendevano già spontaneamente ad autopromuoversi maggiormente, ma proprio nel momento in cui l’intervistatore cercava di metterli in difficoltà tale modalità di autopromozione si accentuava maggiormente a differenza dei non-narcisisti che battevano in ritirata su questo aspetto. E senza che tale accentuazione dell’autopromozione risultasse poi nefasta negli esiti del colloquio.

Narcisismo e Leadership: gli svantaggi delle apparenze. Immagine: © 2011-2012 Costanza Prinetti
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In una seconda parte dello studio, circa 200 esperti hanno esaminato e valutato video di candidati (con diversi livelli di narcisismo ma simili competenze lavorative) durante colloqui di lavoro reali: ebbene sì, gli intervistatori generalmente premiavano con valutazioni più positive gli autopromotori “cronici” rispetto ai candidati più orientati verso strategie low-profile e di modestia.

Le ricadute applicative dello studio impattano sui selezionatori: maggior consapevolezza di tali strategie in relazione al narcisismo può favorire anche una valutazione più accurata che tenga in considerazione se e quanto sia utile e funzionale avere in una certa posizione lavorativa chi cronicamente si autopromuove e cerca in qualche modo di sedurre l’altro. Tanto più che non sembrano esserci evidenze scientifiche che supportino una reale maggiore efficacia lavorativa dei narcisisti rispetto ai non narcisisti.

 

 

BIBLIOGRAFIA: 

 

Studi Cognitivi: la Video Presentazione.

Studi Cognitivi

 

Studi Cognitivi, partner e finanziatore di State of Mind, ha recentemente portato online il nuovo sito, completamente rinnovato.

 

Tra le molte novità, ecco il video di presentazione della scuola:  

 

VISITA IL SITO DELLA SCUOLA! 

Corpi diversi, menti diverse: The Body-Specificity Hypothesis.

Stefano Terenzi. 

 

Corpi diversi, Menti diverse: the Body-Specificity Hypothesis
Body-Specificity & Lateralità

Piace pensarci come creature razionali che acquisiscono informazioni, le rapportano attentamente e prendono decisioni ponderate. Ma, come si vuol dimostrare, forse ci stiamo prendendo in giro. Da molti anni gli scienziati hanno dimostrato che esistono fattori interni ed esterni in grado di modificare il nostro pensiero, il nostro sentire e come lo comunichiamo. Un elemento di grande influenza sembra essere proprio il nostro corpo.

Un recente studio, pubblicato sull’edizione di Dicembre del Current Science, il giornale dell’ Association for Psychological Science, ha dimostrato come i “capricci” del nostro corpo influenzino il nostro pensiero, in molti modi ed in diverse aree: dall’emotività all’immaginazione, fino al linguaggio. Le persone hanno, ovviamente, differenti tipi di corporatura; ma questa banalità ha un ruolo molto particolare nella regolazione di come le persone pensano e decidono.

L’ipotesi di Daniel Casasanto, della New School for Social Research, denominata da lui stesso body-specificity ritiene che attraverso la lateralità della mano il nostro corpo possa influenzare le nostre scelte. Lo studioso ed i suoi colleghi, tramite le loro ricerche, hanno osservato come essere mancini o destrimani possa influenzare il nostro giudizio riguardo idee astratte; come il valore, l’intelligenza e l’onestà.

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Articolo consigliato: Da mesi sogni di vedere quel film? Allora ti siedi a destra

Con una serie di esperimenti hanno scoperto che, in generale, le persone tendono a preferire cose che incontrano sul lato del loro arto dominante. Infatti, quando ai partecipanti veniva chiesto quale di due prodotti avrebbero comprato, quale di due persone assunto per un incarico lavorativo o quale di due creature aliene fosse più credibile, i destrimani regolarmente sceglievano il prodotto, la persona o l’alieno che avevano visto sul lato destro della pagina mostrata; viceversa avveniva per i mancini. Questo genere di preferenze sono state trovate fin dai bambini di 5 anni.

Perché la lateralità manuale influenza così tanto la capacità di valutare?

Per Casasanto, tutto dipende dalla presenza di una maggiore fluidità nella scelta. “Le persone apprezzano più facilmente le cose e le persone più facili da percepire e con cui risulta più agevole l’interazione” dice Casasanto. I destrimani interagiscono nel loro sviluppo maggiormente con il lato destro, rispetto che con quello sinistro, così da creare col tempo un’associazione tra “buono” e “destro” e tra “cattivo” e “sinistro”.

Difatti, quando qualcosa ci fa uno strano effetto o incute un po’ di paura spesso usiamo il termine “cosa sinistra”. Questa preferenza per ciò che è localizzato sul nostro “lato dominante” non è innata e può, dunque, essere modificata. Infatti, è stato riscontrato come i destrimani che avevano subito un danno permanente al loro arto dominante, col passare del tempo, cominciarono ad associare il termine “buono” a “sinistro”. Ciò avveniva anche in esperimenti fatti in laboratorio. Questo evidenzia come, cambiando il “corpo” delle persone, sia possibile cambiare anche il loro sistema mentale.

Risultano ora chiare le molteplici implicazioni di questa ricerca. Una tra le molte potrebbe essere come tale fenomeno possa influenzare i risultati elettorali. Oggettivamente, circa il 90% della popolazione è destrimana, quindi, vien da se che per attrarre la maggior parte dei votanti la collocazione del nome sulla scheda elettorale o sul manifesto politico debba essere sul lato destro. Ergo, possiamo chiederci quanto il voto sia determinato da una scelta soggettiva del votante e quanto, invece, lo sia dalla posizione, lato dominante o non dominante, dell’icona politica posta sulla scheda elettorale.

 

 

 BIBLIOGRAFIA: 

Psicologia & Musica: Il Suicidio nella Canzone d’Autore Italiana #1

 

Quando attraverserà l’ultimo vecchio ponte

ai suicidi dirà baciandoli alla fronte

venite in Paradiso là dove vado anch’io

perché non c’è l’inferno nel mondo del buon Dio.

Preghiera in gennaio, Fabrizio de Andrè, 1967

 

Il Suicidio nella Canzone d'Autore Italiana. #1 - Immagine: © olly - Fotolia.com Il suicidio di un paziente è sicuramente l’evento più drammatico nella vita professionale di uno psichiatra o di uno psicoterapeuta, e non è così raro se si considera che in tutte le nazioni il suicidio è attualmente tra le prime tre cause di morte nella fascia di etá 15-34 anni (WHO, 2004). Il fenomeno del suicidio è un problema complesso non ascrivibile ad una causa o ad un motivo preciso. Sembra piuttosto derivare da una complessa interazione di fattori biologici, genetici, psicologici, sociali, culturali ed ambientali.

Più che di suicidio possiamo parlare quindi di suicidi, nel senso che ogni evento di questo tipo va ricollegato alla storia della persona, per poter tentare di capirne le motivazioni e il significato del gesto.

Non si tratta di una questione che interessa soltanto il mondo della psichiatria, ma è stato ampiamente affrontato anche da filosofi, poeti e scrittori. Lo stoicismo è forse uno degli esempi più noti di filosofia che accetta il suicidio e, anzi, in determinate condizioni, lo descrive come un atto naturale. Lo scrittore e filosofo Camus invece sottolinea come “Vi è solamente un problema filosofico veramente serio: quello del suicidio. Giudicare se la vita valga o non valga la pena di essere vissuta, è rispondere al quesito fondamentale della filosofia” (Camus,2001).

Le Metafore Psicologiche dei Cantautori Italiani. - Immagine: © nmarques74 - Fotolia.com
Articolo consigliato: Le Metafore Psicologiche dei Cantautori Italiani.

E i nostri cantautori? Non possiamo affrontare l’argomento suicidio e canzone senza partire da quella camera dell’Hotel Savoy di Sanremo nel 1967 dove Luigi Tenco si sparò alla testa (anche se come in tutti i suicidi più celebri del mondo della musica sono fiorite le più disparate teorie complottiste) lasciando il famoso biglietto: 

“Io ho voluto bene al pubblico italiano e gli ho dedicato inutilmente cinque anni della mia vita. Faccio questo non perché sono stanco della vita (tutt’altro) ma come atto di protesta contro un pubblico che manda Io tu e le rose in finale e ad una commissione che seleziona La rivoluzione. Spero che serva a chiarire le idee a qualcuno. Ciao. Luigi”.

Più precisamente, in termini tecnici il biglietto si chiama “nota suicidiaria” ed è presente circa nel 15% dei casi di suicidio (Shioiri et al., 2005). Tra i motivi per cui un suicida lascia tale messaggio ci possono essere sia quello di proteggere le persone che lascia nel mondo dai sensi di colpa, sia quello di indurre il senso di colpa in qualcuno. In questo caso emerge chiaramente la rabbia e il risentimento nei confronti del mondo musicale e dello spietato sistema delle competizioni canore.

Fabrizio De Andrè ha dedicato a Tenco la canzone Preghiera in gennaio (1967) parlando dei suicidi come coloro “che al cielo ed alla terra mostrarono il coraggio”. La questione del coraggio credo che sia cruciale quando si parla di suicidio. Sorprendentemente non esistono studi che vadano a misurare il coraggio, mentre esiste una forte evidenza che l’impulsività (l’agire d’impulso, senza valutare le conseguenze) sia un importante fattore di rischio per il comportamento suicidario (Hull-Blanks, 2004). D’altra parte coraggio e impulsività hanno qualche correlazione. Già Aristotele (1998) aveva definito il coraggio come una forma di impulsività con carattere di scelta e consapevolezza del proprio obiettivo.

Più avanti nel testo Faber parla “di quelle labbra smorte che all’odio e all’ignoranza preferirono la morte” cercando di sottolineare i motivi del gesto suicidiario che in questo caso assume un carattere di protesta quasi ideologica. E poi ancora il gesto suicidiario assume quasi un significato di sacrificio per una catarsi collettiva “Meglio di lui nessuno mai ti potrà indicare gli errori di noi tutti che puoi e vuoi salvare”.

Anche Francesco De Gregori ha ricordato Luigi Tenco nella canzone Festival (1976), attaccando pesantemente il cinismo e le manipolazioni mediatiche del mondo dello show business, che pilatescamente e ipocritamente ipotizza come motivazioni del gesto problemi di donne, di debiti, di abuso di alcol e di tranquillanti. Ma dal testo il cantautore ligure risulta sicuramente come una vittima di un sistema senza pietà: “La notte che presero le sue mani e le usarono per un applauso più forte” oppure “Nessuna lacrima vada sprecata, in fin dei conti cosa c’è di più bello della vita, la primavera è quasi cominciata”, per finire in una cena grottesca dove si canticchia la Vie en rose.

La scuola dei cantautori liguri è tra quelle che ha prodotto sicuramente più brani che raccontano di suicidi.

Bruno Lauzi ne Il poeta (1963) racconta la storia di un uomo che si toglie la vita per aver perso l’amore di una donna…lui piangeva e parlava di te…sospirava e parlava di te…”. In questo testo colpisce la frase “Ed infine una notte si uccise per la gran confusione mentale”, che ricorda uno stato dissociativo.

Marsha Linehan. - Immagine: © University of Washington http://faculty.washington.edu/linehan/
Articolo consigliato: Marsha Linehan e l’approccio dialettico per affrontare i propri demoni

Recentemente la dissociazione è stata infatti individuata come possibile fattore di rischio per i tentativi di suicidio in pazienti affetti da disturbo della personalità borderline (Wedig et al., 2012).

Deriva invece dal mondo psicanalitico una metafora molto pregnante per spiegare lo stato mentale del suicida: l’inondazione (flooding) in sentimenti dolorosi, intollerabili e incontenibili che può portare a una perdita di controllo e disintegrazione (Maltsberger, 2004).

Albergo a ore (1969) è una canzone tradotta in italiano da Herbert Pagani dalla versione in francese di Les amants d’un jour (portata in Francia al successo da Edith Piaf nel 1962) e cantata anche da Gino Paoli. La canzone racconta il suicidio di due amanti, scoperto dal portiere di notte dell’hotel: “se n’erano andati, in silenzio perfetto, lasciando soltanto i due corpi nel letto”. In questo caso non è chiaro se si tratti di un omicidio-suicidio di coppia, che ritroviamo frequentemente nelle cronache nell’ambito della violenza domestica, o di una follia a due, fenomeno descritto per la prima volta nell’800, in cui un “malato attivo” influenza un individuo recettivo (Lesegue e Falret, 1877).

Restando nell’ambito di problematiche della coppia La ballata dell’amore cieco (o della vanità) (1966) racconta di un rapporto sadomasochista che culmina con il suicidio di lui, come prova d’amore richiesta da lei: “la Vanità fredda gioiva, un uomo si era ucciso per il suo amore”. La canzone, come spesso succede nei brani della prima produzione di De Andrè, ha un andamento da ballata popolare, in cui le strofe pregnanti di significati drammatici si alternano ai “Trallallero”, con un effetto di cinismo grottesco che rende il brano ancora più efficace.

Il Disturbo Narcisistico di Personalità secondo la Teoria di Kernberg. - Immagine: © marcodeepsub - Fotolia.com
Articolo consigliato: Il Disturbo Narcisistico di Personalità secondo la Teoria di Kernberg

La canzone si conclude con la vittoria morale della vittima, che muore contenta e innamorata, mentre la persecutrice viene “presa da sgomento” in quanto le resta solo “il sangue secco delle sue vene”. La figura della persecutrice sadica ricorda il narcisismo maligno descritto da Kernberg (1992), anche se nella pratica clinica capita più frequentemente incontrare donne-vittima e maschi-persecutori. I soggetti affetti da questo grave disturbo presentano aggressività egosintonica e sadismo rivolto verso gli altri e verso sé stessi, comportamenti crudeli e onnipotenti e disprezzo verso gli oggetti buoni, percepiti come deboli e inaffidabili.

La Ballata di Michè (1968) di Fabrizio de Andrè racconta invece il dramma di un suicidio per impiccagione di un carcerato condannato a vent’anni per omicidio passionale. Il gesto è dedicato all’amata da cui la lunghissima separazione è impensabile “io so che Miché ha voluto morire perché, ti restasse il ricordo del bene profondo che aveva per te”. Il brano è estremamente attuale in quanto in Italia il numero di suicidi in carcere è in costante aumento negli ultimi dieci anni ed è di ben diciannove volte superiore alla popolazione libera. Tra le cause individuate ci sono il sovraffollamento, l’assenza di efficaci programmi rieducativi e di programmi di prevenzione, la mancanza di prospettive per il futuro e la comorbidità con patologie croniche (HIV, dipendenza da alcol e sostanze).

Leggi la seconda parte dell’articolo.

 

 

BIBLIOGRAFIA: 

  • Centro Studi di Ristretti Orizzonti. (2003). Dossier: Morire di Carcere.
  • World Health Organization. Suicide huge but preventable public health problem, says WHO (World Suicide Prevention Day – 10 September 2004). Geneve: WHO; 2004 – Cent Eur J Public Health. 2004 Dec
  • Camus A. Il mito di Sisifo, Bompiani. 2001
  • Shioiri T., Nishimura A., Akazawa K., Abe R., Nushida H., Ueno Y., Kojika-Maruyama M., Someya T. (2005). Incidence of note-leaving remains constant despite increasing suicide rates. Psychiatry and Clinical Neurosciences, 59, 2, 226–228
  • Maltsberger JT (2004). The descent into suicide. International Journal of Psycho-Analysis 85, 653-667.
  • Lasègue e Falret, J. (1877). La folie à deux ou folie communiqée. Archives générales de Médecine)
  • Aristotle. (1998). The Nicomachean ethics. Book VII. Oxford: Oxford University Press.
  • Hull-Blanks E. E., Kerr, B. A. & Robinson Kurpius S. E. (2004) Risk factors of suicidal ideations and attempts in talented, at-risk girls. Suicide & Life-Threatening Behavior, 34(3), 267-276.
  • Wedig M.M., Silverman M.H., Frankenburg F.R., Reich D.B., Fitzmaurice G., Zanarini M.C. (2012) Predictors of suicide attempts in patients with borderline personality disorder over 16 years of prospective follow-up. Psychol Med, 22:1-10.
  • Kernberg, O. (1998). Narcisismo patologico e disturbo narcisistico di personalità, in Ronningstam, E. F., I disturbi del narcisismo, Raffaello Cortina, Milano, 2001.

Video: La storia delle Neuroscienze in 3 minuti

 

L’Institute of Cognitive Neurosciences di Londra promuove diverse iniziative volte a divulgare la ricerca scientifica al pubblico, una di queste è il concorso “Brains on film” in cui studenti e ricercatori possono inviare dei video che raccontino qualcosa del mondo delle neuroscienze. 

Il vincitore di quest’anno è il video musicale: “We didn’t start the scanner” cover umoristica della canzone di Billy Joel “We didn’t start the fire”.

Autori: Jake Fairnie & Anna Remington 

 

 Buona visione! 

 

‘WE DIDN’T START THE SCANNER’ LYRICS:

VERSE 1:

Where on Earth Do We Start? Aristotle, Descartes,

J-P Flourens, Pigeon Lesions, Gall Phrenology.

Hughling Jackson, Brainstorm Status, Golgi and His Apparatus,

Broca, Wernike, Language Expertise.

 

VERSE 2:

Canine Brains, Hitzig, Fritch, Electrify and See Them Twitch,

Miller and His Magic Few, Seven Plus or Minus Two.

Neuron Theory, Drawing Cells, Ramon y Cajal Yells,

Gazzaniga Coined the Phrase with Miller in the Taxi Bays.

 

CHORUS:

We didn’t start the scanner – but we’ve strong attraction to that big contraption.

Get inside the magnet… we need activations for our publications.

 

VERSE 3:

Neisser, Sperry, Sherrington, Brodmann and His Brain Region,

Pinker, Chomsky, Hodgkin, Huxley, Phineas Gage.

Treisman and Gelade, Deutsch And Deutsch, Cherry Aid,

Broadbent, Moray, Pay Attention.

 

VERSE 4:

TMS PET NIRS EEG

fMRI MEG BOLD EMG

ERP SCR MMN GSR

RT SPECT — Find Out What it Means For Me.

 

CHORUS

 

VERSE 5:

Pavlov, Kiss-Me-Katz, Gregory, Sacks and Hats,

Kanwisher, FFA, Ramachandran, Piaget.

Christof Koch, Rensink, Most, Simons with Gorilla Ghost,

Tulving, Luria, Hebbian Decay.

 

VERSE 6:

Rizzolati, Posner, T. Robbins, Malenka,

Adrian, Owen, Saving Us from Locked-in.

Rutter, The Frith Crew, What The Hell Will Le Doux Do?

Psychos Getting Physical, Science Going Digital…

 

CHORUS

 

VERSE 7:

Alzheimers, Mattson, Vuilleumier, Emotion,

Hubel, Wiesel, Neurons Going Visual.

Subliminal Messaging, Are You Sure You’re Noticing?

Freg Gage, Braddick, Morris Going Plastic.

Flicker Paradigm, Dehaene and the Unseen Prime,

Kanizsa, Eriksen, Brains at the ICN.

 

CHORUS

 

FINAL CHORUS:

We didn’t start the scanner – but we’ve strong attraction to that big contraption.

Power down the magnet… write some publications on those activations.

Avviso: Annullato Seminario su Terapia dell’Abuso di Alcool 13-15 Aprile

AVVISO!! 

Ci dispiace comunicarvi che, per motivi di salute, il Professor Spada non può più partecipare all’evento:

“Terapia Cognitivo-Comportamentale dell’Abuso di Alcool”

che pertanto è stato annullato sia per la data del 13 Aprile a Modena che per il 15 Aprile a Bolzano.

In questo momento non siamo in grado di stabilire quando verrà recuperato, vi faremo sapere nei prossimi giorni.

 

AVVISO!

I Disturbi del Sonno interferiscono con il consolidamento della memoria a lungo termine

– Rassegna Stampa – 

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze PsicologicheI disturbi del sonno impattano negativamente sul consolidamento della nostra memoria, secondo quanto riportato da uno studio pubblicato il 28 marzo sul journal PLoS ONE. Mentre in letteratura sempre più è riconosciuto il ruolo del sonno nel consolidamento mnestico, il gruppo di ricercatori guidato da Ina Djonlagic presso Brigham and Women’s Hospital di Boston hanno ulteriormente approfondito la questione.

Lo studio ha verificato che i pazienti con un sonno discontinuo e frammentato (in particolare con diagnosi di apnee notturne) presentano un livello significativamente inferiore di aumento del consolidamento mnestico durante la notte e un peggioramento nell’esecuzione di un nuovo compito motorio (memoria procedurale) rispetto a un gruppo di controllo.

Entrambi i gruppi presentavano livelli di apprendimento e di performance comparabili durante la fase di training, suggerendo che il disturbo del sonno occorso durante la notte sia plausibilmente legato alla successiva riduzione della performance al risveglio (sia in termini di tempi di reazione che di errori commessi) rispetto al gruppo di soggetti che non presentava disturbi del sonno.

 

 

BIBLIOGRAFIA: 

Psicoterapia: Il Disputing Logico-Empirico di Beck

 

Psicoterapia: Il Disputing Logico-Empirico. - Immagine: © Carsten Reisinger - Fotolia.comCon il disputing empirico il terapeuta chiama il paziente a riflettere su come egli immagina concretamente che avvengano gli eventi negativi, e su quali prove concrete e tratte dalla sua esperienza quotidiana si basano questi pensieri catastrofici.

Insomma, esistono delle prove di fatto per tanta negatività? Il più delle volte, infatti, il paziente non ha riflettuto per nulla sulle sue idee catastrofiche, ma le ha date per scontate, come verità di per sé evidenti. Spesso il paziente non si rappresenta il percorso logico o empirico che lo ha portato a concepire le sue valutazioni negative. Semplicemente, egli vede nella sua immaginazione degli eventi temuti ed è spaventato da quelle immagini, non facendo alcuna distinzione tra pensiero e realtà.

Per il paziente è sufficiente pensare a qualche guaio per aver paura e stare in ansia. Pensare un pericolo corrisponde alla effettiva esistenza del pericolo. Quanto sia poi fondato questo timore, il paziente non solo non lo sa, ma nemmeno si è mai posto il problema. Per questo, a volte, è sufficiente chiedere al paziente: ma come avverrebbero queste disgrazie per incrinare l’edificio del pensiero negativo.

Psicoterapia: a che le serve ragionare così? Il Disputing Pragmatico secondo Ellis. - Immagine: © zero13 - Fotolia.com
Articolo consigliato: Psicoterapia: a che le serve ragionare così? Il Disputing Pragmatico secondo Ellis

Per esempio, la paziente Annagrazia B. riferì in prima seduta di temere intensamente la morte per incidente automobilistico. Alla semplice domanda:

T.: “Ma come avverrebbe questo incidente?”

La paziente rimase perplessa per qualche secondo. Poi rispose:

P.: “Sa che non ci avevo mai pensato? Mi limitavo a immaginare, anzi proprio a vedere, me stessa morta sul marciapiede e a provare terrore. Non mi ero mai chiesta come ci arrivassi a essere morta sul marciapiede”

La paziente ha già fornito uno spiraglio che il terapeuta deve allargare.

T.: “E allora chiediamocelo. Come può arrivarci ad essere morta sul marciapiede. Pensiamoci insieme: come avverrebbe questo incidente?”

A questo punto la paziente può iniziare da sola a criticare la sua convinzione. Oppure no, può rimanere perplessa. È tipico di molti pazienti ansiosi questa difficoltà nell’immaginare concretamente gli eventi. Spesso queste persone hanno contenuti mentali molto astratti, che si presentano alla mente in forma di discorso interiore, quindi verbale, e non in forma di immaginazione vivida e dinamica di eventi. Secondo Borkovec (1994), la forma verbale è più prossima all’astrazione e più incline a produrre ampi salti associativi. La paziente probabilmente ha associato l’idea di automobile con quella d’incidente automobilistico. Oppure ha associato due immagini piuttosto statiche: automobile e morte sul marciapiede, senza pensare a tutti gli eventi precedenti e intermedi. Sta al terapeuta incoraggiare la paziente a riempire gli spazi vuoti.

 

T.: “Ci pensi bene: come ha fatto ad arrivare morta sul marciapiede? Tra lei che guida e lei morta sul marciapiede ci sono una serie di eventi che non deve dare per scontati. Qui ci sono solo due scene. Produciamo uno scenario più ricco. Facciamo una serie di ipotesi. Fingiamo che lei sia la sceneggiatrice di un film. Che ci mette tra lei alla guida della sua auto e lei morta sul marciapiede?”

Incoraggiare il paziente o la paziente a immaginare visivamente, a “filmare” la sequenza degli eventi negativi è un modo per stimolare un pensiero più concreto. La concretezza a sua volta permette di riesaminare criticamente quanto sia probabile che l’evento si realizzi e come possa avvenire. 

Se ancora una volta il paziente non reagisce, dimostrando una vera e propria difficoltà nell’immaginare scene dinamiche, il terapeuta può e deve guidare il paziente passo passo.

T.: “Le do qualche suggerimento per lavorare su questo evento catastrofico. Immagina di essere stata investita? Immagina di essersi distratta e di essere finita fuori strada?”

Per ogni risposta della paziente occorre incoraggiarla a rendere tutto più dettagliato, concreto. La paziente può rispondere che teme di distrarsi o che teme di essere investita. Nel primo caso è bene far riflettere la paziente sul fenomeno del distrarsi.

Psicoterapia Cognitiva: "Cosa non le va in questo?" Come iniziare il Disputing del Pensiero Negativo. - © Lisa F. Young #16136135
Articolo consigliato: Psicoterapia Cognitiva: "Cosa non le va in questo?" Come iniziare il Disputing del Pensiero Negativo.

T.: Le do qualche suggerimento per lavorare su questo evento catastrofico. Immagina di essere stata investita? Immagina di essersi distratta e di essere finita fuori strada?”

Ancora una volta, nulla va dato per scontato. Se la paziente teme di distrarsi, occorre insistere su quell’evento per sdrammatizzarlo.

T.: “Come avviene una distrazione? Ci pensi: lei, mentre guida, si distrae? E quante volte accade? Certo, ci sono rapidi momenti di distrazione. Ma ragioniamo, quanto deve durare una distrazione veramente pericolosa?”

Può capitare che la paziente confonda uno stato di normale guida rilassata con la distrazione. Naturalmente la critica delle prove di fatto delle preoccupazioni va calibrata sul tipo di evento temuto.

Ci sono eventi la cui negatività è molto soggettiva e discutibile, come ad esempio tutti i timori di tipo sociale: timore di parlare in pubblico, timore di non essere simpatici, timore di non essere attraenti, e così via. In questo caso si può lavorare molto sul significato soggettivo dell’aspetto negativo degli eventi temuti.

In altri casi gli eventi temuti sono difficilmente etichettabili come soggettivamente catastrofici: timore di incidenti, sciagure, e così via. In questi altri casi è più facile allora riconsiderare la stima delle probabilità che l’evento accada.

 

 

BIBLIOGRAFIA: 

  • Borkovec, T. D. (1994). The nature, functions, and origins of worry. Davey, Graham C. L. (Ed); Tallis, Frank (Ed), (1994). Worrying: Perspectives on theory, assessment and treatment. Wiley series in clinical psychology., (pp. 5-33). Oxford, England: John Wiley & Sons, xv, 311 pp.

Autismo e Neurotipicità. Un incastro imperfetto…ma possibile!

 

Autistici e Neurotipici. Un Incastro Perfetto. - Immagine: © Texelart - Fotolia.com C’era una volta un bambino nato in mondo strano, fatto di luci abbaglianti, suoni assordanti e odori nauseanti. Non capiva come mai quella che poi avrebbe imparato a chiamare “mamma” lo costringesse a indossare abiti che pungevano tanto da farlo impazzire e perché ci tenesse a riempirlo di baci che gli lasciavano le guance così appiccicose da non dormirci la notte. Col passare degli anni questi ed altri fastidi andarono diminuendo e così l’interesse verso l’ambiente circostante lo spinse a cercare di comunicare le proprie esigenze agli alieni che gli stavano attorno. Più cercava di esprimersi, però, più riceveva ulteriori punizioni. Un giorno, per esempio, decise di uscire di casa con mamma senza protestare perché con lui era cresciuta anche la curiosità di vedere cosa ci fosse là fuori. Purtroppo si ritrovò ingabbiato in una specie di sedia a quattro ruote che si muoveva producendo un insopportabile rumore metallico. Le vibrazioni delle ruote gli creavano un fastidioso prurito lungo tutta la colonna vertebrale e le luci al neon lo rendevano incapace di vedere altro. Poteva però sentire le mani, che immaginava essere della madre, accarezzargli i capelli ed aveva la sensazione che ad ogni gesto gli venissero strappate intere ciocche.

Fu difficile per questo bambino insegnare alla mamma quanto il mondo da cui sentiva di provenire fosse diverso da quello in cui si ritrovava, ma col tempo le cose migliorarono. Lui fu in grado di spiegarle le sue difficoltà e lei trovò il modo di aiutarlo ad adattarsi alla sua strana realtà e da quel giorno impararono a volersi davvero bene ed anche ad andare insieme al supermercato… senza carrello però.

Autismo - Disturbo dello Spettro Autistico. - Immagine: © LiveStock - Fotolia.com
Monografia consigliata: Autismo – Disturbo dello Spettro Autistico

Questo è ciò di cui si è essenzialmente parlato il mese scorso a Crema, in occasione di un interessante convegno dal titolo “Percezioni sensoriali e comunicazione nell’autismo”.

Ospiti internazionali hanno intrattenuto il pubblico descrivendo gli individui con disturbi dello spettro autistico come soggetti caratterizzati soprattutto da un diverso modo di percepire la realtà che ne condiziona il comportamento e le abilità comunicative.

Questa attenzione al mondo sensoriale dei soggetti autistici dovrebbe trovare finalmente riscontro anche nei criteri diagnostici elencati nel DSM V  e, come sottolineato a più riprese dai relatori del convegno, dovrebbe direzionare qualsiasi intervento terapeutico a loro rivolto.

Così come genitori e professionisti danno per scontato l’obiettivo di promuovere le abilità degli autistici necessarie all’adattamento alla nostra realtà, altrettanto impegno dovrebbe essere dedicato all’individuazione della loro diversità sensoriale. Soltanto così si potranno definire obiettivi terapeutici sensati e rispettosi del benessere dell’individuo.

Non possiamo avere la presunzione di sapere meglio di loro cosa possa renderli felici o meno, possiamo solo sperare che siano disposti a fare il sacrificio di adattarsi alla nostra bizzarra “cultura” ma questa fatica potrebbe essere dimezzata se fossimo disposti a venirci incontro.. rinunciando per esempio alle luci al neon nelle scuole.

Ci stanno chiedendo troppo?

Giornata Mondiale dell’ Autismo. A che punto è la ricerca?

– Rassegna Stampa –

  

Un anno di ricerca sui Disturbi dello Spettro Autistico 

 

 Giornata Mondiale dell' Autismo. A che punto è la ricerca? Mappato il gene che regola il centro esecutivo del cervello durante l’arco di vita – Febbraio 2012

Per la prima volta gli scienziati hanno mappato l’attività, lungo l’arco di vita, di un meccanismo regolatore sensibile all’ambiente in grado di attivare o disattivare i geni del centro esecutivo cerebrale. Tra i principali risultati dello studio vi è la scoperta che i geni implicati nella schizofrenia e nell’autismo fanno parte di un particolare gruppo che presenta picchi di attività regolatoria correlata alla sensibilità  all’ambiente e a situazioni di criticità nel corso dello sviluppo.

La federazione NDAR ha creato la più grande banca dati per la ricerca sull’autismo – Dicembre 2011

Una partnership di dati tra il National Database For Autism Research (NDAR), e l’ Autism Genetic Resource Exchange (AGRE) lo rende forse il più grande archivio di dati di imaging, genetici, fenotipici, clinici e medici in materia di ricerca sui disturbi dello spettro autistico (ASD).

 

L’interazione con i compagni migliora le competenze sociali nei bambini con ASD – Novembre 2011

Secondo uno studio finanziato dal National Institutes of Health i bambini affetti da disturbo dello spettro autistico (ASD) possono migliorare le loro competenze sociali frequentando la scuola se anche i loro coetanei vengono istruiti sulle modalità di interazione. 

 

I neuroni cresciuti da cellule della pelle possono contenere indizi utili alla comprensione dell’autismo – Novembre 2011

I bambini affetti dalla sindrome di Timothy – una rara malattia genetica che colpisce meno di 20 persone in tutto il mondo – mostrano spesso i sintomi dei disturbi dello spettro autistico affiancati da una serie di problemi fisici. Utilizzando la tecnologia “disease-in a-dish”, i ricercatori hanno sviluppato, partendo da cellule della pelle, dei neuroni per studiarne i pattern di malfunzionamento.

 
 
Problemi nella crescita prenatale del cervello legati all’autismo – Novembre 2011

L’autismo comporta spesso una crescita precoce ed eccessiva del cervello, anche nella corteccia prefrontale (PFC). Anche se è stato teorizzato che questa anomalia della PCF sia alla base di alcuni sintomi autistici, i difetti cellulari che causano la crescita anomala rimangono sconosciuti. Da questo studio risulta che i bambini autistici hanno un maggior numero di cellule cerebrali e cervelli più pesanti rispetto ai bambini con sviluppo tipico.

 

Il rischio di autismo nei fratelli più piccoli è maggiore di quanto si pensasse – Agosto 2011

I genitori di un bambino con disturbo dello spettro autistico (ASD) hanno una probabilità circa il 19% che anche i figli successivi sviluppino ASD; in studi precedenti la probabilità stimata era del 3-4%.

 

Eredità genetica e fattori ambientali condivisi fra gemelli autistici – Luglio 2011

Nello studio sui gemelli più grande e più rigoroso del suo genere si è scoperto che l’ambiente condiviso influenza la sensibilità all’autismo più di quanto si pensasse in precedenza.

 

L’autismo rende sfuocati i confini tra le diverse aree cerebrali – Giugno 2011

Questo studio suggerisce che l’autismo cancelli le differenze molecolari che normalmente contraddistinguono differenti regioni del cervello. Tra più di 500 geni che normalmente si esprimono in modo significativamente differente nelle diverse arre cerebrali, solo 8 mostrarono tali differenze nel cervello di persone autistiche.

 

In Corea del Sud molti bambini in età scolare con un disturbo dello spettro autistico non vengono diagnosticati – Maggio 2011

La prevalenza dei disturbo dello spettro autistico (ASD) tra i bambini in Corea del Sud sembra essere molto superiore al range di stime conosciute per altri paesi. Inoltre due terzi dei casi di ASD sono stati riscontrati in bambini che frequentano scuole ordinarie, senza che ci fosse quindi mai stata una precedente diagnosi e quindi nessun trattamento adeguato.

 

Un esame di soli 5 minuti può identificare sottili segni di autismo in bambini di un anno – Aprile 2011

Una checklist di cinque minuti che i genitori possono compilare nelle sale d’attesa degli studi pediatrici potrebbe in futuro aiutare nella diagnosi precoce dei disturbi dello spettro autistico. Lo studio fornisce anche un modello per lo sviluppo di una rete di pediatri in grado di fornire tale servizio.

 

Un aiuto a trovare lavoro per i giovani con ASD – Aprile 2011

JobTIPS, un programma on-line che mira ad aiutare i giovani con disturbi dello spettro autistico (ASD) o con altre disabilità a sviluppare e mantenere le competenze necessarie per avere successo in ambito lavorativo. Questa risorsa si rivolge al periodo critico e di transizione in cui gli adolescenti lasciano il sistema scolastico, che di solito è la loro fonte primaria di servizi che mantengono una continuità per tutta l’infanzia.

 

 Raccolta Monografica sul Disturbo dello Spettro Autistico

Demenza, Alzheimer & Stimolazione Cognitiva: Use it or Lose it

Alice Mannarino.

 

Demenza, Alzheimer & Stimolazione Cognitiva: Use it or Lose it! - Immagine: © Yuri Arcurs - Fotolia.com Data la natura progressiva e irreversibile delle principali forme di demenza (in particolare la malattia di Alzheimer) e l’effetto limitato della terapia farmacologica, un numero sempre maggiore di studi sta indagando l’efficacia della stimolazione cognitiva nel migliorare e rallentare l’andamento progressivo della malattia.

La maggior parte dei trattamenti utilizzati oggi comprendono tecniche cognitive specifiche per la stimolazione delle memoria, dell’attenzione e del linguaggio; i programmi spesso sono composti da esercizi carta e matita, prove computerizzate, il tutto associato a terapia occupazionale, attività fisica e counseling psicologico (soprattutto per i familiari del paziente con demenza).

Interessante è uno studio pubblicato recentemente su una rivista scientifica (Viola L.F, Nunes P.V et al, 2011) il quale ha dimostrato l’efficacia di un programma di riabilitazione multidisciplinare specifico per le forme di Alzheimer in stadio non avanzato. Il trattamento in questione prevede sedute di riabilitazione di gruppo due volte a settimana per 12 settimane consecutive. Il programma comprende: riabilitazione cognitiva specifica, training computerizzato, terapia occupazionale, arte terapia, attività fisica, psicoterapia e counseling psicologico per i familiari.

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche
Articolo consigliato: Demenza: le Terapie Comportamentali più utili dei farmaci.

Le tecniche di stimolazione cognitiva specifica comprendono prove per la stimolazione dell’attenzione, della memoria e dell’orientamento spazio temporale (ovvero stimolazione di quelle funzioni che tendono a peggiorare per prime). L’arte terapia ha come scopo quello di migliorare le capacità cognitive, emozionali e interpersonali attraverso tecniche artistiche ed espressive. L’obiettivo invece della terapia occupazionale è quello di stimolare strategie e risorse che consentano al soggetto di portare a termine attività di vita quotidiana (igiene personale, attività domestiche e extra domestiche). La psicoterapia e il counseling ai familiari cercano innanzitutto di informare in modo adeguato i parenti riguardo l’andamento della malattia e le principale difficoltà che si possono incontrare; ha lo scopo inoltre di addestrare i caregiver sugli atteggiamenti e strategie che possono essere utilizzati per fronteggiare al meglio le situazioni difficili e lo stress che ne consegue.

I risultati di questo studio hanno evidenziato differenze significative tra i soggetti sottoposti al trattamento multidisciplinare sopradescritto (associato alla terapia farmacologica) e i soggetti sottoposti alla sola terapia standard (trattamento farmacologico e controlli medici). I soggetti sottoposti alla stimolazione cognitiva hanno mantenuto complessivamente stabile il proprio livello di funzionamento cognitivo con alcuni miglioramenti sia di tipo cognitivo sia di tipo emozionale a differenza invece del gruppo di controllo che ha riportato un marcato e globale peggioramento della performance cognitiva (soprattutto in memoria e attenzione), risultato indotto dalla natura progressiva della malattia. Particolarmente rilevante sembra inoltre l’attività di counseling rivolta ai familiari dei pazienti; sembra infatti che l’addestramento dei caregiver sulle strategie di comportamento più idonee da applicare quotidianamente e il supporto psicologico fornito nei momenti di difficoltà, riduca loro lo stress, con un significativo miglioramento della qualità di vita propria e del propri cari.

Importante ricordare che nel 2011 il World Alzheimer’s Report ha raccomandato che la stimolazione cognitiva dovrebbe essere offerta di routine a persone affette da demenza precoce, partendo dalla considerazione che questa, con attività volte a stimolare la memoria, l’attenzione e l’interazione sociale, ritarda nelle persone con demenza il peggioramento dei sintomi della demenza stessa.

 

 

BIBLIOGRAFIA: 

Demenza: le Terapie Comportamentali più utili dei farmaci.

– Rassegna Stampa – 

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze PsicologicheLa demenza è la perdita di abilità cognitive precedentemente acquisite (memoria, attenzione e orientamento spazio temporale) e si verifica in gravi disturbi come il morbo di Alzheimer.

Nonostante l’alto tasso di incidenza – circa il 5% della popolazione over 65 anni, e addirittura il 30% degli over 85 – ancora non esiste un trattamento efficace.

Secondo il Prof. Jiska Cohen-Mansfield dell’Università di Tel Aviv Herczeg Institute on Aging e la Sackler Faculty of Medicine, ai malati di demenza vengono spesso prescritti psicofarmaci per attenuare sintomi come i deliri, ma questo può avere conseguenze negative: molte delle fissazioni dei pazienti affetti da demenza possono avere un fondamento razionale, suggerisce Prof.Cohen-Mansfield, e potrebbero essere più efficacemente trattate con la terapia comportamentale piuttosto che farmacologicamente.

Lo studio, condotto in collaborazione con il Prof. Hava Golander del Dipartimento di Scienze infermieristiche e Drs. Joshua Ben-Israel e Doron Garfinkel del Shoham Medical Center, è stato pubblicato sulla rivista Psychiatry Research.

Antidepressivi
Articolo consigliato: Pillole o Parole?

Il campione era costituito da 74 adulti con diagnosi di demenza che risiedevano in case di riposo ed erano molto medicati, il 47 per cento con antidepressivi, un terzo con sedativi / ipnotici e il 13,5 per cento con antipsicotici; i ricercatori hanno esaminato sei categorie comuni di idee fisse, tra cui i timori di abbandono, i sospetti che i propri beni venissero rubati, e la sensazione di non essere “a casa”; la valutazione comprendeva anche lo stato mentale del paziente, la patologia comportamentale, e gli incidenti o i traumi passati. Il team di ricercatori ha anche interrogato i custodi e il personale infermieristico che aveva rapporti quotidiani con i pazienti: ai custodi è stato chiesto di descrivere non solo i deliri del paziente, ma anche di spiegare le circostanze in cui erano emersi.

Tenendo conto di tutti questi parametri, i ricercatori hanno scoperto che una grande percentuale dei deliri che i caregivers descrivevano sembrava avere spiegazioni logiche e riflettere la realtà vissuta dai pazienti. Ad esempio i pazienti che lamentavano di non sentirsi a “casa”: la casa di cura non ha aveva soddisfatto la loro definizione di “casa”, l’ansia poi si è dimostrata una risposta realistica quando accompagnava la separazione dall’ambiente esterno o dai propri cari. Alcune fissazioni erano anche il risultato del ri-vivere da parte del paziente traumi subiti in precedenza.

Questi risultati possono avere un forte impatto sul modo in cui gli operatori sanitari e i familiari rispondono ai pazienti affetti da demenza, sostiene il Prof. Cohen-Mansfield, perchè nelle persone affette da demenza il delirio in realtà non corrisponde alla definizione psichiatrica della psicosi. È invece importante che chi convive e si prende cura quotidianamente di queste persone consideri il contesto nel quale i deliri hanno luogo: un’analisi più approfondita di questi comportamenti è in grado di favorire l’empatia, la comprensione, e un trattamento più umano e compassionevole.

 

 

BIBLIOGRAFIA: 

Psicologia del Lutto: Accettazione & Elaborazione

 

Accettazione del Lutto. - Immagine: © bruniewska - Fotolia.com “[…] Stephen sapeva che sarebbe rimasto solo un’altra volta. Ma persino adesso non sapeva rinunciare ai suoi vagabondaggi, non poteva impedirsi di pensare che la situazione si era deteriorata al punto che non aveva provato alcuna particolare emozione quando, di ritorno dalle sue ricerche un pomeriggio di febbraio, aveva trovato vuota la poltrona di Julie. […] Fece un giro dell’appartamento, accendendo le luci, dando un’occhiata alle stanze deserte, piccoli allestimenti scenici pronti ad essere smantellati.
Tornato alla poltrona di Julie, vi si fermò un momento con la mano appena appoggiata allo schienale come se si trattasse di considerare i rischi di un gesto coraggioso. Infine si scosse, fece due passi intorno alla poltrona e si sedette. […] passarono minuti […] minuti vuoti come tutti gli altri. E a questo punto si lasciò sprofondare, immobile per la prima volta ormai da settimane. Restò così per ore, per l’intera notte, assopendosi brevemente […] in quell’arco di tempo gli parve che qualcosa si stesse raccogliendo nel silenzio circostante, il sollevarsi lento di un onda di consapevolezza, una specie di marea strisciante che, senza esplodere o frangersi drammaticamente, lo portò, attorno alle prime ore del mattino, al primo autentico flusso di comprensione della vera natura della sua sofferenza. Tutto ciò che aveva preceduto quell’evento non era che finzione, una banale e frenetica imitazione del dolore. Albeggiava appena quando incominciò a piangere e fu questo momento nella semioscurità che avrebbe fatto coincidere con l’inizio del suo lutto.” (McEwan, 1987)

Storie di Terapie #4 - Marco delle Canne. - Immagine: © natuskadpi - Fotolia.com
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In queste poche righe l’autore racconta il momento nel quale, in seguito a una perdita irreparabile, il tempo, dopo essersi fermato, ricomincia a scorrere, le emozioni e i pensieri si scongelano; è il momento nel quale è possibile sentire quel dolore senza nome che ci provoca l’impossibilità di sostituire qualcuno e di farlo rivivere dentro di noi, il dolore che ci fa accedere a quella dimensione umana per cui l’altro è altro da noi e ci da la misura di quanto c’è di prezioso e insostituibile in ognuno.

Questa emozione incontenibile, perché ha a che fare con una mancanza assoluta, ci porta anche, emotivamente e cognitivamente, a confrontarci con l’ignoto che la morte rappresenta, con quel qualcosa di cui non abbiamo ricordi, conoscenza, esperienza, “con un emozione che non sa di cosa è emozionata” (Campione, 2001). La possibilità di elaborare un lutto, di “perdonare la morte” (Zapparoli e Adler Segre, 1997) nasce da questa impossibilità di dare un senso alla morte di un altro integrandola nella nostra vita, che ci fa accedere a una dimensione “sovraumana”, fuori dal tempo della nostra vita, al di la di ciò che possiamo comprendere e al quale possiamo dare una risposta, nella quale si può eccedere nel dolore, nell’insensatezza e nella disperazione, per permettersi di continuare, all’infinito, a desiderare e a piangere chi non c’è più (Campione, 2001).

La morte degli altri ci porta inevitabilmente a fare i conti con l’idea che un giorno, è sicuro, toccherà a noi. Scrive Cardinali:

“Mi piace dire di un regalo che mi ha fatto morendo, che sto scoprendo piano piano, per la verità. Mi ha fatto sentire più vicina la mia morte: non tanto vicina nel tempo, quanto vicina nel pensiero. Prima era come se lui potesse ancora proteggermi da essa e io mi ci potessi nascondere dietro; ora mi sento in prima linea […] sto scoprendo che la mia vita è più presente: credo proprio che ciò sta avvenendo perché è più presente la mia morte”.

Questa consapevolezza profonda, che tutto prima o poi avrà termine anche per noi, provoca diverse reazioni, dalle più negative, ad esempio le difese patologiche, alle più positive, che contengono, come nelle parole di Cardinali un potenziale di crescita. Il potenziale di crescita sta nella possibilità di “personalizzare” la morte e i limiti della vita: la considerazione del limite temporale ci da la misura del valore del nostro tempo e ci spinge a stabilire priorità e scopi nei diversi campi dell’esistenza; al contrario il rifiuto di questo limite spinge ad adottare modalità di negazione ed evitamento che possono sfociare in comportamenti disadattivi, patologici e regressivi (Zapparoli e Adler Segre, 1997).

Bambini nel tempo: Comunicare la Malattia e l' Accudimento Invertito. - Immagine: © 1998-2012 Hoepli Editore. Immagine Riprodotta su gentile concessione dell'Editore.
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Elisabeth Kubler-Ross (1976) si interroga sul senso che questa modalità di negazione e di evitamento della morte ha nella nostra società occidentale: lo spostamento del fuoco dall’individuo alla massa, tipico della società occidentale, genera contemporaneamente la sensazione di non potere dominare in prima persona gli eventi, e spinge a modalità difensive, che se non possono affidarsi a un contatto faccia a faccia, si spostano su un piano più psicologico. Nel tentativo di allontanare, esorcizzare la realtà della morte come momento che accompagna la vita, la rappresentiamo, la trasformiamo in “come se”, bombardati continuamente dalla televisione e dai quotidiani di morti violente, ci abituiamo a pensare alla morte come a qualcosa che riguarda gli altri e ci disabituiamo a pensare alla nostra, tendiamo a credere nella nostra immortalità.

Gli effetti paradossali di questa desensibilizzazione da sovrastimolazione si notano nella difficoltà e nell’imbarazzo, mostrato dalla maggior parte delle persone, quando si trovano ad avere a che fare con il dolore e la drammaticità che la morte porta con sé quando ci coglie nella nostra vita privata: permettiamo ai bambini di passare ore a vedere cartoni animati violenti e ci chiediamo se sia il caso di portarli a salutare il nonno in fin di vita, ci commuoviamo di fronte alla morte rappresentata in un film ma ci imbarazziamo, vergogniamo e spaventiamo di fronte alla manifestazione del dolore di qualcuno che ha perso una persona cara.

Se la morte degli altri è qualche cosa che inevitabilmente rimane fuori di noi e ci attraversa solo come un dolore senza fine per una perdita irreparabile, forse un modo per restituirle un potenziale creativo ed evolutivo che ci aiuti a crescere e a dare senso a ciò che viviamo è proprio quello di riuscire a confrontarci con l’idea della nostra fine: “Credo che dovremmo prendere l’abitudine di pensare ogni tanto alla morte e al morire, prima di incontrarla nella nostra vita personale. […] può essere una benedizione usare il tempo della malattia di una persona cara o di un amico per pensare alla morte o al morire in termini riguardanti noi stessi” (Kubler-Ross, 1976).

 

 

BIBLIOGRAFIA:  

  • Campione F. I (2001) ll lutto tra disperazione e crescita. In-formazione psicologia, psicoterapia, psichiatria. Anno 12, 43: 8-14.
  • Cardinali F. Il vivere e il morire. Incontri e domande nell’esperienza di uno psicoterapeuta.
  • Kubler-Ross E. (1976) La morte e il morire. Cittadella Editrice, Assisi.
  • McEwan (1987) Bambini nel tempo. Einaudi, Torino, 1988
  • Zapparoli G.C. & Adler Segre E. (1997) Vivere e morire. Un modello di intervento con i malati terminali. Campi del Sapere, Feltrinelli, Milano.

Dimmi che personalità hai e… ti dirò se ingrasserai?

 

Qual è la tua personalità? Sei disciplinato e ordinato, o sei più aggressivo e impulsivo?

Dimmi che personalità hai e... ti dirò se ingrasserai?. - Immagine: © Jaimie Duplass - Fotolia.comUna recente ricerca del National Institute of Health suggerisce che questi tratti della personalità potrebbero essere predittivi delle  nostre variazioni di peso.

E’ noto a tutti che l’obesità, dovuta ad una cattiva alimentazione e a stili di vita sedentari, potrebbe portare a malattie cardiache, diabete di tipo 2, alcuni tipi di cancro, artrite, conseguenze psicologiche (bassa autostima, distimia, rimuginio e elevato autocriticismo) e una riduzione significativa nella qualità dello stile di vita.

Infatti, le persone gravemente obese tendono a mettere in atto una serie di evitamenti che, nel lungo periodo, si trasformano in un vero e proprio ritiro sociale con gravi conseguenze nelle relazioni socio- familiari. Ma a che cosa è dovuta questa obesità? Secondo questa recente ricerca, potrebbe dipendere dai diversi tratti di personalità che caratterizzano ognuno di noi. Quindi personalità non patologiche aiuterebbero a mantenere un peso sano rispetto a coloro che mostrano tratti personologici patogeni.

Quindi, coloro che manifestano la presenza di tratti impulsivi di personalità sono più esposti a tendenza ad essere in sovrappeso o obesi. Un certo livello di auto-disciplina è fondamentale per iniziare una dieta sana e un giusto esercizio fisico, e sicuramente le persone impulsive tendono ad eccedere con le regole durante la prima fase di una dieta per poi cedere il passo alle tentazioni dettate dal cibo o dall’alcool.

 

I Disturbi dell'alimentazione: resoconto di un convegno - SISDCA 2011 - Immagine: © DURIS Guillaume - Fotolia.com
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Indubbiamente non avrebbero l’habitus per intraprendere un percorso lungo e faticoso. Ecco perché alcune persone obese mollano il trattamento.
Quindi, tutti coloro che mostrano una personalità dedita al passaggio all’atto e poca coscienziosità nel giudicare e valutare le proprie azioni potrebbero imparare, con una terapia, a programmare e pianificare la propria alimentazione secondo delle regole rigide basate su pasti regolari, e una graduale perdita di peso.

Dopo aver letto questo articolo, dal titolo interessante, mi sembrava di avere tra le mani uno dei risultati ai test che si trovano all’interno di riviste di Gossip. C’è da dire che sicuramente è possibile individuare delle personalità premorbose, che, in qualche modo potrebbero essere considerate come fattori di rischio, ma bisogna sempre considerare altre variabili come l’ambiente e la famiglia nella quale si cresce. Sicuramente è l’interazione di una serie di fattori che porta al manifestarsi del sintomo, considerati singolarmente potrebbero non portare a nessun esito.

Di conseguenza parlare solo di personalità e in maniera così asettica pare limitativo e controproducente.

Quindi, va bene fare ricerca, ma spendere fonti per cadere nelle banalizzazioni, mi sembra troppo poco gratificante.

 

 

BIBLIOGRAFIA: 

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