Dimmi che personalità hai e… ti dirò se ingrasserai?
Qual è la tua personalità? Sei disciplinato e ordinato, o sei più aggressivo e impulsivo?
Una recente ricerca del National Institute of Health suggerisce che questi tratti della personalità potrebbero essere predittivi delle nostre variazioni di peso.
E’ noto a tutti che l’obesità, dovuta ad una cattiva alimentazione e a stili di vita sedentari, potrebbe portare a malattie cardiache, diabete di tipo 2, alcuni tipi di cancro, artrite, conseguenze psicologiche (bassa autostima, distimia, rimuginio e elevato autocriticismo) e una riduzione significativa nella qualità dello stile di vita.
Infatti, le persone gravemente obese tendono a mettere in atto una serie di evitamenti che, nel lungo periodo, si trasformano in un vero e proprio ritiro sociale con gravi conseguenze nelle relazioni socio- familiari. Ma a che cosa è dovuta questa obesità? Secondo questa recente ricerca, potrebbe dipendere dai diversi tratti di personalità che caratterizzano ognuno di noi. Quindi personalità non patologiche aiuterebbero a mantenere un peso sano rispetto a coloro che mostrano tratti personologici patogeni.
Quindi, coloro che manifestano la presenza di tratti impulsivi di personalità sono più esposti a tendenza ad essere in sovrappeso o obesi. Un certo livello di auto-disciplina è fondamentale per iniziare una dieta sana e un giusto esercizio fisico, e sicuramente le persone impulsive tendono ad eccedere con le regole durante la prima fase di una dieta per poi cedere il passo alle tentazioni dettate dal cibo o dall’alcool.
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Indubbiamente non avrebbero l’habitus per intraprendere un percorso lungo e faticoso. Ecco perché alcune persone obese mollano il trattamento. Quindi, tutti coloro che mostrano una personalità dedita al passaggio all’atto e poca coscienziosità nel giudicare e valutare le proprie azioni potrebbero imparare, con una terapia, a programmare e pianificare la propria alimentazione secondo delle regole rigide basate su pasti regolari, e una graduale perdita di peso.
Dopo aver letto questo articolo, dal titolo interessante, mi sembrava di avere tra le mani uno dei risultati ai test che si trovano all’interno di riviste di Gossip. C’è da dire che sicuramente è possibile individuare delle personalità premorbose, che, in qualche modo potrebbero essere considerate come fattori di rischio, ma bisogna sempre considerare altre variabili come l’ambiente e la famiglia nella quale si cresce. Sicuramente è l’interazione di una serie di fattori che porta al manifestarsi del sintomo, considerati singolarmente potrebbero non portare a nessun esito.
Di conseguenza parlare solo di personalità e in maniera così asettica pare limitativo e controproducente.
Quindi, va bene fare ricerca, ma spendere fonti per cadere nelle banalizzazioni, mi sembra troppo poco gratificante.
La perdita di peso non aumenta l’autostima nelle ragazze adolescenti?
– Rassegna Stampa –
Secondo uno studio condotto alla Purdue University la perdita di peso nelle adolescenti obese porterebbe a benefici fisici ma non psicologici: sembra infatti che perdere peso non le aiuti a sentirsi meglio con loro stesse. I ricercatori, basandosi sui dati del National Heart, Lung and Blood and Growth Institute Health Study, hanno infatti scoperto che alla perdita di peso non corrispondeva un reale cambiamento nell’immagine corporea e un effetto positivo sull’autostima.
Lo stato di salute e il peso di oltre 2.000 ragazze sia caucasiche che afroamericane è stato monitorato a partire dai 9 ai 10 anni di età per i 10 anni successivi. Le ragazze sono state divise in tre gruppi a seconda della tendenza nel tempo del loro indice di massa corporea: normopeso, tendenti all’obesità e cronicamente obese.
I dati hanno rivelato alcune differenze a seconda dell’etnia di appartenenza: le ragazze bianche avevano una autostima più bassa rispetto alle coetanee normopeso e questa non è migliorata con la perdita di peso, mentre le ragazze nere che da obese sono entrate in un range di normalità l’autostima è migliorata, tuttavia la percezione negativa del proprio corpo è rimasta invariata; l’autostima per le ragazze nere è stata complessivamente inferiore ma, in coloro che sono entrate nel range di peso normale, è aumentata più di quanto abbia fatto per qualsiasi altro gruppo di ragazze: Secondo i ricercatori questo fenomeno deve essere studiato più in profondità per capire in che modo le norme subculturali possano influenzare questo processo.
Sono necessarie ulteriori ricerche per capire perché le adolescenti si sentano in questo modo, ma l’ipotesi dei ricercatori è quella che guarda allo stigma derivante dagli stereotipi sociali negativi sull’obesità: i bambini infatti interiorizzano gli stereotipi e le percezioni negative di persone obese prima ancora di diventare obesi in prima persona, e questi tendono a rimanere stabili e a influenzare l’autoimmagine a dispetto delle variazioni di peso.
Dopo aver introdotto i principi teorici di base dellaterapia cognitiva e i modelli psicopatologici cognitivi di ansia, depressione e disturbi alimentari elaborati da Albert Ellis e Aaron Beck, il seminario approfondirà gli sviluppi successivi che hanno esteso il modello di partenza al trattamento del disturbo ossessivo, della fobia sociale e della bulimia.
Verranno quindi discussi gli sviluppi più recenti (cosiddetti di «terza ondata»), che si affiancano al comportamentismo e al cognitivismo clinico: gli interventi di accettazione e validazione a integrazione delle tecniche di ristrutturazione cognitiva, il focus sui processi oltre che sui contenuti mentali, le tecniche esperienziali e meditative orientate alla mindfulness, l’attenzione per la metacognizione e i tentativi di spiegare le componenti relazionali in termini cognitivi.
Sandra Sassaroli, psichiatra e psicoterapeuta, è direttore della Scuola di terapia cognitiva e cognitivo-comportamentale «Studi Cognitivi» con sede a Milano. È autrice e co-autrice di diversi volumi, fra i quali Attaccamento, conoscenza e disturbi di personalità (1995), La mente prigioniera (2000), Psicoterapia cognitiva dell’ansia (2004) e I disturbi alimentari (2010).
Giovanni M. Ruggiero, psichiatra e psicoterapeuta, è direttore della Scuola di terapia cognitiva e cognitivo-comportamentale «Psicoterapia Cognitiva e Ricerca» con sede a Milano. Fra i volumi recentemente pubblicati: Psicoterapia cognitiva dell’ansia (2004), I disturbi alimentari (2010) e Terapia cognitiva: una storia critica (2011).
19 aprile 2012, ore 09.30
Università degli Studi di Milano-Bicocca Scuola di Specializzazione in Psicologia del Ciclo di Vita
Marsha Linehan e l’approccio dialettico per affrontare i propri demoni
–Sei una di noi?
Il paziente lo voleva sapere e Marsha Linehan, all’età di 68 anni, famosa per la sua Terapia Dialettico-Comportamentale per il trattamento del Disturbo di personalità Borderline, ha avuto la risposta pronta:
-“Se ne ho sofferto?”
-“No, Marsha. Intendo dire se sei una di noi. Come noi. Perché se tu lo fossi, daresti a tutti noi una grande speranza”
-“That did it”.
Così la famosa terapeuta e ricercatrice americana ha svelato la sua storia in pubblico lo scorso Dicembre di fronte a un’audience di amici, familiari e dottori, presso l’Institute of Living, dove lei stessa era stata ricoverata e trattata per la prima volta all’età di 17 anni per estremo ritiro sociale (articolo completo sul New York Times, clicca qui).
Per la presenza di sintomi psicotici i medici la diagnosticarono come schizofrenica. I due anni in cui la allora adolescente Linehan passò alla clinica psichiatrica sono descritti come i più duri, disturbati e isolati di tutta la sua malattia. Tentando di farsi del male in ogni modo, fu messa in una stanza isolata, con solo l’indispensabile per dormire e una piccola finestra. Ma per lei il desiderio di morire e farsi del male si faceva sempre più profondo. Così iniziò a fare l’unica cosa che riusciva: sbattere la testa contro il muro, poi sul pavimento. Forte.
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-“La mia intera esperienza di tali episodi era che qualcun altro stava facendo tutto ciò. Era un po’ come -lo so che stai arrivando, sono fuori controllo, qualcuno mi aiuti: dov’è Dio? -Mi sentivo completamente vuota, come l’uomo di latta: non avevo alcun modo di comunicare ciò che mi stava capitando, nessun modo di capirlo”.
-“Onestamente, in quel periodo non realizzavo che stavo combattendo contro me stessa. Ma è probabilmente vero che ho sviluppato una terapia che fornisce ciò di cui io ho avuto bisogno per molti anni e che non ho mai ricevuto”.
La dott.ssa Marsha Linehan, attualmente professore di psicologia, psichiatria e scienze del comportamento all’Università di Washington, si è specializzata nel trattamento dei pazienti con disturbo di personalità Borderline, diagnosi che essa stessa si è data retrospettivamente. Come mai allora la discrepanza con la diagnosi dell’adolescenza? È verosimile che Marsha Linehan abbia avuto degli episodi psicotici, motivo per cui era stata fatta rientrare nella diagnosi originaria. Ma oggi sappiamo che anche pazienti con BPD possono, sotto particolare stress, presentare episodi psicotici – fenomeni che in questi casi rimangono transitori e non cronicizzano come invece accade nei casi di schizofrenia. Inoltre, il BPD non è entrato nella classificazione dei disturbi mentali fino al 1980, con l’uscita del DSM III, molto dopo la prima ospedalizzazione della Lineahn.
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Il Disturbo Borderline di Personalità copre uno spettro molto vasti di sintomi (ben 9 sono i criteri citati per la diagnosi nel DSM IV) e il concetto nosografico di BPD si muove lungo gli assi del disturbo dell’identità e delle relazioni, del discontrollo degli impulsi e della disregolazione affettiva (Dimaggio, Semerari, 2011). Il disturbo Borderline di personalità è una patologia estremamente invalidante, essenzialmente cronico e che può implicare comportamenti autolesivi. La diagnosi di BPD è delicata e ancora oggi molti pazienti non ricevono la diagnosi corretta; ad esempio, i cambi repentini di umore, l’instabilità e l’impulsività possono essere scambiati come caratteristiche del disturbo bipolare.
Quella di disturbo Borderline di personalità è forse una delle diagnosi più stigmatizzate di sempre. Basti pensare che fino a non molto tempo fa – e forse ancora adesso in alcune sette religiose – si pensava che questo tipo di persone fosse posseduta dal demonio, e quindi veniva trattata con l’esorcismo.
Da questo punto di vista, la self-disclosure della Linehan va letta come un modo per de-stigmatizzare la malattia mentale e per sottolineare che chi ha una diagnosi di questo tipo non deve necessariamente vedere davanti a sé una vita povera e dolorosa. D’altra parte, pensarsi come vittime non fa altro che alimentarne il senso e sgretolare ciò che può motivare queste persone a iniziare un trattamento: la speranza.
Studi di follow-up hanno dimostrato che pazienti diagnosticati con BPD tendono a migliorare negli anni e i sintomi ad affievolirsi, soprattutto per chi si è sottoposto, oltre a trattamento farmacologico, a una psicoterapia. Questo è probabilmente quello che è successo anche a Marsha Linehan: tempo e maturazione.
But, as Dr. Linehan herself admits, she still, to this day, struggles with her demons at times. Thankfully, she got to the point in her life where she was no longer so destructively driven or possessed by her inner demons, learning to cohabitate with them creatively. Or as Jung might put it, she, like all of us, may still have her demons (complexes), but they no longer have her. At least, not most of the time (Stephen Diamond, 2011).
BIBLIOGRAFIA:
Il contenuto di questo articolo è stato liberamente tratto e tradotto dai seguenti siti web:
Neuroscienze: Mind Wandering. Perchè la nostra mente vagabonda?
Sognare ad occhi aperti la nostra prossima vacanza, immaginare la cena che ci aspetta mentre viaggiamo in treno verso casa, perderci in pensieri mentre scorriamo le pagine di un libro senza capire quello che leggiamo, visualizzare un’immagine di noi mentre compiamo un gesto eroico o mentre litighiamo finalmente con un collega che ci ha stancato da giorni…
Gli esseri umani generano costantemente pensieri e immagini che il più delle volte non sono legati alle circostanze in cui si trovano e malgrado l’elevata frequenza con cui la fantasia spicca il volo, capita spesso di sorprendersi quando ci si accorge di aver trascorso gli ultimi minuti o secondi immersi in pensieri lontani dalla realtà e senza essercene accorti!
Questo strano e tuttavia frequentissimo fenomeno è da tempo oggetto di studio da parte di molti ricercatori che si occupano di approfondire i meccanismi attraverso i quali la coscienza umana trova forma ed espressione ed è noto come mind wandering (mente vagabonda).
Ma a cosa ci serve? Perché tutti siamo ciclicamente rapiti da pensieri che ci distolgono dalla realtà? Perché la nostra coscienza appare per qualche istante alterata?
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Le neuroscienze hanno dato negli ultimi anni un valido contributo alla comprensione dei meccanismi neurali coinvolti nel mind wandering, tale da aver individuato una rete neurale legata a questa attività di pensiero: il Default Mode Network (DMN). Questa rete neurale comprende la corteccia prefrontale mediale, la corteccia cingolata posteriore e le cortecce infero-parietale e temporale. Rispetto ad altre aree corticali, il DMN ha un particolare pattern di attivazione: l’attività corticale di questo network tende a ridursi significativamente durante compiti cognitivi, mentre aumenta i suoi livelli di attività quando il cervello è a riposo (Raichle et al., 2001). Questo ha permesso di identificare la rete del DMN come separata dalle altre, sia dal punto di vista funzionale che strutturale.
Vista la frequenza e l’intensità con cui il nostro cervello si impegna in un’attività apparentemente inutile e potenzialmente dannosa per le nostre performance, vale la pena approfondire alcune tra le principali funzioni attribuite in letteratura al Mind Wandering:
1) Programmare il futuro: una significativa quantità di tempo trascorso a “divagare” è dedicato ad eventi futuri. Questo processo mentale aumenta nei periodi di più intensa riflessività ed è ridotto quando siamo tristi; inoltre, molte delle strutture corticali dedicate alle capacità di progettazione del futuro sono implicate anche nel wandering. Forse quindi una delle funzioni primarie della “mente vagabonda” è di generare previsioni sulla propria vita necessarie a navigare con successo nel mondo reale.
2) Accrescere la Creatività: ci sono infiniti aneddoti di idee illuminanti giunte improvvisamente alla mente di un individuo proprio durante episodi di wandering. Sebbene molte ricerche siano ancora in corso sull’argomento, alcuni ricercatori sostengono l’ipotesi che fantasticare contribuisca ad allungare i tempi di “incubazione” delle idee e a favorire la costruzione di soluzioni più creative.
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3) Attenzione più fluida: per un individuo abituato a perseguire diversi obiettivi nello stesso momento, l’abilità di passare attraverso “flussi di informazioni” diverse può essere adattiva. Il wandering potrebbe essere dunque un’estensione della tendenza, basilare per tutti gli animali, di far fluttuare continuamente l’attenzione tra bisogni e obiettivi tra loro diversi e talora in contrasto, ma entrambi fondamentali per la sopravvivenza.
4) “Refresh” della mente: alcune linee di ricerca indicano che i processi di apprendimento siano favoriti da una pratica diluita nel tempo, piuttosto che da un uno massiccio e continuo dispendio di energie. Uno dei possibili vantaggi del wandering, potrebbe dunque essere che lasciare la mente libera di “vagare” per qualche attimo durante un compito in corso permette alla mente di operare un “refresh” e di recuperare le capacità necessarie per dedicarsi al compito in corso.
Qualunque sia la sua funzione, il mind wandering sembra essere un meccanismo involontario e automatico, difficile da intercettare quando avviene, ma facile da riconoscere solo una volta accaduto. E’ affascinante l’idea che i momenti in cui “perdiamo il filo” e ci assentiamo, possano essere proprio quelli in cui la mente vaga per recuperare energie e informazioni utili per andare avanti nel suo compito…
BIBLIOGRAFIA:
Raichle, M.E. et al. (2001) A default mode of brain function. Proceeding of the natural academy of science U.S.A. 98, 676–682.
Schooler, J. W., Smallwood J., Christoff, K., Handy, T.C., Reichle, E.D. and Sayette, M.A. (2011) Meta-awareness, perceptual decoupling and the wandering mind. Trends in Cognitive Sciences , Vol. 15, No. 7.
Psicopatologia Post-Partum e Perinatale. Notizie dal Congresso.
Nello splendido contesto del Collegio dei Padri Oblati di RHO, il 26 marzo l’A.O. “G. Salvini” di Garbagnate ha organizzato un convegno sulle psicopatologie perinatali. Argomento di altissimo interesse e attualità quello della patologie post-partum.
I relatori parlano molto di Depressione Post-Partum, e dei Programmi Innovativi gestiti dalla Regione, ma non solo. Vengono discussi anche temi quali gli interventi efficaci e le psicosi post-partum.
Dopo i saluti delle autorità l’apertura dei lavori, Carmine Pariante e Paola Dazzan riportano la loro esperienza clinica coltivata negli anni di lavoro presso il Kings College di Londra. I due interventi toccano i due temi della Depressione Post-Partum e delle Psicosi Perinatali.
Nonostante una piccola sensazione di frustrazione e di benevola invidia abbia pervaso tutto l’auditorio (lo sapevate che in Gran Bretagna esistono le baby unit, strutture in cui è possibile ospitare la coppia madre-bambino sia in day-hospital sia in ricovero prolungato, con il fine di intervenire precocemente e in modo efficace, nonché multidisciplinare, sulle problematiche della coppia, trattasi anche di depressione post-partum?), i due relatori riescono a descrivere in modo molto interessante le attività svolte in Gran Bretagna.
Due dati interessanti:
L’alto livello di cortisolo rilevato nelle madri pre-termine post-termine.
Viene stimata intorno al 10% la presenza di Depressione “post-Partum” nei compagni di madri con DPP. Ciò denota una frequente copresenza di Depressione nei padri e nelle madri.
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Inoltre, viene presentata una ricerca svolta presso lo stesso ospedale, in cui sono emersi a mio parere, due aspetti importanti. Il primo, la mancanza di informazioni lamentata dai padri circa l’infanzia e la nascita. Questo fa pensare a quanto anche “semplici” interventi di psicoeducazione possano essere utili per i genitori, in particolare per i papà, talvolta poco coinvolti nei vissuti della moglie/madre.
Il secondo aspetto: emerge anche che la diminuzione dell’attività sessuale viene vissuta dai padri come “sorpresa”. Sembra che anche in questo caso sarebbe necessario “psicoeducare i padri” sulle caratteristiche della sessualità post partum e di come alcune cose (sebbene non tutte!) debbano adattarsi alla nuova condizione familiare.
Dopo i due interventi dei colleghi del King College, è la volta di Mariano Bassi (A.O. Niguarda Cà Granda di Milano) il quale presenta una breve ma incisiva fotografia della situazione italiana in materia depressione post-partum.
Fortunatamente anche in Italia, alcune realtà attive nell’ambito della ricerca esistono, e Antonio Clavenna lo mostra, presentando una ricerca in progress sullo screening della depressione post partum nel setting della pediatria di famiglia, che verrà svolta nei prossimi mesi in collaborazione al l’ASL Provincia Milano 1.
A concludere la mattinata, gli interventi di Daniele Piacentini e di Farida Ferrato. Viene presentato il progetto in corso sul territorio dell’ASL Provincia Milano 1 sul riconoscimento e sul trattamento della depressione post partum. Viene fatto dai relatori ampio riferimento alle Linee Guida Internazionali del NICE (National Institute for Health and Clinical Excellence) per il trattamento della Depressione Post-Partum. Le linee guida indicano come trattamento di prima scelta la Terapia Cognitivo-Comportamentale e i due relatori raccontano la loro esperienza clinica partendo da tali riferimenti.
Dopo la pausa buffet e due passi nello splendido Collegio che ha ospitato il Convegno si procede con una tavola rotonda in cui hanno partecipato operatori di varia formazione, ognuno dei quali ha presentato la propria esperienza clinica nell’ambito della collaborazione tra aree e servizi per una nuova progettualità nel trattamento dei disturbi psicopatologici del periparto.
Quando ancora il sole fuori splende sulle strade del centro di Rho il Convegno si chiude con una riflessione: è indubbio che in Italia e nel Servizio Pubblico vi siano delle difficoltà, ma è anche vero che sono emerse oggi alcune realtà il cui lavoro è ispirato dalla multi-disciplinarietà, dall’impegno e dalla voglia di condividere, migliorarsi e migliorare i servizi offerti ai cittadini, soprattutto in un ambito, quello dei disturbi perinatali, che davvero rappresenta un campo cruciale e importantissimo per il nostro futuro.
Negli ultimi 30 anni il numero di persone che vivono da sole è raddoppiato. Uno studio condotto al Finnish Institute of Occupational Health dimostra che il rischio di depressione è quasi l’80% in più per coloro che vivono da soli rispetto alle persone che vivono in qualsiasi tipo di gruppo sociale o familiare.
Nelle donne un terzo di questo rischio è attribuibile a fattori socio-demografici, come la mancanza di istruzione e il basso reddito. Per gli uomini i fattori determinanti includono l’ambiente in cui scarseggiano i posti di lavoro, la mancanza di sostegno sul posto di lavoro o nella vita privata, e il bere “pesante”.
E’ noto che vivere da soli può aumentare il rischio di problemi di salute mentale negli anziani e nei genitori single, ma poco si sa circa gli effetti del vivere da soli sulle persone in età lavorativa. I ricercatori finlandesi hanno monitorato 3500 uomini e donne in età lavorativa per un periodo di sette anni e hanno confrontato la loro situazione di vita con i fattori di rischio psicosociali, socio-demografici, e di salute, tra cui fumo, alcolismo, bassa attività fisica, uso di antidepressivi.
Secondo Laura Pulkki-Råback, che ha condotto la ricerca, questo studio dimostra che le persone che vivono sole hanno un rischio maggiore di andare incontro a depressione: complessivamente non sono state registrate differenze di genere nel rischio di sviluppare depressione, ma le condizioni abitative disagiate (soprattutto per le donne) e la mancanza di sostegno sociale (in particolare per gli uomini) si sono dimostrati i fattori che principalmente contribuiscono a questo aumento del rischio.
Inoltre questo studio identifica chiaramente alcuni dei fattori che aumentano il rischio di depressione per le persone che vivono da sole, ma più della metà di questo aumento del rischio è ancora inspiegabile: ricercatori suggeriscono che questo potrebbe essere dovuto a sentimenti di alienazione dalla società, a mancanza di fiducia, o a difficoltà derivanti da eventi di vita critici.
Le cause della disfunzione sessuale femminile (FSD) più comunemente conosciuta come “frigidità”, sono da sempre oggetto di accesi dibattiti.
Col passare del tempo le prove a favore di un’origine prevalentemente psicologica della disfunzione sessuale femminile si stanno moltiplicando. L’ insoddisfazione nel rapporto di coppia appare ormai la motivazione più frequente e le così dette “cause organiche” sembrano ormai in grado di spiegare solo un numero molto limitato di casi.
La disfunzione sessuale femminile (FSD) costituisce da sempre una diagnosi controversa. Viene formulata, in modo molto generico, quando si riscontrano problemi in una o più di queste aree della sessualità femminile:
Desiderio.
Dolore.
Eccitamento.
Orgasmo.
Storicamente la medicina ha manifestato la tendenza a ricercare le cause di questa problematica prevalentemente in disfunzioni di tipo organico e questo ha scatenato negli ultimi decenni crescenti polemiche. Accanto alla classica accusa di negare, spesso al di là di ogni evidenza, il ruolo del sesso maschile nella “frigidità” femminile, si è col tempo aggiunta la critica secondo cui la classe medica faticherebbe a riconoscere l’origine quasi sempre psicologica della disfunzione sessuale femminile, dato che questo implicherebbe, progressivamente, la preferenza per le consulenze di tipo psicologico su quelle mediche nel chiedere aiuto per questo problema.
Una recente ricerca sembra ora destinata a spostare ulteriormente l’ago della bilancia, confermando l’origine prevalentemente “relazionale” della disfunzione sessuale femminile.
Lo studio è stato realizzato in Inghilterra dal sessuologo A. Burri e pubblicato nel Settembre del 2011 sulla rivista specializzata “Journal of Sexual Medicine”. Nella ricerca sono state inizialmente intervistate circa 1.489 donne di età compresa fra i 18 e gli 85 anni.
La valutazione è stata effettuata con gli strumenti testistici maggiormente validati nel Regno Unito (“Female Sexual Function Index” FSFI e “Female Sexual Distress” FSDS). E’ emerso che il 5,8 % aveva recentemente avuto problemi nella sfera sessuale. Un altro 15,5 % ha invece segnalato un problema cronico, dove il sesso risultava assente o fortemente limitato. Burri ha quindi analizzato il campione complessivo delle donne con FSD (21,3 %) per approfondire cause e fattori di rischio.
I risultati hanno indicato la presenza di diversi importanti “predittori” della disfunzione sessuale femminile, come le esperienze di abuso e la presenza di un disturbo Ossessivo-Compulsivo. Le problematiche nella relazione di coppia sono però risultate il fattore di gran lunga più comunemente associato. La disfunzione sessuale femminile, infatti, è risultata correlata a problemi relazionali nella coppia in modo molto significativo (OR 1,2-4,5).
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Di sicuro lo studio ha il difetto di non aver indagato “se è nato prima l’uovo o la gallina”, ovvero se in alcuni casi le difficoltà sessuali non hanno poi danneggiato il rapporto di coppia, ma agli autori della ricerca questo aspetto non sembra interessare molto.
Secondo Burri, infatti, la cosa davvero importante da sottolineare è che il concetto di Disfunzione Sessuale Femminile è fuorviante. Esso “sottintende” che ci sia qualcosa di sbagliato nella donna, quando in realtà è spesso il rapporto che ha problemi. Descrivere l’FSD come semplice disfunzione femminile, dunque, porterebbe a trascurare molti fattori, come quelli legati al partner e alla relazione. Per esempio, spesso l’ eiaculazione precoce maschile genera problemi nel desiderio femminile, ma non sempre il rapporto di causa-effetto fra questi problemi viene riconosciuto. Il problema più grave, comunque, resta quello di sottovalutare i fattori relazionali, generando spesso diagnosi errate e terapie inefficaci.
Secondo Marita McCabe, professore di psicologia alla Deakin University di Melbourne, una quota considerevole di donne non rivelano i loro problemi sessuali perché temono il giudizio del partner e quello sociale: solo affermando il principio secondo cui la disfunzione sessuale femminile è spesso il prodotto dei problemi sessuali maschili o di relazione nella coppia è possibile portare le donne a chiedere aiuto e a ridurre così questa significativa “sacca” di disagio.
A Simple Life (2011) è un film bellissimo. Ricco, da lasciare frastornati. Quasi Neorealismo.
È ambientato a Hong Kong e racconta la storia di una amah (una serva) che per 60 anni vive con la famiglia presso la quale presta servizio, vedendo susseguirsi le diverse generazioni, che finiscono tutte per emigrare negli Stati Uniti. Anziana e poi malata viene accudita sempre con maggiore tenerezza dall’unica persona della famiglia ormai rimasta in Cina, un giovane uomo (Roger) che lavora nel cinema. E con questo basta con la trama, che è semplice come la storia raccontata.
Tutt’altro che semplice è invece lo sguardo con cui la regista, Ann Hui, ci propone i protagonisti, i loro sentimenti e il legame profondo tra i due protagonisti.
Tutti e due, il giovane uomo e la donna anziana, sono accomunati dalla solitudine, dai ricordi, dall’amore per il cibo e dalla malattia (Roger ha avuto un infarto e viene accudito proprio da Ah Tao coi suoi manicaretti). Roger sempre più consapevole e attento sembra riconoscere nell’anziana donna le attenzioni di una madre più che quelle di una governante.
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Non ci sono mai emozioni urlate. Tutto il racconto è semplice e anche se una tristezza profonda permea ogni immagine (ma Honk kong non era una delle città più belle della Cina?); c’è spazio per la nostalgia la riconoscenza la dignità l’impegno nel fare bene le cose. Certo il film parla di argomenti scottanti e tabù ai giorni nostri: la vecchiaia e la malattia. Ma non c’è alcuna retorica o esagerazione o melodramma.
Molto particolare anche il senso del tempo nel film, che dura oltre due ore ma non stanca o annoia. Un tempo lento regolare calmo, come quello che cerchiamo di ricostruire in noi stessi quando siamo preda dell’ansia. Ogni fatto della vita ogni cambiamento viene presentato senza toni angosciati e senza affanno.
L’elemento che più mi ha colpito rimane la descrizione del sentimento di affetto e grande gratitudine reciproca di cui i due protagonisti sembrano diventare man mano sempre più consapevoli.
Deannie Yip, la protagonista, ha vinto per questa interpretazione la Coppa Volpi a Venezia.
Neuroscienze – Quanti amici hai? Te lo dice la Risonanza Magnetica Strutturale.
– Rassegna Stampa –
Quanti amici hai? La risposta sembra essere una via di mezzo tra la dimensione della corteccia prefrontale orbitale e la nostra capacità di mentalizzare.
Un nuovo studio di Robin Dunbar (University of Oxford) in collaborazione con ricercatori della Liverpool University, Manchester University e Edinburgh University dimostra che vi sarebbe un’ associazione tra la dimensione della corteccia prefrontale orbitale del nostro cervello e il numero di amici che abbiamo: la corteccia prefrontale orbitale è di dimensioni significativamente maggiori in coloro che hanno molte amicizie.
La ricerca pubblicata nel Febbraio 2012 su Proceedings of the Royal Society B ha coinvolto 40 soggetti che attraverso la tecnica della risonanza magnetica strutturale sono stati sottoposti alla misurazione della dimensione della corteccia prefrontale; ai partecipanti è stato poi chiesto di fare una lista di amici con cui erano stati in contatto nei sette giorni precedenti e di compilare un test che valuta la capacità di mentalizzazione.
Dai risultati è emerso che i soggetti che avevano più amici presentavano migliori capacità di mentalizzazione e parimenti un maggior volume della corteccia prefrontale orbitale; di conseguenza la capacità di mentalizzare, e cioè di attribuire stati mentali agli altri, medierebbe il rapporto tra la dimensione di quest’area cerebrale e la numerosità delle amicizie di un individuo. Lo studio, sulla scia di precedenti contributi di Robin Dunbar, rappresenta un ulteriore contributo per riflettere sui meccanismi evolutivi del sistema nervoso della nostra specie “ultrasociale”.
Un mancato Contatto Visivo è percepito come indifferenza?
Come ormai è noto, sentirsi parte di una “cricca” di amici o colleghi è una parte essenziale dell’esperienza dell’essere umano. Quando ci sentiamo “lasciati fuori” o “tenuti all’oscuro” siamo dispiaciuti e proviamo frustrazione o stress. Leggo un articolo interessante, pubblicato da Psychological Science, che conferma proprio come il “sentimento di esclusione” possa scaturire anche da cose molto semplici, come un’occhiataccia di un passante.
La diffusione esplosiva e mondiale dei social network (probabilmente, il fenomeno sociologico del secolo…) conferma quanto sia importante per l’essere umano il feedback dell’altro e quanto i nostri stati d’animo siano connessi e influenzati dalle persone che ci circondano e a cui teniamo.
Due chiacchiere al bar, una telefonata, un piccolo “like” o un messaggio su facebook, un sms, uno sguardo complice… ebbene, tutte queste interazioni soddisfano il nostro bisogno di “connessione” con gli altri.
Articolo consigliato: In terapia: lo sguardo del dolore.
Wesselmann, della Purdue University, Cardoso della Universidad Nacional de Mar del Plata (Argentina), Slater della Ohio University e Williams della Purdue Universitiy hanno escogitato un curioso esperimento, coinvolgendo molti studenti del campus della Purdue University.
In breve, un ricercatore passeggia in mezzo agli studenti, sceglie una “cavia”, gli passa di fronte e decide se, quando incrocia lo sguardo dello studente
a) “agganciarsi” per qualche secondo (stabilire un contatto visivo) allo sguardo e far spuntare un timido sorriso oppure
b) “agganciarsi” per qualche secondo allo sguardo mantenendo il volto inespressivo oppure
c) “passare attraverso” lo sguardo dello studente, come fosse una velina di carta di riso, come se non fosse neanche lì…
Una volta incontrato, o per così dire “trapassato”, lo studente, il ricercatore indica con un segno ai colleghi ricercatori il soggetto della scenetta, che viene avvicinato e gli viene chiesto “in quest’ultimo minuto, quanto ti senti disconnesso dagli altri?” (NB: il termine inglese disconnect viene usato anche in termini metaforici per indicare il senso di esclusione/estraneazione/non sentirsi in… NdA).
Bene: le persone che avevano avuto almeno un contatto visivo con il ricercatore (con o senza timido sorriso) hanno riferito di sentirsi meno “disconnessi” rispetto agli studenti “attraversati” dallo sguardo indifferente del ricercatore. Gli stessi ricercatori riconoscono che l’effetto avuto da una così breve interazione sia momentaneo e possa durare pochi secondi/minuti; ma di fatto sembra che un effetto, sebbene piccolo, ce l’abbia.
Nonostante la ricerca presenti moltissimi limiti (chi sono questi studenti? Come sono stati selezionati? Altre variabili indagate? etc…) mi sembra molto interessante e potrebbe davvero aprire alcune porte a ulteriori approfondimenti e ricerche sulla potenza della comunicazione umana. Non è la sede per fare una rassegna di tutta la letteratura già esistente sulla comunicazione, sugli scambi interpersonali, sulla comunicazione non verbale etc…
Quello che mi sembra interessante di questa ricerca è che apre riflessioni su quanto qualcosa che non ci riguarda personalmente o da vicino (come ad esempio lo sguardo di uno sconosciuto) possa avere un effetto, sebbene minimo, sul nostro stato d’animo.
Nota a margine: E se quello sconosciuto mi “attraversasse” con lo sguardo il venerdì sera, dopo una settimana di lavoro, stipato in metropolitana, mentre sto pensando che avrò un weekend molto impegnativo, in cui non mi potrò riposare e che oltretutto ho appena litigato con la fidanzata e con i colleghi?
Psicoterapia: a che le serve ragionare così? il Disputing Pragmatico secondo Ellis
Il contributo più caratteristico di Ellis alla tecnica cognitiva è il disputing pragmatico. Non è l’unico tipo di disputing previsto dalla tecnica terapeutica REBT. Accanto e prima di esso ce ne sono altri, di tipo logico empirico e più simili alle tecniche beckiane. Essi sono:
Il disputing empirico: le previsioni e le aspettative negative del paziente sono provate dai fatti? Su cosa si basano? Su quali prove di fatto si appoggiano?
Il disputing logico: le previsioni e le aspettative negative del paziente sono sostenute dalla logica? Da quali ragionamenti emergono?
Il disputing della catastrofizzazione: le conseguenze temute dal paziente sono davvero così terribili?
Come nel caso del disputing beckiano, si tratta di chiedere al paziente di giustificare da un punto di vista logico ed empirico i suoi timori, i suoi pensieri negativi.
Tuttavia Ellis, fedele al suo stile semplice, non presenta, come Beck, un sofisticato elenco di errori logici ma si limita a raccomandare di incoraggiare il paziente a non dare per scontati i propri timori, ma a cercarne la giustificazione empirica (che prove di fatto hai?) o logica (in base a quali prove logiche dici questo?). Ma il disputing logico-empirico non era l’arma migliore di Ellis.
Come sappiamo, la sua tecnica principale consisteva nel chiedere al paziente le “piccole frasi” che accompagnavano i suoi stati di sofferenza. Cosa diceva il paziente a se stesso nel momento in cui viveva i suoi problemi?
La differenza con Beck è significativa. In questo modo il terapeuta REBT non accerta tanto il fondamento logico delle credenze, ma la giustificazione soggettiva che il paziente da a se stesso delle sue sofferenze. E queste sofferenze, secondo Ellis, sono collegate ai valori soggettivi e all’ideologia personale del paziente.
Insomma, per Ellis le credenze distorte non sono errori logici alla Beck, bensì assumono l’aspetto di regole e definizioni che il paziente si auto-infligge. Sono i cosiddetti “must”, le cosiddette “doverizzazioni”, ovvero asserzioni prescrittive e/o normative, in cui il soggetto non valuta quanto sia congruente e fondato su situazioni reali lo stato emotivo che egli sta provando, ma quanto sia congruente a una astratta norma che prescrive come dovrebbe andare il mondo, o come ci si dovrebbe comportare o come si dovrebbe essere.
L’individuo si auto-suggestiona negativamente, convincendosi che il mondo non va come dovrebbe andare, o che egli non si sta comportando nel modo in cui dovrebbe, in obbedienza a valori per lo più sociali o religiosi ma non individuali, anzi, per essere più precisi, individualistici.
Ellis infatti predica un individualismo stoico, per cui la sanità mentale si persegue comprendendo quali sono i propri interessi individuali, mentre ogni valore sociale è sempre sospetto, per non dire peggio. Non che Ellis predichi la legge della giungla, intendiamoci. Ma per Ellis la società deve essere minimale: l’unico valore sociale condivisibile è l’astensione dal procurare male agli altri. Anche la cooperazione sociale è importante, ma solo in vista di un incremento della capacità della società di andare incontro al bisogno individualistico di realizzarsi. Insomma, quello di Elllis è un pensiero profondamente individualistico, liberalistico e, se vogliamo, molto americano (o anglo-sassone, se si preferisce).
Ogni valore sociale di tipo comunitaristico, che cioè che vada al di là dell’incremento delle opportunità di autorealizzazione individuale e del benessere materiale è sospetto. Valori sociali comunitaristici sono probabilmente doverizzazioni. Prescrizioni sociali che gli individui autoinfliggono nella forma “si fa così” “deve essere così” e così via. E, tra tutti i valori sociali prescrittivi, probabilmente i peggiori sono i valori religiosi, che per Ellis vanno aspramente combattuti.
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Ellis quindi è una espressione di una corrente filosofica ben precisa. Una corrente non a caso tipicamente anglo-sassone: l’utilitarismo di Jeremy Bentham (1748 – 1832). Come Ellis, anche Bentham riduce a superstizione ogni valore sociale, morale o religioso. Nel pensiero utilitaristico di Bentham non ci sono valori in sé. Ogni idea e convinzione umana è priva di valore intrinseco se non è strumentale al benessere e all’evitamento del dolore. In Bentham, come in Ellis, conferire ad alcune convinzioni un valore assoluto significa disconoscerne la relatività. Razionale è dunque il pensiero che meglio sa adattare i suoi propri processi valutativi, le credenze ai propri scopi, e gli scopi alle potenzialità individuali e agli ostacoli posti dalla realtà. Lo scopo della ragione non è la scoperta e il riconoscimento di una realtà ultima, ma solo l’uso migliore, cioè più conveniente, delle proprie idee. La sofferenza dipende da pensieri irrealistici negli scopi o nei processi di pensiero che dovevano portare alla realizzazione degli scopi.
Ellis applica queste idee alla psicoterapia e, come un filosofo pragmatista, insegna al paziente che è bene che le abitudini, le idee, le convinzioni personali o socialmente apprese siano sempre sottoposte a critica, ma a un particolare tipo di critica: la critica pragmatica dell’utilità e dell’efficienza strumentale. In parole più semplici, alla critica che vuole sapere:
ma a che serve questo?
Quale scopo si prefigge?
E quanto efficientemente serve allo scopo?
Le idee sono ridotte alla loro efficienza. È il cosiddetto “cash value” che conta nelle idee. Non un valore astratto, ma le conseguenze pratiche. L’innovazione di Ellis è che occorre porsi questa domanda non solo per ogni idea che pensiamo, ma perfino per ogni emozione che proviamo: dove mi porta? Che mi da, questa emozione? A che mi serve? Come se fosse una intenzione del tutto volontaria.
Disputing pragmatico:
Queste valutazioni negative sono utili o dannose?
Dove mi stanno portando?
A che cosa mi servono?
La razionalità di Ellis è dunque pragmatica. Ellis predica la coincidenza integrale del razionale con l’utile. L’utile non è un sottoinsieme logico del razionale, ma è il razionale stesso. La razionalità non è altro che calcolo economico, scelta dei mezzi in base ai fini. L’unico sapere possibile rimane quello dei mezzi, mentre i fini sono lasciati alla preferenza personali dell’individuo e per essi non vi è scienza possibile. E la sofferenza mentale non è dovuta a forze inconsce e misteriose, che possono emergere alla coscienza solo dopo lunghi anni di faticoso trattamento psicoanalitico. Al contrario, la sofferenza dipende da pensieri coscienti, del tutto consapevoli, che ci imponiamo da soli per una imperfetta valutazione della reale utilità pratica di questi pensieri. I pensieri che generano sofferenza sono dunque convinzioni non valutate in base alla lo reale utilità, ma in base ad altri criteri.
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Il paziente va dunque incoraggiato ad assumere un atteggiamento profondamente dissacratorio, un’attitudine manipolatoria, in cui non vi è nessun dato scopo o obiettivo che abbia un valore in sé, che sia insomma sacro.
E quali sono questi altri criteri? Quali sono queste convinzioni irrazionali, che non obbediscono al criterio di utilità? Leggiamole. Vedremo che caratteristicamente sono sempre idee anti-individualistiche, imposte per via sociale alle persone singole. Come ben sappiamo, nelle sue opere Ellis presentò varie volte un elenco di varie convinzioni irrazionali (irrational beliefs). Leggiamo un paio di queste convinzioni non utilitaristiche:
Per un essere umano adulto è un bisogno pressante essere amato o approvato praticamente da tutte le persone importanti della collettività in cui vive (Ellis, 1962, p. 64).
Facciamo bene attenzione: qui si parla, criticamente, di amore e onore, cioè approvazione sociale. Sono valori del passato, raccomandati dalla morale cristiana (l’amore) e dalla morale classica greco-romana (l’onore). Attenzione, Ellis non esclude i bisogni umani di amore e approvazione. Tuttavia, come al solito li trasforma in valori strumentali e non finali. Essi sono utili se e solo se ci danno benessere, ma non sono beni in sé.
Si deve essere totalmente competenti, adeguati e vincenti sotto ogni possibile aspetto per potersi considerare degni di valore (Ellis, 1962, p. 65).
Qui si vede come Ellis non abbia riguardi per niente e per nessuno. Infatti, dopo la morale classica e quella cristiana, Ellis attacca perfino il valore protestante della competenza e dell’etica del lavoro e quello americanissimo del successo. L’etica del lavoro che nel calvinismo aveva ancora un carattere sacro di valore in sé non discutibile e non negoziabile è ridotta a strumento dell’utilità e del benessere.
In conclusione, il terapeuta cognitivo sottopone a critica stringente tutte le idee, le convinzioni e i valori del suo paziente, e li filtra attraverso il criterio della loro utilità e dannosità, cioè della loro capacità di generare benessere ed evitare sofferenza e dolore. E questo dolore da evitare e da non procurare agli altri deve essere a sua volta un dolore avaloriale, non generato quindi dalla violazione di regole trascendenti, ma da esperienze concrete, immediate e irriflesse di sofferenza, facilmente comprensibili per tutti.
Insomma, le regole e i doveri vengono sottoposte a critica feroce e ne vengono rivelate le debolezze e le incongruenze. Ma in cambio non si propongono diversi valori se non quelli della diminuzione della sofferenza e della ricerca della serenità.
Nei casi clinici che seguono, l’arrosto sostanzioso dei vari pazienti è condito con il sugo della fantasia, per rendere non identificabili le persone e la lettura più avvincente. Spesso ho condensato in un solo paziente più persone e, quasi sempre ci sono scappati pezzetti di me stesso. – Leggi l’introduzione –
#4 – Marco nelle Canne
Depressione reattiva
Disturbo ossessivo di personalità
Marco chiede un sostegno psicoterapeutico in un momento di emergenza, se non ci fossero stati i fatti dell’ultima settimana la sua vita sarebbe perfetta. E’ arrabbiato, disorientato e cerca soluzioni immediate che riguardano un cambiamento del mondo esterno che improvvisamente si è messo a girare in un modo che non gli garba. Ha cercato in tutti i modi di portare in seduta la sua compagna, Speranza, che è quella che dovrei aiutare a cambiare per rimettere la sua vita a posto, ma lei si è rifiutata di salire proprio quando avevano finalmente trovato parcheggio sotto il mio studio… é talmente fuori di sé che mi chiede di scendere in strada per acchiappare Speranza che è rimasta in macchina.
Durante l’ultimo fine settimana Speranza lo ha fatto accomodare sul divano e gli ha comunicato che, da alcuni mesi, è follemente innamorata di Karl, è certa sia l’uomo della sua vita per cui entro un mese lei e Andrea, il figlio di tre anni, andranno a vivere a casa di sua madre che la ospiterà insieme al suo nuovo compagno ed alle di lui due figlie.
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Marco non vuole altro che capire il comportamento di Speranza per prendere le contromisure adatte ed impedirne l’allontanamento. Non dorme dal giorno della comunicazione, che dice essere stata del tutto inaspettata, gli prescrivo subito degli ansiolitici per dare sollievo ad un turbine di emozioni negative che non controlla e lo spaventano ancora di più, essendo uno che cerca di padroneggiare ogni cosa. In verità, temo anche una possibile evoluzione delirante, favorita dalla deprivazione di sonno e anche gesti auto e/o eteroaggressivi che fantastica con molto piacere.
Cerco di spiegargli il senso di una psicoterapia, ma è come argomentare a Gengis Khan sull’importanza della pace tra i popoli. Solo la sua buona educazione e l’immagine di sé che vuole mantenere impeccabile gli impediscono di mettermi le mani addosso.
Io faccio delle fantasie circa un possibile invio ad un collega esperto di coppie e questa è la spia che mi sento, come lui, spaventato e impotente. Credo sinceramente che Speranza sia una grave borderline ma ho imparato negli anni a non fare diagnosi per sentito dire e, soprattutto, a non occuparmi che del paziente che chiede aiuto.
Ci rivediamo settimanalmente. Ogni seduta inizia con il racconto vorticoso dei fatti della settimana, anzi dei ripetuti misfatti di Speranza e della sofferenza insostenibile da lui provata. Faccio fatica a sgombrare il terreno dall’attualità. Provo a spiegargli che sarei interessato a conoscerlo.
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Ha conosciuto Speranza al matrimonio di un amico comune. Lei aveva un matrimonio alle spalle ed un bambino, Andrea, di un anno. Dopo tre mesi hanno iniziato una convivenza. Lui dice che era molto impegnato nei cambiamenti della sua azienda e forse distratto verso le faccende familiari, ma di non averle mai fatto mancare nulla. Anche con Andrea è stato come un padre, nonostante non lo fosse e nonostante il momento economico difficile per tutti. La sua mente sta al 60% sulle questioni lavorative, al 30% sui giochi di guerra al PC su cui trascorre moltissimo tempo, tanto da essere diventato un importante esperto di storia militare e, il restante 30% è da spartire tra le persone care: Speranza, Andrea, il fratello, i genitori e qualche amico. Sono comunque briciole. Armi e strategie lo affascinano molto più degli esseri umani che, infatti, non lo interessano granchè.
Questo sarà il tema centrale della sua vita e immancabilmente della terapia. Marco in fondo è un guerriero che sa combattere e godersi il saccheggio, ma teme di abbassare la guardia e dunque non permette a nessuno di avvicinarsi.
Prima di Speranza ha avuto altre tre donne importanti.
Una milanese che ha visto sempre e solo in week end clandestini, essendo sposatissima e con figli piccoli.
Una ragazza di colore con la quale ha persino vissuto per tre mesi, ma che aveva il permesso di soggiorno a termine e doveva tornare in Ghana subito dopo.
Una collega di lavoro che si era lasciata lungamente corteggiare senza concedersi mai.
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Esperienze sessuali invece molteplici, disinibite e soddisfacenti. Non è affatto uno spietato che utilizza gli altri come strumenti per i suoi scopi anzi, se ne rammarica moltissimo e persino si condanna per questo ma non prova nessuna spinta verso gli altri.
Ha imparato come ci si comporta: cosa dire in società, come corteggiare una donna o come far sentire agli amici il suo interessamento. Tutto ciò lo fa anche con maestria ma come un dovere appreso.
Se non si sforzasse rotolerebbe nella “melassa”, così la definisce lui stesso, fatta dai suoi videogiochi e dalle canne che si concede sistematicamente senza nessun senso di colpa, anche se non le giudica una cosa buona perché avverte che peggiorano la sua adesione al mondo esterno, la lucidità e la brillantezza, ma sono un regalo di pace cui non sa rinunciare.
Marco è il primogenito di due figli di una famiglia bene con il cognome doppio.
Il fratello più giovane ha sviluppato una sordità di probabile origine psichica intorno ai nove anni, immediatamente dopo l’evento che ha segnato la storia della loro famiglia.
Il padre è uno stimato manager nell’ambito della sanità privata e pubblica, con consistenti agganci politici negli anni precedenti a tangentopoli. Viaggia molto, è assente per lunghi periodi e anche quando sta a Roma arriva a casa quando i figli sono già a letto. E’ in famiglia il tutore dell’ordine, il braccio armato della madre. Il poco tempo a disposizione è dedicato a dettare regole che non spiega mai e che si fondano esclusivamente sulla sua autorità.
La madre è una tipica casalinga del boom economico al servizio del benessere di marito e figli: amorevole, invasiva e asfissiante.
Un giorno i due genitori modello convocano i figli nel salotto buono per comunicazioni importanti (certamente avranno letto su qualche manuale come comportarsi al meglio in simili circostanze).
L’essenza della comunicazione è che, poiché papà sarà sempre più fuori casa per motivi di lavoro, hanno pensato di separarsi. Naturalmente ribadiscono che ciò non cambia nulla: loro restano sempre la famiglia felice e perfetta.
I due fratelli non avevano in alcun modo intuito la presenza di dissapori tra i genitori e Marco non ricorda nessuna emozione né sua, né del fratello, a seguito di questa notizia.
La promessa dell’immutabilità della situazione si rivela presto falsa. La madre inizia a lavorare alle poste e la qualità dell’accudimento scende vistosamente ed in modo inversamente proporzionale alla loro libertà.
Vive in preda alla tristezza ed al rancore ed è sopraffatta dal lavoro e dalla gestione della casa dove trionfano le ribellioni adolescenziali che non hanno più una controparte. Riesce ad ottenere qualcosa solo inducendo sensi di colpa circa la sua stanchezza e il suo stato di salute.
Il padre cambia città e inizia una convivenza con una donna più giovane. I figli di fatto gli tolgono il saluto e non prestano più ascolto alle sue prediche: il fratello addirittura diviene sordo.
Marco ricorda vividamente il giorno in cui si accorse della disabilità del fratello. Erano in autobus seduti uno accanto all’altro e Marco cercava di richiamare l’attenzione di Luca sulla notizia che stava leggendo sul giornale. Non ottenendo attenzione aveva aumentato progressivamente il tono della voce. D’improvviso, si accorse che gli altri passeggeri lo osservavano stupiti: stava praticamente urlando, ma Luca continuava ad ignorarlo. Scese dall’autobus con la convinzione che la sua vita fosse cambiata per sempre, era solo ed aveva subito un danno che non sarebbe stato più risarcibile; vide se stesso con un fratello handicappato, sperduti nel mondo senza una guida.
Anche le condizioni dell’abitazione risentivano dello stato d’animo della madre, la casa divenne disadorna, fredda, trascurata e sporca. I fratelli si chiudevano nella loro stanza, tenendo fuori un mondo che sentivano freddo e inospitale e che li rifiutava poichè caduti in disgrazia. Il rendimento scolastico di Marco peggiorò e fu rimandato in tre materie nel terzo anno del liceo: il successo scolastico non sarebbe dunque stato il terreno della sua rivincita.
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Il racconto di Marco relativo a quegli anni (gli ultimi di Liceo Scientifico e i primi due di Economia) è disorganizzato e confuso.
Esperienza costante sembra essere un crescente uso di cannabis e alcool, che ricorda aver avuto un impennata in seguito al rifiuto di Silvia, la ragazza di cui era innamorato, che gli preferì un suo amico. Marco aveva l’impressione che tutto stesse naufragando.
Nel referto della polizia fu scritto che la signora aveva avuto probabilmente un capogiro mentre lavava i vetri del soggiorno con una scala a soffietto, ma Marco sapeva che non era così.
Fedeli alla buona abitudine di non esprimere emozioni e di non parlare d’altro che non dei fatti concreti quotidiani, i due fratelli non commentarono l’accaduto e di buon grado si trasferirono da una zia, sorella del padre, che di fatto li tenne a pensione. L’attribuirsi reciprocamente le colpe nella morte della madre allontanò progressivamente i due fratelli tra loro e con il padre.
Finita l’università Marco andò a vivere per proprio conto mantenendosi con lavoretti saltuari prima e con una collaborazione con un commercialista, poi. Era diventato bravo nello studio ed efficiente nel lavoro. Le convinzioni che lo guidavano erano di essere solo nella vita, di doversi guadagnare ogni cosa con l’impegno senza poter contare su nessuno.
Gli altri gli apparivano più forti di lui e frequentemente minacciosi, per cui elaborò alcune strategie per renderli inoffensivi: essere sempre perfetto e inappuntabile, accondiscendere evitando ogni conflitto anche a costo di sacrificare il proprio interesse, scegliere persone in difficoltà che avessero bisogno del suo aiuto e mettersi al loro servizio fino a diventare indispensabile.
Ciò lo garantiva dal rischio di essere abbandonato ma, per ulteriore precauzione, non si legava mai affettivamente, non lo avrebbero più fregato.
E’ interessante il fatto che lui identificasse il dolore della perdita non con la separazione dei genitori e la comunicazione ufficiale nel salotto buono, né con il corpo della madre disarticolato sul mattonato del cortile ma con un immagine riguardante Silvia. L’icona del dolore era Silvia che se ne andava aggrappata a Filippo sulla moto Guzzi fiammante, baciandolo sul collo.
Marco riuscì a scomporre quel dolore cupo in cinque emozioni che ne erano i costituenti elementari: la tristezza per la perdita dell’oggetto d’amore, la rabbia verso di lei per averlo tradito, la tristezza per la sensazione di non valere nulla, l’umiliazione per essere stato sconfitto dal rivale e la vergogna per aver mostrato di fronte a tutta la scuola la sua sconfitta. L’idea di contare solo su di sé, di non legarsi affettivamente e di considerare tutti gli altri come potenziali nemici fecero di Marco un manager di successo, sapeva che se voleva fortemente una cosa riusciva certamente ad ottenerla.
La scelta di Speranza come partner con cui fare famiglia risentiva certamente di queste convinzioni.
Lei, sola con un figlio piccolo, lo vede come il salvatore e non può certo fargli troppe richieste. Avendo già un figlio non lo costringerebbe a farne un altro e lui si troverebbe già una famiglia bella e confezionata, da presentare nelle situazioni in cui fosse stato disdicevole presentarsi come single.
Lei, molto interessata al benessere economico, lo lascerebbe fare sull’unico terreno in cui si sente a suo agio, il lavoro: vanno avanti così per tre anni.
Marco lavora tutto il giorno e, quando torna la sera, si chiude in una nuvola di cannabis e videogiochi. Andrea, con l’abilità tipica dei bambini, riesce a scavarsi un cunicolo nelle difese di Marco, che non lo vive nè minaccioso, nè giudicante e che, soprattutto, pensa che il bambino non lo lascerà mai perché ha bisogno di lui. Finalmente nella sua vita sembra esserci un legame certo e duraturo. A volte, Marco si scopre a pensare con gioia che Andrea gli sopravviverà e che con lui non dovrà affrontare la perdita che la morte ci infligge…
E’ per questo che, quando giunge da me, è fuori di sé e vorrebbe uccidere quella strega che è restata giù in macchina e si rifiuta persino di salire . Marco ha rivissuto, condensate, le scene più orribili della sua vita. L’annuncio improvviso di Speranza, di andarsene con Karl e Andrea, è stato comunicato con la stessa freddezza dei genitori, quella lontana domenica, nel salotto buono.
Come con Silvia la partner lo lascia di fronte a tutti per un altro: é sconfitto, umiliato e rabbioso e la rabbia è ingigantita dal senso di impotenza infatti, non essendo il padre effettivo di Andrea, non è in alcun modo protetto dalla legge, non ha di fatto alcun diritto e deve sottostare ai capricci di Speranza che sembra decisa a interrompere ogni rapporto tra Andrea e Marco, che deve essere sostituito da Karl nel ruolo di padre.
Marco teme grandemente la propria aggressività e tende a sedarsi con l’ abuso di cannabis.
Fantastica due possibili scenari: in un accesso d’ ira strangola Speranza e rovina definitivamente la propria esistenza finendo i suoi giorni in carcere, oggetto delle attenzioni omosessuali degli altri detenuti oppure, in alternativa, è spaventato dal poter avere una reazione simile a quella materna e volare giù dal sesto piano magari insieme ad Andrea, per non lasciarlo solo in questo mondo freddo e vuoto.
Nella realtà finiscono per prevalere le strategie consolidate che Marco utilizza da sempre per non perdere l’altro: collabora con Speranza nel trasloco e, mentre sogna ad occhi aperti terribili vendette ed augura ai due quanto di peggio possa capitare agli umani, non fa mancare a Speranza il sostegno economico per la sistemazione della nuova casa. Naturalmente, giustifica questa benevolenza come il tentativo di non perdere i contatti con Andrea, che sembra amare di un amore sempre più assoluto e senza riserve.
In una seduta, circa tre mesi dopo il nostro primo incontro, Marco si concede un pianto liberatorio, dicendo che Andrea è la prima persona che abbia mai amato in vita sua e che non vuole perdere.
Gli dico che, nell’amore sconfinato che prova per Andrea, c’è l’aspettato risarcimento per il bambino Marco, della stessa età, che non ha ricevuto amore. Lui non piange solo per la perdita di Andrea ma per ciò che immagina che Andrea stesso sperimenterà, si identifica con lui e il suo pianto è il pianto di entrambi.
In effetti, quando i due stanno insieme si divertono moltissimo ma sembrano essere più due compagni di giochi che un padre e un figlio. Marco è efficiente in terapia come sul lavoro, ci tiene ad essere un paziente perfetto. La prima fase del lavoro è finalizzata alla conoscenza e all’espressione delle emozioni, presenti e passate, che Marco ha imparato a negare e non esprimere. Scopre che le emozioni, se lasciate fluire, non lo travolgono e che può cavalcarle come le onde con un surf. Smette di aver bisogno della cannabis per stordirsi e avverte una dimenticata vitalità. Torna a sentire odori, sapori e colori della vita, alcuni sono gradevoli, altri meno, ma sopportabili. Progressivamente disinveste dal lavoro e si dedica ai rapporti interpersonali ed in particolare ad una costante settimanale battaglia per poter incontrare Andrea. Speranza, infatti, ostacola in ogni modo questo rapporto perché lo vede come un impedimento al nuovo legame tra Karl e Andrea.
Marco funziona in modo dicotomico, ama con tutto se stesso il piccolo Andrea-Marco e odia, senza limitazioni, la fedifraga Speranza e il suo complice Karl. Durante il periodo natalizio non nego di aver avuto il timore che potesse manifestare agiti aggressivi verso la nuova coppia. Vuole dichiaratamente la loro morte che vivrebbe come la catarsi di una vita intera.
Mi accorgo delle mie preoccupazioni dal fatto che modifico la farmacoterapia aggiungendo neurolettici che spaccio per tranquillanti di nuova generazione, più efficaci e meno tossici.
Se non avessi visto in diretta con i miei occhi la disperazione di Marco al sopraggiungere della notizia credo che mi sarebbe sempre rimasto qualche sospetto. Fu esattamente durante la trentesima seduta, mentre stavamo esaminando un vissuto di umiliazione sperimentato in ufficio, che arrivò la telefonata: un agente della polizia chiamava dal Pronto Soccorso per avvertirlo di un grave incidente per cui doveva subito recarsi in ospedale. A chiedere di avvertirlo era stata la signora coinvolta. Quelle, seppe dopo, erano state le sue ultime parole.
Un camion parcheggiato in salita aveva perso la frenatura ed era finito sulla macchina parcheggiata dove Speranza era appena salita per accompagnare Andrea a scuola. Fortunatamente il bambino era rimasto sul marciapiede ma aveva assistito alla scena e i soccorritori lo avevano portato in ospedale perché comunque solo e in stato di choc.
Lo stupore assoluto, la sorpresa e l’incredulità immobilizzarono l’espressione di Marco per un tempo che mi parve infinito e trascorse in un silenzio catacombale. Poi si alternarono in ondate successive emozioni diverse: la colpa per aver desiderato quanto effettivamente accaduto con il sottostante pensiero magico di esserne stato la causa, la rabbia verso il camionista disattento e, più in generale, verso il suo mandante che permette che ai figli si portino via i genitori, la pena infinita verso quella giovane donna che era certa di aver afferrato la felicità quando già la morte l’aveva acciuffata, infine l’angoscia di non sapere come fronteggiare la situazione soprattutto con il piccolo Andrea.
Marco, immediatamente, ritornò al vecchio modo di fare che stavamo cercando di rottamare, diede un calcio a tutte le emozioni, accese una sigaretta e tornò ad essere l’efficiente manager che risolve i problemi. Nell’ordine: recuperare Andrea, avvertire Karl, decidere con lui il da farsi per informare tutti, poi i funerali e il futuro immediato di Andrea.
Ero certo che non avrei più visto Marco, aveva mille cose da fare e quello era un terreno in cui si muoveva bene.
Immaginavo poi che avesse associato magicamente la terapia ed il poter esprimere le emozioni con la disgrazia avvenuta e che ciò lo avrebbe dissuaso del tutto dal proseguire.
Era un buon incassatore e, al massimo, per un po’ avrebbe aumentato la quantità di cannabis.
Quando un paziente mi sorprende troppo vuol dire che non avevo del tutto capito il suo funzionamento. Marco mi sorprese doppiamente. Neppure tre mesi dopo la fatidica seduta mi telefonò per fissare un nuovo incontro, anticipandomi che non sarebbe stato solo. La mia fantasia, evidentemente molto limitata, pensò che forse avrebbe portato anche Andrea certamente colpito dall’aver assistito in prima persona allo schiacciamento della madre senza poter far nulla. Credo che anch’io mostrai tutta la gamma di emozioni, dallo stupore, alla sorpresa, fino all’incredulità, quando in sala d’attesa trovai schierati sul divano una intera famiglia.
Ai due estremi Marco e Karl e, in mezzo, da sinistra a destra, Andrea di cinque anni, Samantha di anni sette e Adele di anni nove. Entrarono tutti accomodandosi in posti di fortuna e per terra. Marco disse che voleva farmi conoscere la sua nuova famiglia, era certo che questo fosse ciò che avrebbe voluto Speranza e il meglio possibile per Andrea.
Karl era uno statuario signore di un metro e novanta, svizzero di nascita ma con sicure ascendenze normanne. Lo si sarebbe detto un camionista ignorante e rissoso che aveva riposto tutte le sue attrattive nel fisico, robusto e bellissimo, invece mostrò un animo sensibile e quasi femminile. Disse che desideravano ora e in futuro avere un sostegno per gestire al meglio la strana situazione che si era venuta a creare, una famiglia con due padri che, tuttavia, non erano gay.
Gli dissi che c’era più letteratura e che sarebbe stato più facile se si fosse trattato di una coppia gay in cui, comunque, un flusso di amore tra i due genitori sarebbe stato avvertibile dai figli.
I due padri si guardarono fuggevolmente un istante e poi scossero il capo in segno di diniego. Al cuor non si comanda.
Il Narcisista su Facebook: Autopromozione e Comportamenti Antisociali.
– Rassegna Stampa –
Quante volte abbiamo pensato: quanto è narcisista qualcuno dei nostri amici su Facebook che continua a postare e ad aggiornare il proprio status o a taggarsi su nuove foto? Facebook, cosi come altri social networks, permette all’utente più o meno narcisista una buona dose di controllo su come il proprio sé viene presentato e percepito dagli altri: uno studio di Carpenter pubblicato su Personality and Individual Differences approfondisce la questione di come i narcisisti stanno su Facebook.
Nella ricerca il narcisismo viene definito come “un pattern pervasivo di grandiosità, di bisogno di ammirazione e di un’esagerata importanza attribuita a sé stessi”. Lo studio ha coinvolto 292 utenti di Facebook, di cui circa il 75% erano studenti del college: ai soggetti è stato somministrato il Narcissistic Personality Inventory (NPI) e per ciascun utente sono stati misurati alcuni indici del loro comportamento virtuale su Facebook categorizzati in due grandi classi: da una parte, i comportamenti di “autopromozione” come ad esempio postare update del proprio status, foto di sé stessi e aggiornamenti del proprio profilo personale; dall’altra i comportamenti “antisociali” tra cui cercare supporto sociale in misura maggiore rispetto a quanto se ne da, manifestare rabbia quando gli altri non commentano il proprio status, reagire e rivalersi rispetto a commenti negativi.
I risultati hanno mostrato che i punteggi della sottoscala dell’esibizionismo grandioso (grandiose exhibitionism – GE: alti punteggi corrispondono a vanità, senso di superiorità, e tendenze esibizionistiche) correlano positivamente con i comportamenti di autopromozione su Facebook. Similmente, i punteggi della dimensione legata alla tendenza a manipolare gli altri (entitlement/exploitativeness – EE: punteggi elevati indicano il desiderio di imporsi e di manipolare gli altri a proprio vantaggio) correlano positivamente con i comportamenti antisociali sul social network.
Attenzione però: l’autostima, quella buona (trait self-esteem), non è correlata a comportamenti di autopromozione e per di più correla negativamente con i comportamenti antisociali da social network!
Un giorno di ordinaria follia #1 – Posso bere la Candeggina? -Psichiatria-
Elena Ponzio.
PSICHIATRIA PUBBLICA: LETTERE DAL FRONTE. Naturalmente tutti i dati ed i nomi citati in queste lettere sono stati inventati e le storie raccontate sono ispirate alla realtà ed alla vita in un csm, ma per doverose ragioni di privacy sono state amalgamate tra loro per renderle irriconoscibili. Ciò nonostante, a volte la realtà supera la fantasia! Buona lettura!
Un Giorno di Ordinaria Follia
#1 – Posso bere la Candeggina?
Otto del mattino.
Strade buie, parcheggio deserto, a parte il camper del SerT che dà quel sapore di autogrill a gennaio. Il mazzo dalle molte chiavi già tintinnante tra le dita, salgo rapida le scale del mio prefabbricato preferito e anche oggi riesco a non incontrare nessuno. Striscio la carta, inizia la giornata. E sarà lunga perché è lunedì, giorno di reperibilità, 12 ore in collegamento col pronto soccorso, col reparto e le comunità.
Le porte dell’ambulatorio separano e non separano il fuori dal dentro. Quasi una metafora della follia che sta sia dentro sia fuori, che è tua e degli altri, di tutti e di nessuno o secondo i punti di vista. Insomma, la porta c’è ma se spingi bene la apri anche se è chiusa e se parli, anche non forte, si sente tutto e un incontro un po’ frizzante si può trasformare in una seduta collettiva.
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Non c’è nessuno, meglio così. Non c’è nessuno, posso riordinare le cartelle e le idee, non capita spesso anzi qui al CSM non capita mai. Non capita nemmeno oggi perché mentre fulminei appaiono questi pensieri una voce chioccia strascicata e divertita mi saluta alle mie spalle:
“Dotttoresssa!!? Ma è caduta dal lettttooo??!” “E’ di guarddia? Posso bere la candeggina?”
-Incredibile- penso mentre sobbalzo, come ho fatto a non vederlo? Eppure si tratta di un personaggio molto folcloristico, arcinoto nell’ambiente e certamente non discreto né poco appariscente.
“Michele che ci fai qui alle otto del mattino?”
“Sto mmmale, voglio bere la candeggina”
Accendere il disco automatico: file numero 1 michele. :
“Michele lo sai che non si deve bere la candeggina. Cosa è successo?”
La risposta non importa come in effetti non importa neppure la domanda perché si tratta di un dialogo molto ben consolidato, un vecchio pezzo di teatro recitato decine di volte a canovaccio fisso. Infatti ignorando la domanda Michele inizia regolarmente una disamina di tutto il pettegolezzo del settore raccattato nel weekend di pellegrinaggio per tutti i pronto soccorso e i reparti di psichiatria della città.
Un po’ come una staffetta sulle montagne, un cantastorie del passato, Michele percorre instancabile decine di km di corridoi ospedalieri trascinandosi dietro l’immancabile carrellino e collezionando novità, saluti, nascite, matrimoni, licenziamenti, malumori e rivalità degli operatori psichiatrici della città. Ogni giorno il suo racconto si arricchisce di nuovi particolari e la catena di aneddoti si allunga con suo grande compiacimento. Se poi l’interlocutore si lascia sfuggire un moto di sorpresa o di interesse per una delle informazioni così gelosamente e appassionatamente collezionate allora la sua soddisfazione è enorme!
“Come è andato il weekend Michele?”
“Bene e poi ho visto il Dr Manzi che è stato molto cattivo…Io gli ho detto che volevo buttarmi dal balcone e lui mi ha risposto di fare pure. E sai cosa gli ho detto? Gli ho detto: –Dottore? Ma buttati tu!!! Ciao, stammi bene e salutami tutti”.
E così com’è arrivato, se ne va.
“Michele stai meglio? Niente candeggina eh mi raccomando!”
Ma le parole vengono sovrastate dal cigolio del carrellino mentre Michele tutto arzillo si allontana, sicuramente per andare a trovare qualche altra vecchia conoscenza cui raccontare che oggi io ero di guardia e chissà, magari che sono un po’ ingrassata!
Esercizi fisici che portano all’ Orgasmo Femminile (Exercise-Induced Orgasm)
– Rassegna Stampa –
I risultati di uno studio – finora unico nel suo genere- della Indiana University evidenziano che determinati esercizi sportivi – in assenza di fantasie o attività sessuali- possono portare all’ orgasmo femminile. Il fenomeno già noto ai media americani tuttavia non era ancora stato analizzato da un punto di vista scientifico. La ricerca è pubblicata su Sexual and Relationship Therapy.
I ricercatori hanno somministrato un survey on-line a 370 donne di età compresa tra i 18 e i 63 anni che riferivano di avere avuto esperienza di orgasmi stimolati dall’esercizio fisico (exercise-induced orgasms – EIO) oppure di piacere sessuale indotto dall’esercizio fisico (exercise-induced sexual pleasure – EISP). La maggior parte delle donne era impegnata in una relazione sentimentale e coniugale e circa il 69% si identificavano come eterosessuali.
Ecco alcuni risultati della survey:
Circa il 40% delle donne che avevano avuto esperienza di EIO e EISP riportavano tale fenomeno per almeno o più di 10 volte; il 20% delle donne ha riconosciuto uno scarsa percezione di controllo in relazione a queste esperienze. La maggior parte delle donne con esperienza di EIO riferivano di non avere fantasie sessuali di nessun genere durante il fenomeno né di pensare a qualcuno da cui erano attratte.
Infine, diversi tipi di esercizi sportivi sembrano essere associati alle esperienze di EIO e EISP:
Le donne riportavano esperienze di exercise-induced orgasms in relazione a diversi esercizi secondo queste percentuali:
51.4% durante esercizi addominali
26.5% durante esercizi di sollevamento pesi
20% mentre praticavano yoga
15.8 % mentre si allenavano in bicicletta
13,2% durante la corsa
9,6% durante camminate
Gli autori della survey sottolineano come il meccanismo alla base di tali esperienze sia ancora sconosciuto e plausibilmente sarà oggetto di futuri studi; inoltre, dai risultati manca un dato importante: quanto è comune nelle donne tale fenomeno e, soprattutto, quali variabili psicologiche possono mediare tali esperienze?
Features of an inhibited temperament mirror the symptoms of social anxiety and the relationship between the two has been examined using a variety of methodologies.
These include retrospective, cross-sectional and longitudinal methodologies. In a retrospective study the subjects are chosen, and then data is collected from their past experiences. I will address the retrospective studies now and discuss the other two in an upcoming article.
Two retrospective surveys suggeststrong continuity between early behavioral inhibition (BI) and social anxiety in adolescence and early adulthood. Hayward, Killen, Kraemer and Taylor (1998) examined the relationship between BI and social anxiety in a sample of 2,242 high school students.
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The students completed self-report questionnaires at age 15, including the Retrospective Self-Report of Inhibition (RSRI); after four years students were then assessed using a standardized diagnostic interview. The results showed that after controlling for social phobia symptoms at time point one, the retrospective self-report measures of social avoidance and fearfulness predicted social phobia diagnosis in high school. More specifically, of those who reported being socially avoidant and fearful, 22.3% developed social phobia, a number four times higher than those who did not report those two features of inhibition.
Similar results have been demonstrated in other studies. Neil, Edelmann and Glachan (2002) examined the relationship between early social fears and non-social fears and the tendency for children to develop mental health problems, including social phobia, agoraphobia, panic disorder, general anxiety and depression (n = 234).
Suggested article: Behavioral Inhibition and Child Anxiety #1
Participants, averaging 47 years in age, were recruited from self help organizations and completed a battery of anxiety and depression questionnaires, including, the Social Phobia and Anxiety Inventory. The results showed that recalled childhood social/school fears were related to elevated scores on measures of social phobia and depression. Measures of non-social fears were not associated with any index of psychopathology.
While these studies are important in suggesting a link between early BI and later development of social anxiety symptoms and social phobia, the findings must be interpreted with caution. The fact that information on early temperament was ascertained by means of retrospective questionnaires means that the findings could be a result of socially phobic individuals simply remembering themselves as more shy because of their current symptoms, rather than truly having had an inhibited temperament in early childhood.
La letteratura scientifica (Shemesh, E. et al., 2004; Ladwig KH, et al. 2008; Hemingway, H., Kuper, H. 1990) offre diversi spunti in favore dell’evidenza che la sofferenza psicologica ed emotiva, dovuta a depressione, ansia e isolamento sociale, può contribuire all’insorgere di malattie cardiache.
D’altro canto anche sopravvivere ad eventi cardiaci gravi (infarto del miocardio, arresto cardiaco, chirurgia cardiaca, trapianti) influenza fortemente il benessere psicologico e le condizioni di salute delle persone che ne sono vittime (Razzini C, et al., 2008, Kubzansky LD, et al. 2006; Shemesh, E. et al., 2004;).
Dopo un evento cardiaco grave, si può andare incontro a stati di ansia e depressione (Berkman; Davidson, et al. 2010) e sviluppare addirittura i sintomi tipici di un disturbo post traumatico da stress (PTSD) (Mavros, N., et al., 2011): secondo i dati in letteratura va incontro a un PTSD il 19%-38% dei pazienti che hanno avuto un arresto cardiaco (Gamper et al., 2004; Ladwig et al., 1999; O’Reilly, Grubb, & O’Carroll, 2004), il 16%-22% di quelli che hanno avuto un infarto del miocardio (Ginzburg, et al., 2006; Pedersen, Middel, & Larsen, 2003; Shemesh et al., 2006), 8%-18% dei pazienti sottoposti a chirurgia cardiaca (Connolly, et al. 2004; Doerfler, Pbert, & DeCosimo, 1994; Schelling et al., 2003) e 11% -16% dei pazienti che hanno subito un trapianto (Dew et al., 1996, 1999, 2000, 2001).
Articolo consigliato: Le reazioni psicologiche dei pazienti con scompenso cardiaco.
Non intervenire adeguatamente su questi aspetti psicologici ed emotivi può compromettere le possibilità di recupero sia psicologico che fisico del paziente (Shemesh, E. et al.,2004, Frasure-Smith N, Lespérance F., 2008), peggiorando anche la compliance con il personale medico. La ricerca in questo campo (Davidson, et al. 2010) dimostra che uno stato depressivo minore dopo un infarto del miocardio può aumentare significativamente le probabilità di mortalità negli anni successivi. Secondo i dati presentati all’12th Annual Spring Meeting on Cardiovascular Nursing (Damen et al. 2012), che si è tenuto a Marzo 2012 a Copenhagen, in un campione di più di 1000 pazienti che hanno subito interventi alle coronarie il 26,3% va incontro a depressione, e nei 7 anni successivi è stata registrata una mortalità del 23,5% tra i pazienti depressi contro il 12,2% tra i pazienti non depressi; la depressione inoltre è risultata indipendentemente associata a tutte le cause di mortalità.
Anche i sintomi di un PTSD hanno effetti a lungo termine nell’aumentare il rischio di mortalità, sia in pazienti a cui siano stati impiantati defribillatori (Ladwig KH, et al., 2008; Davidson, et al. 2010) sia in pazienti che hanno subito trapianti (Ladwig KH, et al. 2008), aumentando anche il rischio di problemi cardiovascolari correlati (Shemesh, E. et al.,2004).
I dati di ricerca (Denollet, J. Et al., 2010; Razzini C, et al., 2008; Petersen e Denollet, 2003) suggeriscono inoltre che pazienti cardiopatici con una personalità di tipo D – caratterizzata da negatività, pessimismo e inibizione sociale – hanno tre volte il rischio, rispetto agli altri pazienti cardiopatici, di sviluppare ulteriori problemi cardiaci in futuro. Tale tipo di personalità è pertanto associato a una prognosi cardiaca negativa. Il trattamento del disagio psicologico, oltre che indurre una riduzione dei sintomi depressivi, sembra migliorare gli esiti fisici di questi pazienti.
Di fronte di questi dati un intervento psicologico-psicoterapeutico appare molto indicato e può attuarsi a diversi livelli:
Relazionale:
Stabilire una comunicazione efficace tra il paziente ed i familiari
Facilitare la collaborazione tra il paziente e la sua famiglia, e gli operatori sanitari
Diagnostico: Attraverso la somministrazione di alcune scale per valutare, e monitorare nel tempo, la severità di sintomi ansiosi e depressivi e l’intensità delle reazioni di evitamento, intrusività e iperarousal:
CES-D (Radloff, L., S., 1977), è una scala validata per misurare la depressione negli adulti, nel caso di pazienti anziani si usa la GDS (Yesavage, J., A.; Brink, T., L.; Rose T., L. et al., 1983) ;
STAI è una scala che permette di misurare sia l’ansia di stato che quella di tratto (Spielberger, Gorsuch, Lushene, 1968)
la IES-R (Weiss & Marmar, 1997), è uno strumento usato per monitorare l’intensità delle reazioni di evitamento, intrusività e iperarausal a seguito di eventi traumatici;
Terapeutico, riabilitativo, preventivo:
Lavorare sui sintomi ansiosi e depressivi e sulla reazione allo stress traumatico.
EMDR in pazienti sopravvissuti a eventi cardiaci gravi
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Sono già stati condotti due studi sperimentali in pazienti sopravvissuti ad eventi cardiaci gravi per testare l’efficacia del metodo nel trattare i sintomi di PTDS, ansia e depressione che si sono sviluppati nel periodo post operatorio. In entrambi gli studi (Arabia, E; Manca, M L; Solomon, R M. 2011; Shemesh et al., 2010) il trattamento (in media 10 sedute) si è dimostrato efficace nella riduzione della sintomatologia postraumatica, nel ridurre sia l’ansia di stato che quella di tratto e nel ridurre la sintomatologia depressiva; inoltre questo tipo di trattamento si è dimostrato superiore ad altre tecniche di trattamento usate, ad esempio le tecniche immaginative.
Il follow up a 6 mesi ha dimostrato il persistere dei benefici anche a lungo termine. Questi risultati replicano quelli di ricerche precedenti sull’efficacia dell’EMDR nel trattamento di sintomi ansiosi e depressivi (Raboni, Tufik, & Suchecki, 2006; Scheck, Schaeffer, & Gillette, 1998; Ironson, Freund, Strauss, & Williams, 2002; Marcus, Marquis, & Sakai, 1997; van der Kolk et al., 2007)
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