Abilità di lettura nei babbuini: il riconoscimento dell’ortografia.
– Rassegna Stampa –
Imparare a leggere implica anche l’abilità di riconoscere e memorizzare combinazioni regolari di lettere che compongono le parole. Un nuovo studio dimostra che i primati non umani sarebbero in grado di riconoscere specifiche combinazioni di lettere nelle parole e di rilevarne anomalie.
Un gruppo di ricercatori del Laboratoire de Psychologie Cognitive (Cognitive Psychology Laboratory, CNRS/Aix-Marseille University) di Marsiglia ha condotto un esperimento in cui venivano mostrati a babbuini alcune parole composte da quattro lettere su un dispositivo touch screen. I babbuini venivano addestrati a pigiare una forma ovale se lo stimolo presentato era effettivamente una parola scritta correttamente oppure una croce in caso vi fossero anomalie: ovviamente venivano rinforzati postitivamente e ricompensati mediante cereali a fronte delle risposte corrette. In pochi giorni di training i babbuini avevano effettivamente appreso a distinguere correttamente le parole in lingua inglese tipo “bank” rispetto a non-parole come “jank”.
Ancora più sorprendentemente, dopo avere memorizzato lo spelling di dozzine di parole, i babbuini erano poi in grado di dare le risposte corrette anche di fronte a parole che non avevano mai visto precedentemente. Ciò suggerisce che i nostri antenati primati non si limiterebbero a memorizzare la forma complessiva delle parole ma sarebbero in grado di rilevare e memorizzare patterns regolari nell’organizzazione delle parole: è come se fossero in grado di apprendere combinazioni di lettere regolari e frequenti all’interno delle parole di lingua inglese, e similmente di rilevarne anomalie e irregolarità.
Questa abilità, non specificamente umana nè linguistica, potrebbe quindi avere rappresentare una delle premesse per l’evoluzione del linguaggio nell’uomo.
Vestita di Rosso = più interessata al Sesso? (agli occhi degli uomini)
Gli abiti rossi aggrovigliano la mente degli uomini, basta chiedere a Neo di Matrix. In una scena del film, l’eroe subisce un’imboscata dopo essere stato distratto dalla “donna in rosso”.
Ora un nuovo studio indaga i fondamenti di questo sentire comune. L’assunto è che gli uomini valutino le donne che indossano abiti rossi come più interessate al sesso, suggerendo che gli esseri umani possano essere condizionati ad associare questo colore alla fertilità.
L’attrazione per il rosso non è una novità. Le donne hanno indossato blish rosato e rossetto luminoso per circa 12.000 anni. E, se siete stati abbastanza fortunati da ricevere un biglietto per il giorno di San Valentino, sarà probabilmente stato decorato di piccoli cuori rossi. È un effetto che deriva probabilmente dalla biologia, dice Adam Pazda, psicologo presso l’Università di Rochester, New York, e autore del nuovo studio. Quando molti primati femmina -dagli scimpanzè ai diversi tipi di babbuini chiamati mandrilli- diventano fertili, il picco dei livelli di estrogeni genera l’apertura dei vasi sanguigni che rendono il loro viso rosso brillante. Questa carnagione arrossata sembra dare ai maschi il segnale che è il momento di fare la loro mossa.
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Lo stesso potrebbe essere vero per gli esseri umani, dice Pazda. In uno studio precedente, scienziati hanno dimostrato che gli uomini sembrano essere più attratti da donne vestite di rosso, piuttosto che in un colore come il bianco. Questo a prescindere dall’abito. “Non deve essere un vestito rosso o un abito sexy”, dice. “Può essere anche una T-shirt rossa”.
ESPERIMENTO: Per capire perché, Pazda e i suoi colleghi hanno condotto un semplice esperimento. Hanno mostrato a 25 uomini una foto modificata di una donna single, in diversi casi, indossava una T-shirt bianca o rossa. I ricercatori hanno poi chiesto ai volontari di valutare, su una scala da 1 a 9, quanto la modella potesse essere interessata ad una storia. In altre parole, gli uomini hanno risposto alla domanda: “Lei è interessata al sesso?”.
Gli uomini hanno interpretato il vestito rosso come un segnale che la donna era effettivamente più aperta alle avances sessuali. Infatti, i ragazzi tendevano a dare un punteggio sulla disponibilità della donna al sesso da 1 a 1,5 punti in più quando portava la maglietta rossa piuttosto che bianca. È noto che gli uomini tendono a gonfiare l’appeal sessuale di una donna se credono che sarà più aperta e disponibile.
Il lavoro del team è molto interessante, secondo Markus Maier, psicologo presso l’Università di Monaco di Baviera in Germania. Ma, a questo punto, è impossibile dire perché gli uomini adorino così tanto il rosso. L’effetto potrebbe essere evolutivo, ma potrebbe anche essere un fenomeno culturale, in altre parole, un comportamento appreso tramandato di generazione in generazione. Per capire questo gli scienziati avrebbero bisogno di recarsi in angoli isolati del mondo per esaminare se universalmente il rosso sia un colore associato alla sessualità.
Ma è chiaro le donne dovrebbero stare attente, dice Pazda . Anche scelte apparentemente insignificanti del guardaroba possono inviare un sacco di segnali non intenzionali. “Indossare rosso può essere una lama a doppio taglio”, dice. Le donne “potrebbero ottenere sempre l’attenzione sessuale anche quando non la desiderano”. Ma c’è una lezione per gli uomini, inoltre. E’ importante per gli uomini essere consapevoli di come il loro atteggiamento verso le donne possa ritorcersi contro a causa di indizi fuorvianti. Questa è una lezione che Neo ha sicuramente imparato!
Neuroscienze e Psicoanalisi: il contributo di Mauro Mancia
Milko Prati.
MEMORIA ESPLICITA E MEMORIA IMPLICITA. L’INCONSCIO NON RIMOSSO
Fino a non molto tempo fa accostare i termini Neuroscienze e Psicoanalisi sarebbe equivalso ad esprimere un ossimoro. Negli ultimi anni, la ricerca neuroscientifica ha permesso l’individuazione di diversi punti di contatto con la psicoanalisi offrendo una base morfofunzionale a funzioni specifiche della mente sulle quali sono fondate le teorie psicoanalitiche.
In Italia, il progetto di una possibile integrazione tra le neuroscienze e la psicoanalisi è stato portato avanti da Mauro Mancia. Allievo di Cesare Musatti, è stato professore di Fisiologia Umana all’Università degli Studi di Milano e psicoanalista SPI, ha cercato di allontanare progressivamente la psicoanalisi dalla metapsicologia per avvicinarla sempre più alla psicologia aperta alla sperimentazione e alla osservazione scientifica.
Punto di partenza è la scoperta da parte delle neuroscienze dell’esistenza di due sistemi della memoria:
La memoria esplicita: a lungo termine, dichiarativa, autobiografica, relativa alla propria identità e storia personale, e che permette il ricordo.
La memoria implicita: che invece non è passibile di ricordo e non è verbalizzabile.
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Questa scoperta permette a Mancia di ipotizzare che le tutte esperienze infantili dei primi due anni di vita, prima dello sviluppo del linguaggio, siano depositate nella memoria implicita e che in questo sistema di memoria siano contenute le esperienze più arcaiche, anche traumatiche, relative alle prime relazioni del bambino con la madre.
Sulla base di tale ipotesi, Mancia introduce un concetto originale che gli consente di individuare un ponte di collegamento tra le due discipline: l’“inconscio non rimosso”.
È possibile mettere in relazione la memoria implicita con un’organizzazione inconscia, cosiddetta “non rimossa”, in quanto la rimozione necessita dell’integrità delle strutture neurofisiologiche (ippocampo, corteccia temporale e orbito-frontale) e della maturazione delle stesse, indispensabili per la memoria esplicita. La rimozione è pertanto collegata espressamente alla memoria esplicita, ma siccome tale memoria non è matura nel bambino prima dei due anni di vita, tutto ciò che avviene prima entra nella memoria implicita e si deposita in una forma d’inconscio che non può essere rimossa.
Le tracce mnestiche depositate nella memoria implicita e nell’inconscio, che non può essere rimosso, costituiscono il marchio, la struttura portante, il carattere e la personalità dell’individuo, e continueranno a condizionare la vita affettiva, emotiva, cognitiva per sempre.
Queste osservazioni permettono un ampliamento del concetto di inconscio, ridimensionando l’aspetto legato alla rimozione a favore di esperienze non rimosse. L’inconscio è considerato come una funzione della mente indispensabile per conoscere anche la coscienza e per poter comprendere i comportamenti, i sentimenti e le sensazioni dell’individuo. In questo senso, i risultati delle ricerche neuroscientifiche aiutano a conoscere le strutture o a comprendere maggiormente come si organizza la memoria, sia quella implicita che esplicita, offrendo una misura di come si organizza l’inconscio.
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Una questione di particolare interesse affrontata da Mancia è il rapporto tra il concetto di non conscio o non consapevole (unaware) delle neuroscienze e quello di inconscio (unconscious) della psicoanalisi. Definire chiaramente i due concetti evita confusioni semantiche ed epistemologiche, infatti la non consapevolezza trattata dalle neuroscienze riguarda eventi esterni al proprio Sé (neglet, prosopoagnosia, anosognosia ecc), in quanto non radicati nella storia affettiva ed emotiva del soggetto né nella sua memoria esplicita o implicita mentre, invece, sono proprio questi ultimi aspetti che riguardano essenzialmente il concetto di inconscio della psicoanalisi. Riguardo alle emozioni, alcuni cognitivisti (Kihlstrom, 1987) utilizzano il concetto di “inconscio cognitivo” per sottolineare l’identità tra emozioni e inconscio, suggerendo proprio questo come punto di convergenza tra la psicoanalisi e le neuroscienze.
In relazione alla clinica, Mancia sottolinea che l’inconscio dinamico di Freud, permettendo il ricordo, si manifesta nel transfert attraverso la narrazione, mentre l’inconscio non rimosso si manifesta attraverso le funzioni simboliche del sogno e la musicalità del transfert.
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Il sogno ha la capacità simbolo-poietica di trasformare esperienze all’origine pre-simboliche in contenuti verbalizzabili, e l’analisi dei sogni può favorire questo processo ricostruttivo, offrendo immagini pittografiche ed emozioni che permettono di simbolizzare, mentalizzare quindi rendere pensabile ciò che il bambino non poteva pensare.
Il transfert, concetto cardine della psicoanalisi, è rielaborato da Mancia in una chiave originale. Fondandosi sulla relazione stabilita tra memoria implicita e inconscio non rimosso, ritiene che la voce materna sia il primo strumento, il primo stimolo con cui il bambino entra in relazione con l’esterno.
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La voce materna rappresenta una sorta di imprinting perché attraverso la voce il bambino riconosce il carattere della madre, gli aspetti affettivi-emozionali e il bambino risulta, già in epoca molto precoce, sensibile all’intonazione e alla musicalità della voce materna, rappresentando quest’ultima la radice su cui si fonda la prima relazione affettiva del bambino con la madre. Questo ricomparirà nel transfert e l’inconscio non rimosso sarà presente nelle componenti verbali ed extraverbali. Mentre queste ultime saranno caratterizzate da agiti (postura, espressività facciale, modo di presentarsi ecc), la componente verbale deve essere colta nella doppia semantica del linguaggio che permette di dare un senso alla comunicazione del paziente, non tanto nel contenuto delle parole quanto attraverso tono, timbro, volume, ritmo, prosodia, sintassi e tempi del linguaggio.
La voce assume un determinato valore come esperienza di sé e, nello stesso tempo, come espressione di sé nella relazione psicoanalitica.
I messaggi trasmessi dalla vocalità raggiungono le voci dell’inconscio.
BIBLIOGRAFIA:
Mancia M., Psicoanalisi e Neuroscienze, Springer Verlag, 2008
Mancia M., Sentire le parole, Bollati Boringhieri, 2004
Kihlstrom J. E. (1987). The Cognitive Unconscious, Science, 237, 1445-52
Il Dio Postmoderno ne La Trama del Matrimonio, di Jeffrey Eugenides
Alcune osservazioni in aggiunta a quelle della mia amica Brunella Coratti, già uscite su State of Mind.
Si il libro è bello, e due sono i motivi che me lo fanno amare, innanzitutto il viaggio nel disturbo bipolare, di uno dei tre protagonisti (Leonard). Per un terapista entrare nella sua mente è veramente molto interessante, sia quando non è consapevole della sua malattia e agisce rabbia o distanza dagli altri, sia quando entra nell’illusione onnipotente di controllare il farmaco e l’umore.
Si, non credere a pensieri ed emozioni che ci abitano nella mente è veramente difficile, distanziarsi da cose che viviamo come nostre è la grande scommessa della psicoterapia con i pazienti difficili. Siamo abituati a credere a ciò che pensiamo e proviamo come l’espressione autentica di noi stessi e occorre una grande disciplina interiore per fidarsi di chi ci dice che queste emozioni, questi pensieri sono il sintomo di un malessere e non l’unico modo privilegiato di leggere il mondo. Ma anche quando abbiamo capito, riuscire a criticare questi stati, a distanziarsi o vivere come se fossero non nostri, è una grande e difficile battaglia.
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Il disturbo bipolare disgrega l’esistenza di Leonard, e il rapporto con Madeleine. Jeffrey Eugenides è benevolo però e ci promette che con il tempo e dopo molte distruzioni Leonard troverà un suo modo di convivere con la malattia.
Ma un’altra parte del libro è importante secondo me. Mitchell l’altro protagonista maschio del libro, intelligente, ostinatamente innamorato di Madeleine con il sapore perenne della sconfitta in bocca, attraversa una crisi spirituale che gli fa desiderare di divenire religioso, di avvicinarsi alla religione. Finisce in India nell’ospedale di Madre Teresa di Calcutta e ci rimane per qualche tempo tentando di fare i conti con il dolore dei malati e dei morenti. Con grande fatica e molto molto disgusto.
La domanda di religione e di spiritualità di Mitchell è tipicamente postmoderna, non nasce da un desiderio di spiegazione del mondo, del destino dell’uomo. Non nasce in un mondo oscuro e incomprensibile da un desiderio di ordine e organizzazione. Non ha lo scopo di spiegarsi l’aldilà, il dopovita, il senso stesso dell’esistenza. La sparizione degli affetti e la morte delle persone care.
No, la sua domanda di religione è molto simile a una domanda di psicoterapia, intima, solitaria, ansiolitica, antidepressiva.
E’ una domanda di Dio senza veramente bisogno di Dio.
Nasce da un’ infelicità esistenziale, emotiva, dall’amore infelice verso una donna, e non sembra spirituale ma psicologico. Ecco mi ha colpito questo Dio moderno che non spiega più il mondo ma serve a spiegare soprattutto la sofferenza psicologica umana. Un Dio intimista e psicoterapeuta più che un Dio di giustizia o di provvidenza.
Di Madeleine, la protagonista sana, sappiamo già tutto al’inizio, la sua sofferenza è sofferenza del crescere, e, al contrario della figlia giainista dello Svedese di Philip Roth, sappiamo che alla fine, dopo tanta confusione e sofferenza, si salverà. E qui Eugenides è meno grande che nella descrizione dei maschi del libro. Le donne le comprende di meno, e forse gli interessano di meno dei protagonisti maschi. E si vede.
Riconsolidamento Mnestico: Manipolare la Memoria per trattare la Dipendenza da Sostanze
– Rassegna Stampa –
Una procedura comportamentale che altera la memoria -in termini di apprendimento associativo- può essere utile per prevenire efficacemente il craving e le ricadute nei dipendenti da eroina.
Lo studio pubblicato in questi giorni su Science descrive tale procedura comportamentale come una manipolazione delle memorie derivanti da apprendimenti associativi riguardanti l’uso di sostanze. La prevenzione del craving e delle ricadute nell’ambiente quotidiano dei pazienti rappresenta uno dei nodi più critici del trattamento dell’addiction, proprio perché l’esposizione a stimoli legati alla sostanza vengono associati a livello mnestico agli effetti piacevoli a breve termine del suo utilizzo inducendo il craving e spesso anche l’abituale risposta d’uso.
La nuova procedura sottoposta a verifica nell’articolo combina l’esposizione agli stimoli triggers con la manipolazione del processo cognitivo chiamatoriconsolidamento mnestico in cui l’informazione viene recuperata dai magazzini della memoria a lungo termine e quindi riattivata così che si possa ulteriormente consolidare. Subito dopo il recupero mnestico l’informazione appena recuperata viene resa temporaneamente instabile e soggetta ad alterazioni di contenuto. Già tra il 2009 e il 2010 LeDoux e Phelps della New York University avevano dimostrato che l’interferenza nel processo di riconsolidamento mnestico può indebolire le memorie fobiche nei topi e negli umani.
La nuova procedura sperimentata dai ricercatori del National Institute of Drug Dependence dell’Università di Beijing consiste nella manipolazione del riconsolidamento mnestico dei precedenti comportamenti di uso di sostanze e relativi stimoli correlati. Una prima serie di esperimenti ha dimostrato che tale procedura riduce il comportamento di ricerca della sostanza nei topi; similmente nei pazienti dipendenti da cocaina tale manipolazione si è dimostrata efficace nella riduzione del craving fino a sei mesi in un regime di ricovero per disintossicazione.
Nei casi clinici che seguono, l’arrosto sostanzioso dei vari pazienti è condito con il sugo della fantasia, per rendere non identificabili le persone e la lettura più avvincente. Spesso ho condensato in un solo paziente più persone e, quasi sempre ci sono scappati pezzetti di me stesso. – Leggi l’introduzione –
Aveva già tentato altre terapie e, fosse stato per lui, si sarebbe arreso e sopportato le pene della malattia come il suo correligionario Giobbe. Ma Sara non ne poteva più e, siccome era lei a comandare in famiglia, lo prese metaforicamente per un orecchio e lo portò da me. Presenziò a gran parte del primo incontro, perché voleva sincerarsi che Simone elencasse effettivamente tutti i sintomi, dei quali si vergognava moltissimo. Se non avesse accettato la cura e non fosse guarito lei lo avrebbe lasciato e se ne sarebbe andata con il piccolo Gioele che iniziava, a soli otto anni, a manifestare le stesse manie del padre.
Simone aveva trentacinque anni ed era ufficialmente diventato ossessivo nel giorno del suo trentesimo compleanno, quando il padre gli aveva affidato la gestione del negozio.
Il vecchio Aronne, compiuti i settantacinque anni, aveva deciso di chiudere la sua vita lavorativa. Diviso il patrimonio immobiliare tra i suoi tre figli maschi e una figlia femmina, aveva affidato la gestione del negozio importante a Simone ,con l’impegno che continuasse a mantenere lui e la madre dando loro il 20% degli utili e un altro 10% a ciascuno dei fratelli. Il restante 50% sarebbe stato tutto suo. Ad Aronne sembrava così di non dividere il patrimonio familiare e di garantire una buona rendita a tutti. Simone ebbe netta l’impressione di averlo preso per l’ennesima volta in tasca da quel padre padrone che temeva e odiava. A lui sarebbe spettata la quota maggiore degli utili, ma anche tutto il lavoro e la responsabilità. Inoltre, erano stati sufficienti pochi mesi per capire che il padre si era ritirato per modo di dire; tutte le mattine si recava in negozio, consigliava Simone sulle scelte imprenditoriali da fare e criticava quelle già fatte.
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I commessi stessi continuavano a rivolgersi ad Aronne per le indicazioni di lavoro e, non bastasse, ogni tanto arrivava la madre, la signora Giuditta a dirgli davanti a tutti che ormai lui era il capo, che come tale doveva comportarsi e che non era più il garzoncello entrato a bottega quando aveva dodici anni, con una paghetta di centomila al mese. Lo aveva inteso o no che era diventato il capofamiglia e tutti dipendevano da lui?
I sintomi ossessivi si svilupparono in due direzioni: il negozio e la galera. Circa il negozio, Simone sentiva una responsabilità enorme e temeva di commettere errori nelle scelte, per cui ogni scelta diventava difficilissima, veniva procrastinata il più possibile e ciò comportava dei danni rispetto agli spietati concorrenti. La decisione sul campionario nuovo o sulla data dei saldi erano per Simone un tormento.
Soprattutto, il sintomo si manifestava al momento di chiudere il negozio la sera: usciva per ultimo, tirava giù la serranda blindata chiudeva in successione i cinque lucchetti di cui tre con la chiave e tre con la combinazione, attivava l’antifurto e chiamava la centrale dei metronotte per avvertirli che passava a loro la consegna. Con un telecomando accendeva le telecamere di sorveglianza.
Una sera pensò che, oltre alla comunicazione acustica via telefono, sarebbe stato più sicuro mandare anche un messaggio visivo, di passaggio delle consegne, all’operatore che stava in centrale ad osservare il video trasmesso dalle telecamere. Si posizionò di fronte alla telecamera e fece un inchino con la riverenza, come a dire “ ora tocca a te, buona guardia e attenzione!” Ma come poteva essere certo che l’operatore fosse effettivamente stato attento nel momento del cambio della guardia? Pensò che sarebbe stato meglio riproporre la riverenza più volte, almeno tre, numero perfetto, a distanza di dieci minuti l’una dall’altra.
Una sera, trascorsa la mezz’ora dedicata alle riverenze, ebbe un dubbio, non ricordava esattamente i gesti fatti per chiudere i cinque lucchetti. Non poteva andarsene senza controllare. Per essere più sicuro riaprì di nuovo i lucchetti e ricominciò, sforzandosi di tener a mente ogni gesto, per ricordarlo con sicurezza, quando il demonio del dubbio sarebbe tornato a tentarlo. Giù la serranda. Aprire e chiudere i cinque lucchetti. Inserire l’antifurto. Telefonare alla centrale. Accendere le telecamere e iniziare il ciclo delle tre riverenze. Quando stava per concludere con successo, un gatto schizzò da sotto una macchina e lo distrasse. A quel punto, non era più sicuro di aver ricordato con precisione tutti i passaggi fatti e, dunque, forse ne aveva tralasciati alcuni.
La telefonata di Sara, preoccupata per il ritardo, lo riscosse dallo stato di trance in cui era sprofondato alle 22.00, due ore e mezzo dopo la chiusura del negozio La posta in palio era un furto al negozio, che avrebbe portato alla rovina tutta la famiglia.
Nei giorni successivi il problema si ripropose con ritardi crescenti, Simone sviluppò un rituale standardizzato che prevedeva una serie di controlli e conteggi e chiamò il tutto “pacchetto chiusura” e, quando lo aveva completato, spostava il portafoglio dalla tasca sinistra alla tasca destra dei pantaloni. Quel gonfiore a destra dei genitali stava a ricordargli “pacchetto chiusura” a posto.
RUBRICA CONSIGLIATA: Un Giorno di Ordinaria Follia. Psichiatria Pubblica, Lettere dal Fronte.
Una sera, tornato a casa, si tolse i pantaloni dopo aver levato chiavi e portafoglio. Era già in pigiama quando dovette rivestirsi e tornare al negozio per ricominciare da capo. Sarà spiegò al figlio che il papà aveva dimenticato una cosa. Dieci giorni dopo, dovendo ri-uscire tutte le sere, spiegò lui stesso al figlio che non stava bene e si sarebbe fatto curare.
L’altro grande filone ossessivo era quello della galera. Da sempre Simone era stato scrupoloso e particolarmente attento al rispetto delle leggi perché temeva di essere arrestato. Faceva risalire questo timore all’esperienza vissuta dal padre e dal nonno dell’arresto improvviso e ingiustificato degli ebrei romani al tempo del nazifascismo. Pagava le tasse ed era irreprensibile verso tutti i doveri di legge, ma ora stava esagerando. Temeva in effetti che, se fosse stato arrestato, non solo avrebbe sofferto le pene della detenzione, la vergogna e la solitudine, ma il negozio, senza più una guida, sarebbe andato incontro a fallimento e tutta la sua famiglia in rovina. Le precauzioni non sembravano mai sufficienti, non assunse più personale di sesso femminile perché temeva di essere accusato ingiustamente di molestie sessuali e, in seguito, non assunse più nessuno, restando solo con i vecchi e fidati commessi, perché pensò che anche i maschi potevano rivolgergli tale accusa e comunque esisteva la più generica accusa di mobbing.
La guida della sua auto divenne un calvario e alla fine vi rinunciò, pensava che avrebbe potuto investire qualcuno senza accorgersene e, perciò, essere incriminato per omissione di soccorso. Tornava continuamente indietro a ripercorrere la strada già fatta per cercare le tracce dell’incidente di cui poteva non essersi accorto, poi pensava che l’incidente potesse averlo provocato proprio nel giro di controllo e, così, non c’era mai fine, solo il motorino gli dava più sicurezza in quanto gli sembrava più difficile uccidere qualcuno senza avvedersene.
La moglie lo portò da me quando tornò a casa a piedi, in preda ad una crisi d’ansia incontenibile e comunicò che non avrebbe più usato nemmeno il motorino. Aveva pensato, infatti, che una pellicina avrebbe potuto staccarsi dalle dita della sua mano (si mangiava le unghie) e finire, trasportata dal vento, nell’occhio di qualche motociclista che lo seguiva. Il malcapitato sarebbe caduto mettendosi di traverso, sul suo veicolo fermo si sarebbero poi schiantati autobus, macchine e mezzi di ogni sorta, facendo una carneficina di cui lui sarebbe stato il responsabile.
Abbandonato il motorino iniziò ad andare in giro in autobus e a piedi ma anche questo durò poco, temeva di spingere involontariamente e senza accorgersene qualcuno in terra e di causarne così colpevolmente la morte. Pretese per un periodo di essere accompagnato dalla moglie in tutti gli spostamenti, sarebbe stata lei a badare ad eventuali reati da lui commessi, di se stesso non si fidava. Ad un certo punto lei si rifiutò e lui vide concreta la possibilità di chiudere il negozio.
Resosi conto della gravità della situazione, accettò di buon grado la psicoterapia, si sentì molto compreso e condivise appieno la lineare spiegazione del disturbo.
MONOGRAFIA: Il Disputing in Psicoterapia
Nel presente, quello che succedeva era il tentativo “costi quel che costi” di non essere responsabile della rovina della sua famiglia attuale e di quella di origine. Se ciò si fosse verificato per sua responsabilità, sarebbe stato cacciato dalla famiglia e avrebbe perso tutti i suoi affetti meritandosi, come condanna, la morte.
Si rendeva conto che il negozio principale di famiglia non era come gli altri negozi minori che lui e i fratelli avevano. Rappresentava la famiglia stessa, il suo valore, la posizione nella comunità, la loro dignità e il riscatto dalla povertà che li aveva un tempo afflitti. Chi lo gestiva era il patriarca della famiglia e, da quando aveva ricevuto le consegne dal padre, si era sentito schiacciato da una responsabilità enorme, un suo piccolo sbaglio avrebbe mandato in malora il lavoro di generazioni e il loro buon nome. Capiva anche che il padre gli aveva sì affidato un compito importante ma contemporaneamente, con la sua costante presenza e le intromissioni nella gestione, stava lì a dirgli che non era in grado di cavarsela da solo.
Riconobbe che questo era stato un motivo ricorrente nel suo rapporto con il padre, che lo aveva sempre chiamato a rispondere a grandi aspettative in quanto primogenito, ma gli aveva anche lasciato sempre intendere che era un incapace.
Un primo importante filone di lavoro con Simone fu dunque la sua separazione dalla famiglia d’origine ed in particolare dal padre padrone. Lui era diverso, voleva altre cose, aveva modi diversi di fare, gli voleva bene ma era un’altra persona.
Sentì necessario un riposizionamento anche nei confronti dei fratelli, che si aspettavano che continuasse il ruolo paterno, guidandoli come se fossero figli. Potè permettersi di sentire rabbia verso i genitori, che non avevano accolto i suoi bisogni di bambino e ragazzo per farne subito un uomo al servizio della causa familiare. Il padre lo aveva ossessionato con la sua severità e la madre non lo aveva mai protetto. Durante questo lavoro giunse alla decisione che avrebbe investito più risorse sul suo proprio negozio e meno su quello di famiglia.
Ragionammo insieme sui rituali di controllo che, provocatoriamente, gli definivo ogni volta come insufficienti, suggerendo possibili falle del sistema e capì che il traguardo della certezza assoluta era utopico e che in realtà il suo affaccendarsi era utile più per sentirsi la coscienza a posto che per scongiurare effettivamente quanto temuto. Era una sorta di penitenza sacrificale che offriva a un Dio in cui diceva di non credere.
Da buon commerciante fu facile fargli valutare quanto tutto questo lavorio e la procrastinazione delle scelte non fosse senza costi. Si rese conto che stava colpevolmente (per dirla secondo la sua ottica) sacrificando tempo e risorse. Dunque, paradossalmente, ciò che faceva per evitare la colpa lo portava a essere colpevole.
Iniziò con enormi sforzi a ridurre il massiccio apparato compulsivo con compiti concordati di seduta in seduta soprattutto quando si avvide che, come una droga, le ossessioni si rinforzavano continuamente a motivo dell’immediato sollievo che gli procuravano, ma stavano portando alla rovina la sua vita relazionale. Iniziò a pensare che, nonostante i suoi sforzi, non poteva tenere tutto sotto controllo ma ciò significava anche che non era responsabile di tutto. Capire di non essere Dio e di non averne tutti i doveri di gestione universale lo sollevò molto.
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Iniziammo ad affiancare, alla riduzione delle compulsioni, una serie di attività gratuite e ludiche che non avessero scopo produttivo, ma solo la scoperta e il raggiungimento del proprio piacere personale. Per Simone capire cosa davvero desiderasse fu molto difficile. Cosa voglio? Non era una domanda che si era mai posto, al contrario le domande che normalmente si poneva erano: cosa devo fare e cosa si aspettano da me? Indicatori esterni sull’andamento della terapia furono i crescenti ringraziamenti della moglie, liberata dal giogo degli accompagnamenti e le perplessità della famiglia d’origine che chiedevano quando, questa inutile e costosa terapia, si sarebbe conclusa. L’alleanza era ottima e non avevamo alcuna intenzione di chiudere la terapia ma, come avevamo lungamente argomentato con Simone, non tutto è sotto il nostro controllo.
Così, improvvisamente, una malattia acuta mi mise fuori gioco per circa dieci mesi.
Simone lo venne a sapere dagli altri colleghi del mio studio, con cui si tenne in contatto per avere mie notizie, ma non volle riprendere con loro la terapia, avrebbe provato da solo seguendo le mie indicazioni. Circa un anno dopo l’interruzione, mi telefonò per una seduta di bilancio e saluto che non avevamo avuto tempo di fare.
Mi ringraziò moltissimo per quanto avevo fatto per lui e mi disse che era completamente guarito. Fu interessante capire la spiegazione che si dava circa il mio intervento, a suo dire risolutivo per la guarigione.
Intanto bisogna fare una premessa: il negozio di famiglia era completamente andato distrutto in un incendio, un mese dopo la mia malattia e Simone costruì una teoria bizzarra e cioè che io ero certamente morto e dall’al di là gli avevo procurato l’incendio, sapendo che lo avrebbe guarito. La teoria in sé era facilmente confutata dalla mia presenza dietro la scrivania e, dunque, potevamo tornare a spiegazioni più terrene. Mi attribuiva un grande merito nella guarigione ma per qualcosa che, grazie a Dio, non avevo fatto.
Gli chiesi perché l’incendio fosse stato risolutivo e Simone mi spiegò che se l’incendio era avvenuto nonostante le sue esasperate precauzioni (numerosi impianti rilevatori del fumo, salvavita, controlli periodici dell’impianto elettrico) doveva proprio rassegnarsi che non poteva tenere tutto sotto controllo.
Gli chiesi anche perché, nel frattempo, mi avesse inviato altri pazienti, infatti era improbabile che io potessi morire ogni volta per organizzare dal paradiso un home work risolutivo per ciascun paziente. Allora mi spiegò, con pazienza, che era stato risolutivo il lavoro fatto insieme sulla responsabilità e l’impossibilità della certezza. Un tempo, di fronte all’evento incendio, si sarebbe detto che doveva controllare meglio e di più, non come aveva fatto questa volta rammentando il Magnifico e ripetendosi che “di doman non v’è certezza”.
Quando mi disse che Il nome del Magnifico gli era venuto in mente pensando al mio cognome e che forse questo era un segno, temetti di dover riprendere la psicoterapia o dargli dei farmaci per un altro disturbo che non avevo diagnosticato.
Lasciai perdere.
Alternative Evolutive e Costruttiviste al Disputing Cognitivo Standard.
DOVERE o PREFERENZA? Il Dilemma Dicotomico di Kelly e la via degli “opposti”.
L’esito più felice del disputing è naturalmente la sdrammatizzazione per via logico-empirica (alla Beck) degli eventi o delle situazioni negative temute dal paziente. Ma non è sempre così semplice. In questi casi spesso il paziente invoca una sfasatura tra ciò che sente e ciò pensa, o meglio ciò che pensa in terapia.
Tra le possibili strategie alternative c’è l’analisi e la critica della doverizzazione alla Ellis, che abbiamo già visto. Alcune cose sono temute dal paziente non per il danno materiale che comportano, ma perché contraddicono alcune regole, alcuni “doveri” che per il paziente sono irrinunciabili.
Tuttavia la doverizzazione può anche presentarsi in maniera subdola come preferenza. La formulazione verbale può essere apparentemente accettabile. Il paziente non dice “deve essere così” ma “voglio, desidero”. Insomma, apparentemente parla di una preferenza. Tuttavia questa preferenza è vissuta in maniera rigida. Questa rigidità è nascosta perché il suo opposto è vissuto come assolutamente inaccettabile dal paziente.
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In questo è utile il vecchio concetto kelliano di dilemma dicotomico (Feixas, Saúl, 2004) per cui possiamo veramente comprendere il significato soggettivo e personale di una credenza o di uno scopo di un paziente solo esplorando il suo opposto.
P.: Il mio problema è il timore di fallire
T.: Perché dovrebbe accadere?
P.: Perché voglio diventare brava. Per me è molto importante.
Notiamo come la paziente abbia giustificato il suo timore di fallire con la necessità di essere “brava”. Già intravediamo il dilemma kelliano che la danneggia.
T.: E perché è così importante?
P.: Esseri bravi è fondamentale. Le cose vanno fatte bene. Mostrare negligenza o incompetenza è immorale.
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Ecco che salta fuori il dilemma. Dilemma che rivela come lo scopo dell’essere “bravi” non sia una preferenza che orienta il comportamento in maniera flessibile e costruttiva, ma un dovere irrinunciabile e assoluto. E questa assolutezza dipende dal particolare concezione che questa persona ha dell’essere “bravi”, bravura che si definisce solo in rapporto al suo opposto, che per quella persona è l’essere immorali. È un percorso rigido (o “stretto” in termini kelliani) e non flessibile (o “lasso”, ancora in termini kelliani).
A questo punto si potrebbero imboccare varie strade. Si può direttamente chiedere alla persona di rendere più flessibile il suo costrutto (un costrutto, sempre in termini kelliani, è qualcosa di più di una credenza perché é definito dai due poli di un dilemma).
T.: Se nota, per lei essere bravi ed essere immorali sono collegati. Collegato un po’ rigidamente. Per lei non essere bravi significa essere immorali. Un costo non da poco. Ma perché non proviamo a vederla diversamente?
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Vederla diversamente, e qui si apre il ponte della ristrutturazione cognitiva. Ma è possibile imboccare anche un altro sentiero, che è il seguente:
T.: Dove ha imparato che se non si è bravi si è immorali?
P.: In che senso mi chiede: dove lo ho imparato?
T.: Intendo dire che nel corso della nostra vita noi apprendiamo delle idee, delle convinzioni. Le apprendiamo nel corso di situazioni o di relazioni. Per esempio in relazioni con persone che per noi sono state importanti. Genitori, amici, insegnanti e così via. Dove, o da chi, potrebbe avere imparato che se non si è bravi si è immorali?
E questo è tutto un altro campionato. Si tratta della storia di vita e di come il paziente ha appreso le sue convinzioni disfunzionali. Ne parleremo in un altro capitolo.
Neuroscienze: l’evoluzione parallela di Intelligenza e Worry.
– Rassegna Stampa –
Secondo una recente ricerca del SUNY Downstate Medical Center il worry potrebbe essersi evoluto con l’intelligenza: i ricercatori hanno scoperto che sia elevati punteggi di QI e che elevati livelli di worry (che si può intendere come attività mentale caratterizzata dalla predominanza di predizioni ansiose e paure di possibili futuri eventi negativi) correlano positivamente con l’attività cerebrale nella materia bianca subcorticale.
Nello studio 26 pazienti con diagnosi di disturbo d’ansia generalizzato (GAD) sono stati confrontati con 18 soggetti di controllo per valutare la relazione tra l’intelligenza (QI), il worry, e l’attività metabolica della materia bianca subcorticale. I partecipanti sono stati valutati mediante il Penn State Worry Questionnaire e Wechsler Abbreviated Scale of Intelligence, e sottoposti a una tecnica particolare di brain imaging in grado di valutare l’attività metabolica della materia bianca subcorticale.
I risultati evidenziano che i pazienti con GAD, rispetto ai soggetti di controllo, presentavano un livello significativamente maggiore di worry, punteggi più elevati al QI e una minor concentrazione di colina nella materia bianca subcorticale. Combinando i dati dei soggetti GAD e del gruppo di controllo, una bassa concentrazione di colina subcorticale era associata sia a punteggi elevati di QI che a maggior worry; analizzando invece le correlazioni tra intelligenza e worry nei singoli gruppi è emerso che nel campione di controllo, elevati QI erano associati con bassi livelli di worry, mentre nei pazienti con GAD, punteggi più alti di QI erano associati a un maggior grado di worry. Il che significa che la correlazione tra ansia e intelligenza assume un rapporto direttamente proporzionale nei pazienti con GAD mentre inversamente proporzionale nei soggetti non patologici.
In generale, sia elevati punteggi di worry che di intelligenza sarebbero entrambi legati a un comune substrato neurale, e cioè la riduzione della colina nella materia bianca subcorticale, facendo ipotizzare un rapporto di co-evoluzione tra i processi tipici dell’ansia e l’ intelligenza, caratteristica considerata tra le più adattive nell’evoluzione umana.
I risultati di questo studio dal titolo “The Relationship between Intelligence and Anxiety: An Association with Subcortical White Matter Metabolism” sono stati pubblicati in un recente numero di Frontiers in Evolutionary Neuroscience
Meyer TJ, Miller ML, Metzger RL, Borkovec TD: Development and Validation of the Penn State Worry Questionnaire. Behaviour Research and Therapy 28:487-495,1990 – DOWNLOAD
David Wechsler (1999). Wechsler Abbreviated Scale of Intelligence (WASI™). Pearson clinical assessment.
Precario il Lavoro, Stabile l’Ansia – Il Ritratto Psicologico di una Generazione
Nell’attuale dibattito politico e sociale si è inserito con forza il tema del precariato, inteso non solo come condizione lavorativa nella quale l’individuo viene privato delle sicurezze economiche e contrattuali, ma anche come stato psicologico ed emotivo che un numero crescente di persone è costretto ad affrontare in conseguenza di un lavoro incerto o assente.
La dimensione psicologica del precariato è stata però fino a questo momento sottovalutata da una parte consistente degli osservatori e dei legislatori, incapaci di comprendere gli effetti che si determinano quando un individuo non intravede un futuro per sé e per la propria famiglia. Le fonti a cui attingere per ricavare informazioni in merito sono molteplici; l’operato di un giornalismo onesto che ancora dipinge in modo obiettivo la realtà italiana ci consente di ascoltare e leggere quotidianamente le esperienze di coloro che oltre ad occuparsi della ricerca di un lavoro sempre più difficile da trovare, devono convivere con sentimenti depressivi e un’angoscia profonda che si legano al venir meno di un progetto esistenziale gratificante.
Articolo consigliato: Amarezza cronica post-traumatica: una diagnosi per i precari.
La sindrome del precario è ormai una realtà, come conferma l’Eurodap (Associazione europea disturbi da attacchi di panico) che per bocca della sua presidente, Paola Vinciguerra, traccia il bilancio di un’indagine condotta nel 2010.
“Su 300 persone tra i 25 e i 55 anni, il 70% ha dichiarato di trovare proprio sul posto di lavoro la maggiore fonte di stress. Di questi, il 60% teme i colleghi mentre il 40% si dice completamente assoggettato al capo per paura di essere licenziato. L’aria che si respira in ogni luogo di lavoro è totalmente artefatta e altamente conflittuale. La paura di perdere il posto dà luogo a dinamiche fortemente competitive, con richieste di prestazioni dei dipendenti da parte dei datori di lavoro che difficilmente possono essere disattese dai lavoratori terrorizzati di perdere la loro fonte di sopravvivenza”.
Ne deriva un’elevata sospettosità, una rappresentazione del luogo di lavoro come ambiente nel quale combattere una duplice battaglia quotidiana: da un lato infatti i colleghi e i superiori vengono percepiti come figure ostili da cui difendersi, dall’altro si fa strada la convinzione di doversi mettere in mostra per apparire meritevoli di una chance lavorativa. Entrambi i vissuti generano un sentimento di costante agitazione, una crescente intolleranza all’incertezza e, non ultima, una rabbia profonda che nell’ambiente di lavoro viene repressa per poi riverberarsi nelle relazioni della sfera affettiva.
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La nostra esperienza clinica ci pone inoltre a contatto con i danni che il paziente coinvolto nelle dinamiche del precariato subisce all’immagine di sé, compromessa dall’impossibilità di costruire una propria posizione autonoma nel mondo; prevale un senso di inutilità, una demotivazione alla lotta e un disimpegno che gradualmente depotenziano le risorse dell’individuo, la sua capacità di cercare nuove strade. E’ realistico pensare che non tutti i giovani siano ugualmente competenti e motivati nel cambiare il proprio futuro, tuttavia il dramma che si sta consumando riguarda persone appartenenti a fasce d’età molto diverse che vengono respinte dal mondo del lavoro e si confrontano ogni giorno con vissuti di disperazione, di inadeguatezza, tanto più dolorosi quanto più sono connessi ad un bilancio esistenziale che appare privo di prospettive evolutive.
Tale scenario si ritrova sia nelle categorie lavorative tradizionalmente svantaggiate sia nella realtà dei commercianti, dei piccoli imprenditori, di alcune libere professioni. Il precariato rende angusto lo spazio entro il quale un soggetto può dare organizzazione e significato allo sviluppo della propria esistenza, ostacola la possibilità di strutturare un tema di vita gestendo quote sopportabili di incertezza, amplifica il rimuginio ansioso sulle insidie dell’ambiente e accresce la diffidenza all’interno dei contesti relazionali, poiché la convinzione secondo cui la disponibilità di appoggi significativi, non fondati sulle capacità dimostrate permette l’accesso ad un riconoscimento sociale e professionale altrimenti irraggiungibile, viene spesso confermata dai fatti.
Questo genera una modalità depressiva di entrare in contatto con l’ambiente, uno stile di pensiero e di conoscenza che rifiuta l’esplorazione considerandola infruttuosa e illusoria. Il precario è perciò un individuo sfiduciato, che smarrisce la forza di cogliere eventuali opportunità di crescita e deve ristrutturare il proprio pattern di aspettative, bisogni, desideri collocandoli in una cornice strettamente quotidiana, elementare, nella quale coltivare un progetto esistenziale di largo respiro è esercizio quasi impraticabile. Come non bastasse, il precario è spesso costretto a svolgere lavori che nulla hanno a che vedere con il suo percorso di studi, con le sue aspirazioni; in questi casi, alle difficoltà economiche procurate da retribuzioni insufficienti si aggiunge la complessa gestione emotiva di una rappresentazione di sé che modifica i termini con cui il soggetto si percepisce.
Occorre reinventarsi, ripensarsi, prendere contatto con una narrazione di sé che si allontana pericolosamente dai pilastri fondamentali su cui era stata edificata; la paura di dover chiudere per sempre in un cassetto il ritratto di ciò che si voleva essere è un elemento centrale del precariato. Possa la politica ripartire dall’individuo, e l’individuo dalle sue aspirazioni più autentiche.
SI RINGRAZIA LA REDAZIONE DE IL CONTESTO PER I MATERIALI MESSI A DISPOSIZIONE DEI LETTORI DI STATE OF MIND
Il Contesto. (2011). La Repubblica del Lavoro, Numero Speciale del Luglio 2011
CNOP, PRESENTATO IL DECALOGO PER UNA NUOVA RIFORMA DELLA FORMAZIONE DEGLI PSICOLOGI
ORDINE DEGLI PSICOLOGI Consiglio Nazionale
CNOP, PRESENTATO IL DECALOGO PER UNA NUOVA RIFORMA DELLA FORMAZIONE DEGLI PSICOLOGI
Numero chiuso per l’accesso alla facoltà universitaria, prove di ammissioni comuni nello stesso giorno a livello nazionale, riforma della cosiddetta laurea breve, migliore qualità del tirocinio e revisione dell’esame di Stato. Sono questi i punti salienti presentati oggi a Roma dagli Stati generali della psicologia per garantire una nuova e migliore formazione professionale.
Roma, 12 aprile 2012 – Realizzare nuovi percorsi formativi per facilitare l’accesso dei giovani
professionisti al mercato del lavoro e garantire agli utenti adeguati livelli di qualità del servizio.
Sono questi alcuni dei capisaldi della linea di azione che il Consiglio nazionale dell’Ordine degli
Psicologi, in sinergia con la Conferenza dei Presidi delle facoltà di Psicologia, con la Consulta dei
Direttori di Dipartimento di Psicologia e con l’Associazione italiana di Psicologia, ha tracciato ed
elaborato in un documento ufficiale, presentato oggi a Roma durante una conferenza stampa, una
proposta in grado di rivoluzionare il percorso di formazione e l’accesso alla professione.
Secondo i dati ufficiali raccolti dal CNOP sono circa 83.000 i professionisti in Italia iscritti all’Albo
degli Psicologi. E ogni anno il numero medio degli iscritti aumenta di circa 5.000 unità. Ma oltre la
metà degli iscritti non riesce a esercitare la professione di psicologo. Ecco perché il CNOP presenta
oggi alle istituzioni un vero e proprio decalogo ufficiale di proposte, ma anche di azioni già
avviate, che riguardano in particolare l’accesso alla professione, la sperimentazione di nuovi
percorsi formativi e professionali, il tirocinio, la riforma degli esami di Stato.
“La precarietà che registriamo in alcune fasce dei nostri professionisti potrebbe essere attribuita al
rilevante numero di laureati che, negli ultimi quindici anni, sono usciti dalle Università come
conseguenza della proliferazione dei corsi di laurea”, ha dichiarato Giuseppe Luigi Palma,
Presidente del Cnop. Nel 2010 sono stati attivati più di 40 corsi di laurea di I Livello e più di 60
corsi di laurea di II Livello. Ma, “a fronte di un simile aumento nell’offerta di formazione, continua
Palma, è mancata una programmazione degli accessi rispetto al fabbisogno nazionale degli
psicologi. Ecco perché il documento propone di definire un numero adeguato di accessi annuali,
periodicamente aggiornabile e in base a criteri condivisi di ammissione in modo da
decongestionare da una parte il sovraffollamento universitario e dall’altra, garantire l’accesso al
mondo del lavoro, una volta conseguito il diploma di laurea. ORDINE DEGLI PSICOLOGI
Consiglio Nazionale
Sempre su questa linea si propone l’abolizione della sezione B dell’Albo degli psicologi. “Sulla
base dell’esperienza maturata con l’istituzione dei corsi triennali”, ha spiegato Palma, “tre anni
sono necessari per porre le basi di una cultura psicologica, ma non sono sufficienti per una
formazione professionale. A fronte degli oltre 83.000 iscritti, solo circa 200 risultano gli iscritti
all’Albo B. Ecco perché riteniamo opportuna l’abolizione o la sua messa in esaurimento”.
Il documento punta, inoltre, a una migliore qualificazione del tirocinio professionalizzante, che
oggi si configura ormai come un lavoro semi-indipendente svolto nell’ambito di un team
professionale e in contesti sempre più eterogenei, come cliniche e laboratori di ricerca, servizi
sociosanitari, aziende, scuole, tribunali, strutture di accoglienza, centri sportivi.
Legato a doppio filo con il praticantato è lo sviluppo professionale continuo che, soprattutto nella
categoria degli psicologi, ha un’incidenza elevata. Secondo stime dell’Ordine, infatti, il 97 per
cento dei laureati proseguono la loro formazione frequentando corsi di specializzazione, master o
dottorati di ricerca.
Il documento, ancora, contiene proposte concrete sulla sperimentazione di una nuova forma di
ciclo quinquennale per la laurea in Psicologia, in sostituzione del cosiddetto “3+2”. Infine, si
invoca una vera riforma dell’esame di Stato, prestando maggiore attenzione agli aspetti
deontologici e professionali. In particolare, l’Ordine chiede che gli esami si possano svolgere in
tutte le sedi di corsi di laurea in psicologia, prevedendo solo due prove, di cui una uguale per tutte
le sedi e monitorata a campione su tutto il territorio nazionale.
Ufficio Stampa CNOP
Piazzale di Porta Pia, 121 – 00198 Roma
tel. +39-06-44290601 fax +39-06-44254348 [email protected]www.psy.it
Psicologia & Dipendenze (Fumo): la Sicurezza che dà la Sigaretta.
Il fumo è come una bella donna, l’ami ma ti rendi conto che non è quella giusta per te. La lasci. Poi cominci a vagheggiarla, ti rendi conto che la tua giornata è triste senza di lei. E pian piano dimentichi guai e tormenti, incominci a scriverle, a pregarla di tornare con te. L’amore fa male, ma la mancanza d’amore ancora di più. (David Lynch)
Almeno una volta nella vita di ogni fumatore c’è stato un momento in cui il pensiero è andato verso l’ultimo pacchetto di sigarette e verso l’idea di porre fine a questa costosa e quotidiana dipendenza. Quanti ultimi pacchetti quante ultime sigarette nella storia di noi fumatori.
Oggi una nuova ricerca pubblicata sul Journal of Abnormal Psycology ci aiuta a motivare la nostra fatica a smettere. Nell’abitudine al fumo si identificano una dipendenza fisica e una dipendenza psicologica che vanno ad alimentarsi l’un l’altra, con il conseguente raggiungimento di un piacevole buon umore a cui difficilmente si riesce a rinunciare.
Fumare, tenere tra le mani una sigaretta, portarla alla bocca, la gestualità in sé ci infonde sicurezza, ci da in un qualche modo la sensazione di poter avere il controllo sugli eventi esterni e di poter recuperare una quota di controllo di sé. Lo studio dei ricercatori dell’Università della Florida del Sud – Moffit Cancer Center, di Tampa (Usa), ha coinvolto 132 soggetti fumatori.
PARTECIPA ALLA RICERCA! TUTTI I DATI SARANNO TRATTATI IN FORMA ANONIMA
Il campione è stato poi casualmente diviso in due gruppi. Ad entrambi i gruppi è stato fatto vedere un video contenente immagini di degrado ambientale ad alta valenza emotiva. Ad un gruppo, però, è stato permesso di esprimere in modo naturale le proprie reazioni emotive senza perdere però il controllo, mentre all’altro gruppo è stato permesso di esprimere le emozioni provate dando ai partecipanti anche la possibilità di perdere l’autocontrollo. Dopo questa prima fase a metà dei partecipanti di uno e dell’altro gruppo è stato permesso di fumare una sigaretta mentre all’altra metà no. Contemporaneamente è stato chiesto ai partecipanti dello studio di compiere un compito frustrante che richiedeva autocontrollo.
I risultati dello studio mostrano una differenza significativa nella risposta comportamentale di chi ha potuto fumare una sigaretta rispetto a chi non aveva avuto questa possibilità. È stato infatti verificato che chi si è fumato una sigaretta ha recuperato più velocemente degli altri la percezione di controllo sulla situazione e sul sé e conseguentemente il buonumore.
Certo per quanto il ritrovare una condizione di self-control e di buonumore sia una buona motivazione per accendersi una sigaretta,
è necessario ricordare che lo è ma in modo disadattivo, quindi forse la soluzione starà nel trovare delle strategie alternative che permettano ai fumatori di ritrovare quella piacevole sensazione di buonumore e relax.
BIBLIOGRAFIA:
Heckman,B.W., Ditre,J.W. and Brandon,T.H. The restorative effects of smoking upon self-control resources: A negative reinforcement pathway.. Journal of Abnormal Psychology, 2012; 121 (1): 244
La Memoria di Lavoro Visiva è maggiore nelle persone Socialmente Ansiose
– Rassegna Stampa –
La capacità della memoria di lavoro costituisce una delle più importanti funzioni cognitive che influenzano le caratteristiche individuali, come il controllo dell’attenzione, la fluidità dell’intelligenza, e alcuni tratti psicopatologici.
Secondo uno studio recentemente condotto da due ricercatori della Ghent University e della Hiroshima University, la capacità della memoria di lavoro visiva aumenterebbe con l’aumentare dell’ansia sociale di tratto. Già ricerche precedenti suggerivano che l’ansia fosse associata a una compromissione di questa funzione cognitiva ed è stata evidenziata scarsa capacità della memoria di lavoro verbale in persone con elevata ansia di tratto.
Tuttavia, pochi studi hanno indagato la capacità della memoria di lavoro visiva in relazione all’ansia. Nonostante la scoperta di questa correlazione il rapporto tra ansia di tratto e capacità di memoria di lavoro visiva non è ancora chiaro: l’ipotesi fatta dai ricercatori è che le persone che si sentono costantemente minacciate impiegano una più ampia porzione di attenzione visiva per individuare il pericolo, per questo motivo la capacità della memoria di lavoro visiva risulterebbe più elevata proprio nelle persone ansiose. La specificità di questa correlazione è confermata anche dal fatto che l’ansia di stato non appare invece correlata con la capacità della memoria di lavoro visiva.
Questi risultati indicano che le persone socialmente ansiose potrebbero contenere una grande quantità di informazioni nella memoria di lavoro visiva, tuttavia, a causa di una compromissione di questa funzione cognitiva, non riuscirebbero a inibire stimoli irrilevanti, e questo deficit determinerebbe una riduzione delle prestazioni in condizioni molto impegnative. Nel parlare in pubblico, ad esempio, presterebbero attenzione alle reazioni di molti spettatori cogliendo in questo modo anche le reazioni negative di alcuni; a causa di questo anche se il loro intento non è quello di rivolgere l’attenzione ai membri del pubblico, ma di parlare con fluidità e padronanza, potrebbero non riuscire a ignorare le reazioni del pubblico, perdendo di vista l’obiettivo principale.
Quando si parla di Disturbi Alimentari, quello che viene subito in mente ha a che fare con l’anoressia e la bulimia, quindi con un comportamento alimentare “viziato” verso la restrizione (il regime alimentare con un ridotto apporto calorico delle anoressiche) o le condotte di eliminazione (il vomito auto indotto, l’abuso di lassativi o diuretici e l’esercizio fisico eccessivamente intenso delle bulimiche).
Uno dei disturbi che ha a che fare con l’alimentazione ma che non ha ancora trovato piena dignità nel manuale statistico diagnostico dei disturbi mentali (DSM-IV) è il Binge Eating Disorder (BED).
Il Binge Eating Disorder è caratterizzato da ricorrenti abbuffate non seguite da comportamenti di compensazione, e questa mancanza di vomito e lassativi è ciò che lo distingue dalla Bulimia Nervosa. Mentre nella visione popolare questo modo di alimentarsi per abbuffate viene spesso sovrapposto all’obesità, alcuni ricercatori (Cassin & von Ranson, 2007) ipotizzano addirittura che il BED sia una forma di dipendenza da sostanze, e in particolare di dipendenza dall’abbuffata stessa.
Sembra allora che il Binge Eating Disorder sia un disturbo ancora da approfondire e da inquadrare, a seconda che si utilizzi il criterio del funzionamento psicologico (che sembra essere molto simile a quello che si ritrova nelle dipendenze) o all’oggetto di questa dipendenza (il cibo).
A prescindere da quale sia la categoria diagnostica che meglio può inquadrare il disturbo (per questo, attendiamo gli sviluppi nel DSM-V), in un’ottica di prevenzione e trattamento ci interessa di più sapere quali sono le variabili che incidono sulla probabilità di sviluppare un Binge Eating Disorder.
In sostanza: quali sono quelle caratteristiche del temperamento, dello stile di pensiero, oppure relative all’accudimento ricevuto da bambini, che aumentano la vulnerabilità a sviluppare un BED o che al contrario possono funzionare da fattori protettivi in questo senso?
Con lo scopo di comprendere meglio quale sia il quadro complessivo all’interno del quale si colloca un disturbo come il BED, il Gruppo Ricerca di Studi Cognitivi insieme al Dipartimento di Psicologia dell’Università degli Studi di Pavia ha dato il via a una ricerca esplorativa, composta da una serie di questionari che è possibile compilare online, utilizzando un po’ del vostro tempo per aiutarci a comprendere meglio il disturbo alimentare finora più trascurato, ma anche così comune nella popolazione generale (in Italia la prevalenza è stimata intorno al 7.5-8.3% nelle donne e 4.2% negli uomini; Ricca, Mannucci, Moretti, Di Bernardo, Zucchi, Cabras e Rotella, 2000).
Se avete voglia di aiutarci a capire quali possono essere le caratteristiche che espongono a un maggiore o minore rischio di abbuffarsi in modo patologico, vi chiediamo solo 20 minuti del vostro tempo per completare una serie di questionari.
Per partecipare alla ricerca, non è necessario avere problemi con il cibo o essere abituati alle abbuffate: le domande cercano di capire meglio come siete fatti voi e come vi rapportate (anche in un modo “sano”) con il cibo. Basta cliccare su questo link:
Psicologia delle Migrazioni: Globalizzazione & Nostalgia di Casa
Michela Adele Pozzi.
Su “La Repubblica” del 28 marzo sono apparsi due articoli molto interessanti, firmati da Federico Rampini e Gabriele Romagnoli, in cui, a partire da considerazioni inerenti il fenomeno delle migrazioni, sono presenti numerosi spunti di riflessione a livello sociale e psicologico.
Rampini presenta dei dati che ci consentono di accostare l’imponenza del fenomeno migratorio nel mondo:
«In totale, in questo istante un miliardo di abitanti del pianeta vivono l’esperienza dell’emigrazione: un essere umano su sette […] Un terzo dell’umanità si sente psicologicamente sul piede di partenza, disponibile o costretto, attirato o rassegnato a doversi rifare una vita “altrove”».
Trascurando (non certo per importanza) di considerare gli innumerevoli casi di migrazioni dovute alle difficili condizioni di vita nel Paese di origine, vorrei qui soffermarmi sul fatto che moltissime persone scelgono spontaneamente di trasferirsi all’estero, in modo più o meno definitivo, al fine di trovare migliori opportunità di studio o lavoro. Questo fenomeno ci costringe ad una rappresentazione del migrante molto diversa dall’immagine dei numerosi profughi disperati che raggiungono le nostre coste via mare.
Articolo consigliato: Psicopatologia delle Migrazioni: la Diagnosi in terra straniera.
Innanzitutto, dobbiamo pensare ad una persona mossa da desideri di autorealizzazione, carriera, acculturazione, che sceglie per questi di lasciare il proprio Paese, la propria città, la propria famiglia, spesso sapendo che vi tornerà solo per brevi vacanze: tale immagine risulta oggi vincente a livello sociale, in quanto mobilità, flessibilità ed adattabilità costituiscono valori forti nella nostra cultura.
Tornando all’articolo, Rampini ci pone una domanda cruciale: «Ma è proprio vero che il XXI secolo ci ha reso tutti cittadini del mondo, cosmopoliti e flessibili?». Attraverso l’esperienza di Susan Matt, studiosa americana delle migrazioni, l’Autore ci porta a considerare i notevoli (ma spesso taciuti) effetti psicologici di questa scelta di vita: spaesamento, depressione, sindromi da stress di acculturazione, in una definizione «Sindrome nostalgica».
Mentre un tempo tale condizione era clinicamente riconosciuta, oggi parlare di nostalgia pare anacronistico, anzi, è un vero e proprio tabù: d’altronde, quando è possibile mettersi in contatto con chiunque all’istante, contraendo in modo vertiginoso lo spazio e il tempo della distanza, ha ancora senso l’esistenza di questo termine? Forse non nei dizionari cui accediamo tramite gli smartphone, ma certamente si nel nostro alfabeto emotivo.
Con le parole della Matt, «Sembra quasi che le emozioni e i danni affettivi dell’emigrazione siano un ostacolo imbarazzante sulla strada del progresso e della prosperità individuale. L’idea che sia facile e che ci si debba sentire a casa propria in ogni angolo del pianeta deriva da una visione dell’umanità che celebra l’individuo solitario, mobile, facilmente separabile dalla sua famiglia, dalle sue radici, dal suo passato».
Già, sentirsi a casa propria: possiamo domandarci se, dopo “nostalgia”, “casa” sia un altro termine che si sta cercando di eliminare dal dizionario?
A questo riguardo, l’articolo di Romagnoli offre una suggestione interessante: «Metti di aver cambiato 8 città in 4 continenti. Ventisei appartamenti aperti e chiusi (trauma da trasloco? Basta sopravvivere la prima volta). Poi qualcuno ti chiede: non hai nostalgia di casa? Cerchi la risposta, ma quel che non trovi è “casa”». Come farà l’Autore nel corso dell’articolo, ognuno di noi può proporre una propria definizione, provando ad immaginarne le possibili variazioni in base a diverse circostanze:
Articolo consigliato: Amarezza cronica post-traumatica: una diagnosi per i precari.
Cos’è per noi “casa” se siamo adolescenti o una giovane coppia in procinto di sposarsi, cosa quando non vediamo l’ora di partire per le vacanze o quando siamo sfiniti dopo una giornata di lavoro, cosa quando scegliamo di trasferirci all’estero per poter praticare il nostro lavoro o quando atterriamo in mezzo a persone che non parlano la nostra lingua? La differenza, qui, la fanno le emozioni, non certo la presenza di quattro mura, un pavimento e un tetto. I sentimenti che si muovono dentro di noi quando ci confrontiamo con il concetto di casa attengono a qualcosa di profondo, riguardante le nostre origini.
Non a caso, per lo psichiatra e psicoanalista svizzero Carl Gustav Jung, nel sogno la casa rappresenta «una specie di immagine della psiche» (C.G. Jung, 1961), in cui la discesa ai piani inferiori e sotterranei si accompagna alla scoperta di strati più remoti appartenenti all’inconscio personale e collettivo: «La coscienza era rappresentata dal salotto: aveva un’atmosfera di luogo abitato, nonostante lo stile di altri tempi. Col pianterreno cominciava l’inconscio vero e proprio. Quanto più scendevo in basso, tanto più diveniva estraneo e oscuro. Nella caverna avevo scoperto i resti di una primitiva civiltà, cioè il mondo dell’uomo primitivo in me stesso, un mondo che solo a stento può essere raggiunto o illuminato dalla coscienza».
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La casa, «il luogo tra i luoghi» (B. Massimilla, 2009), concentra su di sé un carattere archetipico, oltre che un significato personale: anche se possiamo trasferirci ed adattarci a vivere praticamente ovunque, quella nostalgia che cerchiamo affannosamente di negare mediante il ricorso ai più svariati mezzi di comunicazione costituisce un richiamo primitivo a quello spazio intimo fatto di persone, oggetti, ricordi, emozioni.
Essa è dunque testimone della presenza di un legame indissolubile, che può risultare scomodo rispetto ai nuovi valori che nel giro di poche generazioni si sono affermati: ma questo lasso di tempo storico è infinitamente piccolo rispetto ad un tempo interiore, che ci lega al mondo animale e ai nostri antenati primitivi che, dopo la scoperta del fuoco, presero a riunirsi intorno a un focolare.
Jung, C.G. (1961). Ricordi, sogni, riflessioni. Raccolti ed editi da Aniela Jaffè. Milano: Bur. (2006).
Massimilla, B. (2009). L’anima nei luoghi della vita e del cinema. Rivista di Psicologia Analitica, Nuova serie Volume 80/2009 n. 28, 9-28.
Psicologia del Lutto #2: Angoscia, Meccanismi di Difesa e Comunicazione.
Parte #2: Angoscia di morte, malattia e meccanismi di difesa
Diversi autori (Kubler-Ross, 1976; Zapparoli e Adler Segre, 1997; Biondi G., Rossi A., Donfrancesco A., 2001; Ferro, 1986; Rubbini Paglia e Di Giovanni, 2001; Soccorsi, Lombardi, Rubbini Paglia, 1984; Soccorsi, 1986; Soccorsi, Di Giovanni, Ruggiero, Rubbini Paglia, 2001; Bowen, 1979) che nel loro percorso professionale si sono trovati a lavorare con malati terminali o comunque con situazioni ad alto rischio di morte, hanno evidenziato in chi è malato, nei suoi familiari e nel personale medico, la mobilizzazione di meccanismi di difesa, che possono essere più o meno funzionali rispetto alla situazione da affrontare e più o meno rigidi rispetto alla possibilità di un cambiamento evolutivo.
La difesa forse più radicale all’idea della propria morte è la psicosi; secondo Zapparoli (1997) “la psicosi stessa è alla base dell’illusione di immortalità […] la psicosi garantisce l’immortalità, poiché permette loro [ai morenti] di vivere una condizione di eccezionalità, di diversità dagli altri; permette di conseguenza di raggiungere la sicurezza di avere una diversità anche nel senso di non condividere con il resto dell’umanità il destino comune di invecchiare e morire. La “normalità” invece è connessa all’essere mortali”.
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La costruzione di una “personale” realtà psicotica permette l’illusione dell’allontanamento dalla condizione “collettiva” del resto dell’umanità. Anche Searles (1965) sottolinea come la ricerca dell’illusione di immortalità sia una costante nelle produzioni psicotiche: l’illusione di immortalità permette allo psicotico di non affrontare la realtà che la vita è per sua natura legata alla morte.
Da questo punto di vista ciò che accomuna i pazienti psicotici alle persone morenti è il comune bisogno di una difesa in termini di illusione, per non vivere emotivamente panico e terrore di fronte ai propri limiti. Il passaggio da momenti di profonda consapevolezza della malattia e della morte imminente è spesso alternato a momenti in cui questa consapevolezza viene persa grazie allo sviluppo di quella che Zapparoli e Serge chiamano “area illusionale”. L’area illusionale è uno spazio mentale ed emotivo nel quale è possibile, nonostante l’approssimarsi della fine, attingere a fantasie che permettano di continuare ad elaborare aspetti vitali e costruttivi dell’esistenza. Lo sviluppo di questa area illusionale permette di evitare l’impatto diretto con l’idea della morte mediando tra due componenti: quella che sa che la morte è imminente e quella che si illude di avere ancora tempo di vivere e fare le cose che non ha fatto in passato. L’area illusionale diviene il mezzo con cui l’individuo può accettare di identificare le sue risorse per trascorrere il tempo che rimane nel modo più costruttivo; allo stesso tempo è uno dei mezzi più efficaci per aiutare chi sta morendo ad accettare il limite del proprio essere “finito”. Aggiungendo una realtà extracorporea, trascendendo la realtà costituita dalla fisicità, si arricchisce l’esistenza di una dimensione di cui fanno parte tutti gli elementi che da sempre aiutano gli uomini ad affrontare le difficoltà della realtà.
Lo sviluppo di un’ area illusionale sostitutiva appartiene all’area della patologia e solitamente il lavoro terapeutico è volto a ridurla per favorire un maggiore contatto con la realtà; con i pazienti terminali, in certe fasi, è necessario ribaltare questo rapporto e considerare la possibilità di utilizzare l’illusione come realtà sostitutiva di certe gratificazioni al momento impossibili, allo scopo di minimizzare e ridurre gli aspetti angosciosi e terrifici della realtà legata alla morte. La differenza rispetto alla patologia è che si tratta sempre di un area parziale, nel senso che è sempre presente anche un esame di realtà e non compare mai la comunicazione delirante dello psicotico.
Anche Kubler-Ross (1976) mette in evidenza come la possibilità di mantenere una speranza fino alla fine sia un elemento fondamentale nel processo di pacificazione con la morte. In particolare l’autrice sottolinea un duplice aspetto legato alla speranza: se da un lato è fondamentale che i pazienti possano conservare, finché ne hanno bisogno, la speranza che possa succedere qualcosa di imprevisto, che possano avere una remissione clinica o che possano vivere più a lungo del previsto, dall’altro, quando il paziente stesso è pronto a morire, è per lui fonte di grande angoscia l’incapacità dei familiari di accettare questo fatto e il loro attaccarsi disperatamente alla speranza.
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Riuscire a rispettare i tempi e i bisogni di chi sta morendo è sicuramente uno degli aspetti più importanti del lavoro con i malati terminali e in generale del rapporto tra queste persone e chi gli sta vicino. A tal proposito è interessante notare come il processo di elaborazione del lutto sia simile in chi ha subito la perdita di qualcuno e in chi sa di approssimarsi alla fine. In entrambe le situazioni si passa attraverso una serie di fasi nelle quali si susseguono e intervallano rifiuto, incredulità, rabbia, invidia, depressione, fino a giungere, seppur non sempre, all’accettazione della morte. (Bowlby, 1979; Kubler-Ross, 1976; Zapparoli e Adler Segre, 1997)
Saper riconoscere le varie fasi del percorso verso la morte e sapere ascoltare e accogliere sentimenti di rifiuto della realtà della morte, di rabbia per quelli che non devono affrontare la fine, di invidia per i sani e di tristezza al pensiero di dover lasciare tante persone e luoghi cari, è l’unico modo per essere veramente di aiuto a chi si accinge ad intraprendere un percorso che nel migliore dei casi lo porterà all’accettazione del destino di morte.
La libertà di comunicare pensieri, emozioni, sentimenti e fantasie alle persone vicine è una caratteristica di quelli che Bowen (1979) chiama “sistemi aperti”. Al contrario un “sistema di comunicazione chiuso” è un “riflesso emotivo automatico per cui ciascuno si protegge dall’ansia presente negli altri” evitando di affrontare argomenti e di esprimere sentimenti o fantasie potenzialmente angosciose. La morte è il principale argomento tabù: al processo intrapsichico, per cui c’è un certo diniego della morte in ognuno, si aggiunge il “sistema chiuso”, per cui le persone non possono comunicare i loro sentimenti senza turbare gli altri.
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Intorno alla persona con una malattia terminale ruotano, secondo Bowen, tre sistemi chiusi: il primo agisce all’interno del paziente e ha a che fare con la profonda consapevolezza della propria morte imminente, consapevolezza che quasi sempre il morente ha ma che tuttavia spesso non comunica a nessuno; la famiglia amplifica questa incomunicabilità distorcendo e reinterpretando tutte le informazioni fornite dal medico, così che spesso si crea un alone di mistero attorno alla natura della malattia e al suo decorso, mistero che naturalmente incrementa sia il livello di ansia, che la possibilità di affrontarla; il terzo sistema chiuso è quello del medico curante e del personale medico che è un sistema di comunicazione basato su dati medici, tanto più incomprensibili per la famiglia tanto più vengono usati del medico stesso per gestire la sua emotività e la sua angoscia.
Perché il sistema di comunicazione rimanga aperto e al suo interno sia possibile condividere emozioni, vissuti e dati di realtà, per poter “morire con il paziente” (Eissler, 1995), il presupposto è la consapevolezza intellettuale e l’accettazione emotiva che la morte è una condizione universale: accettare che la morte esiste come parte della vita e come suo punto finale ci mette di fronte a un limite, che è sia il limite di fronte al quale ci pone chi sta morendo, cioè ciò che possiamo fare per lui in quel momento, sia il limite di quello che potremo fare per noi stessi quando vivremo la stessa condizione.
È la presenza della morte nel nostro futuro il dato di realtà che ci rende possibile annullare l’elemento di fondo di disuguaglianza con la persona che sta morendo e stabilire un rapporto di ascolto e di aiuto che non risenta della sovrapposizione di nostri meccanismi di difesa e negazione.
Nel prossimo articolo verrà affrontato il tema dei meccanismi di difesa che l’intero nucleo familiare mobilita quando si ammala un bambino.
BIBLIOGRAFIA:
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Bowen M. (1979) Dalla famiglia all’individuo. Astrolabio, Roma
Eissler K.R. (1995) The psychiatrist and the dying patient. International University Press, New York.
Kubler-Ross E. (1976) La morte e il morire. Cittadella Editrice, Assisi.
Rubbini Paglia P., Di Giovanni S. (2001) Relazione d’aiuto e accompagnamento alla morte al bambino oncologico e alla sua famiglia. In-formazione psicologia, psicoterapia, psichiatria. Anno 12, 43: 56-59.
Searles H.F. (1965) Scritti sulla schizofrenia. Bollati Boringhieri, Torino, 1974.
Soccorsi S. (intervista a) (1986) Il bambino e il tumore: l’esperienza di una terapeuta sistemica. Ecologia della mente, 1: 4-12.
Soccorsi S., Di Giovanni S., Ruggiero A., Rubbini Paglia P. (2001) Percorso della famiglia tra appartenenza e separazione dal centro oncologico. Acta med. Rom., 39:82-86-
Soccorsi S., Lombardi F., Rubbini Paglia P. (1984) La famiglia come risorsa nel trattamento del bambino oncologico. Terapia Familiare, 16: 47-66.
Soccorsi S., Rubbini Paglia P. (1989) La malattia oncologica del bambino come incidente evolutivo della famiglia. Terapia familiare, 29: 5-15.
Zapparoli G.C. & Adler Segre E. (1997) Vivere e morire. Un modello di intervento con i malati terminali. Campi del Sapere, Feltrinelli, Milano.
Le grandi decisioni e l’influenza dell’aspettativa di vita percepita.
– Rassegna Stampa –
Secondo uno studio recentemente pubblicato negli Archives of Sexual Behaviour le decisioni importanti che scandiscono il ciclo di vita delle persone sarebbero influenzate dalla valutazione inconscia sulla propria aspettativa di vita. Secondo questa teoria evolutiva, nota come Life History Evolution Theory, eventi come il matrimonio, il divorzio, decidere di abortire o di mettere al mondo un figlio, o di frequentare o meno l’università dipenderebbero, proprio come avviene nel mondo animale, da quanto si stima di poter vivere.
La ricerca, condotta alla Queen’s University con i dati provenienti dalla Statistics Canada, ha evidenziato che a fronte di un orizzonte temporale limitato ci si affretta a sposarsi e a riprodursi, mentre orizzonti temporali più lunghi aumentano la probabilità di interruzioni sia di gravidanza che delle relazioni, favorendo invece gli investimenti nel campo dell’istruzione.
L’aspettativa di vita quindi correla positivamente con i parametri di fertilità specifici per età, con l’età del primo matrimonio, di divorzio, di aborto, con il raggiungimento del diploma di scuola superiore e con gradi di istruzione superiore (fatta eccezione per i mestieri) e con numero medio di anni di scolarità. Queste associazioni, dice Daniel Krupp, sono anche mediate da valutazioni individuali, spesso non consapevolmente elaborate, sulla propria aspettativa di vita: ho una buona salute? Quali rischi corro con il mio lavoro? I miei nonni sono ancora vivi? Qual’è la storia di malattia della mia famiglia?
Insomma un primo interessante passo è stato fatto, ma sono necessarie ulteriori ricerche prima di poter trarre delle conclusioni certe.
I CYBORG SOGNANO? VISIONI DEL POST-UMANO NE IL CACCIATORE DEI SOGNI DI SHINYA TSUKAMOTO
1. Il cacciatore dei sogni
“Il mio interesse per gli incubi riguarda il tempo della mia infanzia. La cosa più orribile per me era addormentarmi, perché subito precipitavo in sogni che mi facevano paura”: nel girare Nightmare Detective (Akumu Tantei,2006), come spiega egli stesso in un’intervista2, Shinya Tsukamoto si è ispirato agli spettri che lo tormentavano da bambino. Non stupisce che sia diventato uno dei registi più capaci di raffigurare il mondo onirico e che abbia eletto a suoi maestri David Cronenberg e David Lynch. Anche se non conosciutissimo dal grande pubblico, Tsukamoto è uno degli autori di maggior talento del cinema giapponese contemporaneo, consacrato da numerosi premi tra cui, per Snake of June (2002), quello speciale della giuria al festival di Venezia.
Il tema chiave del mondo poetico del regista è l’alienazione umana che si produce quando la costruzione del soggetto è stata segnata da traumi. Per scavare in questa infelicità, che vediamo tutti i giorni nella stanza d’analisi, Tsukamoto ha scelto il linguaggio dell’immaginario cyberpunk. Il filone, inaugurato da Blade Runner (1982), preconizza un’era dominata dai computer e un’umanità asservita alle macchine. È la nuova società dei cyborg in cui, come la (fanta)scienza promette, le menti saranno trasferibili come file. Nuove tecnologie parassitano il corpo o lo plasmano a propria immagine. Dispositivi sempre più invasivi o, al contrario, inglobanti, sottraggono umanità all’individuo e alla società. Si spostano i confini tra umano e non-umano.
In questo modo, sviluppando la metafora centrale dell’uomo-macchina per trattare della deumanizzazione, Nightmare Detective è anche una meditazione sul moderno disagio di civiltà. Illuminando con una luce cruda la cultura del cosiddetto post/trans-umano, Tsukamoto ci mostra come si sta ridefinendo la soggettività. In sostanza, egli ci ripropone il medesimo mondo poetico dei primi film, insieme geniali e sconcertanti. Ma lo fa con uno stile assai meno espressionistico e riesce – è la sorpresa che ci riserva – afarci vedere che la tecnosfera è già entrata insidiosamente nella nostra vita quotidiana. Basterebbe pensare alle tecnologie della realtà virtuale, all’ingegneria riproduttiva e genetica, alla chirurgia plastica, all’intelligenza artificiale, ai nuovi media ecc.
LEGGI LA RECENSIONE: Critica Psicoanalitica: Recensione di Perdere la Testa di Giuseppe Civitarese - A cura di GIovanni M. Ruggiero
Il film può interessare gli analisti perché tratta dell’angoscia e del suicidio e perché , a mio avviso, raggiunge risultati insuperati nella raffigurazione dell’incubo. Le scene in cui alcuni personaggi s’incontrano nella realtà del sogno sono straordinariamente suggestive. Che io sappia, non ci sono immagini più evocative del concetto di spazio comune del sogno, che è centrale in alcuni modelli della psicoanalisi contemporanea. In queste note mi propongo di mostrare come l’autore intrecci efficacemente i temi dell’infelicità individuale e collettiva con l’esplorazione della dimensione onirica: cosa significa sognare o fare sogni interrotti, come si può riprendere a sognare, che tipo di causalità circolare si può venire a creare tra l’utilizzo della tecnologia come difesa e la tecnologia come fattore in sé di alienazione sociale. Ma conviene prima riassumere la trama del film, che spesso è volutamente ambiguo, proprio perché tratta dell’ambiguità del sogno.
2. Zero
Sdraiata a letto, insonne, la detective Keiko Kirishima (la pop star Hitomi alla prima prova come attrice), da poco in forza al nucleo operativo della squadra omicidi di un distretto di Tokyo, sfoglia nervosamente il libro sui sogni di Medard Boss. Poi, lo lascia cadere. In un flash le riappaiono le drammatiche immagini della scena del delitto su cui sta indagando: una ragazza punk è stata trovata morta nella sua stanza in circostanze misteriose con il corpo dilaniato da numerose ferite da taglio. È il primo caso che le è stato assegnato e non si presenta certo come uno dei più semplici. La porta della stanza era chiusa dall’interno. Tutto lascia pensare a un suicidio. Keiko però non ne è del tutto convinta, anche perché ha scoperto che prima di morire la ragazza aveva composto al cellulare un numero di telefono, registrato nella rubrica con “0” (zero), e le è sembrato un indizio prezioso per provare a risalire all’assassino.
Lasciatasi alle spalle una brillante carriera accademica come criminologa, Keiko ha sentito il bisogno di confrontarsi con l’orrore sul campo, ma per ben due volte non regge la vista del sangue. Si capisce che al commissariato sia accolta con ironia mista a sufficienza dall’ispettore anziano, Sekya (Ren Osugi), incredulo di fronte a questa collega che anche sul lavoro calza i tacchi alti. Tuttavia la sua debolezza, sintomo di un fondo di malessere, allo stesso titolo dell’espressione assorta e come assente del viso, si rivelerà la sua forza.
Intanto, in circostanze altrettanto insolite un uomo si uccide nel sonno a fianco della moglie che assiste inorridita. Prima di togliersi la vita in modo così crudele, si scopre, anche l’uomo ha fatto la misteriosa chiamata. Tradizionalista, pragmatico, anche piuttosto cinico, Sekya vorrebbe archiviare i due crimini come casi di suicidio. Invece Keiko e Wagamya (Masanobu Ando), un collega più giovane di Sekya, sono incaricati di seguire altre vie, extra- o paranormali. Poiché entrambe le vittime sembrano essere state assassinate mentre facevano un incubo, i due decidono di affidarsi a un esperto: Kyoichi Kagenuma (Ryuhei Matsuda), il detective dei sogni.
Il regista lo ha già presentato nella prima scena del film quando come dal nulla si materializza nel sogno di un altro personaggio. Si tratta d’un uomo d’affari (Yoshio Harada) in coma in un letto d’ospedale. Nei suoi incubi è perseguitato da una figlia mai nata perché, senza dirglielo, la moglie aveva abortito. Kagenuma glielo rivela nel tentativo di liberarlo del suo dolore e di ridargli la voglia di risvegliarsi dal suo stato. È quanto gli hanno chiesto di fare i parenti dell’uomo. Riuniti al suo capezzale, vorrebbero prolungargli la vita per dargli modo di firmare il testamento o almeno per capire a chi debba andare la cospicua fortuna che lascia.
Kagenuma è un giovane sensitivo affetto da tendenze suicidarie – se fosse un terapeuta professionista, diremmo che è decisamente burn out -, ha la capacità di entrare nei sogni delle persone e di percepire i pensieri di quelli che gli stanno attorno. È perché è così depresso e disgustato dalla vita che, quando Keiko e Wagamya lo vanno a trovare, Kagenuma li respinge violentemente.
Deluso dalla sua reazione, per stanare lo strano assassino, ipoteticamente identificato con il destinatario delle telefonate e per questo ormai noto come Zero, ed esponendosi in prima persona alle sue perverse suggestioni, Wakamya si decide a comporre il numero fatale. Sconvolta perché teme per la vita del collega, Keiko torna a implorare Kagenuma di entrare nel suo sogno e di salvarlo. Egli accetta, ma l’avverte:
KAGENUMA Voglio… voglio solo che sia chiara una cosa. Entrare… nei sogni della gente non è il mio lavoro. L’ho fatto solo per salvare delle persone che conosco dai loro incubi. Posso… entrare nei sogni. Tutto qui, ma non posso garantire niente. Finiscono sempre tutti così male! Ho affrontato cose orribili, disgustose. E io…io, non voglio farlo mai più. Se mi hai chiesto aiuto, avrai i tuoi buoni motivi, ma giocare col fuoco è pericoloso. Lo è per me, ma soprattutto per colui che sogna. Potrebbe svegliarsi con dei seri problemi. Perciò… questa sarà l’ultima volta. Me lo devi promettere.
KEIKO Va bene.
KAGENUMA Anche se… entrerò nella sua mente, non è detto che possa aiutarlo. Se c’è pericolo… io me ne torno indietro. Non faccio niente. È chiaro? Hai capito?
KEIKO Sì. D’accordo. Voglio solo che tu gli stia accanto. Non ti chiedo altro.
Wakamya, però, non ce la fa e muore egli stesso “suicida” perché non riesce a resistere alla pulsione di morte che Zero gli risveglia nell’animo. È qui che il regista ci fa vedere per la prima volta Zero. Rintracciato dalle sue vittime su internet, e poi contattato al cellulare, Zero le seduce a un suicidio a due (in internet esistono davvero comunità del genere): vi parteciperà egli stesso, spiega ogni volta, in una specie di rituale condiviso, anche se a distanza. Poi s’insinua nei loro sogni e le uccide. Nell’istante in cui la vittima si colpisce, lo si vede mentre anch’egli si infligge delle profonde ferite con un coltello. Però, poiché è una specie di zombie (un non-morto), rinasce sempre nella mente del prossimo suicida.
Morto Wakamya, Keiko si decide lei stessa a digitare il medesimo contatto in rubrica. Pensa in questo modo di forzare Kagenuma, sempre più riluttante, a superare le proprie paure per farsi aiutare di nuovo nella lotta contro Zero. Come accada, si vede nella scena più drammatica del film. Penetrati ormai entrambi nell’incubo della giovane donna, nel finale si svolge un’impressionante sfida tra Kagenuma, il detective dei sogni, e Zero, il demone che si trova nella mente dei suicidi, e che in queste scene si sdoppia in un mostro sanguinolento e senza pelle, del tutto simile a certi “scorticati” anatomici.
Critica Psicoanalitica: Recensione di Perdere la Testa di Giuseppe Civitarese
Giuseppe Civitarese: Perdere la Testa, Abiezione, conflitto estetico e critica psicoanalitica” (Editrice Clinamen, 2012)
Giuseppe Civitarese ha pubblicato “Perdere la testa. Abiezione, conflitto estetico e critica psicoanalitica” (Editrice Clinamen, 2012), una raccolta di saggi di analisi letteraria e cinematografica effettuata con gli strumenti concettuali della psicoanalisi (Critica Psicoanalitica).
Il libro analizza alcuni classici letterari e del cinema: la novella Lisabetta del Decameron, alcune poesie tra decadentismo e futurismo di Corrado Govoni, un sogno raccontato ne “La montagna magica” (o “La montagna incantata”) di Thomas Mann, i film “Persona” di Bergman e “Il servo” di Losey. Ma ci sono anche capitoli dedicati a opere meno classiche, come il film “Il cacciatore di sogni” del giapponese Shinya Tsukamoto, “Niente da nascondere” di Michael Haneke e perfino l’installazione “The last riot” del gruppo AES+F.
Civitarese è ben conscio che la critica letteraria psicoanalitica rischia di essere una facile testa di moro da attaccare e da abbattere, un campo di esercitazione del cosiddetto “Freud-bashing”, quel genere letterario che consiste nel rivelare i vari punti deboli dell’opera di Freud al fine di randellare e pestare (bashing) senza pietà, svalutandone l’intera opera. È vero che talvolta gli psicoanalisti hanno trattato le opere artistiche come “sintomi” da decodificare. Questa tecnica di analisi rischia facilmente di scadere in una naiveté semplicistica e chiusa in se stessa, fina dai tempi dei saggi di Freud su Leonardo da Vinci.
BOOKTRAILER DEL LIBRO: Capitolo 4: I CYBORG SOGNANO? VISIONI DEL POST-UMANO NE IL CACCIATORE DEI SOGNI DI SHINYA TSUKAMOTO
Civitarese però sfugge al rischio perché sa unire competenza psicoanalitica (soprattutto di derivazione kleiniana e Bioniana, come spesso accade nella psicoanalisi italiana) e competenza letteraria e cinematografica. Le opere non sono ridotte a sintomi, ma descritte con rispetto e conoscenza. Inoltre, il libro non è una collana di saggi sconnessi ma segue un filo rosso, un tema unificatore.
Tema che è la violenza che si annida nel cuore dell’attrazione affettiva ed erotica. Violenza non generica e nemmeno simbolica, ma di un tipo ben determinato: il taglio della testa, la decapitazione. Tutti i testi analizzati, a cominciare da Lisabetta di Boccaccio, mostrano quest’atto sanguinario.
Nella decapitazione Civitarese cerca un legame simbolico tra violenza ed eliminazione della vita psicologica, la testa. E l’arte stessa, suggerisce Civitarese, è tesa paradossalmente tra approfondimento dei movimenti dell’anima e loro eliminazione, quasi che l’estrema consapevolezza di se stessi sconfini nella malattia e nella morte.
Forse per questo la serie di saggi si conclude con il sogno di Hans Castorp nella Montagna Magica, romanzo di Mann completamente dedicato al rapporto tra arte e malattia.
Naturalmente colleghi di formazione non analitica potrebbero trovare il gergo freudiano comunque estraneo. È possibile, ma il libro comunque si raccomanda per la felice semplicità di analisi di varie opere e per la capacità di utilizzare lo strumento dell’analisi simbolica in maniera prudente e comprensibile.
In ogni caso, anche altri orientamenti psicologici, come quello cognitivo, stanno iniziando ad esplorare il funzionamento dei meccanismi associativi di tipo metaforico in terapia. Vedi ad esempio la recente “Oxford Guide to Metaphors in CBT” di Richard Stott.