La Regina di Biancaneve, lo Specchio e la Dismorfofobia.
Regina: Mago dello specchio magico, sorgi dallo spazio profondo, tra vento e oscurità io ti chiamo. Parla! Mostrami il tuo volto!
Specchio: Che vuoi conoscere mia Regina?
Regina: Specchio, servo delle mie brame, chi è la più bella del reame?
Specchio: Bella, tu sei bella oh mia Regina, ma attenta: al mondo una fanciulla c’è, vestita sol di stracci, poverina, ma ahimè, assai più bella è di te!
Regina: Guai a lei! Dimmi il suo nome!
Specchio: Ha la bocca di rose, e ha d’ebano i capelli, come neve è bianca.
Regina: Biancaneve!
Quelli che, come me, sono cresciuti con le favole dei fratelli Grimm e con i cartoni animati della Disney, non possono essersi dimenticati di questo dialogo. Lo specchio e la propria immagine riflessa sono al centro di uno studio pubblicato su Behaviuor Research and Therapy, i cui risultati sorprendono gli autori stessi: dopo un primo ed iniziale sentimento positivo e di piacevolezza, anche in chi per natura è ottimista e felice, se ci si guarda per più di dieci minuti, si entra pian piano in uno stato di ansia e tristezza. Passare troppo tempo davanti allo specchio ci farebbe vedere anche i difetti che non abbiamo, facendoci sprofondare in uno stato di ansia e depressione.
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I dati in letteratura ci dicono che ai pazienti affetti da dismorfismo corporeo osservarsi allo specchio causa un notevole disagio ed è da questo che sono partiti i ricercatori britannici. Il loro obiettivo era quello di andare a studiare meglio le caratteristiche di questo disturbo, di cui di fatto ad oggi si sa ben poco se non che si esprime in un’eccessiva preoccupazione per una o più parti del proprio corpo, anche se queste in realtà appaiono del tutto normali. Altra cosa conosciuta di questo disturbo è che correla positivamente con la depressione.
I ricercatori hanno convocato due gruppi di 25 persone, sia maschi che femmine. Un gruppo era formato da soggetti di controllo mentre l’altro da pazienti con diagnosi di dismorfismo corporeo; quindi si sono analizzate le diverse reazioni di fronte alla propria immagine allo specchio.
La prima parte del test consisteva nel far compilare ai soggetti sperimentali un questionario, che andava ad indagare le aree della soddisfazione del sé e della propria immagine corporea; poi si chiedeva ai soggetti, finito di compilare il questionario, di guardarsi allo specchio per 25 secondi. Nella seconda parte del test è stato chiesto ai soggetti di osservarsi allo specchio per almeno 10 minuti. Quindi veniva chiesto loro di dare una valutazione del proprio aspetto.
Mentre non stupiscono segnali di disagio nei pazienti con dismorfismo corporeo davanti alla propria immagine riflessa allo specchio, quello che ha stupito i ricercatori è stata la crescente ansia e disagio provata anche dalle persone “sane” nel guardarsi allo specchio per circa dieci minuti.
Una possibile spiegazione a questo dato potrebbe essere il tempo di osservazione: secondo i ricercatori, infatti, nella quotidianità nessuno, per quanto vanitoso, passa più di qualche minuto davanti allo specchio. Un tempo così lungo può, di fatto, far emergere tutti quelli che pensiamo essere i nostri difetti, mentre ad un occhiata veloce possiamo tutto sommato essere soddisfatti del nostro aspetto.
Evitiamo dunque di sostare troppo tempo davanti allo specchio, così da evitare anche il rischio di trovare un difetto nuovo ogni giorno.
Psicologia & Neuroscienze: Correlati Neurali nell’ Ansia per la Matematica
– Rassegna Stampa –
L’ ansia per la matematica (Mathematical Anxiety) è un fenomeno poco studiato e ancora carente di criteri diagnostici formalmente condivisi. Ad ogni modo i questionari che hanno l’obiettivo di individuarla chiedono ai soggetti di riportare le loro risposte emotive durante la risoluzione di problemi di matematica sotto varie forme e in diversi contesti: i soggetti con elevati livelli di ansia per la matematica rispondono con ansia e preoccupazione alla risoluzione di problemi numerici svolti individualmente, sia riferiscono di sentirsi ansiosi in situazioni in cui devono risolvere esercizi di matematica di fronte alla classe.
Alcuni ricercatori della Stanford University School of Medicine hanno dimostrato per la prima volta che i bambini con elevati livelli di ansia per la matematica presentano attivazioni cerebrali specifiche e differenti rispetto ai non “matematicamente” ansiosi.
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La ricerca ha sottoposto a risonanza magnetica funzionale 46 bambini di 7-9 anni (con bassi ed elevati livelli di ansia per la matematica) mentre era loro chiesto di effettuare addizioni e sottrazioni. Nello studio, i soggetti sono stati valutati mediante un questionario standardizzato per la misurazione dell’ansia per la matematica e generalizzata e altri test di funzionamento cognitivo. I bambini sia con elevati sia con bassi punteggi di ansia per la matematica avevano punteggi simili in termini di QI e di altre funzioni cognitive così come di ansia generalizzata.
Nei bambini con elevata ansia per la matematica si è riscontrata una maggiore attivazione nelle regioni cerebrali associate alla paura, quali l’amigdala e l’ippocampo, che a sua volta determinavano una deattivazione delle aree cerebrali implicate nel ragionamento numerico.
Le analisi delle connessioni tra diverse aree cerebrali quindi mostrano che in bambini ansiosi per la matematica l’aumento dell’attivazione nel circuito limbico determina la riduzione dell’attivazione (e probabilmente nella funzionamento) nelle regioni deputate al ragionamento numerico. A tali correlati neurali corrispondono parimenti differenze nelle performance matematiche: i bambini più “matematicamente” ansiosi hanno totalizzato un maggior numero di errori e hanno impiegato più tempo nel risolvere i problemi.
Quindi l’ansia specifica per la matematica interferisce sia a livello neurale sia a livello comportamentale con i processi cognitivi di elaborazione delle informazioni e risoluzione dei problemi numerici. Senza voler psicopatologizzare la vita quotidiana varrebbe la pena pensare a modalità di assessment e intervento per la regolazione di questa emozione che se arriva ad elevati livelli ed è cronicizzata può portare a evitamenti anche nelle scelte accademiche e lavorative.
Sinfonia d’autunno: Bergman ci insegna la ciclicità delle emozioni.
Arrivo forse un po’ in ritardo ad innamorarmi di “Sinfonia d’autunno”, film del 1978 scritto e diretto da Ingmar Bergman. Un dipinto intenso e lucidissimo del rapporto conflittuale tra una madre e una figlia, in grado di toccare emozioni e antiche sensazioni in chi osserva scorrere il racconto.
In “Sinfonia d’autunno” vengono descritti quelli che, meno poeticamente, siamo abituati a chiamare in clinica cicli interpersonaliproblematici (Dimaggio, Semerari, 2003) e Bergman riesce con invidiabile dettaglio a dare vita a pensieri, emozioni e comportamenti che in alcuni casi difficilmente risultano altrettanto chiari e limpidi a noi terapeuti.
La storia narra dell’incontro tra una madre (Charlotte) e una figlia (Eva), che dopo sette anni di lontananza si ritrovano, cariche di aspettative ed entusiasmo, nel tentativo di recuperare una vicinanza persa da tempo e mai più cercata.
Ingrid Bergman (la madre) veste i panni di un’affermata pianista, concentrata sulla carriera e sicura di sé, assente in famiglia, nevrotica ed egocentrica quando presente e terrorizzata dalla vicinanza fisica dei suoi affetti più cari. Le emozioni vivono per lei solo nella musica e la sua gelida storia di attaccamento non sembra lasciarle scampo: nello spazio libero dai suoi concerti dominano confusione, senso di costrizione e un irrefrenabile desiderio di fuggire. Nessuna macchia sembra però accettabile nella sua vita perfetta e riesce a salvare se stessa recitando il ruolo di madre amorevole, dalla voce calda e accogliente, dedita alla famiglia e costretta suo malgrado lontana da casa per lavoro.
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A raccogliere i cocci della famiglia insieme al papà, c’è la figlia maggiore Eva (Liv Ullmann): fragile, impacciata, nascosta dietro grandi occhiali da vista, persa in un mondo di fantasia e misticismo, incapace di sentire emozioni autentiche e che recupera una sua identità nell’accudire gli altri e nell’amore del marito per lei. L’ammirazione infantile per la madre, si scontra per tutta la vita con il terribile vuoto lasciato dalle sue improvvise assenze, descritto come “paura di non sopravvivere”, “paura di smettere di respirare”, “di non esistere più”, a segnalarne la gravità e l’urgenza. Del resto i ricordi legati alla sua presenza non appaiono in alcun modo rassicuranti: la struggente visione di lei bambina, inginocchiata e adorante ai piedi della madre che legge il giornale seduta in poltrona e indifferente alla sua presenza, prepara il terreno all’impotenza e alla rabbia che vedremo esplodere di lì a poco.
Il loro incontro, con cui il film ha inizio, appare carico di affetto sincero e buone intenzioni: le lettere della figlia hanno finalmente ricevuto risposta e la madre sembra cambiata, più emotiva e vicina. Eva allora gioca il ruolo abituata ad assumere ogni volta che mamma tornava a casa, servizievole accudente e attenta ai suoi bisogni e umori, mentre Charlotte si lancia in atteggiamenti materni ‘da manuale’ e riesce a mantenere la sua integrità narcisistica, godendo ancora una volta dell’ammirazione concessa. I reciproci equilibri si sgretolano però rapidamente e in fulminei scambi di battute e sguardi il ciclo interpersonale invalidante si attiva, forte e ineludibile: ai primi segnali di egocentrismo e critiche pungenti della madre, l’atteggiamento sottomesso di Eva si trasforma in accusa spietata, disperata e colpevolizzante per l’antico abbandono.
Rabbia e amore si alternano in modo caotico, vicinanza e distacco lottano instancabili. Eva ha uno sguardo diverso da quello che conoscevamo fino ad un attimo prima, ora è cupo e minaccioso, mentre Charlotte ha perso il suo charme, appare congelata e incapace di assorbire il suo dolore. Solo alle fine concede alla figlia una lacrima, che racchiude in sé la speranza sempre viva in Eva di una sincera comprensione….e, perché no, di un cambiamento.
La tempesta finisce all’alba, ma nessuna delle due ha ormai le forze per affrontare le colpe urlate.
Solo alla fine tornano in mente le buone intenzioni iniziali, ma ormai l’automatismo degli antichi schemi interpersonali le ha sommerse fino a farle sparire. La vicinanza è di nuovo compromessa e rende necessario un nuovo (l’ennesimo!) distacco, tremendo e silenzioso: tornano per Eva la paura di non respirare e per Charlotte il suo mondo gelido e perfetto.
Il ciclo interpersonale ahimè si chiude, ma Bergman ci lascia con un ultimo e illuminante sguardo al futuro: Eva recupera i suoi grandi occhiali e scrive una lettera di scuse a mamma.
BIBLIOGRAFIA:
Dimaggio, G., Semerari, A. (2003). I disturbi di personalità. Modelli e trattamento. Editori Laterza
Lavorare con i Pazienti Difficili: Workshop Schema Therapy per il Disturbo Narcisistico di Personalità (Relatrice: Wendy Behary)
– Rassegna Stampa –
Lavorare con i Pazienti Difficili
Workshop
Schema Therapy per il Disturbo Narcisistico di Personalità
Workshop Schema Therapy per il Disturbo Narcisistico di Personalità – Relatrice: Wendy Behary.
Il Workshop si concentra sul trattamento dei pazienti affetti da Disturbo Narcisistico di Personalità, a partire dall’importante manuale della dott.ssa Behary, Disarming the narcissist.
Pazienti notoriamente difficili, i narcisisti si dimostrano spesso intelligenti, affascinati e sicuri di sé, mostrando al contempo una certa arroganza e incapacità di empatia che mettono in difficoltà la persona che gli sta difronte.
Come rapportarsi, quindi, a un paziente che mostra un atteggiamento di sfida nei nostri confronti piuttosto che di cooperazione? Come coinvolgerlo in un percorso terapeutico basato sull’empatia?
Si discuterà come utilizzare il confronto empatico nella relazione terapeutica evitando gli scontri e le dinamiche di lotta, rafforzando la compassione ed aiutando il paziente a comprende il suo comportamento e il suo impatto sulle persone che gli stanno accanto.
La Relatrice del Workshop: Dott.ssa Wendy Behary, fondatrice e direttrice del Cognitive Therapy del New Jersey e del The New Jersey Institute for Schema Therapy. Con 25 anni di formazione e numerose certificazioni, lavora dal 1989 con il dott. Jeffrey Young presso la facoltà del Cognitive Therapy Center and Schema Therapy Institute di New York. E’ Presidente del comitato esecutivo della Società Internazionale di Schema Therapy ISST. In qualità di esperta sul narcisismo ha pubblicato e collaborato alla redazione di numerosi testi scientifici sul tema, ed è ritenuta una delle maggiori esperte in campo internazionale per i Disturbi di Personalità gravi e il Disturbo Narcisistico di Personalità.
Il confronto empatico è una delle strategie della Schema Therapy, un approccio attivo e integrato che si concentra sul cambiamento duraturo dei patterns emotivi e comportamentali attraverso un lavoro cognitivo che pone grande enfasi sulla terapia di relazione, usando tecniche esperenziali ed esercizi immaginativi.
Obiettivo della Schema Therapy è insegnare al paziente come rafforzare il mode dell’Adulto sano e dargli più spazio in modo da trovare modalità adattive di soddisfacimento dei propri bisogni più profondi.
Obiettivi
Durante il Workshop si analizzeranno:
gli strumenti e le tecniche della Schema Therapy e i suoi mode;
le tecniche utili per lavorare con i pazienti affetti dal Disturbo Narcisistico di Personalità
i concetti della neurobiologia interpersonale di Daniel Siegel utili per un trattamento efficace
Strumenti
Esercizi di gruppo
Scripts per illustrare come usare il confronto empatico
Proiezione di video
Materiale didattico
A chi è rivolto
Psicologi Psicoterapeuti, Medici specializzati in Psicoterapia, Studenti specializzandi in Psicoterapia dal III anno.
Traduzione simultanea dall’inglese all’italiano
Programma
Sabato 16
10.00-13.00
Schema therapy per il disturbo narcisistico di personalità (origini incluse)
Profilo dello schema
Bisogni insoddisfatti del narcisista
Schema mode del narcisista
Relazione terapeutica
Attivazione dello schema del terapeuta – profilo del terapeuta: schemi tipici, reazioni, e mode di coping
Esercizi di immaginazione guidata di gruppo – processi paralleli: Che cosa irrita del narcisista?
Sintesi e discussione (domande)
13.00-14.00 Pranzo
14.00-18.00
Linee guida per il trattamento del narcisista
Teoria: ampie strategie per il cambiamento degli schema mode
Influenza, confronto empatico, fissazione dei limiti: la relazione terapeutica (dimostrazioni e role-playing)
Ostacoli al cambiamento (rassegna delle reazioni maladattive del terapeuta all’attivarsi dello schema)
Autoterapia: mantenere il mode Adulto sano del terapeuta durante la seduta
I mode Protettore distaccato e Auto-consolatore nel narcisista
Esercizio: confronto tra i mode Protettore distaccato e Auto-consolatore
Sintesi e discussione (domande)
Domenica 17
9.00-12.00
Domande e commenti relativi alla giornata di sabato (10-15 minuti)
Disturbo narcisistico lungo lo spettro (dal narcisismo maligno al narcisista dal “cuore d’oro”)
Decostruzione dei mode del narcisista
Caso studio
Affrontare rabbia e atteggiamento ipercritico – dimostrazione
Esercizio pratico: 1. Confronto tra i mode Arrabbiato e Critico del narcisista
Sintesi e discussione (domande)
12.00-13.00 Pranzo
13.00-17.00
Concetti di neurobiologia interpersonale per mitigare la vergogna e accelerare il lavoro esperienziale
Teoria del narcisismo applicata alle relazioni interpersonali
Cicli degli schemi di narcisista e partner nelle relazioni affettive
Caso studio
Strategie rilevanti nel trattamento del narcisista all’interno di una relazione affettiva
Ulteriori esercizi pratici (relativamente al tempo disponibile)
Sintesi e discussione (domande)
Iscrizione
Quota di iscrizione: il costo del Training è di 200 euro (+ IVA).
Sconti 15% soci SITCC 20% soci AIAMC, Studenti Specializzandi in Psicoterapia 25% soci SIST 50% partecipanti al Training per diventare terapeuti per la Schema Therapy
Per iscriversi: inviare il modulo di iscrizione e copia del bonifico a: [email protected] o al fax 079/9578217
Bonifico Bancario intestato a:
Banca Nazionale del Lavoro – Grosseto
Beneficiario Istituto di Scienze Cognitive srl
IBAN IT 90 L 01005 14300 000 000 000 584
Psicologia dell’amore: 7 miliardi di persone nel mondo e un’unica anima gemella. Giusto?
Se da tempo stai aspettando di incontrare l’anima gemella ma proprio non la trovi, questo potrebbe in realtà essere un segno a tuo favore. Sembra infatti che la forte convinzione che esista un destino in amore che ci faccia incontrare la persona giusta sia in realtà dannosa per la persona stessa e per le sue relazioni.
È quello che ci dice lo psicologo Bjarne Holmes, professore associato al Champlain College, nello stato del Vermont, Stati Uniti, in un suo podcast della serie “Relationship Matters” – prodotto del Journal of Social and Personal Relationships. Secondo l’autore, la credenza di avere trovato l’anima gemella è correlata a una serie di pensieri non sani e poco utili alla propria vita sentimentale.
Vediamo più nel dettaglio. Ci si innamora e si incomincia una relazione. Ogni relazione attraversa dei processi e delle fasi che tendono normalmente a susseguirsi. L’amore romantico, quello che ti fa battere il cuore e pensare continuamente alla persona amata dura solo qualche mese. Ciò che conta è quello che accade dopo!
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Come reagirai quando la tua anima gemella tanto attesa e desiderata comincerà a sembrare un po’ meno perfetta?
Secondo Holmes, le persone che hanno delle forti credenze nel destino sono più inclini a perdere interesse per il partner e ad abbandonare la relazione molto più velocemente quando questa inizia ad apparire meno rosea. La spiegazione è semplice: chi pensa “è scritto nel destino se dobbiamo stare insieme oppure no” è chiaramente più incline a vedere gli aspetti negativi del rapporto e a interpretarli come segni che, dopotutto, la loro metà forse non è forse quella “vera”. D’altro canto, se eravate predestinati a stare insieme, perché doversi sforzare tanto per fare funzionare la storia?
Possiedi una mentalità orientata alla soluzione dei problemi?
Sei una persona che naturalmente ha un atteggiamento mentale di risoluzione dei problemi di fronte a un’avversità? In altre parole, riesci a vedere sia gli aspetti positivi che quelli negativi come allo stesso modo parte della vita? Ogni relazione andrà, infatti, incontro a delle difficoltà e sarà come si reagisce di fronte ad esse a fare la differenza. Può sembrare una banalità, ma il miglior predittore di una relazione duratura è proprio la capacità di far fronte ai disaccordi.
Cosa fare allora per chi crede che l’anima gemella esista davvero? Rassegnarsi? Accontentarsi? Il prof. Holmes ci dà dei consigli anche su questo:
Chiediti che tipo di atteggiamento hai: credi che le cose accadono se devono accadere oppure no o pensi che accadano come conseguenza di quanto sforzo e lavoro ci sia dietro? Prova anche capire che cosa puoi controllare e che cosa no e sii consapevole che per essere bravi in qualcosa (incluso nelle relazioni) è necessaria molta pratica e molta fatica alle spalle.
Inizia a vedere il tuo lavoro sulla relazione in maniera romantica! Non c’è alcuna anima gemella predeterminata che aspetta di essere trovata. Detto ciò, nel corso del tempo, potrai certamente provare la sensazione e il sentimento che una specifica persona sia la tua anima gemella. Quella sensazione arriva proprio dal lavoro insieme, dal compromesso e dall’imparare a capire il tuo partner profondamente.
Le persone che credono nel destino sono anche quelle che più probabilmente credono anche nella capacità dei membri della coppia di leggersi reciprocamente la mente, senza che ci sia bisogno di parlare – “Se lui è davvero la mia metà, capirà sicuramente di che cosa ho bisogno”. Questo tipo di pensiero è spesso associato ad altri, come il fatto che donne e uomini abbiano bisogni diversi nella relazione, quando di fatto non ci sono ricerche scientifiche in merito a ciò, o che il sesso nel rapporto sia sempre necessariamente positivo – le ricerche ci dicono invece che il sesso cambia con il cambiare della relazione; una buona vita sessuale ha anch’essa bisogno di essere rinforzata e richiede continua pratica.
Bjarne Holmes. (2012). Relationship Matters. Journal of Social and Personal Relationships. (PODCAST)
Memoria di Lavoro: Per quanto pensi di restare concentrato su quel che stai leggendo?
– Rassegna Stampa –
Pensi di riuscire a rimanere concentrato su questo post per i prossimi 60 secondi?
Secondo un nuovo studio pubblicato sulla rivista Psychological Science questo dipende dalla quantità di memoria di lavoro che ti è necessaria.
La memoria di lavoro è la nostra capacità di trattenere le informazioni per un breve periodo di tempo, diversi studi dimostrano che varia da persona a persona, cambia nel corso della vita ed è correlata a differenze individuali nelle abilità intellettuali; ora uno studio dimostra che la capacità della nostra memoria di lavoro è direttamente correlata alla frequenza con la quale la nostra mente vagabonda.
I ricercatori, Daniel Levinson e Richard Davidson della University of Wisconsin–Madison e Jonathan Smallwood del Max Planck Institute for Human Cognitive and Brain Sciences hanno chiesto ai partecipanti all’esperimento di premere un pulsante quando vedevano una lettera apparire sullo schermo del computer; il compito era costruito in modo da non impegnare mai tutta l’attenzione dei partecipanti, ai quali periodicamente durante lo svolgimento del compito veniva anche chiesto se erano attivamente concentrarsi sul compito o se invece stavano pensando a qualcos’altro. I ricercatori hanno anche misurato la capacità di memoria di lavoro di ogni soggetto, testando la sua capacità di ricordare una serie di lettere intervallate da problemi di matematica di base.
I risultati indicano chiaramente che i soggetti con una maggiore capacità di memoria di lavoro riferivano anche di essersi distratti più frequentemente durante lo svolgimento del compito; questo dato suggerisce che la memoria di lavoro può effettivamente consentire pensieri “fuori tema” senza che lo svolgimento del compito ne risenta, sembra infatti che quando il compito è semplice chi dispone di ulteriori risorse all’interno della memoria di lavoro le utilizzi per pensare ad altro; mentre quando il compito è semplice ma affollato di distrattori sensoriali il legame tra memoria di lavoro e la tendenza a vagare con la mente scompare; e anche quando il compito si fa più complesso gli stessi soggetti che precedentemente tendevano a vagabondare con la mente si mostrano maggiormente concentrati.
Questo significa che la memoria di lavoro lavora sempre al massimo della sua capacità e che se non viene del tutto impegnata in un compito si mette a vagabondare impegnandosi in temi secondari, facendoci così correre il rischio di perdere di vista l’obiettivo principale. Levinson sta ora studiando come l’allenare l’attenzione per aumentare la memoria di lavoro influenzerà la tendenza della mente a vagabondare, “il vagabondare della mente ha un costo perchè impegna delle risorse, si tratta di decidere come impegnare queste risorse e indirizzarle”.
Psicologia delle Favole: Intermezzo con Attenti al Lupo (Lucio Dalla)
Per molti appassionati di Lucio Dalla Attenti al Lupo è stato un infortunio facile e commerciale. Su di me, reduce da altri snobismi musicali (troppa musica nera), questa schizzinosità forse fa meno presa. È vero che ascoltando questa canzone qualche dubbio può venire alla mente. È vero che quel ritmo dance sul battere senza troppe oscillazioni ritmiche può essere troppo facile (e però com’è rilassato e leggero: non ha la sincope epilettica del rock, ma forse ha qualcosa della leggerezza dondolante dello swing). È vero che quel testo di lupi e bambini nel bosco sembra infantile. È vero che quell’armonia in modo maggiore che si limita a trascolorare ben poco audacemente nel corrispettivo minore e poco più non ha nulla d’inaspettato: modula con la prevedibilità di un tram che arriva in orario.
Oppure no?
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Non ne sono sicuro. Quell’intristirsi dell’armonia al minore quando Dalla canta “con due occhi grandi per guardare” e poi “con dentro un sogno da realizzare” ha una dolce malinconia che m’incanta. E poi la storia cantata da Dalla mantiene quel qualcosa di minaccioso che è delle favole. E questo sapore perturbante è immerso nel miele di un racconto per bambini.
E infine, qualche verso più in la, il raddrizzarsi quietamente della melodia sopra l’eccesso di zucchero sparso fino a quel momento quando Dalla canta con tono più deciso: “amore mio non devi stare in pena / questa vita è una catena / qualche volta fa un po’ male”. E anche l’armonia si fa più (lievemente) audace, con una modulazione fino al più armonicamente lontano -ma non lontanissimo- la maggiore che declina ancora in una nuova malinconia in re minore.
La canzone “Attenti al Lupo” è consapevolmente una filastrocca infantile.
E, come in tutte le canzoni e le favole per i bambini, in essa serpeggia una minaccia. Come ci ha spiegato lo psicoanalista Bruno Bettelheim, grande studioso delle fiabe, in questi racconti il bambino incontra i grandi problemi umani (il bisogno di essere amati, la sensazione di essere inadeguati, l’angoscia della separazione, la paura della morte e così via) ma la fragilità infantile li tinge di un colore terrifico.
In Lucio Dalla, però la minaccia della favola è illuminata da un sole italiano disteso sulla campagna emiliana. Lucio Dalla non è Mahler, che fa scricchiolare nelle sue filastrocche un orrore sinistro e terrificante di agnelli portati al macello. Nella canzone di Dalla risuona semmai l’affanno e la fatica del vivere in una civiltà umana (“questa vita è una catena / qualche volta fa un po’ male”).
La natura è stata domata fin dal tempo dei romani lungo la via Emilia, ma la fatica rimane.
BIBLIOGRAFIA:
Bettelheim, B. Il mondo incantato: uso, importanza e significati psicoanalitici delle fiabe (tr. it. Andrea D’Anna, The Uses of Enchantment: The Meaning and Importance of Fairy Tales, 1976), Feltrinelli, Milano 1977.
Le canzoni nei giardini che nessuno sa. Gruppo di Ascolto in Ospedale #2
Niente paura, ci pensa la vita mi han detto così… Niente paura, Luciano Ligabue, 2007
Molti dei pazienti gravi che passano dal reparto dove lavoro a Villa Igea (il mitico reparto 40…chiamare il reparto per numero ha un po’ sapore di padiglione manicomiale, per questo alcuni reparti sono stati ribattezzati con nomi di alberi: la Quercia, il Nespolo, etc…) fanno ricoveri ripetuti a distanza di mesi o anni e il gruppo di ascolto musicale rappresenta un buon punto di osservazione per i cambiamenti delle persone nel tempo. Molto spesso si notano importanti differenze nella percezione delle canzoni anche tra l’inizio e la fine del ricovero. Vediamo qualche esempio.
Articolo consigliato: Le Canzoni nei giardini che nessuno sa. Gruppo di Ascolto Musicale in Ospedale #1
M è una donna di quarantanove anni, affetta da epilessia e da una grave forma di depressione con idee autolesive esordita dopo che il figlio ventenne, tossicodipendente, si è suicidato in carcere. Un dolore immenso. La prima volta che ha partecipato al gruppo è scappata fuori dalla sala in lacrime durante le prime note di Pensieri e parole (1971) di Lucio Battisti, in quanto il brano le provocava una nostalgia troppo intensa del figlio, appassionato del cantautore di Poggio Bustone. Nel ricovero successivo a distanza di un anno, dovuto più a problematiche di contesto famigliare che a uno stato depressivo, M è riuscita a partecipare al gruppo e ad ascoltare Il mio canto libero (1972) segnando sulla scheda di provare tantissima tristezza e nostalgia, mista però a gioia, serenità ed estasi. Ha riportato durante l’ascolto di avere avuto l’immagine di “Un angelo che mi guardava” e che questo le faceva un effetto positivo. Nei mesi era avvenuta l’elaborazione psicologica della perdita e anche uno stimolo così potente come l’ascolto della canzone preferita del figlio era diventato per lo meno sopportabile.
Lo stesso brano a L, quarantadue anni, due figli piccoli affidati al marito, affetta da una grave forma di psicosi paranoide e inserita da due anni in una residenza psichiatrica ha fatto un effetto decisamente più negativo. Le ha suggerito l’immagine di “Avere una gabbia intorno alla testa”, provando tristezza e mancanza di speranza perché sta male dall’età di ventiquattro anni e ha avuto un percorso costellato da ricoveri, cambi di terapie e ricadute. La gabbia sottolinea come la malattia mentale grave possa privare della propria libertà. Ma l’immagine così forte mi ha fatto venire in mente che anche l’istituzione manicomiale non esitava a usare gabbie per la testa. Nel museo della storia della psichiatria del San Lazzaro di Reggio Emilia è ancora visibile il cosiddetto “casco del silenzio”1, una cuffia dotata di una sorta di museruola che impediva alle persone di urlare, ma anche di parlare.
Articolo consigliato: Il mio Psicoterapeuta suona il Rock!
Anche per D, un uomo di 35 anni, affetto da disturbo di personalità dipendente e depressione grave con diversi e seri tentativi autolesivi, avvenuti in seguito all’abbandono da parte dalla moglie dopo avere avuto il primo figlio, la partecipazione al gruppo è stata molto difficile all’inizio. Al primo incontro a cui ha partecipato non riusciva a tollerare l’ascolto delle canzoni. Alla fine del percorso, anche grazie al lavoro psicologico individuale, ascoltando Ho imparato a sognare (2003) dei Negrita, ha provato tristezza e malinconia rivedendo “immagini di un tempo ormai passato quando io e la mia ragazza stavamo insieme”, anche in questo caso decisamente più tollerabili.
Articolo consigliato: La saggezza del Rock' n' roll. (Il mio psicoterapeuta suona il Rock #2)
A volte le canzoni hanno un effetto addirittura miracoloso (seppure temporaneo…purtroppo). B, ad esempio, è una donna di quarantatrè anni ricoverata per un grave stato depressivo ricorrente e con precedenti tentativi autolesivi (flebotomia e ingestione incongrua di farmaci). Presenta spiccati tratti di personalità dipendente e l’attuale ricaduta è in relazione alla fine di una storia sentimentale durata quindici anni, seppur tra separazioni e riunioni. Il motivo della rottura è stato che lei voleva sposarsi o andare a convivere, ma lui non voleva. L’ascolto della canzone Willy il Coyote (1993) di Eugenio Finardi l’ha portata a guardare per la prima volta la propria situazione con un certo distacco, a identificarsi con Willy il Coyote, che le prova tutte per raggiungere il proprio obiettivo (nel caso della paziente di sposare il fidanzato), ma gli va sempre storta.
A questo punto non possiamo non spendere qualche parola sul rapporto tra umorismo e disagio psichico.
L’ironia può essere talvolta portatrice di una “sana trasgressione” dell’ordine delle cose, che può favorire una ricostruzione creativa e rivitalizzata della propria realtà interrelazionale e intrapsichica, determinando anche la rottura di schemi stereotipati (Querini e Lubrani, 2004).
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Seguendo le indicazioni provenienti da altri contesti musicoterapeutici (Manarolo G., 1995) di solito sui tre brani che si ascoltano parto sempre da un brano non troppo impegnativo emotivamente (almeno secondo il mio giudizio), per poi affrontare un brano più evocativo e terminare con uno abbastanza spensierato, anche per non lasciare “ferite aperte” per il pomeriggio (il gruppo si tiene dalle 13 alle 14), quando la presenza di medici e psicologi è ridotta.
Un brano con cui a volte ho terminato l’incontro è stato Il cielo è sempre più blu (1975) di Rino Gaetano. A questo proposito mi ha colpito la scheda di M, 38 anni, affetto da disturbo bipolare in fase depressiva, che ha provato molta speranza, spensieratezza e gioia, scrivendo tra i pensieri “datemi la formula per incarnare questa canzone in tutte le situazioni”.
Un altro brano molto rassicurante è Niente paura (2007) di Ligabue. Mi è capitato di ascoltare questa canzone insieme a N, un uomo di quarantacinque anni che seguo in psicoterapia, affetto da depressione maggiore, mentre si trovava in un momento di particolare difficoltà relazionale con la compagna. Ascoltare la canzone insieme è stato molto emozionante e N si è commosso più volte durante l’ascolto. Credo che questa condivisione ci abbia fatto fare un passo avanti nella relazione terapeutica e la volta successiva mi ha riportato che durante la settimana si è spesso ripetuto mentalmente il ritornello “Niente paura…niente paura”, come un mantra, con un effetto rassicurante.
Un altro brano di Ligabue che ascoltiamo spesso è Non è tempo per noi (1990) il cui incipit è veramente denso di significati nella sua semplicità (questo del resto è il segreto delle canzoni ben riuscite e che rimangono nel tempo): “Ci han concesso solo una vita…”. E’ capitato diverse volte che pazienti con pregressi tentativi autolesivi o con gravi problematiche legate all’abuso di sostanze o altri comportamenti a rischio si soffermassero su queste parole segnandole sulla scheda. Sembra una frase banale, ma saggiamente i pazienti mi hanno fatto capire come sia importante ricordarselo.
Uno dei pregi della canzone è quello di dare più leggerezza a tematiche importanti e impegnative. Ad esempio R, uomo di trentacinque anni, ricoverato per un grave disturbo dismorfofobico con aspetti di personalità evitanti, ascoltando Si viaggiare (1977) di Lucio Battisti si è soffermato sulla frase “dolcemente viaggiare, rallentare per poi accelerare”, riportando di provare moltissima leggerezza e segnando sulla scheda “Ho pensato a questo momento di difficoltà della mia vita in cui sto frenando (come dice la canzone) e che devo poi accelerare (nel senso tornare a vivere)”.
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Il gruppo di ascolto offre spesso una fonte di stimoli da affrontare e approfondire poi durante le sedute psicoterapiche individuali. Ad esempio R, donna di quarantaquattro anni, ricoverata per alcolismo e disturbo di personalità depressivo, durante l’ascolto di My Way (1968) di Frank Sinatra ha provato un mix di emozioni che comprendono moltissima tristezza, nostalgia, speranza, gioia, potenza, piacere e molta calma, serenità e grandiosità. Una vera tempesta emotiva! Come immagini ha segnato “mi ricorda un immagine in bianco e nero di un gruppo di operai alla pausa pranzo che mangiano seduti su una traversa sospesa nel vuoto”2 (probabilmente si tratta della famosa foto scattata nel 1932 a New York durante la costruzione del Rockfeller Center). Si tratta di un’ immagine in cui si percepisce un evidente senso di precarietà e infatti tra i pensieri ha riportato “mi preoccupa un po’ non aver trovato ancora la mia strada…ma forse faccio ancora in tempo”. Tali tematiche sono poi state effettivamente riprese durante le sedute con la psicoterapeuta.
Le esperienze più negative nel gruppo (ma direi estendibili a diversi gruppi terapeutici) si sono verificate con pazienti affetti da disturbo di personalità narcisistico grave, in cui si presentano spesso aspetti di svalutazione, di disgusto e di invidia distruttiva (Kernberg, 1998; Dimaggio e Semerari, 2011). Mi ricordo ad esempio un paziente di quarantaquattro anni, affetto da depressione e disturbo di personalità narcisistico, che all’ascolto di Certe Notti (1997) di Ligabue ha fatto un pesante attacco svalutativo nei confronti del gruppo terapeutico in quanto a suo avviso tale brano lo rimandava a “certi posti nella bassa, pieni di gente che beve” e per quello ascoltare tale canzone sarebbe stato deleterio per le persone ricoverate per alcolismo. In quel caso gli alcolisti presenti gli hanno fatto notare come fosse una sua personale associazione quella tra alcol e Certe Notti, non condivisa dagli altri. E la musica è ripartita.
BIBLIOGRAFIA:
Querini P., Lubrani F. Ironia, umorismo e disagio psichico. Franco Angeli, 2004
Kernberg, O. (1998), Narcisismo patologico e disturbo narcisistico di personalità, in Ronningstam, E. F., I disturbi del narcisismo, Raffaello Cortina, Milano, 2001.
Dimaggio G, Semerari A. (2011). I disturbi di personalità. Modelli e trattamento. Laterza
Manarolo G. (1995). L’angelo della musica. Musicoterapia e disturbi psichici. Omega Edizioni
MATERIALI:
Palmieri G. – Scheda ABC musicale per Gruppi di Ascolto in Musicoterapia. SCARICA IN FORMATO PDF
Memorie Traumatiche e Ruminazione
In un articolo recente, le diverse forme diruminazione sono state indagatenei pensieri intrusivi conseguenti a esperienze traumatiche (Santa Maria et al, 2012). In accordo con la teoria di Watkins (2008, dedicata particolarmente alla ruminazione nei pazienti depressi…) sembra che Santa Maria e i colleghi della University of Amsterdam abbiamo mostrato come ruminare in modo astratto sulle memorie traumatiche prolunga i sintomi post-traumatici e mantiene “attivi” i pensieri legati all’esperienza traumatica.
Sembra, infatti, che sia proprio la modalità con cui le persone ripensano ripetitivamente alle proprie esperienze traumatiche (e non il fatto stesso di farlo) ad essere critica nel mantenimento dei sintomi post-traumatici e al loro prolungamento nel tempo.
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La ricerca prevede che i partecipanti ripensino a una propria esperienza negativa e di selezionare un “momento bersaglio”, che deve rappresentare il momento di maggior distress. Viene quindi chiesto loro di chiudere gli occhi e di immaginare, nel modo più vivido possibile per trenta secondi, il momento scelto lasciando “emergere” le immagini e le emozioni così come vengono, senza sforzarsi nella loro soppressione. Questo “momento bersaglio” viene scelto come trigger intrusivo (cioè come “grilletto” attivante i pensieri intrusivi) e attivante le memorie traumatiche.
Una volta scelto l’evento trigger, viene ripetuto il compito. In seguito, viene chiesto ai partecipanti di scrivere un breve resoconto della propria esperienza negativa. I partecipanti sono stati divisi in due gruppi, ad alcuni di loro è stato chiesto di scrivere il resoconto in modo concreto-esperienziale e ad altri di scriverlo in modo astratto-valutativo. Ad entrambi i gruppi sono state presentate delle domande preliminari volta a indurre uno stile di pensiero o l’altro (nella forma nota dei HOW e dei WHY ). In conclusione, viene svolto di nuovo l’esperimento immaginativo iniziale.
I risultati? In breve, la modalità di pensiero ripetitivo astratta (che corrisponde alla modalità WHY) ha portato a una maggior persistenza delle memorie intrusive, e tale maggior persistenza permane anche a 36 ore dopo la conclusione dell’esperimento. E pensiamo che l’esercizio immaginativo è durato 30 secondi! I ricercatori hanno, inoltre, rilevato livelli di distress moderatamente alti, nella maggior parte dei partecipanti; infine, le emozioni e le immagini elicitate dell’esercizio immaginativo iniziale ha avuto un impatto sullo stato emotivo dei partecipanti, più marcato nel gruppo “astratto”/WHY.
Sembra davvero che pensare in modo ripetitivo astratto, giudicante e focalizzato sui “perché” sia dannoso per tante persone con difficoltà e sofferenze diverse…
BIBLIOGRAFIA:
Santa Maria, A., Reichert, F., Hummel, S.B. & Ehring, T. (2012). Effects of rumination on intrusive memories: Does processing mode matter?. Journal of Behavioral Therapy & Experimental Psychiatry. 43. 901-909.
Watkins, E. (2008). Constructive and unconstructive repetitive thought. Psychological Bulletin. 134. 163-206.
Pazienti con PTSD hanno un rischio più elevato di sviluppare resistenza all’insulina e sindrome metabolica, con rischio di malattie cardiache e diabete.
Se inizialmente il PTSD era riservato ai veterani di guerra, ora sta rapidamente emergendo come un disturbo diffuso al di fuori della popolazione dei veterani. L’Istituto Nazionale di Salute Mentale stima che quasi 8 milioni di americani abbiano un PTSD.
Secondo una ricerca presentata American College of Cardiology’s 62nd Annual Scientific Session i pazienti con diagnosi di disturbo post-traumatico da stress (PTSD) hanno un rischio significativamente più elevato di sviluppare una resistenza all’insulina e la sindrome metabolica, questo li espone a maggior rischio di malattie cardiache e diabete.
Questo studio retrospettivo ha incluso 207.954 veterani nel sud della California e del Nevada tra i 46 e 74 anni di età (93% maschi) con e senza PTSD. Tutti i soggetti sono stati individuati nel contesto delle cure primarie e non avevano una storia nota di malattie cardiache o diabete. I soggetti sono stati seguiti per una media di due anni per verificare se avevano sviluppato una resistenza all’insulina, che contribuisce a indurimento delle arterie e aumenta il rischio di attacco di cuore, e / o sindrome metabolica, un insieme di condizioni, tra cui aumento della pressione sanguigna, alti livelli di glicemia, grasso corporeo in eccesso, e livelli di colesterolo anomali che aumentano il rischio di malattie cardiache, diabete e ictus. Tutti i dati sono stati raccolti attraverso la Veterans Administration in cartelle cliniche elettroniche.
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Al follow-up, l’insulino-resistenza era significativamente più alta nei soggetti con PTSD: (35% rispetto il 19% dei soggetti senza PTSD). Analogamente, la sindrome metabolica era significativamente più probabile nel gruppo PTSD (53% rispetto al 38% della popolazione non-PTSD). Dopo un aggiustamento dei punteggi per età, sesso, etnia, pressione alta, colesterolo alto e storia familiare di malattia coronarica prematura e l’obesità, il PTSD era ancora indipendentemente associato a tassi più elevati di resistenza all’insulina e di sindrome metabolica.
“Dal momento che la resistenza all’insulina e la sindrome metabolica possono essere invertite durante le fasi preliminari del trattamento modificando lo stile di vita, con la dieta e l’esercizio fisico, è importante che tutti i pazienti a rischio vengano identificati precocemente”, ha detto Ramin Ebrahimi, professore di medicina alla University of California e co-ricercatore a capo dello studio. “I nostri risultati mostrano che il PTSD è di per sé un importante predittore indipendente di queste condizioni in entrambi i sessi.”
L’ attuale trattamento del PTSD è in genere limitato alla gestione dei sintomi psichiatrici, ma alla luce di questi risultati Ebrahimi si dice a favore di un approccio più integrato alla cura dei pazienti affetti da PTSD: “Focalizzando l’attenzione sulla diagnosi precoce e la gestione delle condizioni mediche PTSD-correlate, compresi i disturbi metabolici e l’aterosclerosi, in combinazione con disturbi psichiatrici PTSD-correlati, gli eventi medici e psichiatrici a lungo termine avversi legati al PTSD possono essere significativamente ridotti o impediti”.
Nonostante non si sappia ancora cosa lega PTSD, insulino-resistenza e disturbi metabolici, i ricercatori sospettano che, come in altre condizioni mediche, l’infiammazione e la disfunzione vascolare possono essere coinvolte in questo meccanismo. In ultima analisi, anche le variazioni nei livelli ormonali e i fattori generici potrebbero avere un peso.
I ricercatori stanno anche studiando il rapporto tra trattamento precoce del PTSD e lo sviluppo di resistenza all’insulina e di sindrome metabolica, così come il rapporto di gestione simultanea psichiatrica e medica di PTSD e disturbi metabolici e gli esiti clinici come infarto, ictus e morte.
L’esercizio della compassione e i suoi effetti sul senso morale.
– Rassegna Stampa –
Secondo un nuovo studio pubblicato su Psychological Science sopprimere il proprio senso di compassione porta a perdere un po’ del proprio impegno morale. Secondo gli autori dello studio Daryl Cameron e Keith Payne della University of North Carolina, sopprimere la compassione, come quando decidiamo di ignorare le richieste di un mendicante per strada perchè abbiamo fretta o perchè vogliamo risparmiare i nostri spiccioli o ancora per non incoraggiare questo fenomeno o quando cambiamo canale in televisione per non lasciarci coinvolgere da scene di bambini affamati in terre lontane, non è un comportamento privo di conseguenze ma ha un costo personale che scontiamo in termini di perdita di moralità.
L’esperimento condotto prevedeva che a tutti i partecipanti venisse mostrata una sequenza di 15 immagini che comprendeva persone senza fissa dimora, bambini che piangono e vittime di guerra e carestia. A ogni partecipante è stato assegnato uno di tre compiti: alcuni dovevano cercare di non provare compassione per i personaggi delle immagini, ad altri è stato chiesto di evitare il disagio derivante dal senso di poca moralità della situazione rappresentata, ad altri ancora è stato detto che erano liberi di sentire ciò che spontaneamente provavano; le istruzioni erano dettagliate e insistevano sull’importanza di fare di tutto per eliminare una determinata emozione.
La fase successiva consisteva nel verificare quale era stato l’andamento del loro senso morale nel corso dell’esperimento. I risultati indicano che chi aveva dovuto sopprimere la compassione si era anche sentito più flessibile nel esercitare il suo senso della moralità: secondo i ricercatori questo è dovuto al fatto che sopprimere i sentimenti di compassione provoca dissonanza cognitiva che le persone tentano di risolvere riorganizzando i loro atteggiamenti e credenze sulla moralità.
Il timore di provare emozioni negative e dolorose (ansia, tristezza, colpa) può essere chiaro, comprensibile e seppur in diversa misura, identificabile nella vita quotidiana di ciascuno di noi. Meno immediato agli occhi dei più è il timore delle emozioni positive che tuttavia sembra giocare un ruolo di rilievo nel mantenimento del malessere psicologico e ostacola in modo attivo il buon esito degli interventi medici e psicoterapeutici. Molte persone temono proprio quelle emozioni piacevoli (eccitazione, felicità, tranquillità) che sentono mancare nella propria vita quotidiana e in modo più o meno consapevole mettono in atto comportamenti per evitarle (Williams, Chamblers & Ahrens, 1997).
Ma qual è il senso di questo timore? Quale il suo nucleo? Solitamente la base non ha una natura biologica o inconscia ma cognitiva, la differenza si realizza in base a come interpretiamo le emozioni positive e a come vi reagiamo. Le regole che governano queste interpretazioni possono essere diverse.
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Innanzitutto alcuni individui si spaventano perche temono che l’eccitazione li porti a perdere il controllo e quindi quando l’entusiasmo sale tendono a frenarsi e a imporsi un forte e rigido autocontrollo:
“Se mi eccito troppo perdo il controllo delle mie azioni, impazzisco, non capisco più nulla”.
Secondariamente, uno stato di serenità e tranquillità (per esempio nel rapporto affettivo con un compagno/a) può essere interpretato come una condizione di vulnerabilità che richiede l’attivazione di preoccupazioni e paranoie tese a prevenire pericoli e minacce:
“Se sono tranquillo posso essere impreparato quando qualcosa di negativo accadrà, perché sicuramente accadrà, per cui mi devo tenere all’erta e preoccuparmi delle cose negative che potrebbero accadere”.
Infine anche la soddisfazione e la felicità possono essere temute e interpretate come una prova di ingenuità, superficialità, scarso valore personale:
“Non posso restare fermo a godere di queste sensazioni ma devo capire cosa non funziona, dove potrei sbagliare, cosa potrebbe andare male per non sedermi sugli allori ma continuare a migliorarmi”.
L’impatto di queste convinzioni può proiettarsi in modo negativo su diversi disturbi psicologici come il disturbo d’ansia generalizzata o la depressione (Olatunji, Moretz & Zlomke, 2010). La valutazione di queste convinzioni così come interventi terapeutici orientati alla loro discussione critica possono eliminare un importante ostacolo alla riduzione della sofferenza mentale.
BIBLIOGRAFIA:
Olatunji, Moretz & Zlomke (2010). Behavior Research and Therapy 48(5):435-441
Williams, Chamblers & Ahrens (1997). Behavior Research and Therapy, 35(3):239-248
Psicoterapia Cognitiva: “Cosa non le va in questo?” Come iniziare il disputing del pensiero negativo
Il disputing è l’intervento terapeutico che mette in discussione le convinzioni del paziente.
Una volta che il nostro paziente inizia a essere più consapevole del legame tra le sue emozioni di disagio e i suoi pensieri, il passo successivo è semplice. Il paziente può iniziare a sperare che, modificando le sue idee, possa cambiare anche lo stato d’animo. Nel disputing si discute il fondamento logico e/o esperienziale delle opinioni che sono state messe in relazione con gli stati d’animo di ansia, tristezza, timore, e così via.
Occorre però avere ben presenti i parametri da sottoporre a critica. È bene iniziare con domande aperte, secondo la tecnica già vista del laddering, chiedendo semplicemente che cosa non ci va in una certa cosa, dove sia l’implicazione negativa.
T.: Che cosa non le va in questo? Dov’è l’elemento negativo?
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Proseguire a esaminare le implicazioni negative in termini di significati personali e soggettivi è proprio soprattutto della via costruttivista di George Kelly e di altri. In parte è anche la strada di Ellis. Tuttavia lo stile più standard della terapia cognitiva prevede una maggiore concentrazione, almeno all’inizio, non tanto sui significati negativi personali ma sui pericoli concreti temuti dal paziente.
Questo stile oggettivo e concreto ha i suoi vantaggi. È possibile che un grado eccessivo di apertura possa essere alla lunga difficile da mantenere, soprattutto se il paziente tende a esprimersi in termini generici e vaghi. Teniamo conto che il paziente tende effettivamente a esprimersi in termini astratti. La minaccia temuta, lo stato depressivo sono espressi in termini poco definiti. Le cose vanno male, e non si capisce bene in che senso. Qualcosa di brutto potrebbe capitare, e non si sa bene cosa.
In questo caso una strategia più stringente può essere utile. Esplorare sui significati personali troppo precocemente può significare essere attratti nel gorgo della confusa vaghezza del paziente. Chiedere invece al paziente cosa esattamente teme può incoraggiarlo a essere più collegato alla realtà.
Una buona bussola per orientarsi nel pensiero negativo ed evitare le nebbie della confusione è la cosiddetta equazione dell’ansia di Beck, Emery e Greenberg (1985):
ANSIA =
(Probabilità percepita della Minaccia) x (Gravità o Costo percepiti della Minaccia) _____________________________________________________________________
(Capacità percepita di fronteggiare il pericolo) x (capacità percepita di “salvataggio”)
Possiamo facilmente utilizzare l’equazione per strutturare in maniera semplice il disputing.
T.: Che cosa teme esattamente?
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Definire esattamente cosa si teme è sempre importante e non va mai considerata un’operazione scontata. Chiedere un resoconto dettagliato aiuta il paziente a chiarire anche se stesso/a in che modo dovrebbero realizzarsi i pericoli temuti. Molti passaggi sono trascurati o ignorati. Riprendiamo l’esempio della paziente che temeva di morire in un incidente.
P.: Temo di morire in un incidente automobilistico.
T.: Come immagina avvenga questo incidente?
P.: Non ci avevo mai pensato. Mentre guido improvvisamente penso che potrebbe avvenire.
T.: E quando le viene in mente questo cosa immagina?
P.: Vedo me stessa morta sul marciapiede o sulla strada.
T.: Non pensa mai a come accade l’incidente?
P.: No. In realtà vedo me stessa morta dopo l’incidente.
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T.: Magari immaginare come avviene l’incidente può farci capire meglio quanto sia effettivamente probabile questa eventualità. Quanto è probabile che accada questa eventualità?
P.: Non ci ho mai pensato esattamente. Non mi ero posta il problema.
Naturalmente la componente soggettiva rimane elevata. Riflettere su quanto sia probabile rimanere coinvolti in un incidente può portare sollievo ad alcuni ed essere indifferente per altri. Nel cognitivismo standard si chiede esplicitamente al paziente di stimare questa probabilità (Lehay, Holland, 2000).
T.: Quanto è probabile, da 0 a 100, che avvenga questo?
La gravità è ancor più un aspetto soggettivo. Naturalmente se si tratta di ragionare sul timore di sciagure gravi c’è poco da discutere. Molto più attaccabili sono invece altri pensieri negativi focalizzati sulle relazioni sociali o sugli stati interiori.
T.: Definiamo meglio questa eventualità. È così grave? E perché?
Tuttavia anche se si tratta di disgrazie materiali, si può far riflettere il paziente (Lehay, Holland, 2000).
T.: Qual è l’esito peggiore di questa situazione che lei teme?
T.: È l’unico esito possibile? Ce ne sono altri meno terribili?
T.: E qual è l’esito più probabile?
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Anche in tal modo può essere possibile che il paziente inizi a sdrammatizzare i suoi timori. O meglio, che il paziente apprenda a farlo. Ciò che avviene in terapia è un modello che il paziente deve imparare ad applicare nella sua vita di tutti i giorni.
Dopo aver riflettuto su gravità e probabilità degli eventi temuti, si può passare a trattare le capacità di fronteggiamento del paziente. Questo è un parametro che il paziente molto spesso trascura.
La disgrazia è avvertita e temuta come un evento ingestibile che sopraffà il paziente senza alcuna possibilità di risposta. Questo naturalmente a grandi linee. Vedremo come nel caso del paziente ossessivo la situazione si ribalti e il paziente debba semmai puntare all’obiettivo contrario: accettare senza reagire, ovvero senza controllare. Ma in questo caso stimoliamo pure il paziente a incrementare le sue capacità di fronteggiamento.
T.: Ragioniamo anche sulla sua capacità di fronteggiare questo pericolo, di gestirlo, di rimediare in qualche modo. Pensa di non essere capace di reagire in nessun modo?
Un fobico sociale potrà lavorare sulla sua assertività, un depresso sul suo umor nero, un ansioso sulle sue paure. Esercizi di esposizione faciliteranno una miglior consapevolezza della propria capacità di affrontare le proprie paure.
* * *
Occorre quindi incoraggiare il paziente a criticare i suoi pensieri negativi. Tuttavia va usata cautela e delicatezza. Come prima mossa, al terapeuta non conviene confutare e/o criticare attivamente il pensiero negativo del paziente.
Non è consigliabile iniziare un disputing attaccando attivamente le convinzioni negative del paziente, quasi affermando baldanzosamente: Ora le dimostro dove lei sbaglia nel vedere tutto nero. Questa mossa è debole, poiché mette tutto il carico cognitivo ed emotivo del cambiamento sulle spalle del terapeuta. Esordire promettendo di distruggere le convinzioni negative del paziente genera ansia nel terapeuta e aspettative eccessive e forse anche diffidenza nel paziente. Inoltre, come vedremo, la struttura logica delle convinzioni negative del paziente le rendono poco permeabili a una confutazione diretta e attiva da parte del terapeuta.
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La domanda va invece formulata nei termini opposti: in modo che sia il paziente a dover dimostrare che il suo pensiero negativo è plausibile e giustificato. Deve essere lui a farsi carico della sua visione negativa e dimostrare prima di tutto a se stesso prima che al terapeuta che la sua visione negativa è fondata. In tal modo si incoraggia il paziente ad assumere una posizione di distacco critico. Fino a quel momento, il paziente non ha mai esaminato criticamente le basi logiche e/o empiriche dei suoi tristi pensieri. Ne ha dato per scontato il valore di verità, con la stessa rassegnazione che si ha davanti alla definitiva inamovibilità dei fatti. Ora, invece, il paziente può iniziare a pensare che le sue non sono constatazioni di verità di fatto, ma potrebbero essere interpretazioni discutibili. Perché vedere tutto nero?
T.: Riflettiamo insieme. Lei è depresso/ansioso/arrabbiato perché ha una visione negativa delle cose. Ma ora la invito a riflettere su quanto sia fondata questa valutazione negativa.
Invitare a riflettere significa anche invitare a riesaminare criticamente la ragioni del pensiero negativo. Naturalmente il paziente va accompagnato con tranquillità ad assumere questa posizione critica. È vero che è possibile
T.: Riesaminiamo le ragioni delle sue preoccupazioni. Vediamo la ragioni logiche e di fatto che la sorreggono. Quanto è fondata la sua visione negativa?
Il paziente potrebbe invocare il suo stato emotivo. Egli non è arrivato a preoccuparsi per via logica o empirica.
T.: Non ci sono particolari ragioni. Semplicemente sono preoccupato.
Tuttavia possiamo insistere. Il nocciolo non è tanto scoprire le basi logiche del ragionare ansioso o depressivo, ma incoraggiare il paziente ad avere fiducia nella possibilità di mettere in discussione le proprie preoccupazioni utilizzando anche l’arma del pensiero razionale.
Se il paziente non percepisce questa spinta ad assumere un distacco critico dalle sue valutazioni, possiamo e dobbiamo insistere facendo appello proprio al fatto che il paziente si è presentato in terapia.
T.: E’ vero. Ma la invito a riflettere. Il nostro obiettivo è mettere in crisi i nostri pensieri. Finora abbiamo creduto alla nostra ansia. Questo è comprensibile, ma non è obbligatorio. In fondo lei è venuto da me proprio perché in qualche modo ha già pensato da solo che fosse venuto il momento di mettere in discussione un certo modo di pensare.
Se ancora non troviamo una risposta, possiamo anche essere più espliciti nel nostro incoraggiare il paziente a cambiare la sua posizione.
T.: Credo che finora lei abbia dato per scontata questa sua valutazione negativa, come se fosse un fatto. Ma potrebbe essere anche una sua interpretazione. Il bicchiere non è vuoto: è mezzo vuoto, ma anche mezzo pieno. Ha ritenuto che questi problemi siano minacce. Ma potrebbero essere appunto problemi da risolvere, non minacce. Ha ritenuto che gli esiti di queste situazioni siano catastrofici. Ma esistono anche altri possibili esiti. Ha ritenuto di non essere in grado di gestire tutto questo. In base a che? Ha ritenuto di non poter reggere emotivamente questo stress. E ancora le chiedo: come fa a dirlo?
È dunque buona strategia lasciare -almeno inizialmente- la palla in mano al paziente, costringerlo a giustificare la propria negatività in modo da favorire un inizio di distacco critico, non precipitarsi a confutare.
BIBLIOGRAFIA:
Lehay, R. L., Holland, S. J. (2000). Treatment Plans and Interventions ofr Depression and Anxiety Disorders. New York: Guilford Press.
Robichaud, M., & Dugas, M. (2005a). Negative problem orientation (Part I): Psychometric properties of a new measure. Behaviour Research and Therapy, 43, 391-401.
Robichaud, M., & Dugas, M. (2005b). Negative problem orientation (Part II): Psychometric properties of a new measure. Behaviour Research and Therapy, 43, 403-412.
Neuroscienze: Adulti e predisposizione all’accudimento dei bambini.
– Rassegna Stampa –
Secondo uno studio pubblicato sulla rivista NeuroImage che ha coinvolto ricercatori tedeschi, italiani e giapponesi, la predisposizione all’accudimento da parte degli adulti nei confronti dei bambini piccoli sarebbe legata a specifici patterns di attivazione cerebrale.
I ricercatori, grazie all’uso della risonanza magnetica funzionale (fMRI), hanno scoperto che alla sola vista di immagini di volti infantili venivano attivate nei partecipanti allo studio specifiche aree cerebrali, quelle associate a tre diverse funzioni:
Attività premotoria e preverbale: attivazione nella corteccia premotoria e nell’area motoria supplementare, regioni che orchestrano gli impulsi cerebrali che precedono la parola e il movimento.
Riconoscimento facciale: attività nel giro fusiforme, è associata all’elaborazione di informazioni sui volti. L’attivazione di quest’area indica l’accresciuta attenzione al movimento e alle espressioni sul viso di un bambino.
Emozione e ricompensa: attività nell’insula e nella corteccia cingolata, indica eccitazione emotiva, empatia, attaccamento e sentimenti legati alla motivazione e alla ricompensa. Anche altri studi hanno documentato un modello simile di attività cerebrale in genitori che hanno risposto ai loro stessi figli.
Ai partecipanti, sia maschi che femmine e senza figli, è stato anche chiesto come si sentissero durante la visualizzazione dei volti sia adulti che infantili: questi hanno riferito di sentirsi più disposti ad avvicinarsi, sorridere e comunicare con un bambino rispetto ad un adulto, e di sentirsi più felici alla vista di neonati. I risultati ottenuti erano inoltre specifici per la visualizzazione di volti infantili, quindi non venivano replicati alla vista di volti adulti o di cuccioli animali.
Nonostante gli adulti del campione in esame non avessero figli propri, le immagini di volti infantili hanno scatenato quello che i ricercatori definiscono una risposta profondamente radicata di avvicinamento e accudimento. Tale attività cerebrale in adulti senza figli potrebbe indicare che la biologia umana preveda un meccanismo che garantisca ai bambini di sopravvivere e ricevere le cure di cui hanno bisogno per crescere e svilupparsi.
Tuttavia i segnali di disponibilità all’accudimento che appaiono nel cervello di alcuni o di molti adulti non garantiscono che gli stessi patterns di attivazione appariranno nel cervello di tutti gli adulti. Per questo è importante indagare cosa succede nel cervello di coloro che trascurano o abusano e maltrattano i bambini; ulteriori studi potrebbero aiutare a comprendere come mai quello che sembra essere un istinto regolato a livello biologico in alcuni casi risulti inattivo e non funzionante.
Schiena dritta! Come la postura (nostra e degli altri) influenza la soglia del dolore.
Postura & soglia del dolore: dimmi come ti siedi e ti dirò quanto soffri!
Una nuova ricerca a conferma della stretta relazione ed influenza tra mente e corpo. In uno studio pubblicato sul Journal of Experimental Social Psychology, condotto da un gruppo di ricercatori dell’Università di Toronto e Southern, emerge che stare dritti con la schiena aiuta a sopportare meglio il dolore sia fisico che mentale. Di contro, una posizione scomposta ne aumenta la percezione. Inoltre, altro dato interessante è il fatto che guardare una persona con un portamento eretto e deciso aiuta a diminuire la percezione del dolore. I ricercatori hanno posizionato alle caviglie e al braccio dei volontari il bracciale dello sfigmomanometro (lo strumento per misurare la pressione), testando che la postura aiuta il soggetto a tollerare meglio la sofferenza fisica causata del gonfiarsi del bracciale.
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Ad esempio, hanno visto che una specifica posizione yoga, il tadasana, posizione della montagna, permetteva al soggetto di sopportare meglio la sensazione spiacevole e dolorosa derivante dal gonfiarsi del bracciale.
La posizione del tadasana è una figura dello yoga che si raggiunge stando in posizione eretta, piedi uniti (per facilitare la posizione, gambe tese, busto diritto, braccia leggermente discostate dal corpo, mani tese. Occorre contrarre tutto il corpo, dai talloni alla nuca, compresi i glutei. Le braccia sono tese, verso terra, lungo il corpo. È necessario percepire il peso del corpo che si scarica, uniformemente, sui piedi.
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In un secondo momento i ricercatori hanno provato a valutare se questo dato valesse anche durante l’osservazione di una specifica posizione; i partecipanti allo studio sono dunque stati invitati ad osservare la postura dei ricercatori; anche in questo caso è stato posizionato alle caviglie e al braccio dei volontari il bracciale dello sfigmomanometro, quindi lo sperimentatore assumeva di volta in volta posizioni diverse, e anche in questo caso il dato è stato confermato: infatti, se il ricercatore stava seduto con la schiena diritta la soglia della tolleranza del dolore secondario al gonfiarsi del bracciale dello sfigmomanometro aumentava, crollando non appena il ricercatore si sedeva in modo scomposto e rilassato.
I ricercatori hanno parallelamente testato anche la tolleranza della sofferenza emotiva mediante la somministrazione di alcuni questionari self-report e, anche in questo caso, avere una postura diritta correla con una minore percezione della sofferenza. Proviamo a tenere in mente questo dato la prossima volta che litigheremo con il fidanzato: petto in fuori, pancia dentro e schiena dritta, così come ci diceva la nonna, forse ci aiuterà a incassare meglio il colpo e a stare meno male!
Riuscite a immaginare Il Presidente del Consiglio Monti che dice: “Solo in questo paese succede che…”, “Solo in Italia…”, “L’Italia non è un paese normale…”?
Noi no. Si dice che Monti abbia uno stile diverso. Probabilmente è così. E proprio la difficoltà di immaginarselo mentre si abbandona alle compiaciute autoflagellazioni che taluni scambiano per autocritica può essere una prova. La tranquillità di Monti mal si adatta all’irritato compiacimento, al narcisismo rovesciato dell’autodenigrazione catastrofica.
C’è qualche analogia con una teoria psicologica cognitiva della depressione. Si tratta dell’ipotesi di Edward Watkins (2004), il quale differenzia due tipi di pensiero.
Il pensiero di tipo “why”, che affronta i problemi cercando spiegazioni globali e- come direbbe Ellis- “definizionali” in quanto approda a descrizioni di sé e del mondo negative e distruttive.
Al suo opposto il pensiero di tipo “how”, che è più propriamente funzionale perché tenta di trovare soluzioni pratiche senza cercarle in una faticosa auto-analisi delle proprie supposte mancanze o colpe(Watkins, 2004). Una esposizione più dettagliata la trovate qui: Come o Perché? E le conseguenze per il pensiero.
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Detto questo, in realtà le cose non sono così semplici. Definirsi rimane un bisogno umano che ricerchiamo malgrado i suoi aspetti negativi e deprimenti. Forse per questo indulgiamo in lunghe ruminazioni: preferiamo denigraci, a volte, piuttosto che non pensare nulla di noi stessi. Uno strano senso di disorientamento, una sottile angoscia ci coglie quando realizziamo l’esercizio un po’ zen e un po’ anglo-sassone di astenerci da qualunque pensiero non pratico.
Un giorno qualcuno dovrà tentare una riflessione più profonda sulla portata storica di questa potente visione del mondo metà buddista e orientale e metà pragmatica e americana che sempre più si sta imponendo come unico stile sociale accettabile: uno strano stato mentale (anglo-schizoide, diceva lo psicoanalista Davide Lopez) che unisce in sé imperturbabilità, grandissima brillantezza sociale unita a una singolare assenza di intimità. Avete mai notato la spettacolare capacità cinematografica e holliwoodiana che hanno molti anglo-sassoni di catturare l’attenzione dell’interlocutore e di parlare socialmente? E al tempo stesso la sensazione che danno di non avere davvero rivelato la loro intimità?
Esageriamo naturalmente. Si tratta di mezze verità. Stereotipi. Ma riflettiamoci su. Ogni verità è anche un pregiudizio, e viceversa. E comunque lo aveva notato anche Leopardi nel “Discorso sullo stato presente dei costumi degli italiani” (Leopardi era un genio assoluto e non solo un poeta).
Tutto questo è poco europeo e per niente italiano. Intendiamoci: un modello di comportamento sociale alla Monti più trattenuto e misurato, dopo la scorpacciata di caos emotivo della politica e della società italiana degli ultimi decenni, ci fa bene. Ma interrogarsi su quel che si è davvero rimane un bisogno non del tutto ozioso,e mi pare sia un bisogno europeo e italiano. Felicitazioni e complimenti agli anglo-sassoni che riescono a farne a meno, ma alla lunga questo non fa per noi. Cavarsela con il vuoto zen può essere una soluzione solo temporanea. Forse il vero sé non esiste e cercarlo è un esercizio inutile. Ma anche recitare un copione non tagliato sul nostro carattere nazionale può essere altrettanto sbagliato. Fermo restando che con Monti si può rifiatare e godere un po’ di ristoro emotivo dall’otto volante della storia italiana.
La tecnica dell’ABC è molto diffusa in ambito cognitivista, sia perché rappresenta una base fondamentale per l’assessment e per la psicoterapia, sia perché la sua potente semplicità la rende uno strumento applicabile e molto utile ad un range molto vasto di pazienti con caratteristiche psicologiche diverse.
Non mi dilungo sui dettagli della tecnica, perché già descritta e spiegata altrove su State of Mind.
In letteratura ne esistono di diverse forme, utilizzate in fasi diverse della terapia ma che, in breve si possono suddividere in due tipologie: l’ABC comportamentale e l’ABC cognitivo.
L’ABC comportamentale è strutturato in questo modo:
nella colonna delle A vengono inseriti gli “antecedents” (gli antecedenti) di un certo comportamento (situazioni, episodi…);
nella colonne centrale dei B vengono inseriti i “behaviors” (i comportamenti) messi in atto in quella data situazione; vale la pena specificare che il B comportamentale comprende sotto l’etichetta behaviors anche emozioni, pensieri e comportamenti (ahimè fonte di gran confusione per i cognitivisti) (Baldini, 2004)
nella colonna finale dei C, rientrano le “consequences” (le conseguenze) di quel dato comportamento
Un ABC comportamentale potrebbe configurarsi in questo modo:
A (Antecedents)
B (Behaviors)
C (Consequences)
Sono a casa da solo
Noia
Abbuffata
Vomito
Colpa
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Più interessante, a parere di chi scrive, il noto ABC cognitivo, utile per individuare insieme al paziente le sue convinzioni (credenze) funzionali o, soprattutto in clinica, disfunzionali (nel senso di “poco utili”, in rapporto agli scopi e ai bisogni del paziente, come illustra Giovanni Ruggiero nel suo articolo).
In sostanza, l’ABC cognitivo è così impostato:
nella colonna delle A vengono inseriti gli “antecedents” (gli antecedenti), ovvero situazioni, episodi ma anche stati emotivi situazionali (come, ad esempio, “sto provando ansia”); per motivi di semplicità espositiva, non divido gli ABC primari e secondari, di specifico interesse clinico.
nella colonna centrale dei B vengono inseriti i “beliefs” (le credenze), pensieri (più o meno automatici) che il paziente “produce” per dare significato all’A antecedente;
nella colonna finale dei C, rientrano le “consequences” (le consegueze) in termini emotivi (“cosa provo”) e comportamentali (“cosa faccio”) influenzate dalle credenze in B.
A questo punto l’ABC cognitivo si configura così:
A (Antecedents)
B (Beliefs)
C (Consequences)
Sono a casa da solo.
Non sopporto di stare senza far niente.
Mi sento inutile.
Emotive: Noia
Comportamentali: Abbuffata
Leggendo un articolo di Spagnulo e Marchi (2010), prendo spunto dalle loro riflessioni sull’ABC e trovo una terza forma di ABC, ispirata alla cosiddetta terza ondata del cognitivismo: l’ABC che potremmo definire “della scelta”.
Prendendo come riferimento gli approcci cognitivisti che si rifanno alla Relational Frame Theory (Hayes, 2001), che sostengono che non sia tanto il contenuto delle nostre credenze, pensieri o convinzioni a influenzare il disagio e la sofferenza, quanto l’atteggiamento che abbiamo nei confronti dei nostri pensieri, sia esso “agganciato, fuso” oppure “non incastrato, accettante e de-fuso” (Harris, 2011). In altre parole, non sono i pensieri e le emozioni in sé a farmi stare male, bensì il modo con cui li affronto. Se mi sento così agganciato ad uno stato mentale, tanto da considerarlo la realtà assoluta (“ho un pensiero di inadeguatezza” = “sono inadeguato”), questo mi fa stare male e io non ho “spazio mentale” per arricchire e seguire i miei obiettivi personali. Più lottiamo contro i nostri pensieri, più sprofondiamo insieme a loro nelle crisi e nella sofferenza emotiva. Quando invece impariamo ad accettare le nostre convinzioni, emozioni e sensazioni corporee per quello che sono e dirigiamo la maggior parte dei nostri sforzi verso i nostri valori personali, i nostri scopi e obiettivi di vita (piccoli e grandi che siano…), bene questo ci permette di trovare soluzioni più efficaci e funzionali.
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Non tutti sono d’accordo con questa ipotesi teorica (e di teoria della tecnica), e una discussione critica andrebbe al di là delle intenzioni dell’articolo, ma non al di là dell’obiettivo dei commenti sotto l’articolo… quindi, amici lettori, apriamo la discussione!
Con questa premessa, un terzo tipo di ABC potrebbe prendere la seguente forma:
nella colonna delle A vengono inseriti gli “antecedents” (gli antecedenti), ovvero situazioni, episodi ma anche stati emotivi situazionali (come, ad es, “sto provando ansia”);
nella colonna centrale dei B vengono inseriti i “beliefs” (le credenze), pensieri (più o meno automatici) le emozioni (“cosa provo”) e le sensazioni comporee;
la colonna finale dei C, si trasforma in choices (scelte), cioè cosa posso fare per raggiungere il mio scopo personale nonostante e accettando di avere quei pensieri, quelle emozioni e quelle sensazioni fisiche, cioè nonostante “quel narratore insistente” che è la mia mente e che racconta al posto mio. Una seconda forma di C potrebbe essere questa: “in che modo e cosa questi B mi impediscono di raggiungere, rispetto ai miei obiettivi e valori personali?”
Per concludere, credo che il modo più funzionale e utile per sfruttare le potenzialità della tecnica ABC nelle sue tre diverse forme con il paziente sia tenere a mente la complessità e l’integrazione e quindi di utilizzare l’ABC in base alle esigenze cliniche e alle caratteristiche della persona che abbiamo di fronte. Dal mio punto di vista, le tre forme di ABC qui descritte possono essere molto utili per i pazienti, e questa costatazione, al di là dell’orientamento o del “movimento” da cui nascono, rappresenta spesso la bussola migliore.
BIBLIOGRAFIA:
Baldini F. (2004). Homework: un’antologia di prescrizioni terapeutiche. McGraw Hill: Milano.
Hayes, S. (2001). Relational Frame Theory. Springer: New York.
Psicologia e Alimentazione: Acidi Grassi Trans associati ad Irritabilità e Aggressività.
– Rassegna Stampa –
Psicologia e Alimentazione: nuove ricerche correlano l’assunzione di acidi grassi trans con comportamenti aggressivi e irritabilità.
un nuovo studio condotto dai ricercatori della University of California, San Diego School of Medicine mette ancora una volta sotto accusa l’effetto dell’assunzione di acidi grassi trans (dTFAs ) e gli attribuisce importanti conseguenze a livello dell’umore e del comportamento. Gli acidi grassi trans sono principalmente il prodotto del processo di idrogenazione, che serve a dare consistenza e solidità a temperatura ambiente agli oli insaturi; oli e grassi così idrogenati vengono quindi abbondantemente impiegati nella preparazione di margarine, snack dolci e in molti prodotti spalmabili comunemente in commercio. Gli effetti negativi dei dTFAs sulla salute sono già stati ampiamente evidenziati, a carico del sistema cardiovascolare, nella risposta insulinica e nei processi metabolici, ossidativi e infiammatori.
La ricerca in questione, che ha coinvolto quasi 1000 persone tra uomini e donne, fornisce invece la prima evidenza empirica che collega i dTFAs a comportamenti negativi verso terzi, che vanno dall’irritabilità alla franca aggressione. La squadra di UC San Diego per analizzare il rapporto tra dTFAs e irritabilità-aggressività ha raccolto informazioni sulla dieta di base dei partecipanti allo studio e ha incrociato i dati con quelli derivanti da un indagine comportamentale in cui sono state raccolte informazioni sulla storia di vita “di aggressività”, le modalità individuali di conflitto e auto-valutazioni sulla propria impazienza e irritabilità, così come è stata somministrata una scala che misurasse i comportamenti apertamente aggressivi attuati recentemente; altri dati come il sesso, l’età, il livello di istruzione, e l’uso di alcool o tabacco sono stati considerati. Gli acidi grassi trans non solo sono risultati significativamente associati con maggiore aggressività, ma addirittura si sono dimostrati i migliori predittori di comportamenti aggressivi rispetto ad altri fattori considerati e già noti come predittori di comportamenti aggressivi. Beatrice Golomb, a capo della ricerca, raccomanda una volta di più di “evitare di mangiare grassi trans, e di escluderli dall’alimentazione delle istituzioni come scuole e carceri, dato che gli effetti nocivi dei grassi trans possono estendersi al di là la persona che li consuma e avere conseguenze negative anche verso gli altri”.