L’esercizio fisico influenza memoria e cognizione: il ruolo della genetica
– Rassegna Stampa –
L’attività fisica ossigena la mente? David Bucci, professore presso il Department of Psychological and Brain Sciences Dartmouth College (Hanover, NH, USA), tirando le somme degli studi da lui condotti, sottolinea che gli effetti dell’esercizio fisico sulla memoria e sul cervello sono differenti in funzione di uno specifico gene che medierebbe il grado con cui l’esercizio fisico può avere effetti benefici in termini mnestici e cognitivi.
Partendo da osservazioni puramente qualitative – senza finora alcun riscontro empirico- secondo cui tra i bambini con diagnosi di ADHD quelli più sportivi risultavano più responsivi ai trattamenti comportamentali rispetto a bambini sedantari, i ricercatori guidati da Bucci hanno formulato un progetto di ricerca con lo scopo di identificare la potenziale connessione tra esercizio fisico e funzioni cognitive. I risultati di una serie di studi che hanno costituito il progetto sono pubblicati da poco su Neuroscience.
Approfondendo i risultati secondo cui nei topi di laboratorio l’esercizio fisico riduceva i comportamenti legati a ADHD, il gruppo di ricerca ha identificato il meccanismo traverso cui l’attività fisica sembrerebbe avere un effetto benefico su apprendimento e memoria, e cioè un fattore genetico chiamato “brain derived neurotrophic factor” (BDNF) implicato anche nello sviluppo neurale: il grado di espressione di questo fattore correla positivamente con un miglioramento mnestico nei topi sottoposti a movimento fisico.
Negli esseri umani , il gruppo di ricercatori ha confermato simili risultati: in funzione del genotipo individuale per il fattore BDNF i soggetti beneficiano in modo differenziale degli effetti positivi dell’esercizio fisico sulla memoria e sull’apprendimento in un task di riconoscimento di un nuovo oggetto. E questo può significare che un diverso genotipo per lo specifico fattore in questione potrebbe essere responsabile di una diversa responsività dei bambini con ADHD ai trattamenti basati anche sull’esercizio fisico.
Riflessioni sulla Crisi della Psicoanalisi Contemporanea #1.
Le cinque piaghe di nostra madre Psicoanalisi:
Riflessioni sulla crisi della psicoanalisi contemporanea
Si dice che la psicoanalisi sia ormai vecchia. Il suo peso sociale è andato lentamente declinando negli ultimi decenni. L’istituzione che abbiamo amato tanto profondamente viene ora socialmente svalutata. Ogni bizzarra teoria pseudo-biologica della mente e della psicopatologia ottiene un’immediata ed acritica attenzione dei media mentre il lento ma fruttuoso lavoro della psicoanalisi è relegato nell’ombra.
Ognuno di noi (psicoanalisti) ha sentito almeno una volta il desiderio di proiettare sull’ostilità degli avversari la responsabilità di tale declino sociale, di accusare la sete di profitto delle multinazionali del farmaco, l’ideologia consumistica di una società materialista, la mancanza di scrupoli dei leader della psichiatria biologica, l’opportunismo degli accademici.
La critica dei vizi sociali ha impegnato gli intellettuali per secoli, anzi per millenni. Fin dalle reprimende di Solone ad Atene e di Catone a Roma, tale stile intellettuale si è dimostrato privo di qualsiasi impatto sulla concretezza del reale.
Articolo consigliato: Recensione di “La Svolta Relazionale” di Lingiardi, Amadei, Caviglia e De Bei.
Gesù Cristo ha detto: “Nulla di ciò ch’è fuori dall’uomo può renderlo impuro entrando in lui. E’ invece ciò che è nell’uomo che uscendo da lui lo rende impuro” (Marco 7.15). Una peculiarità del lavoro psicoanalitico è quella di ritenere che la consapevolezza di sé – in termini di bisogni, desideri, paure e struttura della propria identità – sia un potente strumento di cambiamento: possiamo capire la crisi della psicoanalisi solo puntando la nostra lente d’ingrandimento verso l’interno.
Proponiamo pertanto ai lettori di questo web journal una serie di brevi contributi sulla psicoanalisi – sia come istituzione sociale che come teoria della mente su cui tale istituzione si fonda – e cercheremo di chiarire le regioni della sua attuale debolezza.
In particole, presenteremo ed esamineremo 5 ferite che abbiamo potuto scoprire nel suo corpo sofferente. Speriamo che questa procedura forse un po’aggressiva, chirurgica, possa contribuire a salvare il corpo sofferente della nostra madre formativa ed intellettuale dal pericolo della dissoluzione finale, dell’irrilevanza sociale.
FURTHER READINGS
Nell’attesa dei prossimi capitoli l’autore vi suggerisce le seguenti letture sul tema:
The American Academy of Psychoanalysis is undergoing an identity crisis at this time, which is at least to a large extent a function of the whole current identity crisis in the field of psychoanalysis itself. In order to better understand this crisis, in this article I have first reviewed a similar situation which occurred in the history of classical Greece. Plato’s famous Academy underwent a progressive deterioration and disintegration and fragmentation, until it ended up merely the handmaiden of another discipline, Christian theology, for a thousand years. I then propose that the identity crisis in psychoanalysis today has to do with our failure of nerve in the teeth of the abusive behavior of insurance companies regarding the payment for psychoanalysis and the current cultural ambience demanding “fast-fast-fast” relief…LEGGI L’ABSTRACT
In this paper the author argues that the so-called crisis in psychoanalysis, often blamed on various external factors, is in fact an internal crisis brought about by intrinsic incongruities between the explicit intention of its educational model, which aspires to educate and train in a professional and scientific discipline, and its organisational structure, locally and internationally inextricable. Its isolated basic units of ecumenical control–its traditional ‘societies/institutes of psychoanalysis’–implicitly and explicitly co-impose the monastic transmission of a preponderantly doctrinaire education and clinical practice…LEGGI L’ABSTRACT
L’autore dell’articolo: Dr. Paolo Azzone
Relazioni Tossiche: un Rischio per la Salute come il Junk Food
“Mi fa del male, non mi dà quello che voglio, eppure non riesco a lasciarlo”, oppure “Ci ricasco sempre, mi cerco sempre relazioni in cui alla fine chi sta male sono io”, “I miei genitori mi hanno sempre lasciato da solo, però alla fine non era colpa loro, loro hanno sempre fatto tutto quello che potevano, in fondo erano sempre molto impegnati con il lavoro”.
Quante volte abbiamo sentito queste frasi pronunciate dai nostri pazienti, dai nostri amici e spesso anche dalle persone a noi care e quante volte noi stessi abbiamo sofferto a causa di relazioni andate male o in cui non ci sentivamo del tutto a nostro agio? Proviamo un attimo a fermarci qui e a pensare alla nostra esperienza. Come ci siamo sentiti in quella relazione che ci faceva così male ma dalla quale sembrava ancora più doloroso separarsi? Come stavamo quando da bambini avevamo paura e mamma e papà non c’erano? Come ci batteva il cuore in quelle situazioni e che cosa succedeva alla nostra testa?
Lettura consigliata: La Relazione di Coppia. Monografia a cura di Serena Mancioppi
Certamente la maggior parte di noi non costruisce costantemente relazioni patologiche, per cui queste situazioni, per quanto spiacevoli, vengono poi integrate come parte della propria vita e superate grazie alla costruzione di legami più solidi e funzionali. Proviamo però a pensare a chi, invece, continuamente vive circondato da relazioni tossiche. In una società dove la ricerca del cibo biologico alternativo, la cura del sé e l’attenzione meticolosa all’etichetta di ciò che compriamo al supermercato giocano un ruolo di primo piano per tutti coloro che tengono alla propria salute, molte persone non pensano che la qualità delle loro relazioni può essere tanto dannosa quanto i tanto proibiti fast food e l’ambiente inquinato.
Una ricerca longitudinale che ha seguito un campione di 10.000 uomini e donne per più di 12 anni, ha evidenziato che persone costantemente ingaggiate in relazioni negative presentavano un rischio maggiore di sviluppare problemi cardiaci rispetto a chi, invece, aveva stabilito relazioni nel complesso positive (De Vogli et al., 2007).
Durante tutta la durata dello studio, ai partecipanti è stato chiesto di completare alcuni questionari relativi agli aspetti negativi delle loro relazioni più importanti. Nell’analisi dei dati è stata poi utilizzata solo la relazione che i soggetti hanno messo al primo posto come la più intima. Le risposte sono così state suddivise in chi ha identificato la persona più vicina come il partner vs non-partner; successivamente, sono stati considerati vari aspetti della qualità della relazione descritta: confidenziale/supporto emotivo/supporto pratico. Accanto a questi dati sono state raccolte informazioni per misurare il rischio di malattia cardiaca: pressione arteriosa, diabete, obesità e livello di colesterolo, così come alcune variabili socio-economiche e di stile di vita dei partecipanti.
L’obiettivo dello studio è stato quello di valutare quanto una relazione intima negativa fosse correlata allo sviluppo di una patologia cardiaca. I risultati hanno confermato quanto ipotizzato dai ricercatori: le persone la cui relazione più intima veniva connotata negativamente presentavano fattori di rischio nettamente maggiori rispetto a chi, invece, aveva una relazione significativa positiva.
Sembra quindi che le relazioni, soprattutto se sono quelle più importanti per noi a essere valutate negativamente, possono essere altrettanto dannose per la nostra salute quanto il cibo o i fattori ambientali.
Certamente molti studi vanno ancora fatti in questa direzione, dato che le variabili in gioco sono molte le ipotesi difficili da dimostrare; non è infatti nuova, però, l’idea che un mondo interno caratterizzato da costante ansia, depressione o forte stress abbia delle conseguenze sul nostro organismo, fino allo sviluppo di vere e proprie patologie mediche.
La prossima settimana vedremo come riconoscere una relazione tossica e che cosa possiamo fare.
L’effetto dello Stress sugli uomini: comportamenti Pro-sociali
– Rassegna Stampa –
Un gruppo di ricercatori dell’Università di Friburgo (Germania) hanno indagato come gli uomini reagiscono a situazioni di forte stress presentando un ribaltamento di prospettiva in questo ambito. Di fronte a situazioni stressanti è dimostrato che gli esseri umani mostrano una risposta “fight-or-flight” altrimenti tradotta “risposta “attacco-o-fuga”.
Già dal 1990 alcuni studiosi hanno iniziato ad apportare dati secondo cui le donne presenterebbero una modalità di risposta alternativa allo stress e cioè “tend-and-befriend”: in altre parole, una reazione protettiva di cura e amichevolezza. Al contrario, finora si è continuato ad assumere che invece individui di genere maschile fossero portati a diventare aggressivi in condizioni di stress. Nello studio di von Dawans e colleghi è stato indagato sperimentalmente il comportamento sociale di individui di genere maschile sotto stress.
Per indurre sperimentalmente una condizione di stress i ricercatori hanno utilizzato una procedura standardizzata implicante un compito di public speaking all’interno di specifici giochi di interazione sociale. Questi dispositivi ludici sono stati progettati per la misurazione dei comportamenti sociali positivi (ad esempio di fiducia e condivisione) e negativi (ad esempio comportamenti punitivi e aggressivi). Dallo studio emerge che i soggetti maschili sotto stress mostravano comportamenti sociali significativamente più positivi rispetto al gruppo di controllo. D’altro canto i comportamenti sociali a carattere negativo non erano influenzati dalla condizione di stress.
Guardando ai risultati sembrerebbe dunque che anche gli uomini, da sempre considerati più tesi all’attacco in situazioni stressanti, mettano in atto una strategia per far fronte allo stress basata sull’attivazione di comportamenti prosociali e promotori dell’affinità relazionale.
La malattia terminale, il Personale Medico e la Cura della relazione
“Anche se il nostro è un mondo che spinge a credere che gli strumenti siano “esterni” e rappresentati da metodi e nozioni, scoprire che il primo strumento siamo noi e le nostre risorse reca il sollievo che deriva dal fatto che non ne saremo mai privi” (Zarri, 2008).
Leggendo il libro “La cura della relazione in oncologia pediatrica”, pur non trovandomi nella medesima situazione mi accorgevo che mi stava accompagnando, pagina dopo pagina, verso un annunciato e inevitabile epilogo.
Vorrei soffermarmi sul concetto di “cura della relazione”, mi sono accorta che l’esperienza della malattia è un evento che minaccia gli individui nell’integrità della loro esistenza individuale e relazionale. Ammalarsi e scoprirsi bisognosi di cure è certamente un’esperienza psicologica, ma è anche senza dubbio, un’esperienza relazionale capace di generare notevoli livelli di ansiaepaura.
Tali sentimenti tuttavia, non vengono attivati solo nel paziente, ma anche in coloro che si prendono cura di lui e quindi ne sono travolti, in misura diversa, anche i medici, il personale ospedaliero e soprattutto i familiari.
Di fronte alla malattia, oltre ad una reazione somatica, gli individui infatti mostrano anche una reazione psichica che esprimono attraverso la messa in atto di meccanismi di difesa volti ad attenuare l’angoscia. Tali meccanismi di difesa, tuttavia, modificheranno inevitabilmente la relazione con se stessi e con gli altri.
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Nella mia personale esperienza, mi sono resa conto che l’angoscia di morte evocata dalla situazione patologica, il senso di frustrazione che spesso ci assaliva nell’assistere il malato e la fatica fisica ed emotiva a cui eravamo costantemente soggetti, hanno suscitato in me e nella mia famiglia intense risposte difensive.
Credo dunque che, nel considerare le relazioni tra medico e paziente e tra paziente e familiari, non ci si debba fermare ad osservare solo l’assetto difensivo del paziente.
I meccanismi di difesa sono parte integrante del funzionamento psichico umano e di conseguenza, riguardano chiunque; le difese utilizzate dal medico, in fondo sono le stesse che impiegano i pazienti, anche se in tempi e modi differenti e come ogni altro aspetto del funzionamento della personalità, sono inscindibili dai processi di influenza relazionale e di mutua regolazione.
Giuseppe si ammalò di tumore ormai sei anni fa, la diagnosi fu tumore al colon e da quel giorno la quotidianità della mia famiglia inevitabilmente cambiò. Giuseppe è stato curato presso un Istituto di Ricovero e Cura a Carattere Scientifico, ma spesso si è trovato a dover affrontare interventi ed esami di varia natura presso altre strutture ospedaliere di Milano, riferisco tra le altre, l’Istituto Clinico Humanitas e l’Istituto Oncologico Europeo.
A tal proposito vorrei evidenziare la differenza tra il punto di vista presentato da Allison Hall in “La cura della relazione in oncologia pediatrica” e quello di Isabel E.P. Menzies circa i metodi adottati dal personale infermieristico di un ospedale londinese, nello svolgimento del loro lavoro.
Isabel Menzies prese parte ad uno studio all’interno di una serie di ricerche del Tavistock Institute of Human Relations, commissionato da un ospedale generale con funzioni di insegnamento universitario, al fine di suggerire nuovi metodi nello svolgimento del lavoro del personale infermieristico. La Menzies evidenzia come nello sviluppare un determinato modo di funzionare, le organizzazioni sociali spesso diano rilievo al compito primario e alle tecnologie per svolgere tale compito sottovalutando i bisogni di gratificazione sociale, psicologica e di sostegno manifestati dai membri dell’organizzazione. Il bisogno che i membri hanno di usare l’organizzazione nella lotta contro l’ansia porta allo sviluppo di meccanismi di difesa socialmente strutturati che appaiono come elementi del modo di funzionare dell’organizzazione stessa.
Questo sistema sociale di difesa dovrebbe preservare il personale ospedaliero, tuttavia dai primi colloqui che l’autrice ebbe con le infermiere, emerse ben presto, il loro alto grado di tensione, disagio e ansia.
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Il lavoro dell’infermiera, come quello dell’intera equipe medica, molto spesso richiede di affrontare lo stress psicologico altrui, pazienti e familiari mostrano infatti sentimenti ambivalenti nei confronti degli ospedali e sovente li manifestano nei confronti del personale ospedaliero, suscitando in questi ultimi forti sentimenti di angoscia. Personalmente credo siano poche le difese istituzionali realmente in grado di aiutare a dissipare l’ansia; esistono difese, definite dalla letteratura psicoanalitica, mature, le quali a mio parere possono rivelarsi più efficaci in questo senso.
Credo sia giusto sviluppare un adeguato distacco professionale per salvaguardare medici e infermieri da un eccessivo coinvolgimento sentimentale, tuttavia quando queste persone si riducono ad essere un insieme di abilità senza individualità, penso che la stima in loro stessi e per la loro professione, a lungo andare, venga meno.
Ridurre al minimo il contatto con il paziente e con la sua malattia fino alla totale eliminazione delle sue caratteristiche individuali forse gioverà all’infermiere o al medico nel momento in cui dovranno praticare loro un intervento invasivo o doloroso, ma quando il loro turno di lavoro sarà finito, sentiranno davvero di aver aiutato una persona o semplicemente di aver svolto correttamente le loro mansioni lavorative al pari di un qualunque impiegato?
Quando la relazione viene usata in maniera consapevole e intenzionale da parte di operatori attenti e preparati, si dimostra potenzialmente curativa sia per il paziente che per il personale ospedaliero. Questa è la sintesi dell’opposto contributo offerto da Allison Hall riguardo al ruolo delle infermiere.
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La Hall ha svolto un master universitario in abilità terapeutiche nel lavoro con bambini e adolescenti, presso lo Scottish Institute of Human Relations. L’autrice sottolinea la natura traumatica del loro lavoro e il loro bisogno di sostegno e individua nella somministrazione di trattamenti invasivi e nell’assistenza al paziente, i due compiti principali di ogni infermiere, intendendo per assistenza, sia quella sanitaria, sia quella che fornisce cure necessarie alla sopravvivenza.
Fortunatamente la mia famiglia ha potuto godere di un simile trattamento. Giuseppe, come accennato precedentemente, è stato periodicamente ricoverato in diverse strutture, nelle quali avvertiva sistematicamente un certo disagio, si sentiva al sicuro solo tra l’equipe ospedaliera dell’Istituto di riferimento.
Il personale infermieristico, pur lavorando su turni, tendenzialmente era sempre lo stesso, così come anche gli operatori socio sanitari, entrambi conoscono e chiamano i pazienti con il loro nome proprio e insieme ai dottori danno ai pazienti rigorosamente del tu. Medici e personale dell’intero reparto di oncologia hanno sempre un sorriso per tutte le persone ricoverate, gli infermieri sono disponibili al dialogo e si interessano alla salute e all’umore dei pazienti.
In giugno, quando ormai era in fase terminale, i medici optarono per un ricovero domiciliare. Il ricovero domiciliare è differente dalla semplice assistenza domiciliare, il malato è ufficialmente un paziente dell’ospedale ma non è ricoverato in reparto. Tale servizio viene effettuato all’interno della circoscrizione territoriale di competenza dell’ospedale e prevede la visita domiciliare del medico curante tre volte a settimana, la visita domiciliare di un infermiere, sempre lo stesso, a giorni alterni e la reperibilità di entrambi 24 ore su 24.
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I medici sono stati estremamente onesti, non hanno mai parlato di morte in termini effettivi, ma non ci hanno mai lasciato l’illusione che potesse finire diversamente, pensandoci a posteriori ora so che molto probabilmente loro sapevano giorno dopo giorno cosa sarebbe successo, conoscevano perfettamente il decorso della malattia, era per noi una novità, ma non per loro.
Inizialmente continuò con la sua solita terapia, ma ben presto cominciò la cosiddetta terapia del dolore. Credo che in fondo l’unica cosa che abbiamo potuto fare per lui è stata proprio quella di aiutarlo ad affrontare la morte nella maniera più dignitosa possibile. Giuseppe faceva un uso così massiccio della negazione al punto di non avere mai chiamato la malattia con il suo vero nome. A seguito del ricovero domiciliare, negli ultimi due mesi era spesso triste con un’aria pensierosa, a volte sembrava rassegnato, mentre a volte era pieno di entusiasmo e progetti per il futuro. Io e la mia famiglia vivevamo il suo entusiasmo per il futuro con un senso di estrema frustrazione.
Il tumore negli ultimi mesi si era esteso alla mascella e per tale motivo i medici hanno vagliato l’ipotesi di un’eventuale operazione, ma dopo una serie di accertamenti hanno scartato questa ipotesi optando per una radioterapia che potesse in qualche modo “tamponare” la situazione. La lista d’attesa era piuttosto lunga e nel frattempo la sua condizione di salute peggiorava, ma la sua fiducia in questo nuovo trattamento gli consentiva di non arrendersi.
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Quando arrivò il giorno in cui dovette iniziare la radioterapia, pur avendoci comunicato che non sarebbe servita a nulla, i medici gli hanno ugualmente permesso di farla e lo hanno sostenuto emotivamente durante il corso del trattamento. Tale trattamento lo ha costretto a recarsi in ospedale tutti i giorni per dieci giorni e di conseguenza ad uscire di casa, a lavarsi, vestirsi e impiegare del tempo diversamente e questo lo faceva sentire un po’ meno malato. Diceva di stare bene, nonostante gli effetti collaterali e i tremendi dolori che era costretto a dover sedare, era talmente convincente che anche i dottori si stupivano della sua forza e del suo aggrapparsi al quel poco di vita che rimaneva.
Dico “quel poco di vita che rimaneva”, perché sapeva di avere poco tempo. Parlava molto con me e spesso accennava alla sua morte imminente. Non sono stata un “buon contenitore”, l’argomento mi terrorizzava, ma nonostante ciò non ignoravo i suoi tentativi. Una sera, mentre fumavamo una sigaretta in balcone mi disse: “Divertiti. Divertiti più che puoi, perché la vita è adesso” e aggiunse subito dopo: “mentre la vecchiaia è una carogna!” , credo che quello fu uno dei suoi tanti tentativi di comunicare la sua consapevolezza; gli risposi: “Non ti preoccupare, lo sai che so divertirmi, guarda che buon esempio che ho!” alludendo a lui. Rise, mi mise una mano sul ginocchio e mi disse soddisfatto che non rimpiangeva nulla di ciò che aveva fatto nella vita e accennò brevemente qualche episodio come se volesse fare un sunto della sua esistenza.
Morì la settimana successiva, con la moglie e le sue due figlie accanto, le chiamò e assicuratosi che fossero li con lui, si abbandonò alla morte.
L’onestà e l’umanità mostrata dall’equipe medica hanno dato a me e agli altri membri della mia famiglia l’opportunità di ritagliare per ognuno di noi dei momenti unici da vivere con lui. Tale atteggiamento da parte dei medici non ha aiutato solamente lui, ma è servito anche a noi affinché prendessimo coscienza pian piano di ciò che stava per accadere.
Sono grata all’ospedale e ai dottori per la sensibilità mostrata, credo che una difesa come la spersonificazione, citata tra le altre dalla Menzies, possa risultare per i familiari tremendamente irritante. E’ orribile percepire che la morte di una persona amata, è per coloro che la curano, la morte di un numero. L’interesse da parte del medico per la totalità della persona e per i suoi aspetti vitali, oltre a quelli legati alla malattia, infonde nel malato e nei parenti un maggiore senso di fiducia nelle abilità del dottore e una maggiore autostima per averlo scelto.
Come la Percezione dello Sguardo altrui cambia il nostro Comportamento
Leggendo “Il Signore Degli Anelli” tutti ci siamo chiesti “Ma veramente il grande nemico è un occhio gigante?” Ebbene sì. Uno sguardo può essere più severo di mille parole. Ma oggi sappiamo che anche un simulacro di sguardo umano basta per farci rigare dritto!
Da piccoli siete mai stati fulminati con lo sguardo dalla mamma mentre stavate compiendo qualche marachella? Improvvisamente il corpo si irrigidisce, un non ben definito senso di imbarazzo pervade il corpo e in pochi istanti cessiamo di fare quello che stavamo facendo. Tutti quanti siamo più inclini a violare le regole quando non siamo osservai. Chi non ha mai giocato al famoso suona e scappa quando nessuno lo poteva vedere? Thomas Jefferson probabilmente aveva in mente una situazione simile quando scrisse “Quando fai qualcosa, agisci come se tutto il mondo ti stesse guardando” (Van der Linden, 2011).
Se tutti più o meno conosciamo già questo potere dello sguardo degli altri, oggi, grazie a una ricerca condotta dal gruppo di ricercatori dell’Università di Newcastle, sappiamo che per farci sentire come se tutto il mondo ci stesse guardando e farci così cambiare in meglio il nostro comportamento basta l’immagine di due occhi che ci fissano su un manifesto (Ernest-Jones & al. 2011).
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Il gruppo di ricerca ha condotto questo esperimento grazie all’aiuto inconsapevole dei colleghi, dei quali per 32 giorni consecutivi hanno registrato i “comportamenti di pulizia”, ovvero riportare il vassoio sporco nell’apposito carrello, mentre erano alla mensa principale dell’Università. Per poter determinare l’effetto degli occhi sul comportamento i ricercatori hanno affisso a giorni alterni al livello degli occhi dei commensali differenti manifesti, con o senza una scritta corrispondente, raffiguranti volti femminili o maschili, oppure raffiguranti cose diverse come un mazzo di fiori. Dall’esperimento è emerso che quando sulle pareti c’erano manifesti raffiguranti occhi, rispetto a fiori, il doppio delle persone puliva il tavolo al termine del pasto. Inoltre è emerso che, quando nella mensa c’erano poche persone, tale effetto era indipendente dalla presenza o meno sul poster di un messaggio esplicito di pulizia, suggerendo che forse le istruzioni verbali possono aumentare comportamenti di cooperazione solo in contesti affollati.
L’esperimento di Ernest-Jones e colleghi si inserisce in una lunga tradizione di studi svolti in laboratorio volti ad indagare e stimolare la cooperazione fra gli esseri umani. Già negli anni settanta Robyn Dawes e colleghi hanno dimostrato come la presenza di altre persone in una stanza tende ad avere un effetto positivo (in senso altruistico) su soggetti che dovevano risolvere un dilemma di natura sociale (Reid, K.H. & Dawes, M.R. 2001).
Più recentemente Ekström ha pubblicato un interessante lavoro su una rivista di economia dimostrando nuovamente il potere degli “occhi disegnati” anche fuori dal laboratorio. Infatti ha condotto uno studio in un supermercato Svedese per vedere se una semplice immagine di occhi fosse in grado di influenzare la generosità dei clienti alle prese con comune problem solving (Ekström; 2011). In Svezia, come negli USA, tutti coloro che riciclano lattine e bottiglie portandole nelle “macchine per il riciclo” dei centri commerciali, ricevono un compenso in denaro. Solitamente accanto a queste macchine ci sono delle scatole che invitano a lasciare una donazione in favore di organizzazioni caritatevoli. Per condurre l’esperimento Ekström, ha posizionato sulle macchine di 38 supermercati per 12 giorni consecutivi delle immagini di occhi umani, valutando così le scelte fatte da ben 16775 persone. Dall’analisi dei dati non è emerso un effetto generale dell’immagine, tuttavia correlando i dati con il giorno di raccolta dei dati è emerso un aumento del 30% nelle donazioni nei giorni in cui l’affluenza di persone al supermercato era minore.
Articolo consigliato: “La felicità è negli occhi di chi guarda”
Questi risultati mostrano chiaramente come sottili stimoli sociali, social cues, sono in grado di indurre comportamenti positivi nelle persone, tuttavia la potenza di questi stimoli cambia molto in base al contesto e soprattutto tende a essere nulla in presenza di stimoli sociali più forti.
Questi innovativi esperimenti hanno permesso di scoprire che il naturale sistema di rilevamento degli sguardi, congenito in tutti noi e nato soprattutto per individuare i nemici in agguato, può essere attivato anche da un “simulacro” di occhi umani (Van der Linden, 2011). Interessante scoperta se ci pensiamo: invece di appendere cartelli con la scritta “vietato calpestare l’erba” o “non scrivere sui muri” si potrebbero semplicemente apporre tante foto di occhi accigliati che fulminano tutti i trasgressori…proprio come faceva la mamma!
Marketing & Psicologia: Pubblicità tarate sui tratti di Personalità.
– Rassegna Stampa –
I pubblicitari investono una gran quota di energie per focalizzare le campagne pubblicitarie su specifici target demografici. Ad ogni modo, è evidente che all’interno di ciascuna categoria demografica esistano differenze individuali che possono influire su atteggiamenti e comportamenti di consumo. Un nuovo studio pubblicato su Psychological Science evidenzia come le operazioni di marketing possano essere di gran lunga più efficaci se targettizzate su specifici profili di personalità dei potenziali consumatori.
I ricercatori hanno reclutato 324 individui e hanno costruito ad hoc 5 tipologie di pubblicità di un telefono cellulare, ognuna delle quali pensata in funzione di uno dei 5 maggiori tratti della personalità secondo il modello del Big Five: estroversione, amicalità, coscenziosità, stabilità emotiva e apertura all’esperienza.
Le pubblicità contenevano una foto di un cellulare con a fianco un breve paragrafo di testo progettato in funzione di ciascun tratto di personalità: ad esempio, il messaggio studiato per soggetti con bassa stabilità emotiva, puntava su qualcosa come: “Stai tranquillo e al sicuro con il tuo Xphone“.
Articolo consigliato: Fare acquisti usando il cervello: Neuromarketing, by Martin Lindstrom
Ai partecipanti è stato in seguito chiesto di valutare l’efficacia della pubblicità loro presentata con domande self-report quali “ho trovato la pubblicità persuasiva” o “Comprerei il prodotto dopo aver visto questa pubblicità”.
I dati confermano l’ipotesti di partenza: le pubblicità vengono percepite come più persuasive ed efficaci nel momento in cui sono coerenti con il tratto di personalità rilevante; anche se il prodotto presentato è lo stesso, il suo valore soggettivo cambia in modo significativo in funzione della corrispondenza tra messaggio testuale e il tratto di personalità del potenziale fruitore.
La ricerca ha ampie implicazioni per lo sviluppo di strategie pubblicitarie e comunicative basate su messaggi targettizzati su differenze individuali di personalità. Oltre alla pubblicizzazione di prodotti, la riflessione può essere utile anche ai fini delle strategie di diffusione e promozione di consapevolezza negli ambiti più svariati, dalla salute alla responsabilità ambientale e civica.
Uno degli elementi più difficili da gestire in terapia sono i Cicli interpersonali attivati dai pazienti. Questa difficoltà aumenta significativamente durante il trattamento di pazienti con disturbi di personalità e saper trasformare i cicli interpersonali del paziente in una risorsa utile alla terapia è particolarmente importante, ma non sempre semplice. Ne abbiamo parlato con il prof. Dimaggio nel corso dell’ultima parte dell’intervista:
(State of Mind) Cicli interpersonali vs. schemi interpersonali. Quanto è importante secondo lei dividere gli interventi basati sugli schemi interpersonali da quelli sui cicli interpersonali?
(Dimaggio) Questo è un argomento a me carissimo. Probabilmente il problema è il risultato di un difetto del libro “I disturbi di personalità. Modelli e trattamento”, lo dico con fare autocritico. Non sono in grado di dire se dipende dal modo in cui il libro è stato scritto o da come è stato letto Certo è che ho notato come molti allievi che hanno studiato il libro, a partire da lì tendevano ad intervenire direttamente sui cicli interpersonali. Intendiamoci: il concetto di ciclo interpersonale è preziosissimo. Una dimensione centrale nella TMI è la costante attenzione, modulazione, monitoraggio e metacomunicazione sulla relazione terapeutica. Ovvero tutto quello che facciamo avviene costantemente con un terapeuta immerso nella riflessione sulla relazione terapeutica, sentendosi parte in causa, co-costruttore di un mondo relazionale, però capace di monitorare quello che accade e di uscire dal ciclo interpersonale per generare un funzionamento migliore.
Articolo consigliato: Intervista con il Prof. Dimaggio – #1 La Terapia Metacognitivo-Interpersonale
Quindi “ciclo interpersonale” è un costrutto di enorme utilità e tuttavia nelle prime parti della terapia metto in guardia i terapeuti in formazione dall’utilizzarlo per spiegare al paziente il suo malfunzionamento. Il ciclo interpersonale deve servire al terapeuta per capire il processo che avviene in seduta. Ovvero: “In che modo io sto contribuendo con il paziente a potenziare modalità relazionali disfunzionali attive nel qui ed ora della relazione terapeutica”. Questo soprattutto facendo attenzione al contributo del terapeuta nel peggiorare o mantenere le cose, assumendo ovviamente che il peso della psicopatologia nel determinare il ciclo è enorme.
Quando il focus si sposta invece sulla mente del paziente, ragionare in termini di ciclo interpersonale, come ho visto fare a tantissimi mie allievi o allievi di colleghi, secondo me rischia di diventare iatrogeno, soprattutto se fatto prematuramente. Questo perché si tratta sostanzialmente di dire al paziente che contribuisce a causare i problemi di cui soffre. Questo genera colpevolizzazione, perché è come dire al paziente: “Te la vai a cercare”, facendo sentire il paziente giudicato. Interventi del genere frequentemente generano un potenziamento dell’immagine negativa di sé, che a sua volta può generare depressione o ostilità. Il terapeuta viene così facilmente costruito come un giudice critico, dominante, ostile, e via dicendo, per cui penso che bisognerebbe davvero evitare, per lunghe fasi di trattamento, di far notare al paziente che in qualche modo la sofferenza è generata – in parte – dalle reazioni che il paziente stesso elicita negli altri.
Mentre invece un intervento molto più importante che, per quanto modellizziamo, andrebbe fatto rigorosamente prima dell’interpretazione del ciclo, è quello di aiutare il paziente a capire che soffre a causa di schemi. Ovvero non di ciò che fa fare agli altri o di ciò che altri gli fanno, ma di come legge le cose.
Quando il paziente è stabilmente consapevole di essere guidato da schemi, per esempio che soffre così tanto non per aver costretto il partner ad abbandonarlo, ma per avere uno schema cronico di abbandono; oppure non perché si sente ostracizzato o sfidato dai colleghi perché lui per primo li sfida, ma perché ha un tema cronico di percezione degli altri come ostili e dominanti, bene, solo a quel punto si può cominciare a suggerire: “Guardi, a partire da questo tema di vita – e noi vogliamo che lei se ne liberi per vivere una vita più leggera, realizzata e più in linea con i suoi piani – le azioni che lei compie possono evocare negli altri reazioni che le provocano dolore”.
Interventi di questo tipo però vengono fatti in fasi molto avanzate del trattamento, quando il paziente sa già che soffre per il modo in cui percepisce gli altri, e cosa ancora più importante il paziente ha avuto accesso a modalità sane e alternative di esperienza. Detto in termini semplici: “Guardi, vede come quando riesce a contattare questi aspetti sta meglio, funziona meglio e gli altri rispondo diversamente. Ora capiamo che quando invece si comportava nei modi usuali, gli altri non le rispondevano in maniera altrettanto felice”. È un intervento che si rivolge ad un paziente che ha già un’identità, in parte, nuova e più sana, un punto di vista più limpido dal quale poter osservare le sue disfunzioni.
(State of Mind) Qual è la probabilità, il rischio, che anche usando questa tecnica il paziente si colpevolizzi?
Allora, direi che non è un rischio, ma piuttosto una cosa che accade spesso. In un certo senso è un effetto previsto dell’intervento quando si mostra al paziente che nel suo mondo interno c’è uno schema che non va. Diciamo che è inevitabile. Quello invece che cerchiamo di fare è un intervento a due livelli. Intanto la formulazione dello schema, questa è una cosa sulla quale insisto moltissimo, non va fatta dal vertice della patologia. Cioè: “Lei ha una cosa disfunzionale”. Al contrario, io parto sempre dall’accesso al desiderio: “Lei desidera realizzare quello, si aspetta che gli altri reagiscano così e a causa di questo tende a cadere. La terapia tenta di darle una luce nuova nella vita”. Essenzialmente la riformulazione la faccio così. Questo già di suo dà speranza, è progettuale, proattivo, rinforza l’agency e quindi genera un’attitudine positiva verso la terapia.
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Già il modo in cui viene riformulato lo schema non è “Lei soffre, ha una tendenza a…”, ma “I suoi desideri sono ostacolati dalla percezione che… che bello sarebbe trovare delle strategie per liberarsi da queste aspettative negative per poter realizzare i propri obiettivi di vita”. È tutta un’altra cosa e un terapeuta TMI esperto, dopo tanto allenamento e osservazione, un intervento di questo tipo, con pazienti a discreto funzionamento metacognitivo, può farlo addirittura in una sola seduta.
Tuttavia in ogni caso parallelamente anche il terapeuta più bravo, sensibile ed esperto sta veicolando inevitabilmente un messaggio che rinforza gli schemi negativi del paziente. Con i disturbi di personalità di fatto accade sempre. Quello che dico sempre scherzando a lezione è: con i disturbi di Asse I fai la cosa giusta e il paziente migliora, con i disturbi di Asse II fai la cosa giusta e il paziente ti sta male da un’altra parte.
Allora quello che si fa, e questa è la componente relazionale, è monitorare costantemente la risposta del paziente e il significato che l’intervento ha a livello relazionale e a quel punto si interviene su quello. Per esempio, tornando all’esempio di prima, il paziente si sente giudicato, il terapeuta nota un segno di intristimento, abbattimento o autocritica e subito chiede: “Scusi, come sta prendendo quello che le ho detto?”. Il paziente potrebbe rispondere: “Guardi, c’è proprio qualcosa di sbagliato dentro di me!”. A quel punto l’intervento è su due livelli: “Sente che io la sto giudicando per quello che ho detto? Ha percepito una nota critica nei suoi confronti?”. Successivamente si può fare uno svelamento “Io in realtà provo l’opposto, provo il desiderio di vederla libero da…”. Oppure si va a lavorare sullo schema attivo nel transfert:
“Caspita che bello, anche qui cercando di capire come uscire dal suo malessere, vede che si è attivata la sua tendenza a giudicarsi e sentirsi giudicato negativamente? La sua valutazione negativa del mondo è difficile che riesca a generarle una speranza, perché subito prende ogni informazione su di sé come prova del suo scarso valore personale. Accidenti, quanto la convinzione di non valere niente è forte dentro di lei! E veramente sarà importante che riusciamo io e lei a lavorare per riuscire a farla stare meglio”.
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Per cui si va a lavorare subito sullo schema attivo nella relazione. Lo schema, quindi, si attiva negativamente a causa dell’intervento del terapeuta, ma diventa subito l’oggetto della riflessione. Il terapeuta MIT è allenato ad essere prontissimo a questo tipo di eventi relazionali.
Importante è che la correttezza dell’intervento non si misura tanto da quanto l’intervento, la riformulazione, fosse teoricamente e tecnicamente corretta.La la bravura del terapeuta in un certo senso, almeno per come la pensiamo noi, è nel monitorare il feedback del paziente all’intervento.
L’intervento funziona quando il paziente da un feedback positivo e il terapeuta è bravo quando si accorge rapidamente del feedback negativo e lavora per correggerlo. Questo è quello che facciamo.
(State of Mind) Un’ultima domanda per gli amanti degli spoiler: sta lavorando ad un nuovo libro che ha definito essere un passo in avanti rispetto a “I disturbi di personalità. Modelli e trattamento”. Ci può dare qualche anticipazione?
Questo miglioramento/passo in avanti in qualche modo è già stato messo per iscritto in una serie di articoli o capitoli di libro. Per esempio nei capitoli sul trattamento che sono presenti nel libro che ho curato con Paul Lysaker, “Metacognizione e Psicopatologia” (Dimaggio, G.; Lysaker, P. 2011). Poi ho accennato a questi concetti in un articolo che ho scritto con i miei colleghi per il Journal of Personality Disorders (Dimaggio et al. 2012) proprio sulle procedure decisionali, articolo apparso in un numero speciale sul trattamento integrato dei disturbi di personalità, e in vari altri scritti pubblicati su diverse riviste internazionali.
Quello che sto facendo adesso, soprattutto con i colleghi del nuovo Centro di Terapia Metacognitiva Interpersonale, Raffaele Popolo, Giampaolo Salvatore è formalizzare ulteriormente tali procedure in un libro sul trattamento integrato per i disturbi di personalità che sto curando con John Livesley e John Clarkin. Mentre invece in italiano stiamo provvedendo a manualizzare gli ultimi sviluppi della TMI e questo lo stiamo facendo sempre con il contributo di Raffaele Popolo, Giampaolo Salvatore e Antonella Montano. Quest’ultima ci sta dando una grande mano nel rendere i concetti chiari e iper-formalizzare il trattamento. Quindi sì, diciamo che siamo in pieni lavori in corso e speriamo che venga fuori un miglioramento rispetto al lavoro del libro sui disturbi di personalità di cui parlavamo prima. Anche perché comunque ci collochiamo in un ambito scientifico, almeno quello che proviamo a fare, per cui un’idea terapeutica sviluppata circa dieci anni fa è plausibile che si sia evoluta. È per questo che continuiamo continuamente a riflettere e capire quello che facciamo per poter raffinare sempre più il modello.Per esempio il mio collega Raffaele Popolo porterà degli esempi alla SITCC anche con Giovanni Ruggiero, al fine di di descrivere delle procedure iterative per trattare proprio i sintomi nel contesto dei disturbi di personalità. La domanda non più semplicemente; “Si cura prima l’asse I o l’asse II?”, ma piuttosto “Come si cura un disturbo di Assi I nel contesto di un disturbo di personalità?”. Come si tratta, per esempio, un disturbo ossessivo compulsivo in un paziente che ha un disturbo evitante di personalità; come si tratta invece se il paziente ha un disturbo dipendente e tratti passivo aggressivi. Stiamo cercando di creare procedure proprio in questo senso e probabilmente nel nuovo libro riusciremo a dare un po’ conto di alcuni di questi sviluppi.
Dimaggio, G., Semerari A. (2003) I disturbi di personalità. Modelli e trattamento. Stati mentali, metarappresnetazione, cicli interpersonali. Ed. Laterza
Dimaggio G, Salvatore, G., Fiore, D., Carcione, A., Nicolò, G. & Semerari, A. (2012). General principles for treating the overconstricted personality disorder. Toward operationalizing technique. Journal of Personality Disorders, 26, 63-83.
Cinema – Antonioni e l’Incomunicabilità: alla ricerca di un senso.
Michelangelo Antonioni
“Quando tu, Antonioni, dichiari in un’intervista con Godard: ‘Provo il bisogno di esprimere la realtà in termini che non siano affatto realistici’, tu testimoni una corretta percezione del senso: non lo imponi, ma non lo abolisci. Tale dialettica conferisce ai tuoi film una grande sottigliezza: la tua arte consiste nel lasciare la strada del senso sempre aperta, e come indecisa, per scrupolo. E’ proprio in questo che tu assolvi il compito dell’artista di cui il nostro tempo ha bisogno: né dogmatico, né insignificante”.
Con queste parole, pronunciate da Roland Barthes in occasione della consegna del premio ‘Archiginnasio d’oro’ a Michelangelo Antonioni nel 1980, possiamo provare ad entrare nel mondo di un regista considerato tra i più grandi di tutti i tempi, precursore e inarrivabile indagatore di alcune tematiche psicologiche fondamentali. Su tutte l’incomunicabilità, che Antonioni analizzo’ con la celebre trilogia composta da “L’avventura”, “La notte” e “L’eclissi”.
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Comprendere cosa accade quando le persone si distanziano senza un motivo apparente, quando uomini e donne si scoprono alienati da una realtà penetrata sotto la loro pelle senza comunicare il proprio arrivo, è impresa ardua e da terapeuti non di rado ne abbiamo esperienza. Il potere della parola si rivela limitato, l’analisi dei processi mentali spesso non è sufficiente a generare un reale cambiamento, e i nostri pazienti continuano ad essere sovrastati da emozioni che è difficile definire e ancor di più gestire. Coloro che osservano dall’esterno faticano a ricostruire un senso; il terapeuta si pone perciò l’obiettivo di decodificare il sistema di significati personali del paziente, assumendo la sua prospettiva nel tentativo di collocare i pensieri e le emozioni all’interno del suo peculiare habitus esplicativo.
La poetica di Antonioni fa propria la medesima esigenza, non si accosta all’animo umano suggerendo verità universali, bensì tratteggia i caratteri di una mente, di una relazione, mantenendo come riferimento costante l’ambiente esistenziale ed emotivo nel quale ha preso forma quell’esperienza.
Ne “La notte” Antonioni descrive la parabola di una relazione coniugale che nelle ore che dividono un tramonto dall’alba successiva si scopre svuotata, strappata di senso, priva di autentica speranza. Non ci sono litigi accesi ma silenzi che accrescono il frastuono di una festa, non vediamo alzarsi la tonalità emotiva che semmai si abbandona alla ricerca di una solitudine all’improvviso inevitabile se non addirittura provvidenziale. E assistiamo al lento vagabondare, nella periferia della metropoli, di un personaggio che per ciascuno di noi può essere uomo o donna, giovane o adulto. Il senso aperto, appunto. Non sappiamo, né il film ce lo svela con precisione, quale sia il reale stato d’animo dei protagonisti: si mostrano a noi smarriti, annoiati ma la loro potrebbe essere la rabbia di un fallimento, la tristezza per un progetto esistenziale naufragato, la paura di non riuscire a trovare uno scopo alternativo sul quale elaborare un tema di vita più evoluto.
I personaggi di Antonioni si aprono alla nostra interpretazione attraverso sguardi sottili, dialoghi essenziali e quasi lunari, come i paesaggi della città che si perde nelle sue architetture alienate; gli uomini e le donne dell’incomunicabilità si toccano e si lasciano come per inerzia, alludono al vuoto che li pervade ma non sanno quale forma conferirgli realmente, non sanno come condividerlo affinché diventi meno spaventoso. E’ questa, di fatto, l’incomunicabilità. Ogni protagonista procede lungo un sentiero che lo conduce a smarrire gli elementi fondamentali delle proprie certezze e perde progressivamente contatto con i compagni di viaggio, osservandoli sempre più da lontano mentre a loro volta affrontano interrogativi senza risposta. Antonioni racconta l’avvento di una società complessa, nella quale si moltiplicano i bisogni relazionali e la frustrazione di non riuscire a soddisfarli; l’essere umano si ritrova a fronteggiare compiti evolutivi spesso sfuggenti, poiché accanto all’esigenza di costruire e mantenere una propria individualità emerge la necessità di adattarsi ad un contesto sociale nel quale lo sguardo dell’altro diviene sempre più penetrante.
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Le convenzioni vacillano, i codici comunicativi condivisi devono essere rinegoziati e le relazioni non sono pronte ad accogliere desideri, pulsioni, movimenti un tempo non previsti: e’ il caso della vicenda narrata ne “La notte”. In questa incertezza prende forma una terra di nessuno, all’interno della quale le persone non comprendono cosa sia richiesto loro e quale spazio debbano occupare le istanze più intime, più private. Affiorano nuovi scopi esistenziali ma ancora nebulosi, che si confondono con le strutture precedentemente assunte come pilastri; il conflitto fra dimensione interna ed esterna, bisogni riconosciuti e spinte evolutive più difficili da collocare nel contesto dei sentimenti accettabili, pone l’individuo dinanzi alla necessita’ di comunicare qualcosa che non può ancora congiungersi a parole affidabili.
Il senso e’ ancora prevalentemente emotivo, incostante, alienato da moti contrapposti, la consapevolezza non ancora chiara; la percezione soggettiva induce ad allontanarsi ma ancora bisogna comprendere da chi e per quale ragione. E’ questa l’incomunicabilità di Antonioni, la sua analisi del mondo umano sorto nel periodo più contraddittorio del secolo più sconvolgente, nei significati inconciliabili di un’umanità divisa e confusa, atterrita dalle più grandi tragedie della storia appena consumatesi e trascinata verso un progresso rapido ma disturbante. Nell’opera di questo regista per molti aspetti rivoluzionario osserviamo nitidamente alcuni concetti che sarebbero diventati sempre più centrali nella lettura delle dinamiche umane, su tutti la lotta per superare il disagio contemporaneo di relazioni parziali, convulse, sferzate dalla velocità dei mutamenti sociali e culturali che lasciano indietro il tempo interiore dell’uomo, la sua visione introspettiva, il suo passo talvolta stentato.
I Disturbi Alimentari e il Sistema di Ricompensa Dopaminergico
I risultati di uno studio recentemente pubblicato dalla University of Colorado School of Medicine suggeriscono che la disregolazione del comportamento alimentare, tipica dell’anoressia e dell’obesità, sia legata al sistema dopaminergico di ricompensa cerebrale, lo stesso coinvolto anche nelle dipendenze.
Un team di ricercatori ha usato la risonanza magnetica funzionale (fMRI) per esaminare l’attività cerebrale in 63 donne, anoressiche o obese, e compararla con quella di donne normopeso. Le prove sperimentali sono state studiate in modo da sollecitare i circuiti cerebrali implicati nella ricompensa: le partecipanti venivano condizionate ad associare alcune forme a una bevanda dolce o non-dolce, quindi ricevevano la bevanda attesa o quella inattesa.
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I risultati indicano che un inaspettato sapore dolce provoca nelle anoressiche un aumento di attivazione dei sistemi di ricompensa, il circuito risulta invece desensibilizzato nelle pazienti obese. Come nei roditori, la restrizione alimentare e la perdita di peso sono associate a maggior rilascio di dopamina in risposta alla ricompensa.
“E ‘chiaro che negli esseri umani il sistema di ricompensa del cervello aiuta a regolare l’assunzione di cibo“, ha detto Guido Frank, ricercatore a capo dello studio, e aggiunge “Il ruolo specifico di queste reti nei disturbi alimentari come l’anoressia nervosa e l’obesità, rimane ancora poco chiaro, per questo sono necessarie ulteriori ricerche in questo settore.“
Psicoterapia: Il Disputing Logico-Empirico alla Beck – Parte 2
Secondo Clark e Beck (2010) il disputing logico-empirico della minaccia temuta dal paziente ansioso va articolato in 4 variabili: stima della probabilità, della gravità, della vulnerabilità e della sicurezza.
Stima della probabilità: siamo in grado di definire con esattezza, la minaccia? Di definire il danno che ne verrebbe? E di stimarne la probabilità di realizzazione? Dove, quando e come avverrebbe? E a quali condizioni?
Stima della gravità: definire con esattezza la minaccia significa anche valutarne con precisione la gravità del problema. Una minaccia può essere reale, ma in fondo poco pericolosa o molto meno pericolosa di quel che sembra. Spesso la gravità di una minaccia è sopravvalutata. Non dobbiamo scambiare la realtà di una minaccia con la sua pericolosità.
Stima della vulnerabilità: quanto siamo vulnerabili? Lo abbiamo valutato? Spesso scambiamo la presenza di una minaccia con la nostra vulnerabilità ad essa. Siccome una minaccia esiste, allora siamo vulnerabili. Invece no. Sono due variabili distinte. Una minaccia può esistere e noi possiamo essere poco vulnerabili a essa. Questo è un errore cognitivo piuttosto comune e diffuso.
Stima della sicurezza: ancora diversa dalla vulnerabilità è la nostra sicurezza personale, che dipende da fattori esterni e non dalla vulnerabilità personale. Anche in questo caso si tratta di una variabile facilmente trascurata e sottovalutata.
Questi aspetti dell’ansia possono essere affrontati direttamente, oppure prendendo in considerazione altri parametri altrettanto promettenti per una buona terapia cognitiva. La normalizzazione dell’ansia si articola in tre componenti (Beck, 1985):
MONOGRAFIA: Il Disputing in Psicoterapia
Normalizzazione rispetto agli altri. Una delle convinzioni che catastrofizza i timore del soggetto ansioso è la convinzione che gli altri non condividano le sue paure e che egli sia l’unico al mondo o dei pochissimi a soffrire di ansie e paure. Farlo riflettere su episodi in cui egli ha potuto intuire che anche gli altri siano soggetti alle stesse sue paure o a simili timori lo aiuta a diminuire l‘estremo pessimismo delle sue valutazioni.
Normalizzazione rispetto al passato. Esplorare il passato facilita nel paziente la consapevolezza che minacce simili a quelle temute nel presente si sono presentate nel passato e sono state gestite in maniera accettabile.
Normalizzazione rispetto alle situazioni. Una volta che il paziente ha imparato a individuare le situazioni ansiogene, diventa possibile trovare situazioni simili che però sono gestite in maniera migliore o comunque in modo meno disfunzionale. Il paziente può quindi tentare di applicare questo modello anche alle situazioni legate ai suoi timori ansiosi.
Un’altra articolazione cognitiva del pensiero ansioso lo troviamo nei 4 parametri del pensiero negativo di Robichaud e Dugas (2005a, 2005b):
a) Percezione dei problemi come minaccia al benessere;
b) Dubbi d’inefficacia nella capacità di problem-solving;
c) Tendenza pessimista sugli esiti;
d) Bassa tolleranza alla frustrazione.
Anche questi parametri offrono buone opportunità per un disputing logico-empirico alla Beck. Il più originale è il primo. Infatti possiamo utilizzare la “percezione dei problemi come minaccia al benessere” come base per incoraggiare il paziente a capire che egli scambia la semplice e normale presenza di problemi per minacce. L’ansia è un segnale, un segnale che ci sono problemi, problemi da risolvere. In presenza di ansia la domanda da porsi è:
“Qual è il problema che devo affrontare?” E non: “Qual è la minaccia che devo evitare?”
I “dubbi d’inefficacia nella capacità di problem-solving“ vanno a loro volta sottoposti a critica. Perché il paziente ritiene di non essere in grado di risolvere i problemi? In base a quali valutazioni, a quali ragionamenti? Ragionamento analogo per la “tendenza pessimista sugli esiti”. In base a cosa il paziente pensa che l’esito sarà negativo? Infine, per la “bassa tolleranza alla frustrazione” valgono i suggerimenti di Albert Ellis.
BIBLIOGRAFIA:
Beck, A. T., Emery, G., Greenberg, R. L. (1085). Anxiety disorders and phobias: A cognitive perspective. New York: Basic Books.
Robichaud, M., & Dugas, M. (2005a). Negative problem orientation (Part I): Psychometric properties of a new measure. Behaviour Research and Therapy, 43, 391-401.
Robichaud, M., & Dugas, M. (2005b). Negative problem orientation (Part II): Psychometric properties of a new measure. Behaviour Research and Therapy, 43, 403-412.
Storie di Terapie #7 – Tredici centimetri e mezzo di Enrico
Nei casi clinici che seguono, l’arrosto sostanzioso dei vari pazienti è condito con il sugo della fantasia, per rendere non identificabili le persone e la lettura più avvincente. Spesso ho condensato in un solo paziente più persone e, quasi sempre ci sono scappati pezzetti di me stesso. – Leggi l’introduzione –
Mi è capitato più volte di provare imbarazzo nel riconoscermi appartenente alla specie umana e, segnatamente, al genere maschile. Di solito ciò mi è capitato di fronte ai crimini sessuali, alcune perversioni ed abusi in cui i maschi superano sempre di gran lunga le donne. Dovevo però aspettare di diventare anziano per provare il disgusto verso la mascolinità che l’incontro con Enrico mi procurò. L’invio mi fu fatto da un collega amico, che ricordava il mio passato di sessuologo.
In effetti, Enrico presentava il problema di una disfunzione sessuale, in realtà Enrico era interamente una disfunzione sessuale; tecnicamente trattavasi di “ impotenza situazionale”.
Il padreterno non era stato generoso con lui che sembrava assemblato con pezzi di scarto: basso quanto basta per averne il complesso e sentirsi inferiore, occhi piccoli da pesce del lunedì, capelli radi grigio topo e impomatati, naso oversize con bitorzoli e colorito violaceo, colorito giallo verdognolo tendente a Shrek, totale assenza dell’apparato muscolare oltre a quello atto a mantenerlo seduto e, per finire, alitosi da distruzione di massa.
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Enrico, forse per compensare l’aspetto orribile, o per sottolineare la comune amicizia con l’inviante, mostra una confidenzialità molto invadente. Mi ricredo immediatamente: il suo problema non è la bruttezza, ma la talentuosa antipatia. Tenta di compensare la sua goffaggine con l’applicazione stereotipata di regole di buona creanza che trasmettono un’idea di falsità, generatrice di imbarazzo. Questa mancanza di naturalezza e di senso comune avrebbe dovuto farmi accendere la spia rossa che indica il sospetto di psicosi, ma non accadde.
Il problema dichiarato da Enrico era il suo pene che funzionava a fasi alterne provocandogli un’ansia incontenibile, evitamenti delle situazioni potenzialmente erotiche ed un consumo industriale di Viagra e suoi derivati, pericoloso per il suo cuore già infartuato tre anni prima, a quarantun’anni. La raccolta della storia fu ostacolata dai continui richiami di Enrico al qui ed ora del suo pene capriccioso.
Nasce in una cittadina del sud, primo di tre figli di cui la seconda femmina. Il padre è un piccolo imprenditore molto conosciuto e in odore di camorra, violento con i figli che picchia selvaggiamente ad ogni presunta mancanza di rispetto. Tradisce spudoratamente la madre e si vanta con i figli maschi delle sue proverbiali prestazioni sessuali, insegna ai figli che il valore di un uomo lo si misura dalla lunghezza e durezza del suo pene. La madre è sconfitta e umiliata, ma resta in famiglia perché teme di lasciare la figlia femmina con il padre; il possibile abuso rispetto alla figlia femmina è considerato una possibilità reale, se non probabile.
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Il padre si rovina completamente per il gioco d’azzardo e, a quarantott’anni, viene trovato morto, un mattino, sulla via di casa. Enrico dice essersi trattato di un infarto, ma molte chiacchiere sono girate in paese. Della morte del padre non ha particolari ricordi, se non quello di una liberazione dal suo controllo svalutante su tutte le sue prestazioni.
Durante tutto il periodo scolastico Enrico è tormentato da pensieri ossessivi e compulsioni. Le ossessioni riguardano soprattutto la possibilità di avere la forfora o il sudore ascellare, ciò lo renderebbe disgustoso e non potrebbe “scoparsi” tutte le ragazze che vuole. Se ciò non avvenisse nessuno lo rispetterebbe e tutto il paese lo deriderebbe.
Finita ragioneria si fidanza con Rosa, la sua attuale moglie. Quando gli chiedo di raccontarmi del suo matrimonio fa una sintesi stringata: per i primi tre mesi ha avuto difficoltà nei rapporti sessuali, poi ha preso il via e tutto andava bene senza aiutini, se si eccettua il ricorso a stimolazioni orali. Non si è mai chiesto se la moglie abbia l’orgasmo, ma dice che non si è lamentata mai anzi, dopo il coito, la coppia si concede un altro rapporto orale.
Enrico, che sottovaluta continuamente ogni segno psicopatologico e, mentendo, dice che le ossessioni sono ormai poca cosa, mi racconta la prima importante crisi, ma sempre sminuendone la portata.
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Dopo tre anni di matrimonio, quando il primo figlio ha sei mesi, gli capita, durante una trasferta, di avere un approccio sessuale con una collega a lui sottoposta. Naturalmente non dice nulla alla moglie, ma al primo tentativo di rapporto sessuale con la consorte perde subito l’erezione, dopo il pretrattamento orale. E’ la prima volta che gli succede.
Tentare di indagare le emozioni che precedettero (colpa?) e seguirono (ansia? tristezza?) l’episodio di impotenza è come chiedere ad un tavolino il senso della poetica di Dante.
I fatti successivi, però, li ricorda. Esce di casa, raggiunge la piazza del paese, è pronto a dar battaglia se vedrà dei capannelli di gente che lo deride. Essendo notte fonda non incontra nessuno, ma sa con certezza che, dietro le finestre illuminate e quelle falsamente buie, non si parla d’altro.
Poi i suoi ricordi iniziano a riorganizzarsi dal momento in cui lo zio materno, psichiatra, viene a prenderlo in SPDC (Servizio Psichiatrico per la Diagnosi e Cura), assumendosi la responsabilità della dimissione. Lo zio, per tre mesi, gli somministra forti neurolettici; da allora li ha smessi solo dopo l’infarto, per lasciar spazio alla terapia cardioprotettiva. Sei mesi fa è nato il suo secondo figlio e lui ha consapevolmente pensato che, considerata l’astinenza con la moglie nell’ultimo periodo di gravidanza e nel puerperio, poteva essere il momento adatto per farsi qualche bella scopata extra e non solo le solite seghe con cui tiene in allenamento il meccanismo, “svuotandosi” almeno tre volte a settimana.
La scelta cadde su Stefania, una collega nota per i dissapori con il suo partner e la spregiudicatezza sessuale. Solo molto tempo dopo ciò gli apparirà come una serissima minaccia: Enrico dichiara apertamente di essere preoccupato di un possibile coinvolgimento affettivo, che Stefania dimostrerà sin dall’inizio e gli chiederà. Per lui, invece, Stefania è solo tutto ciò che sta intorno alla sua fica, l’unica emozione che sente nei suoi confronti è il timore del giudizio.
Perciò si organizza con accuratezza e, prima ancora di tentare un approccio, va a visita dal cardiologo per concordare il dosaggio massimo e le modalità di assunzione del Viagra. Gli faccio notare che non c’era stato nessun fallimento, ma lui ribatte che prevenire è meglio che curare e che la prima impressione è quella che conta. Affitta una casa fuori città per la moglie e i figli, in modo che possano fare due mesi di mare, impegnandosi a raggiungerli nei fine settimana
Viene in terapia da me per due motivi.
Poiché le prestazioni “viagrasostenute” sono state davvero buone, non sa come fare per continuare a stupire Stefania. Ha aumentato progressivamente la dose fino a quella massima consentita e non sa cos’altro inventarsi senza rischiare un infarto.
In secondo luogo vorrebbe capire cosa siano quelle attenzioni affettive che Stefania gli chiede e che lui connota come “tutte quelle smorfiose sciocchezze che si fanno per ottenere la fica”.
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Vuole che gli insegni a recitare. Attraverso una serie di confidenti infiltrate tra le amicizie di Stefania, sa che lei parla molto bene del loro rapporto ed è terrorizzato che si possa sapere che non è lui, ma il viagra. Se una cosa del genere si sapesse in ufficio, perderebbe ogni dignità e si darebbe volontariamente la morte. Poiché il nonno paterno lo ha fatto veramente, questa dichiarazione non mi lascia affatto tranquillo e insisto per l’assunzione di serotoninergici che, gli dico, avranno anche l’effetto collaterale di ritardare l’eiaculazione. Accetta con gioia.
Stavo per suggerirgli di non intrapendere la psicoterapia e di continuare con il trattamento di viagra e con il solo serotoninergico, poiché ritenevo del tutto inutile una psicoterapia essendo chiaramente di fronte ad una assenza della psiche stessa, quando mi raccontò due fatti significativi.
E’ brutto ammetterlo ma, fino a quel momento, mi stavo terribilmente annoiando e credo fossi finito in un circolo vizioso: più lo trovavo noioso e forse, mi duole ammetterlo, lo giudicavo negativamente, meno lo guardavo con interesse, ma era proprio questo disinteresse a generare la noia.
I due particolari invece mi diedero la misura della sua sofferenza e riattivarono l’interesse.
Quando aveva sette anni Enrico era già un onanista professionista e si identificava completamente con il suo pene. A dispetto della presunta legge (certamente inventata e diffusa ad arte dai bassi di statura) per cui la lunghezza del pene è inversamente proporzionale all’altezza, lui era basso e il suo pene arrivava, se ben stirato, a soli undici centimetri.
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In quinta elementare, per essersi rifiutato di cedere la sua merenda al boss della classe, fu sottoposto alla pratica della “stira”: gettato per terra nel cortile della scuola e tenuto fermo dai compari del boss, gli furono tolti i pantaloni e stirato il pene davanti a tutti per mostrarne la pochezza, finchè non chiese perdono e cedette la merenda. Ricorda ancora con vividezza il sentimento di umiliazione che lo pervase e la rabbia nei confronti del padre che, saputa la vicenda, lo sgridò a sua volta per non aver fatto rispettare il suo glorioso cognome. Ma non tutto il male vien per nuocere: in una misurazione nei giorni successivi si accorse che il pene aveva raggiunto i dodici centimetri. Iniziò dunque una serrata terapia consistente in uno stiramento quotidiano del pene. Pensò anche di attaccarci dei pesi che lo tenessero in tensione durante il sonno, ma il marchingegno ideato era troppo vistoso e dovette rimandare il progetto a quando avrebbe vissuto da solo. Si limitava dunque a violente strattonate in bagno ogni volta che doveva urinare e a due sedute di allungamento prima e dopo la masturbazione serale a letto. Faceva ciò con la meticolosità ossessiva che lo avrebbe accompagnato per sempre e iniziava allora a manifestarsi.
A quattordici anni Enrico era un ragazzo mingherlino di un metro e sessantatré centimetri di statura, ma con ben tredici centimetri e mezzo di pene. Ora nessuno lo avrebbe più preso in giro, secondo l’ enciclopedia “Conoscere il corpo umano” rientrava nella media dei ragazzi italiani che andavano da tredici a diciassette centimetri.
L’altro fatto che riaccese il mio interesse fu il motivo che lo spingeva a chiedere una terapia. A lui non interessava affatto godere di più la vita sessuale, per la verità non ne aveva mai goduto e non gli importava nulla. Ogni rapporto che doveva affrontare era un compito gravoso che gli generava prima un senso di preoccupazione e dopo, se tutto era andato bene, un senso di sollievo al pensiero che poteva concedersi un po’ di tempo di pausa prima di doversi ripresentare per un nuovo esame.
Si era cacciato nella storia extraconiugale con Stefania semplicemente perché, a suo avviso, un dirigente del suo livello deve avere famiglia e figli per evitare che si pensi che sia frocio e avere un’amante che ne decanti segretamente le sue doti amatorie durante le pause pranzo.
La trappola era scattata quando si era accorto che, da un lato Stefania si stava coinvolgendo e lo chiamava a manifestazioni affettive che lo trovavano del tutto impreparato e per le quali chiedeva suggerimenti, dall’altro lei era molto più scaltra di lui sessualmente e chiedeva molto.
La percepiva come esigente e giudicante e non trovava con lei quella rassicurante routine che permettevano ai suoi tredici centimetri e mezzo di dare il meglio di sé nel letto coniugale con Rosa, nell’intervallo tra il pompino d’apertura di incoraggiamento e quello finale di ringraziamento per la prova superata.
Valutammo con lui i vantaggi e i rischi delle due alternative contrapposte dove la prima consisteva nel fare outing con tutti sulle sue difficoltà sessuali e verificare quanti davvero gli avrebbero voltato le spalle e quanti invece avrebbero continuato ad amarlo per quello che era. Il rischio era di perdere qualcuno e qualche punto di stima, ma il vantaggio era di smettere questa faticosissima rincorsa, i camuffamenti, i calcoli orari per l’assunzione di nascosto della pasticchina-salva-stima-sociale e di riportare la sessualità nella categoria dei piaceri da quella dei lavori forzati in cui si trovava.
L’altra alternativa era di continuare così, aumentando costantemente il sostegno chimico per raggiungere nuovi record. Aveva pensato anche a due exit strategy da questa seconda alternativa: una prima ipotesi prevedeva che, raggiunto l’apice della notorietà come incontenibile stallone, avrebbe potuto chiedere il trasferimento in altra sede. Lì la sua fama lo avrebbe preceduto, ma lui non si sarebbe lanciato in nessuna avventura, conservando intatto il patrimonio accumulato. La seconda ipotesi prevedeva che, un giorno, il suo cuore già malandato avrebbe ceduto durante un amplesso dopato dal viagra con la vogliosa Stefania, ma cosa c’era di meglio di un’ uscita di scena del genere? Sarebbe stato come per un attore morire a sipario aperto, il mitico Enrico che “morì sulla botta”, tanto la moglie e i figli, pur venendone a conoscenza, non avrebbero potuto fargli ritorsioni di sorta.
La terapia andò avanti per altri sei mesi fino a quando fu miracolosamente liberato: Stefania rimase incinta del suo compagno (Enrico si era vasectomizzato dopo la seconda gravidanza della moglie perché il numero giusto di figli per un dirigente è due, uno per sesso, come i suoi) e decise di porre fine alla relazione.
Mi ringraziò come gli avessi salvato la vita. Ora lui non vedeva altri motivi per continuare la terapia. Anch’io ebbi il dubbio se, più in generale, continuare la professione di psicoterapeuta, ma “ tengo famiglia”.
La Depressione e il modo in cui si utilizza Internet
– Rassegna Stampa –
Una nuova ricerca condotta alla Missouri University of Science and Technology ha analizzato l’uso di Internet tra gli studenti universitari; sembra che gli studenti depressi tendano a navigare sul web in modo più casuale degli altri, passando tra applicazioni diverse, ad esempio, utilizzando servizi di file sharing più dei loro compagni, e inviando e-mail e chattando on-line più degli altri studenti. Gli studenti che mostrano segni di depressione hanno anche la tendenza a utilizzare applicazioni a banda larga, spesso associate a video on-line e giochi.
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Lo studio è il primo nel suo genere che utilizza dati reali, raccolti in internet in modo discreto e anonimo: i ricercatori hanno raccolto in forma anonima un mese di dati sul comportamento in Internet di 216 studenti universitari. Gli studenti sono stati testati anche per la presenza di segni di depressione e circa il 30 per cento di loro ha raggiunto i criteri per una depressione lieve. I ricercatori hanno poi analizzato i dati relativi al comportamento in rete e hanno scoperto che gli studenti che mostravano segni di depressione hanno utilizzato Internet in modo molto diverso rispetto agli altri partecipanti allo studio. Chellappan, ricercatore a capo dello studio, pensa che la casualità del comportamento in rete rifletta la difficoltà di concentrazione, una caratteristica associata alla depressione.
L’obiettivo di Chellappan adesso è di utilizzare questi risultati per sviluppare un software che, installato sul computer di casa, aiuti, discretamente, a determinare quando un certo modo di usare la rete può indicare segni di depressione; il software potrebbe anche consigliare di consultare un medico o informare direttamente i counselor degli studenti nei campus universitari di situazioni a rischio.
BIBLIOGRAFIA:
Raghavendra Kotikalapudi, Sriram Chellappan, Frances Montgomery, Donald Wunsch and Karl Lutzen. Associating Depressive Symptoms in College Students with Internet Usage Using Real Internet Data. IEEE Technology and Society Magazine, 2012
Psichiatria Pubblica: Riaprono i Manicomi?
Sandra Sassaroli e Giovanni M. Ruggiero
L’articolo appena approvato dalla Commissione per la riforma della legge Basaglia fa già litigare molti (LINK Articolo su La Stampa). Si tratta dell’istituzione di un trattamento extra-ospedaliero senza consenso del paziente e prolungabile fino a un anno.
Gli schieramenti politici hanno già fatto esplodere il confronto, inevitabilmente con toni forti ed estremi. È vero che i rischi di una simile novità sono evidenti: il trattamento diventa definitivamente possibile senza il consenso del paziente e si può prolungare per tempi medio-lunghi, fino a un anno. È qualcosa che effettivamente può somigliare a una riapertura dei manicomi. È legittimo temere che possa essere un prima passo in quella direzione. Un rischio da cui guardarsi.
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Però è anche vero che ogni operatore sa che questo tipo di ricovero prolungato per alcuni pazienti è inevitabile e che il consenso del paziente in questi casi non sempre è possibile. E stiamo parlando di pazienti che a volte rischiano la vita. Come ad esempio le pazienti anoressiche: le più gravi di loro, quelle che davvero sono a rischio vita, non sono consenzienti.
Inoltre il trattamento prolungato in strutture non territoriali (ovvero, senza lasciare il paziente a casa sua) nella pratica già esiste. Teoricamente esso avviene con il consenso volontariamente concesso dal paziente, almeno in termini legali. Ma da un punto di vista pratico esso prende piuttosto la forma di un dissenso non esplicito. Il paziente subisce il ricovero e le circostanze lo dissuadono dall’esporre il suo disaccordo. Paradossalmente questo può incrementare il margine di arbitrarietà, poiché il personale medico e giuridico non è obbligato a giustificare l’obbligatorietà del provvedimento di ricovero, dato che il consenso è dato per scontato. Una nuova cornice giuridica che ponga fine a questa ambiguità avrebbe un effetto positivo: obbligherebbe medici, sindaci e magistrati a dover giustificare giuridicamente in atti legali espliciti la loro decisione di ricoverare una persona contro la sua volontà.
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Inoltre non dimentichiamo che gli abusi del manicomio erano legati a un servizio sanitario molto più degradato e inferiore di quello attuale e una società molto più feroce di quella odierna. Una società in cui era facile e comune liberarsi di un parente fastidioso ricoverandolo in manicomio. Oggi non è più così. Oggi si parla di ricoveri di non più di un anno in comunità terapeutiche di qualità e vivibilità immensamente superiori rispetto ai vecchi manicomi. Comunità in cui il paziente ha a disposizione mille attività ricreative e ha la possibilità di uscire e passeggiare in luoghi molto migliori dei quartieri degradati di periferia in cui spesso vive ed è cresciuto. Le comunità terapeutiche moderne sono localizzate in campagna e nella prossimità di piccoli paesi nei quali socializzano con i locali. Stiamo pensando all’esperienza delle comunità terapeutiche bergamasche, nelle quali uno degli autori di questo articolo ha potuto lavorare.
Questi sono i due corni del dilemma. Per ora non aggiungiamo altro, se non la nostra attonita perplessità di fronte alla complessità di questi problemi. Siamo consapevoli che in questi casi diventa troppo facile comprendere tutte le ragioni.
Concludiamo osservando che rimane comunque giusto conservare degli argini, morali e legali, contro i rischi di abuso del ricovero coatto.
Elisabetta Caletti. Psicologa e volontaria AICH MILANO Onlus
Accertare la natura soggettiva del concetto di qualità di vita legato alla salute è quanto mai necessario in malattie dove la sintomatologia può portare a importanti limitazioni nello svolgersi della normale vita quotidiana. Tuttavia il grado d’impatto dei sintomi sulla vita, potrebbe variare secondo le persone, a volte in un modo non linearmente prevedibile in base alla compromissione della funzionalità motoria, cognitiva e psichica.
Nello studio di Hocaoglu et al. (2012) sono state prese in considerazione 105 coppie di pazienti e i loro caregiver, che hanno completato il questionario sulla qualità della vita correlata alla salute nella malattia di Huntington (HDQoL), uno strumento risultato valido e affidabile per quantificare l’esperienza di cura anche al fine di implementare e valutare gli interventi terapeutici, sviluppato dagli stessi autori con l’intento di cogliere il vero impatto del vivere con la malattia di Huntington. I pazienti sono stati suddivisi in gruppi, sulla base di 5 tappe principali di progressione della malattia:
Stadio iniziale (1) – le persone sperimentano cambiamento dell’umore e del controllo motorio mentre rimane intatta la funzionalità a casa e al lavoro
Stadio moderato (2 e 3) – la corea diventa più pronunciata, vengono sperimentate difficoltà nel pensiero, nel ragionamento, nel linguaggio e nella deglutizione. Gli individui possono ancora essere in grado di lavorare ma a un livello inferiore, oppure (stadio 3) non possono più lavorare e avere bisogno di assistenza nelle attività giornaliere
Stadio avanzato (4 e 5) – i pazienti con HD non sono più capaci di eseguire indipendentemente le attività quotidiane e richiedono l’assistenza di un caregiver a casa (stadio 4), o richiedono assistenza infermieristica (stadio 5).
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Nel lavoro di Hocaoglu e colleghi sono state prese in considerazione anche persone con mutazione critica ma non ancora sintomatica e persone a rischio (ossia un membro di famiglia di HD ma con status genetico non ancora conosciuto).
Lo studio ha dimostrato un buon accordo tra paziente e caregiver, soprattutto nello stadio avanzato della malattia. È tuttavia interessante notare come la correlazione tra paziente-caregiver sia più bassa nello stadio di malattia moderato rispetto agli stadi iniziali e avanzati. In particolare, i caregiver riportavano una migliore valutazione rispetto ai pazienti nelle scale “Speranze” e “Preoccupazioni” mentre riferivano una peggior percezione dello stato cognitivo, fisico e funzionale. La dimensione Speranze e Preoccupazioni potrebbe quindi essere particolarmente difficoltosa da interpretare, forse molto più interiorizzata di altre dimensioni psicosociali, che mette in luce pertanto un minore accordo paziente-caregiver rispetto a dimensioni fisiche più obiettive.
Il risultato potrebbe essere spiegato perché vi è maggiore variabilità e velocità di progressione della malattia nello stadio moderato se comparati con le altre fasi di malattia; i soggetti in questo stadio (stadi 2 e 3) sarebbero il gruppo più eterogeneo e più mutevole col tempo, costituendo così una difficoltà nei loro caregiver di formarsi giudizi stabili. Quello che emerge è che lo stadio moderato della malattia può essere particolarmente complesso per i pazienti che cominciano a sperimentare un ribasso fisico e psicologico che loro e la loro famiglia, hanno lungamente temuto. È stato anche constatato che le stime dei caregiver degli aspetti psicosociali di HrQoL risultavano sensibili allo stato psicologico dei pazienti, così come la gravità dei sintomi. Concludendo, l’indicazione HRQL da parte del caregiver non può sostituire il report del paziente nello stadio moderato della malattia; viceversa in virtù del buon accordo evidenziato nello stadio avanzato, la valutazione del caregiver con il questionario HDQoL potrebbe essere particolarmente utile e complementare al self-report. Infatti, il resoconto del caregiver potrebbe essere l’unico punto d’informazione possibile quando il paziente può non essere in grado di riportare il suo effettivo HRQL o semplicemente non essere in grado di completare il questionario a causa dell’impairment motorio o cognitivo prodotto dalla malattia nella fase avanzata.
“Il processo creativo che interviene nell’attività artistica è curativo e arricchisce la vita”.
Non deve sorprendere che questa idea sia costitutiva della musicoterapia, date le molte somiglianze fra processo creativo e processo terapeutico. Entrambi riguardano il trovare alternative nuove a vecchi modi di essere, pensare, sentire e interagire. Il processo creativo e quello terapeutico offrono l’occasione di esplorare e sperimentare nuove idee e modi di essere. Entrambi sono atti di innovazione , improvvisazione, trasformazione. In entrambi i processi interviene un incontro col sé più profondo: in musicoterapia l’incontro è mediato dalla musica e dall’esperienza di produrre arte.
Ritornando alla parola creatività, diversi studi e ricerche, hanno sottolineato il fatto che la creatività e intelligenza sono due funzioni distinte del pensiero: la creatività è espressione del pensiero divergente; l’intelligenza del pensiero convergente. Le caratteristiche del primo sono: mentalità aperta, insofferenza per le regole rigide, curiosità, indipendenza dal campo, flessibilità, complessità, avversione per l’ovvio e le stereotipie, abitudine a trovare problemi più che risolverli; il pensiero convergente, invece, è più regolare, più prevedibile, punta alla risoluzione del problema, è dipendente dal campo, più rigido e rispettoso delle regole, è meno fluido e meno flessibile.
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Ormai è accertato che i diversi test di intelligenza, misurano il pensiero convergente (abitudine a trovare una soluzione ad un problema ed a prevederne le conseguenze), piuttosto che quello divergente (abitudine a trovare più soluzioni, a mettere in discussione lo stesso problema, a non accontentarsi dell’ovvio e dello scontato). Il pensiero divergente è quello che produce la creatività, quello convergente, rappresenta l’intelligenza misurata dai test. Pertanto con persone con deficit cognitivi, se stimoliamo la creatività potremo stimolare anche l’intelligenza; quindi sviluppando la creatività del bambino svilupperemo anche la sua l’intelligenza.
Nel corso della mia esperienza, ho realizzato, un programma di intervento che ha come scopo quello di insegnare ad apprendere e a pensare; l’obiettivo principe è quello di cercare di potenziare/sviluppare la struttura cognitiva sia nei soggetti non clinici sia nei soggetti con difficoltà di apprendimento, cercando di trasformare il loro stile cognitivo da passivo e dipendente in quello caratteristico di chi pensa in maniera autonoma. L’intervento ha come obiettivo quello di utilizzare il parametro “musicale” cercando di rendere il soggetto capace di apprendere nuove informazioni e di saperle utilizzare, di renderlo più efficiente nell’acquisizione di nuove tecniche e più capace di trovare vie ottimali alle risoluzioni dei problemi; in cui il soggetto viene esortato a diventare una persona, che percepisce attivamente e organizza la sua esperienza.
Il laboratorio, nasce dall’esigenza di sviluppare un apprendimento intrinseco , che miri allo sviluppo dell’auto-realizzazione della creatività della persona.(… perché egli possa aiutarsi da solo…).
Infatti come afferma E. H. Boxill lo scopo dell’educazione musicale è il raggiungimento di un’abilità musicale; mentre quello della musicoterapia, è il conseguimento di abilità di vita attraverso la modalità della musica. Nell’ambito dell’apprendimento intrinseco, si vuole dare importanza a l’essere o meglio al divenire creativi, chiamando in causa una serie di fenomeni rilevanti,come: saper progettare, pianificare , costruire, innovare, “saper fare” e “saper essere”….. che le metodologie e attività proposte, cercano di favorire.
Nel programma realizzato, vengono presentati una serie di eserciziproblem-solving, strumenti di apprendimento e giochi musicali i quali sviluppano, i diversi elementi della musica (timbro, altezza,intensità,durata…) e della teoria musicale (note, figure, pause, pentagramma, chiavi….): ogni tema sviluppa dieci stelle (dieci operazioni cognitive) rendendo quindi il soggetto più efficiente nell’acquisizione di nuove tecniche e informazioni, divenendo sempre più capace di trovare vie ottimali nel fronteggiare le diverse situazioni problematiche quotidiane. Le numerose attività musicali realizzate, sono utilizzate con il fine di aiutare la persona ad acquisire e trasferire determinati processi e strategie cognitive in altri ambiti di apprendimento e nelle diverse esperienze di vita, apprendendo quindi uno stile di vita che miri verso l’auto-realizzazione (…affinché egli possa aiutarsi da solo…)
Una scuola che educa a essere se stessi, anzi a “diventare” se stessi : a sviluppare al meglio le proprie risorse e le proprie tipicità affettive, intellettive, fisiche, estetiche, etiche, pratiche; dunque a costruire la propria autonomia. Il paradigma dinamico è un modello “autonomizzante”: aspira a far conquistare e padroneggiare i “mezzi” (10 operazioni cognitive) per orientarsi nel mondo, per agire positivamente, per compiere le proprie scelte, per decidere, per realizzarsi. Punta sulla realizzazione dell’io autentico, sull’intenzione critica con gli altri, sul cambiamento.
A noi tocca fornire all’allievo sia strumenti mentali, sia materiali diversi fra loro (fino al limite del brain-storming) tra i quali esercitare scelte per sviluppare il suo senso critico. Quanto la creatività musicale sia veicolo primario per la conquista dell’autonomia lo suggerisce il concetto di “Metacultura”; un’educazione metaculturale viene cioè a coincidere con la costruzione di uno spirito critico, antidogmatico. Si diventa autonomi, dunque , se si impara a decidere in proprio, a trovare soluzioni personali ai problemi, a offrire spazi espressivi alla propria interiorità.
In una parola a essere creativi !
BIBLIOGRAFIA:
Malchiodi, A. (2009). Arteterapia: L’arte che cura. Giunti: Firenze
Boxill, E. (1991). La musicoterapia per bambini disabili. Omega: Torino.
Abbruzzese, A. (2000). Imparare dalle differenze. Suma: Bari
L’immagine di sé, la Pressione Sociale e i Disturbi Alimentari
– Rassegna Stampa –
Un team di ricercatori della University of Arizona ha studiato i fattori che aiutano le donne ad avere un immagine del proprio corpo positiva allo scopo di prevenire il rischio di disturbi alimentari, così diffusi in molte culture occidentali contemporanee.
Lo studio si è concentrato sulle giovani studentesse del college, nella realtà sociale del college infatti l’apparenza è molto valorizzata e il continuo confronto con i pari può facilmente suscitare vergogna, imbarazzo e timidezza.
301 ragazze al primo anno di college hanno compilato questionari basati sul modello teorico Choate (Choate Theoretical Model), secondo questo modelloi il sostegno della famigla, insieme alla scarsa pressione per l’adeguamento a canoni estetici di bellezza, sono correlati al rifiuto dell’ideale di perfezione femminile, alla valorizzazione della abilità fisica e all’uso di strategie efficaci per contrastare lo stress; questi fattori sarebbero a loro volta associati al benessere e a un auto-immagine positiva.
I ricercatori hanno quindi applicato il modello Choate alla situazione di ‘vita reale’ e, come previsto dal modello, hanno visto che le ragazze che godevano di un buon supporto familiare, ed erano al riparo dalla pressione sociale e culturale di familiari, amici e media per il raggiungimento di canoni estetici di bellezza ideale, avevano effettivamente un’auto-immagine corporea migliore; le stesse ragazze hanno inoltre respinto l’ideale di superwoman e si sono dimostrate attrezzate delle competenze necessarie per affrontare lo stress.
Secondo gli autori questo studio fornisce alcune indicazioni per i programmi di prevenzione dei disturbi alimentari giovanili, che dovrebbero porsi l’obiettivo di aiutare le ragazze a prendere coscienza delle aspettative molteplici e spesso contraddittorie che la società contemporanea propone; insegnando loro ad utilizzare adeguate capacità di coping e promuovendo il senso positivo di competenza attraverso l’esercizio fisico e la salute psico-fisica. Aiutandole quindi a sviluppare un senso di autostima che non si basi solo sull’apparenza, ma che sia in grado di far fronte alle pressioni derivanti dalla famiglia, dagli amici o dai media.
Affidamento condiviso: figli più sicuri ed equilibrati
Attualmente sempre più frequenti sono le separazioni, i divorzi, le famiglie allargate e nel mondo occidentale il principio della bigenitorialità viene applicato con sempre maggiore vigore e intensità.
Questo a partire dalla Convenzione sui diritti del fanciullo, fatta a New York il 20 Novembre 1989. Nel nostro paese, solo attraverso un lavoro faticoso, costato 4 legislature, si è riusciti a fare passare come forma prediletta l’affidamento condiviso. Uno degli ultimi disegni di legge, in Italia, relativo all’affidamento condiviso dei figli di genitori separati, risale al 16 novembre 2010 (ddl 2454). I punti salienti del nuovo disegno di legge comprendono:
A. Diritto del minore ad un rapporto effettivamente equilibrato con entrambi i genitori; cosa che non si realizza se il figlio trascorre con uno di essi poco più di un fine settimana al mese.
B. Presenza di un doppio domicilio; ovvero percepire come propria sia la casa del papà sia quella della mamma.
C. È importante che il minore percepisca che entrambi i genitori provvedono ai suoi bisogni, anche di tipo economico; quindi ricevere cura e accudimento da entrambi nella quotidianità.
D. Effettuare un percorso di mediazione parentale, prima che cominci la parte contenziosa.
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Questo passaggio legislativo è molto importante, se ben applicato, per la tutela e la salute dei figli di genitori separati.
Il minore oggi si trova all’interno di un percorso di crescita che comporta molte incertezze, per tale motivo è importante che possa fare riferimento in maniera indistinta ad entrambi i genitori. Molto spesso accade che in seguito alla separazione il figlio venga affidato in maniera prevalente ad uno dei due genitori (genitore “collocatario”, quindi prevalente nella cura e nel mantenimento del minore). Questo fenomeno può portare il minore ad identificare il genitore collocatario come unica figura di riferimento e ciò può ridurre la capacità genitoriale nell’affrontare l’incertezza evolutiva del bambino/ragazzo; può accadere infatti che l’altro genitore abbia poi difficoltà ad intervenire ed agire in modo efficace quando ad esempio il genitore di riferimento non è stato in grado di gestire aspetti critici nella cura, educazione e mantenimento del figlio/a.
Per questo motivo è importante promuovere il principio della bigenitorialità: la stabilità del minore non è data dalla stabilità logistica (cioè il fatto che il minore abbia come punto di riferimento una sola casa) ma dalla possibilità di poter godere nella quotidianità della presenza equilibrata di entrambi i genitori.
Tra gli studi più significativi possiamo riportare uno studio francese (G. Poussin, E Martin, 1999) il quale attesta che sono i bambini che vivono con entrambi i genitori a percepirsi più sicuri di se stessi se comparati con bambini che vivono con un solo genitore. In particolare, lo studio evidenzia come i bambini che vivono in un regime di residenza alternata abbiano livelli di autostima maggiori rispetto ai bambini che vivono in residenza monoparentale.
Altro studio interessante è quello condotto da Robert Bauserman per il Dipartimento della Salute Statunitense (Bauserman, 2002) nel quale sono stati analizzati un ampio numero di bambini residenti con un solo genitore e bambini con residenza alternata. L’indagine attribuisce ai bambini in residenza alternata un comportamento più adeguato rispetto alle norme scolastiche, un maggiore livello di autostima e una maggiore soddisfazione rispetto alle loro relazioni familiari.
Infine vi sono diversi studi, tra cui quello di Anna Sarkadi (2008) i quali mettono in evidenza come il coinvolgimento paterno, inteso come tempo di coabitazione, impegno e responsabilità, abbia influenze positive sullo sviluppo dei figli. In tale studio il coinvolgimento dei papà sembra migliorare lo sviluppo cognitivo, diminuire la delinquenza giovanile e ridurre la frequenza di problemi connotati come “comportamentali”.
BIBLIOGRAFIA:
G. Poussin, E.Martin Leubern “Consequences de la sèparation parentale chez l’enfant”, Editore Eres, 1999.
R. Bauserman, Child adjustament in Joint-Custody versus Sole Custody, Journal of family psychology, vol 16, March 2002.
Anna Sarkadi et al., Father’s involvement and children developmental outcomes: a systematic review of longitudinal studies, Acta Pediatrica 2008.