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Psicologia e Alimentazione: Acidi Grassi Trans associati ad Irritabilità e Aggressività.

– Rassegna Stampa – 

Psicologia e Alimentazione: nuove ricerche correlano l’assunzione di acidi grassi trans con comportamenti aggressivi e irritabilità.  

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologicheun nuovo studio condotto dai ricercatori della University of California, San Diego School of Medicine mette ancora una volta sotto accusa l’effetto dell’assunzione di acidi grassi trans (dTFAs ) e gli attribuisce importanti conseguenze a livello dell’umore e del comportamento. Gli acidi grassi trans sono principalmente il prodotto del processo di idrogenazione, che serve a dare consistenza e solidità a temperatura ambiente agli oli insaturi; oli e grassi così idrogenati vengono quindi abbondantemente impiegati nella preparazione di margarine, snack dolci e in molti prodotti spalmabili comunemente in commercio. Gli effetti negativi dei dTFAs sulla salute sono già stati ampiamente evidenziati, a carico del sistema cardiovascolare, nella risposta insulinica e nei processi metabolici, ossidativi e infiammatori.

La ricerca in questione, che ha coinvolto quasi 1000 persone tra uomini e donne, fornisce invece la prima evidenza empirica che collega i dTFAs a comportamenti negativi verso terzi, che vanno dall’irritabilità alla franca aggressione. La squadra di UC San Diego per analizzare il rapporto tra dTFAs e irritabilità-aggressività ha raccolto informazioni sulla dieta di base dei partecipanti allo studio e ha incrociato i dati con quelli derivanti da un indagine comportamentale in cui sono state raccolte informazioni sulla storia di vita “di aggressività”, le modalità individuali di conflitto e auto-valutazioni sulla propria impazienza e irritabilità, così come è stata somministrata una scala che misurasse i comportamenti apertamente aggressivi attuati recentemente; altri dati come il sesso, l’età, il livello di istruzione, e l’uso di alcool o tabacco sono stati considerati. Gli acidi grassi trans non solo sono risultati significativamente associati con maggiore aggressività, ma addirittura si sono dimostrati i migliori predittori di comportamenti aggressivi rispetto ad altri fattori considerati e già noti come predittori di comportamenti aggressivi. Beatrice Golomb, a capo della ricerca, raccomanda una volta di più di “evitare di mangiare grassi trans, e di escluderli dall’alimentazione delle istituzioni come scuole e carceri, dato che gli effetti nocivi dei grassi trans possono estendersi al di là la persona che li consuma e avere conseguenze negative anche verso gli altri”.

 

 

BIBLIOGRAFIA: 

Psicologia & Letteratura: Le visioni di David Foster Wallace

Un viaggio nella mente e nelle opere di David Foster Wallace, genio della letteratura americana e personaggio di culto  suicidatosi nel 2008

David Foster Wallace. - Immagine: Licenza Creative Commons CC-BY-SA-2.0. Fonte:  Wikipedia Italia
David Foster Wallace

Cos’hanno in comune un pappagallo che recita sermoni cristiani su una tv via cavo, un depresso che induce al suicidio l’analista, un focomelico che utilizza il proprio moncherino come strumento di ricatto per portarsi a letto le donne e un uomo che studia meticolosamente una tecnica per riuscire a infilare la testa nel forno e accenderlo? Oppure un reportage sul dietro le quinte degli Open canadesi di tennis, l’analisi del significato dell’aggettivo “lynchiano” estrapolato dal set di “Strade perdute”, un approfondimento sull’ironia di Kafka e la fuga da una casa di riposo di una bisnonna studiosa di Wittgenstein? Oppure ancora, un viaggio attraverso le fiere campionarie del Midwest americano, la partecipazione agli Oscar del cinema porno, una riflessione sul destino delle aragoste, la descrizione di un talk show di estrema destra?

I Volti della Menzogna (Paul Ekman) l'arte di mentire senza farsi scoprire -
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Sono tutti personaggi e affreschi usciti dalla penna visionaria di David Foster Wallace, genio della letteratura americana suicidatosi nel 2008, non prima di essere diventato scrittore e personaggio di culto per milioni di lettori.

Incontrare la letteratura di Foster Wallace è un’esperienza che cambia radicalmente il modo di approcciarsi all’opera narrativa; Wallace è una mente fra le più tormentate del ventesimo secolo, percorsa da inquietudini profonde e visioni agghiaccianti, la sua scrittura spazia fra innumerevoli stili e tematiche, passando dal romanzo agile al reportage politico, dalla satira di costume all’oscuro contatto con le anime più sporche.

Il contesto di riferimento è l’America nei suoi infiniti volti, divisa e insieme unita da follie grottesche e realtà carnali, in cui ogni personaggio si muove seguendo una propria logica, un microcosmo di appartenenza che lo colloca sovente al di fuori da ogni razionale comprensibilità; è l’America della provincia, della povertà di spirito e dell’immaginazione più ricca, del dolore e dei significati estremi. La letteratura di Foster Wallace è spesso caricatura ma ancor di più descrizione naturalistica del limite umano, e intreccia storie leggere a meccanismi infernali che chiudono il lettore in una morsa. Il lettore è davanti a un bivio: tenersi sul margine della strada, ascoltare le parole sulla carta come il puro prodotto di un’abilità narrativa oppure chiedersi cosa muove il senso di quella struttura vacillante, ironica dal primo all’ultimo respiro e allo stesso tempo in perenne affinità con la distruzione e con la morte.

Il cinema della violenza di Haneke. Immagine con licenza d'uso Creative Commons - Autore: Georges Biard
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Foster Wallace rappresenta gli umani e le loro opere come un costante brulicare di elementi assetati di ristoro, e però sempre privati della possibilità di giungervi pienamente. Leggendo “La scopa del sistema”, “Infinite Jest”, “La ragazza dai capelli strani”, “Brevi interviste con uomini schifosi”, “Oblio”, “Considera l’aragosta”, “Tennis, tv, trigonometria, tornado e altre cose divertenti che non farò mai più” si entra in una dimensione sospesa, in un’atmosfera rarefatta dove il tempo si fa più minuto, più concentrato sull’assurda realtà di piccoli angoli che chiamiamo fantasia. Foster Wallace accetta ogni sfida narrativa, si immerge in contesti che possono risuonare più familiari al lettore oppure lo conduce attraverso gallerie di nevrosi apparentemente inafferrabili, personaggi il cui distacco dal mondo oggettivamente percepito è solo un pretesto per comunicare l’assenza di integrazione che ogni anima può sperimentare, in primis quella del lettore.

Melancholia, Lars Von Trier - Movie Poster - Property of Zentropa Entertainments
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L’America di Foster Wallace è un mostro vorace, talvolta una perdizione volgare, un diabolico connubio di pulsione e schiavitù della ragione, una promiscuità grottesca fra toni e colori che ci conducono assai lontano da tutto ciò che possa risultare rassicurante; l’America di Foster Wallace riceve linfa vitale dal caleidoscopio di volti e significati che quel continente in effetti rappresenta, ma allo stesso tempo viene utilizzata per eccesso con lo scopo di generare riflessioni universali sulla condizione umana. L’autore compie un giro immenso che ribalta le categorie della conoscenza formale, della convenienza negoziata all’interno del consesso umano, e lo fa per tornare al punto di partenza con un carico spasmodico di inquietudini prima sconosciute o meglio, prima negate. Al termine di questo percorso il lettore si ritrova nudo e incapace di reggere le consapevolezze dalle quali traeva forza in precedenza; al termine di questo percorso dionisiaco, bulimico, asfissiante il lettore si ritrova ferito da un dono che è anche protezione, il dono della piena verità soggettiva. Ogni cosa che pensiamo, ogni fantasia che schizza sangue come un’arteria recisa, come un fiume che tracima dal proprio letto, è prodotta dal nostro umano rincorrere, da un moto di incrollabile – talvolta disperata – energia vitale.

Bambini nel tempo: Comunicare la malattia e l’ Accudimento Invertito.

 

La questione di quanto sia giusto, doveroso, opportuno dire la verità a chi è stato colpito dal male e il rischio di Accudimento Invertito.

Bambini nel tempo: Comunicare la Malattia e l' Accudimento Invertito. - Immagine: © 1998-2012 Hoepli Editore. Immagine Riprodotta su gentile concessione dell'Editore.
© 1998-2012 Hoepli Ed. Immagine Riprodotta su gentile concessione dell'Editore.

Quando due genitori si ritrovano a dover affidare il proprio bambino ad un reparto di oncologia pediatrica è frequente che esprimano la richiesta, più o meno intransigente, che nulla sia detto al piccolo paziente sulla reale gravità delle sue condizioni, a maggior ragione quando la minaccia di morte è particolarmente concreta.

Questo atteggiamento rimanda ad un problema del tutto trasversale a qualunque ambito medico in cui ci si occupi di tumori, ossia la questione di quanto sia giusto, doveroso, opportuno dire la verità a chi è stato colpito dal male, soprattutto quando si tratta di una verità terribile. Se il protagonista poi è un bambino, è plausibile che si amplifichi il bisogno di tutelarlo e di proteggerlo, col rischio però di creare una situazione equivoca in cui sembra che una verità non detta corrisponda automaticamente ad una verità più clemente.

MIndfulness in rosa: ridurre lo stress nelle diagnosi di cancro al seno - Immagine: © Mark Abercrombie - Fotolia.com -
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Per gli adulti che gravitano intorno al bambino ricoverato con una diagnosi di tumore si pone pertanto la sfida di gestire al meglio la dimensione emotiva, psicologica e relazionale del percorso che va dalla presa in carico alla cura, e in questo gioca un ruolo cruciale il saper individuare un linguaggio che sia autentico ma allo stesso tempo anche rispettoso delle competenze e dei bisogni dei bambini.

Sfida non da poco: Freud era un fermo sostenitore del detto evangelico “la verità vi farà liberi”, ma nell’universo paradossale dei bambini che rischiano di morire sono pochi gli adulti (genitori o operatori) che sanno rispondere con naturalezza e sincerità a un bambino che chiede loro perché deve rimanere ricoverato tanto a lungo o se guarirà.

Eppure diversi studi dimostrano che proprio una comunicazione inibita e distorta, dove le informazioni fornite sullo stato della malattia non corrispondono ai segnali che i bambini ricevono dal proprio corpo, amplifica la percezione di incertezza e di paura, e addirittura rischia di innescare il pericoloso meccanismo per cui i piccoli si sentono in dovere di soffocare i propri dubbi e la propria angoscia per risparmiare ai grandi un’ulteriore sofferenza, in una forma drammatica di accudimento invertito (Massaglia e Bertolotti, 1998).

Il fatto che i bambini abbiano capacità intellettive ed emozionali diverse da quelle degli adulti non dovrebbe quindi costituire un pretesto per distorcere la realtà con informazioni vaghe ed illusorie, perché in questo modo si rischia di lasciarli ancora più soli di fronte all’angoscia di qualcosa che intuiscono come reale ma che è così spaventoso che nemmeno gli adulti hanno il coraggio di nominarlo.

ProYouth
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In questo senso risulta chiara l’importanza di un’attenta revisione degli stili e dei contenuti comunicativi, e un ottimo punto di partenza è ovviamente l’ascolto del punto di vista dei piccoli diretti interessati.

L’AGESO, Associazione Gioco e Studio in Ospedale, ha promosso una ricerca volta proprio ad indagare le emozioni, le paure e i vissuti dei bambini ricoverati utilizzando strumenti di grande libertà espressiva, come la poesia e il disegno; i risultati sono stati poi pubblicati nel testo “Ti racconto il mio ospedale” edito da Magi.

Oltre a fornire indicazioni preziose per tutti coloro che operano nell’ambito della malattia pediatrica, gli esiti dell’indagine offrono interessanti spunti di riflessione sul mondo dell’infanzia in generale.

Emerge infatti che quando i bambini sono messi in condizione di poter esprimere la propria opinione e di intervenire attivamente nelle vicende che li coinvolgono hanno anche meno paura del proprio mondo interiore e degli eventi eccezionali che possono trovarsi a dover affrontare. E in questo modo, la capacità di riflettere sulle proprie emozioni e di far sentire la propria voce nelle situazioni che li mettono in difficoltà diventa parte integrante del loro processo di crescita.

Non sempre il punto di vista del bambino coincide con quello dei genitori, e questo già di per sé ribadisce l’importanza di ascoltare anche il parere dei più piccoli, e non solo quello degli adulti che se ne occupano.

Di certo è sorprendente che il clima emotivo dei disegni sia il più delle volte privo di conflitti o tensione, o che le figure umane siano spesso rappresentate come sorridenti e serene , impegnate in attività di gioco: un monito per gli adulti che si confrontano con la malattia infantile, per ricordare che un atteggiamento sorridente, chiaro, che non sia bugiardo o frettoloso di fronte alle domande e alle paure dei bambini può (deve) fare la differenza.

 

 

BIBLIOGRAFIA: 

  • Guarino A., (2007) Psiconcologia dell’età evolutiva – La psicologia nelle cure dei bambini malati di cancro. Erickson
  • Massaglia P., Bertolotti M., (1998) Psicologia e gestione del bambino portatore di tumore e della sua famiglia. In R. Saccomani (a cura di) (1998) Tutti bravi. Piscologia e clinica del bambino malato di tumore, Milano, Raffaello Cortina.
  • Masera G. Tonucci F. (1998). Cari genitori. Hoepli (Fuori catalogo, non più in commercio).
  • F. Bianchi, M. Capurso, M. Di Renzo. (2007) Ti racconto il mio ospedale. Esprimere e comprendere il vissuto della malattia. Edizioni Magi

La motivazione a essere attivi ed i comportamenti impulsivi.

– Rassegna Stampa – 

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze PsicologicheUn nuovo studio pubblicato su Motivation and Emotion sembrerebbe suggerire che chi si pone in un’ottica motivazionale fortemente “attiva” (e probabilmente doverizzante) tesa verso il cambiamento paradossalmente si spianerebbe la strada per non riuscirci.

In un primo esperimento ai soggetti sperimentali sono state mostrate parole che suggerivano l’idea di essere attivi (come ad esempio “iniziare”, “attivo”, etc.) oppure l’idea di essere meno attivi e più tranquilli (“fermarsi”, “stop”, “pausa”). A seguito di questa esposizione concettuale, i ricercatori hanno valutato l’autocontrollo dei soggetti misurando il loro desiderio di ottenere una immediata ricompensa economica al posto di una somma di denaro maggiore ma dilazionata nel tempo; similmente in un secondo esperimento, dopo il priming verbale già descritto veniva misurata l’impulsività dei soggetti attraverso un gioco al computer.

In entrambi gli esperimenti, i soggetti che erano stati sottoposti al priming “attivo” avevano maggiori probabilità di effettuare scelte impulsive a scapito di obiettivi a lungo termine e mostravano un minor controllo dell’impulsività rispetto a coloro che erano stati sottoposti a parole che si riferivano a un minore attività e maggior tranquillità.

A livello naif si sente dire spesso che le persone per mantenere l’autocontrollo devono attivamente imporsi con la volontà e attivamente combattere contro le tentazioni; questi esperimenti sembrano suggerire che i tentativi di motivare sé stessi a essere attivi nel far fronte alle tentazioni può incrementare la propensione verso comportamenti impulsivi; secondo gli autori motivarsi a un atteggiamento più calmo e meno teso al cambiamento sarebbe più funzionale a evitare decisioni impulsive (forse lasciando più spazio all’utilizzo del pensiero nell’associazione stimolo-azione). Indubbiamente sarebbe interessante riproporre lo studio sperimentale su un campione clinico di pazienti con difficoltà nella regolazione degli impulsi.

 

 

BIBLIOGRAFIA:  

Fare acquisti usando il cervello: NEUROMARKETING by Martin Lindstrom

 

Meglio la Pepsi o la Coca Cola? Qualunque sia la vostra risposta, non è detto che il vostro cervello sia d’accordo.

Fare acquisti usando il cervello: Neuromarketing, by Martin Lindstrom - Immagine: © vege - Fotolia.com Nel 2003 il dottor Read Montague decise di replicare l’esperimento Pepsi Challenge del 1975 (un’iniziativa pubblicitaria della Pepsi che prevedeva un test di assaggio cieco delle due bevande) con uno studio di risonanza magnetica funzionale (fMRI).

Nel nuovo esperimento, ad un gruppo di volontari furono offerte le due note bibite in bicchieri anonimi e fu richiesto di esprimere la propria preferenza: come già accadde nel 1975, più della metà dei soggetti riferì di preferire la Pepsi e così il loro putamen ventrale, area cerebrale che si attiva quando troviamo attraente un gusto.
Alla luce di questa nuova evidenza, come mai la Pepsi non riusciva a spodestare il primato sul mercato dell’acerrima rivale? Nella seconda parte dello studio si osservò che se prima dell’assaggio si comunicava ai volontari cosa stavano per bere, più della metà degli intervistati dichiarava di preferire…la Coca Cola!

Una scelta razionale. Davvero? (Psicologia dei Consumi) - Immagine: © M.Gove - Fotolia.com
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I loro cervelli mostravano non solo l’attivazione del putamen, ma anche della corteccia prefrontale mediana, da cui dipende il meccanismo del discernimento.

Ecco svelato il mistero: nella lotta cerebrale tra pensiero razionale ed emozionale la Coca Cola ha la meglio; con la sua storia, il suo logo, il design, le sue pubblicità, insomma la sua cocacolosità, coinvolge emotivamente il consumatore e questa risulta la carta vincente.

La possibilità di studiare cosa accade nel cervello del consumatore quando sceglie una marca piuttosto che un’altra spalanca un nuovo orizzonte: il neuromarketing.

Martin Lindstrom ha condotto un imponente studio fMRI e SST che ha coinvolto 2000 soggetti da tutto il mondo, durato ben 3 anni e costato 7 milioni di dollari. I risultati sono sconvolgenti e ribaltano le conoscenze finora acquisite sui comportamenti di consumo.

Questo divertente libro, infarcito di aneddoti e curiosità su marchi famosi, accompagna il lettore alla ricerca delle caratteristiche ultime che un brand deve avere per rimanere indelebile nella nostra mente e risponde a grandi interrogativi sui comportamenti di consumo. Vi siete mai chiesti se la pubblicità occulta funzioni veramente? Se dopo aver visto Top Gun siete corsi a comprare un paio di Rayban, siete stati vittime di un’azzeccata manovra di product placement (se vi può consolare, avete contribuito a risollevare le sorti di un’azienda che era sull’orlo del fallimento). Ma la pubblicità occulta funziona solo se il prodotto è parte integrante della narrazione; a meno che il brand non svolga un ruolo fondamentale nella storia, nessuno se ne ricorderà. E per fortuna! Altrimenti chi ha visto Driven (2001) di Sylvester Stallone avrebbe rischiato di finire sul lastrico, considerando che in 117 minuti di film compaiono ben 103 marche!

Paradosso del Donatore. Immagine: © Ariwasabi - Fotolia.com -
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Leggendo “Neuromarketing” scoprirete inoltre come la pubblicità subliminale vi influenzi ogni giorno e come gli odori e i suoni siano più potenti di qualsiasi logo nella spinta all’acquisto (tutti ricordano l’odore del talco Johnson & Johnson più del suo logo); che non solo le terrorizzanti etichette sui pacchetti di sigarette non funzionano come deterrente, ma paradossalmente aumentano la voglia di fumare; e ancora, che certi prodotti sono addirittura in grado di ispirare lo stesso senso di fedeltà e devozione provocato…dalla religione (la Apple ne è esempio lampante)!

Ma che cosa nel nostro cervello rende certi prodotti più memorabili e attraenti di altri? La risposta riguarda una delle più grandi scoperte dei nostri tempi: i neuroni specchio. Queste cellule si attivano sia quando osserviamo qualcuno compiere un’azione finalizzata sia quando siamo noi a compiere l’azione. Quando entrate da Abercrombie & Fitch e venite accolti dalla commessa/modella di una bellezza inarrivabile vestita A&F, i vostri neuroni vi stanno dicendo “voglio essere come lei” e in men che non si dica vi ritrovate con il portafogli più leggero e un sacchetto pieno di magliette e jeans in mano. E quando in piedi sul divano vi atteggiate a rockstar impugnando la chitarra di Guitar Hero, i vostri neuroni specchio vi stanno facendo sperimentare la stessa ondata di piacere che provereste se viveste realmente quelle fantasie.

Fare shopping ci rende davvero più felici (sul brevissimo termine) perché ad ogni acquisto il nostro cervello si ritrova a bagno nella dopamina e sperimenta una meravigliosa sensazione di benessere. Da qui l’importanza di essere un po’ più consapevoli dei meccanismi che entrano in gioco quando compriamo un prodotto, prima che “il nostro cervello emotivo azzeri completamente la nostra carta di credito” (Prof. Laibson).

 

 

BIBLIOGRAFIA:

  • Lindstrom, M. (2009) Neuromarketing. Attività cerebrale e comportamenti d’acquisto (titolo originale: Buyology. Truth and Lies About Why We Buy). Milano. Apogeo srl Vuoi comprare questo libro? LINK
  • McClure SM, Li J, Tomlin D, Cypert KS, Montague LM, Montague PR: Neural correlates of behavioral preference for culturally familiar drinks. Neuron 2004, 44:379-387.

Working memory, prestazioni scolastiche e la paura di sbagliare.

– Rassegna Stampa – 

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze PsicologicheIn psicoterapia si sa, moltissime volte ci troviamo alle prese con il perfezionismo patologico del paziente (si spera non anche del terapeuta..), con il criticismo genitoriale e con tutti gli svantaggi che ne derivano a livello emotivo e sintomatologico. Una nuova ricerca pubblicata online su Journal of Experimental Psychology: General ce ne fornisce un’ulteriore riscontro empirico.

In un primo esperimento a un centinaio di studenti francesi (frequentanti la sesta classe, corrispondente alla nostra cosiddetta prima media) è stato chiesto di risolvere un anagramma molto complesso che nessuno di essi sarebbe stato in grado di risolvere: a un gruppo di studenti è stato dedicato uno spazio di riflessione in cui è stato loro detto che l’apprendimento può essere faticoso, che gli errori sono frequenti e parte dell’apprendimento stesso, e che con l’esercizio poi è possibile migliorare; agli altri è stato semplicemente chiesto di risolvere l’anagramma. I ricercatori hanno quindi misurato la capacità di working memory degli studenti, funzione essenziale per l’elaborazione delle informazioni e buon predittore di diversi aspetti del funzionamento scolastico.

I risultati hanno dimostrato che gli studenti cui era stato specificato che l’apprendimento implica l’errore hanno fornito prestazioni significativamente migliori nei test di working memory rispetto a coloro cui era stato solo chiesto di risolvere l’anagramma così come anche rispetto a un terzo gruppo di controllo che non aveva risolto nessun tipo di compito né aveva avuto momenti di riflessione riguardi i processi di apprendimento.

Simili risultati si sono riscontrati in un secondo e terzo esperimento in cui le variabili di outcome erano la comprensione di testi scritti e le proprie emozioni e credenze riguardo la propria competenza scolastica: coloro che avevano condiviso un breve momento di riflessione sui possibili errori e difficoltà insite nei processi di apprendimento, non solo presentavano migliori prestazioni nelle prove di comprensione scritta ma riportavano un minor senso di incompetenza in ambito scolastico.

Certamente lo studio dimostra un miglioramento che è temporaneo nei test di working memory e comprensione scritta ma è pur provato in letteratura che la working memory è uno tra i predittori di buon funzionamento scolastico; inoltre da questa ricerca sembrerebbe che favorendo l’autoefficacia e riducendo il timore dell’errore sia possibile impattare anche su abilità prettamente cognitive quali la working memory.

Speriamo che studi come questi raggiungendo non solo gli psicologi, ma anche un pubblico più ampio possano demolire la diffusa credenza che equipara l’errore all’inferiorità intellettuale e che alimenta sia negli adulti che nei bambini forti pressioni prestazionali e perfezionistiche e relativi vissuti ansioso-depressivi, innestando quindi circoli viziosi disfunzionali sia per il benessere psicologico che per la performance.

 

 

BIBLIOGRAFIA:  

Psicologia e Tecnologia: nuova App per Smartphones contro la Depressione

Un App per avvisarti che sei depresso: terapisti virtuali e nuove tecnologie per trattare la depressione.

Passi il weekend da solo nel tuo appartamento? Un’applicazione sul tuo nuovo smartphone sarà in grado di intuire quando sei depresso e consigliarti di chiamare gli amici o di uscire.

Psicologia e Tecnologia: nuova App per Smartphones contro la Depressione. - Immagine: © 2012 Costanza Prinetti I ricercatori della Northwestern University Feinberg Medical School stanno sviluppando nuove applicazioni elettroniche per il trattamento della depressione. Seguendo i progetti degli psicologi della prestigiosa università, infatti, il futuro della terapia della depressione, così come di altri disturbi del’umore, sarà presto virtuale: il telefono, così come altri supporti tecnologici, supereranno le tradizionali sessioni settimanali faccia a faccia per favorire un metodo che garantirà un supporto immediato e raggiungerà una fetta di popolazione decisamente più ampia.

Cyberpsicologia e realtà virtuale. - Immagine: © Andrea Danti - Fotolia.com
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“Stiamo inventando metodi nuovi con cui la tecnologia può essere d’aiuto alle persone con disturbi mentali”, dice lo psicologo David Mohr, direttore del nuovo Center for Behavioral Intervention Technologies e professore alla Feinberg University. Secondo gli studiosi, tali tecniche avranno un impatto enorme sul trattamento e sulla prevenzione di disturbi come la depressione, proprio per il fatto di raggiungere un gran numero di persone, sia quelle che hanno difficoltà a spostarsi e raggiungere centri specialistici, sia chi invece è meno propenso a una psicoterapia tradizionale, senza aggiungere il fatto che si tratta di servizi che possono essere offerti a un costo decisamente inferiore ai classici colloqui faccia a faccia.

Ma vediamo concretamente di che cosa si tratta:

Un primo progetto riguarda un’applicazione facilmente installabile sul telefonino in grado di individuare sintomi depressivi attraverso il monitoraggio dei sensori nel telefono e dei dati dell’utente – come i luoghi frequentati, il livello di mobilità o sedentarietà, il contesto sociale, le interazioni via mail e social media e il tono dell’umore.

Fai telefonate e ricevi e-mail quotidianamente? Se il telefono – che ha memorizzato le tue abitudini – percepisce che sei rimasto isolato troppo a lungo, ti suggerirà di uscire o vedere amici. “Incoraggiando le persone a intraprendere comportamenti piacevoli e con benefici, crediamo che questa nuova applicazione migliorerà l’umore” dice il dr. Mohr. “Creiamo così un circolo di feedback positivi. Chi è incoraggiato a vedere amici sarà poi contento e vorrà ripetere l’esperienza. Ruminare da soli a casa provoca l’effetto opposto e causa una spirale discendente”. Uno dei vantaggi maggiori di tale strumento è la possibilità di offrire un nuovo livello di supporto alle persone che soffrono di depressione e intervenire per modificare i comportamenti in tempo reale.

ProYouth
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Accanto a questa invenzione, i ricercatori hanno anche progettato una sorta di porta pillole in grado di indicare se si è dimenticato di prendere la terapia farmacologica quotidiana. Tale boccettina cerca di risolvere il problema di tutte quelle persone che smettono di prendere gli antidepressivi, soprattutto per chi è seguito solamente dal medico di base e non ha controlli regolari con uno specialista. Questo metodo è già stato testato anche per gli usi al di fuori dei disturbi dell’umore, come ad esempio per verificare l’aderenza farmacologica di pazienti schizofrenici o con HIV.

Ma la tecnologia non si ferma qui: un assistente virtuale sarà anche in grado di incrementare capacità sociali e di assertività ad adolescenti e bambini, grazie a simulazioni in role playing. In questo modo, dicono i ricercatori, i giovani vengono ingaggiati più facilmente attraverso una modalità che appare quasi un gioco e disporrà di diversi tipi di situazioni sociali spesso imbarazzanti e difficili da approcciare con i ragazzi.

Progetto iSpectrum: un Serious Game per favorire l'inserimento nel mondo del lavoro di chi è affetto da autismo
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Il mondo della terapia online non è nuovo ma non si può ignorare che ultimamente siti web che offrono consulenze online o sorta di trattamenti rapidi e a basso costo vengono offerti con sempre maggiore frequenza e se ne parla sempre più. C’è chi si proclama inesorabilmente contro tutte le forme che tolgono la relazione dal percorso terapeutico, chi le accetta un po’ di più ma non le condivide fino in fondo e chi invece pensa che questo sia il futuro (o il destino) della psicoterapia. Che ci si ritrovi in una corrente piuttosto che in un’altra poco importa, di sicuro questo è un fenomeno che non si può ignorare e, da giovane psicoterapeuta in formazione, credo che l’aiuto virtuale abbia enormi potenzialità da poter sfruttare a vantaggio della terapia e dei terapeuti, senza andare a togliere o a sostituirsi a quello che è il lavoro sulle relazioni.

E voi, che ne pensate?

 

 

BIBLIOGRAFIA:  

Dipendenza Amorosa e Sessuale: Shame, di Steve McQueen

Umberta Telfner.
Questo articolo è pubblicato anche su vitadidonna.org 

Dipendenze Amorose e Sessuali: Shame, di Steve McQueen. - Immagine: The poster art copyright is believed to belong to Fox Searchlight Pictures.

Ho recentemente visto Shame, il film di Steve McQueen, con Michael Fassbender e  Carey Mulligan presentato al Festival di Venezia (2011) e vincitore della  Coppa Volpi per la migliore interpretazione maschile.

Un film sulla dipendenza amorosa e sessuale, due lati di una stessa medaglia. Brandon e la sorella Sissy sono legati da un filo doppio e da un passato probabilmente tragico e molto violento rispetto al quale non ci verrà svelato nulla. Da psicologa mi immagino una famiglia profondamente invischiata, senza confini, probabilmente abusante, così come fusi insieme sembrano i due fratelli che potrebbero aver avuto un rapporto molto troppo stretto (sessuale?) da ragazzini data la paura dell’intimita e l’aggressività di Brandon a seguito dell’entrata della sorella nella sua vita.

Fratello e sorella hanno poi preso due strade complementari nella sofferenza e nella dipendenza: la giovane donna non riuscendo a fare a meno di un punto di riferimento amoroso -dipendente affettiva- e l’uomo vivendo con una compulsione sessuale parossistica e l’incapacità di stabilire rapporti intimi con le altre persone.

Ambedue hanno la sensazione di non esistere senza le azioni che compulsivamente mettono in atto: lei si taglia e pietisce attenzione, mascherandosi appena da vittima e cercando amore come ossigeno per vivere; lui, freddo e controllato e apparentemente sempre altrove, consuma sesso con dolore, cercando orgasmi che non sembrano dargli piacere (il suo volto mentre gode pare una maschera di dolore). Ogni volta è come se nulla fosse avvenuto, ogni prestazione cancellata dal bisogno di un’altra prova.

Psicoterapia cognitiva: le dipendenze patologiche e il lato oscuro del desiderio. - Immagine: © Andrea Danti - Fotolia.com
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Dal primo momento vediamo Brandon, bello, sensuale e freddo, in un letto solitario che si tocca e lo seguiremo poi nelle sue peregrinazioni sessuali, sempre alla ricerca di sesso facile a pagamento (prostitute, masturbazione compulsiva, siti porno di ogni genere, provocazioni a donne di altri, uomini, dark rooms in locali gay, tutto fa brodo purchè non condito da intimite progettualità; Il suo motore psichico e perennemente fuori giri e la sessualitè costantemente utilizzata come strategia per spegnere l’ansia.

La relazione con la sorella appare costretta in tale modo che nessuno dei due ha spazio per nessun altro legame: il matrimonio fra loro due, nella disperazione più totale e nell’incapacità di darsi reciprocamente aiuto se non nei momenti di crisi assoluta. C’è anche colpa, Brandon sembra sentirsi in colpa verso la sorella, la tollera a casa, la sente come un peso e non ha il coraggio nè la forza di aiutarla nè di cacciarla, di nuovo non sappiamo perchè (una seduzione giovanile?) ma il sentimento è tangibile nella trama.

Un abbraccio mortale esattamente come mortale il rapporto di ambedue con la sua dipendenza: sesso e morte come coniugati da Freud. Ambedue hanno bisogno di sesso (lui), amore (lei) per sapere di essere vivi e perpetrano probabilmente sugli altri quello che è stato fatto a loro: possiamo ipotizzare che siano stati reificati nel loro passato perchè trattano gli altri ora come oggetti, seguendo un copione tutto loro e sempre uguale. Ripetitivo e ansiogeno, una caduta negli abissi della solitudine, della morte psichica, tutti e due.

Il film propone scene di sesso e disperazione ma non sensuale nè erotico. Lo psicoanalista Lacan sosteneva che per l’erotismo fosse necessaria la presentificazione dell’altro, l’incontro con un interlocutore, mentre qui abbiamo due solitudini allo specchio: ognuno vede solo se stesso ed è solo con se stesso, l’altro non esiste se non come persecutore per lei e prestazione sessuale per lui. Interessante come la critica si sia occupata soprattutto della dipendenza di lui, trascurando quella assolutamente complementare e altrettanto grave di lei (viene descritta anche un’altra forma di dipendenza, quella dell’amico David che ha un bisogno parossistico di ricevere conferme). Segno dei tempi e del retaggio romantico della nostra cultura: siamo abituati ad una donna che pietisce amore, ipoaggressiva, non ci stupisce che una femmina non possa amare senza dipendere.

Erezioni virtuali - Immagine: © Blanca - Fotolia.com -
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Fa ancora scandalo invece mostrare la debolezza di un uomo, anche se questa debolezza rivelata attraverso scopate con donne consenzienti, spesso professioniste del sesso, sempre belle. Debolezza? Certo, la ricerca del sesso è la droga che assoggetta Brandon e fa di lui quello che vuole, lo guida come fosse un burattino; il suo Io è annullato dal bisogno di sesso e questa ricerca è più forte di lui, lo possiede in un bisogno mortifero che non gli dà tregua e non gli permette di ritrovarsi. Proprio come le droghe pesanti, sempre di più e mai abbastanza. Brandon pur di fare sesso appare pronto a trascurare il lavoro, il successo, la sua vita e per il sesso – che nasconde agli altri come segreto vergognoso ma ineludibile, rischiando anche sul lavoro – ha perso la possibilità di esprimere le proprie emozioni, di vivere la vita, di connettersi con gli altri (nell’unico corteggiamento normale appare distante e sprovveduto, contemporaneamente).

Angoscioso questo film che mostra l’ansia e la disperazione quasi onnipresenti di un giovane uomo di questi tempi. Lo fa in modo volutamente lento, con poche parole e molte azioni, mostrandoci una New York insolita (Brooklyn?) accompagnata da una musica raffinata .

Il film mi è piaciuto molto, lo consiglio.

Umberto Galimberti e la Terapia Cognitiva

Sandra Sassaroli e Giovanni M. Ruggiero.

Articolo di risposta a Galimberti e Recalcati riguardo alle loro recenti dichiarazioni sulla Terapia Cognitiva e Comportamentale.

A pochi giorni fa risale l’ultima frecciatina sui media tra cognitivisti e psicoanalisti.

A volte questi battibecchi tra cugini rivali rischiano di essere la versione povera delle discussioni tra filosofi analitici e filosofi continentali. O la versione ricca, parendo che i filosofi guadagnino meno di noi psicoterapeuti.

Analitici e continentali” è un bel libro (uscito nel 1997 per Cortina) della filosofa Franca D’Agostini. Un libro che descrive con grande ricchezza la contrapposizione tra due modi differenti di fare filosofia: “la tradizione analitica, attiva soprattutto nei paesi di lingua inglese e in Scandinavia, e la tradizione che a un certo punto fu detta ‘continentale’ ovvero europea, attiva specificamente in Germania, Francia, Spagna, Italia.”

E tra due modi diversi di essere filosofi: “gli analitici praticavano un tipo di filosofia argomentativamente impeccabile, attenta alle ragioni della scienza e del senso comune, inquadrata accademicamente come una scienza e autoconsapevole del proprio ruolo scientifico; i continentali praticavano una filosofia associativa (o «conviviale») più che argomentativa, interessata alla sfera pubblica prima che alla ricerca e all’insegnamento, oppure indirizzata a proseguire la tradizione della saggezza occidentale.” (D’Agostini, 2010).

Gli analitici producono un tipo di filosofia che accetta il paradigma empirico (si è parlato addirittura di filosofia sperimentale). Una filosofia interessata soprattutto all’analisi del linguaggio e dei criteri di verità e di scientificità degli asserti, e così via. I continentali producono un sapere senza stare troppo a sottilizzare sui criteri di verità e di scientificità, un sapere che tenta di dare significato al mondo e di interpretarlo. È una filosofia più ermeneutica.

Tutto questo mostra qualche somiglianza con le differenze tra terapia cognitiva e psicoanalisi, e giustifica alcune contrapposizioni. Il richiamo cognitivista al criterio empirico e il collegamento di alcune correnti della psicoanalisi con il pensiero ermenutico tornano subito alla memoria.

Il problema è che queste contrapposizioni sono anche semplicistiche. Il libro della D’Agostini è bello proprio perché mostra come i due campi si sovrappongano spesso. C’è tutta una corrente ermeneutica e francesizzante nelle Università del mondo anglo-sassone, in teoria regno della filosofia analitica. Ricordate nella “Macchia Umana” di Roth la docente di stile ermeneutico e francofila di “gender studies”, nemica del protagonista? Ricordate di come il protagonista si lamenti che questi docenti di gusto francese abbiano invaso le università americane?

Inoltre l’empirismo anglo-sassone è sempre più pragmatista. La conseguenza è che in esso il criterio di verità è sempre più sostituito dal criterio di efficienza. Ebbene, ne deriva che nel pragmatismo prolifera una corrente ermeneutica in cui si raccomanda non tanto la ricerca empirica della verità, quanto la produzione efficace di significato. E questo lo vediamo anche in terapia cognitiva: correnti cognitive sia costruttiviste che perfino standard che cercano non la verità, ma il senso che fa stare meglio. Il “cash value” piuttosto che la verità del pensiero, come raccomandavano i pragmatisti Charles Sanders Pierce e William James.

Insomma, questi psicoanalisti come Galimberti o Recalcati che in nome di uno spirito europeo, continentale ed ermeneutico tacciano il cognitivismo di gelido efficientismo scientista (e addirittura al servizio del capitalismo) sono dei semplificatori.

Ci può essere anche un efficientismo che si sposa non allo scientismo, ma a una posizione ermeneutica, a quanto pare. Ragionando così, tanto vale semplificare a nostra volta. Questo articolo vuole essere a sua volta una facile forzatura. In attesa d’interazioni più sottili e più fruttuose, va bene battibeccare così.

Così è, se vi pare.

 

 

BIBLIOGRAFIA:

Le canzoni nei giardini che nessuno sa. – Gruppo di Ascolto Musicale in Ospedale.

 

Quel dolore che non sai cos’è, valigie vuote da un’eternità, tanti viaggi rimandati e già, solo lui non ti abbandonerà mai.
[Nei giardini che nessuno sa, Renato Zero, 1994]

 

Le Canzoni nei giardini che nessuno sa. Gruppo di Ascolto Musicale in Ospedale. -  Immagine: © spiral - Fotolia.com Da tre anni tengo settimanalmente un gruppo di ascolto della durata di un’ora con i pazienti ricoverati nel reparto dove lavoro presso l’Ospedale Privato Villa Igea di Modena. L’esperienza di ascolto di canzoni nel nostro reparto è successiva a quella del Dr. PierLuigi Postacchini, neuropsichiatria infantile e musicoterapeuta, che ha tenuto per anni gruppi simili nel reparto doppia diagnosi e al Day Hospital di Villa Igea. Nell’impostare il gruppo mi sono ispirato al modello di Postacchini (Postacchini et al, 1997), seppure con qualche modifica.

I pazienti che partecipano sono affetti prevalentemente da disturbi affettivi (depressione maggiore, depressione bipolare, disturbo schizoaffettivo), disturbi della personalità (in particolare del cluster B) e alcolismo. Occasionalmente partecipa anche qualche paziente affetto da psicosi.

La partecipazione al gruppo viene consigliata dall’equipe di medici e psicoterapeuti, come quella agli altri gruppi (skill training, mindfullness, rilassamento, gruppi psicoeducativi sull’abuso di alcol e sostanze), che costituiscono un percorso clinico di trattamento dei disturbi affettivi e della personalità della durata media di quattro settimane.

Le Metafore Psicologiche dei Cantautori Italiani. - Immagine: © nmarques74 - Fotolia.com
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Ascoltiamo prevalentemente canzoni italiane che scelgo io, ma i pazienti possono proporre dei brani (anche se non è così frequente che un paziente ricoverato abbia con sè in ospedale la propria musica preferita). In ogni incontro vengono ascoltate generalmente tre canzoni.

Durante l’ascolto viene richiesto ad ogni paziente di compilare una apposita scheda, una sorta di scheda ABC musicale, in cui sono elencate diverse emozioni e la loro intensità secondo una scala di Likert (1932) a cinque modalità di risposta (per nulla, poco, abbastanza, molto, moltissimo). La scheda comprende anche uno spazio libero per segnare pensieri, emozioni e immagini.

Ho ritenuto di utilizzare tale strumento durante l’ascolto per favorire l’individuazione e il riconoscimento degli effetti dell’ascolto del brano e anche per favorire la concentrazione sulla musica. Il fatto di dover scrivere e di avere un piccolo compito da fare diminuisce i commenti e la comunicazione tra i pazienti durante l’ascolto. Alla fine di ogni brano ogni partecipante legge quello che ha scritto e segue una discussione di gruppo.

Uno dei pazienti, a turno, viene incaricato di redigere una sorta di cronaca della seduta segnando le canzoni che vengono ascoltate e i commenti di ognuno, leggendoli la volta successiva, in modo tale da dare una continuità all’esperienza.

La partecipazione al gruppo è stata caratterizzata fin da subito da un certo entusiasmo, sicuramente da addebitare alla presenza della musica, che è come se infondesse vitalità all’ambiente ospedaliero e al difficile percorso di cure. L’idea che si possano ascoltare canzoni in un luogo di cura crea in molte persone aspettative positive, piacevoli e quasi ludiche.

Alcuni pazienti, particolarmente inibiti e coartati emotivamente, in particolare quelli affetti da psicosi, si attivano durante il gruppo, mostrando una vitalità che difficilmente ho notato in altri momenti del ricovero. Questo effetto rivitalizzante l’ho notato soprattutto con l’ascolto dei brani dei cantautori italiani classici (De Andrè, Guccini, De Gregori). Questo potrebbe essere dovuto al fatto di ricordare con nostalgia momenti del passato, magari di un passato in cui la malattia non c’era ancora e si era più giovani e spensierati.

Musica didattica metacognitiva - © Tommi - Fotolia.com
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Una delle finalità principali del gruppo è l’allenamento al riconoscimento delle proprie emozioni, una sorta di “palestra del sentire”.

Dagli anni sessanta la ricerca sulle emozioni nella musica ha avuto un fervido sviluppo, arrivando perfino a utilizzare programmi al computer che permettevano di misurare le modificazioni temporali delle emozioni che avvengono durante l’ascolto di un brano (Sloboda, Juslin, 2001).

Come è ben noto spesso i pazienti affetti da gravi disturbi di personalità e da schizofrenia presentano difficoltà costanti in specifiche funzioni metacognitive. Per funzioni metacognitive si intendono tutte quelle abilità che consentono alle persone di attribuire e riconoscere stati mentali in sé e negli altri a partire da espressioni facciali, stati somatici, comportamenti e azioni; di riflettere e ragionare sugli stati mentali e di utilizzare le informazioni sugli stati mentali per decidere, risolvere problemi o conflitti psicologici e interpersonali e padroneggiare la sofferenza soggettiva (Semerari et al., 2005; Gold et al., 2012).

Musica & Terapia: "La prossima volta porti la chitarra". - Immagine: © RA Studio - Fotolia.com
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Durante il gruppo i pazienti riportano sulla scheda pensieri, emozioni ed immagini che emergono durante l’ascolto personale e, fatto altrettanto importante, hanno un’occasione anche per ascoltare i vissuti degli altri di fronte allo stesso stimolo. Si allenano a mettersi nei panni degli altri ad ascoltarne, capirne e rispettarne il punto di vista, in un atteggiamento che favorisce la mentalizzazione degli stati d’animo. Una delle consegne che vengono date prima dell’ascolto è che non c’è mai niente di giusto o sbagliato nell’effetto che il brano ha sulle persone. Questo per evitare frustrazioni o atteggiamenti compiacenti di persone che vorrebbero più fornire un’interpretazione del brano in un tentativo di razionalizzazione, piuttosto che raccontare in che modo il brano li ha toccati in modo personale.

Il gruppo consente inoltre di raccogliere in modo “indiretto” informazioni preziose sulla storia e sulla vita psichica dei pazienti, che magari non emergono direttamente durante il colloquio e che comunque potrebbero rivestire una certa importanza.

La saggezza del Rock' n' roll. - Immagine: © Isaxar - Fotolia.com
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Ad esempio ricordo un paziente affetto da disturbo della personalità borderline e poliabuso di alcol e sostanze, ricoverato per ripulirsi e per valutare se intraprendere un impegnativo percorso di comunità, durante l’ascolto di Andrea (1978) di De Andrè (non certo un inno agli eccessi) ha segnato come immagine quella di un gin tonic in quanto la canzone gli ricordava un periodo di particolari festini, accompagnata da emozioni di estasi, piacere, gioia. Inutile dire che alla scadenza del ricovero la sua decisione è stata quella di tornare a usare alcol e sostanze. Come diceva il saggio “la musica non mente mai”.

In un’altra occasione è capitato di ascoltare “Il Cielo” (1977) di Renato Zero e un giovane paziente affetto da una grave forma di psicosi paranoide ha mostrato una forte reazione di omofobia nei confronti del brano e del cantante. Sicuramente se fosse stato presente uno psicanalista si sarebbe sbizzarrito in gustose interpretazioni!

Quando si ascolta una canzone, infatti, l’attenzione non è solo diretta all’opera, ma spesso viene preso in considerazione anche l’autore, con la sua storia, con ciò che rappresenta a livello sociale e anche con le sue caratteristiche (o talvolta problematiche) psicologiche. Molte persone si identificano nei cantanti, li prendono come modello, vorrebbero imitarli. L’analisi di questi fenomeni può aiutare ulteriormente la comprensione dell’utente da parte del terapeuta.

Emblematico è il caso di Vasco Rossi che per tanti anni ha rappresentato il simbolo della trasgressione e della ribellione, della vita spericolata, in cui volendo si possono ritrovare alcuni aspetti tipici del disturbo di personalità borderline. Lavorando con diversi pazienti doppia diagnosi (alcolisti o con pregresso uso di sostanze) ho avuto diversi dubbi circa l’opportunità di inserire Vasco Rossi nella playlist, con il timore di un possibile effetto di incoraggiamento dei comportamenti di abuso. In realtà ascoltando l’ultima produzione di Vasco sono rimasto colpito dall’evoluzione del personaggio verso una dimensione più saggia e riflessiva. Una canzone che ascoltiamo spesso è “Il mondo che vorrei” (2008) che recita “Non si può fare quello che si vuole, non si può spingere solo l’acceleratore”. Un bel cambiamento da “Vado al massimo” (1982) o da “Fegato spappolato” (1984). D’altra parte è stato provato come certi tratti borderline siano destinati a smussarsi con gli anni (Venturini et al., 2011). Il Vasco Rossi saggio è indubbiamente una grande sorgente di speranza. Per tutti.

 

LEGGI LA SECONDA PARTE DELL’ARTICOLO

 

BIBLIOGRAFIA: 

 

MATERIALI: 

L’importanza del training genitoriale nel trattamento dei bambini con autismo.

– Rassegna Stampa –  

E’ il training genitoriale che fa la differenza nel trattamento dei problemi comportamentali nei bambini con autismo: esiti di un trial multicentrico.

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze PsicologicheNel numero di febbraio del Journal of the American Academy of Child & Adolescent Psychiatry un gruppo di ricercatori di Yale hanno riportato uno studio secondo cui bambini con diagnosi di disturbo dello spettro autistico – e che presentano anche difficoltà comportamentali- avrebbero esiti migliori di trattamento nella condizione in cui accanto a terapie farmacologiche si combinino specifici interventi di training sui genitori.

Lo studio è l’esito di un trial multicentrico finanziato dal National Institute of Mental Health che ha coinvolto 124 bambini di età compresa tra i 4 e i 13 anni con diagnosi di disturbo dello spettro autistico. Oltre alla diagnosi di autismo, i bambini che hanno costituito il campione del trial presentavano anche gravi problemi comportamentali, tra cui frequenti comportamenti auto ed etero aggressivi. I piccoli soggetti sono stati randomicamente assegnati a una di due condizioni sperimentali: a) sei mesi di trattamento soltanto farmacologico (risperidone); b) sei mesi di trattamento farmacologico (risperidone) con in aggiunta un programma di training rivolto ai loro genitori focalizzato sulle modalità di gestione dei problemi comportamentali del figlio.

Dai risultati emerge che la combinazione del trattamento farmacologico con il training genitoriale ha come esito un miglioramento significativamente maggiore in termini di comportamenti adattivi rispetto al solo trattamento farmacologico. Entrambi i gruppi sperimentali hanno dimostrato miglioramenti nella comunicazione e nell’interazione sociale, ma solo la condizione combinata (trattamento farmacologico e training genitoriale) ha mostrato un incremento maggiore nelle misure di funzionamento comportamentale adattivo nella quotidianità.

Sulla base di questi risultati i ricercatori stanno conducendo ora un trial finalizzato a verificare l’effetto del solo training genitoriale nel trattamento dei problemi comportamentali dei bambini con diagnosi dello spettro autistico.

 

 

BIBLIOGRAFIA: 

IN & AUT. Percezioni sensoriali e comunicazione nell’autismo. Secondo convegno internazionale. Crema, 22-23-24 marzo 2012

– Comunicato Stampa –

IN & AUT: II Convegno Internazionale sull'Autismo. Crema, 22-24 Marzo. IN & AUT – Percezioni sensoriali e comunicazione nell’autismo

Secondo convegno internazionale

Crema, 22 – 23 – 24 marzo 2012

Da giovedì 22 a sabato 24 marzo 2012, si terrà a Crema (presso l’Università degli Studi in via Bramante 65) un importante convegno Internazionale, organizzato dall’associazione Capoverso e da Anffas Onlus Crema, in collaborazione con uovonero edizioni, dal titolo “IN & AUT. Percezioni sensoriali e comunicazione nell’autismo”.

Al convegno (rivolto a genitori, insegnanti, operatori del settore) parteciperanno alcuni dei più importanti esperti internazionali nel campo dell‘autismo, come Theo Peeters, fondatore del Centro di Formazione per l’Autismo di Anversa, e Hilde De Clercq, studiosa e autrice de Il labirinto dei dettagli (Erickson), che sono già stati ospiti, lo scorso anno, del convegno Alieni nel cortile. Di Theo Peeters e Hilde De Clerq sarà in uscita per uovonero, proprio nei giorni del convegno, il volume Autismo. Dalla comprensione teorica alla pratica educativa. Seconda edizione riveduta e ampliata (con un saggio di Antonella Valenti, ospite anche lei del convegno).

Altra presenza importante del convegno sarà la studiosa Olga Bogdashina, di cui uovonero nel 2011 ha pubblicato il saggio Le percezioni sensoriali nell’autismo e nella sindrome di Asperger.

E sarà proprio sui problemi nelle percezioni sensoriali delle persone con autismo e sindrome di Asperger che la studiosa ucraina interverrà nella giornata di sabato 24 marzo.

Il tema della sensorialità è, infatti, uno dei temi portanti del convegno.

Il modo di percepire il mondo circostante influenza e determina gran parte dei comportamenti umani. Per questo, la conoscenza della sensorialità autistica, spesso caratterizzata da manifestazioni che si differenziano per natura e per intensità da quelle per cui è calibrato l’ambiente umano, può contribuire notevolmente alla comprensione dell’origine dei comportamenti problematici. Iper o iposensibilità nei vari canali sensoriali possono condizionare notevolmente l’agire comunicativo e avere ripercussioni più o meno significative sull’interazione sociale.

Da questa riflessione è nato il titolo del convegno: IN è il flusso di stimoli in entrata, percepito attraverso i sensi, AUT, in un gioco di parole fra la parola “autismo” e la parola inglese “out”, è il flusso in uscita, la risposta comunicativa verso l’ambiente circostante. Ma & (anche nella forma del simbolo alfabetico) è il vero nodo della questione: la messa in relazione dei due flussi per una migliore qualità della vita delle persone con autismo.

Porre in relazione questi fenomeni (la sensorialità, la comunicazione e l’interazione sociale) porta a compiere un deciso passo avanti in favore dell’avvicinamento fra due culture, quella autistica e quella neurotipica, dove non esiste né giusto né sbagliato ma solo “sistemi operativi diversi” in grado di incontrarsi e di convivere al meglio, nel reciproco rispetto, dove esiste una reciproca conoscenza. E, infatti, l’altro grande tema, quello della comunicazione, verrà approfondito dai relatori sotto diversi punti di vista, ma sempre nell’ottica dell’inclusione e dell’incontro di queste due culture.

Il convegno ha ottenuto il patrocinio del Comune di Crema, dell’ASL di Cremona e della Regione Lombardia e un contributo da L’Erbolario – Lodi. È prevista l’assegnazione dei crediti ECM per tutte le categorie sanitarie (18 crediti).

Il programma completo e le modalità di iscrizione sono disponibili sul sito www.uovonero.com.

GLI ORGANIZZATORI

Anffas onlus Crema (Associazione Famiglie di persone con disabilità intellettiva e/o

relazionale). Da oltre quarantʼanni opera nel territorio cremasco per la tutela delle persone con disabilità e delle loro famiglie. Tra i vari centri per disabili che gestisce, di recente ha ottenuto lʼaccreditamento del Polo di Neuropsichiatria Infantile “IL TUBERO”, centro che si occupa di numerosi bambini con disturbi dello spettro autistico. www.anffascrema.it

Capoverso è unʼassociazione di promozione sociale che si occupa, nelle sue iniziative, di tematiche quali la disabilità, lʼinclusione sociale, lʼintegrazione sociale, la diffusione della cultura della diversità, la comunicazione aumentativa. http://associazionecapoverso.blogspot.com/uovonero è una casa editrice nata con lo scopo di diffondere la cultura della diversità e della disabilità attraverso la letteratura e le fiabe, ma anche attraverso le parole di chi ne è toccato da vicino. www.uovonero.com

Per altre informazioni

Tel. 345 688 84 73 (uovonero) o 0373 82 670 (Anffas) – in&[email protected]

Ufficio Stampa

Lorenza Pozzi (+39) 347 4113667 – [email protected]

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Memoria Prospettica

Alice Mannarino. 

La memoria prospettica: cos’è,  come funziona. 

Psicopedia - Immagine: © 2011-2012 State of Mind. Riproduzione riservataLa memoria prospettica fa riferimento ai processi e alle abilità implicate nel ricordo di intenzioni che devono essere realizzate nel futuro.

Con il termine memoria prospettica si intende il ricordarsi di portare a termine quelle intenzioni che, per diverse ragioni, non possono essere realizzate nel momento stesso in cui vengono formulate, ma devono essere rimandate ad un momento successivo (Meacham e Singer, 1977). Si tratta di una abilità che tutti noi utilizziamo quotidianamente; ricordarsi di partecipare ad una riunione, di comprare le batterie per la sveglia, di seguire una trasmissione televisiva alle nove di sera, di fare una telefonata tra venti minuti sono tutti esempi di compiti di memoria prospettica.

La memoria prospettica rappresenta un fenomeno multidimensionale, perché gli eventi mentali che entrano in gioco sono qualitativamente diversi: cognitivi, emotivi e motivazionali.

In termini generali nel processo prospettico si distinguono almeno cinque fasi (Ellis 1996):

1) formazione dell’intenzione;

2) intervallo di ritenzione;

3) intervallo di prestazione;

4) esecuzione dell’azione intenzionale;

5) valutazione del risultato.

La prima fase fa riferimento alla codifica del contenuto dell’azione futura (il cosa), dell’intenzione (la decisione di fare qualcosa) e del contesto di recupero (il quando, cioè il momento giusto per eseguire l’azione). Ad esempio supponiamo che la nostra azione sia quella di voler chiamare l’amico Marco alle ore 18. Nel nostro esempio questa fase corrisponde al momento in cui decidiamo che alle 18 chiameremo Marco.

La seconda fase fa riferimento all’intervallo tra il momento della codifica dell’intenzione e l’inizio dell’intervallo potenziale di prestazione; questi intervalli possono variare notevolmente, sia nella durata (possono durare da pochi minuti a diverse ore o giorni) sia nel contenuto. Durante l’intervallo di tempo che separa la formulazione dell’intenzione dalla sua esecuzione (fase di delay), generalmente il soggetto è coinvolto in altre attività che assorbono le risorse cognitive di chi deve realizzare l’intenzione precedentemente pianificata. Questa fase comprende tutte le attività (ad es: studiare, lavorare, chiamare altri amici ecc) che noi svolgiamo tra il momento in cui decidiamo di chiamare Marco e il momento in cui recuperiamo la nostra intenzione.

La terza fase si riferisce all’intervallo di prestazione, cioè al periodo di tempo durante il quale l’intenzione deve essere recuperata. Di solito, il recupero dell’informazione è collegato a una situazione ben precisa e i fattori che influiscono sulla probabilità che un’azione futura venga ricordata con successo sono diversi.

Per prima cosa, è necessaria una corrispondenza tra un contesto di recupero già codificato e la situazione attuale (quello che in inglese viene definito con il termine matching). Affinchè una data situazione sia riconosciuta come familiare e legata a qualche esperienza precedente, è sufficiente una sovrapposizione delle caratteristiche codificate con quelle percepite (Mandler, 1980). Ma perché si recuperi il contenuto dell’intenzione e si svolga correttamente l’azione non basta la sensazione di familiarità generata dall’apparizione dell’evento-target, ma è necessario anche ricordarsi cosa fare esattamente. Quindi è necessario che venga riattivata la componente prospettica, e che l’attenzione si sposti dall’attività che stiamo svolgendo al compito prospettico. Nel nostro esempio questa fase corrisponde all’interruzione dell’attività che stiamo svolgendo intorno alle ore 18 (ad esempio: studio o lavoro) e recupero di ciò che ci eravamo prefissati di fare, ovvero chiamare Marco. Se una sola fase di questo processo viene “saltata”, si va incontro al parziale o totale fallimento prospettico: “ricordo che dovevo fare qualcosa alle 18, ma non ricordo cosa” oppure “ricordo che devo chiamare Marco ma non ricordo l’ora”.

La quarta fase riguarda la realizzazione dell’intenzione, che si ha solo se si inizia ad eseguire l’azione. L’esecuzione dell’azione intenzionale implica non solo che il soggetto ricordi che qualcosa deve essere fatto in un determinato momento e in cosa consiste questo qualcosa, ma che decida di eseguire l’azione. Nel nostro esempio questa fase consiste nell’effettiva esecuzione della telefonata a Marco.

Infine si valuta il risultato confrontando il contenuto retrospettivo (fase 5).

Una cattiva prestazione prospettica però può derivare da altri fattori, come ad esempio la mancanza di abilità o di conoscenze necessarie per affrontare la prestazione; inoltre, possono intervenire degli eventi che interrompono l’azione in corso e allora è necessario ristabilire oppure ripianificare l’azione iniziale attraverso una nuova codifica. Può capitare infatti di avere un imprevisto che ci obbliga a modificare la nostra organizzazione e in questo caso a rimandare la telefonata all’amico.

 

 

BIBLIOGRAFIA: 

  • Mandler, G. (1980). Recognition: The Judgment of Previous Occurrence, Psychological Review, 87, 252-271.
  • Meacham, J.A., Singer, J. (1977). Incentive effects in prospective remembering, The Journal of Psychology, 97, 191-197.
  • Ellis, J.A. (1996). Prospective memory or the realization of delayed intentions: A conceptual, framework for research. In M. Brandimonte, G.O. Einstein, M.A. McDaniel (a cura di), Prospective memory: Theory and applications, 1-21

Iniziare una Terapia Cognitiva #3: L’accertamento cognitivo

 

Per effettuare l’accertamento cognitivo il terapeuta deve indirizzare il paziente a scoprire quali sono quei pensieri che determinano la sofferenza mentale prestando estrema attenzione a quel che dice il paziente.

L'accertamento Cognitivo. - Immagine: © Malchev - Fotolia.com Non dobbiamo dimenticare che i pensieri patologici sono soprattutto pensieri del paziente stesso, dell’irripetibile persona che sta dall’altra parte del tavolo, e occorre non sovrapporre le proprie preferenze e ossessioni a quelle del paziente.

Al tempo stesso, un’apertura totale rischierebbe di trasformarsi in disorientamento. Il terapeuta deve avere in mente una direzione, non obbligata ma plausibile e man mano che emergono le informazioni, sempre più probabile, e usarla come bussola che dia sicurezza al procedere.

Questa direzione preferenziale che orienta la nostra bussola è l’individuazione del cosiddetto pensiero negativo. Che vuol dire? Vuol dire che dobbiamo fare attenzione a quei tipi di elaborazione mentale del paziente che lo portano a vedere le cose in maniera negativa, catastrofica, terribilizzante.

L’ipotesi iniziale del terapeuta cognitivo è quindi che tendenzialmente il paziente abbia un problema di ansia. Attenzione, però. Questo non vuol dire che dobbiamo applicare sistematicamente l’etichetta di “ansioso” a tutti i nostri pazienti, e assegnare meccanicamente questa diagnosi. Significa semmai verificare se ci siano stili di pensiero ansiosi.

Iniziare una Terapia Cognitiva: Concordare le Regole. - Immagine: © Bernard BAILLY - Fotolia.com
Articolo consigliato: Iniziare una Terapia Cognitiva: Concordare le Regole

Per il terapeuta cognitivo l’ansia è qualcosa di molto semplice: è l’aspettativa timorosa che accada qualcosa di negativo, basata sulla sopravvalutazione della pericolosità di qualcosa e la sottovalutazione delle proprie capacità di reagire. E questo il primo errore cognitivo che incontriamo, che va sotto il nome di terribilizzazione, o catastrofizzazione (catastrophizing).

Al tempo stesso non dobbiamo dimenticare di lasciar libero di oscillare l’ago della bussola. La nostra bussola va usata con flessibilità. Quand’anche il nostro paziente si confermasse ansioso, non dobbiamo dare nulla per garantito. Non si deve mai dimenticare che la sofferenza emotiva di tipo ansioso è connotata da uno stile di pensiero vago e astratto, poco attento al dettaglio concreto. L’individuo ansioso valuta la realtà come pericolosa. Tuttavia questa valutazione rimane generica e poco definita. Il pericolo è denominato ma non definito. Qualcosa di dannoso può accadere, ma non si bene cosa, o almeno come.

Il pensiero ansioso è un pensiero povero e ripetitivo, poco attento ai contorni reali delle cose, delle persone, degli eventi (Borkovec e Inz, 1990). Il terapeuta deve tenere conto di questo dato. Egli inizierà un lavoro di accertamento accurato e cauto, senza precipitarsi troppo rapidamente alla ricerca e alla formulazione dei pensieri disfunzionali. Al contrario, cercherà di essere quanto più possibile semplice e concreto. Prima di esplorare il perché di una certa paura, egli accerterà il quando. Quando accadono gli episodi fobici? In quali momenti del giorno? In concomitanza con quale stimolo o situazione facilitante? E con quale frequenza? Un accertamento eseguito in maniera accurata svolge non solo una funzione di raccolta dati, ma già terapeutica: in questo modo il terapeuta addestra il paziente a ragionare in maniera più calma e controllata sui suoi stati d’animo, più attento ai particolari e meno propenso a trarre affrettate conseguenze catastrofiche, subendo passivamente le proprie emozioni e reagendo a esse impulsivamente.

Facciamo un esempio:

Ilaria chiede un trattamento per una fobia dei cani.

Iniziare una terapia cognitiva: stabilire gli obiettivi. - Immagine: © Olivier Le Moal - Fotolia.com
Articolo consigliato: Iniziare una terapia cognitiva: stabilire gli obiettivi.

P.: “Ho paura dei cani”

Forte è la tentazione di iniziare subito un lavoro cognitivo sul timore dei cani, sulla loro pericolosità, sulle emozioni di paura, e così via. Eppure, l’accertamento accurato prosegue e il quadro si modifica. Assistiamo a un restringimento dello scenario ansioso:

P.: “Ho paura del cane del vicino”

Solo il cane del vicino? Che strano. Continuiamo a chiedere pazientemente in quali occasioni questa paziente ansiosa tema il cane del vicino.

P.: “Ho paura del cane del vicino quando vado a correre”

Alla paziente piace fare jogging. Si tiene in forma.

T.: “Ma come mai ha paura di questo cane solo quando esce per correre?”

P.: “Quando esco per non correre, prendo l’auto (non passo vicino al cane)”

Si delinea un quadro di evitamento abbastanza grave. La paziente ormai esce fuori di casa solo protetta dall’auto. Solo quando vuole fare jogging trova la forza di mettere il naso fuori casa senza protezioni. La paziente conferma:

P.: “Per ora esco solo in auto o accompagnata”

Proseguiamo l’accertamento.

T.: “Questo cane che fa? Si limita ad abbaiare? O sono possibili aggressioni?”  Chiediamo.

P.: “Se il cane è legato non ho paura” . “Se c’è una staccionata non ho paura”

Il significato negativo degli eventi: introduzione al Laddering. - Immagine: © Slavomir Valigursky - Fotolia.com -
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Il terapeuta ormai immagina un certo quadro. Un quartiere residenziale con villette. Giardini, a quanto pare non recintati, all’americana. Il cane libero di scorrazzare oltre il prato del suo padrone. La paziente conferma.

P.: “Il giardino del vicino non ha staccionata”

Il terapeuta vede davanti a sé una paziente ansiosa, una signorina ben vestita e gentile, ma un po’ troppo timida. Un tempo, la sua personalità sarebbe stata definita fobica. Questo cane è libero di dare fastidio, ma quanto è effettivamente pericoloso?

P.: “Anche se il cane è piccolo ho paura”

In maniera tipica, la paziente sottolinea la sua ansia. La dimensione reale del cane non conta, conta l’emozione interiore. Solo in un secondo momento si limita a fornire un’informazione neutra:

 P.: “Il cane è piccolo”

Poi aggiunge, confermando la sensazione claustrofobica di assedio, e il suo desiderio di evitamento:

P.: “La strada è a fondo cieco: mi obbliga a passare di fronte al giardino del vicino”

Ma non perdiamo di vista la realtà. La paziente è ansiosa, ma non è ancora detto che questo cagnolino non abbia le sue responsabilità. Non è pericoloso, ma è fastidioso.

P.: “Una volta ha morso mia sorella” . “Digrigna i denti in maniera aggressiva: non scodinzola”

Per poi concludere sconsolatamente:

P.: “Insomma, non passo di lì perché temo che possa mordermi”

Ci facciamo una risata? Non saprei, è pur sempre una terapia. - Immagine: © Yuri Arcurs - Fotolia.com -
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Siamo arrivati alla fine? Forse si. O forse no. Possiamo finalmente iniziare a trattare cognitivamente questa situazione, con il suo correlato di scopi, credenze ed emozioni. Eppure, prima di iniziare, il terapeuta fa un’ultima domanda di accertamento. Una domanda forse non troppo cognitiva, ma di gestione comportamentale. D’altro canto la terapia è cognitivo-comportamentale. Non c’è solo la gestione interiore delle emozioni, ma anche la costruzione di alternative di azione.

Insomma il terapeuta, di fronte a questo cane non legato, non controllato da una recinzione, libero di andare in giro per il vicinato a mordicchiare i passanti, chiede quasi distrattamente alla paziente se mai ha pensato di parlarne al suo proprietario.

P.: “Vorrei parlarne al vicino di questo cane da tanto tempo, ma non ci riesco. Mi vergogno troppo”

E così è apparso un mondoVergogna, oltre che ansia.

Forse addirittura fobia sociale? Una ragazza che da settimane non esce di casa a piedi a causa di un cane, e vorrebbe parlarne con il vicino, ma non trova il coraggio per troppa timidezza. Forse fa bene, forse questo cane è davvero piccolo e inoffensivo e non è il caso di disturbare questo vicino. O forse no. Forse c’è un tema di timidezza, in gergo tecnico di bassa assertività. Chi lo sa?

Le terapie sono piene di sorprese. Una sola cosa è sicura: meglio condurre un accertamento cognitivo accurato.

 

 

BIBLIOGRAFIA:  

Storie di Terapie #3 – Andrea lo Sfortunato.

 STORIE DI TERAPIE

Nei casi clinici che seguono, l’arrosto sostanzioso dei vari pazienti è condito con il sugo della fantasia, per rendere non identificabili le persone e la lettura più avvincente. Spesso ho condensato in un solo paziente più persone e, quasi sempre ci sono scappati pezzetti di me stesso.    Leggi l’introduzione    

 

#3 – Andrea lo Sfortunato

  • Storie di Terapie #3 - Andrea lo Sfortunato. - Immagine: © Giordano Aita - Fotolia.com Disturbo paranoide di personalità
  • Disturbo d’ansia di separazione

L’appostamento nei confronti di Andrea è durato alcuni anni. La necessità di una psicoterapia era avvertita dal fratellastro, mio amico e collega, ma in nessun modo da lui.

Il motivo della preoccupazione del fratello era il fatto che Andrea si fosse assestato in una convivenza con la madre settantacinquenne dalla quale dipendeva in tutto e per tutto, anche economicamente, non avendo da molto tempo un lavoro. Il tema del lavoro perduto, impossibile da trovare e non cercato sarà il filo conduttore del lavoro con Andrea.

Andrea non ha nessuna intenzione di andare in psicoterapia perché ritiene che non ci sia in lui nulla che non vada. Non lavora perché è stato sfortunato e perché lavorano solo i raccomandati. Sta con la mamma, che lo accudisce come un bambino di sei anni, perché lei è fatta così e le fa piacere farlo.

Andrea chiede spontaneamente aiuto in seguito a quella che, tecnicamente, si chiama una bouffee delirante acuta, che lo spaventa moltissimo e gli fa pensare di essere matto. L’episodio acuto si consuma in un tempo di circa tre giorni.

Storie di Terapie - © Athanasia Nomikou - Fotolia.com
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Il ragazzo, disoccupato, passa circa otto ore al giorno sul sito della sua squadra di calcio del cuore, la Juventus, dove partecipa a molteplici forum. Oltre che alle vicende sportive, Andrea è interessato e dà contributi sulla gestione economica della società, essendo laureato in economia. La discussione con i partecipanti al forum è accesa e Andrea totalmente assorbito da essa. La notte dorme solo poche ore per non staccarsi dal computer e, mentre mangia con la madre, si alza continuamente per seguire l’andamento del dibattito. Un giorno, un interlocutore scrive che “per partecipare al forum bisogna avere molto tempo a disposizione”; Andrea lo interpreta come un riferimento allusivo alla sua condizione di disoccupato. Ribatte che dovrebbero parlare di certi argomenti solo le persone con una competenza professionale nel campo. Il giorno successivo riceve una mail con una offerta di lavoro per venditore porta a porta di piccoli elettrodomestici. Il suo interlocutore è certamente andato su Internet e, trovato il suo curriculum, ha visto che è stato licenziato dall’ultima azienda e ora lo sbeffeggia dicendogli che è buono solo a fare il venditore ambulante. Passerà l’intera notte a togliere i suoi curricula da tutti i siti WEB delle società interinali cui lo aveva trasmesso. Il giorno successivo, un’altra mail lo informa che è stato sorteggiato come fortunato vincitore di un premio di centomila € messo in palio dalle Poste Italiane.

La faccenda, a suo parere, significa certamente due cose: la prima, che il misterioso interlocutore è entrato nell’hard disk del suo PC, considerato che i suoi curriculum professionali non sono più sul web ed ha visto che dieci anni prima ha lavorato per un trimestre come portalettere. Continua, dunque, a deriderlo, dicendogli che al massimo può fare il postino o vivere di beneficenza con i premi che si vincono per fortuna e non per meriti che lui non ha. La seconda che, se questa persona ha potuto accedere all’hard disk del suo PC, avrà visto tutti i programmi, film e musica che sono stati scaricati, illegalmente, da Andrea.

Il ragazzo si convince, perciò, che da un momento all’altro arriverà la finanza ad arrestarlo e finirà i suoi giorni in prigione. Immagina i commenti della gente: “una famiglia così perbene”, “da studente chissà che carriera si pensava lo aspettasse”, etc.

Il dubbio colmo di angoscia lo tormenta e non riesce a dormire per tutta la notte. La sera successiva, durante la cena, la madre gli dice “spegni quel computer e vediamo un telegiornale insieme che non ti vedo più da quando ce l’hai con la Juventus. Il telegiornale delle 20 dà, come prima notizia, l’arresto di alcuni boss della camorra per traffico illecito di stupefacenti e di software pirata.

Marco, l'ultimo samurai. Immagine: © Diedie55 - Fotolia.com -
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E’ un chiaro avvertimento a lui, “hai le ore contate, il cerchio si sta stringendo”, si convince che sia sotto osservazione da mesi e che, a capo del complotto, ci siano i direttori dell’azienda da cui è stato licenziato e con la quale ha in corso una vertenza giudiziaria. Ma, quello che è peggio, è che la madre lo abbia tradito e poi, pentitasi, lo abbia costretto a vedere il telegiornale per dargli il tempo di scappare. E’ in trappola, domani i giornali riporteranno le foto dell’arresto che avverrà in nottata, il cuore gli batte forsennatamente, gli gira la testa, respira a fatica, è completamente sudato, guarda la madre e gli pare diversa dal solito, forse non è lei ma un agente travestito che, con la minestra, gli ha somministrato dei calmanti per rendere più agevole l’arresto imminente. Più tardi, nella notte, sveglia la madre nel tentativo di strapparle dal volto la maschera con cui si è camuffato l’agente che, sotto mentite spoglie, vive con lui da qualche giorno per osservarne e annotarne tutte le mosse.

Quando la madre si sveglia, si agita terribilmente per le condizioni in cui vede Andrea che, nel frattempo, ha chiamato i carabinieri per costituirsi ed evitare un conflitto a fuoco. I carabinieri giungono in contemporanea al fratello, a sua volta avvertito dalla madre, si rifiutano di procedere all’arresto e scherzano sui software scaricati illegalmente di cui sono pieni anche i computer della caserma. Il fratello convince Andrea a prendere 60 gocce di Lexotan integrate, nei giorni successivi, con 20 gocce di Haldol, su mio consiglio. Andrea è molto spaventato per quanto è successo, sente di aver oltrepassato il confine della follia che credeva non lo riguardasse affatto, prova estrema vergogna e grande ansia circa la possibilità di impazzire definitivamente.

Grazie a questo episodio l’appostamento di tre anni cessa e Andrea accetta di venire in terapia.

Storie di terapie #2: Un Pomeriggio con il Demonio. - Immagine: © lineartestpilot - Fotolia.com -
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E’ un uomo di trentanove anni, dal fisico che denota un importante passato sportivo, ora accantonato a favore di una sportività da televisione e divano che lo ha portato ad accumulare qualche chilo di troppo sul giro vita. Il padre di Andrea, rimasto vedovo molto giovane della prima moglie, da cui aveva avuto il primo figlio, si è presto risposato con sua madre ed è poi morto quando Andrea aveva quindici anni.

Il padre , agente di polizia stradale, ha cresciuto i figli in caserma. I valori trasmessi, a parole e con l’esempio, erano l’onestà, la fiducia nella istituzioni, il senso del dovere fino al sacrificio, l’assoluta irreprensibilità, il rispetto acritico di ogni regola. L’unica cosa che il padre non gli ha trasmesso è stata la passione per la Roma e Andrea, giunto all’età della ragione, ha scelto la Juventus perché era la squadra più vincente e già allora non tollerava stare dalla parte degli sconfitti. Un altro motivo della scelta era stato il fatto che anche il fratello più grande era juventino.

Il fratello, di undici anni più grande, riveste nella sua vita un ruolo importante: é stato, senza dubbio, una figura paterna protettiva sempre pronta ad intervenire in caso di bisogno, come in questa occasione, ma anche un costante punto di raffronto dal quale Andrea esce regolarmente perdente. Ha conseguito due lauree, ha degli ottimi lavori ed è molto apprezzato, impegnato in politica ha avuto importanti incarichi, è felicemente sposato ed ha due figli grandi e in gamba, insomma lui è il figlio riuscito e Andrea il cocco della mamma.

I suoi successi suonano, per Andrea, come un rimprovero per quello che non è riuscito a fare. Di contro, Andrea rimprovera apertamente il fratello di non fare abbastanza per trovargli un lavoro, che ritiene risolverebbe ogni suo problema.

Musica & Terapia: "La prossima volta porti la chitarra". - Immagine: © RA Studio - Fotolia.com
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Al momento in cui Andrea viene in terapia ha due grandi preoccupazioni: il ripetersi di una crisi di follia e, dunque, il diffondersi della notizia in paese, fortunatamente scongiurato nel primo episodio e la futura morte della madre, cardiopatica, che lo lascerebbe senza risorse economiche e, soprattutto, senza quell’appoggio affettivo e concreto senza il quale Andrea ritiene che non sopravviverebbe. Per comprendere lo stato d’animo di Andrea rispetto alla morte della madre occorre mettersi nei panni di un bambino di sei anni che abbia però la consapevolezza di un adulto che, alla madre settantacinquenne cardiopatica, non resta poi tanto da vivere.

I due vivono in totale simbiosi. Tutta la gestione della casa è a cura della madre che fa anche la spesa e compra ogni cosa di abbigliamento, o personale, che serva ad Andrea. Mangiano esattamente le stesse cose e possono fare la dieta solo se la fanno entrambi e, spesso, dormono nello stesso lettone. Andrea non sa cucinare alcunché e tantomeno badare alla pulizia della casa e, come in una divisione di ruoli d’altri tempi, lui si occupa della macchina, della banca e delle bollette.

Riferisce di aver avuto e di avere attualmente una fidanzata, ma ne parla talmente poco e con continui clichè che mi convinco che di fatto non esista o che sia una semplice conoscente o, forse, un’ amica. La madre, incontrata per un colloquio, ritiene fermamente che quello sia il suo ruolo e che, senza di lei, Andrea sarebbe incapace di cavarsela e morirebbe in poche settimane, al termine delle scorte di viveri già pronti che lei tiene in frigo. Si mostra però persino dubbiosa sulla sua capacità di riscaldarli e conclude dicendo “finchè ci sono io posso stare tranquilla e dopo, tanto, non lo saprò e qualcuno ci penserà”.

La storia di vita di Andrea si identifica con il suo curriculum di studio e di lavoro ed il lavoro è il tema centrale delle sedute perché, intorno ad esso, si dipanano tutti i temi psicologicamente significativi che sono fondamentalmente quelli del valore personale e dell’immagine sociale, con un contorno di emozioni che oscillano tra orgoglio versus umiliazione e esaltazione versus autosvalutazione.

Andrea ha avuto una buona carriera scolastica e si è laureato in tempo in Economia e Commercio. Il suo successo scolastico e professionale ha acquistato ben presto il significato di un riscatto sociale, in quanto figlio di un semplice agente della stradale tutto il giorno in moto

  • Un primo bias che ha ostacolato l’assunzione di un lavoro era che dovesse essere assolutamente prestigioso. Sin dall’inizio, infatti, Andrea si vedeva come direttore di una filiale bancaria. Per questo ha inizialmente rifiutato alcuni impieghi non all’altezza delle sue aspettative.
  • Un secondo ostacolo era dovuto alla impossibilità di Andrea ad allontanarsi dalla casa materna, quindi che il lavoro fosse vicino casa.
  • Un terzo bias è l’assoluta identificazione tra la persona e il lavoro che svolge. Per Andrea “non si fa un certo lavoro, lo si è”. Se si fa il commesso, si è sostanzialmente dei commessi e ci si situa nella scala sociale nel luogo destinato ai commessi.
  • Un quarto bias, in qualche modo connesso al precedente, è che un lavoro è per sempre. Forse a somiglianza dell’essere poliziotto del padre, lui percepisce lo svolgere un lavoro come un senso definitivo di appartenenza e qualsiasi cambiamento come un vero tradimento. Questo ha, come conseguenza, che Andrea non può cercare due lavori contemporaneamente, nè può cercarne uno migliore quando ne ha già uno. Per lui è come per un uomo sposato cercare un’amante.
Il significato negativo degli eventi: introduzione al Laddering. - Immagine: © Slavomir Valigursky - Fotolia.com -
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Nel corso degli anni ha comunque lavorato, ma i rapporti si sono interrotti perché non corrispondevano alle sue aspettative e, nonostante il totale impegno, non riceveva i meritati riconoscimenti.

Ciò ha sviluppato in Andrea una teoria della fortuna o, per dirla in modo più scientifico, un “locus of control” assolutamente esternalizzato. Pensa che il successo lavorativo e nella vita, che lui identifica in un unica condizione, dipenda esclusivamente dalla fortuna o dalle raccomandazioni.

Con il passare del tempo e l’aumentare del periodo di disoccupazione si sono manifestati due modi di pensare ulteriormente perniciosi. Il primo gli fa percepire come certificazione del fallimento delle sue aspettative di laureato l’accettazione di un lavoro non all’altezza. Dichiara apertamente che, fino a che non sarà costretto alla fame, preferisce pensarsi come un laureato in attesa di occupazione, un direttore generale in attesa di impiego, che un lavoratore che però ha definitivamente attaccato al chiodo le aspettative e gli investimenti fatti studiando. Il giorno che accetterà un lavoro calerà su di lui quella identità mentre fino a quel momento l’identità può modellarsi sulle aspettative cui, ufficialmente, non ha rinunciato. Così facendo, in attesa di un futuro luminoso, ha rinunciato a molteplici opportunità perché non perfette. Attualmente, per scartare le nuove occasioni che si presentano, utilizza anche il confronto con quelle cui ha rinunciato in passato e che, adesso, non essendo più possibilità praticabili gli appaiono interessanti. E’ come se si dicesse continuamente:

“ma come posso accettare oggi quest’offerta se ieri ho rifiutato quell’altra che era migliore? Se lo facessi significherebbe che mi sto abbassando sempre di più, che ho certificato il mio fallimento”.

Amarezza cronica post-traumatica. Immagine: © 2011-2012 Costanza Prinetti -
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Quanto più riceve frustrazioni dal mondo reale del lavoro, tanto più Andrea si rifugia nel mondo virtuale del computer. Quando non supera un concorso o non riceve risposta ad una domanda aumentano le ore che passa davanti al computer. Il suo scopo è quasi completamente consapevole: dimostrare al mondo intero quanto valga e sia migliore di tutti gli altri. I forum sono la palestra preferita per questo esercizio di competizione: quando vince, ad esempio nei giochi on line (vedi il poker), attraversa veri e propri stadi di esaltazione, si crede imbattibile, lo comunica immediatamente a tutti e, in preda all’eccitazione, non dorme e continua a giocare. Quando poi qualcosa non va per il verso giusto immagina un complotto che lo controlla e lo ostacola deliberatamente. Durante un dibattito in chat sui proventi delle società calcistiche gli viene inviata un emoticon sorridente e lampeggiante: lo stanno deridendo e lo faranno fuori con la pressione alta rappresentata dal lampeggiare intermittente della faccetta. Il desiderio di successo e di trionfare sugli altri che muove Andrea mi sembra compensato da una regola, di probabile origine paterna, che dice pressappoco “non bisogna godere troppo, né mettersi in mostra ma accontentarsi di poco e fare in silenzio il proprio dovere”. Tale regola è pienamente condivisa dalla madre che punta ad una esistenza minimalista. Andrea si difende costantemente dal senso di colpa e, probabilmente, l’aver esternalizzato completamente “il locus of control” serve proprio a questo: non riconoscersi nessun potere lo esenta anche da qualsiasi responsabilità.

Andrea percepisce intorno a sé un mondo rimproverante che si concretizza nelle persone a lui più vicine, la madre e il fratello…

Quando accetta di impegnarsi in qualche impresa (il lavoro o una salutare attività fisica) non lo fa quasi mai per un reale desiderio, perché è sempre sopraffatto dalla paura: del fallimento nel caso di un lavoro, di un malore nel caso di una attività fisica. Se fa qualcosa è solo per evitare sia il rimprovero familiare, in cui credo fortemente presente anche l’immagine paterna, che la conseguente esclusione. 

Questo genera un circolo interpersonale negativo: i familiari credono che l’unico modo per smuoverlo sia il rimprovero e dunque lo utilizzano di frequente, Andrea si sente rifiutato e non compreso e diventa fortemente ostile rovesciando su di loro, che non si danno abbastanza da fare, la colpa della sua situazione. 

Inutile dire che l’aggressività verso i familiari diventa un ulteriore motivo di colpa e di vergogna. 

La relazione terapeutica con Andrea è stata a tratti delicata per il suo percepirmi come la “longa mano” del fratello, che lo criticava e lo spingeva verso l’accettazione forzata di un lavoro per lui degradante. Le molte cose che mi accomunano al fratello, primo fra tutto l’amicizia, favorivano tale timore. Più volte temi di sospettosità paranoidea hanno coinvolto anche me, Andrea pensava che con il mio comportamento, gli oggetti sul tavolo, lo spostamento di un appuntamento o un capo di abbigliamento, volessi comunicargli qualcosa. Per nostra fortuna questo qualcosa non aveva mai il significato di un’ umiliazione, che è ciò che si aspetta dal mondo esterno, ma piuttosto di un rimprovero, che è pur sempre di provenienza familiare. 

L’ottima intelligenza ha permesso ad Andrea di acquisire rapidamente una lucida consapevolezza dei suoi schemi di funzionamento ed in particolare dei bias cognitivi che girano intorno al tema del lavoro. 

La psicoterapia ha seguito sostanzialmente tre direttive: 

(1) il riconoscimento delle emozioni, in particolare della paura e dell’ansia, in modo da interrompere dei circoli viziosi che lo avevano portato ad esperienze di panico e vistosi evitamenti. 

(2) l’acquisizione di una positiva auto immagine e la costruzione di scenari di vita in cui possa cavarsela da solo, anche senza la madre. Ciò è stato fatto coinvolgendo anche la stessa madre, per motivarla a quest’operazione di svincolo e per insegnare ad Andrea delle competenze concrete di gestione della vita quotidiana. 

Il lavoro più impegnativo è stato quello di limitare l’uso del confermazionismo estremo che Andrea utilizza automaticamente in situazioni di stress. E’ un pensiero per così dire “panassociativo” con il quale trova collegamenti di tutto con tutto, a conferma delle sue due ipotesi peggiori che monitorizza sempre: scopriranno che non valgo niente, mi umilieranno perché sono tutti contro di me e, infine, sono gravemente ammalato anche se nessuno lo capisce. 

Gli ho dimostrato, con divertimento di entrambi che, dato un elemento qualsiasi di partenza, si può arrivare ad un qualsiasi altro elemento di arrivo con una catena associativa piuttosto breve. Quello che più mi ha colpito, nel caso di Andrea, è stato di toccare con mano questa potenzialità delirante che si concretizza in una diatesi panassociativa nei momenti di stress e si attiva fuori dalla sua consapevolezza. 

Mi sembra interessante aggiungere due osservazioni in proposito. 

Sono da considerare stressanti le situazioni che riportano all’ordine del giorno i temi caldi del paziente, nel caso di Andrea il valore personale, nelle due connotazioni di ruolo professionale e di salute e forza del fisico. D’altro canto è vero che i temi caldi hanno un potere “morfoplastico” sulla percezione per cui c’è una tendenza a sovrainterpretare gli eventi alla loro luce. 

In secondo luogo, ho avuto netta la sensazione che tale tendenza pan associativa e la conseguente deriva delirante vengano fortemente arginate dalla presenza di una relazione significativa concretamente in atto. E’ spesso successo che Andrea mi raccontasse esperienze francamente deliranti vissute appena la sera prima, nel silenzio della sua stanza, o addirittura pochi minuti prima da solo, in auto, durante il parcheggio. Queste esperienze cui attribuiva un grado di certezza assoluto, in mia presenza erano immediatamente intaccate dal dubbio. Dopo alcuni minuti poi, al di là di qualsiasi intervento specifico, divenivano da sole oggetto di critica, se non addirittura di ironia. Avendo condiviso con Andrea questa osservazione ne è nata una strategia di fronteggiamento del sintomo: quando si sentiva preda di tali stati d’animo, Andrea immaginava di essere nel mio studio o comunque di raccontarmi quanto provava e ciò arginava l’esondazione delirante.   

 

 

The Emotional Oracle Effect: il potere predittivo delle sensazioni

– Rassegna Stampa – 

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze PsicologicheAvere fiducia nelle proprie sensazioni facilita la previsione di eventi futuri: questo è l’esito di una ricerca che a breve verrà pubblicata su Journal of Consumer Research da un gruppo di ricercatori della Columbia Business School.

In una serie di otto studi ai partecipanti veniva chiesto di predire diversi esiti futuri quali per esempio la nomina del candidato democratico alle elezioni presidenziali (nel 2008), il successo al botteghino di nuove uscite cinematografiche, la squadra vincitrice a un campionato di football e persino il meteo! Dai risultati dagli otto studi emerge trasversalmente e coerentemente che le persone che hanno un maggior grado di fiducia nelle loro sensazioni “previsionali” presentano effettivamente maggiori probabilità di predire correttamente l’evento futuro (o l’esito di un evento futuro) rispetto a coloro che hanno meno fiducia in tali sensazioni.

I ricercatori hanno definito questo fenomeno “emotional oracle effect”. Nei diversi studi sono stati utilizzati alternativamente due metodi rispettivamente per manipolare e misurare il livello di fiducia nelle proprie sensazioni nel fare previsioni, ma indipendentemente dal fatto che venisse misurato il livello di fiducia nelle proprie sensazioni, oppure avvenisse una manipolazione sperimentale di tale variabile il risultato rimaneva costante: più ti fidi delle tue sensazioni, più sei in grado di fare previsioni corrette di eventi futuri.

Attenzione però: un buon grado di conoscenza sembra essere essenziale per assicurare l’accuratezza previsionale. Per esempio, in uno di questi otto studi i partecipanti dovevano predire addirittura il tempo meteorologico: ebbene l’effetto oracolo emotivo si è riscontrato nel caso in cui i soggetti avevano un minimo di esperienza e conoscenza nella previsione da fare (ad esempio predire il tempo nel loro stato o regione) ma l’esito previsionale risultava assolutamente casuale nel momento in cui si chiedeva loro di predire il tempo a Melbourne o a Beijing!

I ricercatori propongono questa interpretazione del fenomeno: “quando noi abbiamo fiducia nelle nostre sensazioni” dice il Professor Michel Pham, “ciò che sentiamo come “giusto” rispetto a un evento futuro avrebbe la funzione di riassumere in modo sintetico ed “euristico” tutta la conoscenza e le informazioni che più o meno consapevolmente abbiamo acquisito; quindi in qualche modo le nostre sensazioni darebbero accesso a una sorta di finestra privilegiata di informazioni che una forma di ragionamento più analitico non consentirebbe”.

Quindi, se avete una base minima di conoscenza riguardo certi ambiti di esperienza, il futuro non sarà poi così indecifrabile se semplicemente avete una buona dose di fiducia nelle vostre sensazioni!

 

 

BIBLIOGRAFIA:  

 

Cyberpsicologia e Realtà virtuale: joystick e caschetto per il trattamento dell’Anoressia

 

Cyberpsicologia: un protocollo terapeutico sviluppato presso Villa Santa Chiara, Quinto di Valpantena (Verona),  per il trattamento dell’anoressia prevede l’utilizzo di un ambiente di realtà virtuale. 

Cyberpsicologia e realtà virtuale. - Immagine: © Andrea Danti - Fotolia.com I Disturbi Alimentari (DA), e in particolare l’Anoressia Nervosa (AN), rappresentano ad oggi una delle maggiori sfide della terapia sia farmacologica che psicoterapeutica. Fra i tanti trattamenti proposti per questo disturbo, il Dott. Vicentini -psicologo e informatico- presso Villa Santa Chiara, Quinto di Valpantena (Verona), propone un protocollo di cura per l’anoressia in regime di ricovero che prevede l’ausilio della realtà virtuale.

Da qualche anno la realtà virtuale (RV) è stata introdotta come strumento per il trattamento dei disturbi psicologici. Questo strumento permette di costruire un ambiente complesso e molto specifico che da la possibilità di inserirsi “fisicamente in un modo virtuale” in grado di poter generare sensazioni, emozioni e valutazioni uguali a quelle generate dagli ambienti reali (Riva, 1999).

Progetto iSpectrum: un Serious Game per favorire l'inserimento nel mondo del lavoro di chi è affetto da autismo
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Ad oggi si ritiene che questo strumento sia in grado di mediare tra il lavoro cognitivo condotto con il terapeuta durante le sedute “classiche” e il mondo reale, permettendo di superare alcuni ostacoli, delle resistenze, che si possono incontrare nella terapia cognitiva comportamentale standard, soprattutto per quando riguarda le esposizioni (Vincelli & Riva 2007). Inoltre si ritiene che i trattamenti che usano la RV presentino alcuni vantaggi rispetto ai trattamenti tradizionali, primo fra tutti quello di poster condurre delle esposizioni in un ambiente protetto per il paziente ed inoltre di poter costruire degli ambienti ad hoc per il percorso di trattamento per il paziente.

 

In letteratura esistono già diverse evidenze rispetto l’efficacia di questa tecnologia per il trattamento dei Disturbi d’Ansia (Bottella, et al, 2006), nello specifico è stata dimostrata l’efficacia di questo trattamento per il trattamento delle fobie, quali paura di volare, guidare, claustrofobia, disturbi Sessuali e disturbi dell’immagine corporea (Riva, 2001).

A partire da questi interessanti risultati, dagli studi condotti dal dott. Riva sull’uso di questo strumento nel trattamento dell’Anoressia Nervosa (Riva et al, 1999), e sui protocolli che negli Stati Uniti e in molti Paesi d’Europa sono già in uso da diversi anni, nella clinica di Verona è stato strutturato un protocollo di trattamento che utilizza il concetto di Avatar come supporto alla terapia.

Scopriamo insieme come funziona la terapia dell’anoressia con l’avatar.

Sam, un amico virtuale per i bambini autistici
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In una prima fase la paziente disegna al computer l’immagine di come “vede sé stessa” e contemporaneamente il terapeuta disegna una figura realistica della paziente. Quindi i due disegni vengono confrontati.

Nella seconda fase alla paziente viene fatto indossare il casco della realtà virtuale per permetterle di affrontare, attraverso l’avatar, le situazioni che solitamente risultano più problematiche nei pazienti affetti da questo disturbo, come ad esempio fare la spesa, mangiare al ristorante, mostrarsi senza vestiti in piscina.

Infine nella terza fase il paziente viene aiutato a gestire meglio le proprie emozioni “mandando avanti l’avatar al proprio posto”, così da potersi confrontare con le proprie difficoltà in una modalità protetta.

I pazienti attraverso questo percorso imparano, muovendosi in ambienti ricostruiti al computer, ad avvicinarsi alle persone e al cibo dapprima in modalità virtuale, aggirando così le resistenze che possono ancora esserci di fronte a quello vero. Le sedute individuali si effettuano due volte a settimana. Naturalmente questo trattamento può essere effettuato solo in regime di ricovero e sotto la supervisione di un terapeuta esperto che accompagna le esperienze vissute attraverso l’Avatar con un percorso cognitivo che permette una ristrutturazione cognitiva più profonda.

Vorremmo rassicurare tutti coloro che immaginando i pazienti catapultati in Matrix erano già pronti a far salire sul banco del Sant’Uffizio la realtà virtuale, dicendo che bisogna considerarla come un nuovo ed innovativo strumento complementare che può fornire un ulteriore ausilio alla terapia classica e non un approccio terapeutico a sè stante e indipendente.

 

 

BIBLIOGRAFIA: 

  • Vincelli, F., & Riva, G. (2007), La Realtà Virtuale come supporto alla psicoterapia cognitivo-comportamentale, in Vincelli, F., Riva, G., & Molinari, E. (Eds.). La realtà virtuale in psicologia clinica. Nuovi percorsi di intervento nel disturbo di panico con agorafobia, pp. 67-92. Milano: McGraw-Hill.
  • Riva, G. (2005). Virtual Reality in Psychotherapy: Review. CyberPsychology & Behavior, 8(3), 220-240.
  • Botella, C., Villa, H., Garcia-Palacios, A., Quero, S., Banos, R. M., and Alcaniz, M. (2006). The use of VR in the treatment of panic disorders and agoraphobia, in Riva, G., Botella, C., Legeron, P., & Optale, G. (Eds.), Cybertherapy: Internet and Virtual Reality as Assessment and Rehabilitation Tools for Clinical Psychology and Neuroscience. Amsterdam: IOS Press.
  • Riva, G., Bacchetta, M., Baruffi, M., & Molinari, E. (2001). Virtual Reality-Based Multidimensional Therapy for the Treatment of Body Image Disturbances in Obesity: A Controlled Study, CyberPsychology & Behavior, 4(4), 511-526.
  • Riva, G., Bacchetta, M., Baruffi, M., Rinaldi, S., & Molinari, E. (1999). Virtual reality based experiential cognitive treatment of anorexia nervosa, Journal of Behavior Therapy and Experimental Psychiatry, 30(3), 221-230.

 

Sito internet della Casa di cura Villa Santa Chiara.

Psicopatologia delle Migrazioni: La Diagnosi in Territori Stranieri

Paolo Cianconi, psichiatria, psicoterapeuta, antropologo.

Una chiave di lettura per la psicopatologia delle migrazioni, nelle formulazioni della prima generazione, quella cioè che compie il viaggio.

Psicopatologia delle Migrazioni: la Diagnosi in terra straniera. - Immagine: © Antonio Gravante - Fotolia.com E’ sempre stato difficile approcciare fenomeni nuovi. Viviamo tuttavia in un periodo storico in cui fermare qualcosa di stabile è sotto molti aspetti la prima utopia. In questi territori vulnerabili, le scienze psicologico psichiatriche stanno tentando di dar forma a un nuovo manuale che possa aiutarci nelle nuove formulazioni diagnostiche: il DSM V. E tuttavia secondo diverse voci questo risultato sembra incontrare sempre più difficoltà; qualcuno già dice che non è più fattibile, forse non ci si riuscirà.

Non può non coglierci un certo senso di inquietudine quando incontriamo i pazienti di oggi. Cosa fare se non ho categorie per inquadrare una diagnosi. Nella realtà contemporanea, la vulnerabile postmodernità, “fragile è la nostra capacità di capire”.

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Per quello che riguarda la sicurezza della nosografia psicologico-psichiatrica, una delle spallate più forti è stata impressa dal contributo d’immensa relatività portato della cultura postcoloniale. Tuttavia l’esperienza di autori che si sono succeduti nello studio delle psicologia crossculturale, delle migrazioni e dell’etnopsichiatria ci permette di proporre uno schema utile agli operatori della salute mentale, per inquadrare il fenomeno della psicopatologia delle migrazioni. Se non altro, mentre tutti utilizziamo sempre di più mappe cognitive diasporiche, i migranti classici e i loro disagi, quelli su cui abbiamo già un’esperienza, ci sembrano più vicini. Questo breve contributo fornisce una chiave di lettura per la psicopatologia delle migrazioni, nelle formulazioni della prima generazione, quella cioè che compie il viaggio.

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La psicopatologia delle migrazioni è stata oggetto di numerosi studi (T. Nathan, R. Beneduce, P. Coppo, R. Menarini, , A. Sayad, M. Risso, E. De Martino ). Tuttavia non è stata stilata una vera e propria schematizzazione che permettesse all’operatore di avere una mappa da utilizzare per il suo agire clinico. Il DSM IV-TR, prodotto degli anni 2000, annoverava ancora solo 25 Sindromi Culturalmente Caratterizzate. La cultura psicopatologica degli altri era stata relegata ad un appendice di una decina di pagine ed ad alcune paternalistiche raccomandazioni. In altri lavori, in cui sono stati considerati manuali indiani, cinesi, centro americani, articoli africani eccetera, le sindromi culturalmente caratterizzate salivano a cifre di centinaia. Questo è solo un esempio di come è difficile costruire classificazioni: se si costruisce un riferimento chiuso questo non può che generare etnocentrismo, se si accettano criteri ampi non avremo più possibilità di classificare tutto quello che entra e si presenta.

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La psicopatologia delle prime generazioni già ci permette di delimitare un’area, separandola dalla psicologia dei figli e nipoti dei migranti, le cosidette G2, non meno importanti, che hanno però caratteristiche psicologiche e problemi diversi da quelli dei padri e delle madri che hanno dovuto affrontare la vita tra due mondi. Se vogliamo proporre quindi una classificazione della psicopatologia della prima generazione ci concentriamo su quattro grandi raccoglitori di sindromi. All’interno di ognuno di questi contenitori troveremo, appunto, sindromi specifiche che derivano da anomale risposte individuali a problemi bio-psico-socio-culturali. Questi grandi contenitori sono:

  • Sindromi connesse alla perdita.
  • Sindromi Culturalmente Caratterizzate.
  • Sindromi connesse al Processo Migratorio.
  • Sindromi connesse alle Violenze geo-politiche.

Sindromi connesse alla perdita: le sindromi connesse alla perdita sono caratterizzate da segni e sintomi psicologici e anche disturbi veri e propri derivati da condizioni connesse con la localizzazione mentale di una doppia essenza cognitiva. Un hacker definirebbe questo assetto“Dual Boot: come se su uno stesso hardware girassero due software che presiedono alle stesse funzioni”. In realtà, come ampiamente studiato dai testi, anche italiani, di psicopatologia delle migrazioni, il migrante che compie un viaggio rimane ancorato alla propria terra (intesa nel senso più generale della radicazione identitaria) mentre deve adattarsi a vivere a sprazzi o totalmente senza di essa, in un paese ove dovrà presto imparare un altro modo di esistere. Questo genera spesso rammarico, conflitto; nei casi di interesse clinico avremo sintomatologia specifica, appunto categorizzabile in diverse sindromi.

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Sindromi Culturalmente Caratterizzate: le SCC sono descritte dal DSM IV-TR e dall ICD 10 come “la follia dell’altro”. Il DSM IV-TR: sono “modalità ricorrenti, caratteristiche di certe regioni, di comportamento aberrante e di esperienza disturbante che possono essere o meno collegabili a qualche particolare categoria diagnostica occidentale. Molte di queste modalità sono considerate anche localmente delle “malattie”, o per lo meno dei fastidi, e molte hanno denominazioni locali. A volte la stessa malattia viene chiamata in modi diversi in differenti parti del mondo. Queste sono le sindromi esotiche che hanno incontrato gli europei durante il colonialismo e la decolonizzazione. Sono “modalità di manifestarsi di un ethnos” diverso dal nostro. Nelle migrazioni il clinico può imbattersi in queste sindromi.

Ricordiamo che in Italia esistono, tra quelle citate nel DSM IV-TR, almeno quattro sindromi culturalmente caratterizzate nostre, storicamente autoctone: Mal de ojo (il malocchio), Zar (la possessione), il Rootwork (la fattura), Nervios (esaurimento nervoso); alcune di queste (e di altre) sindromi culturali sono scomparse con la modernizzazione, altre mutano anche all’interno dei luoghi della postmodernità e nelle realtà sintetiche.

Sindromi connesse al Processo Migratorio: questo gruppo di sindromi emerge dal così detto goal starving stress (stress da raggiungimento dello scopo) e da altre dinamiche sociologiche che si innescano nel più generale processo integrativo dei migranti. Il progetto (sogno) migratorio è stato studiato nelle sue più poliedriche sfaccettature. La maggior parte dei migranti riesce a trovare una sua strada, tra le varie possibili, ed iniziare un percorso di inserimento progressivo nelle nostre società ospitanti. Benché tutti siano sottoposti a delle variabili comuni, a delle difficoltà e a degli attriti, una parte delle popolazione migrante affronta maggiori difficoltà; ciò può contribuire a generare un disturbo, solitamente di ordine psicosomatico (somatosi del migrante) o propriamente psichiatrico. Ciò avviene in tempi e modalità specifiche.

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Sindromi connesse alle violenze geo-politiche: questa classe di sindromi riguardano la migrazione in secondo piano, in quanto è vero che le persone si trovano nel nostro paese, spesso protette dallo statuto di rifugiato, ma il problema principale di questi pazienti è l’aver attraversato esperienze di profondo dolore, disordine ed abuso fisico e psicologico quali la guerra, la tortura, gli sfollamenti o le pulizie etniche, il genocidio, le guerre a bassa intensità, i campi di sterminio o di prigionia. Benché il DSM faccia rientrare tutti questi disturbi nella generica dizione di PTSD, l’esposizione a tali livelli di violenza, spesso organizzati in specifiche tecniche di effrazione psichica, sociale e individuale, li pone, secondo diversi autori, su un diverso piano. La psicologia delle violenze collettive emerge proprio dall’esperienza di diversi psicoterapeuti che si sono confrontati con questi problemi e disturbi creati dal dispotismo diretto dell’uomo sull’uomo.

In questo breve lavoro sono state descritte le categorie contenitore che inquadrano la psicopatologia delle migrazioni per i migranti di prima generazione. La diagnosi in territori stranieri ha mostrato le difficoltà di inquadramento dei vecchi testi, disarticolato molte delle nostre procedure, soprattutto quella testologica. Le figure professionali hanno fatto, per vent’anni, scelte di responsabilità senza preparazione adeguata al nuovo fenomeno del multiculturalismo o dell’intercultura. Gli operatori della salute mentale, come anche gli educatori, i sociologi gli avvocati e chi partecipa alla gestione del complesso sistema migratorio della postmodernità, sono tenuti ad essere informati degli studi che in questi ultimi anni hanno elaborato teorie di riferimento e presidi terapeutici e psicoterapeutici nei confronti di queste realtà in movimento nelle scale geografiche come in quelle socio-psicologiche.

 

 

BIBLIOGRAFIA: 

  • American Psychological Association. (2000). Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders, DSM IV-TR. Washington, 2000
  • World Health Organization. (1992). The ICD-10 Classification of Mental and Behavioural Disorders.   
  • Cianconi P. (2011). Addio ai confini del mondo. Franco angeli, Milano
  • Nathan T. (1990). La follia degli altri. Ponte alle grazie, Firenze
  • Nathan T. (2003). Non siamo soli al mondo. Bollati Boringhieri, Torino
  • Sironi F. (2010). Violenze collettive. Feltrinelli, Milano
  • Cole M. (1996). Cultural psychology.  Harvard College, USA
  • Beneduce R. (2006). Etnopsichiatria. Carocci, Roma 

 

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