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Avviso: Annullato Seminario su Terapia dell’Abuso di Alcool 13-15 Aprile

AVVISO!! 

Ci dispiace comunicarvi che, per motivi di salute, il Professor Spada non può più partecipare all’evento:

“Terapia Cognitivo-Comportamentale dell’Abuso di Alcool”

che pertanto è stato annullato sia per la data del 13 Aprile a Modena che per il 15 Aprile a Bolzano.

In questo momento non siamo in grado di stabilire quando verrà recuperato, vi faremo sapere nei prossimi giorni.

 

AVVISO!

I Disturbi del Sonno interferiscono con il consolidamento della memoria a lungo termine

– Rassegna Stampa – 

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze PsicologicheI disturbi del sonno impattano negativamente sul consolidamento della nostra memoria, secondo quanto riportato da uno studio pubblicato il 28 marzo sul journal PLoS ONE. Mentre in letteratura sempre più è riconosciuto il ruolo del sonno nel consolidamento mnestico, il gruppo di ricercatori guidato da Ina Djonlagic presso Brigham and Women’s Hospital di Boston hanno ulteriormente approfondito la questione.

Lo studio ha verificato che i pazienti con un sonno discontinuo e frammentato (in particolare con diagnosi di apnee notturne) presentano un livello significativamente inferiore di aumento del consolidamento mnestico durante la notte e un peggioramento nell’esecuzione di un nuovo compito motorio (memoria procedurale) rispetto a un gruppo di controllo.

Entrambi i gruppi presentavano livelli di apprendimento e di performance comparabili durante la fase di training, suggerendo che il disturbo del sonno occorso durante la notte sia plausibilmente legato alla successiva riduzione della performance al risveglio (sia in termini di tempi di reazione che di errori commessi) rispetto al gruppo di soggetti che non presentava disturbi del sonno.

 

 

BIBLIOGRAFIA: 

Psicoterapia: Il Disputing Logico-Empirico di Beck

 

Psicoterapia: Il Disputing Logico-Empirico. - Immagine: © Carsten Reisinger - Fotolia.comCon il disputing empirico il terapeuta chiama il paziente a riflettere su come egli immagina concretamente che avvengano gli eventi negativi, e su quali prove concrete e tratte dalla sua esperienza quotidiana si basano questi pensieri catastrofici.

Insomma, esistono delle prove di fatto per tanta negatività? Il più delle volte, infatti, il paziente non ha riflettuto per nulla sulle sue idee catastrofiche, ma le ha date per scontate, come verità di per sé evidenti. Spesso il paziente non si rappresenta il percorso logico o empirico che lo ha portato a concepire le sue valutazioni negative. Semplicemente, egli vede nella sua immaginazione degli eventi temuti ed è spaventato da quelle immagini, non facendo alcuna distinzione tra pensiero e realtà.

Per il paziente è sufficiente pensare a qualche guaio per aver paura e stare in ansia. Pensare un pericolo corrisponde alla effettiva esistenza del pericolo. Quanto sia poi fondato questo timore, il paziente non solo non lo sa, ma nemmeno si è mai posto il problema. Per questo, a volte, è sufficiente chiedere al paziente: ma come avverrebbero queste disgrazie per incrinare l’edificio del pensiero negativo.

Psicoterapia: a che le serve ragionare così? Il Disputing Pragmatico secondo Ellis. - Immagine: © zero13 - Fotolia.com
Articolo consigliato: Psicoterapia: a che le serve ragionare così? Il Disputing Pragmatico secondo Ellis

Per esempio, la paziente Annagrazia B. riferì in prima seduta di temere intensamente la morte per incidente automobilistico. Alla semplice domanda:

T.: “Ma come avverrebbe questo incidente?”

La paziente rimase perplessa per qualche secondo. Poi rispose:

P.: “Sa che non ci avevo mai pensato? Mi limitavo a immaginare, anzi proprio a vedere, me stessa morta sul marciapiede e a provare terrore. Non mi ero mai chiesta come ci arrivassi a essere morta sul marciapiede”

La paziente ha già fornito uno spiraglio che il terapeuta deve allargare.

T.: “E allora chiediamocelo. Come può arrivarci ad essere morta sul marciapiede. Pensiamoci insieme: come avverrebbe questo incidente?”

A questo punto la paziente può iniziare da sola a criticare la sua convinzione. Oppure no, può rimanere perplessa. È tipico di molti pazienti ansiosi questa difficoltà nell’immaginare concretamente gli eventi. Spesso queste persone hanno contenuti mentali molto astratti, che si presentano alla mente in forma di discorso interiore, quindi verbale, e non in forma di immaginazione vivida e dinamica di eventi. Secondo Borkovec (1994), la forma verbale è più prossima all’astrazione e più incline a produrre ampi salti associativi. La paziente probabilmente ha associato l’idea di automobile con quella d’incidente automobilistico. Oppure ha associato due immagini piuttosto statiche: automobile e morte sul marciapiede, senza pensare a tutti gli eventi precedenti e intermedi. Sta al terapeuta incoraggiare la paziente a riempire gli spazi vuoti.

 

T.: “Ci pensi bene: come ha fatto ad arrivare morta sul marciapiede? Tra lei che guida e lei morta sul marciapiede ci sono una serie di eventi che non deve dare per scontati. Qui ci sono solo due scene. Produciamo uno scenario più ricco. Facciamo una serie di ipotesi. Fingiamo che lei sia la sceneggiatrice di un film. Che ci mette tra lei alla guida della sua auto e lei morta sul marciapiede?”

Incoraggiare il paziente o la paziente a immaginare visivamente, a “filmare” la sequenza degli eventi negativi è un modo per stimolare un pensiero più concreto. La concretezza a sua volta permette di riesaminare criticamente quanto sia probabile che l’evento si realizzi e come possa avvenire. 

Se ancora una volta il paziente non reagisce, dimostrando una vera e propria difficoltà nell’immaginare scene dinamiche, il terapeuta può e deve guidare il paziente passo passo.

T.: “Le do qualche suggerimento per lavorare su questo evento catastrofico. Immagina di essere stata investita? Immagina di essersi distratta e di essere finita fuori strada?”

Per ogni risposta della paziente occorre incoraggiarla a rendere tutto più dettagliato, concreto. La paziente può rispondere che teme di distrarsi o che teme di essere investita. Nel primo caso è bene far riflettere la paziente sul fenomeno del distrarsi.

Psicoterapia Cognitiva: "Cosa non le va in questo?" Come iniziare il Disputing del Pensiero Negativo. - © Lisa F. Young #16136135
Articolo consigliato: Psicoterapia Cognitiva: "Cosa non le va in questo?" Come iniziare il Disputing del Pensiero Negativo.

T.: Le do qualche suggerimento per lavorare su questo evento catastrofico. Immagina di essere stata investita? Immagina di essersi distratta e di essere finita fuori strada?”

Ancora una volta, nulla va dato per scontato. Se la paziente teme di distrarsi, occorre insistere su quell’evento per sdrammatizzarlo.

T.: “Come avviene una distrazione? Ci pensi: lei, mentre guida, si distrae? E quante volte accade? Certo, ci sono rapidi momenti di distrazione. Ma ragioniamo, quanto deve durare una distrazione veramente pericolosa?”

Può capitare che la paziente confonda uno stato di normale guida rilassata con la distrazione. Naturalmente la critica delle prove di fatto delle preoccupazioni va calibrata sul tipo di evento temuto.

Ci sono eventi la cui negatività è molto soggettiva e discutibile, come ad esempio tutti i timori di tipo sociale: timore di parlare in pubblico, timore di non essere simpatici, timore di non essere attraenti, e così via. In questo caso si può lavorare molto sul significato soggettivo dell’aspetto negativo degli eventi temuti.

In altri casi gli eventi temuti sono difficilmente etichettabili come soggettivamente catastrofici: timore di incidenti, sciagure, e così via. In questi altri casi è più facile allora riconsiderare la stima delle probabilità che l’evento accada.

 

 

BIBLIOGRAFIA: 

  • Borkovec, T. D. (1994). The nature, functions, and origins of worry. Davey, Graham C. L. (Ed); Tallis, Frank (Ed), (1994). Worrying: Perspectives on theory, assessment and treatment. Wiley series in clinical psychology., (pp. 5-33). Oxford, England: John Wiley & Sons, xv, 311 pp.

Autismo e Neurotipicità. Un incastro imperfetto…ma possibile!

 

Autistici e Neurotipici. Un Incastro Perfetto. - Immagine: © Texelart - Fotolia.com C’era una volta un bambino nato in mondo strano, fatto di luci abbaglianti, suoni assordanti e odori nauseanti. Non capiva come mai quella che poi avrebbe imparato a chiamare “mamma” lo costringesse a indossare abiti che pungevano tanto da farlo impazzire e perché ci tenesse a riempirlo di baci che gli lasciavano le guance così appiccicose da non dormirci la notte. Col passare degli anni questi ed altri fastidi andarono diminuendo e così l’interesse verso l’ambiente circostante lo spinse a cercare di comunicare le proprie esigenze agli alieni che gli stavano attorno. Più cercava di esprimersi, però, più riceveva ulteriori punizioni. Un giorno, per esempio, decise di uscire di casa con mamma senza protestare perché con lui era cresciuta anche la curiosità di vedere cosa ci fosse là fuori. Purtroppo si ritrovò ingabbiato in una specie di sedia a quattro ruote che si muoveva producendo un insopportabile rumore metallico. Le vibrazioni delle ruote gli creavano un fastidioso prurito lungo tutta la colonna vertebrale e le luci al neon lo rendevano incapace di vedere altro. Poteva però sentire le mani, che immaginava essere della madre, accarezzargli i capelli ed aveva la sensazione che ad ogni gesto gli venissero strappate intere ciocche.

Fu difficile per questo bambino insegnare alla mamma quanto il mondo da cui sentiva di provenire fosse diverso da quello in cui si ritrovava, ma col tempo le cose migliorarono. Lui fu in grado di spiegarle le sue difficoltà e lei trovò il modo di aiutarlo ad adattarsi alla sua strana realtà e da quel giorno impararono a volersi davvero bene ed anche ad andare insieme al supermercato… senza carrello però.

Autismo - Disturbo dello Spettro Autistico. - Immagine: © LiveStock - Fotolia.com
Monografia consigliata: Autismo – Disturbo dello Spettro Autistico

Questo è ciò di cui si è essenzialmente parlato il mese scorso a Crema, in occasione di un interessante convegno dal titolo “Percezioni sensoriali e comunicazione nell’autismo”.

Ospiti internazionali hanno intrattenuto il pubblico descrivendo gli individui con disturbi dello spettro autistico come soggetti caratterizzati soprattutto da un diverso modo di percepire la realtà che ne condiziona il comportamento e le abilità comunicative.

Questa attenzione al mondo sensoriale dei soggetti autistici dovrebbe trovare finalmente riscontro anche nei criteri diagnostici elencati nel DSM V  e, come sottolineato a più riprese dai relatori del convegno, dovrebbe direzionare qualsiasi intervento terapeutico a loro rivolto.

Così come genitori e professionisti danno per scontato l’obiettivo di promuovere le abilità degli autistici necessarie all’adattamento alla nostra realtà, altrettanto impegno dovrebbe essere dedicato all’individuazione della loro diversità sensoriale. Soltanto così si potranno definire obiettivi terapeutici sensati e rispettosi del benessere dell’individuo.

Non possiamo avere la presunzione di sapere meglio di loro cosa possa renderli felici o meno, possiamo solo sperare che siano disposti a fare il sacrificio di adattarsi alla nostra bizzarra “cultura” ma questa fatica potrebbe essere dimezzata se fossimo disposti a venirci incontro.. rinunciando per esempio alle luci al neon nelle scuole.

Ci stanno chiedendo troppo?

Giornata Mondiale dell’ Autismo. A che punto è la ricerca?

– Rassegna Stampa –

  

Un anno di ricerca sui Disturbi dello Spettro Autistico 

 

 Giornata Mondiale dell' Autismo. A che punto è la ricerca? Mappato il gene che regola il centro esecutivo del cervello durante l’arco di vita – Febbraio 2012

Per la prima volta gli scienziati hanno mappato l’attività, lungo l’arco di vita, di un meccanismo regolatore sensibile all’ambiente in grado di attivare o disattivare i geni del centro esecutivo cerebrale. Tra i principali risultati dello studio vi è la scoperta che i geni implicati nella schizofrenia e nell’autismo fanno parte di un particolare gruppo che presenta picchi di attività regolatoria correlata alla sensibilità  all’ambiente e a situazioni di criticità nel corso dello sviluppo.

La federazione NDAR ha creato la più grande banca dati per la ricerca sull’autismo – Dicembre 2011

Una partnership di dati tra il National Database For Autism Research (NDAR), e l’ Autism Genetic Resource Exchange (AGRE) lo rende forse il più grande archivio di dati di imaging, genetici, fenotipici, clinici e medici in materia di ricerca sui disturbi dello spettro autistico (ASD).

 

L’interazione con i compagni migliora le competenze sociali nei bambini con ASD – Novembre 2011

Secondo uno studio finanziato dal National Institutes of Health i bambini affetti da disturbo dello spettro autistico (ASD) possono migliorare le loro competenze sociali frequentando la scuola se anche i loro coetanei vengono istruiti sulle modalità di interazione. 

 

I neuroni cresciuti da cellule della pelle possono contenere indizi utili alla comprensione dell’autismo – Novembre 2011

I bambini affetti dalla sindrome di Timothy – una rara malattia genetica che colpisce meno di 20 persone in tutto il mondo – mostrano spesso i sintomi dei disturbi dello spettro autistico affiancati da una serie di problemi fisici. Utilizzando la tecnologia “disease-in a-dish”, i ricercatori hanno sviluppato, partendo da cellule della pelle, dei neuroni per studiarne i pattern di malfunzionamento.

 
 
Problemi nella crescita prenatale del cervello legati all’autismo – Novembre 2011

L’autismo comporta spesso una crescita precoce ed eccessiva del cervello, anche nella corteccia prefrontale (PFC). Anche se è stato teorizzato che questa anomalia della PCF sia alla base di alcuni sintomi autistici, i difetti cellulari che causano la crescita anomala rimangono sconosciuti. Da questo studio risulta che i bambini autistici hanno un maggior numero di cellule cerebrali e cervelli più pesanti rispetto ai bambini con sviluppo tipico.

 

Il rischio di autismo nei fratelli più piccoli è maggiore di quanto si pensasse – Agosto 2011

I genitori di un bambino con disturbo dello spettro autistico (ASD) hanno una probabilità circa il 19% che anche i figli successivi sviluppino ASD; in studi precedenti la probabilità stimata era del 3-4%.

 

Eredità genetica e fattori ambientali condivisi fra gemelli autistici – Luglio 2011

Nello studio sui gemelli più grande e più rigoroso del suo genere si è scoperto che l’ambiente condiviso influenza la sensibilità all’autismo più di quanto si pensasse in precedenza.

 

L’autismo rende sfuocati i confini tra le diverse aree cerebrali – Giugno 2011

Questo studio suggerisce che l’autismo cancelli le differenze molecolari che normalmente contraddistinguono differenti regioni del cervello. Tra più di 500 geni che normalmente si esprimono in modo significativamente differente nelle diverse arre cerebrali, solo 8 mostrarono tali differenze nel cervello di persone autistiche.

 

In Corea del Sud molti bambini in età scolare con un disturbo dello spettro autistico non vengono diagnosticati – Maggio 2011

La prevalenza dei disturbo dello spettro autistico (ASD) tra i bambini in Corea del Sud sembra essere molto superiore al range di stime conosciute per altri paesi. Inoltre due terzi dei casi di ASD sono stati riscontrati in bambini che frequentano scuole ordinarie, senza che ci fosse quindi mai stata una precedente diagnosi e quindi nessun trattamento adeguato.

 

Un esame di soli 5 minuti può identificare sottili segni di autismo in bambini di un anno – Aprile 2011

Una checklist di cinque minuti che i genitori possono compilare nelle sale d’attesa degli studi pediatrici potrebbe in futuro aiutare nella diagnosi precoce dei disturbi dello spettro autistico. Lo studio fornisce anche un modello per lo sviluppo di una rete di pediatri in grado di fornire tale servizio.

 

Un aiuto a trovare lavoro per i giovani con ASD – Aprile 2011

JobTIPS, un programma on-line che mira ad aiutare i giovani con disturbi dello spettro autistico (ASD) o con altre disabilità a sviluppare e mantenere le competenze necessarie per avere successo in ambito lavorativo. Questa risorsa si rivolge al periodo critico e di transizione in cui gli adolescenti lasciano il sistema scolastico, che di solito è la loro fonte primaria di servizi che mantengono una continuità per tutta l’infanzia.

 

 Raccolta Monografica sul Disturbo dello Spettro Autistico

Demenza, Alzheimer & Stimolazione Cognitiva: Use it or Lose it

Alice Mannarino.

 

Demenza, Alzheimer & Stimolazione Cognitiva: Use it or Lose it! - Immagine: © Yuri Arcurs - Fotolia.com Data la natura progressiva e irreversibile delle principali forme di demenza (in particolare la malattia di Alzheimer) e l’effetto limitato della terapia farmacologica, un numero sempre maggiore di studi sta indagando l’efficacia della stimolazione cognitiva nel migliorare e rallentare l’andamento progressivo della malattia.

La maggior parte dei trattamenti utilizzati oggi comprendono tecniche cognitive specifiche per la stimolazione delle memoria, dell’attenzione e del linguaggio; i programmi spesso sono composti da esercizi carta e matita, prove computerizzate, il tutto associato a terapia occupazionale, attività fisica e counseling psicologico (soprattutto per i familiari del paziente con demenza).

Interessante è uno studio pubblicato recentemente su una rivista scientifica (Viola L.F, Nunes P.V et al, 2011) il quale ha dimostrato l’efficacia di un programma di riabilitazione multidisciplinare specifico per le forme di Alzheimer in stadio non avanzato. Il trattamento in questione prevede sedute di riabilitazione di gruppo due volte a settimana per 12 settimane consecutive. Il programma comprende: riabilitazione cognitiva specifica, training computerizzato, terapia occupazionale, arte terapia, attività fisica, psicoterapia e counseling psicologico per i familiari.

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche
Articolo consigliato: Demenza: le Terapie Comportamentali più utili dei farmaci.

Le tecniche di stimolazione cognitiva specifica comprendono prove per la stimolazione dell’attenzione, della memoria e dell’orientamento spazio temporale (ovvero stimolazione di quelle funzioni che tendono a peggiorare per prime). L’arte terapia ha come scopo quello di migliorare le capacità cognitive, emozionali e interpersonali attraverso tecniche artistiche ed espressive. L’obiettivo invece della terapia occupazionale è quello di stimolare strategie e risorse che consentano al soggetto di portare a termine attività di vita quotidiana (igiene personale, attività domestiche e extra domestiche). La psicoterapia e il counseling ai familiari cercano innanzitutto di informare in modo adeguato i parenti riguardo l’andamento della malattia e le principale difficoltà che si possono incontrare; ha lo scopo inoltre di addestrare i caregiver sugli atteggiamenti e strategie che possono essere utilizzati per fronteggiare al meglio le situazioni difficili e lo stress che ne consegue.

I risultati di questo studio hanno evidenziato differenze significative tra i soggetti sottoposti al trattamento multidisciplinare sopradescritto (associato alla terapia farmacologica) e i soggetti sottoposti alla sola terapia standard (trattamento farmacologico e controlli medici). I soggetti sottoposti alla stimolazione cognitiva hanno mantenuto complessivamente stabile il proprio livello di funzionamento cognitivo con alcuni miglioramenti sia di tipo cognitivo sia di tipo emozionale a differenza invece del gruppo di controllo che ha riportato un marcato e globale peggioramento della performance cognitiva (soprattutto in memoria e attenzione), risultato indotto dalla natura progressiva della malattia. Particolarmente rilevante sembra inoltre l’attività di counseling rivolta ai familiari dei pazienti; sembra infatti che l’addestramento dei caregiver sulle strategie di comportamento più idonee da applicare quotidianamente e il supporto psicologico fornito nei momenti di difficoltà, riduca loro lo stress, con un significativo miglioramento della qualità di vita propria e del propri cari.

Importante ricordare che nel 2011 il World Alzheimer’s Report ha raccomandato che la stimolazione cognitiva dovrebbe essere offerta di routine a persone affette da demenza precoce, partendo dalla considerazione che questa, con attività volte a stimolare la memoria, l’attenzione e l’interazione sociale, ritarda nelle persone con demenza il peggioramento dei sintomi della demenza stessa.

 

 

BIBLIOGRAFIA: 

Demenza: le Terapie Comportamentali più utili dei farmaci.

– Rassegna Stampa – 

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze PsicologicheLa demenza è la perdita di abilità cognitive precedentemente acquisite (memoria, attenzione e orientamento spazio temporale) e si verifica in gravi disturbi come il morbo di Alzheimer.

Nonostante l’alto tasso di incidenza – circa il 5% della popolazione over 65 anni, e addirittura il 30% degli over 85 – ancora non esiste un trattamento efficace.

Secondo il Prof. Jiska Cohen-Mansfield dell’Università di Tel Aviv Herczeg Institute on Aging e la Sackler Faculty of Medicine, ai malati di demenza vengono spesso prescritti psicofarmaci per attenuare sintomi come i deliri, ma questo può avere conseguenze negative: molte delle fissazioni dei pazienti affetti da demenza possono avere un fondamento razionale, suggerisce Prof.Cohen-Mansfield, e potrebbero essere più efficacemente trattate con la terapia comportamentale piuttosto che farmacologicamente.

Lo studio, condotto in collaborazione con il Prof. Hava Golander del Dipartimento di Scienze infermieristiche e Drs. Joshua Ben-Israel e Doron Garfinkel del Shoham Medical Center, è stato pubblicato sulla rivista Psychiatry Research.

Antidepressivi
Articolo consigliato: Pillole o Parole?

Il campione era costituito da 74 adulti con diagnosi di demenza che risiedevano in case di riposo ed erano molto medicati, il 47 per cento con antidepressivi, un terzo con sedativi / ipnotici e il 13,5 per cento con antipsicotici; i ricercatori hanno esaminato sei categorie comuni di idee fisse, tra cui i timori di abbandono, i sospetti che i propri beni venissero rubati, e la sensazione di non essere “a casa”; la valutazione comprendeva anche lo stato mentale del paziente, la patologia comportamentale, e gli incidenti o i traumi passati. Il team di ricercatori ha anche interrogato i custodi e il personale infermieristico che aveva rapporti quotidiani con i pazienti: ai custodi è stato chiesto di descrivere non solo i deliri del paziente, ma anche di spiegare le circostanze in cui erano emersi.

Tenendo conto di tutti questi parametri, i ricercatori hanno scoperto che una grande percentuale dei deliri che i caregivers descrivevano sembrava avere spiegazioni logiche e riflettere la realtà vissuta dai pazienti. Ad esempio i pazienti che lamentavano di non sentirsi a “casa”: la casa di cura non ha aveva soddisfatto la loro definizione di “casa”, l’ansia poi si è dimostrata una risposta realistica quando accompagnava la separazione dall’ambiente esterno o dai propri cari. Alcune fissazioni erano anche il risultato del ri-vivere da parte del paziente traumi subiti in precedenza.

Questi risultati possono avere un forte impatto sul modo in cui gli operatori sanitari e i familiari rispondono ai pazienti affetti da demenza, sostiene il Prof. Cohen-Mansfield, perchè nelle persone affette da demenza il delirio in realtà non corrisponde alla definizione psichiatrica della psicosi. È invece importante che chi convive e si prende cura quotidianamente di queste persone consideri il contesto nel quale i deliri hanno luogo: un’analisi più approfondita di questi comportamenti è in grado di favorire l’empatia, la comprensione, e un trattamento più umano e compassionevole.

 

 

BIBLIOGRAFIA: 

Psicologia del Lutto: Accettazione & Elaborazione

 

Accettazione del Lutto. - Immagine: © bruniewska - Fotolia.com “[…] Stephen sapeva che sarebbe rimasto solo un’altra volta. Ma persino adesso non sapeva rinunciare ai suoi vagabondaggi, non poteva impedirsi di pensare che la situazione si era deteriorata al punto che non aveva provato alcuna particolare emozione quando, di ritorno dalle sue ricerche un pomeriggio di febbraio, aveva trovato vuota la poltrona di Julie. […] Fece un giro dell’appartamento, accendendo le luci, dando un’occhiata alle stanze deserte, piccoli allestimenti scenici pronti ad essere smantellati.
Tornato alla poltrona di Julie, vi si fermò un momento con la mano appena appoggiata allo schienale come se si trattasse di considerare i rischi di un gesto coraggioso. Infine si scosse, fece due passi intorno alla poltrona e si sedette. […] passarono minuti […] minuti vuoti come tutti gli altri. E a questo punto si lasciò sprofondare, immobile per la prima volta ormai da settimane. Restò così per ore, per l’intera notte, assopendosi brevemente […] in quell’arco di tempo gli parve che qualcosa si stesse raccogliendo nel silenzio circostante, il sollevarsi lento di un onda di consapevolezza, una specie di marea strisciante che, senza esplodere o frangersi drammaticamente, lo portò, attorno alle prime ore del mattino, al primo autentico flusso di comprensione della vera natura della sua sofferenza. Tutto ciò che aveva preceduto quell’evento non era che finzione, una banale e frenetica imitazione del dolore. Albeggiava appena quando incominciò a piangere e fu questo momento nella semioscurità che avrebbe fatto coincidere con l’inizio del suo lutto.” (McEwan, 1987)

Storie di Terapie #4 - Marco delle Canne. - Immagine: © natuskadpi - Fotolia.com
Articolo consigliato: Storie di Terapie #4 - Marco nelle Canne.

In queste poche righe l’autore racconta il momento nel quale, in seguito a una perdita irreparabile, il tempo, dopo essersi fermato, ricomincia a scorrere, le emozioni e i pensieri si scongelano; è il momento nel quale è possibile sentire quel dolore senza nome che ci provoca l’impossibilità di sostituire qualcuno e di farlo rivivere dentro di noi, il dolore che ci fa accedere a quella dimensione umana per cui l’altro è altro da noi e ci da la misura di quanto c’è di prezioso e insostituibile in ognuno.

Questa emozione incontenibile, perché ha a che fare con una mancanza assoluta, ci porta anche, emotivamente e cognitivamente, a confrontarci con l’ignoto che la morte rappresenta, con quel qualcosa di cui non abbiamo ricordi, conoscenza, esperienza, “con un emozione che non sa di cosa è emozionata” (Campione, 2001). La possibilità di elaborare un lutto, di “perdonare la morte” (Zapparoli e Adler Segre, 1997) nasce da questa impossibilità di dare un senso alla morte di un altro integrandola nella nostra vita, che ci fa accedere a una dimensione “sovraumana”, fuori dal tempo della nostra vita, al di la di ciò che possiamo comprendere e al quale possiamo dare una risposta, nella quale si può eccedere nel dolore, nell’insensatezza e nella disperazione, per permettersi di continuare, all’infinito, a desiderare e a piangere chi non c’è più (Campione, 2001).

La morte degli altri ci porta inevitabilmente a fare i conti con l’idea che un giorno, è sicuro, toccherà a noi. Scrive Cardinali:

“Mi piace dire di un regalo che mi ha fatto morendo, che sto scoprendo piano piano, per la verità. Mi ha fatto sentire più vicina la mia morte: non tanto vicina nel tempo, quanto vicina nel pensiero. Prima era come se lui potesse ancora proteggermi da essa e io mi ci potessi nascondere dietro; ora mi sento in prima linea […] sto scoprendo che la mia vita è più presente: credo proprio che ciò sta avvenendo perché è più presente la mia morte”.

Questa consapevolezza profonda, che tutto prima o poi avrà termine anche per noi, provoca diverse reazioni, dalle più negative, ad esempio le difese patologiche, alle più positive, che contengono, come nelle parole di Cardinali un potenziale di crescita. Il potenziale di crescita sta nella possibilità di “personalizzare” la morte e i limiti della vita: la considerazione del limite temporale ci da la misura del valore del nostro tempo e ci spinge a stabilire priorità e scopi nei diversi campi dell’esistenza; al contrario il rifiuto di questo limite spinge ad adottare modalità di negazione ed evitamento che possono sfociare in comportamenti disadattivi, patologici e regressivi (Zapparoli e Adler Segre, 1997).

Bambini nel tempo: Comunicare la Malattia e l' Accudimento Invertito. - Immagine: © 1998-2012 Hoepli Editore. Immagine Riprodotta su gentile concessione dell'Editore.
Articolo consigliato: Bambini nel tempo: Comunicare la Malattia e l' Accudimento Invertito.

Elisabeth Kubler-Ross (1976) si interroga sul senso che questa modalità di negazione e di evitamento della morte ha nella nostra società occidentale: lo spostamento del fuoco dall’individuo alla massa, tipico della società occidentale, genera contemporaneamente la sensazione di non potere dominare in prima persona gli eventi, e spinge a modalità difensive, che se non possono affidarsi a un contatto faccia a faccia, si spostano su un piano più psicologico. Nel tentativo di allontanare, esorcizzare la realtà della morte come momento che accompagna la vita, la rappresentiamo, la trasformiamo in “come se”, bombardati continuamente dalla televisione e dai quotidiani di morti violente, ci abituiamo a pensare alla morte come a qualcosa che riguarda gli altri e ci disabituiamo a pensare alla nostra, tendiamo a credere nella nostra immortalità.

Gli effetti paradossali di questa desensibilizzazione da sovrastimolazione si notano nella difficoltà e nell’imbarazzo, mostrato dalla maggior parte delle persone, quando si trovano ad avere a che fare con il dolore e la drammaticità che la morte porta con sé quando ci coglie nella nostra vita privata: permettiamo ai bambini di passare ore a vedere cartoni animati violenti e ci chiediamo se sia il caso di portarli a salutare il nonno in fin di vita, ci commuoviamo di fronte alla morte rappresentata in un film ma ci imbarazziamo, vergogniamo e spaventiamo di fronte alla manifestazione del dolore di qualcuno che ha perso una persona cara.

Se la morte degli altri è qualche cosa che inevitabilmente rimane fuori di noi e ci attraversa solo come un dolore senza fine per una perdita irreparabile, forse un modo per restituirle un potenziale creativo ed evolutivo che ci aiuti a crescere e a dare senso a ciò che viviamo è proprio quello di riuscire a confrontarci con l’idea della nostra fine: “Credo che dovremmo prendere l’abitudine di pensare ogni tanto alla morte e al morire, prima di incontrarla nella nostra vita personale. […] può essere una benedizione usare il tempo della malattia di una persona cara o di un amico per pensare alla morte o al morire in termini riguardanti noi stessi” (Kubler-Ross, 1976).

 

 

BIBLIOGRAFIA:  

  • Campione F. I (2001) ll lutto tra disperazione e crescita. In-formazione psicologia, psicoterapia, psichiatria. Anno 12, 43: 8-14.
  • Cardinali F. Il vivere e il morire. Incontri e domande nell’esperienza di uno psicoterapeuta.
  • Kubler-Ross E. (1976) La morte e il morire. Cittadella Editrice, Assisi.
  • McEwan (1987) Bambini nel tempo. Einaudi, Torino, 1988
  • Zapparoli G.C. & Adler Segre E. (1997) Vivere e morire. Un modello di intervento con i malati terminali. Campi del Sapere, Feltrinelli, Milano.

Dimmi che personalità hai e… ti dirò se ingrasserai?

 

Qual è la tua personalità? Sei disciplinato e ordinato, o sei più aggressivo e impulsivo?

Dimmi che personalità hai e... ti dirò se ingrasserai?. - Immagine: © Jaimie Duplass - Fotolia.comUna recente ricerca del National Institute of Health suggerisce che questi tratti della personalità potrebbero essere predittivi delle  nostre variazioni di peso.

E’ noto a tutti che l’obesità, dovuta ad una cattiva alimentazione e a stili di vita sedentari, potrebbe portare a malattie cardiache, diabete di tipo 2, alcuni tipi di cancro, artrite, conseguenze psicologiche (bassa autostima, distimia, rimuginio e elevato autocriticismo) e una riduzione significativa nella qualità dello stile di vita.

Infatti, le persone gravemente obese tendono a mettere in atto una serie di evitamenti che, nel lungo periodo, si trasformano in un vero e proprio ritiro sociale con gravi conseguenze nelle relazioni socio- familiari. Ma a che cosa è dovuta questa obesità? Secondo questa recente ricerca, potrebbe dipendere dai diversi tratti di personalità che caratterizzano ognuno di noi. Quindi personalità non patologiche aiuterebbero a mantenere un peso sano rispetto a coloro che mostrano tratti personologici patogeni.

Quindi, coloro che manifestano la presenza di tratti impulsivi di personalità sono più esposti a tendenza ad essere in sovrappeso o obesi. Un certo livello di auto-disciplina è fondamentale per iniziare una dieta sana e un giusto esercizio fisico, e sicuramente le persone impulsive tendono ad eccedere con le regole durante la prima fase di una dieta per poi cedere il passo alle tentazioni dettate dal cibo o dall’alcool.

 

I Disturbi dell'alimentazione: resoconto di un convegno - SISDCA 2011 - Immagine: © DURIS Guillaume - Fotolia.com
Articolo consigliato: "I Disturbi dell'alimentazione: resoconto di un convegno - SISDCA 2011"

Indubbiamente non avrebbero l’habitus per intraprendere un percorso lungo e faticoso. Ecco perché alcune persone obese mollano il trattamento.
Quindi, tutti coloro che mostrano una personalità dedita al passaggio all’atto e poca coscienziosità nel giudicare e valutare le proprie azioni potrebbero imparare, con una terapia, a programmare e pianificare la propria alimentazione secondo delle regole rigide basate su pasti regolari, e una graduale perdita di peso.

Dopo aver letto questo articolo, dal titolo interessante, mi sembrava di avere tra le mani uno dei risultati ai test che si trovano all’interno di riviste di Gossip. C’è da dire che sicuramente è possibile individuare delle personalità premorbose, che, in qualche modo potrebbero essere considerate come fattori di rischio, ma bisogna sempre considerare altre variabili come l’ambiente e la famiglia nella quale si cresce. Sicuramente è l’interazione di una serie di fattori che porta al manifestarsi del sintomo, considerati singolarmente potrebbero non portare a nessun esito.

Di conseguenza parlare solo di personalità e in maniera così asettica pare limitativo e controproducente.

Quindi, va bene fare ricerca, ma spendere fonti per cadere nelle banalizzazioni, mi sembra troppo poco gratificante.

 

 

BIBLIOGRAFIA: 

La perdita di peso non aumenta l’autostima nelle ragazze adolescenti?

– Rassegna Stampa –

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

Secondo uno studio condotto alla Purdue University la perdita di peso nelle adolescenti obese porterebbe a benefici fisici ma non psicologici: sembra infatti che perdere peso non le aiuti a sentirsi meglio con loro stesse. I ricercatori, basandosi sui dati del National Heart, Lung and Blood and Growth Institute Health Study, hanno infatti scoperto che alla perdita di peso non corrispondeva un reale cambiamento nell’immagine corporea e un effetto positivo sull’autostima.

Lo stato di salute e il peso di oltre 2.000 ragazze sia caucasiche che afroamericane è stato monitorato a partire dai 9 ai 10 anni di età per i 10 anni successivi. Le ragazze sono state divise in tre gruppi a seconda della tendenza nel tempo del loro indice di massa corporea: normopeso, tendenti all’obesità e cronicamente obese.

I dati hanno rivelato alcune differenze a seconda dell’etnia di appartenenza: le ragazze bianche avevano una autostima più bassa rispetto alle coetanee normopeso e questa non è migliorata con la perdita di peso, mentre le ragazze nere che da obese sono entrate in un range di normalità l’autostima è migliorata, tuttavia la percezione negativa del proprio corpo è rimasta invariata; l’autostima per le ragazze nere è stata complessivamente inferiore ma, in coloro che sono entrate nel range di peso normale, è aumentata più di quanto abbia fatto per qualsiasi altro gruppo di ragazze: Secondo i ricercatori questo fenomeno deve essere studiato più in profondità per capire in che modo le norme subculturali possano influenzare questo processo.

Sono necessarie ulteriori ricerche per capire perché le adolescenti si sentano in questo modo, ma l’ipotesi dei ricercatori è quella che guarda allo stigma derivante dagli stereotipi sociali negativi sull’obesità: i bambini infatti interiorizzano gli stereotipi e le percezioni negative di persone obese prima ancora di diventare obesi in prima persona, e questi tendono a rimanere stabili e a influenzare l’autoimmagine a dispetto delle variazioni di peso.

 

 

BIBLIOGRAFIA:

Seminario: Sviluppi recenti della Terapia Cognitiva.

Sviluppi recenti della terapia cognitiva

 

Seminario SAssaroli RUggiero - Milano Bicocca & Studi CognitiviSandra Sassaroli e Giovanni M. Ruggiero

Dopo aver introdotto i principi teorici di base della terapia cognitiva e i modelli psicopatologici cognitivi di ansia, depressione e disturbi alimentari elaborati da Albert Ellis e Aaron Beck, il seminario approfondirà gli sviluppi successivi che hanno esteso il modello di partenza al trattamento del disturbo ossessivo, della fobia sociale e della bulimia.

Verranno quindi discussi gli sviluppi più recenti (cosiddetti di «terza ondata»), che si affiancano al comportamentismo e al cognitivismo clinico: gli interventi di accettazione e validazione a integrazione delle tecniche di ristrutturazione cognitiva, il focus sui processi oltre che sui contenuti mentali, le tecniche esperienziali e meditative orientate alla mindfulness, l’attenzione per la metacognizione e i tentativi di spiegare le componenti relazionali in termini cognitivi.

Sandra Sassaroli, psichiatra e psicoterapeuta, è direttore della Scuola di terapia cognitiva e cognitivo-comportamentale «Studi Cognitivi» con sede a Milano. È autrice e co-autrice di diversi volumi, fra i quali Attaccamento, conoscenza e disturbi di personalità (1995), La mente prigioniera (2000), Psicoterapia cognitiva dell’ansia (2004) e I disturbi alimentari (2010).

Giovanni M. Ruggiero, psichiatra e psicoterapeuta, è direttore della Scuola di terapia cognitiva e cognitivo-comportamentale «Psicoterapia Cognitiva e Ricerca» con sede a Milano. Fra i volumi recentemente pubblicati: Psicoterapia cognitiva dell’ansia (2004), I disturbi alimentari (2010) e Terapia cognitiva: una storia critica (2011).

 

19 aprile 2012, ore 09.30

Università degli Studi di Milano-Bicocca
Scuola di Specializzazione in Psicologia del Ciclo di Vita

Facoltà di Psicologia Edificio U6, Aula 25

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Marsha Linehan e l’approccio dialettico per affrontare i propri demoni

 

Marsha Linehan. - Immagine: © University of Washington  http://faculty.washington.edu/linehan/Sei una di noi? 

Il paziente lo voleva sapere e Marsha Linehan, all’età di 68 anni, famosa per la sua Terapia Dialettico-Comportamentale per il trattamento del Disturbo di personalità Borderline, ha avuto la risposta pronta:

-“Se ne ho sofferto?”

-“No, Marsha. Intendo dire se sei una di noi. Come noi. Perché se tu lo fossi, daresti a tutti noi una grande speranza”

-“That did it”.

Così la famosa terapeuta e ricercatrice americana ha svelato la sua storia in pubblico lo scorso Dicembre di fronte a un’audience di amici, familiari e dottori, presso l’Institute of Living, dove lei stessa era stata ricoverata e trattata per la prima volta all’età di 17 anni per estremo ritiro sociale (articolo completo sul New York Times, clicca qui).

Per la presenza di sintomi psicotici i medici la diagnosticarono come schizofrenica. I due anni in cui la allora adolescente Linehan passò alla clinica psichiatrica sono descritti come i più duri, disturbati e isolati di tutta la sua malattia. Tentando di farsi del male in ogni modo, fu messa in una stanza isolata, con solo l’indispensabile per dormire e una piccola finestra. Ma per lei il desiderio di morire e farsi del male si faceva sempre più profondo. Così iniziò a fare l’unica cosa che riusciva: sbattere la testa contro il muro, poi sul pavimento. Forte.

EABCT 2011: Reykjavik
Articolo consigliato: EABCT 2011: Marsha Linehan

-“La mia intera esperienza di tali episodi era che qualcun altro stava facendo tutto ciò. Era un po’ come -lo so che stai arrivando, sono fuori controllo, qualcuno mi aiuti: dov’è Dio? -Mi sentivo completamente vuota, come l’uomo di latta: non avevo alcun modo di comunicare ciò che mi stava capitando, nessun modo di capirlo”.

-“Onestamente, in quel periodo non realizzavo che stavo combattendo contro me stessa. Ma è probabilmente vero che ho sviluppato una terapia che fornisce ciò di cui io ho avuto bisogno per molti anni e che non ho mai ricevuto”.

La dott.ssa Marsha Linehan, attualmente professore di psicologia, psichiatria e scienze del comportamento all’Università di Washington, si è specializzata nel trattamento dei pazienti con disturbo di personalità Borderline, diagnosi che essa stessa si è data retrospettivamente. Come mai allora la discrepanza con la diagnosi dell’adolescenza? È verosimile che Marsha Linehan abbia avuto degli episodi psicotici, motivo per cui era stata fatta rientrare nella diagnosi originaria. Ma oggi sappiamo che anche pazienti con BPD possono, sotto particolare stress, presentare episodi psicotici – fenomeni che in questi casi rimangono transitori e non cronicizzano come invece accade nei casi di schizofrenia. Inoltre, il BPD non è entrato nella classificazione dei disturbi mentali fino al 1980, con l’uscita del DSM III, molto dopo la prima ospedalizzazione della Lineahn.

I Sintomi Psicotici delle persone sane. - © rolffimages - Fotolia.com
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Il Disturbo Borderline di Personalità copre uno spettro molto vasti di sintomi (ben 9 sono i criteri citati per la diagnosi nel DSM IV) e il concetto nosografico di BPD si muove lungo gli assi del disturbo dell’identità e delle relazioni, del discontrollo degli impulsi e della disregolazione affettiva (Dimaggio, Semerari, 2011). Il disturbo Borderline di personalità è una patologia estremamente invalidante, essenzialmente cronico e che può implicare comportamenti autolesivi. La diagnosi di BPD è delicata e ancora oggi molti pazienti non ricevono la diagnosi corretta; ad esempio, i cambi repentini di umore, l’instabilità e l’impulsività possono essere scambiati come caratteristiche del disturbo bipolare.

Quella di disturbo Borderline di personalità è forse una delle diagnosi più stigmatizzate di sempre. Basti pensare che fino a non molto tempo fa – e forse ancora adesso in alcune sette religiose – si pensava che questo tipo di persone fosse posseduta dal demonio, e quindi veniva trattata con l’esorcismo.

 

Da questo punto di vista, la self-disclosure della Linehan va letta come un modo per de-stigmatizzare la malattia mentale e per sottolineare che chi ha una diagnosi di questo tipo non deve necessariamente vedere davanti a sé una vita povera e dolorosa. D’altra parte, pensarsi come vittime non fa altro che alimentarne il senso e sgretolare ciò che può motivare queste persone a iniziare un trattamento: la speranza.

DEFINIZIONE DI STIGMA SU PSICOPEDIA

Studi di follow-up hanno dimostrato che pazienti diagnosticati con BPD tendono a migliorare negli anni e i sintomi ad affievolirsi, soprattutto per chi si è sottoposto, oltre a trattamento farmacologico, a una psicoterapia. Questo è probabilmente quello che è successo anche a Marsha Linehan: tempo e maturazione.

But, as Dr. Linehan herself admits, she still, to this day, struggles with her demons at times. Thankfully, she got to the point in her life where she was no longer so destructively driven or possessed by her inner demons, learning to cohabitate with them creatively. Or as Jung might put it, she, like all of us, may still have her demons (complexes), but they no longer have her. At least, not most of the time (Stephen Diamond, 2011).

 

 

BIBLIOGRAFIA: 

Il contenuto di questo articolo è stato liberamente tratto e tradotto dai seguenti siti web:

Neuroscienze: Mind Wandering. Perchè la nostra mente vagabonda?

 

Sognare ad occhi aperti la nostra prossima vacanza, immaginare la cena che ci aspetta mentre viaggiamo in treno verso casa, perderci in pensieri mentre scorriamo le pagine di un libro senza capire quello che leggiamo, visualizzare un’immagine di noi mentre compiamo un gesto eroico o mentre litighiamo finalmente con un collega che ci ha stancato da giorni…

Mind Wandering. - Immagine: © auremar - Fotolia.com Gli esseri umani generano costantemente pensieri e immagini che il più delle volte non sono legati alle circostanze in cui si trovano e malgrado l’elevata frequenza con cui la fantasia spicca il volo, capita spesso di sorprendersi quando ci si accorge di aver trascorso gli ultimi minuti o secondi immersi in pensieri lontani dalla realtà e senza essercene accorti!

Questo strano e tuttavia frequentissimo fenomeno è da tempo oggetto di studio da parte di molti ricercatori che si occupano di approfondire i meccanismi attraverso i quali la coscienza umana trova forma ed espressione ed è noto come mind wandering (mente vagabonda).

Ma a cosa ci serve? Perché tutti siamo ciclicamente rapiti da pensieri che ci distolgono dalla realtà? Perché la nostra coscienza appare per qualche istante alterata?

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche
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Le neuroscienze hanno dato negli ultimi anni un valido contributo alla comprensione dei meccanismi neurali coinvolti nel mind wandering, tale da aver individuato una rete neurale legata a questa attività di pensiero: il Default Mode Network (DMN). Questa rete neurale comprende la corteccia prefrontale mediale, la corteccia cingolata posteriore e le cortecce infero-parietale e temporale. Rispetto ad altre aree corticali, il DMN ha un particolare pattern di attivazione: l’attività corticale di questo network tende a ridursi significativamente durante compiti cognitivi, mentre aumenta i suoi livelli di attività quando il cervello è a riposo (Raichle et al., 2001). Questo ha permesso di identificare la rete del DMN come separata dalle altre, sia dal punto di vista funzionale che strutturale.

Vista la frequenza e l’intensità con cui il nostro cervello si impegna in un’attività apparentemente inutile e potenzialmente dannosa per le nostre performance, vale la pena approfondire alcune tra le principali funzioni attribuite in letteratura al Mind Wandering:

 

1) Programmare il futuro: una significativa quantità di tempo trascorso a “divagare” è dedicato ad eventi futuri. Questo processo mentale aumenta nei periodi di più intensa riflessività ed è ridotto quando siamo tristi; inoltre, molte delle strutture corticali dedicate alle capacità di progettazione del futuro sono implicate anche nel wandering. Forse quindi una delle funzioni primarie della “mente vagabonda” è di generare previsioni sulla propria vita necessarie a navigare con successo nel mondo reale.

2) Accrescere la Creatività: ci sono infiniti aneddoti di idee illuminanti giunte improvvisamente alla mente di un individuo proprio durante episodi di wandering. Sebbene molte ricerche siano ancora in corso sull’argomento, alcuni ricercatori sostengono l’ipotesi che fantasticare contribuisca ad allungare i tempi di “incubazione” delle idee e a favorire la costruzione di soluzioni più creative.

Psicoterapia cognitiva: le dipendenze patologiche e il lato oscuro del desiderio. - Immagine: © Andrea Danti - Fotolia.com
Articolo consigliato: Psicoterapia cognitiva: le dipendenze patologiche e il lato oscuro del desiderio

3) Attenzione più fluida: per un individuo abituato a perseguire diversi obiettivi nello stesso momento, l’abilità di passare attraverso “flussi di informazioni” diverse può essere adattiva. Il wandering potrebbe essere dunque un’estensione della tendenza, basilare per tutti gli animali, di far fluttuare continuamente l’attenzione tra bisogni e obiettivi tra loro diversi e talora in contrasto, ma entrambi fondamentali per la sopravvivenza.

4)Refresh” della mente: alcune linee di ricerca indicano che i processi di apprendimento siano favoriti da una pratica diluita nel tempo, piuttosto che da un uno massiccio e continuo dispendio di energie. Uno dei possibili vantaggi del wandering, potrebbe dunque essere che lasciare la mente libera di “vagare” per qualche attimo durante un compito in corso permette alla mente di operare un “refresh” e di recuperare le capacità necessarie per dedicarsi al compito in corso.

Qualunque sia la sua funzione, il mind wandering sembra essere un meccanismo involontario e automatico, difficile da intercettare quando avviene, ma facile da riconoscere solo una volta accaduto. E’ affascinante l’idea che i momenti in cui “perdiamo il filo” e ci assentiamo, possano essere proprio quelli in cui la mente vaga per recuperare energie e informazioni utili per andare avanti nel suo compito…

 

BIBLIOGRAFIA: 

  • Raichle, M.E. et al. (2001) A default mode of brain function. Proceeding of the natural academy of science U.S.A. 98, 676–682.
  • Schooler, J. W., Smallwood J., Christoff, K., Handy, T.C., Reichle, E.D. and Sayette, M.A. (2011) Meta-awareness, perceptual decoupling and the wandering mind. Trends in Cognitive Sciences , Vol. 15, No. 7. 

Psicopatologia Post-Partum e Perinatale. Notizie dal Congresso.

 

Impressioni dal Convegno “Disturbi Psicopatologici nel periodo perinatale. Evidenze internazionali e nuove progettualità” – 26 marzo 2012 Auditorium Padri Oblati, RHO (MI)

Psicopatologia Post-Partum e Perinatale. Notizie dai Convegni. Nello splendido contesto del Collegio dei Padri Oblati di RHO, il 26 marzo l’A.O. “G. Salvini” di Garbagnate ha organizzato un convegno sulle psicopatologie perinatali. Argomento di altissimo interesse e attualità quello della patologie post-partum

I relatori parlano molto di Depressione Post-Partum, e dei Programmi Innovativi gestiti dalla Regione, ma non solo. Vengono discussi anche temi quali gli interventi efficaci e le psicosi post-partum.

Dopo i saluti delle autorità l’apertura dei lavori, Carmine Pariante e Paola Dazzan riportano la loro esperienza clinica coltivata negli anni di lavoro presso il Kings College di Londra. I due interventi toccano i due temi della Depressione Post-Partum e delle Psicosi Perinatali.

Nonostante una piccola sensazione di frustrazione e di benevola invidia abbia pervaso tutto l’auditorio (lo sapevate che in Gran Bretagna esistono le baby unit, strutture in cui è possibile ospitare la coppia madre-bambino sia in day-hospital sia in ricovero prolungato, con il fine di intervenire precocemente e in modo efficace, nonché multidisciplinare, sulle problematiche della coppia, trattasi anche di depressione post-partum?), i due relatori riescono a descrivere in modo molto interessante le attività svolte in Gran Bretagna.

Due dati interessanti:

  • L’alto livello di cortisolo rilevato nelle madri pre-termine post-termine.
  • Viene stimata intorno al 10% la presenza di Depressione “post-Partum” nei compagni di madri con DPP. Ciò denota una frequente copresenza di Depressione nei padri e nelle madri.
Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche
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Inoltre, viene presentata una ricerca svolta presso lo stesso ospedale, in cui sono emersi a mio parere, due aspetti importanti. Il primo, la mancanza di informazioni lamentata dai padri circa l’infanzia e la nascita. Questo fa pensare a quanto anche “semplici” interventi di psicoeducazione possano essere utili per i genitori, in particolare per i papà, talvolta poco coinvolti nei vissuti della moglie/madre.

Il secondo aspetto: emerge anche che la diminuzione dell’attività sessuale viene vissuta dai padri come “sorpresa”. Sembra che anche in questo caso sarebbe necessario “psicoeducare i padri” sulle caratteristiche della sessualità post partum e di come alcune cose (sebbene non tutte!) debbano adattarsi alla nuova condizione familiare.

Dopo i due interventi dei colleghi del King College, è la volta di Mariano Bassi (A.O. Niguarda Cà Granda di Milano) il quale presenta una breve ma incisiva fotografia della situazione italiana in materia depressione post-partum.

Fortunatamente anche in Italia, alcune realtà attive nell’ambito della ricerca esistono, e Antonio Clavenna lo mostra, presentando una ricerca in progress sullo screening della depressione post partum nel setting della pediatria di famiglia, che verrà svolta nei prossimi mesi in collaborazione al l’ASL Provincia Milano 1.

 

A concludere la mattinata, gli interventi di Daniele Piacentini e di Farida Ferrato. Viene presentato il progetto in corso sul territorio dell’ASL Provincia Milano 1 sul riconoscimento e sul trattamento della depressione post partum. Viene fatto dai relatori ampio riferimento alle Linee Guida Internazionali del NICE (National Institute for Health and Clinical Excellence) per il trattamento della Depressione Post-Partum. Le linee guida indicano come trattamento di prima scelta la Terapia Cognitivo-Comportamentale e i due relatori raccontano la loro esperienza clinica partendo da tali riferimenti.

Dopo la pausa buffet e due passi nello splendido Collegio che ha ospitato il Convegno si procede con una tavola rotonda in cui hanno partecipato operatori di varia formazione, ognuno dei quali ha presentato la propria esperienza clinica nell’ambito della collaborazione tra aree e servizi per una nuova progettualità nel trattamento dei disturbi psicopatologici del periparto.

Quando ancora il sole fuori splende sulle strade del centro di Rho il Convegno si chiude con una riflessione: è indubbio che in Italia e nel Servizio Pubblico vi siano delle difficoltà, ma è anche vero che sono emerse oggi alcune realtà il cui lavoro è ispirato dalla multi-disciplinarietà, dall’impegno e dalla voglia di condividere, migliorarsi e migliorare i servizi offerti ai cittadini, soprattutto in un ambito, quello dei disturbi perinatali, che davvero rappresenta un campo cruciale e importantissimo per il nostro futuro.

 

 

BIBLIOGRAFIA:  

 

Vivere da Soli Aumenta il Rischio di Depressione

– Rassegna Stampa –

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze PsicologicheNegli ultimi 30 anni il numero di persone che vivono da sole è raddoppiato. Uno studio condotto al Finnish Institute of Occupational Health dimostra che il rischio di depressione è quasi l’80% in più per coloro che vivono da soli rispetto alle persone che vivono in qualsiasi tipo di gruppo sociale o familiare.

Nelle donne un terzo di questo rischio è attribuibile a fattori socio-demografici, come la mancanza di istruzione e il basso reddito. Per gli uomini i fattori determinanti includono l’ambiente in cui scarseggiano i posti di lavoro, la mancanza di sostegno sul posto di lavoro o nella vita privata, e il bere “pesante”.

E’ noto che vivere da soli può aumentare il rischio di problemi di salute mentale negli anziani e nei genitori single, ma poco si sa circa gli effetti del vivere da soli sulle persone in età lavorativa. I ricercatori finlandesi hanno monitorato 3500 uomini e donne in età lavorativa per un periodo di sette anni e hanno confrontato la loro situazione di vita con i fattori di rischio psicosociali, socio-demografici, e di salute, tra cui fumo, alcolismo, bassa attività fisica, uso di antidepressivi.

Secondo Laura Pulkki-Råback, che ha condotto la ricerca, questo studio dimostra che le persone che vivono sole hanno un rischio maggiore di andare incontro a depressione: complessivamente non sono state registrate differenze di genere nel rischio di sviluppare depressione, ma le condizioni abitative disagiate (soprattutto per le donne) e la mancanza di sostegno sociale (in particolare per gli uomini) si sono dimostrati i fattori che principalmente contribuiscono a questo aumento del rischio.

Inoltre questo studio identifica chiaramente alcuni dei fattori che aumentano il rischio di depressione per le persone che vivono da sole, ma più della metà di questo aumento del rischio è ancora inspiegabile: ricercatori suggeriscono che questo potrebbe essere dovuto a sentimenti di alienazione dalla società, a mancanza di fiducia, o a difficoltà derivanti da eventi di vita critici.

 

 

BIBLIOGRAFIA:

Disfunzione Sessuale Femminile: la necessità di un cambio di prospettiva.

Michele Rossi.

 

Disfunzione Sessuale Femminile: la necessità di un cambio di prospettiva. - Immagine: © Andrea Danti - Fotolia.com Le cause della disfunzione sessuale femminile (FSD) più comunemente conosciuta come “frigidità”, sono da sempre oggetto di accesi dibattiti.

Col passare del tempo le prove a favore di un’origine prevalentemente psicologica della disfunzione sessuale femminile si stanno moltiplicando. L’ insoddisfazione nel rapporto di coppia appare ormai la motivazione più frequente e le così dette “cause organiche” sembrano ormai in grado di spiegare solo un numero molto limitato di casi.

La disfunzione sessuale femminile (FSD) costituisce da sempre una diagnosi controversa. Viene formulata, in modo molto generico, quando si riscontrano problemi in una o più di queste aree della sessualità femminile:

  • Desiderio.
  • Dolore.
  • Eccitamento.
  • Orgasmo.

 

L’orgasmo femminile: ma le donne come funzionano? - Immagine: © mademoh - Fotolia.com

Storicamente la medicina ha manifestato la tendenza a ricercare le cause di questa problematica prevalentemente in disfunzioni di tipo organico e questo ha scatenato negli ultimi decenni crescenti polemiche. Accanto alla classica accusa di negare, spesso al di là di ogni evidenza, il ruolo del sesso maschile nella “frigidità” femminile, si è col tempo aggiunta la critica secondo cui la classe medica faticherebbe a riconoscere l’origine quasi sempre psicologica della disfunzione sessuale femminile, dato che questo implicherebbe, progressivamente, la preferenza per le consulenze di tipo psicologico su quelle mediche nel chiedere aiuto per questo problema.

Una recente ricerca sembra ora destinata a spostare ulteriormente l’ago della bilancia, confermando l’origine prevalentemente “relazionale” della disfunzione sessuale femminile.

Lo studio è stato realizzato in Inghilterra dal sessuologo A. Burri e pubblicato nel Settembre del 2011 sulla rivista specializzata “Journal of Sexual Medicine”. Nella ricerca sono state inizialmente intervistate circa 1.489 donne di età compresa fra i 18 e gli 85 anni.

La valutazione è stata effettuata con gli strumenti testistici maggiormente validati nel Regno Unito (“Female Sexual Function Index” FSFI e “Female Sexual Distress” FSDS). E’ emerso che il 5,8 % aveva recentemente avuto problemi nella sfera sessuale. Un altro 15,5 % ha invece segnalato un problema cronico, dove il sesso risultava assente o fortemente limitato. Burri ha quindi analizzato il campione complessivo delle donne con FSD (21,3 %) per approfondire cause e fattori di rischio.

I risultati hanno indicato la presenza di diversi importanti “predittori” della disfunzione sessuale femminile, come le esperienze di abuso e la presenza di un disturbo Ossessivo-Compulsivo. Le problematiche nella relazione di coppia sono però risultate il fattore di gran lunga più comunemente associato. La disfunzione sessuale femminile, infatti, è risultata correlata a problemi relazionali nella coppia in modo molto significativo (OR 1,2-4,5).

Sex stereotypes - © Elnur - Fotolia.com
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Di sicuro lo studio ha il difetto di non aver indagato “se è nato prima l’uovo o la gallina”, ovvero se in alcuni casi le difficoltà sessuali non hanno poi danneggiato il rapporto di coppia, ma agli autori della ricerca questo aspetto non sembra interessare molto.

Secondo Burri, infatti, la cosa davvero importante da sottolineare è che il concetto di Disfunzione Sessuale Femminile è fuorviante. Esso “sottintende” che ci sia qualcosa di sbagliato nella donna, quando in realtà è spesso il rapporto che ha problemi. Descrivere l’FSD come semplice disfunzione femminile, dunque, porterebbe a trascurare molti fattori, come quelli legati al partner e alla relazione. Per esempio, spesso l’ eiaculazione precoce maschile genera problemi nel desiderio femminile, ma non sempre il rapporto di causa-effetto fra questi problemi viene riconosciuto. Il problema più grave, comunque, resta quello di sottovalutare i fattori relazionali, generando spesso diagnosi errate e terapie inefficaci.

Secondo Marita McCabe, professore di psicologia alla Deakin University di Melbourne, una quota considerevole di donne non rivelano i loro problemi sessuali perché temono il giudizio del partner e quello sociale: solo affermando il principio secondo cui la disfunzione sessuale femminile è spesso il prodotto dei problemi sessuali maschili o di relazione nella coppia è possibile portare le donne a chiedere aiuto e a ridurre così questa significativa “sacca” di disagio.

 

 

BIBLIOGRAFIA:  

 

 

 

Cinema – Recensione di A Simple Life (2011) by Ann Hui.

Sonia Marino. 

Cinema - Recensione di A Simple Life (2011) di Ann Hui. - Immagine: Theatrical Release Poster for A Simple Life, Copyright © 2011 by Distribution Workshop.
A Simple Life (2011) by Ann Hui. Movie Poster, Copyright © 2011 by Distribution Workshop.

A Simple Life  (2011) è un film bellissimo. Ricco, da lasciare frastornati. Quasi Neorealismo.

È ambientato a Hong Kong e racconta la storia di una amah (una serva) che per 60 anni vive con la famiglia presso la quale presta servizio, vedendo susseguirsi le diverse generazioni, che finiscono tutte per emigrare negli Stati Uniti. Anziana e poi malata viene accudita sempre con maggiore tenerezza dall’unica persona della famiglia ormai rimasta in Cina, un giovane uomo (Roger) che lavora nel cinema. E con questo basta con la trama, che è semplice come la storia raccontata.

Tutt’altro che semplice è invece lo sguardo con cui la regista, Ann Hui, ci propone i protagonisti, i loro sentimenti e il legame profondo tra i due protagonisti.

Tutti e due, il giovane uomo e la donna anziana, sono accomunati dalla solitudine, dai ricordi, dall’amore per il cibo e dalla malattia (Roger ha avuto un infarto e viene accudito proprio da Ah Tao coi suoi manicaretti). Roger sempre più consapevole e attento sembra riconoscere nell’anziana donna le attenzioni di una madre più che quelle di una governante.

E ora dove andiamo? Il conflitto libanese e la folle impulsività dei maschi. - Immagine: © Les Films des Tournelles
Articolo consigliato: E ora dove andiamo? Il conflitto libanese e la folle impulsività dei maschi.

Non ci sono mai emozioni urlate. Tutto il racconto è semplice e anche se una tristezza profonda permea ogni immagine (ma Honk kong non era una delle città più belle della Cina?); c’è spazio per la nostalgia la riconoscenza la dignità l’impegno nel fare bene le cose. Certo il film parla di argomenti scottanti e tabù ai giorni nostri: la vecchiaia e la malattia. Ma non c’è alcuna retorica o esagerazione o melodramma.

Molto particolare anche il senso del tempo nel film, che dura oltre due ore ma non stanca o annoia. Un tempo lento regolare calmo, come quello che cerchiamo di ricostruire in noi stessi quando siamo preda dell’ansia. Ogni fatto della vita ogni cambiamento viene presentato senza toni angosciati e senza affanno.

L’elemento che più mi ha colpito rimane la descrizione del sentimento di affetto e grande gratitudine reciproca di cui i due protagonisti sembrano diventare man mano sempre più consapevoli.

Deannie Yip, la protagonista, ha vinto per questa interpretazione la Coppa Volpi a Venezia.  

 

 

RIFERIMENTI: 

Neuroscienze – Quanti amici hai? Te lo dice la Risonanza Magnetica Strutturale.

– Rassegna Stampa –

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze PsicologicheQuanti amici hai? La risposta sembra essere una via di mezzo tra la dimensione della corteccia prefrontale orbitale e la nostra capacità di mentalizzare.

Un nuovo studio di Robin Dunbar (University of Oxford) in collaborazione con ricercatori della Liverpool University, Manchester University e Edinburgh University dimostra che vi sarebbe un’ associazione tra la dimensione della corteccia prefrontale orbitale del nostro cervello e il numero di amici che abbiamo: la corteccia prefrontale orbitale è di dimensioni significativamente maggiori in coloro che hanno molte amicizie.

La ricerca pubblicata nel Febbraio 2012 su Proceedings of the Royal Society B ha coinvolto 40 soggetti che attraverso la tecnica della risonanza magnetica strutturale sono stati sottoposti alla misurazione della dimensione della corteccia prefrontale; ai partecipanti è stato poi chiesto di fare una lista di amici con cui erano stati in contatto nei sette giorni precedenti e di compilare un test che valuta la capacità di mentalizzazione.

Dai risultati è emerso che i soggetti che avevano più amici presentavano migliori capacità di mentalizzazione e parimenti un maggior volume della corteccia prefrontale orbitale; di conseguenza la capacità di mentalizzare, e cioè di attribuire stati mentali agli altri, medierebbe il rapporto tra la dimensione di quest’area cerebrale e la numerosità delle amicizie di un individuo. Lo studio, sulla scia di precedenti contributi di Robin Dunbar, rappresenta un ulteriore contributo per riflettere sui meccanismi evolutivi del sistema nervoso della nostra specie “ultrasociale”.

 

 

BIBLIOGRAFIA:

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