Longitudinal studies have been conducted investigating the stability of inhibited temperament through childhood.
Scarpa, Raine, Venables and Mednick (1995) longitudinally assessed a sample of 1,795 Mauritian children at three time points; three, eight and eleven years of age. At three years of age the child’s behavioral inhibition was assessed in a laboratory setting. Their behavior was rated by a trained researcher and children were classified as; 1) inhibited (n = 726); 2) middle (n = 360); 3) uninhibited (n = 707). At eight and 11 years of age the children’s social behavior was rated by their teachers.
The results demonstrated that, compared to uninhibited children, children who displayed higher levels of inhibition at age three were more inhibited at age eight and again at age 11. Additionally, those who remained inhibited from age three to eight had the highest inhibition scores at age 11.
Suggested article: Behavioral Inhibition and Child Anxiety #1
Importantly, these results are consistent with previous findings in the literature which showed that the inhibited temperamental style is persistent throughout childhood. In addition, this research shows that this persistence occurs in societies other than the United States.
While research has clearly shown that inhibited temperament is persistent throughout childhood, few studies have examined infant temperament through childhood into adolescence. In a longitudinal investigation, Kagan, Snidman, Kahn and Towsley (2007) examined the impact of inhibited temperament in infancy on adolescent development. Infant temperament was assessed in a laboratory setting at four months of age. Adolescents were then assessed using self report measures between the ages of 14 and 17.
The results demonstrated that, compared to adolescents who were uninhibited as infants, adolescents who had been inhibited as infants were more subdued in familiar situations, had a lower mood, and experienced more anxiety about their own futures. Lastly, it was reported that infant temperament at four months of age was as powerful a predictor of behavior at age 15 as the combination of temperament and child fearful behavior at two years of age.
Research has established that infants classified as inhibited continue to exhibit anxious and reserved behavior throughout childhood and into adolescence. As the features of an inhibited temperament mirror the symptoms of social anxiety, the relationship between the two has been examined.
Nuovo trattamento per la Depressione: Transcranial Direct Current Stimulation.
– Rassegna Stampa –
Secondo un gruppo di ricercatori australiani della University of New South Wales (UNSW) e del Black Dog Institute, centro specializzato nello studio e nella cura della depressione e dei disturbi bipolari, stimolare il cervello con una debole corrente elettrica sarebbe un trattamento sicuro ed efficace per la depressione e potrebbe avere altri sorprendenti benefici secondari sul corpo e sulla mente. La Transcranial Direct Current Stimulation (tDCS) è una forma di stimolazione cerebrale non invasiva e consiste nel far passare una debole corrente elettrica depolarizzante nella parte anteriore del cervello con l’uso di elettrodi posti sul cuoio capelluto, durante la procedura i pazienti rimangono svegli e vigili.
Lo studio ha coinvolto 64 pazienti depressi che avevano già avuto due trattamenti per la depressione senza alcun successo; il trattamento prevedeva 20 minuti al giorno di tDCS, effettiva o finta, per un periodo massimo di sei settimane. I risultati indicano che la metà dei partecipanti ha riportato dei miglioramenti sostanziali dopo aver ricevuto il trattamento; inoltre i risultati dopo sei settimane di trattamento erano migliori che dopo tre settimane suggerendo che il trattamento prolungato sia più efficace di quello breve. Secondo il prof. Colleen Loo “questi risultati dimostrano che più sessioni tDCS sono sicure e non hanno conseguenze negative sul piano cognitivo, inoltre il trattamento è semplice da offrire e conveniente dal momento che richiede solo una breve visita in clinica”. I ricercatori stanno già progettando uno studio che includa anche pazienti con disturbo bipolare dell’umore.
Gli Evitanti In questo tipo di coppie la posizione affettiva del genitore si coniuga in maniera simmetrica con un’altra analoga: entrambi i partners di solito hanno un attaccamento di tipo evitante e per questo i bisogni di vicinanza e conforto vengono ignorati, per questo il legame di coppia poggia sull’accordo implicito che venga mantenuta una certa distanza all’interno della relazione. La norma sociale e l’impegno sono i punti saldi della coppia che si fortificano e si consolidano con la nascita dei figli.
Questo tipo di coppia può andare incontro a problemi nelle fasi di svincolo dei figli: l’adolescenza dei figli impone ai genitori un confronto con i propri vissuti e risonanze emotive legate allo stesso periodo del ciclo di vita, che però saranno scarsamente accessibili visto lo stile distanziante dei genitori.
Articolo consigliato: Tipi di coppie #1 - I Simbiotici (o gemelli paradisiaci di Jackson)
In conseguenza di questo le suggestioni vitali e le tempeste emotive dei figli adolescenti verranno vissute come minacciose e provocheranno un irrigidimento difensivo e iperprotettivo sulle posizioni normative acquisite, accentuando il divario generazionale. In realtà i compiti che la coppia deve affrontare in questo periodo sono simili a quelli dei figli in fase di svincolo: la sessualità e la vita sociale sono infatti, sia per gli uni che per gli altri, le aree da esplorare e riscoprire; la coppia deve riscoprire sé stessa in termini di coppia coniugale.
La scarsa consapevolezza della componente di intimità e di sostegno reciproco nei membri della coppia rende difficile utilizzare le risorse emotive per affrontare la crisi.
Una modalità che permette nella prima infanzia di stabilizzare il meccanismo dell’evitamento rispetto all’insicurezza è un aumento della tensione interiore con ripercussioni neurovegetative e l’aumento dell’attività: in questo modo la percezione del disagio viene sistematicamente deviata lungo le innervazioni somatiche; questo tipo di risposta automatica si consolida nel tempo e viene generalizzata a tutte le situazioni in cui è necessario affrontare lo stress di una separazione. L’allontanamento dei figli da casa è in grado di ricreare la stessa atmosfera emotiva di insicurezza già sperimentata nell’ambiente familiare di origine, alla quale l’individuo ha reagito assestandosi sulla posizione emotiva del genitore: il ruolo genitoriale, che si è consolidato trovando il suo complemento nella presenza dei figli, viene ora messo in discussione facendo oscillare pericolosamente l’intera posizione esistenziale dei membri della coppia.
Articolo consigliato: Tipi di coppie #2 - Combattenti Cronici, Ambivalenti e Fratellini.
L’angoscia viene anche in questo caso fatta scorrere lungo i canali somatici, inizialmente con un disagio generalizzato, irrequietezza e irritabilità, successivamente con una sintomatologia più precisa, alla quale l’individuo reagisce cercando di intensificare l’attività come forma di controllo per le sensazioni ingestibili. La personalità evitante può andare incontro in questo periodo a una “sindrome da dispersione dell’identità”, che è appunto una condizione di crisi nella quale non è più possibile utilizzare i propri riferimenti vitali usati fino a quel momento e che sono stati ormai messi in discussione dagli eventi evolutivi. A volte le risorse emotive vengono investite nella costituzione di uno stato conflittuale nella relazione tra i genitori; questo può essere salutare perché permette di evitare il rischio di una regressione collettiva o dell’accentuazione del disagio in uno dei membri della famiglia, che esprime in questi casi la funzione di segnalatore dell’impasse evolutivo generale.
I Figli per sempre
Articolo consigliato: Tipi di coppie #3 - I Complementari.
In questo tipo di coppie il legame prioritario è spostato dalla coppia alla relazione di ciascun partner con le rispettive famiglie di origine; i membri della coppia infatti non hanno superato la posizione affettiva di figli e quindi non riescono a investire liberamente i propri sentimenti nel rapporto di coppia; contemporaneamente i genitori non sono riusciti nel compito di favorire l’emancipazione dei figli dalla famiglia di origine: la coppia quindi acquista un senso solo all’interno della configurazione allargata che include i rispettivi genitori e fratelli.
Lo scambio quindi non avviene tra due individui e i rispettivi mondi interni, ma tra due intere famiglie: la situazione più comune è quella nella quale le due famiglie competono per far prevalere il proprio modo di pensare, su come amministrare gli affetti e organizzare la vita di coppia.
I rapporti tra i suoceri sono scarsi e improntati alla squalifica reciproca. In altri casi una delle due famiglie “adotta” il partner del figlio/a, questo avviene quando il membro della coppia che è stato adottato ha scarsi rapporti con la sua famiglia di origine; anche in questo caso però la posizione affettiva del figlio prevale rispetto all’investimento coniugale. In questi casi possono sorgere dei problemi nel momento in cui il “partner adottivo” rimane deluso dai “suoceri” nelle sue aspettative di trovare la comprensione e l’affetto che non è riuscito ad avere nella sua famiglia di origine, subendo quindi una seconda sconfitta rispetto alle richieste di accudimento e appartenenza. Quando i due partner riescono a darsi a vicenda le consolazioni che inutilmente hanno cercato nelle rispettive famiglie di origine, dimostrando di avere delle risorse, è possibile un investimento del tutto nuovo nella relazione di coppia.
BIBLIOGRAFIA:
Berrini R, Cambiaso G, (2001) “Illusioni di coppia. Sto con te perché posso stare senza di te”, Franco Angeli, Milano
Bambini e senso della giustizia.
Mai sottovalutare le capacità dei bambini, anche se molto piccoli. E’ questa è una lezione che ormai quasi tutti abbiamo imparato. Fino ad oggi però non si annoverava, tra le loro qualità, anche la capacità di distinguere ciò che è giusto da ciò che è ingiusto, di capire quali atteggiamenti siano da apprezzare e quali da disapprovare. Il senso della giustizia.
Alcune ricerche condotte dalla dottoressa Stephanie Sloane, psicologa della University of Illinois, sembrano però dimostrare che già a partire da 19 mesi – ben prima quindi dell’età prescolare (momento in cui si riteneva che i bambini potessero capire questo concetto) – i bambini non solo riconoscono, ma per di più non approvano i comportamenti ingiusti.
Due gli esperimenti fondamentali che hanno portato a questa conclusione.
Articolo consigliato: Ken, il fidanzato perfetto. Ecco perché non lo comprerei mai alle mie figlie.
Nel primo, ad alcuni bambini di 19 mesi, seduti sulle ginocchia di un genitore (che rimane però in silenzio e con gli occhi chiusi per non influenzare in alcun modo il figlio) vengono mostrati due cuccioli di giraffa a cui vengono distribuiti dei giochi, prima in maniera equa, poi tutti ad uno solo e niente all’altro. Si è notato che i bambini osservano per più tempo le giraffe quando i giochi sono distribuiti in maniera diseguale. Questo, per i ricercatori, avviene proprio perché i neonati si rendono conto della differenza e fissano, come attoniti, l’ingiusto comportamento.
Nel secondo esperimento i bambini, stavolta di 21 mesi, osservano due individui a cui viene chiesto di sistemare dei giochi in un cesto.
Sempre studiando le reazioni comportamentali attraverso complesse analisi sulla durata dell’attenzione visiva da parte dei bambini, gli studiosi hanno evidenziato che essi trovano giusto e “naturale” che, se entrambi i soggetti completano il lavoro, siano premiati in egual modo; mentre rimangono come “sbalorditi” nel caso in cui, se uno finisce il lavoretto e l’altro gioca, vengano comunque premiati entrambi.
Secondo i ricercatori ciò dimostra che, in molti bambini, lo sviluppo del senso della giustizia avvenga ben prima di quanto si pensi comunemente. Questo può ovviamente dipendere sia dai comportamenti delle persone con cui il piccolo vive o con cui entra in contatto (e non c’è da stupirsi visto che sappiamo quanto i bambini siano attenti osservatori e quanto imparino da tutto ciò che li circonda), sia da una particolare predisposizione individuale.
Attenzione quindi a quali giocattoli regalate ai vostri figli: con un martelletto, potrebbero finire per giudicarvi colpevoli!
Piccoli atti di violenza quotidiana e alleanza co-genitoriale.
– Rassegna Stampa –
Secondo una ricerca pubblicata nel Journal of Family Issues le coppie in attesa di un figlio in cui i partners sono stati violenti tra loro nel corso della relazione avranno problemi nello stabilire una buona alleanza co-genitoriale. La co-genitorialità è la gestione congiunta dell’accudimento e si riferisce, in senso ampio, alla coordinazione e al sostegno fra adulti responsabili della cura e dell’allevamento dei figli.
I ricercatori del Prevention Research Center for the Promotion of Human Development at Penn State hanno intervistato 156 coppie “in attesa” in tre diversi momenti: durante la gravidanza, a 6 e a 13 mesi dalla nascita del bambino. I dati raccolti sono serviti a determinare il grado di violenza nella coppia e, dopo la nascita del bambino, il livello di alleanza co-genitoriale.
I risultati confermano la correlazione tra violenza di coppia prenatale e debole alleanza co-genitoriale e indicano inoltre che sono le donne, più degli uomini, a compiere atti violenti nei confronti del partner: gli atti violenti, considerati “comuni” e che non hanno niente a che vedere con la violenza domestica caratterizzata dall’abuso e dal controllo, consistono in spintoni, schiaffi e pugni e di solito non hanno lo scopo di controllare il partner, ma si verificano in momenti di forte frustrazione nel bel mezzo di una discussione.
Entrambi i partner però hanno la stessa probabilità di agire all’interno della coppia la violenza “comune”. E ‘importante prestare attenzione alla violenza prenatale all’interno della coppia, perché anche bassi livelli di violenza di coppia possono peggiorare dopo la nascita del bambino a causa dello stress genitoriale caratteristico di questa prima fase della neo-famiglia; inoltre la correlazione tra la violenza di coppia e maltrattamento sui minori è forte. Dal momento che di solito la ricerca sulla violenza ha come oggetto le donne, un merito particolare dello studio è il fatto di avere considerato e indagato comportamenti e atteggiamenti di entrambi i partners della coppia.
Quando ero giovane ho vissuto il periodo bello e terribile del femminismo, bello perché ha cambiato molte vite tra cui la nostra, terribile perché molti costi sono stati pagati per questo cambiamento. Ora è di nuovo l’8 marzo, per noi allora una giornata di non lavoro e di manifestazioni e riunioni e decisioni. Giornata allegra e dura. Si pensava che la forza acquisita delle donne avrebbe abolito o ridotto la violenza o in generale le incomprensioni, ma la strada oggi ci appare difficile.
L’onda lunga del cambiamento femminile ha investito anche gli uomini e non tutti hanno capito o saputo adattarsi a questa maggiore libertà e desiderio di autogestirsi la vita, delle donne. Abbiamo generato negli uomini sentimenti di paura, desiderio di controllo, rabbia, e forse a volte anche invidia. Li abbiamo fatti sentire meno essenziali, meno in dovere di proteggerci? Ma questo non può impedire alle donne di esplorare autonomamente e sentirsi libere di scegliere la propria vita.
Primo problema: Gli uomini.
Articolo consigliato: E ora dove andiamo? Il conflitto libanese e la folle impulsività dei maschi.Questo otto marzo vorrei parlare del problema degli uomini che uccidono le donne. O che le feriscono, le minacciano. Degli uomini violenti. Più violenti di quanto erano prima? Più violenti perché le donne sono più libere? O semplicemente violenti come sono sempre stati, appoggiando la violenza alla forza fisica? La violenza può derivare dalla certezza del proprio dominio, nel patriarcato, o dalla minaccia a questo dominio, dalla sensazione che le cose cambino e che il proprio ruolo dominante non sia poi così scontato.
Tutti sappiamo che non tutti gli uomini sono violenti. E’ più facile che lo siano gli uomini che crescono in famiglie violente, o se assistono a violenza del padre verso la propria madre, o se si sentono particolarmente minacciati o in difficoltà anche in altre aree, come il lavoro. O se non avevano previsto la forza o l’indipendenza della propria compagna. O se vengono lasciati, magari per un altro.
Esistono segnali che ci possono mettere in guardia? Esistono, e qui vorremmo elencarne alcuni. Pensiamo che sia importante imparare a decodificare i segnali che indicano una propensione a comportarsi in modo violento sapendo che qualcuno scapperà sempre tra le maglie della prudenza e della osservazione preventiva.
I segnali di rigidità: La rigidità del modo di pensare, la difficoltà a cambiare idea e a tenere in conto delle opinioni altrui.
I segnali di paranoia: la diffidenza verso gli altri, la rigidità, la tendenza a sentirsi sempre minacciati, in difficoltà, traditi dagli altri.
I segnali di aggressività e violenza: la tendenza a rispondere in modo aggressivo o impulsivo se contraddetti. (“ma lui spacca solo il telefono cellulare, non se la prende con me!”).
La povertà mentale: la persona che si ha vicina non ha nessun altro, non sa stare vicino a nessuno e potrebbe non essere in grado di ricostruirsi una vita.
Una storia di maltrattamenti a donne. Che viene spiegata come: l’altra era matta, cattiva, non è vero che la picchiavo, è una diceria.
Secondo problema: Le donne.
Articolo consigliato: Violenza sulle donne e dinamiche di vittimizzazione
Che fare? Si può denunciare, ma occorre che le denunce si facciano, e non è facile. (un misero 10% dei casi di violenza viene denunciato) e occorre che la società le forze dell’ordine e il sistema giudiziario sappiano rispondere in modo rapido e decisivo. Molte delle donne morte negli ultimi anni erano state minacciate e avevano denunciato e non si sono salvate. I centri antiviolenza esistono in molte regioni italiane, spesso sono malfinanziati dal pubblico e quasi sempre si sostengono con il volontariato. Un centro antiviolenza che abbia anche posti letto e assistenza 24 ore su 24 è un ausilio vero e concreto alle donne in emergenza che possono trovare un posto dove rifugiarsi. Spesso le donne non denunciano perché non sanno dove andare.
Articolo consigliato: Le donne, l'ansia e la bicicletta. (Lettera alla donna milanese che va in bicicletta)
Cosa vuol dire prudenza? (che ovviamente non servirà sempre ma forse eviterà qualche vittima, qualche stupro, qualche aggressione). La prudenza ha molte facce. Una faccia è diventare più capaci di difendersi se attaccate. Si possono fare corsi di autodifesa, pugilato, e altre arti marziali. Questo non è un punto trascurabile perché un’idea di maggiore competenza fisica cambia anche la propria autostima e la visione di sé. Occorre non dimenticare mai la disparità muscolare che c’è tra maschi e femmine!
Ma prudenza è anche un’attitudine mentale a prevedere i rischi: non andare a un ultimo chiarimento in un bosco da sole, non trascurare i segnali di gelosia, non trovarsi da sole per dirgli che lo lasciamo.
Comprendere che la risposta politica e sociale non basta da sola, ma che occorre la disciplina interiore di essere in grado di difendersi prevedendo le situazioni difficili, esercitando la propria conoscenza di chi abbiamo vicino, e il coraggio di vedersi in pericolo. La patologica assenza di paranoia di molte donne le mette, rischia di metterle, in situazioni rischiose.
Sapere chiedere aiuto senza sentirci deboli. Ma sentendoci nel giusto.
L’invito a esercitare prudenza non è un tentativo di spostare la responsabilità della prevenzione della violenza sulle vittime e siamo pienamente consapevoli del fatto che nessuna prudenza potrà mai salvare tutte le donne vittime di violenza. Ma è un invito forte a mantenersi salde e vigili. Si spera che questo atteggiamento divenga nel tempo sempre meno necessario.
Quarto problema: Gli uomini civili.
Occorre allearsi con la parte civile degli uomini che incontriamo. Gli uomini in movimento, gli uomini che stanno cambiando idea e che rifondano il futuro per se stessi, per le loro donne e per la società in cui vivono: Tra l’altro una società in cui siano migliori le relazioni interpersonali uomo-donna è una società che funziona meglio in generale e molto meglio economicamente. Troppi vantaggi per rinunciarci.
E cito per concludere: dal blog “Il corpo delle donne”, un uomo parla agli altri uomini:
“la violenza e il femminicidio sono un mio problema, e rivelano l’incapacità della sessualità maschile di liberarsi dalla tentazione del dominio.”
Questo 8 marzo festeggiamolo non solo come un gioco e non solo al ristorante con le amiche. Ricordiamoci della paura e della prudenza.
Così afferma Steven Hayes, psicoterapeuta contemporaneo americano e promotore della necessità di accettare che la normalità dell’esistenza umana è costituita anche di sofferenza (Hayes et al., 1999).
Molte persone cercano diprevenire ed eliminare la sofferenza attraverso diverse forme di controllo, talvolta applicate in modo rigido e assoluto.
L’obiettivo è quello di annullare ogni forma, o anche solo rischio, di sofferenza e raggiungere una condizione di assoluta sicurezza. Tale scopo si infrange innanzi a due realtà dell’esistenza umana:
(1) Niente può assicurare che l’uomo non soffrirà.
(2) La certezza assoluta è un mito irraggiungibile.
Articolo consigliato: Fusione Pensiero Azione
Per questa frustrante verità la tendenza a un controllo assoluto può essere un tentativo di cura deleterio e può sostenere diverse forme di sofferenza mentale (Sassaroli & Ruggiero, 2008). In tutte le sue forme (la ricerca di rassicurazioni, il rimuginio, la continua imposizione di governo sulle azioni altrui, la repressione dell’espressione delle emozioni ecc…) il controllo è una carta fallimentare da giocare. Per quanto possa offrire un apparente sicurezza, alla lunga incastra in una serie di obblighi e fatiche estremamente stressanti.
Innanzitutto non si possono evitare gli imprevisti (per definizione) e quindi le persone si trovano a consumare energie per avere in mano solo un illusione.
In seconda battuta, quella stessa illusione ha vita breve. Come posso verificare se il mio controllo è assoluto? Solo verificando ogni dubbio e quindi andando a riesumare proprio ciò che per prima cosa volevo eliminare: lo stato di minima incertezza. Il controllo che nasce per cancellare dubbi (sul valore personale oppure sull’occorrenza di eventi negativi dolorosi), trasforma l’individuo in un cacciatore di dubbi. In terzo luogo, tutte le strategie di controllo consumano energie. La quotidianità diviene la ruota di un criceto fatta di dubbio-ansia-controllo-leggero sollievo-dubbio su cui le persone continuano a muoversi senza vedere quante altre attività piacevoli dell’esistenza vengono sacrificate. Infine, noi che vediamo la ruota da fuori, sappiamo che anche abbandonando il controllo, gli esiti tanto temuti (e il dolore che li accompagna) non si verificano o non sono così terribili come vengono immaginati. Tuttavia non sempre si è disposti a sperimentarlo (Sassaroli et al., 2007).
Molto spesso la psicoterapia per trattare i disturbi d’ansia (ma non solo) è un percorso di graduale abbandono del controllo e di accettazione dell’incertezza.
BIBLIOGRAFIA:
Hayes, Strosahl & Wilson (1999). Acceptance and Commitment Therapy: An experiential approach to behaviour change. New York: Guildford Press
Sassaroli & Ruggiero (2008). International Journal of Child and Adolescent Health, 2, 229-242
Psicoterapia cognitiva: le Dipendenze Patologiche e il lato oscuro del Desiderio
Continuano gli studi del gruppo ricerca di Studi Cognitivi e della London South Bank University su nuovi modelli di psicoterapia cognitiva delle dipendenze patologiche. Nel 2011 gli studi si sono concentrati principalmente sul ruolo del pensiero desiderante nella genesi e nel mantenimento dell’esperienza di craving e dei comportamenti di abuso di alcool e di altre dipendenze patologiche.
Il pensiero desideranteè uno stile di elaborazione delle informazioni riguardanti oggetti e attività piacevoli che avviene a due livelli interagenti: (Caselli & Spada 2010)
Verbal Perseveration: pensieri ripetitivi e automotivanti circa il bisogno di ottenere l’oggetto o di svolgere l’attività (es: devo farlo al più presto, ho bisogno di un bicchiere, devo provare a usare quella macchinetta)
Imaginal Prefiguration: immagini mentali multisensoriali dell’oggetto o attività desiderata e del contesto in cui l’individuo lo può realizzare o lo ha realizzato in passato (es: immagino il sapore del fumo nella bocca, mi immagino tutto ciò che ho dentro al frigorifero).
Articolo consigliato: Gioco d’Azzardo Patologico, la dipendenza invisibile.
Gli studi recenti hanno mostrato come questo stile di pensiero possa essere governato da alcuni scopi centrali: (1) ricercare uno stato di energia e di motivazione ad agire, (2) evitare di occupare la mente con pensieri negativi o preoccupazioni.
Tuttavia, da un punto di vista evolutivo, il pensiero desiderante nasce come strategia per pianificare il raggiungimento di obiettivi personali (es: pianificando le strategie da attuare) e per ritardare la gratificazione laddove l’obiettivo non possa essere raggiunto immediatamente. L’immaginazione infatti genera una sorta di gratificazione virtuale molto simile in termini fisiologici a quella ottenuta dal reale raggiungimento dell’oggetto desiderato. Tuttavia se non vi succede un diretto passaggio all’azione finalizzato al suo raggiungimento, l’individuo può restare bloccato in una condizione di desiderio insoddisfatto, dove l’attenzione continua a pendere dal pensiero desiderante al senso di deprivazione.
Con il passare dei minuti l’effetto del pensiero desiderante tende ad assuefarsi e rimane invece importante nella coscienza individuale la percezione della deprivazione poiché l’oggetto o l’attività desiderati sono continuamente pensati ma non raggiunti. In sintesi l’individuo che cognitivamente “desidera” gode di benefici motivanti e di distrazione nel breve periodo ma se non agisce la pianificazione mentale resta bloccato in una condizione di desiderio crescente che da un punto di vista tecnico viene definito “craving”.
Ricordiamo che il pensiero desiderante non è disfunzionale di per sé ma a seconda dell’utilizzo che se ne fa. È facile intuire come le conseguenze deleterie del pensiero desiderante vengano poi amplificate qualora emerga un conflitto tra scopi (es: desiderare di visitare dei siti pornografici mi aiuta a provare piacere e a staccare la mente ma non voglio farlo perché lo ritengo un comportamento sbagliato). In queste condizioni quello che l’individuo si induce è esattamente una condizione di blocco nello stato del desiderio e del craving di cui sopra.
Leggi gli articoli che trattano dell’argomento: Pensiero Desiderante.
Attualmente già diversi studi sostengono queste ipotesi teoriche (Kavanagh et al., 2005; Caselli & Spada, 2011) per quanto il campo di ricerca si trovi nel suo stadio preliminare. Tuttavia i risultati delle ricerche recenti mostrano come il pensiero desiderante possa discriminare in modo significativo e per certi aspetti superiore ad altre variabili psicopatologiche il livello di dipendenza patologica in diversi disturbi come dipendenza da alcool, dipendenza da nicotina e gioco d’azzardo patologico (Caselli, Ferla, Mezzaluna, Rovetto & Spada, 2012; Caselli, Nikcevic, Fiore, Mezzaluna & Spada, 2012). Da qui la necessità di focalizzare tecniche di psicoterapia cognitiva che si occupino dei processi cognitivi coinvolti nell’esperienza del desiderio.
Quindi attenzione al modo in cui usiamo la nostra capacità di desiderare qualcosa.
Caselli, G., Ferla, M., Mezzaluna, C., Rovetto, F. & Spada, M. M. (2012). Desire thinking across the continuum of drinking behavior. European Addiction Research, 18, 64-69 (http://content.karger.com/produktedb/produkte.asp?DOI=000333601&typ=pdf)
Caselli, G., Nikčević, A., Fiore, F., Mezzaluna, C. & Spada, M. M. (2012). Desire thinking accross the continuum of nicotine dependence, Addiction Research and Theory. Published online at 12th January 2012 (http://informahealthcare.com/doi/abs/10.3109/16066359.2011.644842)
L’avrete vista tutti la pubblicità di Ken TVB, specialmente se avete figli che monopolizzano la televisione in orari da cartoni animati. Ricordo ancora la mia prima volta e il mio primo pensiero: come vorrei che anche mio marito avesse un pulsante che gli fa dire ciò che voglio, anche se preferirei di gran lunga uno che gli facesse fare ciò che voglio. Ma ahimè quando mi sono sposata ho accettato di condividere la mia esistenza con un individuo che osa avere stati mentali indipendenti dai miei, che spesso lo conducono perfino a comportamenti che non condivido. Ma forse le mie figlie si salveranno da questo nefasto destino, forse avranno la fortuna di Barbie che ha un fidanzato che ripete esattamente ciò che vuole e io diventerò l’adorabile suocera di un bellissimo zerbino lobotomizzato.
Articolo consigliato: La Trama del Matrimonio, di Jeffrey Eugenides. Recensione
Scherzi a parte, non è mia attitudine di madre prendere troppo sul serio i giochi che si trovano sul mercato, ho sempre concesso tutto perchè non ho voluto frenare la fantasia delle mie bambine e perchè nel gioco c’è spazio per sperimentare qualsiasi cosa: va bene essere principesse con tanto di scarpine col tacco, va bene anche essere pirati con la pistola, ma il Ken TVB non lo compro! In realtà nemmeno me lo hanno chiesto dal momento che hanno un’età in cui non hanno ancora compreso il valore aggiunto della presenza di un uomo accanto a Barbie, ma se me lo chiedessero sarei decisa nell’imporre loro un secco NO e se volessero delle spiegazioni io sono già pronta per fornirle, con parole semplici, più o meno come quelle che seguono.
Registrare messaggi d’amore e farli ripetere al fidanzato “perfetto” con la sua voce significa innanzitutto non riconoscere all’altro un’esistenza mentale indipendente dalla nostra, tanto da poter proiettare i nostri contenuti mentali all’interno della mente altrui che, senza nessuna possibilità di rielaborazione ce li risputa esattamente così come glieli abbiamo inculcati.
Non sto dicendo che la mente dei nostri compagni non possa essere permeabile al nostro desiderio di essere venerate, ma lo può fare solo con il contributo delle proprie credenze e in considerazione dei propri scopi. E allora sarebbe stato più verosimile se su invito della bambina a ripetere “sei bellissima” Ken avesse ripetuto “hai un bel culo” ma a quanto pare il fidanzato perfetto non può permettersi uscite dal campo mentale dell’amata.
Ecco perchè non vorrei che le mie figlie giocassero con un bambacciano come questo, perchè vorrei imparassero a riconoscere e rispettare l’indipendenza mentale dell’altro. Una mente che può essere indagata ma la cui opacità va accettata, anzi accolta come uno degli elementi più affascinanti dell’incontro con un altro individuo.
Vincere…scatena l’aggressività
– Rassegna Stampa –
Un gruppo di ricercatori della Ohio State University ha condotto il primo studio sperimentale a sostegno della tesi che uscire vincenti da una competizione renda aggressivi nei confronti dell’avversario che ha perso.
Nel primo esperimento a un gruppo di studenti del liceo veniva chiesto di svolgere individualmente due compiti di riconoscimento durante i quali sarebbero stati in competizione con un altro studente. La competizione era in realtà solo simulata, informando costantemente ciascuno studente della sua migliore o minore performance rispetto al compagno. Il gruppo veniva quindi arbitrariamente diviso dai ricercatori in vincenti e perdenti. Nella fase successiva veniva misurata l’aggressività verso l’avversario: a ciascuno studente veniva chiesto di gareggiare in velocità contro lo stesso compagno della prova precedente, il compito consisteva nel premere un pulsante e chi avesse registrato una peggior performance avrebbe ascoltato un suono rumoroso attraverso delle cuffie. Il vincitore della competizione precedente poteva stabilire l’intensità e la durata del rumore ascoltato con le cuffie dal compagno perdente. I risultati, pubblicati sulla rivista Social Psychological and Personality Science, indicano chiaramente che i vincitori della prima prova infieriscono sui loro avversari perdenti con suoni più rumorosi e prolungati di quanto non facciano questi ultimi.
Ma è chi vince a diventare più aggressivo verso l’avversario o è chi perde a essere meno aggressivo della media? I ricercatori hanno risposto a questa domanda costruendo una terza prova sperimentale in cui, ai due gruppi dei perdenti e dei vincenti, veniva aggiunto un gruppo di controllo che per un errore del computer, così gli veniva detto, non veniva a conoscenza dei risultati della performance durante l’esecuzione del compito. Anche in questo caso seguiva una seconda prova per testare il livello di aggressività di ciascun partecipante. I risultati dell’esperimento precedente vengono replicati, inoltre è stato possibile osservare come il livello di aggressività degli studenti perdenti fosse paragonabile a quello del gruppo di controllo e quindi per nulla inferiore alla media, confermando che è la posizione di vincente a rendere particolarmente aggressivi. Insomma dopo avere perso meglio darsi alla fuga!
Specchio Specchio delle mie brame, sei tu il peggior nemico del mio Reame?
Sulle derive pericolose della Dismorfofobia.
A quanti è capitato guardandosi allo specchio di puntare sempre alla fronte un po’ troppo spaziosa, a quei capelli che sono troppo sottili, oppure semplicemente sono troppi o troppo pochi, a quel naso a patata, alle celeberrime colutte de chevals, incubo di tante donne, alla pancetta un po’ sporgente e a chi più ne ha più ne metta? In tanti condividono queste “fisse” su parti del corpo che proprio non vanno giù…un “callo” al quale taluni han fatto l’abitudine e hanno anche imparato a conviverci, mentre per altri una vera e propria spada di Damocle che ogni giorno si fa sempre più incombente. Il cruccio verso una o più parti del corpo a noi poco gradite è assai diffuso, tuttavia in alcuni casi il disagio è talmente significativo che parlare di semplice preoccupazione è assai riduttivo.
Articolo consigliato: Lo Specchio Riflessivo (Psicoterapia e Video Feedback)
Quando si parla di dismorfismo corporeo (o dismorfofobia) si fa riferimento a quei casi in cui una persona si preoccupa e si vergogna di una parte del corpo anche se questa rientra nei “canoni della normalità”. La sua attenzione è focalizzata sul difetto, tanto che questo può diventare una vera e propria ossessione, un pensiero dominante che può accompagnare la persona per tutta la giornata. Le stime relative alla diffusione di questo disturbo sono ancora da accertarsi, tuttavia pare che in Italia più di 500.000 persone soffrano di dismorfismo corporeo, in una bassissima percentuale viene fatta una diagnosi adeguata e una percentuale ancora inferiore segue un trattamento adatto.
Articolo consigliato: "Alpbach e Bologna: due congressi non anglofoni sui disturbi alimentari"
Frequente nel sesso femminile quanto in quello maschile l’esordio si ha nell’età adolescenziale, tuttavia i primi sintomi possono menifestarsi molto più in là nel tempo, questo andamento graduale è legato anche alla difficoltà di parlare di queste “fissazioni” che si fanno ogni giorno sempre più pressanti e opprimenti. Molto spesso, quando si decide di confidarsi con l’altro e parlare delle proprie preoccupazioni, queste vengono sminuite perché i difetti e le deformità, dall’esterno, non sono viste come tali, ciò rende doppiamente difficile comprendere il disagio legato a questi pensieri ripetuti e intrusivi. Guardandosi allo specchio la propria attenzione è attirata per lo più da quelle imperferzioni relative al volto che vanno dai capelli radi, all’acne più o meno accentuato, alle rughe, alle cicatrici più o meno evidenti, ma non solo, anche il colorito della carnagione rappresenta un possibile problema così come la peluria presente sul viso. Dimensione e forma di naso, occhi, sopracciglia, orecchie, labbra, mento e testa ma anche di fondoschiena e addome e di altre parti del corpo più nascoste come i genitali e il seno sono fonte di preoccupazione.
L’immagine riflesssa allo specchio altro non è che una visione distorta del proprio aspetto fisico, visione guidata da una ossessiva preoccupazione della propria esteriorità. È ripetuto ormai in ogni dove l’importanza che la bellezza riveste nella nostra società, immagini di avvenenti corpi che circondano la nostra vita quotidiana non aiutano di certo ad affrontare serenamente la tanto amata superficie riflettente. Ciò che va sottolineato è che di fronte allo specchio, colui che soffre di dismorfofobia, non ha scampo, non c’è possibilità di paragone con nessun modello di beltà, perché la bellezza non è propria di quel riflesso, lo sono solo e soltanto i difetti giorno dopo giorno. E così ci si appresta ad andare a scuola, al lavoro, a far la spesa ad uscire con gli amici, sempre in compagnia dell’immagine di un “orrendo mostro ” fino a quando questa non si fa talmente pressante e orrifica da impedire di fare tutto ciò. La vergogna provata può esser talmente intensa da portare all’evitamento di qualsivoglia situazione sociale, si possono sviluppare delle vere e proprie compulsioni che hanno lo scopo di monitorare il difetto “24 ore su 24”, talvolta la cura del proprio aspetto fisico, l’utilizzo di creme, la depilazione, il pettinarsi, l’eliminazione di brufoli e punti neri, può occupare buona parte della giornata tanto da risultare invalidante.
Articolo consigliato: La gelosia: patologia o amore vero?
Va ricordato inoltre che insieme all’irascibilità e alla richiesta di continue conferme e rassicurazioni sul proprio aspetto, può comparire anche un forte stato depressivo dal quale, nei casi più gravi non vengono escluse le idee suicidarie. Pertanto dietro ad ossessioni, che possono ricordare le preoccupazioni che ognuno di noi ha nei confronti del proprio aspetto fisico, si nasconde un mondo di idee invasive costanti e persistenti, fonte di grande sofferenza, e dato l’elevato rischio che il disturbo diventi cronico và da sé l’importanza di riconoscerle ed affrontarle adeguatamente. Pensare al tempo, al tempo usato per fomentare le proprie preoccupazioni, tempo sprecato davanti ad uno specchio ad ispezionare una realtà che reale non è, tempo sprecato a coprire uno specchio perché “lui è il peggior nemico”, tempo buttato via, perso e mai più ritrovato. Ne è valsa la pena? Se siete pronti, ve lo chiederete.
BIBLIOGRAFIA:
American Psychiatric Association. Diagnostic and Statisticai Manual of Mental Disorders. 4th ed. Washington, DC: American Psychiatric Association, 1995.
Disturbo di dismorfismo corporeo o Dismorfofobia
La Dismorfofobia identifica una condizione in cui una persona mostra preoccupazione per un difetto fisico che può essere presunto o reale, in quest’ultimo caso l’importanza data al difetto è di gran lunga eccessiva. Le lamentele possono riguardare qualsiasi parte del corpo, le più frequenti sono:
pelle
peli e capelli
naso e occhi
gambe e ginocchia
mammelle e capezzoli
pancia, labbra, struttura corporea e volto
organi genitali, guance, denti ed orecchie
mani, dita, braccia e gomiti
natiche e piedi
spalle, collo e sopracciglia
La persona può preoccuparsi di un unico difetto fisico o riportare preoccupazione per più parti del corpo contemporaneamente. L’esordio può avvenire fra i 10 e i 20 anni, è solitamente graduale e può diventare cronico se non trattato. Lo stato di disagio provato può essere profondo ed intenso, associato a grandi difficoltà nel controllare le preoccupazioni per il difetto, tanto che i pensieri relativi possono occupare gran parte della giornata. In questa condizione di forte disagio spesso il funzionamento sociale della persona risulta compromesso in tutte o quasi le sfere della sua vita.
BIBLIOGRAFIA:
American Psychiatric Assaciation. Diagnostic and Statisticai Manual of Mental Disorders. 4th ed. Washington, DC: American Psychiatric Association, 1995.
Le Metafore Psicologiche nei Cantautori Italiani
Tu prova ad avere un mondo nel cuore e non riesci a esprimerlo con le parole. Fabrizio de Andrè, Un matto, 1971
Il cantautore è colui che scrive canzoni e le canta. La parola contiene il termine autore, che deriva dal verbo latino augeo, che significa accrescere, aumentare. L’autore infatti, con la propria opera accresce la realtà. L’Italia vanta una ricca e importante tradizione cantautorale, nata tra gli anni sessanta e settanta e che ancora oggi continua. Sui testi dei cantautori si potrebbero scrivere trattati interi (alcuni ne sono stati scritti), ma qui vorrei concentrarmi sulle metafore che caratterizzano le canzoni d’autore, come del resto le sedute di psicoterapia.
L’uso delle metafore in letteratura si riferisce alla fusione di due o più immagini o idee allo scopo di creare una nuova esperienza, un nuovo ordine e significato. La metafora è una trasposizione simbolica di immagini, che consiste nell’utilizzo di un’immagine che ne rappresenta un’altra.
Articolo consiglato: Musica & Terapia: "La prossima volta porti la chitarra".
In ambito psicologico Gregory Bateson (1972) sottolineava come l’individuo sano di mente, si distinguesse dall’individuo psicotico, per la capacità di ragionare per metafore e di pensare in termini di “come se”. Secondo la teoria della metafora concettuale, la metafora non è solo un elemento di estetica del linguaggio, ma è un modo di organizzare il nostro mondo (Lakoff e Johnson, 2004), un modo di portare “a terra” concetti astratti emozioni, desideri, pensieri.
La metafora, utilizzata dal paziente o dal terapeuta, è considerata di grande importanza in ambito psicoterapico e viene studiata nell’analisi dei trascritti delle sedute di diverso orientamento. L’uso delle metafore rappresenta ad esempio uno degli elementi fondamentali del cosiddetto “modello conversazionale” della psicoterapia interpersonale psicodinamica (Hobson, 1985).
Articolo consigliato: La saggezza del Rock' n' roll. (Il mio psicoterapeuta suona il Rock #2)
Questo modello considera la metafora come una strada che guida verso la rappresentazione del mondo interno, verso la dimensione emotiva. Hobson in Forms of feeling sottolinea come sia importante in terapia “stare con” l’esperienza immediata, pronti a ricevere le immagini che emergono, in una modalità che l’autore definisce “attitudine simbolica”. La metafora è comunemente usata dai terapeuti per fornire vitalità ad un’idea, per amplificare la comprensione di un’esperienza o di un concetto, e per approfondire il livello di scambio emotivo tra il paziente e il terapeuta. Ogni volta sia possibile, il terapeuta dovrebbe cogliere le metafore importanti utilizzate dal paziente ed aiutare l’esplorazione e l’amplificazione dello stato d’animo correlato.
Utilizzano molte metafore soprattutto i cantautori più visionari come Francesco De Gregori, che si è ispirato soprattutto all’inizio al maestro americano Bob Dylan, o come Vinicio Capossela. Alcune metafore contenute nelle canzoni possono trovare uno spazio e un senso nel lavoro psicoterapico. Vediamone alcune.
“Nino non aver paura di sbagliare un calcio di rigore, non è mica da questi particolari che si giudica un giocatore, un giocatore lo vedi dal coraggio, dall’altruismo e dalla fantasia”
Ritornello indimenticabile de La leva calcistica della classe 1968 (1980) di Francesco De Gregari (come dicevo prima grande utilizzatore di metafore, anche più oscure di questa), che rappresenta la vita e le sue sfide con una metafora calcistica.
Articolo consigliato: Il mio Psicoterapeuta suona il Rock!
E’ inutile sottolineare quanto il calcio accenda la passione di milioni di italiani e possa rappresentare talvolta anche un argomento che entra nel setting psicoterapico per favorire la comunicazione, soprattutto con pazienti dall’affettività coartata. In questa metafora c’è una risposta a quell’attitudine di autorimprovero e di autocolpevolizzazione di fronte all’errore che caratterizza le persone che presentano schemi conoscitivi basati sul dovere-valore (Cionini, 1991). Quando prevale questo schema si costruisce il proprio sé come persona di valore solo nella misura in cui vengano raggiunti alti standard di prestazione. La metafora è un invito a non sentirsi amabili solo quando si dimostra di valore ottenendo un risultato (segnare il rigore), ma anche quando si gioca “bene”, con coraggio, fantasia e altruismo. Rimanendo in ambito calcistico è opportuno citare la canzone-metafora di Luciano Ligabue Una vita da mediano, una sorta di elogio del gregario, non dotato dei talenti del fuoriclasse, ma che con costanza e abnegazione resta “…lì sempre lì, lì nel mezzo…” fin che ce la fa. Anche il setting psicoterapico può essere rappresentato come un campo di allenamento per affrontare la vita, dove il gregario e l’allenatore lavorano duro con l’obiettivo della guarigione, che è un po’come vincere i Mondiali.
“Ho licenziato Dio, gettato via un amore, per costruirmi il vuoto nell’anima e nel cuore”
Articolo consigliato: La Psicantria: manuale di psicopatologia cantata.
E’ l’incipit perfetto del Cantico dei drogati (1968) di Fabrizio de Andrè che introduce il tema del vuoto, che ricordiamo è incluso tra i criteri diagnostici del DSM-IV per il disturbo di personalità borderline (“sentimenti cronici di vuoto”). Faber mette in luce come il tossicodipendente elimini dalla propria vita i valori e gli affetti per creare un vuoto in grado di essere colmato da un’unica cosa: la sostanza. Nella pratica clinica con i cosiddetti pazienti “doppia diagnosi”, affetti da un disturbo psichiatrico e dall’abuso o dipendenza da sostanze è frequentissimo imbattersi in soggetti che soddisfino i criteri per il disturbo di personalità borderline, per i quali la sostanza può rappresentare il riempitivo del vuoto, in quella che è stata definita una sorta di autocura (Khantzian EJ, 1985). Successivamente nel testo Faber accenna al problema dei limiti, affrontato ampliamente nella terapia dialettico comportamentale per i pazienti borderline da Marsha Linhean (1993), usando altre preziose metafore “Mi citeran di monito, a chi crede sia bello, giocherellare a palla, con il proprio cervello. Cercando di lanciarlo oltre il confine stabilito, che qualcuno ha tracciato ai bordi dell’infinito”.
“Ma misi me per l’alto mare aperto, oltre il recinto della ragione, oltre le colonne che reggono il cielo…”
Articolo consigliato: Musica e Didattica Metacognitiva.
Recita la canzone Nostos (2011) di Vinicio Capossela, che parla del viaggio di Ulisse. L’avventura di Odisseo “oltre il recinto della ragione” può rappresentare metaforicamente anche un viaggio interno nel mare sconosciuto della propria mente e della propria immaginazione, ovvero un viaggio alla scoperta di sé. Ulisse era un viaggiatore solitario, mentre nella psicoterapia il viaggio si fa in due. Restando sempre in acqua possiamo ricordare la canzone La linea d’ombra (1997) di Jovanotti che dice “Mi offrono un incarico di responsabilità, portare questa nave verso una rotta che nessuno sa”. La canzone è ispirata all’omonimo romanzo di Joseph Conrad che tratta il tema del passaggio dall’adolescenza all’età adulta.
“Stringimi forte, che nessuna notte è infinita”
Frase contenuta nel brano I migliori anni della nostra vita (1995) ci suggerisce come anche i dolori più intensi possono passare con il tempo e trasmettere quella speranza di cui c’è sempre bisogno quando si parla di sofferenza mentale.
“Mi sveglio e piove col sole”
Canta Massimo Bubola nella canzone Piove col sole (2002) descrivendo uno stato d’animo misto, in cui coesistono elementi contrapposti che caratterizzano l’ambivalenza, che possiamo trovare ad esempio come “vincolo ambivalente” nell’organizzazione ossessiva di personalità dove il comportamento genitoriale è sorretto da due esplicazioni antagonistiche (Cionini, 1991).
BIBLIOGRAFIA:
Linhean M. Trattamento cognitivo comportamentale del disturbo borderline. Il modello dialettico. Raffaello Cortina, 1993.
Hobson, R.F. (1985). Forms of feeling: the heart of psychotherapy. London: Tavistock Publications
Lakhoff G., Johnson M. Metafora e vita quotidiana, Bompiani, 2004
Brewer, M. B., (1991). The social self: On being the same and different at the same time. Personality and Social Psychology Bulletin, 17, 475-482.
Bateson G. Verso un’ecologia della mente. Adelphi, 1977
Cionini L. Psicoterapia cognitiva. La Nuova Italia Scientifica, 1991
Khantzian EJ. The self-medication hypothesis of addictive disorders: focus on heroine and cocaine dependence, American Journal of Psychiatry,142, 1985.
L’importanza del pointing per i bambini in età prescolare.
– Rassegna Stampa –
Alcuni gesti sono utilizzati per comunicare su un piano cooperativo e rivestono un significato particolarmente importante nei contesti di insegnamento e apprendimento in cui i bambini si aspettano che gli adulti siano ben informati e pronti a condividere ciò che sanno con loro. Il pointing, cioè l’indicare con il dito qualcosa invitando l’interlocutore a condividere l’attenzione, sembra essere un gesto particolarmente significativo per i bambini in età scolare.
Carolyn Palmquist e Vikram K. Jaswal della University of Virginia hanno scoperto che è possibile indurre in errore bambini in età prescolare semplicemente usando il gesto di indicare: l’esperimento effettuato consisteva nel mostrare ai bambini un filmato con due donne, tre tazze e una pallina; una delle due donne nascondeva la pallina dentro una tazza mentre l’altra si copriva il viso per non vedere; i bambini invece potevano vedere che la donna nascondeva la pallina, ma non in quale tazza. Seguivano tre diversi epiloghi: le due donne rimangono sedute con le mani in grembo, oppure entrambe prendono una tazza in mano o entrambe indicano una tazza. Ai bambini veniva quindi chiesto quale donna sapesse dove si trovava la pallina. Quando le due donne prendono una tazza o stanno con le mani in grembo i bambini hanno hanno dato la risposta corretta tre volte su quattro, mentre quando le due donne fanno il gesto di indicare i bambini rispondono correttamente la metà delle volte, indicando statisticamente che viene effettuata una scelta casuale.
Questi risultati indicano che il gesto di indicare è per i bambini così significativo da indurli a considerare l’informazione così ottenuta più importante di quella già in loro possesso, anche quando questa li induce in errore.
I danni fisiologici del narcisismo: colpisce solo gli uomini?
Ancora una volta si parla di narcisismo, tratto di personalità caratterizzato da grandiosità, da un tronfio senso di auto-importanza, e sovrastima di unicità. Le persone affette da questo disturbo di personalità sono costantemente alla ricerca di stimoli, provenienti dall’ambiente esterno, che possano tenere alto il proprio senso di sé.
Non sorprende, quindi, che il narcisismo sia associato ad una serie di problemi interpersonali. Il narcisista induce nell’altro una prima impressione positiva che, nel lungo periodo, cede il posto a sensazioni negative. D’altro canto nelle relazioni romantiche, queste persone tendono ad accerchiarsi di partners che possano tenere alta la propria autostima, affannandosi eccessivamente per soddisfare ogni loro ordine. Di conseguenza, risultano spesso poco empatici, estremamente criticisti, ostili e tendenzialmente aggressivi verso coloro che fungono da ostacolo al loro affermarsi.
Articolo consigliato: Narcisismo e Leadership: gli svantaggi delle apparenze.
Nonostante questi aspetti negativi interpersonali, esistono anche notevoli aspetti positivi. Ad esempio, i narcisisti che mostrano alti livelli di autostima hanno bassi livelli di depressione, ansia e solitudine. Essi tendono, inoltre, a segnalare più felicità e benessere soggettivo rispetto a coloro che sono meno narcisi. Malgrado questa coltre di ferro apparente, i narcisiti sono molto fragili e possiedono un elevato senso di inferiorità e di inutilità. Per far fronte a questi sentimenti di inferiorità, i narcisisti utilizzano strategie di difesa nei confronti di coloro che fungono da minaccia, reale o presunta, alla autostima. Questo costante combattere con provocazioni esterne, porta queste persone a mettere in atto delle strategie di coping difensive e repressive, che portano ad una maggiore reattività cardiovascolare, ad elevato stress, pressione sanguigna più alta, e peggiori esiti a malattie cardiovascolari, di cui, i narcisisti, non sono affatto consapevoli.
Dato che il narcisismo è associato a strategie difensive, e la difesa ha conseguenze fisiologiche, ne deriva che i narcisisti possono avere sistemi fisici altamente reattivi, e tutto ciò può portare ad iperattivazione cronica del sistema fisiologico in risposta allo stress, che a lungo termine potrebbe indebolire le difese naturali dell’organismo. La reattività cardiovascolare associata al mantenimento di una visione positiva di se stessi, attiva, di consegenza, l’asse ipotalamo- ipofisi-surreni, con relativa secrezione di cortisolo.
Un recente studio dimostra che gli uomini con punteggi elevati al narcisismo, hanno maggiori aumenti di cortisolo dopo situazioni di stress, cosa che non si verifica in coloro che non hanno tratti narcisistici. Inoltre, gli uomini presentano di default un’elevata concentrazione basale di cortisolo, rispetto alle donne. Quindi, è possibile che i narcisisti maschi abbiano una maggiore reattività cardiovascolare, con evidenti conseguenze per la loro salute.
Articolo consigliato: “L’insostenibile pesantezza dei secondi. Narcisismo, ossessioni e un pianista irraggiungibile”
Questi dati non sono stati confermati su narcisisti di sesso femminile, in cui l’attivazione cronica del cortisolo può portare a problemi diversi, quali soppressione del funzionamento del sistema immunitario. Come mai si rileva questa netta differenza di genere?
Forse perché le donne hanno un ruolo sociale diverso rispetto agli uomini, che in qualche modo devono comprovare la loro dominanza sociale, a conferma della teoria narcisistica. Forse le narcisiste femmina usano il loro ruolo per vantaggi personali, allo scopo di ottenere risorse sociali e finanziarie indirettamente. Si tratta di un’ipotesi da testare, al fine di capire perché il narcisismo sembra essere più nocivo per gli uomini che per le donne.
Malattia di Parkinson e Memoria Prospettica: l’efficacia farmacologica sul deficit cognitivo.
Alice Mannarino.
La memoria prospettica fa riferimento ai processi e alle abilità implicate nel ricordo di intenzioni che devono essere realizzate nel futuro (Meacham e Sincer, 1977). Ricordarsi di partecipare ad una riunione, di comprare le batterie per una sveglia, di seguire una trasmissione televisiva alla nove di sera, di fare una telefonata tra venti minuti sono tutti esempi di compiti di memoria prospettica. Si tratta di un’abilità molto importante nel garantire un buon livello di funzionamento cognitivo quotidiano.
Un eventuale disturbo della memoria prospettica si manifesta generalmente con difficoltà nel seguire un progetto, un piano di trattamento, o semplicemente, non rispettando un appuntamento. Per quanto riguarda i disturbi di memoria prospettica nella malattia di Parkinson, un numero sempre maggiore di studi sembra evidenziare un deficit di memoria prospettica in soggetti affetti da malattia di Parkinson.
Articolo consigliato: Cellule Staminali: nuovo passo avanti, restaurando telomeri.
Un buon funzionamento prospettico dipende soprattutto dall’integrità delle aree cerebrali prefrontali; allo stesso tempo diversi studi hanno messo in evidenza la presenza in soggetti affetti da malattia di Parkinson di difficoltà cognitive riguardanti soprattutto test che investigano l’integrità funzionale dei circuiti fronto-striatali. In particolare, gli studi riportano peggioramenti nelle abilità di shifting, nei processi di working memory e nella pianificazione, tutte funzioni strettamente correlate con le abilità di memoria prospettica.
Negli studi attualmente disponibili, sono stati generalmente utilizzati paradigmi sperimentali in cui ai partecipanti veniva chiesto di compiere delle azioni dopo un certo intervallo di tempo, ovvero al verificarsi di un evento specifico. Nell’intervallo di tempo che intercorre tra le istruzioni date e il momento in cui è necessario compiere le azioni richieste, i soggetti sono impegnati nello svolgimento di compiti di natura attentiva. Nel primo di questi studi Katai et al. (2003) hanno confrontato la prestazione di un gruppo di pazienti con malattia di Parkinson senza demenza con quella di un gruppo di soggetti sani. I risultati mettono in evidenza che i pazienti con il Parkinson hanno una riduzione della capacità di attivarsi spontaneamente al fine di eseguire le azioni prestabilite nel compito di memoria prospettica. Gli autori non hanno trovato, invece, differenze significative tra i i due gruppi nella componente di memoria retrospettiva del compito.
Un altro studio recente è quello di Costa e al. (2008). In particolare, ad un gruppo diverso di 20 pazienti con Parkinson veniva chiesto di compiere tre azioni tra loro non correlate dopo 20 minuti (condizione time-based) o al suono di un timer (condizione event-based). I pazienti sono stati testati in una condizione off (dopo effetto della terapia farmacologica) e una condizione on (subito dopo la somministrazione in acuto di levodopa). I risultati documentano un significativo miglioramento dell’accuratezza nella componente prospettica del compito, dopo somministrazione del farmaco, tanto da rendere i pazienti non più differenziabili dai soggetti di controllo.
Nel sintetizzare i dati esposti, emerge chiaramente che la memoria prospettica è deficitaria nei pazienti con Parkinson e il deficit osservato coinvolge maggiormente la capacità di attivazione spontanea, dunque la componente propriamente prospettica dei compiti utilizzati. Inoltre il deficit di memoria prospettica, appare connesso con l’alterazione della trasmissione dopaminergica e con l’efficacia indotta dal trattamento farmacologico.
Gioco d’Azzardo Patologico: la Dipendenza Invisibile.
Simona Meroni.
In un recente articolo apparso sul Corriere della Sera (“L’appello al Casinò dei malati di gioco: non fateci entrare”) si racconta in breve l’iniziativa del Casinò di Sanremo di mettere a disposizione dei giocatori un modulo prestampato che, debitamente firmato, vieta loro l’ingresso.
Il Casinò ha firmato con il Comune un protocollo di intesa per imporre a chi chiede l’autosospensione una pausa minima di 90 giorni, per evitare – si deduce – che “i pentiti” possano contro firmare una dichiarazione che annulla la validità della loro richiesta di aiuto.
I giocatori d’azzardo compulsivi sembrano un campione variegato, per età, sesso e condizione sociale. E’ importante, infatti, non perdere di vista i giocatori che esulano dall’immaginario del Casinò: la dipendenza da gioco, infatti, può nascere non solo ai tavoli verdi, ma anche – e forse soprattutto – al monitor del videopoker, con i numeri del Lotto, con la patina argentea del Gratta e Vinci.
Articolo consigliato: Realtà Virtuale e Stati Dissociativi
Il gioco d’azzardo, infatti, offre una speranza di guadagno immediato, che può essere avvertita come una ‘soluzione-scorciatoia’ alla crisi economica. La dipendenza da gioco (gambling, o GAP – Gioco d’azzardo patologico) costringe a riflettere su quanto a volte sia difficile discriminare tra un comportamento autenticamente ludico, un leggero disturbo e un comportamento francamente patologico. Tra questi tre atteggiamenti, infatti, il confine è molto labile e a volte confuso da norme sociali e comportamentali.
Il DSM IV TR (American Psychiatric Association, 2000) include la dipendenza da gioco tra i Disturbi del Controllo degli Impulsi Non Classificati Altrove, cioè non riconducibili al quadro clinico di altri disturbi, insieme alla piromania, alla cleptomania, al disturbo esplosivo intermittente, alla tricotillomania (torcersi e strapparsi i capelli) e al disturbo del controllo degli impulsi Non Altrimenti Specificato. La caratteristica fondamentale che accomuna tali disturbi è l’incapacità a resistere ad un impulso o ad un desiderio impellente: il soggetto prova una tensione o un eccitamento crescente prima di compiere l’azione e prova gratificazione o sollievo nel momento in cui la compie; in seguito possono o meno essere presenti rimorsi e sensi di colpa.
Per il DSM IV , dunque, la dipendenza da gioco è un comportamento maladattativo persistente e ricorrente, che interferisce con la situazione economica e relazionale della persona che ne soffre, e con caratteristiche simili a quelle delle dipendenze da sostanze. Tra i sintomi possiamo trovare: coinvolgimento eccessivo nell’attività, necessità di giocare quantità sempre maggiori di denaro per raggiungere l’eccitazione desiderata, insuccesso nei tentativi di interrompere il comportamento, irrequietezza e irritabilità provocate dal tentativo di interrompere l’abitudine e compromissione di importanti attività sociali o lavorative.
I giochi che provocano dipendenza possono essere classificati secondo diverse categorie, la più semplice li vede suddivisi tra:
1) giochi dalla vincita immediata (es.: gratta e vinci, slot machine, videopoker, bingo)
2) giochi che prevedono un più prolungato tempo d’attesa (es.: lotterie, poker, scacchi, totocalcio).
Articolo consigliato: La Felicità? E’ una cosa semplice
I giochi a riscossione immediata sembrano essere a maggiore rischio di addiction a causa della sensazione di eccitazione immediata, che spinge il giocatore a volerla sperimentare nuovamente subito dopo. In modo analogo appaiono fortemente “a rischio” i giochi in cui prevale il fattore fortuna, nei quali i giocatori inseguono la vincita spinti dal convincimento magico che prima o poi la “fortuna girerà”. Secondo la Società Italiana di Intervento sulle Patologie Compulsive (SII.Pa.C.), infatti, tra i giochi che provocano dipendenza, il 51% è costituito dai videopoker, seguiti dalle scommesse sui cavalli, dal Lotto, dal SuperEnalotto e dai Casinò.
Con l’avvento di Internet il gioco d’azzardo sembra aver subito un’impennata: secondo i dati della Committee on Treatment Services for Addicted Patients dell’American Psychiatric Association, nel 1997 circa 6,9 milioni di persone erano potenziali internet gamblers (giocatori compulsivi), un anno dopo erano 14,5 milioni e i siti dedicati al gioco d’azzardo erano oltre 1300.
Le ragioni del fenomeno possono essere diverse: Internet consente l’anonimato; può essere nascosto agli occhi dei familiari; è sottratto ai limiti temporali e spaziali. Inoltre l’utilizzo della carta di credito consente di giocare ingenti somme di denaro senza averne piena consapevolezza.
Analizzando più da vicino le diverse forme di gioco che possono suscitare dipendenza, si potrebbe trovare un nocciolo comune.
Articolo consigliato: La felicità? E’ una cosa semplice. Parte 2
Come sostiene Riccardo Zerbetto: “E’ l’attitudine nei confronti del rischio l’anima dei comportamenti osservabili nelle diverse forme del gioco d’azzardo”. La maggior parte di questi giochi, infatti, pongono il Soggetto davanti ad una decisione da prendere in pochi istanti, consentendo così di sperimentare un attimo di incertezza in cui ci si può giocare il tutto e per tutto.
Questa “teoria del brivido decisionale” -se così può essere chiamata- rende ragione anche del collegamento che viene spesso fatto tra GAP e tossicodipendenza. I due tipi di disturbo, infatti, hanno molti punti in comune, a partire dai criteri diagnostici (pressoché identici, se si esclude il rincorrere la perdita e il rischio di dissesto finanziario, caratteristici del GAP ma non del tutto estranei alla tossicomania), ma soprattutto sono accomunati dalla ricerca di una sostanza (o condizione) che possa produrre un eccitamento.
Sempre secondo Zerbetto, infatti, uno dei fattori che accomuna il GAP alla tossicomania è “il bisogno di indurre uno stato di attivazione” per far fronte a frequenti vissuti di noia o depressione.
Il trattamento, ma soprattutto l’identificazione dei dipendenti da gioco d’azzardo, è un discorso articolato e complesso, che chiama in causa fattori biologici, psicologici ma anche – e soprattutto – sociali.
Come scritto in apertura, i giocatori patologici spesso passano inosservati, per svariate ragioni. Molto spesso, infatti, il gioco gode di rispetto sociale (non dimentichiamoci che buona parte dei Giochi sono Monopolio di Stato), visibilità (quanti giochi a premi sono fioriti in questi ultimi anni?), può essere mascherato da un rito (ad esempio, il poker del Mercoledì sera, tanto caro a film e telefilm), oppure non visto perché non ci sono occhi in grado di vedere (la solitudine degli anziani nei bar, ad esempio).
L’iniziativa del Casinò di Sanremo, dunque, supportato dalla Cooperativa Sociale L’Ancora, è sicuramente lodevole, e forse può rappresentare un passo avanti nell’accoglienza e nella “cura” di un disagio che risulta eclatante solo quando supera il limite.
BIBLIOGRAFIA:
Bergler E. (1957), tr. it., Psicologia del giocatore, New Compton, 1970
Zerbetto R (2001, a), Dall’intervento terapeutico a una politica di gioco responsabile. Da Lavanco, Psicologia del gioco d’azzardo, McGraw-Hill
Zuckerman M. (1994), Behavioural expressions and biosocial bases of sensation seeking, Cambridge University Press.
La Fenice, terapie riabilitative: http://www.lafeniceaddictions.it/
Società Italiana di Intervento sulle Patologie Compulsive: http://www.siipac.it/
Aracnofobia: se hai paura dei ragni li vedrai più grandi!
– Rassegna Stampa –
Effetti della fobia specifica sulla percezione dell’oggetto temuto
Più una persona ha paura dei ragni, più la percezione visiva dello stesso animale ne risulterà alterata. Questo è quanto emerge da uno studio pubblicato da poco su Journal of Anxiety Disorders in cui ai partecipanti, 57 individui che si definivano aracnofobici, veniva chiesto durante un periodo di circa 8 settimane di interagire in vivo con 5 ragni della dimensione da 2,5 a 15 centimetri e in seguito di fornire una stima della dimensione dei ragni appena “incontrati”.
I ragni erano contenuti in un contenitore di vetro aperto. I soggetti iniziavano la loro esposizione all’animale a circa 12 passi dal contenitore e veniva poi chiesto loro di avvicinarsi. Una volta arrivati a fianco del contenitore, i partecipanti dovevano toccare il dorso del ragno con una sonda. Nel corso di queste esposizioni i partecipanti riportavano l’intensità della paura che stavano provando su una scala SUD (subjective units of distress) da 0 a 100, e compilavano poi una serie di altri questionari self-report relativi alla fobia specifica, panico e pensieri riguardo la riduzione della paura in future esposizioni con i ragni. Da ultimo, i ricercatori richiedevano ai soggetti una stima delle dimensioni del ragno con cui avevano appena interagito disegnando su una linea un trattino indicante la lunghezza dell’animale.
Dalle analisi dei risultati è emerso che i picchi più alti di fobia soggettivamente riportata dai soggetti corrispondevano anche a stime di maggiori dimensioni dei ragni di fatto inesatte rispetto alle dimensioni reali. Quindi quanto più intensa era l’emozione di paura riferita ai ragni cui ci si era esposti tanto maggiore era la dimensione del ragno stimata dalla stessa persona. Chissà se questo fenomeno sia generalizzabile ad altre forme di fobie specifiche, che possono risultare maggiormente invalidanti nella vita quotidiana, basti pensare alla fobia degli aghi. Se la fobia impatta sulla percezione visiva dell’oggetto fobico, allora può essere utile condividere questo bias con il paziente che si ritrovi impegnato in faticose esposizioni in cui è possibile che continui a percepire visivamente il mostro più grande di quello che è in realtà. Attenzione però: il messaggio non dovrebbe focalizzarsi tanto nel contenuto stesso (“chi se ne frega se il ragno è grande o piccolo, mi terrorizza per mille altri questioni…”) ma sul processo: l’intensità delle nostre emozioni può impattare non solo su funzioni psicologiche quali per esempio attenzione e memoria, ma anche sulla funzione psicologica che più ci illude di poter essere oggettivi: la percezione visiva.
BIBLIOGRAFIA:
Michael W. Vasey, Michael R. Vilensky, Jacqueline H. Heath, Casaundra N. Harbaugh, Adam G. Buffington, Russell H. Fazio. It was as big as my head, I swear!. Journal of Anxiety Disorders, 2012; 26 (1): 20 DOI: 10.1016/j.janxdis.2011.08.009