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Un mancato Contatto Visivo è percepito come indifferenza?

 

Il mancato Contatto VIsivo e i dolorosi colpi dell'indifferenza. - Immagine: © SVLuma - Fotolia.com Come ormai è noto, sentirsi parte di una “cricca” di amici o colleghi è una parte essenziale dell’esperienza dell’essere umano. Quando ci sentiamo “lasciati fuori” o “tenuti all’oscuro” siamo dispiaciuti e proviamo frustrazione o stress. Leggo un articolo interessante, pubblicato da Psychological Science, che conferma proprio come il “sentimento di esclusione” possa scaturire anche da cose molto semplici, come un’occhiataccia di un passante.

La diffusione esplosiva e mondiale dei social network (probabilmente, il fenomeno sociologico del secolo…) conferma quanto sia importante per l’essere umano il feedback dell’altro e quanto i nostri stati d’animo siano connessi e influenzati dalle persone che ci circondano e a cui teniamo.

Due chiacchiere al bar, una telefonata, un piccolo “like” o un messaggio su facebook, un sms, uno sguardo complice… ebbene, tutte queste interazioni soddisfano il nostro bisogno di “connessione” con gli altri.

Lo sguardo del dolore - © Kelly Young - Fotolia.com
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Wesselmann, della Purdue University, Cardoso della Universidad Nacional de Mar del Plata (Argentina), Slater della Ohio University e Williams della Purdue Universitiy hanno escogitato un curioso esperimento, coinvolgendo molti studenti del campus della Purdue University.

In breve, un ricercatore passeggia in mezzo agli studenti, sceglie una “cavia”, gli passa di fronte e decide se, quando incrocia lo sguardo dello studente

a) “agganciarsi” per qualche secondo (stabilire un contatto visivo) allo sguardo e far spuntare un timido sorriso oppure

b) “agganciarsi” per qualche secondo allo sguardo mantenendo il volto inespressivo oppure

c) “passare attraverso” lo sguardo dello studente, come fosse una velina di carta di riso, come se non fosse neanche lì…

Una volta incontrato, o per così dire “trapassato”, lo studente, il ricercatore indica con un segno ai colleghi ricercatori il soggetto della scenetta, che viene avvicinato e gli viene chiesto “in quest’ultimo minuto, quanto ti senti disconnesso dagli altri? (NB: il termine inglese disconnect viene usato anche in termini metaforici per indicare il senso di esclusione/estraneazione/non sentirsi in… NdA).

Bene: le persone che avevano avuto almeno un contatto visivo con il ricercatore (con o senza timido sorriso) hanno riferito di sentirsi meno “disconnessi” rispetto agli studenti “attraversati” dallo sguardo indifferente del ricercatore. Gli stessi ricercatori riconoscono che l’effetto avuto da una così breve interazione sia momentaneo e possa durare pochi secondi/minuti; ma di fatto sembra che un effetto, sebbene piccolo, ce l’abbia.

Nonostante la ricerca presenti moltissimi limiti (chi sono questi studenti? Come sono stati selezionati? Altre variabili indagate? etc…) mi sembra molto interessante e potrebbe davvero aprire alcune porte a ulteriori approfondimenti e ricerche sulla potenza della comunicazione umana. Non è la sede per fare una rassegna di tutta la letteratura già esistente sulla comunicazione, sugli scambi interpersonali, sulla comunicazione non verbale etc…

Quello che mi sembra interessante di questa ricerca è che apre riflessioni su quanto qualcosa che non ci riguarda personalmente o da vicino (come ad esempio lo sguardo di uno sconosciuto) possa avere un effetto, sebbene minimo, sul nostro stato d’animo.

Nota a margine: E se quello sconosciuto mi “attraversasse” con lo sguardo il venerdì sera, dopo una settimana di lavoro, stipato in metropolitana, mentre sto pensando che avrò un weekend molto impegnativo, in cui non mi potrò riposare e che oltretutto ho appena litigato con la fidanzata e con i colleghi?

 

 

BIBLIOGRAFIA: 

Psicoterapia: a che le serve ragionare così? il Disputing Pragmatico secondo Ellis

 

Psicoterapia: a che le serve ragionare così? Il Disputing Pragmatico secondo Ellis. - Immagine: © zero13 - Fotolia.com Il contributo più caratteristico di Ellis alla tecnica cognitiva è il disputing pragmatico. Non è l’unico tipo di disputing previsto dalla tecnica terapeutica REBT. Accanto e prima di esso ce ne sono altri, di tipo logico empirico e più simili alle tecniche beckiane. Essi sono:

  • Il disputing empirico: le previsioni e le aspettative negative del paziente sono provate dai fatti? Su cosa si basano? Su quali prove di fatto si appoggiano?
  • Il disputing logico: le previsioni e le aspettative negative del paziente sono sostenute dalla logica? Da quali ragionamenti emergono?
  • Il disputing della catastrofizzazione: le conseguenze temute dal paziente sono davvero così terribili?

Come nel caso del disputing beckiano, si tratta di chiedere al paziente di giustificare da un punto di vista logico ed empirico i suoi timori, i suoi pensieri negativi.

Tuttavia Ellis, fedele al suo stile semplice, non presenta, come Beck, un sofisticato elenco di errori logici ma si limita a raccomandare di incoraggiare il paziente a non dare per scontati i propri timori, ma a cercarne la giustificazione empirica (che prove di fatto hai?) o logica (in base a quali prove logiche dici questo?). Ma il disputing logico-empirico non era l’arma migliore di Ellis.

Psicoterapia Cognitiva: "Cosa non le va in questo?" Come iniziare il Disputing del Pensiero Negativo. - © Lisa F. Young #16136135

Come sappiamo, la sua tecnica principale consisteva nel chiedere al paziente le “piccole frasi” che accompagnavano i suoi stati di sofferenza. Cosa diceva il paziente a se stesso nel momento in cui viveva i suoi problemi?

La differenza con Beck è significativa. In questo modo il terapeuta REBT non accerta tanto il fondamento logico delle credenze, ma la giustificazione soggettiva che il paziente da a se stesso delle sue sofferenze. E queste sofferenze, secondo Ellis, sono collegate ai valori soggettivi e all’ideologia personale del paziente.

Insomma, per Ellis le credenze distorte non sono errori logici alla Beck, bensì assumono l’aspetto di regole e definizioni che il paziente si auto-infligge. Sono i cosiddetti “must”, le cosiddette “doverizzazioni”, ovvero asserzioni prescrittive e/o normative, in cui il soggetto non valuta quanto sia congruente e fondato su situazioni reali lo stato emotivo che egli sta provando, ma quanto sia congruente a una astratta norma che prescrive come dovrebbe andare il mondo, o come ci si dovrebbe comportare o come si dovrebbe essere.

L’individuo si auto-suggestiona negativamente, convincendosi che il mondo non va come dovrebbe andare, o che egli non si sta comportando nel modo in cui dovrebbe, in obbedienza a valori per lo più sociali o religiosi ma non individuali, anzi, per essere più precisi, individualistici.

Ellis infatti predica un individualismo stoico, per cui la sanità mentale si persegue comprendendo quali sono i propri interessi individuali, mentre ogni valore sociale è sempre sospetto, per non dire peggio. Non che Ellis predichi la legge della giungla, intendiamoci. Ma per Ellis la società deve essere minimale: l’unico valore sociale condivisibile è l’astensione dal procurare male agli altri. Anche la cooperazione sociale è importante, ma solo in vista di un incremento della capacità della società di andare incontro al bisogno individualistico di realizzarsi. Insomma, quello di Elllis è un pensiero profondamente individualistico, liberalistico e, se vogliamo, molto americano (o anglo-sassone, se si preferisce).

Ogni valore sociale di tipo comunitaristico, che cioè che vada al di là dell’incremento delle opportunità di autorealizzazione individuale e del benessere materiale è sospetto. Valori sociali comunitaristici sono probabilmente doverizzazioni. Prescrizioni sociali che gli individui autoinfliggono nella forma “si fa così” “deve essere così” e così via. E, tra tutti i valori sociali prescrittivi, probabilmente i peggiori sono i valori religiosi, che per Ellis vanno aspramente combattuti.

Il significato negativo degli eventi: introduzione al Laddering. - Immagine: © Slavomir Valigursky - Fotolia.com -
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Ellis quindi è una espressione di una corrente filosofica ben precisa. Una corrente non a caso tipicamente anglo-sassone: l’utilitarismo di Jeremy Bentham (1748 – 1832). Come Ellis, anche Bentham riduce a superstizione ogni valore sociale, morale o religioso. Nel pensiero utilitaristico di Bentham non ci sono valori in sé. Ogni idea e convinzione umana è priva di valore intrinseco se non è strumentale al benessere e all’evitamento del dolore. In Bentham, come in Ellis, conferire ad alcune convinzioni un valore assoluto significa disconoscerne la relatività. Razionale è dunque il pensiero che meglio sa adattare i suoi propri processi valutativi, le credenze ai propri scopi, e gli scopi alle potenzialità individuali e agli ostacoli posti dalla realtà. Lo scopo della ragione non è la scoperta e il riconoscimento di una realtà ultima, ma solo l’uso migliore, cioè più conveniente, delle proprie idee. La sofferenza dipende da pensieri irrealistici negli scopi o nei processi di pensiero che dovevano portare alla realizzazione degli scopi.

Ellis applica queste idee alla psicoterapia e, come un filosofo pragmatista, insegna al paziente che è bene che le abitudini, le idee, le convinzioni personali o socialmente apprese siano sempre sottoposte a critica, ma a un particolare tipo di critica: la critica pragmatica dell’utilità e dell’efficienza strumentale. In parole più semplici, alla critica che vuole sapere:

  • ma a che serve questo?
  • Quale scopo si prefigge?
  • E quanto efficientemente serve allo scopo?

Tecniche in Psicoterapia: Le forme dell' ABC. - Immagine: © valdis torms - Fotolia.com

Le idee sono ridotte alla loro efficienza. È il cosiddetto “cash value” che conta nelle idee. Non un valore astratto, ma le conseguenze pratiche. L’innovazione di Ellis è che occorre porsi questa domanda non solo per ogni idea che pensiamo, ma perfino per ogni emozione che proviamo: dove mi porta? Che mi da, questa emozione? A che mi serve? Come se fosse una intenzione del tutto volontaria.

Disputing pragmatico:

  • Queste valutazioni negative sono utili o dannose?
  • Dove mi stanno portando?
  • A che cosa mi servono?

La razionalità di Ellis è dunque pragmatica. Ellis predica la coincidenza integrale del razionale con l’utile. L’utile non è un sottoinsieme logico del razionale, ma è il razionale stesso. La razionalità non è altro che calcolo economico, scelta dei mezzi in base ai fini. L’unico sapere possibile rimane quello dei mezzi, mentre i fini sono lasciati alla preferenza personali dell’individuo e per essi non vi è scienza possibile. E la sofferenza mentale non è dovuta a forze inconsce e misteriose, che possono emergere alla coscienza solo dopo lunghi anni di faticoso trattamento psicoanalitico. Al contrario, la sofferenza dipende da pensieri coscienti, del tutto consapevoli, che ci imponiamo da soli per una imperfetta valutazione della reale utilità pratica di questi pensieri. I pensieri che generano sofferenza sono dunque convinzioni non valutate in base alla lo reale utilità, ma in base ad altri criteri.

Iniziare una Terapia Cognitiva: Concordare le Regole. - Immagine: © Bernard BAILLY - Fotolia.com
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Il paziente va dunque incoraggiato ad assumere un atteggiamento profondamente dissacratorio, un’attitudine manipolatoria, in cui non vi è nessun dato scopo o obiettivo che abbia un valore in sé, che sia insomma sacro.

E quali sono questi altri criteri? Quali sono queste convinzioni irrazionali, che non obbediscono al criterio di utilità? Leggiamole. Vedremo che caratteristicamente sono sempre idee anti-individualistiche, imposte per via sociale alle persone singole. Come ben sappiamo, nelle sue opere Ellis presentò varie volte un elenco di varie convinzioni irrazionali (irrational beliefs). Leggiamo un paio di queste convinzioni non utilitaristiche:

Per un essere umano adulto è un bisogno pressante essere amato o approvato praticamente da tutte le persone importanti della collettività in cui vive (Ellis, 1962, p. 64).

Facciamo bene attenzione: qui si parla, criticamente, di amore e onore, cioè approvazione sociale. Sono valori del passato, raccomandati dalla morale cristiana (l’amore) e dalla morale classica greco-romana (l’onore). Attenzione, Ellis non esclude i bisogni umani di amore e approvazione. Tuttavia, come al solito li trasforma in valori strumentali e non finali. Essi sono utili se e solo se ci danno benessere, ma non sono beni in sé.

Si deve essere totalmente competenti, adeguati e vincenti sotto ogni possibile aspetto per potersi considerare degni di valore (Ellis, 1962, p. 65).

Qui si vede come Ellis non abbia riguardi per niente e per nessuno. Infatti, dopo la morale classica e quella cristiana, Ellis attacca perfino il valore protestante della competenza e dell’etica del lavoro e quello americanissimo del successo. L’etica del lavoro che nel calvinismo aveva ancora un carattere sacro di valore in sé non discutibile e non negoziabile è ridotta a strumento dell’utilità e del benessere.

In conclusione, il terapeuta cognitivo sottopone a critica stringente tutte le idee, le convinzioni e i valori del suo paziente, e li filtra attraverso il criterio della loro utilità e dannosità, cioè della loro capacità di generare benessere ed evitare sofferenza e dolore. E questo dolore da evitare e da non procurare agli altri deve essere a sua volta un dolore avaloriale, non generato quindi dalla violazione di regole trascendenti, ma da esperienze concrete, immediate e irriflesse di sofferenza, facilmente comprensibili per tutti.

Insomma, le regole e i doveri vengono sottoposte a critica feroce e ne vengono rivelate le debolezze e le incongruenze. Ma in cambio non si propongono diversi valori se non quelli della diminuzione della sofferenza e della ricerca della serenità.

 

 

BIBLIOGRAFIA:

 Ellis A. (1962). Reason and emotion in psychotherapy. Oxford, England: Lyle Stuart.  442 pp.

 

Storie di Terapie #4 – Marco nelle canne

STORIE DI TERAPIE

Nei casi clinici che seguono, l’arrosto sostanzioso dei vari pazienti è condito con il sugo della fantasia, per rendere non identificabili le persone e la lettura più avvincente. Spesso ho condensato in un solo paziente più persone e, quasi sempre ci sono scappati pezzetti di me stesso.    Leggi l’introduzione    

 

#4 – Marco nelle Canne

  • Storie di Terapie #4 - Marco delle Canne. - Immagine: © natuskadpi - Fotolia.com Depressione reattiva
  • Disturbo ossessivo di personalità

Marco chiede un sostegno psicoterapeutico in un momento di emergenza, se non ci fossero stati i fatti dell’ultima settimana la sua vita sarebbe perfetta. E’ arrabbiato, disorientato e cerca soluzioni immediate che riguardano un cambiamento del mondo esterno che improvvisamente si è messo a girare in un modo che non gli garba. Ha cercato in tutti i modi di portare in seduta la sua compagna, Speranza, che è quella che dovrei aiutare a cambiare per rimettere la sua vita a posto, ma lei si è rifiutata di salire proprio quando avevano finalmente trovato parcheggio sotto il mio studio… é talmente fuori di sé che mi chiede di scendere in strada per acchiappare Speranza che è rimasta in macchina.

Durante l’ultimo fine settimana Speranza lo ha fatto accomodare sul divano e gli ha comunicato che, da alcuni mesi, è follemente innamorata di Karl, è certa sia l’uomo della sua vita per cui entro un mese lei e Andrea, il figlio di tre anni, andranno a vivere a casa di sua madre che la ospiterà insieme al suo nuovo compagno ed alle di lui due figlie.

Storie di Terapie - © Athanasia Nomikou - Fotolia.com
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Marco non vuole altro che capire il comportamento di Speranza per prendere le contromisure adatte ed impedirne l’allontanamento. Non dorme dal giorno della comunicazione, che dice essere stata del tutto inaspettata, gli prescrivo subito degli ansiolitici per dare sollievo ad un turbine di emozioni negative che non controlla e lo spaventano ancora di più, essendo uno che cerca di padroneggiare ogni cosa. In verità, temo anche una possibile evoluzione delirante, favorita dalla deprivazione di sonno e anche gesti auto e/o eteroaggressivi che fantastica con molto piacere.

Cerco di spiegargli il senso di una psicoterapia, ma è come argomentare a Gengis Khan sull’importanza della pace tra i popoli. Solo la sua buona educazione e l’immagine di sé che vuole mantenere impeccabile gli impediscono di mettermi le mani addosso.

Io faccio delle fantasie circa un possibile invio ad un collega esperto di coppie e questa è la spia che mi sento, come lui, spaventato e impotente. Credo sinceramente che Speranza sia una grave borderline ma ho imparato negli anni a non fare diagnosi per sentito dire e, soprattutto, a non occuparmi che del paziente che chiede aiuto.

Ci rivediamo settimanalmente. Ogni seduta inizia con il racconto vorticoso dei fatti della settimana, anzi dei ripetuti misfatti di Speranza e della sofferenza insostenibile da lui provata. Faccio fatica a sgombrare il terreno dall’attualità. Provo a spiegargli che sarei interessato a conoscerlo.

Marco, l'ultimo samurai. Immagine: © Diedie55 - Fotolia.com -
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Ha conosciuto Speranza al matrimonio di un amico comune. Lei aveva un matrimonio alle spalle ed un bambino, Andrea, di un anno. Dopo tre mesi hanno iniziato una convivenza. Lui dice che era molto impegnato nei cambiamenti della sua azienda e forse distratto verso le faccende familiari, ma di non averle mai fatto mancare nulla. Anche con Andrea è stato come un padre, nonostante non lo fosse e nonostante il momento economico difficile per tutti. La sua mente sta al 60% sulle questioni lavorative, al 30% sui giochi di guerra al PC su cui trascorre moltissimo tempo, tanto da essere diventato un importante esperto di storia militare e, il restante 30% è da spartire tra le persone care: Speranza, Andrea, il fratello, i genitori e qualche amico. Sono comunque briciole. Armi e strategie lo affascinano molto più degli esseri umani che, infatti, non lo interessano granchè.

Questo sarà il tema centrale della sua vita e immancabilmente della terapia. Marco in fondo è un guerriero che sa combattere e godersi il saccheggio, ma teme di abbassare la guardia e dunque non permette a nessuno di avvicinarsi.

Prima di Speranza ha avuto altre tre donne importanti.

  • Una milanese che ha visto sempre e solo in week end clandestini, essendo sposatissima e con figli piccoli.
  • Una ragazza di colore con la quale ha persino vissuto per tre mesi, ma che aveva il permesso di soggiorno a termine e doveva tornare in Ghana subito dopo.
  • Una collega di lavoro che si era lasciata lungamente corteggiare senza concedersi mai.
Storie di terapie #2: Un Pomeriggio con il Demonio. - Immagine: © lineartestpilot - Fotolia.com -
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Esperienze sessuali invece molteplici, disinibite e soddisfacenti. Non è affatto uno spietato che utilizza gli altri come strumenti per i suoi scopi anzi, se ne rammarica moltissimo e persino si condanna per questo ma non prova nessuna spinta verso gli altri.

Ha imparato come ci si comporta: cosa dire in società, come corteggiare una donna o come far sentire agli amici il suo interessamento. Tutto ciò lo fa anche con maestria ma come un dovere appreso.

Se non si sforzasse rotolerebbe nella “melassa”, così la definisce lui stesso, fatta dai suoi videogiochi e dalle canne che si concede sistematicamente senza nessun senso di colpa, anche se non le giudica una cosa buona perché avverte che peggiorano la sua adesione al mondo esterno, la lucidità e la brillantezza, ma sono un regalo di pace cui non sa rinunciare.

Marco è il primogenito di due figli di una famiglia bene con il cognome doppio.

Il fratello più giovane ha sviluppato una sordità di probabile origine psichica intorno ai nove anni, immediatamente dopo l’evento che ha segnato la storia della loro famiglia.

Il padre è uno stimato manager nell’ambito della sanità privata e pubblica, con consistenti agganci politici negli anni precedenti a tangentopoli. Viaggia molto, è assente per lunghi periodi e anche quando sta a Roma arriva a casa quando i figli sono già a letto. E’ in famiglia il tutore dell’ordine, il braccio armato della madre. Il poco tempo a disposizione è dedicato a dettare regole che non spiega mai e che si fondano esclusivamente sulla sua autorità.

La madre è una tipica casalinga del boom economico al servizio del benessere di marito e figli: amorevole, invasiva e asfissiante.

Un giorno i due genitori modello convocano i figli nel salotto buono per comunicazioni importanti (certamente avranno letto su qualche manuale come comportarsi al meglio in simili circostanze).

L’essenza della comunicazione è che, poiché papà sarà sempre più fuori casa per motivi di lavoro, hanno pensato di separarsi. Naturalmente ribadiscono che ciò non cambia nulla: loro restano sempre la famiglia felice e perfetta.

I due fratelli non avevano in alcun modo intuito la presenza di dissapori tra i genitori e Marco non ricorda nessuna emozione né sua, né del fratello, a seguito di questa notizia.

La promessa dell’immutabilità della situazione si rivela presto falsa. La madre inizia a lavorare alle poste e la qualità dell’accudimento scende vistosamente ed in modo inversamente proporzionale alla loro libertà.

Vive in preda alla tristezza ed al rancore ed è sopraffatta dal lavoro e dalla gestione della casa dove trionfano le ribellioni adolescenziali che non hanno più una controparte. Riesce ad ottenere qualcosa solo inducendo sensi di colpa circa la sua stanchezza e il suo stato di salute.

Il padre cambia città e inizia una convivenza con una donna più giovane. I figli di fatto gli tolgono il saluto e non prestano più ascolto alle sue prediche: il fratello addirittura diviene sordo.

Marco ricorda vividamente il giorno in cui si accorse della disabilità del fratello. Erano in autobus seduti uno accanto all’altro e Marco cercava di richiamare l’attenzione di Luca sulla notizia che stava leggendo sul giornale. Non ottenendo attenzione aveva aumentato progressivamente il tono della voce. D’improvviso, si accorse che gli altri passeggeri lo osservavano stupiti: stava praticamente urlando, ma Luca continuava ad ignorarlo. Scese dall’autobus con la convinzione che la sua vita fosse cambiata per sempre, era solo ed aveva subito un danno che non sarebbe stato più risarcibile; vide se stesso con un fratello handicappato, sperduti nel mondo senza una guida.

Anche le condizioni dell’abitazione risentivano dello stato d’animo della madre, la casa divenne disadorna, fredda, trascurata e sporca. I fratelli si chiudevano nella loro stanza, tenendo fuori un mondo che sentivano freddo e inospitale e che li rifiutava poichè caduti in disgrazia. Il rendimento scolastico di Marco peggiorò e fu rimandato in tre materie nel terzo anno del liceo: il successo scolastico non sarebbe dunque stato il terreno della sua rivincita.

Storie di Terapie #3 - Andrea lo Sfortunato. - Immagine: © Giordano Aita - Fotolia.com
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Il racconto di Marco relativo a quegli anni (gli ultimi di Liceo Scientifico e i primi due di Economia) è disorganizzato e confuso.

Esperienza costante sembra essere un crescente uso di cannabis e alcool, che ricorda aver avuto un impennata in seguito al rifiuto di Silvia, la ragazza di cui era innamorato, che gli preferì un suo amico. Marco aveva l’impressione che tutto stesse naufragando.

Nel referto della polizia fu scritto che la signora aveva avuto probabilmente un capogiro mentre lavava i vetri del soggiorno con una scala a soffietto, ma Marco sapeva che non era così.

Fedeli alla buona abitudine di non esprimere emozioni e di non parlare d’altro che non dei fatti concreti quotidiani, i due fratelli non commentarono l’accaduto e di buon grado si trasferirono da una zia, sorella del padre, che di fatto li tenne a pensione. L’attribuirsi reciprocamente le colpe nella morte della madre allontanò progressivamente i due fratelli tra loro e con il padre.

Finita l’università Marco andò a vivere per proprio conto mantenendosi con lavoretti saltuari prima e con una collaborazione con un commercialista, poi. Era diventato bravo nello studio ed efficiente nel lavoro. Le convinzioni che lo guidavano erano di essere solo nella vita, di doversi guadagnare ogni cosa con l’impegno senza poter contare su nessuno.

Gli altri gli apparivano più forti di lui e frequentemente minacciosi, per cui elaborò alcune strategie per renderli inoffensivi: essere sempre perfetto e inappuntabile, accondiscendere evitando ogni conflitto anche a costo di sacrificare il proprio interesse, scegliere persone in difficoltà che avessero bisogno del suo aiuto e mettersi al loro servizio fino a diventare indispensabile.

Ciò lo garantiva dal rischio di essere abbandonato ma, per ulteriore precauzione, non si legava mai affettivamente, non lo avrebbero più fregato.

E’ interessante il fatto che lui identificasse il dolore della perdita non con la separazione dei genitori e la comunicazione ufficiale nel salotto buono, né con il corpo della madre disarticolato sul mattonato del cortile ma con un immagine riguardante Silvia. L’icona del dolore era Silvia che se ne andava aggrappata a Filippo sulla moto Guzzi fiammante, baciandolo sul collo.

Marco riuscì a scomporre quel dolore cupo in cinque emozioni che ne erano i costituenti elementari: la tristezza per la perdita dell’oggetto d’amore, la rabbia verso di lei per averlo tradito, la tristezza per la sensazione di non valere nulla, l’umiliazione per essere stato sconfitto dal rivale e la vergogna per aver mostrato di fronte a tutta la scuola la sua sconfitta. L’idea di contare solo su di sé, di non legarsi affettivamente e di considerare tutti gli altri come potenziali nemici fecero di Marco un manager di successo, sapeva che se voleva fortemente una cosa riusciva certamente ad ottenerla.

La scelta di Speranza come partner con cui fare famiglia risentiva certamente di queste convinzioni.

Lei, sola con un figlio piccolo, lo vede come il salvatore e non può certo fargli troppe richieste. Avendo già un figlio non lo costringerebbe a farne un altro e lui si troverebbe già una famiglia bella e confezionata, da presentare nelle situazioni in cui fosse stato disdicevole presentarsi come single.

Lei, molto interessata al benessere economico, lo lascerebbe fare sull’unico terreno in cui si sente a suo agio, il lavoro: vanno avanti così per tre anni.

Marco lavora tutto il giorno e, quando torna la sera, si chiude in una nuvola di cannabis e videogiochi. Andrea, con l’abilità tipica dei bambini, riesce a scavarsi un cunicolo nelle difese di Marco, che non lo vive nè minaccioso, nè giudicante e che, soprattutto, pensa che il bambino non lo lascerà mai perché ha bisogno di lui. Finalmente nella sua vita sembra esserci un legame certo e duraturo. A volte, Marco si scopre a pensare con gioia che Andrea gli sopravviverà e che con lui non dovrà affrontare la perdita che la morte ci infligge… 

E’ per questo che, quando giunge da me, è fuori di sé e vorrebbe uccidere quella strega che è restata giù in macchina e si rifiuta persino di salire . Marco ha rivissuto, condensate, le scene più orribili della sua vita. L’annuncio improvviso di Speranza, di andarsene con Karl e Andrea, è stato comunicato con la stessa freddezza dei genitori, quella lontana domenica, nel salotto buono. 

Come con Silvia la partner lo lascia di fronte a tutti per un altro: é sconfitto, umiliato e rabbioso e la rabbia è ingigantita dal senso di impotenza infatti, non essendo il padre effettivo di Andrea, non è in alcun modo protetto dalla legge, non ha di fatto alcun diritto e deve sottostare ai capricci di Speranza che sembra decisa a interrompere ogni rapporto tra Andrea e Marco, che deve essere sostituito da Karl nel ruolo di padre. 

Marco teme grandemente la propria aggressività e tende a sedarsi con l’ abuso di cannabis. 

Fantastica due possibili scenari: in un accesso d’ ira strangola Speranza e rovina definitivamente la propria esistenza finendo i suoi giorni in carcere, oggetto delle attenzioni omosessuali degli altri detenuti oppure, in alternativa, è spaventato dal poter avere una reazione simile a quella materna e volare giù dal sesto piano magari insieme ad Andrea, per non lasciarlo solo in questo mondo freddo e vuoto. 

Nella realtà finiscono per prevalere le strategie consolidate che Marco utilizza da sempre per non perdere l’altro: collabora con Speranza nel trasloco e, mentre sogna ad occhi aperti terribili vendette ed augura ai due quanto di peggio possa capitare agli umani, non fa mancare a Speranza il sostegno economico per la sistemazione della nuova casa. Naturalmente, giustifica questa benevolenza come il tentativo di non perdere i contatti con Andrea, che sembra amare di un amore sempre più assoluto e senza riserve. 

In una seduta, circa tre mesi dopo il nostro primo incontro, Marco si concede un pianto liberatorio, dicendo che Andrea è la prima persona che abbia mai amato in vita sua e che non vuole perdere. 

Gli dico che, nell’amore sconfinato che prova per Andrea, c’è l’aspettato risarcimento per il bambino Marco, della stessa età, che non ha ricevuto amore. Lui non piange solo per la perdita di Andrea ma per ciò che immagina che Andrea stesso sperimenterà, si identifica con lui e il suo pianto è il pianto di entrambi. 

In effetti, quando i due stanno insieme si divertono moltissimo ma sembrano essere più due compagni di giochi che un padre e un figlio. Marco è efficiente in terapia come sul lavoro, ci tiene ad essere un paziente perfetto. La prima fase del lavoro è finalizzata alla conoscenza e all’espressione delle emozioni, presenti e passate, che Marco ha imparato a negare e non esprimere. Scopre che le emozioni, se lasciate fluire, non lo travolgono e che può cavalcarle come le onde con un surf. Smette di aver bisogno della cannabis per stordirsi e avverte una dimenticata vitalità. Torna a sentire odori, sapori e colori della vita, alcuni sono gradevoli, altri meno, ma sopportabili. Progressivamente disinveste dal lavoro e si dedica ai rapporti interpersonali ed in particolare ad una costante settimanale battaglia per poter incontrare Andrea. Speranza, infatti, ostacola in ogni modo questo rapporto perché lo vede come un impedimento al nuovo legame tra Karl e Andrea. 

Marco funziona in modo dicotomico, ama con tutto se stesso il piccolo Andrea-Marco e odia, senza limitazioni, la fedifraga Speranza e il suo complice Karl. Durante il periodo natalizio non nego di aver avuto il timore che potesse manifestare agiti aggressivi verso la nuova coppia. Vuole dichiaratamente la loro morte che vivrebbe come la catarsi di una vita intera. 

Mi accorgo delle mie preoccupazioni dal fatto che modifico la farmacoterapia aggiungendo neurolettici che spaccio per tranquillanti di nuova generazione, più efficaci e meno tossici. 

Se non avessi visto in diretta con i miei occhi la disperazione di Marco al sopraggiungere della notizia credo che mi sarebbe sempre rimasto qualche sospetto. Fu esattamente durante la trentesima seduta, mentre stavamo esaminando un vissuto di umiliazione sperimentato in ufficio, che arrivò la telefonata: un agente della polizia chiamava dal Pronto Soccorso per avvertirlo di un grave incidente per cui doveva subito recarsi in ospedale. A chiedere di avvertirlo era stata la signora coinvolta. Quelle, seppe dopo, erano state le sue ultime parole. 

Un camion parcheggiato in salita aveva perso la frenatura ed era finito sulla macchina parcheggiata dove Speranza era appena salita per accompagnare Andrea a scuola. Fortunatamente il bambino era rimasto sul marciapiede ma aveva assistito alla scena e i soccorritori lo avevano portato in ospedale perché comunque solo e in stato di choc. 

Lo stupore assoluto, la sorpresa e l’incredulità immobilizzarono l’espressione di Marco per un tempo che mi parve infinito e trascorse in un silenzio catacombale. Poi si alternarono in ondate successive emozioni diverse: la colpa per aver desiderato quanto effettivamente accaduto con il sottostante pensiero magico di esserne stato la causa, la rabbia verso il camionista disattento e, più in generale, verso il suo mandante che permette che ai figli si portino via i genitori, la pena infinita verso quella giovane donna che era certa di aver afferrato la felicità quando già la morte l’aveva acciuffata, infine l’angoscia di non sapere come fronteggiare la situazione soprattutto con il piccolo Andrea. 

Marco, immediatamente, ritornò al vecchio modo di fare che stavamo cercando di rottamare, diede un calcio a tutte le emozioni, accese una sigaretta e tornò ad essere l’efficiente manager che risolve i problemi. Nell’ordine: recuperare Andrea, avvertire Karl, decidere con lui il da farsi per informare tutti, poi i funerali e il futuro immediato di Andrea. 

Ero certo che non avrei più visto Marco, aveva mille cose da fare e quello era un terreno in cui si muoveva bene. 

Immaginavo poi che avesse associato magicamente la terapia ed il poter esprimere le emozioni con la disgrazia avvenuta e che ciò lo avrebbe dissuaso del tutto dal proseguire.

Era un buon incassatore e, al massimo, per un po’ avrebbe aumentato la quantità di cannabis. 

Quando un paziente mi sorprende troppo vuol dire che non avevo del tutto capito il suo funzionamento. Marco mi sorprese doppiamente. Neppure tre mesi dopo la fatidica seduta mi telefonò per fissare un nuovo incontro, anticipandomi che non sarebbe stato solo. La mia fantasia, evidentemente molto limitata, pensò che forse avrebbe portato anche Andrea certamente colpito dall’aver assistito in prima persona allo schiacciamento della madre senza poter far nulla. Credo che anch’io mostrai tutta la gamma di emozioni, dallo stupore, alla sorpresa, fino all’incredulità, quando in sala d’attesa trovai schierati sul divano una intera famiglia. 

Ai due estremi Marco e Karl e, in mezzo, da sinistra a destra, Andrea di cinque anni, Samantha di anni sette e Adele di anni nove. Entrarono tutti accomodandosi in posti di fortuna e per terra. Marco disse che voleva farmi conoscere la sua nuova famiglia, era certo che questo fosse ciò che avrebbe voluto Speranza e il meglio possibile per Andrea. 

Karl era uno statuario signore di un metro e novanta, svizzero di nascita ma con sicure ascendenze normanne. Lo si sarebbe detto un camionista ignorante e rissoso che aveva riposto tutte le sue attrattive nel fisico, robusto e bellissimo, invece mostrò un animo sensibile e quasi femminile. Disse che desideravano ora e in futuro avere un sostegno per gestire al meglio la strana situazione che si era venuta a creare, una famiglia con due padri che, tuttavia, non erano gay. 

Gli dissi che c’era più letteratura e che sarebbe stato più facile se si fosse trattato di una coppia gay in cui, comunque, un flusso di amore tra i due genitori sarebbe stato avvertibile dai figli. 

I due padri si guardarono fuggevolmente un istante e poi scossero il capo in segno di diniego. Al cuor non si comanda. 

 

 

Il Narcisista su Facebook: Autopromozione e Comportamenti Antisociali.

– Rassegna Stampa – 

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze PsicologicheQuante volte abbiamo pensato: quanto è narcisista qualcuno dei nostri amici su Facebook che continua a postare e ad aggiornare il proprio status o a taggarsi su nuove foto? Facebook, cosi come altri social networks, permette all’utente più o meno narcisista una buona dose di controllo su come il proprio sé viene presentato e percepito dagli altri: uno studio di Carpenter pubblicato su Personality and Individual Differences approfondisce la questione di come i narcisisti stanno su Facebook.

Nella ricerca il narcisismo viene definito come “un pattern pervasivo di grandiosità, di bisogno di ammirazione e di un’esagerata importanza attribuita a sé stessi”. Lo studio ha coinvolto 292 utenti di Facebook, di cui circa il 75% erano studenti del college: ai soggetti è stato somministrato il Narcissistic Personality Inventory (NPI) e per ciascun utente sono stati misurati alcuni indici del loro comportamento virtuale su Facebook categorizzati in due grandi classi: da una parte, i comportamenti di “autopromozione” come ad esempio postare update del proprio status, foto di sé stessi e aggiornamenti del proprio profilo personale; dall’altra i comportamenti “antisociali” tra cui cercare supporto sociale in misura maggiore rispetto a quanto se ne da, manifestare rabbia quando gli altri non commentano il proprio status, reagire e rivalersi rispetto a commenti negativi.

I risultati hanno mostrato che i punteggi della sottoscala dell’esibizionismo grandioso (grandiose exhibitionism – GE: alti punteggi corrispondono a vanità, senso di superiorità, e tendenze esibizionistiche) correlano positivamente con i comportamenti di autopromozione su Facebook. Similmente, i punteggi della dimensione legata alla tendenza a manipolare gli altri (entitlement/exploitativeness – EE: punteggi elevati indicano il desiderio di imporsi e di manipolare gli altri a proprio vantaggio) correlano positivamente con i comportamenti antisociali sul social network.

Attenzione però: l’autostima, quella buona (trait self-esteem), non è correlata a comportamenti di autopromozione e per di più correla negativamente con i comportamenti antisociali da social network!

 

 

BIBLIOGRAFIA: 

Un giorno di ordinaria follia #1 – Posso bere la Candeggina? -Psichiatria-

Elena Ponzio.

PSICHIATRIA PUBBLICA: LETTERE DAL FRONTE.  
Naturalmente tutti i dati ed i nomi citati in queste lettere sono stati inventati e le storie raccontate sono ispirate alla realtà ed alla vita in un csm, ma per doverose ragioni di privacy  sono state amalgamate tra loro per renderle irriconoscibili. Ciò nonostante, a volte la realtà supera la fantasia! Buona lettura! 

 

Un Giorno di Ordinaria Follia

  #1 – Posso bere la Candeggina?  

 

Un Giorno di Ordinaria Follia #1 - Posso bere la Candeggina? - Psichiatria - Immagine: © Mario - Fotolia.comOtto del mattino.

Strade buie, parcheggio deserto, a parte il camper del SerT che dà quel sapore di autogrill a gennaio. Il mazzo dalle molte chiavi già tintinnante tra le dita, salgo rapida le scale del mio prefabbricato preferito e anche oggi riesco a non incontrare nessuno. Striscio la carta, inizia la giornata. E sarà lunga perché è lunedì, giorno di reperibilità, 12 ore in collegamento col pronto soccorso, col reparto e le comunità.

Le porte dell’ambulatorio separano e non separano il fuori dal dentro. Quasi una metafora della follia che sta sia dentro sia fuori, che è tua e degli altri, di tutti e di nessuno o secondo i punti di vista. Insomma, la porta c’è ma se spingi bene la apri anche se è chiusa e se parli, anche non forte, si sente tutto e un incontro un po’ frizzante si può trasformare in una seduta collettiva.

Cambiare la Psichiatria Pubblica. - Immagine: © Andres Rodriguez - Fotolia.com
Articolo consigliato: Cambiare la Psichiatria Pubblica.

Non c’è nessuno, meglio così. Non c’è nessuno, posso riordinare le cartelle e le idee, non capita spesso anzi qui al CSM non capita mai. Non capita nemmeno oggi perché mentre fulminei appaiono questi pensieri una voce chioccia strascicata e divertita mi saluta alle mie spalle:

“Dotttoresssa!!? Ma è caduta dal lettttooo??!” “E’ di guarddia? Posso bere la candeggina?

-Incredibile- penso mentre sobbalzo, come ho fatto a non vederlo? Eppure si tratta di un personaggio molto folcloristico, arcinoto nell’ambiente e certamente non discreto né poco appariscente.

“Michele che ci fai qui alle otto del mattino?”

“Sto mmmale, voglio bere la candeggina”

Accendere il disco automatico: file numero 1 michele. :

“Michele lo sai che non si deve bere la candeggina. Cosa è successo?”

 

La risposta non importa come in effetti non importa neppure la domanda perché si tratta di un dialogo molto ben consolidato, un vecchio pezzo di teatro recitato decine di volte a canovaccio fisso. Infatti ignorando la domanda Michele inizia regolarmente una disamina di tutto il pettegolezzo del settore raccattato nel weekend di pellegrinaggio per tutti i pronto soccorso e i reparti di psichiatria della città.

Un po’ come una staffetta sulle montagne, un cantastorie del passato, Michele percorre instancabile decine di km di corridoi ospedalieri trascinandosi dietro l’immancabile carrellino e collezionando novità, saluti, nascite, matrimoni, licenziamenti, malumori e rivalità degli operatori psichiatrici della città. Ogni giorno il suo racconto si arricchisce di nuovi particolari e la catena di aneddoti si allunga con suo grande compiacimento. Se poi l’interlocutore si lascia sfuggire un moto di sorpresa o di interesse per una delle informazioni così gelosamente e appassionatamente collezionate allora la sua soddisfazione è enorme!

“Come è andato il weekend Michele?”

“Bene e poi ho visto il Dr Manzi che è stato molto cattivo…Io gli ho detto che volevo buttarmi dal balcone e lui mi ha risposto di fare pure. E sai cosa gli ho detto? Gli ho detto: –Dottore? Ma buttati tu!!! Ciao, stammi bene e salutami tutti”.

E così com’è arrivato, se ne va.

“Michele stai meglio? Niente candeggina eh mi raccomando!”

Ma le parole vengono sovrastate dal cigolio del carrellino mentre Michele tutto arzillo si allontana, sicuramente per andare a trovare qualche altra vecchia conoscenza cui raccontare che oggi io ero di guardia e chissà, magari che sono un po’ ingrassata!

 

 

Esercizi fisici che portano all’ Orgasmo Femminile (Exercise-Induced Orgasm)

– Rassegna Stampa – 

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze PsicologicheI risultati di uno studio – finora unico nel suo genere- della Indiana University evidenziano che determinati esercizi sportivi – in assenza di fantasie o attività sessuali- possono portare all’ orgasmo femminile. Il fenomeno già noto ai media americani tuttavia non era ancora stato analizzato da un punto di vista scientifico. La ricerca è pubblicata su Sexual and Relationship Therapy.

I ricercatori hanno somministrato un survey on-line a 370 donne di età compresa tra i 18 e i 63 anni che riferivano di avere avuto esperienza di orgasmi stimolati dall’esercizio fisico (exercise-induced orgasms – EIO) oppure di piacere sessuale indotto dall’esercizio fisico (exercise-induced sexual pleasure – EISP). La maggior parte delle donne era impegnata in una relazione sentimentale e coniugale e circa il 69% si identificavano come eterosessuali.

Ecco alcuni risultati della survey:

Circa il 40% delle donne che avevano avuto esperienza di EIO e EISP riportavano tale fenomeno per almeno o più di 10 volte; il 20% delle donne ha riconosciuto uno scarsa percezione di controllo in relazione a queste esperienze. La maggior parte delle donne con esperienza di EIO riferivano di non avere fantasie sessuali di nessun genere durante il fenomeno né di pensare a qualcuno da cui erano attratte.

Infine, diversi tipi di esercizi sportivi sembrano essere associati alle esperienze di EIO e EISP:

Le donne riportavano esperienze di exercise-induced orgasms in relazione a diversi esercizi secondo queste percentuali:

  • 51.4% durante esercizi addominali
  • 26.5% durante esercizi di sollevamento pesi
  • 20% mentre praticavano yoga
  • 15.8 % mentre si allenavano in bicicletta
  • 13,2% durante la corsa
  • 9,6% durante camminate

Gli autori della survey sottolineano come il meccanismo alla base di tali esperienze sia ancora sconosciuto e plausibilmente sarà oggetto di futuri studi; inoltre, dai risultati manca un dato importante: quanto è comune nelle donne tale fenomeno e, soprattutto, quali variabili psicologiche possono mediare tali esperienze?

 

BIBLIOGRAFIA:  

Behavioral Inhibition and Child Anxiety #3 Retrospective Studies

 READ PART #1 & PART #2 OF THIS ARTICLE.

Behavioral Inhibition and Child Anxiety #3 Retrospective Studies. - Immagine: © Robert Kneschke - Fotolia.comFeatures of an inhibited temperament mirror the symptoms of social anxiety and the relationship between the two has been examined using a variety of methodologies.

These include retrospective, cross-sectional and longitudinal methodologies. In a retrospective study the subjects are chosen, and then data is collected from their past experiences. I will address the retrospective studies now and discuss the other two in an upcoming article.

Two retrospective surveys suggest strong continuity between early behavioral inhibition (BI) and social anxiety in adolescence and early adulthood. Hayward, Killen, Kraemer and Taylor (1998) examined the relationship between BI and social anxiety in a sample of 2,242 high school students.

Behavioral Inhibition and Child Anxiety #2. - Immagine: © laurent hamels - Fotolia.com -
Articolo consigliato: Behavioral Inhibition and Child Anxiety #2

The students completed self-report questionnaires at age 15, including the Retrospective Self-Report of Inhibition (RSRI); after four years students were then assessed using a standardized diagnostic interview. The results showed that after controlling for social phobia symptoms at time point one, the retrospective self-report measures of social avoidance and fearfulness predicted social phobia diagnosis in high school. More specifically, of those who reported being socially avoidant and fearful, 22.3% developed social phobia, a number four times higher than those who did not report those two features of inhibition.

Similar results have been demonstrated in other studies. Neil, Edelmann and Glachan (2002) examined the relationship between early social fears and non-social fears and the tendency for children to develop mental health problems, including social phobia, agoraphobia, panic disorder, general anxiety and depression (n = 234).

Behavioral Inhibition and Child Anxiety - Immagine: © dannywilde - Fotolia.com -
Suggested article: Behavioral Inhibition and Child Anxiety #1

Participants, averaging 47 years in age, were recruited from self help organizations and completed a battery of anxiety and depression questionnaires, including, the Social Phobia and Anxiety Inventory. The results showed that recalled childhood social/school fears were related to elevated scores on measures of social phobia and depression. Measures of non-social fears were not associated with any index of psychopathology.

While these studies are important in suggesting a link between early BI and later development of social anxiety symptoms and social phobia, the findings must be interpreted with caution. The fact that information on early temperament was ascertained by means of retrospective questionnaires means that the findings could be a result of socially phobic individuals simply remembering themselves as more shy because of their current symptoms, rather than truly having had an inhibited temperament in early childhood.

 

 

BIBLIOGRAPHY: 

EMDR, Cardiopatia e salute Psico-fisica

 

EMDR, Cardiopatia e Salute Psico-Fisica - Immagine: © Little sisters - Fotolia.com La letteratura scientifica (Shemesh, E. et al., 2004; Ladwig KH, et al. 2008; Hemingway, H., Kuper, H. 1990) offre diversi spunti in favore dell’evidenza che la sofferenza psicologica ed emotiva, dovuta a depressione, ansia e isolamento sociale, può contribuire all’insorgere di malattie cardiache.

D’altro canto anche sopravvivere ad eventi cardiaci gravi (infarto del miocardio, arresto cardiaco, chirurgia cardiaca, trapianti) influenza fortemente il benessere psicologico e le condizioni di salute delle persone che ne sono vittime (Razzini C, et al., 2008, Kubzansky LD, et al. 2006; Shemesh, E. et al., 2004;).

Dopo un evento cardiaco grave, si può andare incontro a stati di ansia e depressione (Berkman; Davidson, et al. 2010) e sviluppare addirittura i sintomi tipici di un disturbo post traumatico da stress (PTSD) (Mavros, N., et al., 2011): secondo i dati in letteratura va incontro a un PTSD il 19%-38% dei pazienti che hanno avuto un arresto cardiaco (Gamper et al., 2004; Ladwig et al., 1999; O’Reilly, Grubb, & O’Carroll, 2004), il 16%-22% di quelli che hanno avuto un infarto del miocardio (Ginzburg, et al., 2006; Pedersen, Middel, & Larsen, 2003; Shemesh et al., 2006), 8%-18% dei pazienti sottoposti a chirurgia cardiaca (Connolly, et al. 2004; Doerfler, Pbert, & DeCosimo, 1994; Schelling et al., 2003) e 11% -16% dei pazienti che hanno subito un trapianto (Dew et al., 1996, 1999, 2000, 2001).

Le reazioni psicologiche dei pazienti con scompenso cardiaco - Immagine: © Petr Vaclavek - Fotolia.com -
Articolo consigliato: Le reazioni psicologiche dei pazienti con scompenso cardiaco.

Non intervenire adeguatamente su questi aspetti psicologici ed emotivi può compromettere le possibilità di recupero sia psicologico che fisico del paziente (Shemesh, E. et al.,2004, Frasure-Smith N, Lespérance F., 2008), peggiorando anche la compliance con il personale medico. La ricerca in questo campo (Davidson, et al. 2010) dimostra che uno stato depressivo minore dopo un infarto del miocardio può aumentare significativamente le probabilità di mortalità negli anni successivi. Secondo i dati presentati all’12th Annual Spring Meeting on Cardiovascular Nursing (Damen et al. 2012), che si è tenuto a Marzo 2012 a Copenhagen, in un campione di più di 1000 pazienti che hanno subito interventi alle coronarie il 26,3% va incontro a depressione, e nei 7 anni successivi è stata registrata una mortalità del 23,5% tra i pazienti depressi contro il 12,2% tra i pazienti non depressi; la depressione inoltre è risultata indipendentemente associata a tutte le cause di mortalità.

Anche i sintomi di un PTSD hanno effetti a lungo termine nell’aumentare il rischio di mortalità, sia in pazienti a cui siano stati impiantati defribillatori (Ladwig KH, et al., 2008; Davidson, et al. 2010) sia in pazienti che hanno subito trapianti (Ladwig KH, et al. 2008), aumentando anche il rischio di problemi cardiovascolari correlati (Shemesh, E. et al.,2004).

I dati di ricerca (Denollet, J. Et al., 2010; Razzini C, et al., 2008; Petersen e Denollet, 2003) suggeriscono inoltre che pazienti cardiopatici con una personalità di tipo D – caratterizzata da negatività, pessimismo e inibizione sociale – hanno tre volte il rischio, rispetto agli altri pazienti cardiopatici, di sviluppare ulteriori problemi cardiaci in futuro. Tale tipo di personalità è pertanto associato a una prognosi cardiaca negativa. Il trattamento del disagio psicologico, oltre che indurre una riduzione dei sintomi depressivi, sembra migliorare gli esiti fisici di questi pazienti.

Di fronte di questi dati un intervento psicologico-psicoterapeutico appare molto indicato e può attuarsi a diversi livelli:

Relazionale:

  • Stabilire una comunicazione efficace tra il paziente ed i familiari
  • Facilitare la collaborazione tra il paziente e la sua famiglia, e gli operatori sanitari

Diagnostico:
Attraverso la somministrazione di alcune scale per valutare, e monitorare nel tempo, la severità di sintomi ansiosi e depressivi e l’intensità delle reazioni di evitamento, intrusività e iperarousal:

  • CES-D (Radloff, L., S., 1977), è una scala validata per misurare la depressione negli adulti, nel caso di pazienti anziani si usa la GDS (Yesavage, J., A.; Brink, T., L.; Rose T., L. et al., 1983) ;
  • STAI è una scala che permette di misurare sia l’ansia di stato che quella di tratto (Spielberger, Gorsuch, Lushene, 1968)
  • la IES-R (Weiss & Marmar, 1997), è uno strumento usato per monitorare l’intensità delle reazioni di evitamento, intrusività e iperarausal a seguito di eventi traumatici;

Terapeutico, riabilitativo, preventivo:

  • Lavorare sui sintomi ansiosi e depressivi e sulla reazione allo stress traumatico.
  • EMDR in pazienti sopravvissuti a eventi cardiaci gravi
Lo sguardo del dolore - © Kelly Young - Fotolia.com
Articolo consigliato: In terapia: lo sguardo del dolore.

Sono già stati condotti due studi sperimentali in pazienti sopravvissuti ad eventi cardiaci gravi per testare l’efficacia del metodo nel trattare i sintomi di PTDS, ansia e depressione che si sono sviluppati nel periodo post operatorio. In entrambi gli studi (Arabia, E; Manca, M L; Solomon, R M. 2011; Shemesh et al., 2010) il trattamento (in media 10 sedute) si è dimostrato efficace nella riduzione della sintomatologia postraumatica, nel ridurre sia l’ansia di stato che quella di tratto e nel ridurre la sintomatologia depressiva; inoltre questo tipo di trattamento si è dimostrato superiore ad altre tecniche di trattamento usate, ad esempio le tecniche immaginative.
Il follow up a 6 mesi ha dimostrato il persistere dei benefici anche a lungo termine. Questi risultati replicano quelli di ricerche precedenti sull’efficacia dell’EMDR nel trattamento di sintomi ansiosi e depressivi (Raboni, Tufik, & Suchecki, 2006; Scheck, Schaeffer, & Gillette, 1998; Ironson, Freund, Strauss, & Williams, 2002; Marcus, Marquis, & Sakai, 1997; van der Kolk et al., 2007)

 

 

BIBLIOGRAFIA:

1. Arabia, E; Manca, M L; Solomon, R M. (2011), EMDR for Survivors of Life-Threatening Cardiac Events: Results of a Pilot Study, Journal of EMDR Practice and Research, Volume 5, Number 1, 2011 , pp. 2-13(12)

2. Berkman, L. F., Blumenthal, J., Burg, M., Carney, R. M., Ca- tellier, D., Cowan, M. J., et al. (2003). Effects of treating depression and low perceived social support on clinical events after myocardial infarction: The Enhancing Re- covery in Coronary Heart Disease patients (ENRICHD) randomized trial. Journal of the American Medical Associa- tion, 289(23), 3106–3116.

3. Connolly, D., McClowry, S., Hayman, L., Mahony, L., & Artman, M. (2004). Posttraumatic stress disorder in chil- dren after cardiac surgery. Journal of Pediatrics, 144(4), 480–484.

4. N L M Damen, H Versteeg, E Boersma, RM Van Geuns, RT Van Domburg, SS Pedersen, Depression is independently associated with 7-year mortality in patients treated with percutaneous coronary intervention: results from the reseach registry. European Journal of Cardiovascular Nursing ( 2012 )

5. Davidson, K.W., Rieckmann, N., Clemow, L., Schwartz, J.E., Shimbo, D., Medina, V., & et al. (2010). “Enhanced depression care for patients with acute coronary syndrome and persistent depressive symptoms: Coronary psychosocial evaluation studies randomized controlled trial.” Archives of Internal Medicine, 170 (7): 600-608.

6. Dew, M. A., DiMartini, A. F., Switzer, G. E., Kormos, R. L., Schulberg, H. C., Roth, L. H., et al. (2000). Patterns and predictors of risk for depressive and anxiety-related disorders during the first three years after heart trans- plantation. Psychosomatics, 41(2),191–192.

7. Dew, M. A., Kormos, R. L., DiMartini, A. F., Switzer, G. E., Schulberg, H. C., Roth, L. H., et al. (2001). Prevalence and risk of depression and anxiety-related disorders dur- ing the first three years after heart transplantation. Psy- chosomatics, 42(4), 300–313.

8. Dew, M. A., Kormos, R. L., Roth, L. H., Murali, S., DiMartini, A., & Griffith, B. P. (1999). Early post-transplant medical compliance and mental health predict physical morbidity and mortality one to three years after heart transplan- tation. Journal of Heart and Lung Transplantation, 18(6), 549–562.

9. Dew, M. A., Roth, L. H., Schulberg, H. C., Simmons, R. G., Kormos, R. L., Trzepacz, P. T., & Griffith, B. P. (1996). Prevalence and predictors of depression and anxiety- related disorders during the year after heart transplanta- tion. General Hospital Psychiatry, 18(Suppl. 6), 48S–61S.

10. Doerfler, L. A., Pbert, L., & DeCosimo, D. (1994). Symp- toms of posttraumatic stress disorder following myo- cardial infarction and coronary artery bypass surgery. General Hospital Psychiatry, 16(3), 193–199.

11. Frasure-Smith N, Lespérance F. (2008) Depression and anxiety as predictors of 2-year cardiac events in patients with stable coronary artery disease. Arch Gen Psychiatry.; 65:62–71.

12. Gamper, G., Willeit, M., Sterz, F., Herkner, H., Zoufaly, A., Hornik, K., et al. (2004). Life after death: Posttraumatic stress disorder in survivors of cardiac arrest—prevalence, associated factors, and the influence of sedation and an- algesia. Critical Care Medicine, 32(2), 378–383.

13. Ginzburg, K., Solomon, Z., Dekel, R., & Bleich, A. (2006). Longitudinal study of acute stress disorder, posttrau- matic stress disorder and dissociation following myo- cardial infarction. Journal of Nervous and Mental Disorders, 194(12), 945–950.

14. Hemingway, H., Kuper, H. (1990) Biologica dimensions of personality. In L.A. Pervin (eds), Hanbook of personality: theory and research (pp. 244-270). New York: Guilford

15. Johan Denollet, J., Schiffer, A.A., & Spek, V. (2010). “A General Propensity to Psychological Distress Affects Cardiovascular Outcomes: Evidence From Research on the Type D (Distressed) Personality Profile.” Circulation: Cardiovascular Quality and Outcomes, 3: 546-557.

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39. Weiss, D., & Marmar, C. R. (1997). The Impact of Event Scale–Revised. In J. P. Wilson & T. M. Keane (Eds.), As- sessing psychological trauma and PTSD (pp. 168–189). New York: Guilford Press.

La Regina di Biancaneve, lo Specchio e la Dismorfofobia.

 

Regina: Mago dello specchio magico, sorgi dallo spazio profondo, tra vento e oscurità io ti chiamo. Parla! Mostrami il tuo volto!


Specchio: Che vuoi conoscere mia Regina?

Regina: Specchio, servo delle mie brame, chi è la più bella del reame?


Specchio: Bella, tu sei bella oh mia Regina, ma attenta: al mondo una fanciulla c’è, vestita sol di stracci, poverina, ma ahimè, assai più bella è di te!


Regina: Guai a lei! Dimmi il suo nome!

Specchio: Ha la bocca di rose, e ha d’ebano i capelli, come neve è bianca.

Regina: Biancaneve!

 

LA Regina di Biancaneve, lo Specchio e la Dismorfofobia. - Immagine: Author: Franz Jüttner This image is in the public domain because its copyright has expired.Quelli che, come me, sono cresciuti con le favole dei fratelli Grimm e con i cartoni animati della Disney, non possono essersi dimenticati di questo dialogo. Lo specchio e la propria immagine riflessa sono al centro di uno studio pubblicato su Behaviuor Research and Therapy, i cui risultati sorprendono gli autori stessi: dopo un primo ed iniziale sentimento positivo e di piacevolezza, anche in chi per natura è ottimista e felice, se ci si guarda per più di dieci minuti, si entra pian piano in uno stato di ansia e tristezza. Passare troppo tempo davanti allo specchio ci farebbe vedere anche i difetti che non abbiamo, facendoci sprofondare in uno stato di ansia e depressione.

 

Specchio specchio delle mie brame.... Le derive della dismorfofobia. - Immagine: © Danomyte - Fotolia.com
Articolo consigliato: Specchio specchio delle mie brame.... Le derive della dismorfofobia.

I dati in letteratura ci dicono che ai pazienti affetti da dismorfismo corporeo osservarsi allo specchio causa un notevole disagio ed è da questo che sono partiti i ricercatori britannici. Il loro obiettivo era quello di andare a studiare meglio le caratteristiche di questo disturbo, di cui di fatto ad oggi si sa ben poco se non che si esprime in un’eccessiva preoccupazione per una o più parti del proprio corpo, anche se queste in realtà appaiono del tutto normali. Altra cosa conosciuta di questo disturbo è che correla positivamente con la depressione.

I ricercatori hanno convocato due gruppi di 25 persone, sia maschi che femmine. Un gruppo era formato da soggetti di controllo mentre l’altro da pazienti con diagnosi di dismorfismo corporeo; quindi si sono analizzate le diverse reazioni di fronte alla propria immagine allo specchio.

La prima parte del test consisteva nel far compilare ai soggetti sperimentali un questionario, che andava ad indagare le aree della soddisfazione del sé e della propria immagine corporea; poi si chiedeva ai soggetti, finito di compilare il questionario, di guardarsi allo specchio per 25 secondi. Nella seconda parte del test è stato chiesto ai soggetti di osservarsi allo specchio per almeno 10 minuti. Quindi veniva chiesto loro di dare una valutazione del proprio aspetto.

Mentre non stupiscono segnali di disagio nei pazienti con dismorfismo corporeo davanti alla propria immagine riflessa allo specchio, quello che ha stupito i ricercatori è stata la crescente ansia e disagio provata anche dalle persone “sane” nel guardarsi allo specchio per circa dieci minuti.

Una possibile spiegazione a questo dato potrebbe essere il tempo di osservazione: secondo i ricercatori, infatti, nella quotidianità nessuno, per quanto vanitoso, passa più di qualche minuto davanti allo specchio. Un tempo così lungo può, di fatto, far emergere tutti quelli che pensiamo essere i nostri difetti, mentre ad un occhiata veloce possiamo tutto sommato essere soddisfatti del nostro aspetto.

Evitiamo dunque di sostare troppo tempo davanti allo specchio, così da evitare anche il rischio di trovare un difetto nuovo ogni giorno.

 

 

BIBLIOGRAFIA: 

Psicologia & Neuroscienze: Correlati Neurali nell’ Ansia per la Matematica

– Rassegna Stampa – 

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze PsicologicheL’ ansia per la matematica (Mathematical Anxiety) è un fenomeno poco studiato e ancora carente di criteri diagnostici formalmente condivisi. Ad ogni modo i questionari che hanno l’obiettivo di individuarla chiedono ai soggetti di riportare le loro risposte emotive durante la risoluzione di problemi di matematica sotto varie forme e in diversi contesti: i soggetti con elevati livelli di ansia per la matematica rispondono con ansia e preoccupazione alla risoluzione di problemi numerici svolti individualmente, sia riferiscono di sentirsi ansiosi in situazioni in cui devono risolvere esercizi di matematica di fronte alla classe.

Alcuni ricercatori della Stanford University School of Medicine hanno dimostrato per la prima volta che i bambini con elevati livelli di ansia per la matematica presentano attivazioni cerebrali specifiche e differenti rispetto ai non “matematicamente” ansiosi.

Disturbo Specifico dell'Apprendimento. Immagine: © Leah-Anne Thompson - Fotolia.com -
Articolo consigliato: Non imparo perché… sono pigro e incapace. O per dire qualcosa a mamma e papà?

La ricerca ha sottoposto a risonanza magnetica funzionale 46 bambini di 7-9 anni (con bassi ed elevati livelli di ansia per la matematica) mentre era loro chiesto di effettuare addizioni e sottrazioni. Nello studio, i soggetti sono stati valutati mediante un questionario standardizzato per la misurazione dell’ansia per la matematica e generalizzata e altri test di funzionamento cognitivo. I bambini sia con elevati sia con bassi punteggi di ansia per la matematica avevano punteggi simili in termini di QI  e di altre funzioni cognitive così come di ansia generalizzata.

Nei bambini con elevata ansia per la matematica si è riscontrata una maggiore attivazione  nelle regioni cerebrali associate alla paura, quali l’amigdala e l’ippocampo, che a sua volta determinavano una deattivazione delle aree cerebrali implicate nel ragionamento numerico.

Le analisi delle connessioni tra diverse aree cerebrali quindi mostrano che in bambini ansiosi per la matematica  l’aumento dell’attivazione nel circuito limbico determina la riduzione dell’attivazione (e probabilmente nella funzionamento) nelle regioni deputate al ragionamento numerico. A tali correlati neurali corrispondono parimenti differenze nelle performance matematiche: i bambini più “matematicamente” ansiosi hanno totalizzato un maggior numero di errori e hanno impiegato più tempo nel risolvere i problemi.

Quindi l’ansia specifica per la matematica interferisce sia a livello neurale sia a livello comportamentale con i processi cognitivi di elaborazione delle informazioni e risoluzione dei problemi numerici. Senza voler psicopatologizzare la vita quotidiana varrebbe la pena pensare a modalità di assessment e intervento per la regolazione di questa emozione che  se arriva ad elevati livelli ed è cronicizzata può portare a evitamenti anche nelle scelte accademiche e lavorative.   

 

 

BIBLIOGRAFIA: 

Sinfonia d’autunno: Bergman ci insegna la ciclicità delle emozioni.

 

Sinfonia d'Autunno: Bergman ci insegna la ciclicità delle emozioni. - Immagine: Poster Cover from 1978 Movie: Autumn SonataArrivo forse un po’ in ritardo ad innamorarmi di “Sinfonia d’autunno”, film del 1978 scritto e diretto da Ingmar Bergman. Un dipinto intenso e lucidissimo del rapporto conflittuale tra una madre e una figlia, in grado di toccare emozioni e antiche sensazioni in chi osserva scorrere il racconto.

In “Sinfonia d’autunno” vengono descritti quelli che, meno poeticamente, siamo abituati a chiamare in clinica cicli interpersonali problematici (Dimaggio, Semerari, 2003) e Bergman riesce con invidiabile dettaglio a dare vita a pensieri, emozioni e comportamenti che in alcuni casi difficilmente risultano altrettanto chiari e limpidi a noi terapeuti.

La storia narra dell’incontro tra una madre (Charlotte) e una figlia (Eva), che dopo sette anni di lontananza si ritrovano, cariche di aspettative ed entusiasmo, nel tentativo di recuperare una vicinanza persa da tempo e mai più cercata.

Ingrid Bergman (la madre) veste i panni di un’affermata pianista, concentrata sulla carriera e sicura di sé, assente in famiglia, nevrotica ed egocentrica quando presente e terrorizzata dalla vicinanza fisica dei suoi affetti più cari. Le emozioni vivono per lei solo nella musica e la sua gelida storia di attaccamento non sembra lasciarle scampo: nello spazio libero dai suoi concerti dominano confusione, senso di costrizione e un irrefrenabile desiderio di fuggire. Nessuna macchia sembra però accettabile nella sua vita perfetta e riesce a salvare se stessa recitando il ruolo di madre amorevole, dalla voce calda e accogliente, dedita alla famiglia e costretta suo malgrado lontana da casa per lavoro.

La Psicosi e Roman Polanski: formazione per terapeuti. - Immagine: The poster art copyright is believed to belong to the distributor of the film, the publisher of the film or the graphic artist - Retrievable from: : http://www.affichescinema.com
Articolo consigliato: “La Psicosi e Roman Polanski: formazione per terapeuti”

A raccogliere i cocci della famiglia insieme al papà, c’è la figlia maggiore Eva (Liv Ullmann): fragile, impacciata, nascosta dietro grandi occhiali da vista, persa in un mondo di fantasia e misticismo, incapace di sentire emozioni autentiche e che recupera una sua identità nell’accudire gli altri e nell’amore del marito per lei. L’ammirazione infantile per la madre, si scontra per tutta la vita con il terribile vuoto lasciato dalle sue improvvise assenze, descritto come “paura di non sopravvivere”, “paura di smettere di respirare”, “di non esistere più”, a segnalarne la gravità e l’urgenza. Del resto i ricordi legati alla sua presenza non appaiono in alcun modo rassicuranti: la struggente visione di lei bambina, inginocchiata e adorante ai piedi della madre che legge il giornale seduta in poltrona e indifferente alla sua presenza, prepara il terreno all’impotenza e alla rabbia che vedremo esplodere di lì a poco.

Il loro incontro, con cui il film ha inizio, appare carico di affetto sincero e buone intenzioni: le lettere della figlia hanno finalmente ricevuto risposta e la madre sembra cambiata, più emotiva e vicina. Eva allora gioca il ruolo abituata ad assumere ogni volta che mamma tornava a casa, servizievole accudente e attenta ai suoi bisogni e umori, mentre Charlotte si lancia in atteggiamenti materni ‘da manuale’ e riesce a mantenere la sua integrità narcisistica, godendo ancora una volta dell’ammirazione concessa. I reciproci equilibri si sgretolano però rapidamente e in fulminei scambi di battute e sguardi il ciclo interpersonale invalidante si attiva, forte e ineludibile: ai primi segnali di egocentrismo e critiche pungenti della madre, l’atteggiamento sottomesso di Eva si trasforma in accusa spietata, disperata e colpevolizzante per l’antico abbandono.

Rabbia e amore si alternano in modo caotico, vicinanza e distacco lottano instancabili. Eva ha uno sguardo diverso da quello che conoscevamo fino ad un attimo prima, ora è cupo e minaccioso, mentre Charlotte ha perso il suo charme, appare congelata e incapace di assorbire il suo dolore. Solo alle fine concede alla figlia una lacrima, che racchiude in sé la speranza sempre viva in Eva di una sincera comprensione….e, perché no, di un cambiamento.

La tempesta finisce all’alba, ma nessuna delle due ha ormai le forze per affrontare le colpe urlate.

Solo alla fine tornano in mente le buone intenzioni iniziali, ma ormai l’automatismo degli antichi schemi interpersonali le ha sommerse fino a farle sparire. La vicinanza è di nuovo compromessa e rende necessario un nuovo (l’ennesimo!) distacco, tremendo e silenzioso: tornano per Eva la paura di non respirare e per Charlotte il suo mondo gelido e perfetto.

Il ciclo interpersonale ahimè si chiude, ma Bergman ci lascia con un ultimo e illuminante sguardo al futuro: Eva recupera i suoi grandi occhiali e scrive una lettera di scuse a mamma.

 

 

BIBLIOGRAFIA: 

  • Dimaggio, G., Semerari, A. (2003). I disturbi di personalità. Modelli e trattamento. Editori Laterza

Lavorare con i Pazienti Difficili: Workshop Schema Therapy per il Disturbo Narcisistico di Personalità (Relatrice: Wendy Behary)

– Rassegna Stampa –

Lavorare con i Pazienti Difficili

Workshop

Schema Therapy per il Disturbo Narcisistico di Personalità

(Relatrice: Wendy Behary)

ORGANIZZATORISIST (Società Italiana Schema Therapy) & ISC (Istituto di Scienze Cognitive)

Lavorare con i pazienti difficili

Workshop Schema Therapy per il Disturbo Narcisistico di Personalità - Relatrice: Wendy Behary.
Workshop Schema Therapy per il Disturbo Narcisistico di Personalità – Relatrice: Wendy Behary.

Il Workshop si concentra sul trattamento dei pazienti affetti da Disturbo Narcisistico di Personalità, a partire dall’importante manuale della dott.ssa Behary, Disarming the narcissist.

Pazienti notoriamente difficili, i narcisisti si dimostrano spesso intelligenti, affascinati e sicuri di sé, mostrando al contempo una certa arroganza e incapacità di empatia che mettono in difficoltà la persona che gli sta difronte.

Come rapportarsi, quindi, a un paziente che mostra un atteggiamento di sfida nei nostri confronti piuttosto che di cooperazione? Come coinvolgerlo in un percorso terapeutico basato sull’empatia?

Si discuterà come utilizzare il confronto empatico nella relazione terapeutica evitando gli scontri e le dinamiche di lotta, rafforzando la compassione ed aiutando il paziente a comprende il suo comportamento e il suo impatto sulle persone che gli stanno accanto.

Workshop Schema Therapy per il Disturbo Narcisistico di Personalità - Relatrice: Wendy Behary (FOTO)
La Relatrice del Workshop: Dott.ssa Wendy Behary, fondatrice e direttrice del Cognitive Therapy del New Jersey e del The New Jersey Institute for Schema Therapy. Con 25 anni di formazione e numerose certificazioni, lavora dal 1989 con il dott. Jeffrey Young presso la facoltà del Cognitive Therapy Center and Schema Therapy Institute di New York. E’ Presidente del comitato esecutivo della Società Internazionale di Schema Therapy ISST. In qualità di esperta sul narcisismo ha pubblicato e collaborato alla redazione di numerosi testi scientifici sul tema, ed è ritenuta una delle maggiori esperte in campo internazionale per i Disturbi di Personalità gravi e il Disturbo Narcisistico di Personalità.

Il confronto empatico è una delle strategie della Schema Therapy, un approccio attivo e integrato che si concentra sul cambiamento duraturo dei patterns emotivi e comportamentali attraverso un lavoro cognitivo che pone grande enfasi sulla terapia di relazione, usando tecniche esperenziali ed esercizi immaginativi.

Obiettivo della Schema Therapy è insegnare al paziente come rafforzare il mode dell’Adulto sano e dargli più spazio in modo da trovare modalità adattive di soddisfacimento dei propri bisogni più profondi.

Obiettivi

Durante il Workshop si analizzeranno:

  • gli strumenti e le tecniche della Schema Therapy e i suoi mode;
  • le tecniche utili per lavorare con i pazienti affetti dal Disturbo Narcisistico di Personalità
  • i concetti della neurobiologia interpersonale di Daniel Siegel utili per un trattamento efficace

Strumenti

  • Esercizi di gruppo
  • Scripts per illustrare come usare il confronto empatico
  • Proiezione di video
  • Materiale didattico

A chi è rivolto

Psicologi Psicoterapeuti, Medici specializzati in Psicoterapia, Studenti specializzandi in Psicoterapia dal III anno.

Traduzione simultanea dall’inglese all’italiano

Programma

Sabato 16
10.00-13.00
 Schema therapy per il disturbo narcisistico di personalità (origini incluse)
 Profilo dello schema
 Bisogni insoddisfatti del narcisista
 Schema mode del narcisista
 Relazione terapeutica
 Attivazione dello schema del terapeuta – profilo del terapeuta: schemi tipici, reazioni, e mode di coping
 Esercizi di immaginazione guidata di gruppo – processi paralleli: Che cosa irrita del narcisista?
 Sintesi e discussione (domande)

13.00-14.00 Pranzo

14.00-18.00
 Linee guida per il trattamento del narcisista
 Teoria: ampie strategie per il cambiamento degli schema mode
 Influenza, confronto empatico, fissazione dei limiti: la relazione terapeutica (dimostrazioni e role-playing)
 Ostacoli al cambiamento (rassegna delle reazioni maladattive del terapeuta all’attivarsi dello schema)
 Autoterapia: mantenere il mode Adulto sano del terapeuta durante la seduta
 I mode Protettore distaccato e Auto-consolatore nel narcisista
 Esercizio: confronto tra i mode Protettore distaccato e Auto-consolatore
 Sintesi e discussione (domande)

Domenica 17
9.00-12.00
 Domande e commenti relativi alla giornata di sabato (10-15 minuti)
 Disturbo narcisistico lungo lo spettro (dal narcisismo maligno al narcisista dal “cuore d’oro”)
 Decostruzione dei mode del narcisista
 Caso studio
 Affrontare rabbia e atteggiamento ipercritico – dimostrazione
 Esercizio pratico: 1. Confronto tra i mode Arrabbiato e Critico del narcisista
 Sintesi e discussione (domande)

12.00-13.00 Pranzo

13.00-17.00
 Concetti di neurobiologia interpersonale per mitigare la vergogna e accelerare il lavoro esperienziale
 Teoria del narcisismo applicata alle relazioni interpersonali
 Cicli degli schemi di narcisista e partner nelle relazioni affettive
 Caso studio
 Strategie rilevanti nel trattamento del narcisista all’interno di una relazione affettiva
 Ulteriori esercizi pratici (relativamente al tempo disponibile)
 Sintesi e discussione (domande)

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Iscrizione
Quota di iscrizione: il costo del Training è di 200 euro (+ IVA).
Sconti 15% soci SITCC 20% soci AIAMC, Studenti Specializzandi in Psicoterapia 25% soci SIST 50% partecipanti al Training per diventare terapeuti per la Schema Therapy

Per iscriversi: inviare il modulo di iscrizione e copia del bonifico a:  [email protected] o al fax 079/9578217

Bonifico Bancario intestato a:
Banca Nazionale del Lavoro – Grosseto
Beneficiario Istituto di Scienze Cognitive srl
IBAN IT 90 L 01005 14300 000 000 000 584

Il modulo di iscrizione può essere scaricato qui.

Per ulteriori informazioni: www.istitutodiscienzecognitive.com

Istituto di Scienze Cognitive
Piazzale Segni 1
-07100- Sassari

Contatti
[email protected]
079/230449 ~ 3925294249
(Lunedì – Venerdì 9.00-13.00 e Martedì 14.00-18.00)

Psicologia dell’amore: 7 miliardi di persone nel mondo e un’unica anima gemella. Giusto?

 

Psicologia dell'amore: 7 miliardi di persone nel mondo e un'unica anima gemella. Giusto? - Immagine: © puckillustrations - Fotolia.com Se da tempo stai aspettando di incontrare l’anima gemella ma proprio non la trovi, questo potrebbe in realtà essere un segno a tuo favore. Sembra infatti che la forte convinzione che esista un destino in amore che ci faccia incontrare la persona giusta sia in realtà dannosa per la persona stessa e per le sue relazioni.

È quello che ci dice lo psicologo Bjarne Holmes, professore associato al Champlain College, nello stato del Vermont, Stati Uniti, in un suo podcast della serie “Relationship Matters” – prodotto del Journal of Social and Personal Relationships. Secondo l’autore, la credenza di avere trovato l’anima gemella è correlata a una serie di pensieri non sani e poco utili alla propria vita sentimentale.

Vediamo più nel dettaglio. Ci si innamora e si incomincia una relazione. Ogni relazione attraversa dei processi e delle fasi che tendono normalmente a susseguirsi. L’amore romantico, quello che ti fa battere il cuore e pensare continuamente alla persona amata dura solo qualche mese. Ciò che conta è quello che accade dopo!

Ken, il fidanzato perfetto. Ecco perché non lo comprerei mai alle mie figlie. - Immagine: © 2012 Costanza Prinetti
Articolo consigliato: Ken, il fidanzato perfetto. Ecco perché non lo comprerei mai alle mie figlie.

Come reagirai quando la tua anima gemella tanto attesa e desiderata comincerà a sembrare un po’ meno perfetta?

Secondo Holmes, le persone che hanno delle forti credenze nel destino sono più inclini a perdere interesse per il partner e ad abbandonare la relazione molto più velocemente quando questa inizia ad apparire meno rosea. La spiegazione è semplice: chi pensa “è scritto nel destino se dobbiamo stare insieme oppure no” è chiaramente più incline a vedere gli aspetti negativi del rapporto e a interpretarli come segni che, dopotutto, la loro metà forse non è forse quella “vera”. D’altro canto, se eravate predestinati a stare insieme, perché doversi sforzare tanto per fare funzionare la storia?

Possiedi una mentalità orientata alla soluzione dei problemi?

Sei una persona che naturalmente ha un atteggiamento mentale di risoluzione dei problemi di fronte a un’avversità? In altre parole, riesci a vedere sia gli aspetti positivi che quelli negativi come allo stesso modo parte della vita? Ogni relazione andrà, infatti, incontro a delle difficoltà e sarà come si reagisce di fronte ad esse a fare la differenza. Può sembrare una banalità, ma il miglior predittore di una relazione duratura è proprio la capacità di far fronte ai disaccordi.

Cosa fare allora per chi crede che l’anima gemella esista davvero? Rassegnarsi? Accontentarsi? Il prof. Holmes ci dà dei consigli anche su questo:

Chiediti che tipo di atteggiamento hai: credi che le cose accadono se devono accadere oppure no o pensi che accadano come conseguenza di quanto sforzo e lavoro ci sia dietro? Prova anche capire che cosa puoi controllare e che cosa no e sii consapevole che per essere bravi in qualcosa (incluso nelle relazioni) è necessaria molta pratica e molta fatica alle spalle.

Inizia a vedere il tuo lavoro sulla relazione in maniera romantica! Non c’è alcuna anima gemella predeterminata che aspetta di essere trovata. Detto ciò, nel corso del tempo, potrai certamente provare la sensazione e il sentimento che una specifica persona sia la tua anima gemella. Quella sensazione arriva proprio dal lavoro insieme, dal compromesso e dall’imparare a capire il tuo partner profondamente.

Le persone che credono nel destino sono anche quelle che più probabilmente credono anche nella capacità dei membri della coppia di leggersi reciprocamente la mente, senza che ci sia bisogno di parlare – “Se lui è davvero la mia metà, capirà sicuramente di che cosa ho bisogno”. Questo tipo di pensiero è spesso associato ad altri, come il fatto che donne e uomini abbiano bisogni diversi nella relazione, quando di fatto non ci sono ricerche scientifiche in merito a ciò, o che il sesso nel rapporto sia sempre necessariamente positivo – le ricerche ci dicono invece che il sesso cambia con il cambiare della relazione; una buona vita sessuale ha anch’essa bisogno di essere rinforzata e richiede continua pratica.

 

 

BIBLIOGRAFIA: 

Memoria di Lavoro: Per quanto pensi di restare concentrato su quel che stai leggendo?

– Rassegna Stampa – 

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze PsicologichePensi di riuscire a rimanere concentrato su questo post per i prossimi 60 secondi?  

Secondo un nuovo studio pubblicato sulla rivista Psychological Science questo dipende dalla quantità di memoria di lavoro che ti è necessaria.

La memoria di lavoro è la nostra capacità di trattenere le informazioni per un breve periodo di tempo, diversi studi dimostrano che varia da persona a persona, cambia nel corso della vita ed è correlata a differenze individuali nelle abilità intellettuali; ora uno studio dimostra che la capacità della nostra memoria di lavoro è direttamente correlata alla frequenza con la quale la nostra mente vagabonda.

I ricercatori, Daniel Levinson e Richard Davidson della University of Wisconsin–Madison e Jonathan Smallwood del Max Planck Institute for Human Cognitive and Brain Sciences hanno chiesto ai partecipanti all’esperimento di premere un pulsante quando vedevano una lettera apparire sullo schermo del computer; il compito era costruito in modo da non impegnare mai tutta l’attenzione dei partecipanti, ai quali periodicamente durante lo svolgimento del compito veniva anche chiesto se erano attivamente concentrarsi sul compito o se invece stavano pensando a qualcos’altro. I ricercatori hanno anche misurato la capacità di memoria di lavoro di ogni soggetto, testando la sua capacità di ricordare una serie di lettere intervallate da problemi di matematica di base.

I risultati indicano chiaramente che i soggetti con una maggiore capacità di memoria di lavoro riferivano anche di essersi distratti più frequentemente durante lo svolgimento del compito; questo dato suggerisce che la memoria di lavoro può effettivamente consentire pensieri “fuori tema” senza che lo svolgimento del compito ne risenta, sembra infatti che quando il compito è semplice chi dispone di ulteriori risorse all’interno della memoria di lavoro le utilizzi per pensare ad altro; mentre quando il compito è semplice ma affollato di distrattori sensoriali il legame tra memoria di lavoro e la tendenza a vagare con la mente scompare; e anche quando il compito si fa più complesso gli stessi soggetti che precedentemente tendevano a vagabondare con la mente si mostrano maggiormente concentrati.

Questo significa che la memoria di lavoro lavora sempre al massimo della sua capacità e che se non viene del tutto impegnata in un compito si mette a vagabondare impegnandosi in temi secondari, facendoci così correre il rischio di perdere di vista l’obiettivo principale. Levinson sta ora studiando come l’allenare l’attenzione per aumentare la memoria di lavoro influenzerà la tendenza della mente a vagabondare, “il vagabondare della mente ha un costo perchè impegna delle risorse, si tratta di decidere come impegnare queste risorse e indirizzarle”.

 

 

BIBLIOGRAFIA: 

Psicologia delle Favole: Intermezzo con Attenti al Lupo (Lucio Dalla)

 

Psicologia delle Favole: intermezzo con Attenti al Lupo (Lucio Dalla). - Immagine: © Olga Drozdova - Fotolia.com Per molti appassionati di Lucio Dalla Attenti al Lupo è stato un infortunio facile e commerciale. Su di me, reduce da altri snobismi musicali (troppa musica nera), questa schizzinosità forse fa meno presa. È vero che ascoltando questa canzone qualche dubbio può venire alla mente. È vero che quel ritmo dance sul battere senza troppe oscillazioni ritmiche può essere troppo facile (e però com’è rilassato e leggero: non ha la sincope epilettica del rock, ma forse ha qualcosa della leggerezza dondolante dello swing). È vero che quel testo di lupi e bambini nel bosco sembra infantile. È vero che quell’armonia in modo maggiore che si limita a trascolorare ben poco audacemente nel corrispettivo minore e poco più non ha nulla d’inaspettato: modula con la prevedibilità di un tram che arriva in orario.

Oppure no?

L’estetica della crudeltà in Out di Roee Rosen
Articolo consigliato: L’estetica della crudeltà in Out di Roee Rosen

Non ne sono sicuro. Quell’intristirsi dell’armonia al minore quando Dalla canta “con due occhi grandi per guardare” e poi “con dentro un sogno da realizzare” ha una dolce malinconia che m’incanta. E poi la storia cantata da Dalla mantiene quel qualcosa di minaccioso che è delle favole. E questo sapore perturbante è immerso nel miele di un racconto per bambini.

E infine, qualche verso più in la, il raddrizzarsi quietamente della melodia sopra l’eccesso di zucchero sparso fino a quel momento quando Dalla canta con tono più deciso: “amore mio non devi stare in pena / questa vita è una catena / qualche volta fa un po’ male”. E anche l’armonia si fa più (lievemente) audace, con una modulazione fino al più armonicamente lontano -ma non lontanissimo- la maggiore che declina ancora in una nuova malinconia in re minore.

La canzone “Attenti al Lupo” è consapevolmente una filastrocca infantile.

E, come in tutte le canzoni e le favole per i bambini, in essa serpeggia una minaccia. Come ci ha spiegato lo psicoanalista Bruno Bettelheim, grande studioso delle fiabe, in questi racconti il bambino incontra i grandi problemi umani (il bisogno di essere amati, la sensazione di essere inadeguati, l’angoscia della separazione, la paura della morte e così via) ma la fragilità infantile li tinge di un colore terrifico.

In Lucio Dalla, però la minaccia della favola è illuminata da un sole italiano disteso sulla campagna emiliana. Lucio Dalla non è Mahler, che fa scricchiolare nelle sue filastrocche un orrore sinistro e terrificante di agnelli portati al macello. Nella canzone di Dalla risuona semmai l’affanno e la fatica del vivere in una civiltà umana (“questa vita è una catena / qualche volta fa un po’ male”).

La natura è stata domata fin dal tempo dei romani lungo la via Emilia, ma la fatica rimane.

 

 

BIBLIOGRAFIA:  

  • Bettelheim, B. Il mondo incantato: uso, importanza e significati psicoanalitici delle fiabe (tr. it. Andrea D’Anna, The Uses of Enchantment: The Meaning and Importance of Fairy Tales, 1976), Feltrinelli, Milano 1977.

Le canzoni nei giardini che nessuno sa. Gruppo di Ascolto in Ospedale #2

 

Niente paura, ci pensa la vita mi han detto così…
Niente paura, Luciano Ligabue, 2007

 

LEGGI LA PRIMA PARTE DELL’ARTICOLO.

Le canzoni nei giardini che nessuno sa. Gruppo di Ascolto in Ospedale #2. - Immagine: © Freesurf - Fotolia.comMolti dei pazienti gravi che passano dal reparto dove lavoro a Villa Igea (il mitico reparto 40…chiamare il reparto per numero ha un po’ sapore di padiglione manicomiale, per questo alcuni reparti sono stati ribattezzati con nomi di alberi: la Quercia, il Nespolo, etc…) fanno ricoveri ripetuti a distanza di mesi o anni e il gruppo di ascolto musicale rappresenta un buon punto di osservazione per i cambiamenti delle persone nel tempo. Molto spesso si notano importanti differenze nella percezione delle canzoni anche tra l’inizio e la fine del ricovero. Vediamo qualche esempio.

 

 

Le Canzoni nei giardini che nessuno sa. Gruppo di Ascolto Musicale in Ospedale. - Immagine: © spiral - Fotolia.com
Articolo consigliato: Le Canzoni nei giardini che nessuno sa. Gruppo di Ascolto Musicale in Ospedale #1

M è una donna di quarantanove anni, affetta da epilessia e da una grave forma di depressione con idee autolesive esordita dopo che il figlio ventenne, tossicodipendente, si è suicidato in carcere. Un dolore immenso. La prima volta che ha partecipato al gruppo è scappata fuori dalla sala in lacrime durante le prime note di Pensieri e parole (1971) di Lucio Battisti, in quanto il brano le provocava una nostalgia troppo intensa del figlio, appassionato del cantautore di Poggio Bustone. Nel ricovero successivo a distanza di un anno, dovuto più a problematiche di contesto famigliare che a uno stato depressivo, M è riuscita a partecipare al gruppo e ad ascoltare Il mio canto libero (1972) segnando sulla scheda di provare tantissima tristezza e nostalgia, mista però a gioia, serenità ed estasi. Ha riportato durante l’ascolto di avere avuto l’immagine di “Un angelo che mi guardava” e che questo le faceva un effetto positivo. Nei mesi era avvenuta l’elaborazione psicologica della perdita e anche uno stimolo così potente come l’ascolto della canzone preferita del figlio era diventato per lo meno sopportabile.

Lo stesso brano a L, quarantadue anni, due figli piccoli affidati al marito, affetta da una grave forma di psicosi paranoide e inserita da due anni in una residenza psichiatrica ha fatto un effetto decisamente più negativo. Le ha suggerito l’immagine di “Avere una gabbia intorno alla testa”, provando tristezza e mancanza di speranza perché sta male dall’età di ventiquattro anni e ha avuto un percorso costellato da ricoveri, cambi di terapie e ricadute. La gabbia sottolinea come la malattia mentale grave possa privare della propria libertà. Ma l’immagine così forte mi ha fatto venire in mente che anche l’istituzione manicomiale non esitava a usare gabbie per la testa. Nel museo della storia della psichiatria del San Lazzaro di Reggio Emilia è ancora visibile il cosiddetto “casco del silenzio”1, una cuffia dotata di una sorta di museruola che impediva alle persone di urlare, ma anche di parlare.

Il mio Psicoterapeuta suona il Rock! - Immagine: © Isaxar - Fotolia.com -
Articolo consigliato: Il mio Psicoterapeuta suona il Rock!

Anche per D, un uomo di 35 anni, affetto da disturbo di personalità dipendente e depressione grave con diversi e seri tentativi autolesivi, avvenuti in seguito all’abbandono da parte dalla moglie dopo avere avuto il primo figlio, la partecipazione al gruppo è stata molto difficile all’inizio. Al primo incontro a cui ha partecipato non riusciva a tollerare l’ascolto delle canzoni. Alla fine del percorso, anche grazie al lavoro psicologico individuale, ascoltando Ho imparato a sognare (2003) dei Negrita, ha provato tristezza e malinconia rivedendo “immagini di un tempo ormai passato quando io e la mia ragazza stavamo insieme”, anche in questo caso decisamente più tollerabili.

 

 

La saggezza del Rock' n' roll. - Immagine: © Isaxar - Fotolia.com
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A volte le canzoni hanno un effetto addirittura miracoloso (seppure temporaneo…purtroppo). B, ad esempio, è una donna di quarantatrè anni ricoverata per un grave stato depressivo ricorrente e con precedenti tentativi autolesivi (flebotomia e ingestione incongrua di farmaci). Presenta spiccati tratti di personalità dipendente e l’attuale ricaduta è in relazione alla fine di una storia sentimentale durata quindici anni, seppur tra separazioni e riunioni. Il motivo della rottura è stato che lei voleva sposarsi o andare a convivere, ma lui non voleva. L’ascolto della canzone Willy il Coyote (1993) di Eugenio Finardi l’ha portata a guardare per la prima volta la propria situazione con un certo distacco, a identificarsi con Willy il Coyote, che le prova tutte per raggiungere il proprio obiettivo (nel caso della paziente di sposare il fidanzato), ma gli va sempre storta.

A questo punto non possiamo non spendere qualche parola sul rapporto tra umorismo e disagio psichico.

L’ironia può essere talvolta portatrice di una “sana trasgressione” dell’ordine delle cose, che può favorire una ricostruzione creativa e rivitalizzata della propria realtà interrelazionale e intrapsichica, determinando anche la rottura di schemi stereotipati (Querini e Lubrani, 2004).

Musica & Terapia: "La prossima volta porti la chitarra". - Immagine: © RA Studio - Fotolia.com
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Seguendo le indicazioni provenienti da altri contesti musicoterapeutici (Manarolo G., 1995) di solito sui tre brani che si ascoltano parto sempre da un brano non troppo impegnativo emotivamente (almeno secondo il mio giudizio), per poi affrontare un brano più evocativo e terminare con uno abbastanza spensierato, anche per non lasciare “ferite aperte” per il pomeriggio (il gruppo si tiene dalle 13 alle 14), quando la presenza di medici e psicologi è ridotta.

Un brano con cui a volte ho terminato l’incontro è stato Il cielo è sempre più blu (1975) di Rino Gaetano. A questo proposito mi ha colpito la scheda di M, 38 anni, affetto da disturbo bipolare in fase depressiva, che ha provato molta speranza, spensieratezza e gioia, scrivendo tra i pensieri “datemi la formula per incarnare questa canzone in tutte le situazioni”.

Un altro brano molto rassicurante è Niente paura (2007) di Ligabue. Mi è capitato di ascoltare questa canzone insieme a N, un uomo di quarantacinque anni che seguo in psicoterapia, affetto da depressione maggiore, mentre si trovava in un momento di particolare difficoltà relazionale con la compagna. Ascoltare la canzone insieme è stato molto emozionante e N si è commosso più volte durante l’ascolto. Credo che questa condivisione ci abbia fatto fare un passo avanti nella relazione terapeutica e la volta successiva mi ha riportato che durante la settimana si è spesso ripetuto mentalmente il ritornello “Niente paura…niente paura”, come un mantra, con un effetto rassicurante.

Un altro brano di Ligabue che ascoltiamo spesso è Non è tempo per noi (1990) il cui incipit è veramente denso di significati nella sua semplicità (questo del resto è il segreto delle canzoni ben riuscite e che rimangono nel tempo): “Ci han concesso solo una vita…”. E’ capitato diverse volte che pazienti con pregressi tentativi autolesivi o con gravi problematiche legate all’abuso di sostanze o altri comportamenti a rischio si soffermassero su queste parole segnandole sulla scheda. Sembra una frase banale, ma saggiamente i pazienti mi hanno fatto capire come sia importante ricordarselo.

Uno dei pregi della canzone è quello di dare più leggerezza a tematiche importanti e impegnative. Ad esempio R, uomo di trentacinque anni, ricoverato per un grave disturbo dismorfofobico con aspetti di personalità evitanti, ascoltando Si viaggiare (1977) di Lucio Battisti si è soffermato sulla frase “dolcemente viaggiare, rallentare per poi accelerare”, riportando di provare moltissima leggerezza e segnando sulla scheda “Ho pensato a questo momento di difficoltà della mia vita in cui sto frenando (come dice la canzone) e che devo poi accelerare (nel senso tornare a vivere)”.

Psicantria - Copertina disco -
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Il gruppo di ascolto offre spesso una fonte di stimoli da affrontare e approfondire poi durante le sedute psicoterapiche individuali. Ad esempio R, donna di quarantaquattro anni, ricoverata per alcolismo e disturbo di personalità depressivo, durante l’ascolto di My Way (1968) di Frank Sinatra ha provato un mix di emozioni che comprendono moltissima tristezza, nostalgia, speranza, gioia, potenza, piacere e molta calma, serenità e grandiosità. Una vera tempesta emotiva! Come immagini ha segnato “mi ricorda un immagine in bianco e nero di un gruppo di operai alla pausa pranzo che mangiano seduti su una traversa sospesa nel vuoto”2 (probabilmente si tratta della famosa foto scattata nel 1932 a New York durante la costruzione del Rockfeller Center). Si tratta di un’ immagine in cui si percepisce un evidente senso di precarietà e infatti tra i pensieri ha riportato “mi preoccupa un po’ non aver trovato ancora la mia strada…ma forse faccio ancora in tempo”. Tali tematiche sono poi state effettivamente riprese durante le sedute con la psicoterapeuta.

Le esperienze più negative nel gruppo (ma direi estendibili a diversi gruppi terapeutici) si sono verificate con pazienti affetti da disturbo di personalità narcisistico grave, in cui si presentano spesso aspetti di svalutazione, di disgusto e di invidia distruttiva (Kernberg, 1998; Dimaggio e Semerari, 2011). Mi ricordo ad esempio un paziente di quarantaquattro anni, affetto da depressione e disturbo di personalità narcisistico, che all’ascolto di Certe Notti (1997) di Ligabue ha fatto un pesante attacco svalutativo nei confronti del gruppo terapeutico in quanto a suo avviso tale brano lo rimandava a “certi posti nella bassa, pieni di gente che beve” e per quello ascoltare tale canzone sarebbe stato deleterio per le persone ricoverate per alcolismo. In quel caso gli alcolisti presenti gli hanno fatto notare come fosse una sua personale associazione quella tra alcol e Certe Notti, non condivisa dagli altri. E la musica è ripartita.

 

 

BIBLIOGRAFIA:  

  • Querini P., Lubrani F. Ironia, umorismo e disagio psichico. Franco Angeli, 2004
  • Kernberg, O. (1998), Narcisismo patologico e disturbo narcisistico di personalità, in Ronningstam, E. F., I disturbi del narcisismo, Raffaello Cortina, Milano, 2001.
  • Dimaggio G, Semerari A. (2011). I disturbi di personalità. Modelli e trattamento. Laterza
  • Manarolo G. (1995). L’angelo della musica. Musicoterapia e disturbi psichici. Omega Edizioni

 

MATERIALI: 

Memorie Traumatiche e Ruminazione

 

Memorie Traumatiche e Ruminazione. - Immagine: © PZDesigns - Fotolia.com - In un articolo recente, le diverse forme di ruminazione sono state indagate nei pensieri intrusivi conseguenti a esperienze traumatiche (Santa Maria et al, 2012). In accordo con la teoria di Watkins (2008, dedicata particolarmente alla ruminazione nei pazienti depressi…) sembra che Santa Maria e i colleghi della University of Amsterdam abbiamo mostrato come ruminare in modo astratto sulle memorie traumatiche prolunga i sintomi post-traumatici e mantiene “attivi” i pensieri legati all’esperienza traumatica.

Sembra, infatti, che sia proprio la modalità con cui le persone ripensano ripetitivamente alle proprie esperienze traumatiche (e non il fatto stesso di farlo) ad essere critica nel mantenimento dei sintomi post-traumatici e al loro prolungamento nel tempo.

Psicologia e Tecnologia: nuova App per Smartphones contro la Depressione. - Immagine: © 2012 Costanza Prinetti
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Così come avevamo già scritto su State of Mind (Come o Perchè? E il Pensiero Depressivo) per la depressione, anche con le persone che presentano sintomi post-traumatici una modalità di tipo concreto-esperienziale sembra aiutarle a “lasciar andare” le memorie traumatiche.

La ricerca prevede che i partecipanti ripensino a una propria esperienza negativa e di selezionare un “momento bersaglio”, che deve rappresentare il momento di maggior distress. Viene quindi chiesto loro di chiudere gli occhi e di immaginare, nel modo più vivido possibile per trenta secondi, il momento scelto lasciando “emergere” le immagini e le emozioni così come vengono, senza sforzarsi nella loro soppressione. Questo “momento bersaglio” viene scelto come trigger intrusivo (cioè come “grilletto” attivante i pensieri intrusivi) e attivante le memorie traumatiche.

Una volta scelto l’evento trigger, viene ripetuto il compito. In seguito, viene chiesto ai partecipanti di scrivere un breve resoconto della propria esperienza negativa. I partecipanti sono stati divisi in due gruppi, ad alcuni di loro è stato chiesto di scrivere il resoconto in modo concreto-esperienziale e ad altri di scriverlo in modo astratto-valutativo. Ad entrambi i gruppi sono state presentate delle domande preliminari volta a indurre uno stile di pensiero o l’altro (nella forma nota dei HOW e dei WHY ). In conclusione, viene svolto di nuovo l’esperimento immaginativo iniziale.

I risultati? In breve, la modalità di pensiero ripetitivo astratta (che corrisponde alla modalità WHY) ha portato a una maggior persistenza delle memorie intrusive, e tale maggior persistenza permane anche a 36 ore dopo la conclusione dell’esperimento. E pensiamo che l’esercizio immaginativo è durato 30 secondi! I ricercatori hanno, inoltre, rilevato livelli di distress moderatamente alti, nella maggior parte dei partecipanti; infine, le emozioni e le immagini elicitate dell’esercizio immaginativo iniziale ha avuto un impatto sullo stato emotivo dei partecipanti, più marcato nel gruppo “astratto”/WHY.

Sembra davvero che pensare in modo ripetitivo astratto, giudicante e focalizzato sui “perché” sia dannoso per tante persone con difficoltà e sofferenze diverse…

 

 

BIBLIOGRAFIA: 

  • Santa Maria, A., Reichert, F., Hummel, S.B. & Ehring, T. (2012). Effects of rumination on intrusive memories: Does processing mode matter?. Journal of Behavioral Therapy & Experimental Psychiatry. 43. 901-909.
  • Watkins, E. (2008). Constructive and unconstructive repetitive thought. Psychological Bulletin. 134. 163-206.

PTSD: Insulino-Resistenza e Sindrome Metabolica

FLASH NEWS

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

Pazienti con PTSD hanno un rischio più elevato di sviluppare resistenza all’insulina e sindrome metabolica, con rischio di malattie cardiache e diabete.

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Se inizialmente il PTSD era riservato ai veterani di guerra, ora sta rapidamente emergendo come un disturbo diffuso al di fuori della popolazione dei veterani. L’Istituto Nazionale di Salute Mentale stima che quasi 8 milioni di americani abbiano un PTSD.

Secondo una ricerca presentata American College of Cardiology’s 62nd Annual Scientific Session i pazienti con diagnosi di disturbo post-traumatico da stress (PTSD) hanno un rischio significativamente più elevato di sviluppare una resistenza all’insulina e la sindrome metabolica, questo li espone a maggior rischio di malattie cardiache e diabete.

Questo studio retrospettivo ha incluso 207.954 veterani nel sud della California e del Nevada tra i 46 e 74 anni di età (93% maschi) con e senza PTSD. Tutti i soggetti sono stati individuati nel contesto delle cure primarie e non avevano una storia nota di malattie cardiache o diabete. I soggetti sono stati seguiti per una media di due anni per verificare se avevano sviluppato una resistenza all’insulina, che contribuisce a indurimento delle arterie e aumenta il rischio di attacco di cuore, e / o sindrome metabolica, un insieme di condizioni, tra cui aumento della pressione sanguigna, alti livelli di glicemia, grasso corporeo in eccesso, e livelli di colesterolo anomali che aumentano il rischio di malattie cardiache, diabete e ictus. Tutti i dati sono stati raccolti attraverso la Veterans Administration in cartelle cliniche elettroniche.

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Trauma: Problema Diagnostico. - Immagine: © udra11 - Fotolia.com
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Al follow-up, l’insulino-resistenza era significativamente più alta nei soggetti con PTSD: (35% rispetto il 19% dei soggetti senza PTSD). Analogamente, la sindrome metabolica era significativamente più probabile nel gruppo PTSD (53% rispetto al 38% della popolazione non-PTSD). Dopo un aggiustamento dei punteggi per età, sesso, etnia, pressione alta, colesterolo alto e storia familiare di malattia coronarica prematura e l’obesità, il PTSD era ancora indipendentemente associato a tassi più elevati di resistenza all’insulina e di sindrome metabolica.

“Dal momento che la resistenza all’insulina e la sindrome metabolica possono essere invertite durante le fasi preliminari del trattamento modificando lo stile di vita, con la dieta e l’esercizio fisico, è importante che tutti i pazienti a rischio vengano identificati precocemente”, ha detto Ramin Ebrahimi, professore di medicina alla University of California e co-ricercatore a capo dello studio. “I nostri risultati mostrano che il PTSD è di per sé un importante predittore indipendente di queste condizioni in entrambi i sessi.”

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 L’ attuale trattamento del PTSD è in genere limitato alla gestione dei sintomi psichiatrici, ma alla luce di questi risultati Ebrahimi si dice a favore di un approccio più integrato alla cura dei pazienti affetti da PTSD: “Focalizzando l’attenzione sulla diagnosi precoce e la gestione delle condizioni mediche PTSD-correlate, compresi i disturbi metabolici e l’aterosclerosi, in combinazione con disturbi psichiatrici PTSD-correlati, gli eventi medici e psichiatrici a lungo termine avversi legati al PTSD possono essere significativamente ridotti o impediti”.

Nonostante non si sappia ancora cosa lega PTSD, insulino-resistenza e disturbi metabolici, i ricercatori sospettano che, come in altre condizioni mediche, l’infiammazione e la disfunzione vascolare possono essere coinvolte in questo meccanismo. In ultima analisi, anche le variazioni nei livelli ormonali e i fattori generici potrebbero avere un peso.

I ricercatori stanno anche studiando il rapporto tra trattamento precoce del PTSD e lo sviluppo di resistenza all’insulina e di sindrome metabolica, così come il rapporto di gestione simultanea psichiatrica e medica di PTSD e disturbi metabolici e gli esiti clinici come infarto, ictus e morte.

 

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 PTSD – Disturbo da Stress Post-Traumatico – NEUROPSICOLOGIA – GENDER STUDIES

 

BIBLIOGRAFIA:

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