L’esercizio della compassione e i suoi effetti sul senso morale.
– Rassegna Stampa –
Secondo un nuovo studio pubblicato su Psychological Science sopprimere il proprio senso di compassione porta a perdere un po’ del proprio impegno morale. Secondo gli autori dello studio Daryl Cameron e Keith Payne della University of North Carolina, sopprimere la compassione, come quando decidiamo di ignorare le richieste di un mendicante per strada perchè abbiamo fretta o perchè vogliamo risparmiare i nostri spiccioli o ancora per non incoraggiare questo fenomeno o quando cambiamo canale in televisione per non lasciarci coinvolgere da scene di bambini affamati in terre lontane, non è un comportamento privo di conseguenze ma ha un costo personale che scontiamo in termini di perdita di moralità.
L’esperimento condotto prevedeva che a tutti i partecipanti venisse mostrata una sequenza di 15 immagini che comprendeva persone senza fissa dimora, bambini che piangono e vittime di guerra e carestia. A ogni partecipante è stato assegnato uno di tre compiti: alcuni dovevano cercare di non provare compassione per i personaggi delle immagini, ad altri è stato chiesto di evitare il disagio derivante dal senso di poca moralità della situazione rappresentata, ad altri ancora è stato detto che erano liberi di sentire ciò che spontaneamente provavano; le istruzioni erano dettagliate e insistevano sull’importanza di fare di tutto per eliminare una determinata emozione.
La fase successiva consisteva nel verificare quale era stato l’andamento del loro senso morale nel corso dell’esperimento. I risultati indicano che chi aveva dovuto sopprimere la compassione si era anche sentito più flessibile nel esercitare il suo senso della moralità: secondo i ricercatori questo è dovuto al fatto che sopprimere i sentimenti di compassione provoca dissonanza cognitiva che le persone tentano di risolvere riorganizzando i loro atteggiamenti e credenze sulla moralità.
Il timore di provare emozioni negative e dolorose (ansia, tristezza, colpa) può essere chiaro, comprensibile e seppur in diversa misura, identificabile nella vita quotidiana di ciascuno di noi. Meno immediato agli occhi dei più è il timore delle emozioni positive che tuttavia sembra giocare un ruolo di rilievo nel mantenimento del malessere psicologico e ostacola in modo attivo il buon esito degli interventi medici e psicoterapeutici. Molte persone temono proprio quelle emozioni piacevoli (eccitazione, felicità, tranquillità) che sentono mancare nella propria vita quotidiana e in modo più o meno consapevole mettono in atto comportamenti per evitarle (Williams, Chamblers & Ahrens, 1997).
Ma qual è il senso di questo timore? Quale il suo nucleo? Solitamente la base non ha una natura biologica o inconscia ma cognitiva, la differenza si realizza in base a come interpretiamo le emozioni positive e a come vi reagiamo. Le regole che governano queste interpretazioni possono essere diverse.
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Innanzitutto alcuni individui si spaventano perche temono che l’eccitazione li porti a perdere il controllo e quindi quando l’entusiasmo sale tendono a frenarsi e a imporsi un forte e rigido autocontrollo:
“Se mi eccito troppo perdo il controllo delle mie azioni, impazzisco, non capisco più nulla”.
Secondariamente, uno stato di serenità e tranquillità (per esempio nel rapporto affettivo con un compagno/a) può essere interpretato come una condizione di vulnerabilità che richiede l’attivazione di preoccupazioni e paranoie tese a prevenire pericoli e minacce:
“Se sono tranquillo posso essere impreparato quando qualcosa di negativo accadrà, perché sicuramente accadrà, per cui mi devo tenere all’erta e preoccuparmi delle cose negative che potrebbero accadere”.
Infine anche la soddisfazione e la felicità possono essere temute e interpretate come una prova di ingenuità, superficialità, scarso valore personale:
“Non posso restare fermo a godere di queste sensazioni ma devo capire cosa non funziona, dove potrei sbagliare, cosa potrebbe andare male per non sedermi sugli allori ma continuare a migliorarmi”.
L’impatto di queste convinzioni può proiettarsi in modo negativo su diversi disturbi psicologici come il disturbo d’ansia generalizzata o la depressione (Olatunji, Moretz & Zlomke, 2010). La valutazione di queste convinzioni così come interventi terapeutici orientati alla loro discussione critica possono eliminare un importante ostacolo alla riduzione della sofferenza mentale.
BIBLIOGRAFIA:
Olatunji, Moretz & Zlomke (2010). Behavior Research and Therapy 48(5):435-441
Williams, Chamblers & Ahrens (1997). Behavior Research and Therapy, 35(3):239-248
Psicoterapia Cognitiva: “Cosa non le va in questo?” Come iniziare il disputing del pensiero negativo
Il disputing è l’intervento terapeutico che mette in discussione le convinzioni del paziente.
Una volta che il nostro paziente inizia a essere più consapevole del legame tra le sue emozioni di disagio e i suoi pensieri, il passo successivo è semplice. Il paziente può iniziare a sperare che, modificando le sue idee, possa cambiare anche lo stato d’animo. Nel disputing si discute il fondamento logico e/o esperienziale delle opinioni che sono state messe in relazione con gli stati d’animo di ansia, tristezza, timore, e così via.
Occorre però avere ben presenti i parametri da sottoporre a critica. È bene iniziare con domande aperte, secondo la tecnica già vista del laddering, chiedendo semplicemente che cosa non ci va in una certa cosa, dove sia l’implicazione negativa.
T.: Che cosa non le va in questo? Dov’è l’elemento negativo?
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Proseguire a esaminare le implicazioni negative in termini di significati personali e soggettivi è proprio soprattutto della via costruttivista di George Kelly e di altri. In parte è anche la strada di Ellis. Tuttavia lo stile più standard della terapia cognitiva prevede una maggiore concentrazione, almeno all’inizio, non tanto sui significati negativi personali ma sui pericoli concreti temuti dal paziente.
Questo stile oggettivo e concreto ha i suoi vantaggi. È possibile che un grado eccessivo di apertura possa essere alla lunga difficile da mantenere, soprattutto se il paziente tende a esprimersi in termini generici e vaghi. Teniamo conto che il paziente tende effettivamente a esprimersi in termini astratti. La minaccia temuta, lo stato depressivo sono espressi in termini poco definiti. Le cose vanno male, e non si capisce bene in che senso. Qualcosa di brutto potrebbe capitare, e non si sa bene cosa.
In questo caso una strategia più stringente può essere utile. Esplorare sui significati personali troppo precocemente può significare essere attratti nel gorgo della confusa vaghezza del paziente. Chiedere invece al paziente cosa esattamente teme può incoraggiarlo a essere più collegato alla realtà.
Una buona bussola per orientarsi nel pensiero negativo ed evitare le nebbie della confusione è la cosiddetta equazione dell’ansia di Beck, Emery e Greenberg (1985):
ANSIA =
(Probabilità percepita della Minaccia) x (Gravità o Costo percepiti della Minaccia) _____________________________________________________________________
(Capacità percepita di fronteggiare il pericolo) x (capacità percepita di “salvataggio”)
Possiamo facilmente utilizzare l’equazione per strutturare in maniera semplice il disputing.
T.: Che cosa teme esattamente?
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Definire esattamente cosa si teme è sempre importante e non va mai considerata un’operazione scontata. Chiedere un resoconto dettagliato aiuta il paziente a chiarire anche se stesso/a in che modo dovrebbero realizzarsi i pericoli temuti. Molti passaggi sono trascurati o ignorati. Riprendiamo l’esempio della paziente che temeva di morire in un incidente.
P.: Temo di morire in un incidente automobilistico.
T.: Come immagina avvenga questo incidente?
P.: Non ci avevo mai pensato. Mentre guido improvvisamente penso che potrebbe avvenire.
T.: E quando le viene in mente questo cosa immagina?
P.: Vedo me stessa morta sul marciapiede o sulla strada.
T.: Non pensa mai a come accade l’incidente?
P.: No. In realtà vedo me stessa morta dopo l’incidente.
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T.: Magari immaginare come avviene l’incidente può farci capire meglio quanto sia effettivamente probabile questa eventualità. Quanto è probabile che accada questa eventualità?
P.: Non ci ho mai pensato esattamente. Non mi ero posta il problema.
Naturalmente la componente soggettiva rimane elevata. Riflettere su quanto sia probabile rimanere coinvolti in un incidente può portare sollievo ad alcuni ed essere indifferente per altri. Nel cognitivismo standard si chiede esplicitamente al paziente di stimare questa probabilità (Lehay, Holland, 2000).
T.: Quanto è probabile, da 0 a 100, che avvenga questo?
La gravità è ancor più un aspetto soggettivo. Naturalmente se si tratta di ragionare sul timore di sciagure gravi c’è poco da discutere. Molto più attaccabili sono invece altri pensieri negativi focalizzati sulle relazioni sociali o sugli stati interiori.
T.: Definiamo meglio questa eventualità. È così grave? E perché?
Tuttavia anche se si tratta di disgrazie materiali, si può far riflettere il paziente (Lehay, Holland, 2000).
T.: Qual è l’esito peggiore di questa situazione che lei teme?
T.: È l’unico esito possibile? Ce ne sono altri meno terribili?
T.: E qual è l’esito più probabile?
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Anche in tal modo può essere possibile che il paziente inizi a sdrammatizzare i suoi timori. O meglio, che il paziente apprenda a farlo. Ciò che avviene in terapia è un modello che il paziente deve imparare ad applicare nella sua vita di tutti i giorni.
Dopo aver riflettuto su gravità e probabilità degli eventi temuti, si può passare a trattare le capacità di fronteggiamento del paziente. Questo è un parametro che il paziente molto spesso trascura.
La disgrazia è avvertita e temuta come un evento ingestibile che sopraffà il paziente senza alcuna possibilità di risposta. Questo naturalmente a grandi linee. Vedremo come nel caso del paziente ossessivo la situazione si ribalti e il paziente debba semmai puntare all’obiettivo contrario: accettare senza reagire, ovvero senza controllare. Ma in questo caso stimoliamo pure il paziente a incrementare le sue capacità di fronteggiamento.
T.: Ragioniamo anche sulla sua capacità di fronteggiare questo pericolo, di gestirlo, di rimediare in qualche modo. Pensa di non essere capace di reagire in nessun modo?
Un fobico sociale potrà lavorare sulla sua assertività, un depresso sul suo umor nero, un ansioso sulle sue paure. Esercizi di esposizione faciliteranno una miglior consapevolezza della propria capacità di affrontare le proprie paure.
* * *
Occorre quindi incoraggiare il paziente a criticare i suoi pensieri negativi. Tuttavia va usata cautela e delicatezza. Come prima mossa, al terapeuta non conviene confutare e/o criticare attivamente il pensiero negativo del paziente.
Non è consigliabile iniziare un disputing attaccando attivamente le convinzioni negative del paziente, quasi affermando baldanzosamente: Ora le dimostro dove lei sbaglia nel vedere tutto nero. Questa mossa è debole, poiché mette tutto il carico cognitivo ed emotivo del cambiamento sulle spalle del terapeuta. Esordire promettendo di distruggere le convinzioni negative del paziente genera ansia nel terapeuta e aspettative eccessive e forse anche diffidenza nel paziente. Inoltre, come vedremo, la struttura logica delle convinzioni negative del paziente le rendono poco permeabili a una confutazione diretta e attiva da parte del terapeuta.
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La domanda va invece formulata nei termini opposti: in modo che sia il paziente a dover dimostrare che il suo pensiero negativo è plausibile e giustificato. Deve essere lui a farsi carico della sua visione negativa e dimostrare prima di tutto a se stesso prima che al terapeuta che la sua visione negativa è fondata. In tal modo si incoraggia il paziente ad assumere una posizione di distacco critico. Fino a quel momento, il paziente non ha mai esaminato criticamente le basi logiche e/o empiriche dei suoi tristi pensieri. Ne ha dato per scontato il valore di verità, con la stessa rassegnazione che si ha davanti alla definitiva inamovibilità dei fatti. Ora, invece, il paziente può iniziare a pensare che le sue non sono constatazioni di verità di fatto, ma potrebbero essere interpretazioni discutibili. Perché vedere tutto nero?
T.: Riflettiamo insieme. Lei è depresso/ansioso/arrabbiato perché ha una visione negativa delle cose. Ma ora la invito a riflettere su quanto sia fondata questa valutazione negativa.
Invitare a riflettere significa anche invitare a riesaminare criticamente la ragioni del pensiero negativo. Naturalmente il paziente va accompagnato con tranquillità ad assumere questa posizione critica. È vero che è possibile
T.: Riesaminiamo le ragioni delle sue preoccupazioni. Vediamo la ragioni logiche e di fatto che la sorreggono. Quanto è fondata la sua visione negativa?
Il paziente potrebbe invocare il suo stato emotivo. Egli non è arrivato a preoccuparsi per via logica o empirica.
T.: Non ci sono particolari ragioni. Semplicemente sono preoccupato.
Tuttavia possiamo insistere. Il nocciolo non è tanto scoprire le basi logiche del ragionare ansioso o depressivo, ma incoraggiare il paziente ad avere fiducia nella possibilità di mettere in discussione le proprie preoccupazioni utilizzando anche l’arma del pensiero razionale.
Se il paziente non percepisce questa spinta ad assumere un distacco critico dalle sue valutazioni, possiamo e dobbiamo insistere facendo appello proprio al fatto che il paziente si è presentato in terapia.
T.: E’ vero. Ma la invito a riflettere. Il nostro obiettivo è mettere in crisi i nostri pensieri. Finora abbiamo creduto alla nostra ansia. Questo è comprensibile, ma non è obbligatorio. In fondo lei è venuto da me proprio perché in qualche modo ha già pensato da solo che fosse venuto il momento di mettere in discussione un certo modo di pensare.
Se ancora non troviamo una risposta, possiamo anche essere più espliciti nel nostro incoraggiare il paziente a cambiare la sua posizione.
T.: Credo che finora lei abbia dato per scontata questa sua valutazione negativa, come se fosse un fatto. Ma potrebbe essere anche una sua interpretazione. Il bicchiere non è vuoto: è mezzo vuoto, ma anche mezzo pieno. Ha ritenuto che questi problemi siano minacce. Ma potrebbero essere appunto problemi da risolvere, non minacce. Ha ritenuto che gli esiti di queste situazioni siano catastrofici. Ma esistono anche altri possibili esiti. Ha ritenuto di non essere in grado di gestire tutto questo. In base a che? Ha ritenuto di non poter reggere emotivamente questo stress. E ancora le chiedo: come fa a dirlo?
È dunque buona strategia lasciare -almeno inizialmente- la palla in mano al paziente, costringerlo a giustificare la propria negatività in modo da favorire un inizio di distacco critico, non precipitarsi a confutare.
BIBLIOGRAFIA:
Lehay, R. L., Holland, S. J. (2000). Treatment Plans and Interventions ofr Depression and Anxiety Disorders. New York: Guilford Press.
Robichaud, M., & Dugas, M. (2005a). Negative problem orientation (Part I): Psychometric properties of a new measure. Behaviour Research and Therapy, 43, 391-401.
Robichaud, M., & Dugas, M. (2005b). Negative problem orientation (Part II): Psychometric properties of a new measure. Behaviour Research and Therapy, 43, 403-412.
Neuroscienze: Adulti e predisposizione all’accudimento dei bambini.
– Rassegna Stampa –
Secondo uno studio pubblicato sulla rivista NeuroImage che ha coinvolto ricercatori tedeschi, italiani e giapponesi, la predisposizione all’accudimento da parte degli adulti nei confronti dei bambini piccoli sarebbe legata a specifici patterns di attivazione cerebrale.
I ricercatori, grazie all’uso della risonanza magnetica funzionale (fMRI), hanno scoperto che alla sola vista di immagini di volti infantili venivano attivate nei partecipanti allo studio specifiche aree cerebrali, quelle associate a tre diverse funzioni:
Attività premotoria e preverbale: attivazione nella corteccia premotoria e nell’area motoria supplementare, regioni che orchestrano gli impulsi cerebrali che precedono la parola e il movimento.
Riconoscimento facciale: attività nel giro fusiforme, è associata all’elaborazione di informazioni sui volti. L’attivazione di quest’area indica l’accresciuta attenzione al movimento e alle espressioni sul viso di un bambino.
Emozione e ricompensa: attività nell’insula e nella corteccia cingolata, indica eccitazione emotiva, empatia, attaccamento e sentimenti legati alla motivazione e alla ricompensa. Anche altri studi hanno documentato un modello simile di attività cerebrale in genitori che hanno risposto ai loro stessi figli.
Ai partecipanti, sia maschi che femmine e senza figli, è stato anche chiesto come si sentissero durante la visualizzazione dei volti sia adulti che infantili: questi hanno riferito di sentirsi più disposti ad avvicinarsi, sorridere e comunicare con un bambino rispetto ad un adulto, e di sentirsi più felici alla vista di neonati. I risultati ottenuti erano inoltre specifici per la visualizzazione di volti infantili, quindi non venivano replicati alla vista di volti adulti o di cuccioli animali.
Nonostante gli adulti del campione in esame non avessero figli propri, le immagini di volti infantili hanno scatenato quello che i ricercatori definiscono una risposta profondamente radicata di avvicinamento e accudimento. Tale attività cerebrale in adulti senza figli potrebbe indicare che la biologia umana preveda un meccanismo che garantisca ai bambini di sopravvivere e ricevere le cure di cui hanno bisogno per crescere e svilupparsi.
Tuttavia i segnali di disponibilità all’accudimento che appaiono nel cervello di alcuni o di molti adulti non garantiscono che gli stessi patterns di attivazione appariranno nel cervello di tutti gli adulti. Per questo è importante indagare cosa succede nel cervello di coloro che trascurano o abusano e maltrattano i bambini; ulteriori studi potrebbero aiutare a comprendere come mai quello che sembra essere un istinto regolato a livello biologico in alcuni casi risulti inattivo e non funzionante.
Schiena dritta! Come la postura (nostra e degli altri) influenza la soglia del dolore.
Postura & soglia del dolore: dimmi come ti siedi e ti dirò quanto soffri!
Una nuova ricerca a conferma della stretta relazione ed influenza tra mente e corpo. In uno studio pubblicato sul Journal of Experimental Social Psychology, condotto da un gruppo di ricercatori dell’Università di Toronto e Southern, emerge che stare dritti con la schiena aiuta a sopportare meglio il dolore sia fisico che mentale. Di contro, una posizione scomposta ne aumenta la percezione. Inoltre, altro dato interessante è il fatto che guardare una persona con un portamento eretto e deciso aiuta a diminuire la percezione del dolore. I ricercatori hanno posizionato alle caviglie e al braccio dei volontari il bracciale dello sfigmomanometro (lo strumento per misurare la pressione), testando che la postura aiuta il soggetto a tollerare meglio la sofferenza fisica causata del gonfiarsi del bracciale.
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Ad esempio, hanno visto che una specifica posizione yoga, il tadasana, posizione della montagna, permetteva al soggetto di sopportare meglio la sensazione spiacevole e dolorosa derivante dal gonfiarsi del bracciale.
La posizione del tadasana è una figura dello yoga che si raggiunge stando in posizione eretta, piedi uniti (per facilitare la posizione, gambe tese, busto diritto, braccia leggermente discostate dal corpo, mani tese. Occorre contrarre tutto il corpo, dai talloni alla nuca, compresi i glutei. Le braccia sono tese, verso terra, lungo il corpo. È necessario percepire il peso del corpo che si scarica, uniformemente, sui piedi.
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In un secondo momento i ricercatori hanno provato a valutare se questo dato valesse anche durante l’osservazione di una specifica posizione; i partecipanti allo studio sono dunque stati invitati ad osservare la postura dei ricercatori; anche in questo caso è stato posizionato alle caviglie e al braccio dei volontari il bracciale dello sfigmomanometro, quindi lo sperimentatore assumeva di volta in volta posizioni diverse, e anche in questo caso il dato è stato confermato: infatti, se il ricercatore stava seduto con la schiena diritta la soglia della tolleranza del dolore secondario al gonfiarsi del bracciale dello sfigmomanometro aumentava, crollando non appena il ricercatore si sedeva in modo scomposto e rilassato.
I ricercatori hanno parallelamente testato anche la tolleranza della sofferenza emotiva mediante la somministrazione di alcuni questionari self-report e, anche in questo caso, avere una postura diritta correla con una minore percezione della sofferenza. Proviamo a tenere in mente questo dato la prossima volta che litigheremo con il fidanzato: petto in fuori, pancia dentro e schiena dritta, così come ci diceva la nonna, forse ci aiuterà a incassare meglio il colpo e a stare meno male!
Riuscite a immaginare Il Presidente del Consiglio Monti che dice: “Solo in questo paese succede che…”, “Solo in Italia…”, “L’Italia non è un paese normale…”?
Noi no. Si dice che Monti abbia uno stile diverso. Probabilmente è così. E proprio la difficoltà di immaginarselo mentre si abbandona alle compiaciute autoflagellazioni che taluni scambiano per autocritica può essere una prova. La tranquillità di Monti mal si adatta all’irritato compiacimento, al narcisismo rovesciato dell’autodenigrazione catastrofica.
C’è qualche analogia con una teoria psicologica cognitiva della depressione. Si tratta dell’ipotesi di Edward Watkins (2004), il quale differenzia due tipi di pensiero.
Il pensiero di tipo “why”, che affronta i problemi cercando spiegazioni globali e- come direbbe Ellis- “definizionali” in quanto approda a descrizioni di sé e del mondo negative e distruttive.
Al suo opposto il pensiero di tipo “how”, che è più propriamente funzionale perché tenta di trovare soluzioni pratiche senza cercarle in una faticosa auto-analisi delle proprie supposte mancanze o colpe(Watkins, 2004). Una esposizione più dettagliata la trovate qui: Come o Perché? E le conseguenze per il pensiero.
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Detto questo, in realtà le cose non sono così semplici. Definirsi rimane un bisogno umano che ricerchiamo malgrado i suoi aspetti negativi e deprimenti. Forse per questo indulgiamo in lunghe ruminazioni: preferiamo denigraci, a volte, piuttosto che non pensare nulla di noi stessi. Uno strano senso di disorientamento, una sottile angoscia ci coglie quando realizziamo l’esercizio un po’ zen e un po’ anglo-sassone di astenerci da qualunque pensiero non pratico.
Un giorno qualcuno dovrà tentare una riflessione più profonda sulla portata storica di questa potente visione del mondo metà buddista e orientale e metà pragmatica e americana che sempre più si sta imponendo come unico stile sociale accettabile: uno strano stato mentale (anglo-schizoide, diceva lo psicoanalista Davide Lopez) che unisce in sé imperturbabilità, grandissima brillantezza sociale unita a una singolare assenza di intimità. Avete mai notato la spettacolare capacità cinematografica e holliwoodiana che hanno molti anglo-sassoni di catturare l’attenzione dell’interlocutore e di parlare socialmente? E al tempo stesso la sensazione che danno di non avere davvero rivelato la loro intimità?
Esageriamo naturalmente. Si tratta di mezze verità. Stereotipi. Ma riflettiamoci su. Ogni verità è anche un pregiudizio, e viceversa. E comunque lo aveva notato anche Leopardi nel “Discorso sullo stato presente dei costumi degli italiani” (Leopardi era un genio assoluto e non solo un poeta).
Tutto questo è poco europeo e per niente italiano. Intendiamoci: un modello di comportamento sociale alla Monti più trattenuto e misurato, dopo la scorpacciata di caos emotivo della politica e della società italiana degli ultimi decenni, ci fa bene. Ma interrogarsi su quel che si è davvero rimane un bisogno non del tutto ozioso,e mi pare sia un bisogno europeo e italiano. Felicitazioni e complimenti agli anglo-sassoni che riescono a farne a meno, ma alla lunga questo non fa per noi. Cavarsela con il vuoto zen può essere una soluzione solo temporanea. Forse il vero sé non esiste e cercarlo è un esercizio inutile. Ma anche recitare un copione non tagliato sul nostro carattere nazionale può essere altrettanto sbagliato. Fermo restando che con Monti si può rifiatare e godere un po’ di ristoro emotivo dall’otto volante della storia italiana.
La tecnica dell’ABC è molto diffusa in ambito cognitivista, sia perché rappresenta una base fondamentale per l’assessment e per la psicoterapia, sia perché la sua potente semplicità la rende uno strumento applicabile e molto utile ad un range molto vasto di pazienti con caratteristiche psicologiche diverse.
Non mi dilungo sui dettagli della tecnica, perché già descritta e spiegata altrove su State of Mind.
In letteratura ne esistono di diverse forme, utilizzate in fasi diverse della terapia ma che, in breve si possono suddividere in due tipologie: l’ABC comportamentale e l’ABC cognitivo.
L’ABC comportamentale è strutturato in questo modo:
nella colonna delle A vengono inseriti gli “antecedents” (gli antecedenti) di un certo comportamento (situazioni, episodi…);
nella colonne centrale dei B vengono inseriti i “behaviors” (i comportamenti) messi in atto in quella data situazione; vale la pena specificare che il B comportamentale comprende sotto l’etichetta behaviors anche emozioni, pensieri e comportamenti (ahimè fonte di gran confusione per i cognitivisti) (Baldini, 2004)
nella colonna finale dei C, rientrano le “consequences” (le conseguenze) di quel dato comportamento
Un ABC comportamentale potrebbe configurarsi in questo modo:
A (Antecedents)
B (Behaviors)
C (Consequences)
Sono a casa da solo
Noia
Abbuffata
Vomito
Colpa
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Più interessante, a parere di chi scrive, il noto ABC cognitivo, utile per individuare insieme al paziente le sue convinzioni (credenze) funzionali o, soprattutto in clinica, disfunzionali (nel senso di “poco utili”, in rapporto agli scopi e ai bisogni del paziente, come illustra Giovanni Ruggiero nel suo articolo).
In sostanza, l’ABC cognitivo è così impostato:
nella colonna delle A vengono inseriti gli “antecedents” (gli antecedenti), ovvero situazioni, episodi ma anche stati emotivi situazionali (come, ad esempio, “sto provando ansia”); per motivi di semplicità espositiva, non divido gli ABC primari e secondari, di specifico interesse clinico.
nella colonna centrale dei B vengono inseriti i “beliefs” (le credenze), pensieri (più o meno automatici) che il paziente “produce” per dare significato all’A antecedente;
nella colonna finale dei C, rientrano le “consequences” (le consegueze) in termini emotivi (“cosa provo”) e comportamentali (“cosa faccio”) influenzate dalle credenze in B.
A questo punto l’ABC cognitivo si configura così:
A (Antecedents)
B (Beliefs)
C (Consequences)
Sono a casa da solo.
Non sopporto di stare senza far niente.
Mi sento inutile.
Emotive: Noia
Comportamentali: Abbuffata
Leggendo un articolo di Spagnulo e Marchi (2010), prendo spunto dalle loro riflessioni sull’ABC e trovo una terza forma di ABC, ispirata alla cosiddetta terza ondata del cognitivismo: l’ABC che potremmo definire “della scelta”.
Prendendo come riferimento gli approcci cognitivisti che si rifanno alla Relational Frame Theory (Hayes, 2001), che sostengono che non sia tanto il contenuto delle nostre credenze, pensieri o convinzioni a influenzare il disagio e la sofferenza, quanto l’atteggiamento che abbiamo nei confronti dei nostri pensieri, sia esso “agganciato, fuso” oppure “non incastrato, accettante e de-fuso” (Harris, 2011). In altre parole, non sono i pensieri e le emozioni in sé a farmi stare male, bensì il modo con cui li affronto. Se mi sento così agganciato ad uno stato mentale, tanto da considerarlo la realtà assoluta (“ho un pensiero di inadeguatezza” = “sono inadeguato”), questo mi fa stare male e io non ho “spazio mentale” per arricchire e seguire i miei obiettivi personali. Più lottiamo contro i nostri pensieri, più sprofondiamo insieme a loro nelle crisi e nella sofferenza emotiva. Quando invece impariamo ad accettare le nostre convinzioni, emozioni e sensazioni corporee per quello che sono e dirigiamo la maggior parte dei nostri sforzi verso i nostri valori personali, i nostri scopi e obiettivi di vita (piccoli e grandi che siano…), bene questo ci permette di trovare soluzioni più efficaci e funzionali.
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Non tutti sono d’accordo con questa ipotesi teorica (e di teoria della tecnica), e una discussione critica andrebbe al di là delle intenzioni dell’articolo, ma non al di là dell’obiettivo dei commenti sotto l’articolo… quindi, amici lettori, apriamo la discussione!
Con questa premessa, un terzo tipo di ABC potrebbe prendere la seguente forma:
nella colonna delle A vengono inseriti gli “antecedents” (gli antecedenti), ovvero situazioni, episodi ma anche stati emotivi situazionali (come, ad es, “sto provando ansia”);
nella colonna centrale dei B vengono inseriti i “beliefs” (le credenze), pensieri (più o meno automatici) le emozioni (“cosa provo”) e le sensazioni comporee;
la colonna finale dei C, si trasforma in choices (scelte), cioè cosa posso fare per raggiungere il mio scopo personale nonostante e accettando di avere quei pensieri, quelle emozioni e quelle sensazioni fisiche, cioè nonostante “quel narratore insistente” che è la mia mente e che racconta al posto mio. Una seconda forma di C potrebbe essere questa: “in che modo e cosa questi B mi impediscono di raggiungere, rispetto ai miei obiettivi e valori personali?”
Per concludere, credo che il modo più funzionale e utile per sfruttare le potenzialità della tecnica ABC nelle sue tre diverse forme con il paziente sia tenere a mente la complessità e l’integrazione e quindi di utilizzare l’ABC in base alle esigenze cliniche e alle caratteristiche della persona che abbiamo di fronte. Dal mio punto di vista, le tre forme di ABC qui descritte possono essere molto utili per i pazienti, e questa costatazione, al di là dell’orientamento o del “movimento” da cui nascono, rappresenta spesso la bussola migliore.
BIBLIOGRAFIA:
Baldini F. (2004). Homework: un’antologia di prescrizioni terapeutiche. McGraw Hill: Milano.
Hayes, S. (2001). Relational Frame Theory. Springer: New York.
Psicologia e Alimentazione: Acidi Grassi Trans associati ad Irritabilità e Aggressività.
– Rassegna Stampa –
Psicologia e Alimentazione: nuove ricerche correlano l’assunzione di acidi grassi trans con comportamenti aggressivi e irritabilità.
un nuovo studio condotto dai ricercatori della University of California, San Diego School of Medicine mette ancora una volta sotto accusa l’effetto dell’assunzione di acidi grassi trans (dTFAs ) e gli attribuisce importanti conseguenze a livello dell’umore e del comportamento. Gli acidi grassi trans sono principalmente il prodotto del processo di idrogenazione, che serve a dare consistenza e solidità a temperatura ambiente agli oli insaturi; oli e grassi così idrogenati vengono quindi abbondantemente impiegati nella preparazione di margarine, snack dolci e in molti prodotti spalmabili comunemente in commercio. Gli effetti negativi dei dTFAs sulla salute sono già stati ampiamente evidenziati, a carico del sistema cardiovascolare, nella risposta insulinica e nei processi metabolici, ossidativi e infiammatori.
La ricerca in questione, che ha coinvolto quasi 1000 persone tra uomini e donne, fornisce invece la prima evidenza empirica che collega i dTFAs a comportamenti negativi verso terzi, che vanno dall’irritabilità alla franca aggressione. La squadra di UC San Diego per analizzare il rapporto tra dTFAs e irritabilità-aggressività ha raccolto informazioni sulla dieta di base dei partecipanti allo studio e ha incrociato i dati con quelli derivanti da un indagine comportamentale in cui sono state raccolte informazioni sulla storia di vita “di aggressività”, le modalità individuali di conflitto e auto-valutazioni sulla propria impazienza e irritabilità, così come è stata somministrata una scala che misurasse i comportamenti apertamente aggressivi attuati recentemente; altri dati come il sesso, l’età, il livello di istruzione, e l’uso di alcool o tabacco sono stati considerati. Gli acidi grassi trans non solo sono risultati significativamente associati con maggiore aggressività, ma addirittura si sono dimostrati i migliori predittori di comportamenti aggressivi rispetto ad altri fattori considerati e già noti come predittori di comportamenti aggressivi. Beatrice Golomb, a capo della ricerca, raccomanda una volta di più di “evitare di mangiare grassi trans, e di escluderli dall’alimentazione delle istituzioni come scuole e carceri, dato che gli effetti nocivi dei grassi trans possono estendersi al di là la persona che li consuma e avere conseguenze negative anche verso gli altri”.
Psicologia & Letteratura: Le visioni di David Foster Wallace
Un viaggio nella mente e nelle opere di David Foster Wallace, genio della letteratura americana e personaggio di culto suicidatosi nel 2008
David Foster Wallace
Cos’hanno in comune un pappagallo che recita sermoni cristiani su una tv via cavo, un depresso che induce al suicidio l’analista, un focomelico che utilizza il proprio moncherino come strumento di ricatto per portarsi a letto le donne e un uomo che studia meticolosamente una tecnica per riuscire a infilare la testa nel forno e accenderlo? Oppure un reportage sul dietro le quinte degli Open canadesi di tennis, l’analisi del significato dell’aggettivo “lynchiano” estrapolato dal set di “Strade perdute”, un approfondimento sull’ironia di Kafka e la fuga da una casa di riposo di una bisnonna studiosa di Wittgenstein? Oppure ancora, un viaggio attraverso le fiere campionarie del Midwest americano, la partecipazione agli Oscar del cinema porno, una riflessione sul destino delle aragoste, la descrizione di un talk show di estrema destra?
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Sono tutti personaggi e affreschi usciti dalla penna visionaria di David Foster Wallace, genio della letteratura americana suicidatosi nel 2008, non prima di essere diventato scrittore e personaggio di culto per milioni di lettori.
Incontrare la letteratura di Foster Wallace è un’esperienza che cambia radicalmente il modo di approcciarsi all’opera narrativa; Wallace è una mente fra le più tormentate del ventesimo secolo, percorsa da inquietudini profonde e visioni agghiaccianti, la sua scrittura spazia fra innumerevoli stili e tematiche, passando dal romanzo agile al reportage politico, dalla satira di costume all’oscuro contatto con le anime più sporche.
Il contesto di riferimento è l’America nei suoi infiniti volti, divisa e insieme unita da follie grottesche e realtà carnali, in cui ogni personaggio si muove seguendo una propria logica, un microcosmo di appartenenza che lo colloca sovente al di fuori da ogni razionale comprensibilità; è l’America della provincia, della povertà di spirito e dell’immaginazione più ricca, del dolore e dei significati estremi. La letteratura di Foster Wallace è spesso caricatura ma ancor di più descrizione naturalistica del limite umano, e intreccia storie leggere a meccanismi infernali che chiudono il lettore in una morsa. Il lettore è davanti a un bivio: tenersi sul margine della strada, ascoltare le parole sulla carta come il puro prodotto di un’abilità narrativa oppure chiedersi cosa muove il senso di quella struttura vacillante, ironica dal primo all’ultimo respiro e allo stesso tempo in perenne affinità con la distruzione e con la morte.
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Foster Wallace rappresenta gli umani e le loro opere come un costante brulicare di elementi assetati di ristoro, e però sempre privati della possibilità di giungervi pienamente. Leggendo “La scopa del sistema”, “Infinite Jest”, “La ragazza dai capelli strani”, “Brevi interviste con uomini schifosi”, “Oblio”, “Considera l’aragosta”, “Tennis, tv, trigonometria, tornado e altre cose divertenti che non farò mai più” si entra in una dimensione sospesa, in un’atmosfera rarefatta dove il tempo si fa più minuto, più concentrato sull’assurda realtà di piccoli angoli che chiamiamo fantasia. Foster Wallace accetta ogni sfida narrativa, si immerge in contesti che possono risuonare più familiari al lettore oppure lo conduce attraverso gallerie di nevrosi apparentemente inafferrabili, personaggi il cui distacco dal mondo oggettivamente percepito è solo un pretesto per comunicare l’assenza di integrazione che ogni anima può sperimentare, in primis quella del lettore.
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L’America di Foster Wallace è un mostro vorace, talvolta una perdizione volgare, un diabolico connubio di pulsione e schiavitù della ragione, una promiscuità grottesca fra toni e colori che ci conducono assai lontano da tutto ciò che possa risultare rassicurante; l’America di Foster Wallace riceve linfa vitale dal caleidoscopio di volti e significati che quel continente in effetti rappresenta, ma allo stesso tempo viene utilizzata per eccesso con lo scopo di generare riflessioni universali sulla condizione umana. L’autore compie un giro immenso che ribalta le categorie della conoscenza formale, della convenienza negoziata all’interno del consesso umano, e lo fa per tornare al punto di partenza con un carico spasmodico di inquietudini prima sconosciute o meglio, prima negate. Al termine di questo percorso il lettore si ritrova nudo e incapace di reggere le consapevolezze dalle quali traeva forza in precedenza; al termine di questo percorso dionisiaco, bulimico, asfissiante il lettore si ritrova ferito da un dono che è anche protezione, il dono della piena verità soggettiva. Ogni cosa che pensiamo, ogni fantasia che schizza sangue come un’arteria recisa, come un fiume che tracima dal proprio letto, è prodotta dal nostro umano rincorrere, da un moto di incrollabile – talvolta disperata – energia vitale.
Bambini nel tempo: Comunicare la malattia e l’ Accudimento Invertito.
La questione di quanto sia giusto, doveroso, opportuno dire la verità a chi è stato colpito dal male e il rischio di Accudimento Invertito.
Quando due genitori si ritrovano a dover affidare il proprio bambino ad un reparto di oncologia pediatrica è frequente che esprimano la richiesta, più o meno intransigente, che nulla sia detto al piccolo paziente sulla reale gravità delle sue condizioni, a maggior ragione quando la minaccia di morte è particolarmente concreta.
Questo atteggiamento rimanda ad un problema del tutto trasversale a qualunque ambito medico in cui ci si occupi di tumori, ossia la questione di quanto sia giusto, doveroso, opportuno dire la verità a chi è stato colpito dal male, soprattutto quando si tratta di una verità terribile. Se il protagonista poi è un bambino, è plausibile che si amplifichi il bisogno di tutelarlo e di proteggerlo, col rischio però di creare una situazione equivoca in cui sembra che una verità non detta corrisponda automaticamente ad una verità più clemente.
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Per gli adulti che gravitano intorno al bambino ricoverato con una diagnosi di tumore si pone pertanto la sfida di gestire al meglio la dimensione emotiva, psicologica e relazionale del percorso che va dalla presa in carico alla cura, e in questo gioca un ruolo cruciale il saper individuare un linguaggio che sia autentico ma allo stesso tempo anche rispettoso delle competenze e dei bisogni dei bambini.
Sfida non da poco: Freud era un fermo sostenitore del detto evangelico “la verità vi farà liberi”, ma nell’universo paradossale dei bambini che rischiano di morire sono pochi gli adulti (genitori o operatori) che sanno rispondere con naturalezza e sincerità a un bambino che chiede loro perché deve rimanere ricoverato tanto a lungo o se guarirà.
Eppure diversi studi dimostrano che proprio una comunicazione inibita e distorta, dove le informazioni fornite sullo stato della malattia non corrispondono ai segnali che i bambini ricevono dal proprio corpo, amplifica la percezione di incertezza e di paura, e addirittura rischia di innescare il pericoloso meccanismo per cui i piccoli si sentono in dovere di soffocare i propri dubbi e la propria angoscia per risparmiare ai grandi un’ulteriore sofferenza, in una forma drammatica di accudimento invertito (Massaglia e Bertolotti, 1998).
Il fatto che i bambini abbiano capacità intellettive ed emozionali diverse da quelle degli adulti non dovrebbe quindi costituire un pretesto per distorcere la realtà con informazioni vaghe ed illusorie, perché in questo modo si rischia di lasciarli ancora più soli di fronte all’angoscia di qualcosa che intuiscono come reale ma che è così spaventoso che nemmeno gli adulti hanno il coraggio di nominarlo.
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In questo senso risulta chiara l’importanza di un’attenta revisione degli stili e dei contenuti comunicativi, e un ottimo punto di partenza è ovviamente l’ascolto del punto di vista dei piccoli diretti interessati.
L’AGESO, Associazione Gioco e Studio in Ospedale, ha promosso una ricerca volta proprio ad indagare le emozioni, le paure e i vissuti dei bambini ricoverati utilizzando strumenti di grande libertà espressiva, come la poesia e il disegno; i risultati sono stati poi pubblicati nel testo “Ti racconto il mio ospedale” edito da Magi.
Oltre a fornire indicazioni preziose per tutti coloro che operano nell’ambito della malattia pediatrica, gli esiti dell’indagine offrono interessanti spunti di riflessione sul mondo dell’infanzia in generale.
Emerge infatti che quando i bambini sono messi in condizione di poter esprimere la propria opinione e di intervenire attivamente nelle vicende che li coinvolgono hanno anche meno paura del proprio mondo interiore e degli eventi eccezionali che possono trovarsi a dover affrontare. E in questo modo, la capacità di riflettere sulle proprie emozioni e di far sentire la propria voce nelle situazioni che li mettono in difficoltà diventa parte integrante del loro processo di crescita.
Non sempre il punto di vista del bambino coincide con quello dei genitori, e questo già di per sé ribadisce l’importanza di ascoltare anche il parere dei più piccoli, e non solo quello degli adulti che se ne occupano.
Di certo è sorprendente che il clima emotivo dei disegni sia il più delle volte privo di conflitti o tensione, o che le figure umane siano spesso rappresentate come sorridenti e serene , impegnate in attività di gioco: un monito per gli adulti che si confrontano con la malattia infantile, per ricordare che un atteggiamento sorridente, chiaro, che non sia bugiardo o frettoloso di fronte alle domande e alle paure dei bambini può (deve) fare la differenza.
BIBLIOGRAFIA:
Guarino A., (2007) Psiconcologia dell’età evolutiva – La psicologia nelle cure dei bambini malati di cancro. Erickson
Massaglia P., Bertolotti M., (1998) Psicologia e gestione del bambino portatore di tumore e della sua famiglia. In R. Saccomani (a cura di) (1998) Tutti bravi. Piscologia e clinica del bambino malato di tumore, Milano, Raffaello Cortina.
Masera G. Tonucci F. (1998). Cari genitori. Hoepli (Fuori catalogo, non più in commercio).
F. Bianchi, M. Capurso, M. Di Renzo. (2007) Ti racconto il mio ospedale. Esprimere e comprendere il vissuto della malattia. Edizioni Magi
La motivazione a essere attivi ed i comportamenti impulsivi.
– Rassegna Stampa –
Un nuovo studio pubblicato su Motivation and Emotion sembrerebbe suggerire che chi si pone in un’ottica motivazionale fortemente “attiva” (e probabilmente doverizzante) tesa verso il cambiamento paradossalmente si spianerebbe la strada per non riuscirci.
In un primo esperimento ai soggetti sperimentali sono state mostrate parole che suggerivano l’idea di essere attivi (come ad esempio “iniziare”, “attivo”, etc.) oppure l’idea di essere meno attivi e più tranquilli (“fermarsi”, “stop”, “pausa”). A seguito di questa esposizione concettuale, i ricercatori hanno valutato l’autocontrollo dei soggetti misurando il loro desiderio di ottenere una immediata ricompensa economica al posto di una somma di denaro maggiore ma dilazionata nel tempo; similmente in un secondo esperimento, dopo il priming verbale già descritto veniva misurata l’impulsività dei soggetti attraverso un gioco al computer.
In entrambi gli esperimenti, i soggetti che erano stati sottoposti al priming “attivo” avevano maggiori probabilità di effettuare scelte impulsive a scapito di obiettivi a lungo termine e mostravano un minor controllo dell’impulsività rispetto a coloro che erano stati sottoposti a parole che si riferivano a un minore attività e maggior tranquillità.
A livello naif si sente dire spesso che le persone per mantenere l’autocontrollo devono attivamente imporsi con la volontà e attivamente combattere contro le tentazioni; questi esperimenti sembrano suggerire che i tentativi di motivare sé stessi a essere attivi nel far fronte alle tentazioni può incrementare la propensione verso comportamenti impulsivi; secondo gli autori motivarsi a un atteggiamento più calmo e meno teso al cambiamento sarebbe più funzionale a evitare decisioni impulsive (forse lasciando più spazio all’utilizzo del pensiero nell’associazione stimolo-azione). Indubbiamente sarebbe interessante riproporre lo studio sperimentale su un campione clinico di pazienti con difficoltà nella regolazione degli impulsi.
Fare acquisti usando il cervello: NEUROMARKETING by Martin Lindstrom
Meglio la Pepsi o la Coca Cola? Qualunque sia la vostra risposta, non è detto che il vostro cervello sia d’accordo.
Nel 2003 il dottor Read Montague decise di replicare l’esperimento Pepsi Challenge del 1975 (un’iniziativa pubblicitaria della Pepsi che prevedeva un test di assaggio cieco delle due bevande) con uno studio di risonanza magnetica funzionale (fMRI).
Nel nuovo esperimento, ad un gruppo di volontari furono offerte le due note bibite in bicchieri anonimi e fu richiesto di esprimere la propria preferenza: come già accadde nel 1975, più della metà dei soggetti riferì di preferire la Pepsi e così il loro putamen ventrale, area cerebrale che si attiva quando troviamo attraente un gusto.
Alla luce di questa nuova evidenza, come mai la Pepsi non riusciva a spodestare il primato sul mercato dell’acerrima rivale? Nella seconda parte dello studio si osservò che se prima dell’assaggio si comunicava ai volontari cosa stavano per bere, più della metà degli intervistati dichiarava di preferire…la Coca Cola!
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I loro cervelli mostravano non solo l’attivazione del putamen, ma anche della corteccia prefrontale mediana, da cui dipende il meccanismo del discernimento.
Ecco svelato il mistero: nella lotta cerebrale tra pensiero razionale ed emozionale la Coca Cola ha la meglio; con la sua storia, il suo logo, il design, le sue pubblicità, insomma la sua cocacolosità, coinvolge emotivamente il consumatore e questa risulta la carta vincente.
La possibilità di studiare cosa accade nel cervello del consumatore quando sceglie una marca piuttosto che un’altra spalanca un nuovo orizzonte: il neuromarketing.
Martin Lindstrom ha condotto un imponentestudio fMRI e SST che ha coinvolto 2000 soggetti da tutto il mondo, durato ben 3 anni e costato 7 milioni di dollari. I risultati sono sconvolgenti e ribaltano le conoscenze finora acquisite sui comportamenti di consumo.
Questo divertente libro, infarcito di aneddoti e curiosità su marchi famosi, accompagna il lettore alla ricerca delle caratteristiche ultime che un brand deve avere per rimanere indelebile nella nostra mente e risponde a grandi interrogativi sui comportamenti di consumo. Vi siete mai chiesti se la pubblicità occulta funzioni veramente? Se dopo aver visto Top Gun siete corsi a comprare un paio di Rayban, siete stati vittime di un’azzeccata manovra di product placement (se vi può consolare, avete contribuito a risollevare le sorti di un’azienda che era sull’orlo del fallimento). Ma la pubblicità occulta funziona solo se il prodotto è parte integrante della narrazione; a meno che il brand non svolga un ruolo fondamentale nella storia, nessuno se ne ricorderà. E per fortuna! Altrimenti chi ha visto Driven (2001) di Sylvester Stallone avrebbe rischiato di finire sul lastrico, considerando che in 117 minuti di film compaiono ben 103 marche!
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Leggendo “Neuromarketing” scoprirete inoltre come la pubblicità subliminale vi influenzi ogni giorno e come gli odori e i suoni siano più potenti di qualsiasi logo nella spinta all’acquisto (tutti ricordano l’odore del talco Johnson & Johnson più del suo logo); che non solo le terrorizzanti etichette sui pacchetti di sigarette non funzionano come deterrente, ma paradossalmente aumentano la voglia di fumare; e ancora, che certi prodotti sono addirittura in grado di ispirare lo stesso senso di fedeltà e devozione provocato…dalla religione (la Apple ne è esempio lampante)!
Ma che cosa nel nostro cervello rende certi prodotti più memorabili e attraenti di altri? La risposta riguarda una delle più grandi scoperte dei nostri tempi: i neuroni specchio. Queste cellule si attivano sia quando osserviamo qualcuno compiere un’azione finalizzata sia quando siamo noi a compiere l’azione. Quando entrate da Abercrombie & Fitch e venite accolti dalla commessa/modella di una bellezza inarrivabile vestita A&F, i vostri neuroni vi stanno dicendo “voglio essere come lei” e in men che non si dica vi ritrovate con il portafogli più leggero e un sacchetto pieno di magliette e jeans in mano. E quando in piedi sul divano vi atteggiate a rockstar impugnando la chitarra di Guitar Hero, i vostri neuroni specchio vi stanno facendo sperimentare la stessa ondata di piacere che provereste se viveste realmente quelle fantasie.
Fare shopping ci rende davvero più felici (sul brevissimo termine) perché ad ogni acquisto il nostro cervello si ritrova a bagno nella dopamina e sperimenta una meravigliosa sensazione di benessere. Da qui l’importanza di essere un po’ più consapevoli dei meccanismi che entrano in gioco quando compriamo un prodotto, prima che “il nostro cervello emotivo azzeri completamente la nostra carta di credito” (Prof. Laibson).
BIBLIOGRAFIA:
Lindstrom, M. (2009) Neuromarketing. Attività cerebrale e comportamenti d’acquisto (titolo originale: Buyology. Truth and Lies About Why We Buy). Milano. Apogeo srl Vuoi comprare questo libro? LINK
McClure SM, Li J, Tomlin D, Cypert KS, Montague LM, Montague PR: Neural correlates of behavioral preference for culturally familiar drinks. Neuron 2004, 44:379-387.
Working memory, prestazioni scolastiche e la paura di sbagliare.
– Rassegna Stampa –
In psicoterapia si sa, moltissime volte ci troviamo alle prese con il perfezionismo patologico del paziente (si spera non anche del terapeuta..), con il criticismo genitoriale e con tutti gli svantaggi che ne derivano a livello emotivo e sintomatologico. Una nuova ricerca pubblicata online su Journal of Experimental Psychology: General ce ne fornisce un’ulteriore riscontro empirico.
In un primo esperimento a un centinaio di studenti francesi (frequentanti la sesta classe, corrispondente alla nostra cosiddetta prima media) è stato chiesto di risolvere un anagramma molto complesso che nessuno di essi sarebbe stato in grado di risolvere: a un gruppo di studenti è stato dedicato uno spazio di riflessione in cui è stato loro detto che l’apprendimento può essere faticoso, che gli errori sono frequenti e parte dell’apprendimento stesso, e che con l’esercizio poi è possibile migliorare; agli altri è stato semplicemente chiesto di risolvere l’anagramma. I ricercatori hanno quindi misurato la capacità di working memory degli studenti, funzione essenziale per l’elaborazione delle informazioni e buon predittore di diversi aspetti del funzionamento scolastico.
I risultati hanno dimostrato che gli studenti cui era stato specificato che l’apprendimento implica l’errore hanno fornito prestazioni significativamente migliori nei test di working memory rispetto a coloro cui era stato solo chiesto di risolvere l’anagramma così come anche rispetto a un terzo gruppo di controllo che non aveva risolto nessun tipo di compito né aveva avuto momenti di riflessione riguardi i processi di apprendimento.
Simili risultati si sono riscontrati in un secondo e terzo esperimento in cui le variabili di outcome erano la comprensione di testi scritti e le proprie emozioni e credenze riguardo la propria competenza scolastica: coloro che avevano condiviso un breve momento di riflessione sui possibili errori e difficoltà insite nei processi di apprendimento, non solo presentavano migliori prestazioni nelle prove di comprensione scritta ma riportavano un minor senso di incompetenza in ambito scolastico.
Certamente lo studio dimostra un miglioramento che è temporaneo nei test di working memory e comprensione scritta ma è pur provato in letteratura che la working memory è uno tra i predittori di buon funzionamento scolastico; inoltre da questa ricerca sembrerebbe che favorendo l’autoefficacia e riducendo il timore dell’errore sia possibile impattare anche su abilità prettamente cognitive quali la working memory.
Speriamo che studi come questi raggiungendo non solo gli psicologi, ma anche un pubblico più ampio possano demolire la diffusa credenza che equipara l’errore all’inferiorità intellettuale e che alimenta sia negli adulti che nei bambini forti pressioni prestazionali e perfezionistiche e relativi vissuti ansioso-depressivi, innestando quindi circoli viziosi disfunzionali sia per il benessere psicologico che per la performance.
Psicologia e Tecnologia: nuova App per Smartphones contro la Depressione
Un App per avvisarti che sei depresso: terapisti virtuali e nuove tecnologie per trattare la depressione.
Passi il weekend da solo nel tuo appartamento? Un’applicazione sul tuo nuovo smartphone sarà in grado di intuire quando sei depresso e consigliarti di chiamare gli amici o di uscire.
I ricercatori della Northwestern University Feinberg Medical School stanno sviluppando nuove applicazioni elettroniche per il trattamento della depressione. Seguendo i progetti degli psicologi della prestigiosa università, infatti, il futuro della terapia della depressione, così come di altri disturbi del’umore, sarà presto virtuale: il telefono, così come altri supporti tecnologici, supereranno le tradizionali sessioni settimanali faccia a faccia per favorire un metodo che garantirà un supporto immediato e raggiungerà una fetta di popolazione decisamente più ampia.
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“Stiamo inventando metodi nuovi con cui la tecnologia può essere d’aiuto alle persone con disturbi mentali”, dice lo psicologo David Mohr, direttore del nuovo Center for Behavioral Intervention Technologies e professore alla Feinberg University. Secondo gli studiosi, tali tecniche avranno un impatto enorme sul trattamento e sulla prevenzione di disturbi come la depressione, proprio per il fatto di raggiungere un gran numero di persone, sia quelle che hanno difficoltà a spostarsi e raggiungere centri specialistici, sia chi invece è meno propenso a una psicoterapia tradizionale, senza aggiungere il fatto che si tratta di servizi che possono essere offerti a un costo decisamente inferiore ai classici colloqui faccia a faccia.
Ma vediamo concretamente di che cosa si tratta:
Un primo progetto riguarda un’applicazione facilmente installabile sul telefonino in grado di individuare sintomi depressivi attraverso il monitoraggio dei sensori nel telefono e dei dati dell’utente – come i luoghi frequentati, il livello di mobilità o sedentarietà, il contesto sociale, le interazioni via mail e social media e il tono dell’umore.
Fai telefonate e ricevi e-mail quotidianamente? Se il telefono – che ha memorizzato le tue abitudini – percepisce che sei rimasto isolato troppo a lungo, ti suggerirà di uscire o vedere amici. “Incoraggiando le persone a intraprendere comportamenti piacevoli e con benefici, crediamo che questa nuova applicazione migliorerà l’umore” dice il dr. Mohr. “Creiamo così un circolo di feedback positivi. Chi è incoraggiato a vedere amici sarà poi contento e vorrà ripetere l’esperienza. Ruminare da soli a casa provoca l’effetto opposto e causa una spirale discendente”. Uno dei vantaggi maggiori di tale strumento è la possibilità di offrire un nuovo livello di supporto alle persone che soffrono di depressione e intervenire per modificare i comportamenti in tempo reale.
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Accanto a questa invenzione, i ricercatori hanno anche progettato una sorta di porta pillole in grado di indicare se si è dimenticato di prendere la terapia farmacologica quotidiana. Tale boccettina cerca di risolvere il problema di tutte quelle persone che smettono di prendere gli antidepressivi, soprattutto per chi è seguito solamente dal medico di base e non ha controlli regolari con uno specialista. Questo metodo è già stato testato anche per gli usi al di fuori dei disturbi dell’umore, come ad esempio per verificare l’aderenza farmacologica di pazienti schizofrenici o con HIV.
Ma la tecnologia non si ferma qui: un assistente virtuale sarà anche in grado di incrementare capacità sociali e di assertività ad adolescenti e bambini, grazie a simulazioni in role playing. In questo modo, dicono i ricercatori, i giovani vengono ingaggiati più facilmente attraverso una modalità che appare quasi un gioco e disporrà di diversi tipi di situazioni sociali spesso imbarazzanti e difficili da approcciare con i ragazzi.
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Il mondo della terapia online non è nuovo ma non si può ignorare che ultimamente siti web che offrono consulenze online o sorta di trattamenti rapidi e a basso costo vengono offerti con sempre maggiore frequenza e se ne parla sempre più. C’è chi si proclama inesorabilmente contro tutte le forme che tolgono la relazione dal percorso terapeutico, chi le accetta un po’ di più ma non le condivide fino in fondo e chi invece pensa che questo sia il futuro (o il destino) della psicoterapia. Che ci si ritrovi in una corrente piuttosto che in un’altra poco importa, di sicuro questo è un fenomeno che non si può ignorare e, da giovane psicoterapeuta in formazione, credo che l’aiuto virtuale abbia enormi potenzialità da poter sfruttare a vantaggio della terapia e dei terapeuti, senza andare a togliere o a sostituirsi a quello che è il lavoro sulle relazioni.
Dipendenza Amorosa e Sessuale: Shame, di Steve McQueen
Umberta Telfner. Questo articolo è pubblicato anche su vitadidonna.org
Ho recentemente visto Shame, il film di Steve McQueen, con Michael Fassbender e Carey Mulligan presentato al Festival di Venezia (2011) e vincitore della Coppa Volpi per la migliore interpretazione maschile.
Un film sulla dipendenza amorosa e sessuale, due lati di una stessa medaglia. Brandon e la sorella Sissy sono legati da un filo doppio e da un passato probabilmente tragico e molto violento rispetto al quale non ci verrà svelato nulla. Da psicologa mi immagino una famiglia profondamente invischiata, senza confini, probabilmente abusante, così come fusi insieme sembrano i due fratelli che potrebbero aver avuto un rapporto molto troppo stretto (sessuale?) da ragazzini data la paura dell’intimita e l’aggressività di Brandon a seguito dell’entrata della sorella nella sua vita.
Fratello e sorella hanno poi preso due strade complementari nella sofferenza e nella dipendenza: la giovane donna non riuscendo a fare a meno di un punto di riferimento amoroso -dipendente affettiva- e l’uomo vivendo con una compulsione sessuale parossistica e l’incapacità di stabilire rapporti intimi con le altre persone.
Ambedue hanno la sensazione di non esistere senza le azioni che compulsivamente mettono in atto: lei si taglia e pietisce attenzione, mascherandosi appena da vittima e cercando amore come ossigeno per vivere; lui, freddo e controllato e apparentemente sempre altrove, consuma sesso con dolore, cercando orgasmi che non sembrano dargli piacere (il suo volto mentre gode pare una maschera di dolore). Ogni volta è come se nulla fosse avvenuto, ogni prestazione cancellata dal bisogno di un’altra prova.
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Dal primo momento vediamo Brandon, bello, sensuale e freddo, in un letto solitario che si tocca e lo seguiremo poi nelle sue peregrinazioni sessuali, sempre alla ricerca di sesso facile a pagamento (prostitute, masturbazione compulsiva, siti porno di ogni genere, provocazioni a donne di altri, uomini, dark rooms in locali gay, tutto fa brodo purchè non condito da intimite progettualità; Il suo motore psichico e perennemente fuori giri e la sessualitè costantemente utilizzata come strategia per spegnere l’ansia.
La relazione con la sorella appare costretta in tale modo che nessuno dei due ha spazio per nessun altro legame: il matrimonio fra loro due, nella disperazione più totale e nell’incapacità di darsi reciprocamente aiuto se non nei momenti di crisi assoluta. C’è anche colpa, Brandon sembra sentirsi in colpa verso la sorella, la tollera a casa, la sente come un peso e non ha il coraggio nè la forza di aiutarla nè di cacciarla, di nuovo non sappiamo perchè (una seduzione giovanile?) ma il sentimento è tangibile nella trama.
Un abbraccio mortale esattamente come mortale il rapporto di ambedue con la sua dipendenza: sesso e morte come coniugati da Freud. Ambedue hanno bisogno di sesso (lui), amore (lei) per sapere di essere vivi e perpetrano probabilmente sugli altri quello che è stato fatto a loro: possiamo ipotizzare che siano stati reificati nel loro passato perchè trattano gli altri ora come oggetti, seguendo un copione tutto loro e sempre uguale. Ripetitivo e ansiogeno, una caduta negli abissi della solitudine, della morte psichica, tutti e due.
Il film propone scene di sesso e disperazione ma non sensuale nè erotico. Lo psicoanalista Lacan sosteneva che per l’erotismo fosse necessaria la presentificazione dell’altro, l’incontro con un interlocutore, mentre qui abbiamo due solitudini allo specchio: ognuno vede solo se stesso ed è solo con se stesso, l’altro non esiste se non come persecutore per lei e prestazione sessuale per lui. Interessante come la critica si sia occupata soprattutto della dipendenza di lui, trascurando quella assolutamente complementare e altrettanto grave di lei (viene descritta anche un’altra forma di dipendenza, quella dell’amico David che ha un bisogno parossistico di ricevere conferme). Segno dei tempi e del retaggio romantico della nostra cultura: siamo abituati ad una donna che pietisce amore, ipoaggressiva, non ci stupisce che una femmina non possa amare senza dipendere.
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Fa ancora scandalo invece mostrare la debolezza di un uomo, anche se questa debolezza rivelata attraverso scopate con donne consenzienti, spesso professioniste del sesso, sempre belle. Debolezza? Certo, la ricerca del sesso è la droga che assoggetta Brandon e fa di lui quello che vuole, lo guida come fosse un burattino; il suo Io è annullato dal bisogno di sesso e questa ricerca è più forte di lui, lo possiede in un bisogno mortifero che non gli dà tregua e non gli permette di ritrovarsi. Proprio come le droghe pesanti, sempre di più e mai abbastanza. Brandon pur di fare sesso appare pronto a trascurare il lavoro, il successo, la sua vita e per il sesso – che nasconde agli altri come segreto vergognoso ma ineludibile, rischiando anche sul lavoro – ha perso la possibilità di esprimere le proprie emozioni, di vivere la vita, di connettersi con gli altri (nell’unico corteggiamento normale appare distante e sprovveduto, contemporaneamente).
Angoscioso questo film che mostra l’ansia e la disperazione quasi onnipresenti di un giovane uomo di questi tempi. Lo fa in modo volutamente lento, con poche parole e molte azioni, mostrandoci una New York insolita (Brooklyn?) accompagnata da una musica raffinata .
Il film mi è piaciuto molto, lo consiglio.
Umberto Galimberti e la Terapia Cognitiva
Sandra Sassaroli e Giovanni M. Ruggiero.
Articolo di risposta a Galimberti e Recalcati riguardo alle loro recenti dichiarazioni sulla Terapia Cognitiva e Comportamentale.
A pochi giorni fa risale l’ultima frecciatina sui media tra cognitivisti e psicoanalisti.
A volte questi battibecchi tra cugini rivali rischiano di essere la versione povera delle discussioni tra filosofi analitici e filosofi continentali. O la versione ricca, parendo che i filosofi guadagnino meno di noi psicoterapeuti.
“Analitici e continentali” è un bel libro (uscito nel 1997 per Cortina) della filosofa Franca D’Agostini. Un libro che descrive con grande ricchezza la contrapposizione tra due modi differenti di fare filosofia: “la tradizione analitica, attiva soprattutto nei paesi di lingua inglese e in Scandinavia, e la tradizione che a un certo punto fu detta ‘continentale’ ovvero europea, attiva specificamente in Germania, Francia, Spagna, Italia.”
E tra due modi diversi di essere filosofi: “gli analitici praticavano un tipo di filosofia argomentativamente impeccabile, attenta alle ragioni della scienza e del senso comune, inquadrata accademicamente come una scienza e autoconsapevole del proprio ruolo scientifico; i continentali praticavano una filosofia associativa (o «conviviale») più che argomentativa, interessata alla sfera pubblica prima che alla ricerca e all’insegnamento, oppure indirizzata a proseguire la tradizione della saggezza occidentale.” (D’Agostini, 2010).
Gli analitici producono un tipo di filosofia che accetta il paradigma empirico (si è parlato addirittura di filosofia sperimentale). Una filosofia interessata soprattutto all’analisi del linguaggio e dei criteri di verità e di scientificità degli asserti, e così via. I continentali producono un sapere senza stare troppo a sottilizzare sui criteri di verità e di scientificità, un sapere che tenta di dare significato al mondo e di interpretarlo. È una filosofia più ermeneutica.
Tutto questo mostra qualche somiglianza con le differenze tra terapia cognitiva e psicoanalisi, e giustifica alcune contrapposizioni. Il richiamo cognitivista al criterio empirico e il collegamento di alcune correnti della psicoanalisi con il pensiero ermenutico tornano subito alla memoria.
Il problema è che queste contrapposizioni sono anche semplicistiche. Il libro della D’Agostini è bello proprio perché mostra come i due campi si sovrappongano spesso. C’è tutta una corrente ermeneutica e francesizzante nelle Università del mondo anglo-sassone, in teoria regno della filosofia analitica. Ricordate nella “Macchia Umana” di Roth la docente di stile ermeneutico e francofila di “gender studies”, nemica del protagonista? Ricordate di come il protagonista si lamenti che questi docenti di gusto francese abbiano invaso le università americane?
Inoltre l’empirismo anglo-sassone è sempre più pragmatista. La conseguenza è che in esso il criterio di verità è sempre più sostituito dal criterio di efficienza. Ebbene, ne deriva che nel pragmatismo prolifera una corrente ermeneutica in cui si raccomanda non tanto la ricerca empirica della verità, quanto la produzione efficace di significato. E questo lo vediamo anche in terapia cognitiva: correnti cognitive sia costruttiviste che perfino standard che cercano non la verità, ma il senso che fa stare meglio. Il “cash value” piuttosto che la verità del pensiero, come raccomandavano i pragmatisti Charles Sanders Pierce e William James.
Insomma, questi psicoanalisti come Galimberti o Recalcati che in nome di uno spirito europeo, continentale ed ermeneutico tacciano il cognitivismo di gelido efficientismo scientista (e addirittura al servizio del capitalismo) sono dei semplificatori.
Ci può essere anche un efficientismo che si sposa non allo scientismo, ma a una posizione ermeneutica, a quanto pare. Ragionando così, tanto vale semplificare a nostra volta. Questo articolo vuole essere a sua volta una facile forzatura. In attesa d’interazioni più sottili e più fruttuose, va bene battibeccare così.
Le canzoni nei giardini che nessuno sa. – Gruppo di Ascolto Musicale in Ospedale.
Quel dolore che non sai cos’è, valigie vuote da un’eternità, tanti viaggi rimandati e già, solo lui non ti abbandonerà mai. [Nei giardini che nessuno sa, Renato Zero, 1994]
Da tre anni tengo settimanalmente un gruppo di ascolto della durata di un’ora con i pazienti ricoverati nel reparto dove lavoro presso l’Ospedale Privato Villa Igea di Modena. L’esperienza di ascolto di canzoni nel nostro reparto è successiva a quella del Dr. PierLuigi Postacchini, neuropsichiatria infantile e musicoterapeuta, che ha tenuto per anni gruppi simili nel reparto doppia diagnosi e al Day Hospital di Villa Igea. Nell’impostare il gruppo mi sono ispirato al modello di Postacchini (Postacchini et al, 1997), seppure con qualche modifica.
I pazienti che partecipano sono affetti prevalentemente da disturbi affettivi (depressione maggiore, depressione bipolare, disturbo schizoaffettivo), disturbi della personalità (in particolare del cluster B) e alcolismo. Occasionalmente partecipa anche qualche paziente affetto da psicosi.
La partecipazione al gruppo viene consigliata dall’equipe di medici e psicoterapeuti, come quella agli altri gruppi (skill training, mindfullness, rilassamento, gruppi psicoeducativi sull’abuso di alcol e sostanze), che costituiscono un percorso clinico di trattamento dei disturbi affettivi e della personalità della durata media di quattro settimane.
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Ascoltiamo prevalentemente canzoni italiane che scelgo io, ma i pazienti possono proporre dei brani (anche se non è così frequente che un paziente ricoverato abbia con sè in ospedale la propria musica preferita). In ogni incontro vengono ascoltate generalmente tre canzoni.
Durante l’ascolto viene richiesto ad ogni paziente di compilare una apposita scheda, una sorta di scheda ABC musicale, in cui sono elencate diverse emozioni e la loro intensità secondo una scala di Likert (1932) a cinque modalità di risposta (per nulla, poco, abbastanza, molto, moltissimo). La scheda comprende anche uno spazio libero per segnare pensieri, emozioni e immagini.
Ho ritenuto di utilizzare tale strumento durante l’ascolto per favorire l’individuazione e il riconoscimento degli effetti dell’ascolto del brano e anche per favorire la concentrazione sulla musica. Il fatto di dover scrivere e di avere un piccolo compito da fare diminuisce i commenti e la comunicazione tra i pazienti durante l’ascolto. Alla fine di ogni brano ogni partecipante legge quello che ha scritto e segue una discussione di gruppo.
Uno dei pazienti, a turno, viene incaricato di redigere una sorta di cronaca della seduta segnando le canzoni che vengono ascoltate e i commenti di ognuno, leggendoli la volta successiva, in modo tale da dare una continuità all’esperienza.
La partecipazione al gruppo è stata caratterizzata fin da subito da un certo entusiasmo, sicuramente da addebitare alla presenza della musica, che è come se infondesse vitalità all’ambiente ospedaliero e al difficile percorso di cure. L’idea che si possano ascoltare canzoni in un luogo di cura crea in molte persone aspettative positive, piacevoli e quasi ludiche.
Alcuni pazienti, particolarmente inibiti e coartati emotivamente, in particolare quelli affetti da psicosi, si attivano durante il gruppo, mostrando una vitalità che difficilmente ho notato in altri momenti del ricovero. Questo effetto rivitalizzante l’ho notato soprattutto con l’ascolto dei brani dei cantautori italiani classici (De Andrè, Guccini, De Gregori). Questo potrebbe essere dovuto al fatto di ricordare con nostalgia momenti del passato, magari di un passato in cui la malattia non c’era ancora e si era più giovani e spensierati.
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Una delle finalità principali del gruppo è l’allenamento al riconoscimento delle proprie emozioni, una sorta di “palestra del sentire”.
Dagli anni sessanta la ricerca sulle emozioni nella musica ha avuto un fervido sviluppo, arrivando perfino a utilizzare programmi al computer che permettevano di misurare le modificazioni temporali delle emozioni che avvengono durante l’ascolto di un brano (Sloboda, Juslin, 2001).
Come è ben noto spesso i pazienti affetti da gravi disturbi di personalità e da schizofrenia presentano difficoltà costanti in specifiche funzioni metacognitive. Per funzioni metacognitive si intendono tutte quelle abilità che consentono alle persone di attribuire e riconoscere stati mentali in sé e negli altri a partire da espressioni facciali, stati somatici, comportamenti e azioni; di riflettere e ragionare sugli stati mentali e di utilizzare le informazioni sugli stati mentali per decidere, risolvere problemi o conflitti psicologici e interpersonali e padroneggiare la sofferenza soggettiva (Semerari et al., 2005; Gold et al., 2012).
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Durante il gruppo i pazienti riportano sulla scheda pensieri, emozioni ed immagini che emergono durante l’ascolto personale e, fatto altrettanto importante, hanno un’occasione anche per ascoltare i vissuti degli altri di fronte allo stesso stimolo. Si allenano a mettersi nei panni degli altri ad ascoltarne, capirne e rispettarne il punto di vista, in un atteggiamento che favorisce la mentalizzazione degli stati d’animo. Una delle consegne che vengono date prima dell’ascolto è che non c’è mai niente di giusto o sbagliato nell’effetto che il brano ha sulle persone. Questo per evitare frustrazioni o atteggiamenti compiacenti di persone che vorrebbero più fornire un’interpretazione del brano in un tentativo di razionalizzazione, piuttosto che raccontare in che modo il brano li ha toccati in modo personale.
Il gruppo consente inoltre di raccogliere in modo “indiretto” informazioni preziose sulla storia e sulla vita psichica dei pazienti, che magari non emergono direttamente durante il colloquio e che comunque potrebbero rivestire una certa importanza.
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Ad esempio ricordo un paziente affetto da disturbo della personalità borderline e poliabuso di alcol e sostanze, ricoverato per ripulirsi e per valutare se intraprendere un impegnativo percorso di comunità, durante l’ascolto di Andrea (1978) di De Andrè (non certo un inno agli eccessi) ha segnato come immagine quella di un gin tonic in quanto la canzone gli ricordava un periodo di particolari festini, accompagnata da emozioni di estasi, piacere, gioia. Inutile dire che alla scadenza del ricovero la sua decisione è stata quella di tornare a usare alcol e sostanze. Come diceva il saggio “la musica non mente mai”.
In un’altra occasione è capitato di ascoltare “Il Cielo” (1977) di Renato Zero e un giovane paziente affetto da una grave forma di psicosi paranoide ha mostrato una forte reazione di omofobia nei confronti del brano e del cantante. Sicuramente se fosse stato presente uno psicanalista si sarebbe sbizzarrito in gustose interpretazioni!
Quando si ascolta una canzone, infatti, l’attenzione non è solo diretta all’opera, ma spesso viene preso in considerazione anche l’autore, con la sua storia, con ciò che rappresenta a livello sociale e anche con le sue caratteristiche (o talvolta problematiche) psicologiche. Molte persone si identificano nei cantanti, li prendono come modello, vorrebbero imitarli. L’analisi di questi fenomeni può aiutare ulteriormente la comprensione dell’utente da parte del terapeuta.
Emblematico è il caso di Vasco Rossi che per tanti anni ha rappresentato il simbolo della trasgressione e della ribellione, della vita spericolata, in cui volendo si possono ritrovare alcuni aspetti tipici del disturbo di personalità borderline. Lavorando con diversi pazienti doppia diagnosi (alcolisti o con pregresso uso di sostanze) ho avuto diversi dubbi circa l’opportunità di inserire Vasco Rossi nella playlist, con il timore di un possibile effetto di incoraggiamento dei comportamenti di abuso. In realtà ascoltando l’ultima produzione di Vasco sono rimasto colpito dall’evoluzione del personaggio verso una dimensione più saggia e riflessiva. Una canzone che ascoltiamo spesso è “Il mondo che vorrei” (2008) che recita “Non si può fare quello che si vuole, non si può spingere solo l’acceleratore”. Un bel cambiamento da “Vado al massimo” (1982) o da “Fegato spappolato” (1984). D’altra parte è stato provato come certi tratti borderline siano destinati a smussarsi con gli anni (Venturini et al., 2011). Il Vasco Rossi saggio è indubbiamente una grande sorgente di speranza. Per tutti.
Palmieri G. – Scheda ABC musicale per Gruppi di Ascolto in Musicoterapia. SCARICA IN FORMATO PDF
L’importanza del training genitoriale nel trattamento dei bambini con autismo.
– Rassegna Stampa –
E’ il training genitoriale che fa la differenza nel trattamento dei problemi comportamentali nei bambini con autismo: esiti di un trial multicentrico.
Nel numero di febbraio del Journal of the American Academy of Child & Adolescent Psychiatry un gruppo di ricercatori di Yale hanno riportato uno studio secondo cui bambini con diagnosi di disturbo dello spettro autistico – e che presentano anche difficoltà comportamentali- avrebbero esiti migliori di trattamento nella condizione in cui accanto a terapie farmacologiche si combinino specifici interventi di training sui genitori.
Lo studio è l’esito di un trial multicentrico finanziato dal National Institute of Mental Health che ha coinvolto 124 bambini di età compresa tra i 4 e i 13 anni con diagnosi di disturbo dello spettro autistico. Oltre alla diagnosi di autismo, i bambini che hanno costituito il campione del trial presentavano anche gravi problemi comportamentali, tra cui frequenti comportamenti auto ed etero aggressivi. I piccoli soggetti sono stati randomicamente assegnati a una di due condizioni sperimentali: a) sei mesi di trattamento soltanto farmacologico (risperidone); b) sei mesi di trattamento farmacologico (risperidone) con in aggiunta un programma di training rivolto ai loro genitori focalizzato sulle modalità di gestione dei problemi comportamentali del figlio.
Dai risultati emerge che la combinazione del trattamento farmacologico con il training genitoriale ha come esito un miglioramento significativamente maggiore in termini di comportamenti adattivi rispetto al solo trattamento farmacologico. Entrambi i gruppi sperimentali hanno dimostrato miglioramenti nella comunicazione e nell’interazione sociale, ma solo la condizione combinata (trattamento farmacologico e training genitoriale) ha mostrato un incremento maggiore nelle misure di funzionamento comportamentale adattivo nella quotidianità.
Sulla base di questi risultati i ricercatori stanno conducendo ora un trial finalizzato a verificare l’effetto del solo training genitoriale nel trattamento dei problemi comportamentali dei bambini con diagnosi dello spettro autistico.