Neuroscienze: le Motivazioni capovolte nel cervello dei mancini.
– Rassegna Stampa –
La dominanza manuale può determinare l’organizzazione delle tendenze motivazionali delle emozioni nel nostro cervello secondo un nuovo studio pubblicato su PLoS ONE.
Avvicinamento e allontanamento da stimoli fisici o sociali rappresentano tendenze all’azione, e cioè componenti motivazionali delle emozioni stesse. Da sempre in letteratura si è affermato come la tendenza all’avvicinamento fosse elaborata dall’emisfero sinistro, mentre la tendenza all’allontanamento da quello destro. Certamente questa solidità si fondava su molteplici studi sperimentali di neuroscienze: tutti su soggetti destrimani!
Lo studio di Brookshire e Casasanto rovescia letteralmente la prospettiva: utilizzando la tecnica elettroencefalografica hanno confrontato l’attività elettrica cerebrale dei partecipanti destrimani e mancini nell’emisfero destro e sinistro in una fase di riposo (senza alcun compito).
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Dopo tale misurazione i soggetti hanno completato un self-report che misurava il livello di tendenza all’avvicinamento. Nei destrimani un più elevato livello di motivazione all’avvicinamento era associato a maggior attività elettrica nell’emisfero sinistro rispetto al destro, mentre l’opposto è stato rilevato nei mancini: una maggior motivazione all’avvicinamento correlava con attività elettrica più intensa a carico dell’emisfero destro rispetto al sinistro.
La maggior parte delle funzioni cognitive, a differenza di quelle motorie, non subisce particolarmente l’effetto della lateralizzazione manuale: basti pensare al linguaggio, fedelmente ancorato all’emisfero sinistro nella maggior parte di destrimani e mancini.
A partire dalle osservazioni scientifiche secondo cui le persone tenderebbero ad utilizzare più la mano dominante nelle di azioni di avvicinamento e la mano non dominante nelle condotte di allontanamento e repulsione si fonda l’aspettativa di conferma di tale ipotesi scientifica effettivamente verificata poi nello studio. Infatti, la tendenza all’avvicinamento sarebbe prerogativa dell’emisfero che controlla la mano destra nei destrimani (il sinistro) e la mano sinistra nei mancini (il destro): i dati non rimandano tanto a una simpatica coincidenza quanto portano a speculare su un possibile legame tra circuiti neurali che controllano il movimento delle mani e le emozioni, in una prospettiva di stretta connessione tra emozione, (cognizione) e azione.
1. Gentile Prof. Wells, ci può delineare le caratteristiche fondanti della Teoria Metacognitiva e del suo approccio terapeutico ai disturbi psicologici?
La teoria metacognitiva dei disturbi psicologici si fonda sul principio che la maggior parte dei disturbi/o psicologici è causata da uno schema di pensiero ampliato (extended thinking). Questo schema è chiamato Sindrome Cognitivo-Attentiva (Cognitive Attentive Syndrome – CAS). Si compone di catene di pensieri verbalizzati nella forma di preoccupazione (worry) e ruminazione, uno schema che concentra l’attenzione su minacce e strategie di coping che porta ad effetti paradossali. Invece di fermare il pensiero negativo, lo amplia.
La Sindrome Cognitivo-Attentiva (CAS) è spinta da credenze di fondo riguardo al pensiero che ricadono dentro due categorie di credenze: positive (es. Mi devo preoccupare allo scopo di farcela) e credenze negative (es. certi pensieri sono pericolosi).
La terapia metacognitiva si concentra sul rimuovere la CAS in risposta ai pensieri ed esperienze negative stimolando la consapevolezza di questo processo e promuovendo un controllo selettivo di dello stesso. In questo modo si mettono in discussione le credenze metacognitive. Alla fine del trattamento i pazienti sono più flessibili nelle loro risposte ai pensieri negativi e meno dipendenti dagli schemi mentali consolidati e controllo cognitivo come strategia di coping delle esperienze emozionali.
2 Quali sono le principali differenze con i precedenti approcci della CBT?
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La MCT è radicalmente diversa dalle prime CBT (Cognitive-Behavioral Therapy). Innanzitutto al cuore della teoria c’è l’idea che i pensieri non sono così importanti. E’ la reazione delle persone a quei pensieri ciò che conta. Questo messaggio è l’opposto di quello della CBT, dove i pensieri negativi automatici sono centrali nei disturbi.
La MCT è anche diversa in quanto si concentra sugli stili di pensiero e regolazione mentale piuttosto che sul contenuto dei pensieri. Non opera dei controlli di realtà sui pensieri o sulle credenze generali riguardo se stessi e il mondo. Il focus nella Terapia Metacognitiva è ridurre la Sindrome Cognitivo-Attentiva (CAS). Infatti l’azione stessa di indagare e mettere in discussione i pensieri può esser vista come analoga alla CAS: è un’altra forma di pensiero ampliato e non produce direttamente quel tipo di cambiamento metacognitivo ritenuto necessario nella MCT.
Nella MCT le credenze sono al centro del trattamento ma solo quelle metacognitive e non gli altri “schemi”. Questi altri schemi sono visti più che altro come attivatoori della CAS o come il risultato di quel processo e considerati quindi “epifenomeni”.
Naturalmente la CBT è polimorfa e ingloba continuamente concetti da altri modelli teorici e tecnici. La CBT ha iniziato a impiegare alcuni principi della terapia metacognitiva. In questo senso il problema è che i confini sono confusi e diventa difficile definire appropriatamente cosa è la CBT. Inoltre, combinare le terapie della CBT con quelle della MCT rischia di risultare problematico dal momento che sono fondate su posizioni divergenti riguardo come il paziente dovrebbe confrontare e gestire i propri pensieri. Ho descritto i principi e le tecniche della MCT e come queste differiscono dalla CBT tradizionale nel mio recente manuale: Metacognitive Therapy for Anxiety and Depression, edito da Guilford Press ed è disponibile in italiano edito da Eclipsi: Terapia Metacognitiva dei disturbi d’ansia e della depressione.
3. Il concetto di metacognizione è utilizzato da diversi approcci che ne evidenziano differenti aspetti (ad es. capacità di autoriflessione, mentalizzazione, empatia). Cosa ne pensa di queste concettualizzazioni della metacognizione come funzioni metacognitive invece che meta-credenze?
A me pare che metacognizione stia diventando un termine di moda e dalla mia esperienza di ciò che ho letto di alcuni altri approcci pare chiaro che gli autori non stanno usando il termine correttamente né nella stessa maniera. Per esempio, alcune terapie cognitive standard che si concentrano sul pensiero piuttosto che sulle credenze relative al pensiero o sul controllo cognitivo sono state denominate (erroneamente) metacognitive. C’è un altro livello di incomprensione del concetto. E’ importante tenere a mente che è un costrutto multisfaccettato.
Tu hai parlato di autoriflessività, questa potrebbe del tutto non metacognitiva. Per esempio pensare a come uno può migliorare il proprio swing a golf non è metacognizione. Non è pensare di pensare. Al tempo stesso, pensare a come uno potrebbe migliorare la propria memoria è una auto-riflessione metacognitiva. Il problema con costrutti come empatia e mentalizzazione è che sono confusi o non specificamente riguardanti la metacognizione; in certi casi colgono la metacognizione mentre in altre volte no.
Mi hai anche chiesto delle funzioni e credenze metacognitive. Come ho detto la metacognizione è multi-sfaccettata: ci sono strategie metacognitive come cercare di controllare i pensieri sopprimendoli, credenze come le credenze positive o negative riguardo ai pensieri ed esperienze metacognitive come le valutazioni degli stati mentali e delle sensazioni esperite (felt-sense) come ad esempio l’esperienza metacognitiva di avere una parola “sulla punta della lingua”. E’ probabile che ci siano “funzioni” metacognitive che non sono riconducibili all’esperienza diretta e cosciente ma agiscono sul pensiero in maniera più automatica.
A mio parere, il progresso in quest’area dipende sullo sviluppo di modelli che distinguano queste componenti e che possano stabilire i loro effetti sui disturbi psicologici all’interno di un sistema cognitivo multi-livello. Quello era il mio obiettivo più di 20 anni fa e la base del modello metacognitivo è stata descritta nel mio libro del 1994: Attention and Emotion.
4. Dal suo punto di vista, la MCT può essere considerata un approccio della terza ondata e se si dove si colloca?
Non mi piace il termine “terza ondata” perchè non è descrittivo. Sembra suggerire che c’è un nuovo movimento ma non fornisce indicazioni sulle differenze che sussistono tra le diverse terapie che formano questo movimento. Non considero la MCT come facente parte delle terapie della terza ondata (ACT e MBCT) perchè non attinge da pratiche meditative. Certi aspetti della meditazione (aumento del self-focus, reindirizzamento dell’attenzione e tecniche immaginative) non sono strumenti raccomandati dalla MCT per raggiungere un cambiamento.
5. Una delle tecniche più pertinenti proposte dalla MCT è la Detached Mindfulness. Quali sono le differenze e le convergenze tra detached mindfulness e il concetto di mindfulness così come è proposto dalle terapie cognitive fondate sulla mindfulness? (MBCT)
Articolo consigliato: Mindfulness o Detached Mindfulness? Questo è il problema.
La detached mindfulness si riferisce a uno stato mentale specifico e ben definito che abbiamo teorizzato e introdotto nel 1994. Con mindfulness noi intendiamo consapevolezza dei pensieri (awareness of thoughts) che identifica la specifica consapevolezza metacognitiva e l’abilità di distinguere un pensiero negativo dalla preoccupazione (worry) conseguente o dalla risposta ruminativa a quel pensiero. Per detached mindfulness intendiamo il fermare o disconnetere ogni risposta a quel pensiero e in chiave più profonda, esperire il sè come separato dal pensiero e semplice osservatore di esso. Questo è molto più specifico del concetto di mindfulness così come è usato nella meditazione. Diversi professionisti della meditazione propongono differenti descrizioni di cosa intendono per mindfulness. Può essere consapevolezza del respiro, o l’esperienza del momento presente o consistere di uno stato mentale non giudicante. A me sembra che uno dei limiti degli approcci basati sulla meditazione per lo sviluppo delle terapie sia che mancano di un impianto teorico sufficientemente rigoroso e che questi costrutti non abbiano la precisione necessaria per collegarsi in modo soddisfacente ai processi patologici.
Detto questo, devo anche sottolineare che la detached mindfulness è una tecnica che ha uno specifico obiettivo e che non è una componente necessaria della MCT.
6. La MCT è una terapia focalizzata sui disturbi di ansia e depressione o può anche essere applicata a un più vasto range di disturbi psicologici (ad es. disturbi di personalità)? E con quali differenze?
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La MCT è un’approccio terapeutico generale che nel principio può essere applicato a un ampio spettro e forse a tutti i disturbi psicologici. Ci sono gruppi di ricercatori che stanno testando l’efficacia del trattamento per i disturbi d’ansia, la depressione, le psicosi, i disturbi alimentari, le dipendenze, i disturbi borderline di personalità e per le conseguenze psicologiche dovuti a problemi di salute. Abbiamo proceduto a usare dei modelli specifici per ogni disturbo che ne cogliessero la natura e gli effetti della CAS e della metacognizione. Comunque, è anche possibile astrarre su un livello più generale utilizzando una versione transdiagnostica del modello. Questo può essere un utile punto di partenza per sviluppare forme più specifiche di intervento.
7. Quali saranno gli sviluppi futuri dell’approccio MCT? Ci saranno problematiche o aree che resteranno scoperte?
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Al momento si stanno esplorando nuove aree e gli studi si espanderrano ancora in futuro. Queste aree includono l’applicazione a nuovi gruppi di pazienti come bambini e adolescenti e nuovi sviluppi nei campi dei disturbi di personalità e delle psicosi. Un’area che abbiamo recentemente iniziato ad esplorare è la terapia MCT di gruppo che offre l’opportunità di terapie alternative brevi e altamente convenienti (cost-effective).
Aree ancora da esplorare sono le correlazioni neurocognitive delle tecniche MCT come l’ attention training e la detached mindfulness. E’ incoraggiante vedere trials controllati e comparativi della terapia comparire in letteratura e ci sono diversi studi ad ampio raggio in corso che presto daranno i loro risultati.
Per i lettori interessati ai lavori più recenti e ad approfondire l’argomento, consiglio di consultare le informazioni e gli aggiornamenti sul nostro sito: www.mct-institute.com
Wells A. Matthews G. (1994). Attention and Emotion: A Clinical Perspective. Psychology Press
Metacognitive Therapy (MCT): An Interview with Prof. Adrian Wells
A brief interview with Prof. Adrian Wells on the distinctive features of Metacognitive Therapy (MCT).
Prof. Adrian Wells
1. Dear Prof. Wells, could you outline the core features of the Metacognitive Theory and Therapy approach to psychological disorders?
Metacognitive Theory of psychological disorders is based on the principle that most psychological disorder is caused by a pattern of extended thinking. This pattern is called the Cognitive Attentional Syndrome (CAS). It is made up of chains of verbal thought in the form of worry and rumination, a pattern of focusing attention on threat and coping strategies that have paradoxical effects. Rather than terminating negative thinking they extend it.
The CAS is driven by underlying beliefs about thinking which fall into two braod categories of positive beliefs (e.g. I must worry in order to cope) and negative beliefs (e.g. Some thoughts are dangerous).
Metacognitive Therapy focuses on removing the CAS in response to negative thoughts and experiences by raising awareness of this process and improving the selective control of it. In so doing it also challenges the underlying metacognitive beliefs. By the end of treatment clients are more flexible in their response to negative ideas and less reliant on fixed patterns of thinking and mental control as a means of coping with emotional experience.
2. What are the main differences from previous CBT approaches?
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MCT is radically different from earlier CBT. For one thing at the core of the theory is the idea that thoughts are not really that important. Instead it is the persons reaction to thoughts that counts. This is the opposite message to that in CBT, where negative automatic thoughts are central to disorder.
MCT is also different in that it focuses on thought styles and mental regulation rather than the content of thoughts. It does not reality-test thoughts or general beliefs about the self and world. The focus in MCT is reducing the CAS. In fact the act of interrogating and challenging thoughts could be seen as analogous to the CAS: it is another form of extended thinking and does not directly produce the kind of metacognitive change thought to be necessary in MCT.
In MCT beliefs are the focus of intervention but these are only the metacognitive beliefs and not other ‘schemas’. These other schemas are seen very much as the triggers for the CAS or the output of that process and are therefore ‘epiphenomena’.
Of course CBT is a ‘shape shifter’ and it continuously incorporates concepts from other theories and techniques. CBT has begun to use principles from metacognitive therapy. The problem with this is that boundaries are blurred and it becomes difficult to usefully define what CBT is. Furthermore, the combining of CBT and MCT treatment techniques is likely to be problematic as they are based on conflicting messages concerning how clients should relate to and manage their thoughts. I have described the principles and techniques of MCT and how these differ from traditional CBT in my recent treatment manual: Metacognitive Therapy for Anxiety and Depression published by Guilford Press which is available in Italian by the publisher Eclipsi.
3. The concept of metacognition is used by various approaches that highlight different facets (e.g. self-reflection skills, mentalization, empathy). What do you think of these conceptualizations of metacognition as metacognitive functions instead of meta-beliefs?
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It seems to me that metacognition is becoming a buzz word, and in my reading of some other approaches it is clear that the authors are not using the term correctly or in the same way. For example, treatments that largely consist of standard cognitive therapy techniques and focus on cognition rather than beliefs about cognition or on mental control have been labelled as metacognitive. There is a high degree of misunderstanding of the concept. It is important to keep in mind that it is a multi-faceted construct. You asked about self-reflection, this may not be metacognitive at all. For example, thinking about how one could improve one’s golf swing is not a metacognition. It is not thinking about thinking. However, thinking about how one might improve one’s memory is metacognitive self-reflection. The issue with constructs such as empathy and mentalization is that they are ‘fuzzy’ or non-specific concerning metacognition, in some instances they capture metacognition whilst at other times they don’t.
You also asked me about metacognitive functions and beliefs. As I said metacognition is multi-faceted: there are metacognitive strategies such as trying to control thoughts with suppression, beliefs such as the positive and negative beliefs about thoughts, and metacognitive experiences such as appraisals of mental states and felt-senses such as the ‘tip of the tongue effect.’ There are likely to be metacognitive ‘functions’ that are not amenable to direct conscious experience but act on cognition more automatically. Progress in this area in my view depends on the development of models that distinguish these components and can specify their effects on disorder within a multi-level cognitive system. That was my aim over 20 years ago and the basis of the metacognitive model that was described in our 1994 book: Attention and Emotion.
4. From your point of view could MCT be considered a third wave approach and if so where is it positioned?
I don’t like the term ‘third wave’ because it doesn’t convey any information. Instead it seems to suggest that there is a new movement but gives no indication of the differences that exist between the treatments that form this movement. I would not view MCT as part of what I understand to be the third wave therapies (ACT and MBCT) because it does not draw on meditation practices. In fact some aspects of meditation such as increased self-focus, re-directing attention, and the imagery techniques would not be the recommended means of achieving change in MCT.
5. One of the most relevant techniques proposed by MCT is Detached Mindfulness. What are differences and overlaps between detached mindfulness and the concept of mindfulness as proposed by mindfulness based cognitive therapies?
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Detached mindfulness refers to a specific and well defined state that we introduced in 1994. By mindfulness we mean awareness of thoughts, that is to say specifically metacognitive awareness and the ability to distinguish a negative thought form a subsequent worry or rumination response to that thought. By detachment we mean stopping or disconnecting any response to that thought, and in a more profound way experiencing the self as separate from a thought as simply an observer of it. This is much more specific than the construct of mindfulness as it is used in meditation. Different practitioners of meditation have different descriptions of what they mean by mindfulness. It may be awareness of the breath, of present moment experience or consist of a non-judgemental stance. It seems to me that one of the limitations with the meditation based approaches to developing treatment is likely to be that they lack a sufficiently rigorous model and that these constructs lack precision to connect sufficiently well with pathological processes. Having said this, I must also point out that detached mindfulness is a technique that has a specific aim and that it is not a mandatory component of MCT.
6. Is MCT a treatment focused on emotional disorders or may it be applied to a broad range of psychological disorders (e.g. personality disorders) and with which differences?
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MCT is a generic treatment that in principle can be applied to a wide range and perhaps all psychological disorders. There are groups of researchers testing the treatment in anxiety disorders, depression, psychosis, eating disorders, addictions, borderline personality, and the psychological consequences of physical health problems. We have tended to proceed using disorder specific models that capture the nature and effects of the CAS and metacognitions in each disorder. However, it is also possible to formulate on a more generic level using a transdiagnostic version of the model. This can be a useful starting point in developing more specific forms of an intervention.
7. What will be the future developments of MCT approach? Are there any issues or areas which remain uncovered?
New areas are being explored right now and are set to expand in the future. These areas include applications to new client groups such as children and adolescents and further developments in the areas of personality disorders and psychosis. One area that we have recently begun to explore is group based MCT treatment which holds the possibility of brief and highly cost-effective treatment options. Areas yet to be explored are the neurocognitive correlates of MCT techniques such as attention training and detached mindfulness. It is encouraging to see controlled and comparative trials of the treatment appearing in the literature and there are several large scale studies of this kind underway that will yield results soon. For readers interested in recent work and finding out more I would recommend checking out the information and updates on our website: www.mct-institute.com
Recensione di Terapia Metacognitiva dei disturbi d’Ansia e della Depressione. (A. Wells)
Tra gli emergenti sviluppi della ricerca in psicologia clinica la Terapia Metacognitiva (Metacognitive Therapy – MCT) di Adrian Wells copre un ruolo di primo piano nel panorama scientifico internazionale.
A. Wells: Terapia Metacognitiva dei disturbi d'Ansia e della Depressione. Ed. it. a cura di: Gabriele Melli. Eclipsi Editore
Da qualche mese è finalmente disponibile in italiano il primo manuale che descrive con stile chiaro e pragmatico la teoria e la pratica della Terapia Metacognitiva, una forma di trattamento che vuole essere una evoluzione delle terapie cognitive e comportamentali e distinguersi da queste, siano esse di seconda o terza generazione. Un’unica base rimane comune: l’orientamento pragmatico e scientifico (evidence-based).
Il volume nasce dopo oltre vent’anni di ricerca che ha esplorato i fondamenti teorici e clinici del modello metacognitivo. Questo è certamente il principale punto di forza della MCT, specie in un contesto scientifico e culturale dove troppo spesso si costruiscono assunti sulla base di considerazioni personali e si lascia alla ricerca il ruolo di misuratore di efficacia. Adrian Wells, paziente e pragmatico, arriva a formulare un manuale dopo quasi duecento pubblicazioni internazionali che ne consolidano i punti di riferimento teorici, riscoprendo un connubio tra psicologia cognitiva e psicoterapia cognitiva che da troppo tempo era andato perduto.
Si legge nella sua prefazione all’opera che le cognizioni sono importanti e che i pensieri hanno un forte impatto sul benessere psicologico. Questa è la base della psicoterapia cognitiva. Però i pensieri vanno e vengono. Tutti noi abbiamo quotidianamente una moltitudine di pensieri negativi ma solitamente scompaiono. Questo perché selezioniamo a quali pensieri dare importanza e adottiamo diverse strategie di risposta ai nostri pensieri. La questione psicopatologica secondo la MCT è proprio la modalità con cui ognuno di noi si relaziona con le proprie esperienze interne.
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Le terapie cognitive hanno attribuito una grande importanza al contenuto dei pensieri e delle convinzioni nucleari, considerandole l’elemento chiave dei disturbi psicologici. Per la MCT non è esaustivo attribuire agli schemi mentali quali ‘sono un fallimento’ o ‘sono vulnerabile’ la responsabilità di un disturbo psicologico. Questi schemi (o convinzioni nucleari) si attivano in ciascuno di noi in diversi momenti , non sono esclusivi dei disturbi psicologici e possono attivare varie risposte cognitive e comportamentali. Per esempio innanzi all’idea di essere dei falliti possiamo lavorare più duramente, pensare nuove strategie, cambiare scopi o mettere in discussione questa idea. Solo alcune risposte cognitive a questi schemi risultano disfunzionali, quelle caratterizzate da uno stile di pensiero perseverante, astratto, negativo che è difficile tenere sotto controllo e che tende a (1) mantenere lo stato di stress nel tempo, (2) confermare costantemente l’idea negativa di partenza (e tenerla vivida e presente nella coscienza individuale).
La Psicoterapia Metacognitiva assume che il cuore della psicopatologia non siano schemi e idee disfunzionali ma le strategie di controllo mentale disadattive e le metacognizioni che le governano. Il termine metacognizioni descrive entro l’approccio MCT tutti i fattori che controllano, monitorano e valutano il pensiero in termini di conoscenze (cosa so), esperienze (come vivo) e strategie (come reagisco).
Ne deriva che l’approccio metacognitivo mira a modificare le risposte cognitive di controllo disfunzionali e le metacognizioni che le governano. Lo scopo non è quello di ristrutturare le convinzioni ma modificare il modo in cui vengono percepite e controllate, cioè come l’individuo le seleziona, le valuta, vi risponde.
Il volume presenta nel dettaglio i protocolli di assessment e intervento MCT per i disturbi d’ansia e per la depressione, con chiari esempi e numerosi strumenti di supporto. Per chi ha potuto apprezzare il volume ‘Terapia Cognitiva dei Disturbi d’Ansia’ ritroverà la stessa chiarezza e semplicità di lettura, con interessanti spunti di riflessione che tracciano la strada per nuove controversie, ma anche nuove conoscenze, nel mondo della ricerca in psicoterapia.
BIBLIOGRAFIA:
Wells, A. & Matthews, G. (1994). Attention and Emotion. A Clinical Perspective. Hove, UK: Erlbaum.
Wells, A. (2000). Emotional Disorders and Metacognition: Innovative Cognitive Therapy. Chichester, UK: Wiley. Trad. it. A. Wells, Disturbi Emozionali e Metacognizione. Edizione Erikson
I videogames d’azione migliorano l’ Attenzione Visiva
– Rassegna Stampa –
Un gruppo di ricercatori guidati dal professor Ian Spence presso la University of Toronto suggerisce che giocare con dei videogiochi d’azione, anche se per periodi di tempo relativamente brevi, può causare differenze nelle attivazioni cerebrali e in particolare miglioramenti nelle performance di una funzione cognitiva importante quale l’attenzione visiva.
A venticinque soggetti – che non avevano mai giocato precedentemente con videogiochi- è stato chiesto di giocare a un videogame per un totale di 10 ore suddivise in sessioni da un’ora ciascuna.
Sedici soggetti hanno giocato a un videogioco d’azione (in prospettiva di prima persona), mentre un gruppo di controllo di 9 soggetti ha giocato a un semplice puzzle game digitale.
Come pre e post assessment i soggetti sono stati sottoposti alla misurazione dell’attività elettrica cerebrale mentre erano impegnati in un compito di attenzione visiva in cui cercavano di individuare un oggetto target tra altri distrattori presenti nel campo visivo.
I risultati evidenziano che i partecipanti che avevano giocato a un videogame d’azione in prospettiva di prima persona presentavano migliori performance nel task di attenzione visiva e cambiamenti significativi in termini di attività elettrica cerebrale rispetto a coloro che avevano giocato al puzzle game digitale. La manipolazione sperimentale dell’attività di videogaming ha consentito quindi di identificare specifici cambiamenti di performance in un task attentivo e di attività elettrica cerebrale come esito di un periodo di gioco con videogames d’azione in prospettiva di prima persona.
La ricerca è stata finanziata da Natural Sciences and Engineering Research Council of Canada e pubblicata in questi giorni su Journal of Cognitive Neuroscience.
La relazione tra Grassi “cattivi” e l’insorgere di sintomi depressivi
“L’uomo è ciò che mangia”: scelte alimentari deprimenti…letteralmente!
La depressione colpisce attualmente nel mondo circa 151 milioni di persone, con una distribuzione differente nelle diverse nazioni e continenti. I fattori che determinano questa differenza possono essere molteplici: culturali, sociali, economici ma tra questi una quota significativa potrebbe essere giocata anche dalle abitudini alimentari.
Se è vero che “l’uomo è ciò che mangia” (Feuerbach), risulta di enorme interesse uno studio di coorte, The SUN Project, condotto tra il 1999 e il 2010, condotto da un gruppo di ricercatori spagnoli e olandesi, che si è occupato appunto di approfondire il possibile legame tra l’assunzione di differenti sottotipi di grassi e lo sviluppo di sintomi depressivi. La crescente incidenza di disturbi depressivi nella popolazione mondiale, sembra infatti andare di pari passo ad un drastico cambiamento nel consumo di grassi nella dieta occidentale. Questo cambiamento consiste principalmente nella sostituzione di acidi grassi polinsaturi (PUFA) e monoinsaturi (MUFA) con grassi saturi (SFA) e trans-insaturi (TFA).
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In accordo con questo trend, il cosiddetto “western food pattern” (ricco di SFA e TFA e molto comune in Nord Europa e USA) è stato considerato un fattore rilevante di rischio per lo sviluppo di depressione. Generalmente i PUFA e l’olio d’oliva (OO) sono considerati grassi “buoni” perché riducono l’incidenza di malattie cardiovascolari, mentre gli SFA e TFA sono noti per essere un determinante fattore di rischio di eventi cardiovascolari.
Nonostante l’economia globalizzata stia sempre più riducendo le differenze nei cibi consumati regolarmente nelle diverse parti del mondo, le scelte alimentari del Nord e del Sud dell’Europa risultano ancora oggi molto diverse, in particolare nell’assunzione di due sostanze specifiche: olio d’oliva e legumi.
In un precedente studio, i ricercatori avevano già dimostrato come la Dieta Mediterranea (ricca di legumi, frutta, verdure, pesce e cereali, ma povera di carne e latticini) fosse associata ad una ridotta incidenza di disturbi depressivi. L’insieme di questi ed altri dati analizzati dai ricercatori, ha fatto loro ipotizzare che la presenza di malattie cardiovascolari e la depressione possano in parte avere gli stessi fattori scatenanti.
L’obiettivo della loro ricerca è stato quindi di indagare il possibile ruolo del consumo di grassi nella dieta ed in particolare di differenti sottotipi di grassi sul rischio di sviluppare disturbi depressivi e malattie cardiovascolari nell’arco di vita e sui fattori comuni tra i due tipi di disturbi.
Un aspetto interessante sul possibile legame tra malattie cardiovascolari-depressione-consumo di grassi, potrebbe inoltre essere legato alla presenza di lievi, ma persistenti, stati infiammatori, molto comuni nei pazienti depressi. Un’elevata produzione di citochine, determinata dallo stato infiammatorio, può infatti interferire con il metabolismo dei neurotrasmettitori, diminuire il livello di triptofano nel plasma e inibire l’espressione del fattore neurotrofico cerebrale (Brain Derived Neurotrofic Factor, BDNF). Il BDNF è fondamentale per la crescita, la sopravvivenza e la plasticità delle cellule cerebrali e sembra essere significativamente ridotto nei pazienti depressi. Poiché alcuni tipi di grassi sono coinvolti nel metabolismo cellulare, contribuendo alla produzione del BNDF, è possibile secondo i ricercatori che l’assunzione di alcuni sottotipi di grassi possa avere un effetto protettivo allo sviluppo di sintomi neuropsicologici, tra cui la depressione, oltre che di malattie cardiovascolari.
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I risultati del SUN Project hanno evidenziato la presenza di una forte e diretta associazione tra assunzione di TFA e rischio di sviluppare sintomi depressivi. I dati hanno inoltre evidenziato un’associazione inversa tra consumo globale i PUFA, MUFA e Olive Oil e sintomi depressivi: cioè consumare grassi “buoni”, sembra addirittura prevenire lo sviluppo di sintomatologia depressiva. Inoltre l’effetto negativo dei grassi “cattivi” (TFA) sul funzionamento cardiovascolare, sembra produrre alterazioni dannose per il metabolismo cellulare in grado di inibire la produzione di BNDF: questo il legame ipotizzato dai ricercatori tra assunzione di TFA e rischio di sviluppare sintomi depressivi.
A conferma di questi risultati, i grassi “buoni” sembrano possedere inoltre proprietà antinfiammatorie sull’organismo, e sarebbero dunque in grado di migliorare il metabolismo delle cellule e le funzioni dell’endotelio nella produzione di BNDF.
I limiti della ricerca sono molti e tutti dichiarati dai ricercatori, ma se il dato sarà confermato da studi successivi potremo a pieno titolo inserire nelle Terapie del Benessere, spesso di indispensabile supporto alla psicoterapia tradizionale, l’indicazione di astenersi dal consumo di grassi saturi, almeno nei periodi in cui l’umore è sotto terra!
Matteo Giovini, Marina Possi, Daniela Rebecchi, Maria Paola Boldrini.
Gli scopi esistenziali sono quegli scopi che la persona persegue e che caratterizzano fortemente la vita. Vengono definiti esistenziali perchè, a differenza di altri scopi, non vengono mai raggiunti completamente una volta per tutte, ma piuttosto si accompagnano costantemente al fluire dell’esistenza indirizzando le scelte e i comportamenti e andando a colorare emotivamente le esperienze. Alcuni esempi di scopi esistenziali sono la ricerca di una condizione d’intimità o di approvazione o la ricerca di un’esistenza ricca di esperienze e novità.
Ogni essere umano realizza un proprio modo individuale e unico di essere nel mondo; per alcune persone può essere particolarmente importante orientare la propria vita alla ricerca di una condizione di autonomia oppure di prestazioni elevate, per altri ancora è particolarmente importante essere altruisti nei confronti degli altri.
Accanto a questi scopi di ricerca esistono scopi di evitamento; questo significa che ogni essere umano imposta la propria vita anche sull’evitare condizioni particolarmente dolorose, come l’essere soli, l’essere umiliati o il fallire. Anche questi scopi esistenziali, definiti di evitamento, hanno un rilievo e un’intensità differente da persona a persona e generalmente si costruiscono e si rafforzano in seguito ad esperienze dolorose, come l’essere abbandonati, o fortemente criticati, o privati della propria autonomia.
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In ogni individuo dunque convivono scopi esistenziali di ricerca e scopi esistenziali di evitamento e accade spesso che tra essi nascano conflitti: ad esempio il desiderio di una condizione d’intimità con un partner o la ricerca di una condizione di affiliazione con gli altri possono essere ostacolati o del tutto impediti dal forte timore di essere abbandonati, feriti o umiliati. L’individuo può abbandonare del tutto o in parte alcuni scopi desiderati, limitando così la propria esistenza.
Molti autori di diverso orientamento teorico (in particolare psicoterapeuti cognitivo-comportamentali, esistenzialisti, psicoanalisti) hanno sottolineato come esista una stretta connessione tra la rinuncia a determinati scopi di vita, o comunque tra la difficoltà a perseguirli, e la percezione di mancanza di senso e di vuoto nella propria esistenza, fino ad arrivare a psicopatologie vere e proprie.
In particolare l’evitamento di condizioni temute può portare, come sottolinea ad esempio lo studioso d’impostazione cognitivo-comportamentale Steven Hayes, ad un massiccio evitamento esperienziale, che consiste nel non entrare in contatto con esperienze di vario genere (emozioni, sensazioni corporee, pensieri, ricordi, comportamenti); tale evitamento viene indicato dall’autore come uno degli elementi più importanti nella genesi e nel mantenimento di numerose psicopatologie, come i disturbi d’ansia, i disturbi del comportamento alimentare e quelli legati all’uso di alcol e di sostanze stupefacenti.
Il legame tra psicopatologia e scopi di vita è stato ampiamente studiato da Klaus Grawe e da Martin Grosse Holtforth. Questi autori hanno costruito dei questionari in grado di misurare l’intensità degli scopi di ricerca e di evitamento e hanno individuato una forte correlazione tra l’intensità degli scopi di evitamento di condizioni temute e la psicopatologia.
Partendo da questi risultati l’obiettivo principale della nostra ricerca è stato quello di capire se ci siano dei particolari scopi esistenziali correlati alla psicopatologia. Per fare questo abbiamo valutato trenta pazienti in psicoterapia utilizzando dei questionari e delle interviste strutturate. In particolare abbiamo usato un questionario autosomministrato, chiamato VAMO, elaborato da Grawe e Grosse Holtforth, per misurare l’intensità dei diversi scopi esistenziali dei soggetti; abbiamo inoltre valutato i sintomi psicopatologici (sintomi ansiosi, depressivi, aspetti di rischio autolesivo, indici di cattivo adattamento, percezione di scarso benessere) attraverso un altro questionario denominato CORE-OM (rif. biblio). E’ stata inoltre valutata la presenza di specifici disturbi attraverso l’uso di due interviste strutturate: SCID-I e SCID-II.
I risultati della nostra ricerca hanno mostrato che esistono alcuni scopi esistenziali che, molto più di altri, sono correlati alla psicopatologia. In particolare essi sono tre.
E’ fortemente correlato alla patologia lo scopo di evitare una condizione d’impotenza e ciò significa che alla presenza di una forte motivazione a evitare una condizione d’impotenza corrisponde un livello più alto di sofferenza. Avere una forte motivazione a evitare una condizione d’impotenza significa non volere assolutamente sentirsi in balìa delle situazioni, indifesi e senza aiuto.
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Allo stesso modo è fortemente correlato alla psicopatologia lo scopo esistenziale di ricerca di una condizione di buona prestazione: all’intensificarsi della motivazione a raggiungere una condizione caratterizzata dal sentirsi efficienti e capaci e del bisogno di compiere delle buone prestazioni corrisponde una maggiore intensità dei sintomi.
Lo scopo che invece risulta essere fortemente, ma inversamente, correlato alla psicopatologia è quello di ricerca di una condizione di senso; questo significa che la motivazione a trovare un senso alla propria esistenza, così come quella a vivere intensamente la propria fede e a sentirsi parte di un ordine superiore si accompagna a una condizione di maggiore benessere psichico.
La ricerca ha mostrato come non tutti gli scopi di ricerca e di evitamento siano legati alla patologia. Risultano esserlo in particolare lo scopo di evitamento di una condizione d’impotenza e lo scopo di ricerca di una condizione di buona prestazione. E’ interessante notare come questi due scopi esprimano temi che appaiono vicini tra loro: il desiderio troppo intenso di perfezionamento e di efficienza, così come il forte timore di essere indifesi e privi delle capacità di far fronte alle situazioni fanno pensare ai concetti del perfezionismo patologico e dell’obbligo di controllo. Su tali temi risulta quindi particolarmente rilevante l’intervento psicoterapeutico. All’opposto risulta essere positivo, in quanto inversamente correlato alla patologia, il desiderio di trovare una condizione di senso alla propria esistenza.
Hayes S, Strosahl K, Wilson K (1999). Acceptance and Commitment Therapy. The Guilford Press, New York.
Sassaroli S, Ruggiero G (2002). I costrutti dell’ansia: Obbligo di controllo, perfezionismo patologico, pensiero catastrofico, autovalutazione negativa e intolleranza dell’incertezza. Psicoterapia Cognitiva e Comportamentale 8, 45-60.
Il Pensiero Analitico e la Fede Religiosa
– Rassegna Stampa –
Un nuovo studio della University of British Columbia dimostra che il pensiero analitico può far diminuire temporaneamente il livello di fede e credo religioso anche nei fedeli più devoti. La ricerca è stata pubblicata su Science il 27 aprile scorso.
I ricercatori hanno utilizzato in quattro distinti esperimenti alcuni compiti di problem-solving e stimoli priming per riuscire a indurre nei partecipanti un pensiero analitico. Il livello di fede religiosa è stata misurata attraverso una serie di questionari self-report. I risultati hanno evidenziato che la credenza religiosa diminuiva significativamente, almeno nel momento immediatamente successivo alla fase in cui i soggetti erano stai impegnati in compiti analitici in cui credenze inizialmente intuitive venivano messe in discussione da una modalità di pensiero analitico. Più di 650 partecipanti di cultura americana e canadese sono stati reclutati come campione dello studio.
Gli autori si riferiscono a un modello psicologico che vede la combinazione di due sistemi cognitivi distinti ma interdipendenti : un sistema intuitivo che si basa su scorciatoie euristiche per portare a risposte veloci ed efficaci e un sistema più analitico che favorirebbe risposte più deliberate e razionali. Secondo tale ipotesi esplicativa quindi l’attivazione del sistema cognitivo analitico potrebbe quindi minare il supporto del sistema cognitivo intuitivo alla fede religiosa, almeno temporaneamente.
Future ricerche dovranno indagare più precisamente se la diminuzione della fede religiosa sia realmente temporanea oppure a lungo termine, così come la generalizzabilità di tali risultati in culture non occidentali. Le convinzioni religiose spirituali sono comunque l’esito di una molteplicità di fattori psicologici e culturali che possono fluttuare nel tempo e nelle situazioni, tra cui evidentemente anche la tipologia di pensiero intuitivo o analitico che si attiva in specifiche contingenze.
“Spilorci dentro” quando l’Avarizia è nel Cervello – Neuroscienze –
Tratto da “I sette peccati capitali del cervello” di M. Sitskoorn.
Forse non vi vestite con una logora palandrana scozzese del 1902, né mangiate solamente gallette rinsecchite accompagnate da un bicchiere di acqua piovana, ma che vi piaccia o no c’è un po’ di Paperon de’ Paperoni in ognuno di voi! E non ha niente a che fare con un deposito pieno di milioni di dollari (purtroppo).
Margriet Sitskoorn, docente di Neuropsicologia clinica all’Università di Tilburg, in un capitolo del suo libro “I sette peccati capitali del cervello” mostra, attraverso una interessante rassegna di studi neuroscientifici, come l’avarizia sia fortemente radicata nel nostro cervello.
Non ne siete convinti? Mettetevi alla prova rispondendo sinceramente:
Il gioco del dittatore. Siete seduti su una panchina quando una signora si avvicina e vi regala una busta contenente 10000 euro dicendovi che dovete dividerne il contenuto con l’uomo seduto accanto a voi, il quale potrà solamente accettare la vostra offerta, qualunque essa sia. Quanto gli offrite?
Il gioco dell’ultimatum. Stesso scenario, ma questa volta l’uomo seduto accanto a voi potrà accettare o rifiutare la vostra offerta. Nel caso dovesse rifiutare, nessuno dei due riceverà nulla. Quanto gli offrite?
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Nella prima situazione la “buona educazione” suggerisce che ad ognuno dovrebbe andare più o meno la metà della somma, eppure la maggior parte delle persone tiene per sé una quota più consistente di denaro (Spitzer et Al., 2007); il potere, a quanto pare, rende avidi. Se c’è invece la possibilità di essere puniti, come nel gioco dell’ultimatum, mentre ci si affanna a capire quanto sarebbe disposto ad accettare l’altro (3000 euro? 4000 euro?), si tende a comportarsi in maniera più equa.
Ma cosa accade nel cervello? La valutazione della possibilità di essere puniti porta ad un’attivazione della corteccia prefrontale e del nucleo caudato e ad un conseguente passaggio da un comportamento dettato dall’avidità ad uno dettato dalla giustizia.
Che cosa succede invece se siete voi la persona che può solo accettare o rifiutare l’offerta?
Se ritenete di aver ricevuto una somma equa e siete soddisfatti, nel vostro cervello si attiva il circuito della gratificazione (tra cui nucleo accumbens, amigdala, corteccia prefrontale ventromediale/orbitofrontale). Se invece ritenete di aver subito una spartizione ingiusta, si attiva il circuito del dolore (tra cui corteccia cingolata anteriore dorsale, insula anteriore): tanto più la proposta è iniqua, tanto più si attiva tale sistema, tanto più soffrite.
A meno che non decidiate di mettere da parte l’orgoglio, vi resta una sola cosa da fare: vendicarvi dello spilorcio che vi sta di fronte rifiutando la sua offerta. Voi non riceverete nulla, ma anche lui rimarrà a bocca asciutta! E, oh sì, questo sarà incredibilmente piacevole! Infatti vendicarsi stimola il nucleo caudato (circuito della gratificazione) lenendo così il dolore provato dall’ingiustizia subita (de Quervain et Al., 2004).
Che cosa invece vi spinge ad ingoiare il rospo e ad accettare comunque la grama offerta? Secondo Tabibnia G. (2008) e Sanfey A. (2003) gioca un ruolo importante l’attivazione della corteccia prefrontale, in grado di inibire l’attività dell’insula anteriore. In questo caso è come se non si fosse più guidati dall’esperienza emotiva negativa dolorosa, bensì dalla “razionalità”.
In conclusione l’avarizia alberga nel nostro cervello poiché accumulare attiva il circuito della gratificazione e ci motiva a continuare a farlo. L’unica cosa che ci tiene a freno sono le aree cerebrali anteriori che purtroppo, però, sembra vengano attivate solo in presenza di regole o sotto la minaccia di una punizione.
In realtà anche dividere equamente stimola il sistema della gratificazione e procura piacere al pari dell’accumulare, perciò alla prossima occasione siate generosi e non ve ne pentirete: dividete con l’altro le vostre gallette e aggiungeteci anche una crosta di formaggio…e crepi l’avarizia!!
Spitzer M., Fischbacher U., Herrnberger B., Gron G., Fehr E. (2007). The neural signature of social norm compliance, Neuron, 2007 Oct;56(1)
de Quervain D.J., Fischbacher U., Treyer V., Schellhammer M., Schnyder U., Buck A., Fehr E. (2004). The neural basis of altruistic punishment. Science 2004 Aug;27;305(5688):1254-8.
Tabibnia G., Satpute A.B., Lieberman M.D. (2008). The sunny side of fairness: preference for fairness activates reward circuitry (and disregarding unfairness activates self-control circuitry). Psychol Sci. 2008 Apr;19(4):339-47
Sanfey A.G., Rilling J.K., Aronson J.A., Nystrom L.E., Cohen J.D. (2003). The neural basis of economic decision-making in the Ultimatum Game. Science. 2003 Jun 13;300(5626):1755-8.
Stress e disturbi cardiaci nelle donne
– Rassegna Stampa –
Un gruppo di ricercatori del Penn State College of Medicine hanno valutato gli effetti dello stress psicologico sull’insorgenza di fattori di rischio per i disturbi cardiaci nelle donne. I risultati evidenziano che il flusso sanguigno coronario di fatto aumenta negli uomini sottoposti a una condizione di stress psicologico, ma rimane stabile nelle donne. Questo rappresenterebbe un fattore di rischio per le donne che quindi sotto stress sarebbero maggiormente suscettibili a disturbi cardiaci. Lo studio dal titolo “Effect of Mental Stress on Coronary Blood Flow in Humans” è stato presentato presso la conferenza Experimental Biology 2012 tenutasi dal 21 al 25 Aprile a San Diego, California.
I partecipanti allo studio sono stati sottoposti alla misurazione della frequenza cardiaca, della pressione sanguigna, della conduttanza vascolare coronarica e del relativo flusso sanguigno sia in una condizione di controllo/tranquillità sia in una condizione di induzione di stress.
Nella condizione di stress indotto ai soggetti è stato richiesto di effettuare mentalmente complicate operazioni aritmetiche mentre gli sperimentatori li spingevano a dare risposte sempre più velocemente oppure dicevano loro che avevano sbagliato anche quando davano la risposta corretta. Dai dati emerge che nella condizione di controllo (tranquillità) uomini e donne non presentano differenze significative nei diversi indici biologici presi in considerazione; similmente durante la condizione di stress indotto sia uomini che donne mostrano un aumento nella frequenza cardiaca e nella pressione sanguigna. Ad ogni modo, mentre negli uomini in condizione di stress è presente un aumento della conduttanza vascolare coronarica, tale cambiamento non si verifica nelle donne.
Ricerche future dovranno esplicare al meglio tale meccanismo che sembrerebbe alla base di un maggior rischio di disturbi coronarici nelle donne in un’ottica di miglioramento delle strategie preventive.
Nonostante per la lezione di Yeomans siano previste un paio di ore scarse (ahimè), l’atmosfera sembra quella dei grandi eventi, tutti in attesa di ascoltare una grande lezione da parte di un grande clinico. E così è stato. La chiarezza espositiva di Yeomans è davvero notevole, e nonostante alcuni sguardi un po’ disorientati a causa della mancanza di un traduttore, la lezione viene seguita dalla maggior parte del pubblico con silenzio quasi reverenziale.
La Lectio inizia con una chiara introduzione del modello TFP (Transference-Focused Psychotherapy). In breve, proviamo a sintetizzare la lezione di Yeomans.
Uno dei primi aspetti che Yeomans intende sottolineare è la consapevolezza che il sistema psichiatrico statunitense è condito da una schiera di clinici che sostengono il modello “all-biological”, cioè che i disturbi psicopatologici siano prettamente derivanti da problematiche di tipo biologico, e che questa grave credenza è non solo molto rischiosa ma sta cominciando a far sentire i propri limiti (e i propri danni…).
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Entrando, invece, nel merito del modello, viene spesso evidenziato quanto il focus del modello TFP, di derivazione psicoanalitica, ancor meglio kleiniana-bioniana, manualizzato e sottoposto a Randomized Clinical Trial, è sull’analisi del transfert, inteso come dinamica interpersonale che sia attualizza tra il paziente e il terapeuta nel qui e nell’ora della seduta.
In altri termini è un intervento centrato sugli aspetti del Sé e degli altri significativi, che il soggetto ha interiorizzato e sui quali investe emotivamente. Questo, rispetto agli approcci psicoanalitici più “classici” rappresenta un cambio di paradigma molto interessante. Si parte da ciò che succede nella vita attuale del paziente e poi si ricostruiscono le spiegazioni “evolutive”(termine nostro, NdA) di tali modalità. La teoria delle Relazioni Oggettuali si ritrova in molti passaggi del modello di Kernberg e colleghi, tanto che uno degli “slogan” usati da Yeomans è “you don’t just love/hate/care for, you love/hate/care for someone”.
Rispetto ad altri modelli clinici molto diffusi per il trattamento dei disturbi di personalità borderline (DBT di Marsha Linehan su tutti) l’enfasi della TFP è sul produrre un cambiamento strutturale dell’organizzazione di personalità del paziente, in termini di difese utilizzate ed esame di realtà. Al fine di realizzare questo cambiamento, ovvero di ottenere l’integrazione delle parti scisse del soggetto, il modello osserva determinate variabili:
Identity (senso di Sé e senso dell’altro),
DefenseOperations (strategie di coping e conflitti interni),
Reality Testing (esame di realtà),
Object relations (natura delle relazioni interpersonali),
Moral Functioning (comportamenti e valori etici).
Yeomans osserva che ciò che risponde a questi requisiti è la misurazione della dimensione empirica della funzione riflessiva; infatti la TFP, in quanto psicoterapia evidence-based, si dimostra secondo Yeomans l’unica in grado di promuovere efficacemente un aumento della funzione riflessiva, contrariamente ad altre metodologie di intervento terapeutico quali la DBT e la terapia supportiva.
A questo punto, Yeomans sostiene che uno degli aspetti importanti della TFP è quello di permettere al paziente di trovare un miglior funzionamento che gli permetta di perseguire i propri obiettivi e scopi personali. La mente di un cognitivista salta subito ai “valori” dell’ACT (Hayes, 2003; Harris, 2011). Quindi la sempre scarsamente presente attenzione psicoanalitica ai sintomi è confermata nella TFP, sebbene con una precisa e esplicita attenzione al momento presente e a ciò che accade, in termini transferali e controtrasferali, tra paziente e terapeuta.
Nel modello TFP, quindi, le emozioni non hanno solo una spiegazione/funzione di tipo evolutiva, ma svolgono anche un altro ruolo, riattualizzato nella diade terapeuta/paziente: sono manifestazioni volte a sottolineare una relazione di tipo oggettuale. Le variabili primarie di cui tiene conto il modello, in fase di assessment sono il rischio suicidale, l’impulsività e l’aggressività del soggetto. In parole povere, io manifesto alcune emozioni prevalenti nella relazione con il terapeuta (ad es. la rabbia) e queste emozioni sottendono un significato strutturale del mio modo di relazionarmi con gli altri, modo che ho imparato nelle prime relazioni, con i genitori/caregiver.
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Da questa base, le strategie base proposte da Yeomans sono le seguenti:
“tease out these internal relationships” (ovvero, “esplicitare queste modalità relazionali interiorizzate”);
“gain and tolerate the awareness of these internal relationships” (ovvero “diventare consapevoli di tali modalità e tollerarle”);
“integrate them into a coherent whole” (ovvero “integrarle nel proprio funzionamento generale”).
La Lectio, sebbene davvero troppo breve e densa di argomenti, ha lasciato al pubblico moltissimi spunti clinici e di ricerca su cui riflettere… e tantissime domande aperte.
L’impressione è che il modello della Transference-Focused Psychotherapy sia vicino per molti versi a ciò che sta succedendo nel mondo cognitivista da una quindicina di anni ormai, pur mantenendo una chiara epistemologia e una precisa concettualizzazione di tipo psicoanalitico. Fortunatamente, i modelli di varie tradizioni cliniche si stanno avvicinando sempre più e questo non può che far bene alla psicoterapia in generale e soprattutto ai nostri pazienti.
BIBLIOGRAFIA:
Harris, R. (2011). Fare ACT. Milano: Franco Angeli.
Neuroscienze e Psicologia: Intervista a Cristiano Castelfranchi
Cristiano Castelfranchi, docente di Scienze Cognitive all'Università di Siena, e direttore dell'Istituto di Scienze e Tecnologie della Cognizione
Abbiamo incontrato il Professor Cristiano Castelfranchi, docente di Scienze Cognitive all’Università di Siena, e direttore dell’Istituto di Scienze e Tecnologie della Cognizione -CNR, a Roma. L’attività di ricerca del Prof. Castelfranchi abbraccia diversi campi della psicologia e spazia dai Sistemi Multi-agente, alle Simulazioni Sociali e alle Scienze Cognitive.
D.: La Psicologia ha dei modelli ancora primitivi, per usare le sue parole. Secondo lei quale direzione dovrebbe prendere la ricerca per creare modelli migliori del funzionamento della mente?
Il problema dei modelli della psicologia è che non c’è sufficiente attenzione all’analisi sistematica dei concetti e una approfondita discriminazione tra essi e la ricerca di modelli operazionali. Operazionali vuol dire che i processi implicati e i costituenti postulati sono definiti in modo disambiguo, in maniera computazionale, implementati ingegneristicamente, sui computer, simulati, resi espliciti. Facendo attenzione al rischio di un eccessivo “senso comune” dei concetti. Ad esempio per modellare la “Fiducia” devi fare prima un lavoro analitico e sistematico su cosa centralmente significa, i vari tipi, i sottotipi, lo stesso per il “Senso di Colpa”: cosa esattamente significa, qual è quello veramente tipico, qual è un abuso del termine e via dicendo. In psicologia non c’è molta pazienza per questo tipo di lavoro analitico. Lo si prende per un lavoro da filosofi, invece il lavoro sulla teoria è fondamentale, in caso contrario si avranno sempre modelli “abborracciati” o puramente induttivi, cioè desunti a posteriori dalle correlazioni tra i dati empirici. E’ chiaro che il dato empirico è fondamentale per validare e sviluppare il modello, ma non puoi desumerlo e costruire la teoria dalle correlazioni tra dati empirici.
Un’altra direzione inevitabile è rapportarsi alle neuroscienze. I modelli di psicologia per essere validi dovranno trovare corrispondenza nei processi cerebrali e in generale corporei. Tuttavia le neuroscienze ad oggi procedono in modo ancora più grezzo e pretendono di trovare dei correlati immediati di fenomeni comportamentali o psicologici, facendo un lavoro di localizzazione, che dice quasi nulla. Fa una specie di mappatura geografica del cervello: qui sta la fiducia, qui sta la paura, qui sta la previsione, qui sta la pianificazione. Non si chiede: in che consiste il processo di pianificazione? Perchè si attivano queste aree e non queste altre? Questo si può fare solo con modelli molto articolati, che la psicologia dovrebbe fornire e con un riscontro in chiave cerebrale di questi modelli articolati, di sottofunzioni e sottomeccanismi che vengono identificati.
Queste due direzioni, lavoro teorico più serio, modelli computazionali e simulati e loro corrispettivo neurale sono quelle verso cui la psicologia si dovrebbe sviluppare.
D.: Lo sviluppo di queste due direzioni che vantaggi potrebbe avere dal punto di vista clinico?
L’analiticità in clinica dovrebbe dare l’anatomia su cui si lavora. Se non conosco le componenti di un determinato fenomeno, quali sono le strutture retrostanti implicate, i micro meccanismi nascosti, non so esattamente su che cosa opero. E magari vedo, per tradizione, una o due manovre possibili, quando invece ne potrei fare dieci diverse andando a incidere sulle specifiche sottoparti e i sotto meccanismi di quel processo o rappresentazione mentale.
D.: Un intervento più mirato, più efficace…
Forse più efficace, ma con maggiore consapevolezza dei meccanismi in ballo e di cosa vado a toccare e vado a cambiare. Ovviamente non con una visione atomistica sommatoria, con la consapevolezza che se un fenomeno implica 5 componenti, queste hanno dei rapporti tra loro, in una dialettica interna, non sono una somma, separate. Sono una molecola, una struttura organica. Quindi hanno delle proprietà collettive e interferiscono l’una con l’altra.
D.: Cambiando un po’ argomento… lei ha detto che la società sembra proceda verso una fobia della sofferenza e che richieda all’individuo di essere sempre attivo, un ideale dell’uomo “cocainomane”
Una delle ragioni è il sistema economico attuale. In cui c’è un’enfasi fortissima alla produttività e alla produzione ed ogni aspetto della vita umana è sottoposto e reso strumentale allo sviluppo e all’andamento economico. Una volta eravamo prima di tutto produttori, adesso siamo prima di tutto consumatori. L’imperativo tassativo è “consumare, consumare, consumare” e “produrre, produrre, produrre”. Il tuo valore dipende da questo. Il tuo esito sociale dipendo da questo. L’andamento della società dipende da questo. C’è una coazione disperata a rendere ogni aspetto della vita produttivo, incoraggiare gli atteggiamenti, le competenze, i vissuti e le emozioni in chiave produttiva. Un cambiamento culturale spettacolare negli anni: nell’Ottocento esisteva la forza lavoro, il capitale era le macchine, il denaro, le proprietà e il capitale umano: la forza lavoro. Poi il capitale è diventato la conoscenza, un capitale cognitivo.
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Il patrimonio cognitivo e il capitale cognitivo dell’azienda come parte qualificante, quello che contava era la conoscenza. Quindi il problema del manager era la gestione della conoscenza, come tirarla fuori, farla circolare, come renderla patrimonio collettivo. Adesso non basta più, la conoscenza e il saper fare, i cosiddetti patrimoni untangibles, adesso conta anche la motivazione, l’umore. Diventa un problema dello stesso mondo capitalistico “la tua felicità”, diventa un indice importante non solo la misura del benessere, ma anche quella della felicità, il volere motivare in questa direzione. Tutto questo ha due facce, una positiva che fa una visione più completa ed equilibrata del benessere, una, preoccupante, che individua fattori diretti di produzione economica fattori del tutto personali e privati, come gli stati dell’umore, le conoscenze, le motivazioni. C’è un’ingerenza potentissima nel nostro sviluppo personale, subordinato agli interessi generali e allo sviluppo della ricchezza nel senso di denaro, di mercato. Questa è la ragione di questa strana “pompatura” in certe direzioni produttive della vita. Poi ci sono gli aspetti culturali, che non dipendono da quelli economici. E’ certamente impressionante che ci sia questa rimozione degli aspetti dolorosi della vita, il lutto, che la comunità non voglia comunicare spazio e attenzione alla morte, al supporto del lutto, alla memoria, che non voglia supportare le persone che stanno male, che bisogna sbrigarsi rapidamente ad uscirne.
Dovremmo interrogarci su questo, gli psicologi soprattutto; stiamo adottando un ideale di vita deformato, strano, anomalo, in cui “lo star bene veramente” si traduce con uno stato dell’umore non solo piacevole, ma anche attivo e motivato. Una volta non era così, il sentimento più positivo era la serenità, la letizia della vita contemplativa, non attiva, “gasata”. Dovremmo preoccuparci di questi cambiamenti culturali, tanto più se nell’immaginario si diffonde inconsciamente che soffrire, avere dolore, star male, stare in pena è una cosa da sgombrare, da mandare via, è patologico, qualcosa da curare. No! E’ un equivoco, non è che star bene di mente è stare lieti e motivati. Uno può essere molto contento, molto lieto, molto gasato ed essere da ricovero coatto. La letizia è giustificata dagli eventi, dai fatti? O è uno stato dell’umore improprio e delirante? Non è la qualità dell’umore che lo rende sano o non sano, ma la sua appropriatezza e pertinenza. Anche lo psicologo deve stare attento alla richiesta che gli viene fatta e a questi stereotipi culturali e deve domandarsi se lo stato dell’umore sia cattivo in sé perché la persona sta male o perché sia effettivamente fuori luogo. Se lo prova su pensieri infondati, in circostanze, con modalità, con intensità inappropriate o se non è in grado di provare certi stati dell’umore auspicabili.
D.: Lo psicologo-psicoterapeuta dovrebbe allontanarsi da questo tipo di valori della società?
Dovrebbe avere la capacità di porsi a un metalivello, di osservare se stesso e la propria professione e la domanda che la società gli pone da fuori, chiedendosi se è giusto il ruolo che gli si attribuisce o se passa da una deformazione culturale e commerciale. Osservare se stesso e la propria professione in maniera critica. Non è facile. Ma in tutte le professioni dovrebbe essere così, anche un insegnante dovrebbe osservarsi da fuori.
D.: Un’ultima domanda, se dovesse dare un consiglio allo psicologo-psicoterapeuta moderno, quale sarebbe?
Rivendicare nel modo giusto il proprio ruolo e la propria professionalità. Non confondere il proprio valore, il proprio riconoscimento, il riconoscimento di un setting, che è una pura ritualità, il riconoscimento di certe modalità “devo fare il colloquio chiuso nella stanza, sennò non sto facendo il mio mestiere”, queste sono scempiaggini! E creano grossi problemi nei Servizi. La capacità e la professionalità dello psicologo consiste nella sua modalità di leggere i fenomeni, nel leggere i comportamenti individuali, relazionali e sistemici con chiavi di lettura che gli altri non hanno e sulla base di questo il significato di certi interventi, verbali, affettivi, relazionali o anche pratici. E’ l’unico che ha le chiavi di lettura per un progetto di intervento unitario, che sa mettere insieme l’aspetto sociale e l’aspetto economico, di colloquio. Lì deve rivendicare la sua professionalità, non in cose simboliche e rituali, ma che gli venga riconosciuto che ha gli strumenti interpretativi e di lettura degli interventi e di cosa si può cambiare che gli altri non hanno. Questo gli deve essere riconosciuto esplicitamente, senza delegare ad altre figure competenze sue, non avere come ideale il setting privato e come rivendicazione il colloquio settimanale. Si può essere un grande psicologo e fare un eccezionale lavoro clinico anche andando a casa, accompagnando la persona al bar, vedendo i familiari. Il problema è solo come lo fa.
Bergen Work Addiction Scale: per misurare la Dipendenza dal Lavoro.
– Rassegna Stampa –
Sulla scia della globalizzazione e delle nuove tecnologie i confini tra lavoro e vita privata sono sempre più sfumati e si assiste ad un aumento della dipendenza da lavoro; workaholic è il termine usato per descrivere proprio la tendenza di alcuni a lavorare troppo e in modo compulsivo.
Secondo diversi studi la dipendenza da lavoro, oltre a creare conflitto tra lavoro e vita familiare, sarebbe associata all’insonnia, a problemi di salute, burnout e stress. Un team di ricercatori guidati dal dott. Cecilie Schou Andreassen della facoltà di psicologia dell’università di Bergen (UiB) in collaborazione con la Bergen Clinics Foundation e la Nottingham Trent University, ha sviluppato uno strumento per misurarla: la Bergen Work Addiction Scale. Questo nuovo strumento, primo del suo genere in tutto il mondo, si basa su elementi nucleari riconosciuti come criteri diagnostici in molte forme di dipendenza.
Autosomministrandosi la Bergen Work Addiction Scale, le persone possono testare il loro grado di dipendenza da lavoro: non-addicted, leggermente drogato o workaholic.
La scala, che è stata costruita testando dipendenti norvegesi provenienti da 25 diversi settori, riesce a distinguere in modo affidabile tra maniaci del lavoro e non; per questo si pone come un ottimo strumento di screening che può facilitare sia il trattamento che la stima dell’entità del problema nella popolazione generale di tutto il mondo.
Volete fare una prova? Rispondete al breve questionario che segue e testate il vostro livello di dipendenza dal lavoro!
La Bergen Work Addiction Scale utilizza sette criteri di base per identificare la dipendenza del lavoro, ciascun item avrà uno dei seguenti punteggi: (1) Mai, (2) Raramente, (3) A volte, (4) Spesso, e (5) Sempre:
– Pensi a come avere più tempo a disposizione per lavorare.
– Spendi molto più tempo lavorando di quanto inizialmente previsto.
– Lavori per ridurre il senso di colpa, ansia, impotenza e depressione.
– Capita che altri vi dicano che dovete ridurre il lavoro, senza che voi gli diate retta
– Ti senti stressato se non ti è permesso di lavorare.
– Togliete importanza agli hobby, al tempo libero, e all’esercizio fisico a causa del vostro lavoro.
– Lavorate così tanto che questo ha influenzato negativamente la vostra salute.
Lo studio di Andreassen mostra che il punteggio di 4 (spesso) o 5 (sempre) in almeno quattro dei sette elementi è un indicatore della probabilità di essere un workaholic…
BIBLIOGRAFIA:
Andreassen, C. S., Griffiths, M. D., Hetland, J. & Pallesen, S. (2012). Development of a work addiction scale. Scandinavian Journal of Psychology. DOI: 10.1111/j.1467-9450.2012.00947.x
Riciclo e Raccolta Differenziata: la Psicologia dietro al cambiamento
Da un punto di vista psicologico, il riciclo e la raccolta differenziata non consistono semplicemente nel gettare una bottiglia, o un pezzo di carta in un particolare cestino, ma costituiscono un’operazione che coinvolge diversi processi all’interno di contesti specifici.
Il fatto che le autorità locali e le compagnie di servizi siano ritenute capaci di fornire infrastrutture sufficienti per il riciclo non è solo un problema pratico ma anche una questione di percezione pubblica. Pertanto, l’importanza del contributo psicologico diventa evidente ogni volta che l’attenzione è rivolta agli atteggiamenti che sottostanno alla percezione della raccolta differenziata e del riciclo, al contesto sociale in cui questa attività ha luogo, nonché alla relazione tra le attività ecologiche e l’immagine di Sé.
Oggigiorno, un numero sempre più consistente di prove consente di affermare che gli interventi classici, caratterizzati dalla manipolazione del comportamento, come premi e punizioni, non sembrano avere il potenziale per promuovere cambiamenti a lungo termine, ma funzionano come semplici meccanismi per incrementare i livelli di partecipazione durante le fasi iniziali dei programmi di raccolta differenziata.
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Diversamente, interventi basati sull’impegno (commitment interventions), sulla fissazione di obiettivi (goal-setting), sui feedback o sulla stimolazione (prompting) risultano più efficaci perché fanno appello ad una dimensione normativa, personale e sociale, che mobilita meccanismi auto-regolatori dell’individuo e/o del gruppo verso una partecipazione continuativa.
È stato ampliamente dimostrato che l’induzione di una norma chiara sul riciclo in gruppi psicologicamente influenti, come i membri di un vicinato, sia fondamentale per la promozione di una ristrutturazione nei comportamenti di ciascun membro della comunità. A prescindere dagli atteggiamenti personali riguardanti il riciclaggio e l’ambiente, l’assenza di tale norma costituisce un grosso ostacolo alla partecipazione ai programmi di raccolta differenziata dei rifiuti e favorisce lo sviluppo di pregiudizi nei confronti di chi ricicla. Essi, infatti, vengono facilmente etichettati come “strani”, “diversi”, “alternativi”, perché non aderiscono a norme sociali più forti, incompatibili con questo comportamento ecologico.
In conclusione, appare evidente che per favorire lo sviluppo di norme ecologiche pro-riciclo e di una cultura del riciclaggio sia necessario presentare degli stimoli che descrivano la raccolta differenziata con un’immagine di successo, in cui tutti abbiano da guadagnare, nonché promuovere un’atmosfera sociale nella quale l’immagine di sé come riciclatore sia positiva ed incoraggiata.
BIBLIOGRAFIA:
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Nella società contemporanea sempre più spesso sono propinati dai media stereotipi di qualsiasi genere, basti pensare che nel linguaggio comune spesse volte si parla facendo riferimenti a immagini viste in pubblicità o motti proposti da fantomatici comici. Nel lungo periodo tutto questo si riflette sulle nostre abitudini fino a non farci distinguere cosa è realmente giusto da cosa non lo è, e lo stereotipo diventa un pregiudizio, che se non sottoposto a critica induce a comportamenti classisti e razzisti. Entrando nel vivo del discordo è opportuno effettuare delle precisazioni.
Il concetto di stereotipo proviene dall’ambiente tipografico ed indica la riproduzione di immagini a stampa per mezzo di forme fisse. Dopo essere stato introdotto nell’ambito delle scienze sociali assunse la connotazione di mezzo atto a conoscere la realtà attraverso delle immagini mentali (apprese o fantasticate).
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Tali immagini sono delle semplificazioni spesso molto rigide, e si formano facendo riferimento agli usi e ai costumi specifici di una determinata realtà culturale e possono avere valenza positiva o negativa. Sono acquisiti dai singoli individui e utilizzati per una efficace comprensione della realtà. Gli stereotipi svolgono una funzione difensiva per la persona: contribuiscono al mantenimento di una cultura e salvaguardano le posizioni acquisite.
Lo stereotipo, in molti casi, è intimamente legato al pregiudizio, poiché è una rappresentazione mentale di un preconcetto, vale a dire l’insieme degli elementi di informazione e delle credenze circa una certa categoria di oggetti, rielaborati in un’immagine coerente e tendenzialmente stabile, in grado di sostenere e riprodurre il pregiudizio nei loro confronti. Il pregiudizio come afferma la parola stessa è un giudizio che precede l’esperienza, si forma in assenza di dati empirici, per questo spesse volte errati, forzosi, affettati.
Già Bacone fornì una classificazione degli errori o illusioni dello spirito (idola mentis) che si allontanano dalla vera conoscenza del mondo. Di conseguenza si determina la tendenza ad esprimere un giudizio, su qualcuno o qualcosa, sulla base di pregiudizio che condiziona in maniera pesante le sue scelte.
Ma come si passa dallo stereotipo al pregiudizio? Qualsiasi cambiamento, da sempre, genera ansia e intolleranza all’incertezza, che nel momento in cui diventa ingestibile determina uno schema mentale molto rigido attraverso il quale si interpreta la realtà. Quindi, accade che le persone o i gruppi creino delle rappresentazione degli altri, sulla base di inadeguate informazioni che permettono di generalizzare un comportamento, basandosi su dati reali esagerati (stereotipo). Se ad esso vengono associati giudizi, opinioni e sentimenti negativi, sostenuti persino di fronte alla prova del contrario, si genera un pregiudizio. Si può affermare che lo stereotipo è legato a un livello percettivo – mentale, ossia quell’insieme di credenze negative che un gruppo sociale ha nei confronti di un altro gruppo.
Il pregiudizio, invece, rientra nella sfera emotiva: è una valutazione a priori che un gruppo effettua nei confronti di un altro gruppo. Esso influenza le scelte e gli atteggiamenti (l’agito). Una persona è, allora, catalogata e valutata in base a tali modelli precostituiti, che hanno la funzione di allontanare da un pericolo presunto, ma impediscono una conoscenza reale della persona concreta.
La mente umana mantiene gli stereotipi non per una deprecabile tendenza all’errore, ma per non rimanere senza schemi e senza aspettative; talvolta per ottenere la riduzione degli stereotipi è sufficiente fornire alternative. Questo processo il più delle volte diventa difficile, poiché interagendo con gli altri sulla base dei propri stereotipi si selezionano, caleidoscopicamente, solo una serie di comportamenti e azioni che confermano lo schema mentale e in quanto tale portano all’affermazione del pregiudizio, profezia che si auto-avvera.
Tutto questo, da un punto di vista cognitivo porta benefici a lungo termine, ovvero crea la possibilità di acquisire informazioni con il minimo sforzo e di incamerarne altre facendo riferimento a quanto già appreso. Si creano in questo modo delle euristiche, ossia strategie di pensiero semplificate, delle vere e proprie scorciatoie cognitive che permettono alle persone di giungere rapidamente a valutazioni e decisioni.
Si ricorre alle euristiche quando è necessario elaborare giudizi complessi e il numero delle informazioni a disposizione è troppo elevato. In questo caso la mente cerca degli escamotage che permettano di ridurre il tempo di elaborazione dei dati al fine di prendere una decisione economica in termini cognitivi. Tuttavia le euristiche, se da un lato semplificano il lavoro della nostra mente, dall’altro possono portare a conclusioni errate o semplicistiche. Sicuramente per la mente operare secondo questi stili decisionali apporta dei benefici in termini di economia cognitiva, per questo veloci e sbrigativi. E’ necessario sapere che questa modalità di pensiero potrebbe non corrispondere esattamente alla realtà dei fatti e per questo andrebbe sottoposta a una ulteriore e più approfondita valutazione.
BIBLIOGRAFIA:
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Una storia di Pregiudizio.
Qualche giorno fa, dopo una lunga ed estenuante giornata di lavoro, mi accingevo a tornare finalmente a casa. La metropolitana era gremita di gente, soprattutto tifosi entusiasti nell’attesa di poter assistere alla tanto ambita partita milan-barcellona. Ed ecco arrivare la mia corsa, e la voglia di casa impazzava. In attesa di poter salire, una signora di mezza età dal fare austero mi spinge contro il poggia mani, che prontamente cerco di afferrare senza successo facendomi male ad una spalla. Di conseguenza, invito la signora a non perseverare e lei difende il suo fare sostenendo che se non mi avesse spinta io non mi sarei spostata, ignorando la restante parte di gente. Ha continuato ammonendomi, “proprio TU devi stare zitta!”. Ed io, “come mai signora, cosa ho fatto?”. E dopo aver farfugliato insulti che vi risparmi ecco le educate parole, “tu sei una di campagna, quindi devi stare zitta!?!”. Per la prima volta nella mia vita sono stata oggetto di razzismo, di pregiudizio, o di giudizio. Che brutta sensazione! Tanta rabbia, tanta amarezza! Allora, decido di fare un passo a ritroso e capire realmente cosa succede, quando si è soggetti a queste manifestazioni.
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Sicuramente, il pregiudizio e il razzismo hanno causato enormi sofferenze attraverso la storia, proprio per questo è molto importante cercare di capire come agiscono. Cosa si intende, per pregiudizio e per Razzismo? Entrambi i termini si riferiscono a una visione negativa di un gruppo di persone basate unicamente sulla loro appartenenza a quel gruppo o etnia. Il razzismo, in particolare, è una specifica forma di pregiudizio, che coinvolge gli atteggiamenti o comportamenti pregiudizievoli nei confronti dei membri di un gruppo etnico. Di conseguenza, si creano degli stereotipi, ossia si individuano tratti particolari che portano una persona a sentirsi parte di un determinato gruppo. Si tratta, dunque, di luoghi comuni, ad esempio gli asiatici sono laboriosi e studiosi, gli ispanici sono dei “macho”, i bibliotecari sono introversi, e le cubiste sono donne di “cattivo affare”.
A lungo andare questi stereotipi assumono connotazioni e accezioni negative e seguono di pari passo il pregiudizio. Quando ciò accade il pregiudizio si fonde con lo stereotipo. Per definizione, gli stereotipi sono limitativi e ignorano l’individualità delle persone, si perde quello che realmente si è per diventare stereotipo stesso.
Quindi, chi è immigrato, diventa automaticamente emarginato, poiché non autoctono, non integrato, e perpetuando questi schemi, non lo sarà mai.
Credo che in ognuno di noi ci sia una parte dedita al pregiudizio, in fondo fa parte del nostro essere e se così non fosse stato non avrebbe creato dei problemi. D’altra parte ciascuno potrebbe essere vittima di pregiudizi per un motivo qualsiasi. La soluzione non è celarsi dietro falsi perbenismi, o moralismi, ma accettare di poterlo esprimere e di esserne vittima. Solo l’accettazione potrebbe portare a una soluzione, il riconoscere i propri limiti aiuta a non vedere inutili appendici o false etichettature negli altri.
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