La memoria prospettica fa riferimento ai processi e alle abilità implicate nel ricordo di intenzioni che devono essere realizzate nel futuro.
Con il termine memoria prospettica si intende il ricordarsi di portare a termine quelle intenzioni che, per diverse ragioni, non possono essere realizzate nel momento stesso in cui vengono formulate, ma devono essere rimandate ad un momento successivo (Meacham e Singer, 1977). Si tratta di una abilità che tutti noi utilizziamo quotidianamente; ricordarsi di partecipare ad una riunione, di comprare le batterie per la sveglia, di seguire una trasmissione televisiva alle nove di sera, di fare una telefonata tra venti minuti sono tutti esempi di compiti di memoria prospettica.
La memoria prospettica rappresenta un fenomeno multidimensionale, perché gli eventi mentali che entrano in gioco sono qualitativamente diversi: cognitivi, emotivi e motivazionali.
In termini generali nel processo prospettico si distinguono almeno cinque fasi (Ellis 1996):
1) formazione dell’intenzione;
2) intervallo di ritenzione;
3) intervallo di prestazione;
4) esecuzione dell’azione intenzionale;
5) valutazione del risultato.
La prima fase fa riferimento alla codifica del contenuto dell’azione futura (il cosa), dell’intenzione (la decisione di fare qualcosa) e del contesto di recupero (il quando, cioè il momento giusto per eseguire l’azione). Ad esempio supponiamo che la nostra azione sia quella di voler chiamare l’amico Marco alle ore 18. Nel nostro esempio questa fase corrisponde al momento in cui decidiamo che alle 18 chiameremo Marco.
La seconda fase fa riferimento all’intervallo tra il momento della codifica dell’intenzione e l’inizio dell’intervallo potenziale di prestazione; questi intervalli possono variare notevolmente, sia nella durata (possono durare da pochi minuti a diverse ore o giorni) sia nel contenuto. Durante l’intervallo di tempo che separa la formulazione dell’intenzione dalla sua esecuzione (fase di delay), generalmente il soggetto è coinvolto in altre attività che assorbono le risorse cognitive di chi deve realizzare l’intenzione precedentemente pianificata. Questa fase comprende tutte le attività (ad es: studiare, lavorare, chiamare altri amici ecc) che noi svolgiamo tra il momento in cui decidiamo di chiamare Marco e il momento in cui recuperiamo la nostra intenzione.
La terza fase si riferisce all’intervallo di prestazione, cioè al periodo di tempo durante il quale l’intenzione deve essere recuperata. Di solito, il recupero dell’informazione è collegato a una situazione ben precisa e i fattori che influiscono sulla probabilità che un’azione futura venga ricordata con successo sono diversi.
Per prima cosa, è necessaria una corrispondenza tra un contesto di recupero già codificato e la situazione attuale (quello che in inglese viene definito con il termine matching). Affinchè una data situazione sia riconosciuta come familiare e legata a qualche esperienza precedente, è sufficiente una sovrapposizione delle caratteristiche codificate con quelle percepite (Mandler, 1980). Ma perché si recuperi il contenuto dell’intenzione e si svolga correttamente l’azione non basta la sensazione di familiarità generata dall’apparizione dell’evento-target, ma è necessario anche ricordarsi cosa fare esattamente. Quindi è necessario che venga riattivata la componente prospettica, e che l’attenzione si sposti dall’attività che stiamo svolgendo al compito prospettico. Nel nostro esempio questa fase corrisponde all’interruzione dell’attività che stiamo svolgendo intorno alle ore 18 (ad esempio: studio o lavoro) e recupero di ciò che ci eravamo prefissati di fare, ovvero chiamare Marco. Se una sola fase di questo processo viene “saltata”, si va incontro al parziale o totale fallimento prospettico: “ricordo che dovevo fare qualcosa alle 18, ma non ricordo cosa” oppure “ricordo che devo chiamare Marco ma non ricordo l’ora”.
La quarta fase riguarda la realizzazione dell’intenzione, che si ha solo se si inizia ad eseguire l’azione. L’esecuzione dell’azione intenzionale implica non solo che il soggetto ricordi che qualcosa deve essere fatto in un determinato momento e in cosa consiste questo qualcosa, ma che decida di eseguire l’azione. Nel nostro esempio questa fase consiste nell’effettiva esecuzione della telefonata a Marco.
Infine si valuta il risultato confrontando il contenuto retrospettivo (fase 5).
Una cattiva prestazione prospettica però può derivare da altri fattori, come ad esempio la mancanza di abilità o di conoscenze necessarie per affrontare la prestazione; inoltre, possono intervenire degli eventi che interrompono l’azione in corso e allora è necessario ristabilire oppure ripianificare l’azione iniziale attraverso una nuova codifica. Può capitare infatti di avere un imprevisto che ci obbliga a modificare la nostra organizzazione e in questo caso a rimandare la telefonata all’amico.
BIBLIOGRAFIA:
Mandler, G. (1980). Recognition: The Judgment of Previous Occurrence, Psychological Review, 87, 252-271.
Meacham, J.A., Singer, J. (1977). Incentive effects in prospective remembering, The Journal of Psychology, 97, 191-197.
Ellis, J.A. (1996). Prospective memory or the realization of delayed intentions: A conceptual, framework for research. In M. Brandimonte, G.O. Einstein, M.A. McDaniel (a cura di), Prospective memory: Theory and applications, 1-21
Iniziare una Terapia Cognitiva #3: L’accertamento cognitivo
Per effettuare l’accertamento cognitivo il terapeuta deve indirizzare il paziente a scoprire quali sono quei pensieri che determinano la sofferenza mentale prestando estrema attenzione a quel che dice il paziente.
Non dobbiamo dimenticare che i pensieri patologici sono soprattutto pensieri del paziente stesso, dell’irripetibile persona che sta dall’altra parte del tavolo, e occorre non sovrapporre le proprie preferenze e ossessioni a quelle del paziente.
Al tempo stesso, un’apertura totale rischierebbe di trasformarsi in disorientamento. Il terapeuta deve avere in mente una direzione, non obbligata ma plausibile e man mano che emergono le informazioni, sempre più probabile, e usarla come bussola che dia sicurezza al procedere.
Questa direzione preferenziale che orienta la nostra bussola è l’individuazione del cosiddetto pensiero negativo. Che vuol dire? Vuol dire che dobbiamo fare attenzione a quei tipi di elaborazione mentale del paziente che lo portano a vedere le cose in maniera negativa, catastrofica, terribilizzante.
L’ipotesi iniziale del terapeuta cognitivo è quindi che tendenzialmente il paziente abbia un problema di ansia. Attenzione, però. Questo non vuol dire che dobbiamo applicare sistematicamente l’etichetta di “ansioso” a tutti i nostri pazienti, e assegnare meccanicamente questa diagnosi. Significa semmai verificare se ci siano stili di pensiero ansiosi.
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Per il terapeuta cognitivo l’ansia è qualcosa di molto semplice: è l’aspettativa timorosa che accada qualcosa di negativo, basata sulla sopravvalutazione della pericolosità di qualcosa e la sottovalutazione delle proprie capacità di reagire. E questo il primo errore cognitivo che incontriamo, che va sotto il nome di terribilizzazione, o catastrofizzazione (catastrophizing).
Al tempo stesso non dobbiamo dimenticare di lasciar libero di oscillare l’ago della bussola. La nostra bussola va usata con flessibilità. Quand’anche il nostro paziente si confermasse ansioso, non dobbiamo dare nulla per garantito. Non si deve mai dimenticare che la sofferenza emotiva di tipo ansioso è connotata da uno stile di pensiero vago e astratto, poco attento al dettaglio concreto. L’individuo ansioso valuta la realtà come pericolosa. Tuttavia questa valutazione rimane generica e poco definita. Il pericolo è denominato ma non definito. Qualcosa di dannoso può accadere, ma non si bene cosa, o almeno come.
Il pensiero ansioso è un pensiero povero e ripetitivo, poco attento ai contorni reali delle cose, delle persone, degli eventi (Borkovec e Inz, 1990). Il terapeuta deve tenere conto di questo dato. Egli inizierà un lavoro di accertamento accurato e cauto, senza precipitarsi troppo rapidamente alla ricerca e alla formulazione dei pensieri disfunzionali. Al contrario, cercherà di essere quanto più possibile semplice e concreto. Prima di esplorare il perché di una certa paura, egli accerterà il quando. Quando accadono gli episodi fobici? In quali momenti del giorno? In concomitanza con quale stimolo o situazione facilitante? E con quale frequenza? Un accertamento eseguito in maniera accurata svolge non solo una funzione di raccolta dati, ma già terapeutica: in questo modo il terapeuta addestra il paziente a ragionare in maniera più calma e controllata sui suoi stati d’animo, più attento ai particolari e meno propenso a trarre affrettate conseguenze catastrofiche, subendo passivamente le proprie emozioni e reagendo a esse impulsivamente.
Facciamo un esempio:
Ilaria chiede un trattamento per una fobia dei cani.
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P.: “Ho paura dei cani”
Forte è la tentazione di iniziare subito un lavoro cognitivo sul timore dei cani, sulla loro pericolosità, sulle emozioni di paura, e così via. Eppure, l’accertamento accurato prosegue e il quadro si modifica. Assistiamo a un restringimento dello scenario ansioso:
P.: “Ho paura del cane del vicino”
Solo il cane del vicino? Che strano. Continuiamo a chiedere pazientemente in quali occasioni questa paziente ansiosa tema il cane del vicino.
P.: “Ho paura del cane del vicino quando vado a correre”
Alla paziente piace fare jogging. Si tiene in forma.
T.: “Ma come mai ha paura di questo cane solo quando esce per correre?”
P.: “Quando esco per non correre, prendo l’auto (non passo vicino al cane)”
Si delinea un quadro di evitamento abbastanza grave. La paziente ormai esce fuori di casa solo protetta dall’auto. Solo quando vuole fare jogging trova la forza di mettere il naso fuori casa senza protezioni. La paziente conferma:
P.: “Per ora esco solo in auto o accompagnata”
Proseguiamo l’accertamento.
T.: “Questo cane che fa? Si limita ad abbaiare? O sono possibili aggressioni?” Chiediamo.
P.: “Se il cane è legato non ho paura” . “Se c’è una staccionata non ho paura”
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Il terapeuta ormai immagina un certo quadro. Un quartiere residenziale con villette. Giardini, a quanto pare non recintati, all’americana. Il cane libero di scorrazzare oltre il prato del suo padrone. La paziente conferma.
P.: “Il giardino del vicino non ha staccionata”
Il terapeuta vede davanti a sé una paziente ansiosa, una signorina ben vestita e gentile, ma un po’ troppo timida. Un tempo, la sua personalità sarebbe stata definita fobica. Questo cane è libero di dare fastidio, ma quanto è effettivamente pericoloso?
P.: “Anche se il cane è piccolo ho paura”
In maniera tipica, la paziente sottolinea la sua ansia. La dimensione reale del cane non conta, conta l’emozione interiore. Solo in un secondo momento si limita a fornire un’informazione neutra:
P.: “Il cane è piccolo”
Poi aggiunge, confermando la sensazione claustrofobica di assedio, e il suo desiderio di evitamento:
P.: “La strada è a fondo cieco: mi obbliga a passare di fronte al giardino del vicino”
Ma non perdiamo di vista la realtà. La paziente è ansiosa, ma non è ancora detto che questo cagnolino non abbia le sue responsabilità. Non è pericoloso, ma è fastidioso.
P.: “Una volta ha morso mia sorella” . “Digrigna i denti in maniera aggressiva: non scodinzola”
Per poi concludere sconsolatamente:
P.: “Insomma, non passo di lì perché temo che possa mordermi”
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Siamo arrivati alla fine? Forse si. O forse no. Possiamo finalmente iniziare a trattare cognitivamente questa situazione, con il suo correlato di scopi, credenze ed emozioni. Eppure, prima di iniziare, il terapeuta fa un’ultima domanda di accertamento. Una domanda forse non troppo cognitiva, ma di gestione comportamentale. D’altro canto la terapia è cognitivo-comportamentale. Non c’è solo la gestione interiore delle emozioni, ma anche la costruzione di alternative di azione.
Insomma il terapeuta, di fronte a questo cane non legato, non controllato da una recinzione, libero di andare in giro per il vicinato a mordicchiare i passanti, chiede quasi distrattamente alla paziente se mai ha pensato di parlarne al suo proprietario.
P.: “Vorrei parlarne al vicino di questo cane da tanto tempo, ma non ci riesco. Mi vergogno troppo”
E così è apparso un mondo. Vergogna, oltre che ansia.
Forse addirittura fobia sociale? Una ragazza che da settimane non esce di casa a piedi a causa di un cane, e vorrebbe parlarne con il vicino, ma non trova il coraggio per troppa timidezza. Forse fa bene, forse questo cane è davvero piccolo e inoffensivo e non è il caso di disturbare questo vicino. O forse no. Forse c’è un tema di timidezza, in gergo tecnico di bassa assertività. Chi lo sa?
Le terapie sono piene di sorprese. Una sola cosa è sicura: meglio condurre un accertamento cognitivo accurato.
Nei casi clinici che seguono, l’arrosto sostanzioso dei vari pazienti è condito con il sugo della fantasia, per rendere non identificabili le persone e la lettura più avvincente. Spesso ho condensato in un solo paziente più persone e, quasi sempre ci sono scappati pezzetti di me stesso. – Leggi l’introduzione –
#3 – Andrea lo Sfortunato
Disturbo paranoide di personalità
Disturbo d’ansia di separazione
L’appostamento nei confronti di Andrea è durato alcuni anni. La necessità di una psicoterapia era avvertita dal fratellastro, mio amico e collega, ma in nessun modo da lui.
Il motivo della preoccupazione del fratello era il fatto che Andrea si fosse assestato in una convivenza con la madre settantacinquenne dalla quale dipendeva in tutto e per tutto, anche economicamente, non avendo da molto tempo un lavoro. Il tema del lavoro perduto, impossibile da trovare e non cercato sarà il filo conduttore del lavoro con Andrea.
Andrea non ha nessuna intenzione di andare in psicoterapia perché ritiene che non ci sia in lui nulla che non vada. Non lavora perché è stato sfortunato e perché lavorano solo i raccomandati. Sta con la mamma, che lo accudisce come un bambino di sei anni, perché lei è fatta così e le fa piacere farlo.
Andrea chiede spontaneamente aiuto in seguito a quella che, tecnicamente, si chiama una bouffee delirante acuta, che lo spaventa moltissimo e gli fa pensare di essere matto. L’episodio acuto si consuma in un tempo di circa tre giorni.
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Il ragazzo, disoccupato, passa circa otto ore al giorno sul sito della sua squadra di calcio del cuore, la Juventus, dove partecipa a molteplici forum. Oltre che alle vicende sportive, Andrea è interessato e dà contributi sulla gestione economica della società, essendo laureato in economia. La discussione con i partecipanti al forum è accesa e Andrea totalmente assorbito da essa. La notte dorme solo poche ore per non staccarsi dal computer e, mentre mangia con la madre, si alza continuamente per seguire l’andamento del dibattito. Un giorno, un interlocutore scrive che “per partecipare al forum bisogna avere molto tempo a disposizione”; Andrea lo interpreta come un riferimento allusivo alla sua condizione di disoccupato. Ribatte che dovrebbero parlare di certi argomenti solo le persone con una competenza professionale nel campo. Il giorno successivo riceve una mail con una offerta di lavoro per venditore porta a porta di piccoli elettrodomestici. Il suo interlocutore è certamente andato su Internet e, trovato il suo curriculum, ha visto che è stato licenziato dall’ultima azienda e ora lo sbeffeggia dicendogli che è buono solo a fare il venditore ambulante. Passerà l’intera notte a togliere i suoi curricula da tutti i siti WEB delle società interinali cui lo aveva trasmesso. Il giorno successivo, un’altra mail lo informa che è stato sorteggiato come fortunato vincitore di un premio di centomila € messo in palio dalle Poste Italiane.
La faccenda, a suo parere, significa certamente due cose: la prima, che il misterioso interlocutore è entrato nell’hard disk del suo PC, considerato che i suoi curriculum professionali non sono più sul web ed ha visto che dieci anni prima ha lavorato per un trimestre come portalettere. Continua, dunque, a deriderlo, dicendogli che al massimo può fare il postino o vivere di beneficenza con i premi che si vincono per fortuna e non per meriti che lui non ha. La seconda che, se questa persona ha potuto accedere all’hard disk del suo PC, avrà visto tutti i programmi, film e musica che sono stati scaricati, illegalmente, da Andrea.
Il ragazzo si convince, perciò, che da un momento all’altro arriverà la finanza ad arrestarlo e finirà i suoi giorni in prigione. Immagina i commenti della gente: “una famiglia così perbene”, “da studente chissà che carriera si pensava lo aspettasse”, etc.
Il dubbio colmo di angoscia lo tormenta e non riesce a dormire per tutta la notte. La sera successiva, durante la cena, la madre gli dice “spegni quel computer e vediamo un telegiornale insieme che non ti vedo più da quando ce l’hai con la Juventus. Il telegiornale delle 20 dà, come prima notizia, l’arresto di alcuni boss della camorra per traffico illecito di stupefacenti e di software pirata.
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E’ un chiaro avvertimento a lui, “hai le ore contate, il cerchio si sta stringendo”, si convince che sia sotto osservazione da mesi e che, a capo del complotto, ci siano i direttori dell’azienda da cui è stato licenziato e con la quale ha in corso una vertenza giudiziaria. Ma, quello che è peggio, è che la madre lo abbia tradito e poi, pentitasi, lo abbia costretto a vedere il telegiornale per dargli il tempo di scappare. E’ in trappola, domani i giornali riporteranno le foto dell’arresto che avverrà in nottata, il cuore gli batte forsennatamente, gli gira la testa, respira a fatica, è completamente sudato, guarda la madre e gli pare diversa dal solito, forse non è lei ma un agente travestito che, con la minestra, gli ha somministrato dei calmanti per rendere più agevole l’arresto imminente. Più tardi, nella notte, sveglia la madre nel tentativo di strapparle dal volto la maschera con cui si è camuffato l’agente che, sotto mentite spoglie, vive con lui da qualche giorno per osservarne e annotarne tutte le mosse.
Quando la madre si sveglia, si agita terribilmente per le condizioni in cui vede Andrea che, nel frattempo, ha chiamato i carabinieri per costituirsi ed evitare un conflitto a fuoco. I carabinieri giungono in contemporanea al fratello, a sua volta avvertito dalla madre, si rifiutano di procedere all’arresto e scherzano sui software scaricati illegalmente di cui sono pieni anche i computer della caserma. Il fratello convince Andrea a prendere 60 gocce di Lexotan integrate, nei giorni successivi, con 20 gocce di Haldol, su mio consiglio. Andrea è molto spaventato per quanto è successo, sente di aver oltrepassato il confine della follia che credeva non lo riguardasse affatto, prova estrema vergogna e grande ansia circa la possibilità di impazzire definitivamente.
Grazie a questo episodio l’appostamento di tre anni cessa e Andrea accetta di venire in terapia.
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E’ un uomo di trentanove anni, dal fisico che denota un importante passato sportivo, ora accantonato a favore di una sportività da televisione e divano che lo ha portato ad accumulare qualche chilo di troppo sul giro vita. Il padre di Andrea, rimasto vedovo molto giovane della prima moglie, da cui aveva avuto il primo figlio, si è presto risposato con sua madre ed è poi morto quando Andrea aveva quindici anni.
Il padre , agente di polizia stradale, ha cresciuto i figli in caserma. I valori trasmessi, a parole e con l’esempio, erano l’onestà, la fiducia nella istituzioni, il senso del dovere fino al sacrificio, l’assoluta irreprensibilità, il rispetto acritico di ogni regola. L’unica cosa che il padre non gli ha trasmesso è stata la passione per la Roma e Andrea, giunto all’età della ragione, ha scelto la Juventus perché era la squadra più vincente e già allora non tollerava stare dalla parte degli sconfitti. Un altro motivo della scelta era stato il fatto che anche il fratello più grande era juventino.
Il fratello, di undici anni più grande, riveste nella sua vita un ruolo importante: é stato, senza dubbio, una figura paterna protettiva sempre pronta ad intervenire in caso di bisogno, come in questa occasione, ma anche un costante punto di raffronto dal quale Andrea esce regolarmente perdente. Ha conseguito due lauree, ha degli ottimi lavori ed è molto apprezzato, impegnato in politica ha avuto importanti incarichi, è felicemente sposato ed ha due figli grandi e in gamba, insomma lui è il figlio riuscito e Andrea il cocco della mamma.
I suoi successi suonano, per Andrea, come un rimprovero per quello che non è riuscito a fare. Di contro, Andrea rimprovera apertamente il fratello di non fare abbastanza per trovargli un lavoro, che ritiene risolverebbe ogni suo problema.
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Al momento in cui Andrea viene in terapia ha due grandi preoccupazioni: il ripetersi di una crisi di follia e, dunque, il diffondersi della notizia in paese, fortunatamente scongiurato nel primo episodio e la futura morte della madre, cardiopatica, che lo lascerebbe senza risorse economiche e, soprattutto, senza quell’appoggio affettivo e concreto senza il quale Andrea ritiene che non sopravviverebbe. Per comprendere lo stato d’animo di Andrea rispetto alla morte della madre occorre mettersi nei panni di un bambino di sei anni che abbia però la consapevolezza di un adulto che, alla madre settantacinquenne cardiopatica, non resta poi tanto da vivere.
I due vivono in totale simbiosi. Tutta la gestione della casa è a cura della madre che fa anche la spesa e compra ogni cosa di abbigliamento, o personale, che serva ad Andrea. Mangiano esattamente le stesse cose e possono fare la dieta solo se la fanno entrambi e, spesso, dormono nello stesso lettone. Andrea non sa cucinare alcunché e tantomeno badare alla pulizia della casa e, come in una divisione di ruoli d’altri tempi, lui si occupa della macchina, della banca e delle bollette.
Riferisce di aver avuto e di avere attualmente una fidanzata, ma ne parla talmente poco e con continui clichè che mi convinco che di fatto non esista o che sia una semplice conoscente o, forse, un’ amica. La madre, incontrata per un colloquio, ritiene fermamente che quello sia il suo ruolo e che, senza di lei, Andrea sarebbe incapace di cavarsela e morirebbe in poche settimane, al termine delle scorte di viveri già pronti che lei tiene in frigo. Si mostra però persino dubbiosa sulla sua capacità di riscaldarli e conclude dicendo “finchè ci sono io posso stare tranquilla e dopo, tanto, non lo saprò e qualcuno ci penserà”.
La storia di vita di Andrea si identifica con il suo curriculum di studio e di lavoro ed il lavoro è il tema centrale delle sedute perché, intorno ad esso, si dipanano tutti i temi psicologicamente significativi che sono fondamentalmente quelli del valore personale e dell’immagine sociale, con un contorno di emozioni che oscillano tra orgoglio versus umiliazione e esaltazione versus autosvalutazione.
Andrea ha avuto una buona carriera scolastica e si è laureato in tempo in Economia e Commercio. Il suo successo scolastico e professionale ha acquistato ben presto il significato di un riscatto sociale, in quanto figlio di un semplice agente della stradale tutto il giorno in moto.
Un primo bias che ha ostacolato l’assunzione di un lavoro era che dovesse essere assolutamente prestigioso. Sin dall’inizio, infatti, Andrea si vedeva come direttore di una filiale bancaria. Per questo ha inizialmente rifiutato alcuni impieghi non all’altezza delle sue aspettative.
Un secondo ostacolo era dovuto alla impossibilità di Andrea ad allontanarsi dalla casa materna, quindi che il lavoro fosse vicino casa.
Un terzo bias è l’assoluta identificazione tra la persona e il lavoro che svolge. Per Andrea “non si fa un certo lavoro, lo si è”. Se si fa il commesso, si è sostanzialmente dei commessi e ci si situa nella scala sociale nel luogo destinato ai commessi.
Un quarto bias, in qualche modo connesso al precedente, è che un lavoro è per sempre. Forse a somiglianza dell’essere poliziotto del padre, lui percepisce lo svolgere un lavoro come un senso definitivo di appartenenza e qualsiasi cambiamento come un vero tradimento. Questo ha, come conseguenza, che Andrea non può cercare due lavori contemporaneamente, nè può cercarne uno migliore quando ne ha già uno. Per lui è come per un uomo sposato cercare un’amante.
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Nel corso degli anni ha comunque lavorato, ma i rapporti si sono interrotti perché non corrispondevano alle sue aspettative e, nonostante il totale impegno, non riceveva i meritati riconoscimenti.
Ciò ha sviluppato in Andrea una teoria della fortuna o, per dirla in modo più scientifico, un “locus of control” assolutamente esternalizzato. Pensa che il successo lavorativo e nella vita, che lui identifica in un unica condizione, dipenda esclusivamente dalla fortuna o dalle raccomandazioni.
Con il passare del tempo e l’aumentare del periodo di disoccupazione si sono manifestati due modi di pensare ulteriormente perniciosi. Il primo gli fa percepire come certificazione del fallimento delle sue aspettative di laureato l’accettazione di un lavoro non all’altezza. Dichiara apertamente che, fino a che non sarà costretto alla fame, preferisce pensarsi come un laureato in attesa di occupazione, un direttore generale in attesa di impiego, che un lavoratore che però ha definitivamente attaccato al chiodo le aspettative e gli investimenti fatti studiando. Il giorno che accetterà un lavoro calerà su di lui quella identità mentre fino a quel momento l’identità può modellarsi sulle aspettative cui, ufficialmente, non ha rinunciato. Così facendo, in attesa di un futuro luminoso, ha rinunciato a molteplici opportunità perché non perfette. Attualmente, per scartare le nuove occasioni che si presentano, utilizza anche il confronto con quelle cui ha rinunciato in passato e che, adesso, non essendo più possibilità praticabili gli appaiono interessanti. E’ come se si dicesse continuamente:
“ma come posso accettare oggi quest’offerta se ieri ho rifiutato quell’altra che era migliore? Se lo facessi significherebbe che mi sto abbassando sempre di più, che ho certificato il mio fallimento”.
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Quanto più riceve frustrazioni dal mondo reale del lavoro, tanto più Andrea si rifugia nel mondo virtuale del computer. Quando non supera un concorso o non riceve risposta ad una domanda aumentano le ore che passa davanti al computer. Il suo scopo è quasi completamente consapevole: dimostrare al mondo intero quanto valga e sia migliore di tutti gli altri. I forum sono la palestra preferita per questo esercizio di competizione: quando vince, ad esempio nei giochi on line (vedi il poker), attraversa veri e propri stadi di esaltazione, si crede imbattibile, lo comunica immediatamente a tutti e, in preda all’eccitazione, non dorme e continua a giocare. Quando poi qualcosa non va per il verso giusto immagina un complotto che lo controlla e lo ostacola deliberatamente. Durante un dibattito in chat sui proventi delle società calcistiche gli viene inviata un emoticon sorridente e lampeggiante: lo stanno deridendo e lo faranno fuori con la pressione alta rappresentata dal lampeggiare intermittente della faccetta. Il desiderio di successo e di trionfare sugli altri che muove Andrea mi sembra compensato da una regola, di probabile origine paterna, che dice pressappoco “non bisogna godere troppo, né mettersi in mostra ma accontentarsi di poco e fare in silenzio il proprio dovere”. Tale regola è pienamente condivisa dalla madre che punta ad una esistenza minimalista. Andrea si difende costantemente dal senso di colpa e, probabilmente, l’aver esternalizzato completamente “il locus of control” serve proprio a questo: non riconoscersi nessun potere lo esenta anche da qualsiasi responsabilità.
Andrea percepisce intorno a sé un mondo rimproverante che si concretizza nelle persone a lui più vicine, la madre e il fratello…
Quando accetta di impegnarsi in qualche impresa (il lavoro o una salutare attività fisica) non lo fa quasi mai per un reale desiderio, perché è sempre sopraffatto dalla paura: del fallimento nel caso di un lavoro, di un malore nel caso di una attività fisica. Se fa qualcosa è solo per evitare sia il rimprovero familiare, in cui credo fortemente presente anche l’immagine paterna, che la conseguente esclusione.
Questo genera un circolo interpersonale negativo: i familiari credono che l’unico modo per smuoverlo sia il rimprovero e dunque lo utilizzano di frequente, Andrea si sente rifiutato e non compreso e diventa fortemente ostile rovesciando su di loro, che non si danno abbastanza da fare, la colpa della sua situazione.
Inutile dire che l’aggressività verso i familiari diventa un ulteriore motivo di colpa e di vergogna.
La relazione terapeutica con Andrea è stata a tratti delicata per il suo percepirmi come la “longa mano” del fratello, che lo criticava e lo spingeva verso l’accettazione forzata di un lavoro per lui degradante. Le molte cose che mi accomunano al fratello, primo fra tutto l’amicizia, favorivano tale timore. Più volte temi di sospettosità paranoidea hanno coinvolto anche me, Andrea pensava che con il mio comportamento, gli oggetti sul tavolo, lo spostamento di un appuntamento o un capo di abbigliamento, volessi comunicargli qualcosa. Per nostra fortuna questo qualcosa non aveva mai il significato di un’ umiliazione, che è ciò che si aspetta dal mondo esterno, ma piuttosto di un rimprovero, che è pur sempre di provenienza familiare.
L’ottima intelligenza ha permesso ad Andrea di acquisire rapidamente una lucida consapevolezza dei suoi schemi di funzionamento ed in particolare dei bias cognitivi che girano intorno al tema del lavoro.
La psicoterapia ha seguito sostanzialmente tre direttive:
(1) il riconoscimento delle emozioni, in particolare della paura e dell’ansia, in modo da interrompere dei circoli viziosi che lo avevano portato ad esperienze di panico e vistosi evitamenti.
(2) l’acquisizione di una positiva auto immagine e la costruzione di scenari di vita in cui possa cavarsela da solo, anche senza la madre. Ciò è stato fatto coinvolgendo anche la stessa madre, per motivarla a quest’operazione di svincolo e per insegnare ad Andrea delle competenze concrete di gestione della vita quotidiana.
Il lavoro più impegnativo è stato quello di limitare l’uso del confermazionismo estremo che Andrea utilizza automaticamente in situazioni di stress. E’ un pensiero per così dire “panassociativo” con il quale trova collegamenti di tutto con tutto, a conferma delle sue due ipotesi peggiori che monitorizza sempre: scopriranno che non valgo niente, mi umilieranno perché sono tutti contro di me e, infine, sono gravemente ammalato anche se nessuno lo capisce.
Gli ho dimostrato, con divertimento di entrambi che, dato un elemento qualsiasi di partenza, si può arrivare ad un qualsiasi altro elemento di arrivo con una catena associativa piuttosto breve. Quello che più mi ha colpito, nel caso di Andrea, è stato di toccare con mano questa potenzialità delirante che si concretizza in una diatesi panassociativa nei momenti di stress e si attiva fuori dalla sua consapevolezza.
Mi sembra interessante aggiungere due osservazioni in proposito.
Sono da considerare stressanti le situazioni che riportano all’ordine del giorno i temi caldi del paziente, nel caso di Andrea il valore personale, nelle due connotazioni di ruolo professionale e di salute e forza del fisico. D’altro canto è vero che i temi caldi hanno un potere “morfoplastico” sulla percezione per cui c’è una tendenza a sovrainterpretare gli eventi alla loro luce.
In secondo luogo, ho avuto netta la sensazione che tale tendenza pan associativa e la conseguente deriva delirante vengano fortemente arginate dalla presenza di una relazione significativa concretamente in atto. E’ spesso successo che Andrea mi raccontasse esperienze francamente deliranti vissute appena la sera prima, nel silenzio della sua stanza, o addirittura pochi minuti prima da solo, in auto, durante il parcheggio. Queste esperienze cui attribuiva un grado di certezza assoluto, in mia presenza erano immediatamente intaccate dal dubbio. Dopo alcuni minuti poi, al di là di qualsiasi intervento specifico, divenivano da sole oggetto di critica, se non addirittura di ironia. Avendo condiviso con Andrea questa osservazione ne è nata una strategia di fronteggiamento del sintomo: quando si sentiva preda di tali stati d’animo, Andrea immaginava di essere nel mio studio o comunque di raccontarmi quanto provava e ciò arginava l’esondazione delirante.
The Emotional Oracle Effect: il potere predittivo delle sensazioni
– Rassegna Stampa –
Avere fiducia nelle proprie sensazioni facilita la previsione di eventi futuri: questo è l’esito di una ricerca che a breve verrà pubblicata su Journal of Consumer Research da un gruppo di ricercatori della Columbia Business School.
In una serie di otto studi ai partecipanti veniva chiesto di predire diversi esiti futuri quali per esempio la nomina del candidato democratico alle elezioni presidenziali (nel 2008), il successo al botteghino di nuove uscite cinematografiche, la squadra vincitrice a un campionato di football e persino il meteo! Dai risultati dagli otto studi emerge trasversalmente e coerentemente che le persone che hanno un maggior grado di fiducia nelle loro sensazioni “previsionali” presentano effettivamente maggiori probabilità di predire correttamente l’evento futuro (o l’esito di un evento futuro) rispetto a coloro che hanno meno fiducia in tali sensazioni.
I ricercatori hanno definito questo fenomeno “emotional oracle effect”. Nei diversi studi sono stati utilizzati alternativamente due metodi rispettivamente per manipolare e misurare il livello di fiducia nelle proprie sensazioni nel fare previsioni, ma indipendentemente dal fatto che venisse misurato il livello di fiducia nelle proprie sensazioni, oppure avvenisse una manipolazione sperimentale di tale variabile il risultato rimaneva costante: più ti fidi delle tue sensazioni, più sei in grado di fare previsioni corrette di eventi futuri.
Attenzione però: un buon grado di conoscenza sembra essere essenziale per assicurare l’accuratezza previsionale. Per esempio, in uno di questi otto studi i partecipanti dovevano predire addirittura il tempo meteorologico: ebbene l’effetto oracolo emotivo si è riscontrato nel caso in cui i soggetti avevano un minimo di esperienza e conoscenza nella previsione da fare (ad esempio predire il tempo nel loro stato o regione) ma l’esito previsionale risultava assolutamente casuale nel momento in cui si chiedeva loro di predire il tempo a Melbourne o a Beijing!
I ricercatori propongono questa interpretazione del fenomeno: “quando noi abbiamo fiducia nelle nostre sensazioni” dice il Professor Michel Pham, “ciò che sentiamo come “giusto” rispetto a un evento futuro avrebbe la funzione di riassumere in modo sintetico ed “euristico” tutta la conoscenza e le informazioni che più o meno consapevolmente abbiamo acquisito; quindi in qualche modo le nostre sensazioni darebbero accesso a una sorta di finestra privilegiata di informazioni che una forma di ragionamento più analitico non consentirebbe”.
Quindi, se avete una base minima di conoscenza riguardo certi ambiti di esperienza, il futuro non sarà poi così indecifrabile se semplicemente avete una buona dose di fiducia nelle vostre sensazioni!
Cyberpsicologia e Realtà virtuale: joystick e caschetto per il trattamento dell’Anoressia
Cyberpsicologia: un protocollo terapeutico sviluppato presso Villa Santa Chiara, Quinto di Valpantena (Verona), per il trattamento dell’anoressia prevede l’utilizzo di un ambiente di realtà virtuale.
I Disturbi Alimentari (DA), e in particolare l’Anoressia Nervosa (AN), rappresentano ad oggi una delle maggiori sfide della terapia sia farmacologica che psicoterapeutica. Fra i tanti trattamenti proposti per questo disturbo, il Dott. Vicentini -psicologo e informatico- presso Villa Santa Chiara, Quinto di Valpantena (Verona), propone un protocollo di cura per l’anoressia in regime di ricovero che prevede l’ausilio della realtà virtuale.
Da qualche anno la realtà virtuale (RV) è stata introdotta come strumento per il trattamento dei disturbi psicologici. Questo strumento permette di costruire un ambiente complesso e molto specifico che da la possibilità di inserirsi “fisicamente in un modo virtuale” in grado di poter generare sensazioni, emozioni e valutazioni uguali a quelle generate dagli ambienti reali (Riva, 1999).
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Ad oggi si ritiene che questo strumento sia in grado di mediare tra il lavoro cognitivo condotto con il terapeuta durante le sedute “classiche” e il mondo reale, permettendo di superare alcuni ostacoli, delle resistenze, che si possono incontrare nella terapia cognitiva comportamentale standard, soprattutto per quando riguarda le esposizioni (Vincelli & Riva 2007). Inoltre si ritiene che i trattamenti che usano la RV presentino alcuni vantaggi rispetto ai trattamenti tradizionali, primo fra tutti quello di poster condurre delle esposizioni in un ambiente protetto per il paziente ed inoltre di poter costruire degli ambienti ad hoc per il percorso di trattamento per il paziente.
In letteratura esistono già diverse evidenze rispetto l’efficacia di questa tecnologia per il trattamento dei Disturbi d’Ansia (Bottella, et al, 2006), nello specifico è stata dimostrata l’efficacia di questo trattamento per il trattamento delle fobie, quali paura di volare, guidare, claustrofobia, disturbi Sessuali e disturbi dell’immagine corporea (Riva, 2001).
A partire da questi interessanti risultati, dagli studi condotti dal dott. Riva sull’uso di questo strumento nel trattamento dell’Anoressia Nervosa (Riva et al, 1999), e sui protocolli che negli Stati Uniti e in molti Paesi d’Europa sono già in uso da diversi anni, nella clinica di Verona è stato strutturato un protocollo di trattamento che utilizza il concetto di Avatar come supporto alla terapia.
Scopriamo insieme come funziona la terapia dell’anoressia con l’avatar.
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In una prima fase la paziente disegna al computer l’immagine di come “vede sé stessa” e contemporaneamente il terapeuta disegna una figura realistica della paziente. Quindi i due disegni vengono confrontati.
Nella seconda fase alla paziente viene fatto indossare il casco della realtà virtuale per permetterle di affrontare, attraverso l’avatar, le situazioni che solitamente risultano più problematiche nei pazienti affetti da questo disturbo, come ad esempio fare la spesa, mangiare al ristorante, mostrarsi senza vestiti in piscina.
Infine nella terza fase il paziente viene aiutato a gestire meglio le proprie emozioni “mandando avanti l’avatar al proprio posto”, così da potersi confrontare con le proprie difficoltà in una modalità protetta.
I pazienti attraverso questo percorso imparano, muovendosi in ambienti ricostruiti al computer, ad avvicinarsi alle persone e al cibo dapprima in modalità virtuale, aggirando così le resistenze che possono ancora esserci di fronte a quello vero. Le sedute individuali si effettuano due volte a settimana. Naturalmente questo trattamento può essere effettuato solo in regime di ricovero e sotto la supervisione di un terapeuta esperto che accompagna le esperienze vissute attraverso l’Avatar con un percorso cognitivo che permette una ristrutturazione cognitiva più profonda.
Vorremmo rassicurare tutti coloro che immaginando i pazienti catapultati in Matrix erano già pronti a far salire sul banco del Sant’Uffizio la realtà virtuale, dicendo che bisogna considerarla come un nuovo ed innovativo strumento complementare che può fornire un ulteriore ausilio alla terapia classica e non un approccio terapeutico a sè stante e indipendente.
BIBLIOGRAFIA:
Vincelli, F., & Riva, G. (2007), La Realtà Virtuale come supporto alla psicoterapia cognitivo-comportamentale, in Vincelli, F., Riva, G., & Molinari, E. (Eds.). La realtà virtuale in psicologia clinica. Nuovi percorsi di intervento nel disturbo di panico con agorafobia, pp. 67-92. Milano: McGraw-Hill.
Riva, G. (2005). Virtual Reality in Psychotherapy: Review. CyberPsychology & Behavior, 8(3), 220-240.
Botella, C., Villa, H., Garcia-Palacios, A., Quero, S., Banos, R. M., and Alcaniz, M. (2006). The use of VR in the treatment of panic disorders and agoraphobia, in Riva, G., Botella, C., Legeron, P., & Optale, G. (Eds.), Cybertherapy: Internet and Virtual Reality as Assessment and Rehabilitation Tools for Clinical Psychology and Neuroscience. Amsterdam: IOS Press.
Riva, G., Bacchetta, M., Baruffi, M., & Molinari, E. (2001). Virtual Reality-Based Multidimensional Therapy for the Treatment of Body Image Disturbances in Obesity: A Controlled Study, CyberPsychology & Behavior, 4(4), 511-526.
Riva, G., Bacchetta, M., Baruffi, M., Rinaldi, S., & Molinari, E. (1999). Virtual reality based experiential cognitive treatment of anorexia nervosa, Journal of Behavior Therapy and Experimental Psychiatry, 30(3), 221-230.
Psicopatologia delle Migrazioni: La Diagnosi in Territori Stranieri
Paolo Cianconi, psichiatria, psicoterapeuta, antropologo.
Una chiave di lettura per la psicopatologia delle migrazioni, nelle formulazioni della prima generazione, quella cioè che compie il viaggio.
E’ sempre stato difficile approcciare fenomeni nuovi. Viviamo tuttavia in un periodo storico in cui fermare qualcosa di stabile è sotto molti aspetti la prima utopia. In questi territori vulnerabili, le scienze psicologico psichiatriche stanno tentando di dar forma a un nuovo manuale che possa aiutarci nelle nuove formulazioni diagnostiche: il DSM V. E tuttavia secondo diverse voci questo risultato sembra incontrare sempre più difficoltà; qualcuno già dice che non è più fattibile, forse non ci si riuscirà.
Non può non coglierci un certo senso di inquietudine quando incontriamo i pazienti di oggi. Cosa fare se non ho categorie per inquadrare una diagnosi. Nella realtà contemporanea, la vulnerabile postmodernità, “fragile è la nostra capacità di capire”.
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Per quello che riguarda la sicurezza della nosografia psicologico-psichiatrica, una delle spallate più forti è stata impressa dal contributo d’immensa relatività portato della cultura postcoloniale. Tuttavia l’esperienza di autori che si sono succeduti nello studio delle psicologia crossculturale, delle migrazioni e dell’etnopsichiatria ci permette di proporre uno schema utile agli operatori della salute mentale, per inquadrare il fenomeno della psicopatologia delle migrazioni. Se non altro, mentre tutti utilizziamo sempre di più mappe cognitive diasporiche, i migranti classici e i loro disagi, quelli su cui abbiamo già un’esperienza, ci sembrano più vicini. Questo breve contributo fornisce una chiave di lettura per la psicopatologia delle migrazioni, nelle formulazioni della prima generazione, quella cioè che compie il viaggio.
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La psicopatologia delle migrazioni è stata oggetto di numerosi studi (T. Nathan, R. Beneduce, P. Coppo, R. Menarini, , A. Sayad, M. Risso, E. De Martino ). Tuttavia non è stata stilata una vera e propria schematizzazione che permettesse all’operatore di avere una mappa da utilizzare per il suo agire clinico. Il DSM IV-TR, prodotto degli anni 2000, annoverava ancora solo 25 Sindromi Culturalmente Caratterizzate. La cultura psicopatologica degli altri era stata relegata ad un appendice di una decina di pagine ed ad alcune paternalistiche raccomandazioni. In altri lavori, in cui sono stati considerati manuali indiani, cinesi, centro americani, articoli africani eccetera, le sindromi culturalmente caratterizzate salivano a cifre di centinaia. Questo è solo un esempio di come è difficile costruire classificazioni: se si costruisce un riferimento chiuso questo non può che generare etnocentrismo, se si accettano criteri ampi non avremo più possibilità di classificare tutto quello che entra e si presenta.
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La psicopatologia delle prime generazioni già ci permette di delimitare un’area, separandola dalla psicologia dei figli e nipoti dei migranti, le cosidette G2, non meno importanti, che hanno però caratteristiche psicologiche e problemi diversi da quelli dei padri e delle madri che hanno dovuto affrontare la vita tra due mondi. Se vogliamo proporre quindi una classificazione della psicopatologia della prima generazione ci concentriamo su quattro grandi raccoglitori di sindromi. All’interno di ognuno di questi contenitori troveremo, appunto, sindromi specifiche che derivano da anomale risposte individuali a problemi bio-psico-socio-culturali. Questi grandi contenitori sono:
Sindromi connesse alla perdita.
Sindromi Culturalmente Caratterizzate.
Sindromi connesse al Processo Migratorio.
Sindromi connesse alle Violenze geo-politiche.
Sindromi connesse alla perdita: le sindromi connesse alla perdita sono caratterizzate da segni e sintomi psicologici e anche disturbi veri e propri derivati da condizioni connesse con la localizzazione mentale di una doppia essenza cognitiva. Un hacker definirebbe questo assetto“Dual Boot: come se su uno stesso hardware girassero due software che presiedono alle stesse funzioni”. In realtà, come ampiamente studiato dai testi, anche italiani, di psicopatologia delle migrazioni, il migrante che compie un viaggio rimane ancorato alla propria terra (intesa nel senso più generale della radicazione identitaria) mentre deve adattarsi a vivere a sprazzi o totalmente senza di essa, in un paese ove dovrà presto imparare un altro modo di esistere. Questo genera spesso rammarico, conflitto; nei casi di interesse clinico avremo sintomatologia specifica, appunto categorizzabile in diverse sindromi.
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Sindromi Culturalmente Caratterizzate: le SCC sono descritte dal DSM IV-TR e dall ICD 10 come “la follia dell’altro”. Il DSM IV-TR: sono “modalità ricorrenti, caratteristiche di certe regioni, di comportamento aberrante e di esperienza disturbante che possono essere o meno collegabili a qualche particolare categoria diagnostica occidentale. Molte di queste modalità sono considerate anche localmente delle “malattie”, o per lo meno dei fastidi, e molte hanno denominazioni locali. A volte la stessa malattia viene chiamata in modi diversi in differenti parti del mondo. Queste sono le sindromi esotiche che hanno incontrato gli europei durante il colonialismo e la decolonizzazione. Sono “modalità di manifestarsi di un ethnos” diverso dal nostro. Nelle migrazioni il clinico può imbattersi in queste sindromi.
Ricordiamo che in Italia esistono, tra quelle citate nel DSM IV-TR, almeno quattro sindromi culturalmente caratterizzate nostre, storicamente autoctone:Mal de ojo (il malocchio), Zar (la possessione), il Rootwork (la fattura), Nervios (esaurimento nervoso); alcune di queste (e di altre) sindromi culturali sono scomparse con la modernizzazione, altre mutano anche all’interno dei luoghi della postmodernità e nelle realtà sintetiche.
Sindromi connesse al Processo Migratorio: questo gruppo di sindromi emerge dal così detto goal starving stress (stress da raggiungimento dello scopo) e da altre dinamiche sociologiche che si innescano nel più generale processo integrativo dei migranti. Il progetto (sogno) migratorio è stato studiato nelle sue più poliedriche sfaccettature. La maggior parte dei migranti riesce a trovare una sua strada, tra le varie possibili, ed iniziare un percorso di inserimento progressivo nelle nostre società ospitanti. Benché tutti siano sottoposti a delle variabili comuni, a delle difficoltà e a degli attriti, una parte delle popolazione migrante affronta maggiori difficoltà; ciò può contribuire a generare un disturbo, solitamente di ordine psicosomatico (somatosi del migrante) o propriamente psichiatrico. Ciò avviene in tempi e modalità specifiche.
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Sindromi connesse alle violenze geo-politiche: questa classe di sindromi riguardano la migrazione in secondo piano, in quanto è vero che le persone si trovano nel nostro paese, spesso protette dallo statuto di rifugiato, ma il problema principale di questi pazienti è l’aver attraversato esperienze di profondo dolore, disordine ed abuso fisico e psicologico quali la guerra, la tortura, gli sfollamenti o le pulizie etniche, il genocidio, le guerre a bassa intensità, i campi di sterminio o di prigionia. Benché il DSM faccia rientrare tutti questi disturbi nella generica dizione di PTSD, l’esposizione a tali livelli di violenza, spesso organizzati in specifiche tecniche di effrazione psichica, sociale e individuale, li pone, secondo diversi autori, su un diverso piano. La psicologia delle violenze collettive emerge proprio dall’esperienza di diversi psicoterapeuti che si sono confrontati con questi problemi e disturbi creati dal dispotismo diretto dell’uomo sull’uomo.
In questo breve lavoro sono state descritte le categorie contenitore che inquadrano la psicopatologia delle migrazioni per i migranti di prima generazione. La diagnosi in territori stranieri ha mostrato le difficoltà di inquadramento dei vecchi testi, disarticolato molte delle nostre procedure, soprattutto quella testologica. Le figure professionali hanno fatto, per vent’anni, scelte di responsabilità senza preparazione adeguata al nuovo fenomeno del multiculturalismo o dell’intercultura. Gli operatori della salute mentale, come anche gli educatori, i sociologi gli avvocati e chi partecipa alla gestione del complesso sistema migratorio della postmodernità, sono tenuti ad essere informati degli studi che in questi ultimi anni hanno elaborato teorie di riferimento e presidi terapeutici e psicoterapeutici nei confronti di queste realtà in movimento nelle scale geografiche come in quelle socio-psicologiche.
BIBLIOGRAFIA:
American Psychological Association. (2000). Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders, DSM IV-TR. Washington, 2000
Longitudinal studies have been conducted investigating the stability of inhibited temperament through childhood.
Scarpa, Raine, Venables and Mednick (1995) longitudinally assessed a sample of 1,795 Mauritian children at three time points; three, eight and eleven years of age. At three years of age the child’s behavioral inhibition was assessed in a laboratory setting. Their behavior was rated by a trained researcher and children were classified as; 1) inhibited (n = 726); 2) middle (n = 360); 3) uninhibited (n = 707). At eight and 11 years of age the children’s social behavior was rated by their teachers.
The results demonstrated that, compared to uninhibited children, children who displayed higher levels of inhibition at age three were more inhibited at age eight and again at age 11. Additionally, those who remained inhibited from age three to eight had the highest inhibition scores at age 11.
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Importantly, these results are consistent with previous findings in the literature which showed that the inhibited temperamental style is persistent throughout childhood. In addition, this research shows that this persistence occurs in societies other than the United States.
While research has clearly shown that inhibited temperament is persistent throughout childhood, few studies have examined infant temperament through childhood into adolescence. In a longitudinal investigation, Kagan, Snidman, Kahn and Towsley (2007) examined the impact of inhibited temperament in infancy on adolescent development. Infant temperament was assessed in a laboratory setting at four months of age. Adolescents were then assessed using self report measures between the ages of 14 and 17.
The results demonstrated that, compared to adolescents who were uninhibited as infants, adolescents who had been inhibited as infants were more subdued in familiar situations, had a lower mood, and experienced more anxiety about their own futures. Lastly, it was reported that infant temperament at four months of age was as powerful a predictor of behavior at age 15 as the combination of temperament and child fearful behavior at two years of age.
Research has established that infants classified as inhibited continue to exhibit anxious and reserved behavior throughout childhood and into adolescence. As the features of an inhibited temperament mirror the symptoms of social anxiety, the relationship between the two has been examined.
Nuovo trattamento per la Depressione: Transcranial Direct Current Stimulation.
– Rassegna Stampa –
Secondo un gruppo di ricercatori australiani della University of New South Wales (UNSW) e del Black Dog Institute, centro specializzato nello studio e nella cura della depressione e dei disturbi bipolari, stimolare il cervello con una debole corrente elettrica sarebbe un trattamento sicuro ed efficace per la depressione e potrebbe avere altri sorprendenti benefici secondari sul corpo e sulla mente. La Transcranial Direct Current Stimulation (tDCS) è una forma di stimolazione cerebrale non invasiva e consiste nel far passare una debole corrente elettrica depolarizzante nella parte anteriore del cervello con l’uso di elettrodi posti sul cuoio capelluto, durante la procedura i pazienti rimangono svegli e vigili.
Lo studio ha coinvolto 64 pazienti depressi che avevano già avuto due trattamenti per la depressione senza alcun successo; il trattamento prevedeva 20 minuti al giorno di tDCS, effettiva o finta, per un periodo massimo di sei settimane. I risultati indicano che la metà dei partecipanti ha riportato dei miglioramenti sostanziali dopo aver ricevuto il trattamento; inoltre i risultati dopo sei settimane di trattamento erano migliori che dopo tre settimane suggerendo che il trattamento prolungato sia più efficace di quello breve. Secondo il prof. Colleen Loo “questi risultati dimostrano che più sessioni tDCS sono sicure e non hanno conseguenze negative sul piano cognitivo, inoltre il trattamento è semplice da offrire e conveniente dal momento che richiede solo una breve visita in clinica”. I ricercatori stanno già progettando uno studio che includa anche pazienti con disturbo bipolare dell’umore.
Gli Evitanti In questo tipo di coppie la posizione affettiva del genitore si coniuga in maniera simmetrica con un’altra analoga: entrambi i partners di solito hanno un attaccamento di tipo evitante e per questo i bisogni di vicinanza e conforto vengono ignorati, per questo il legame di coppia poggia sull’accordo implicito che venga mantenuta una certa distanza all’interno della relazione. La norma sociale e l’impegno sono i punti saldi della coppia che si fortificano e si consolidano con la nascita dei figli.
Questo tipo di coppia può andare incontro a problemi nelle fasi di svincolo dei figli: l’adolescenza dei figli impone ai genitori un confronto con i propri vissuti e risonanze emotive legate allo stesso periodo del ciclo di vita, che però saranno scarsamente accessibili visto lo stile distanziante dei genitori.
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In conseguenza di questo le suggestioni vitali e le tempeste emotive dei figli adolescenti verranno vissute come minacciose e provocheranno un irrigidimento difensivo e iperprotettivo sulle posizioni normative acquisite, accentuando il divario generazionale. In realtà i compiti che la coppia deve affrontare in questo periodo sono simili a quelli dei figli in fase di svincolo: la sessualità e la vita sociale sono infatti, sia per gli uni che per gli altri, le aree da esplorare e riscoprire; la coppia deve riscoprire sé stessa in termini di coppia coniugale.
La scarsa consapevolezza della componente di intimità e di sostegno reciproco nei membri della coppia rende difficile utilizzare le risorse emotive per affrontare la crisi.
Una modalità che permette nella prima infanzia di stabilizzare il meccanismo dell’evitamento rispetto all’insicurezza è un aumento della tensione interiore con ripercussioni neurovegetative e l’aumento dell’attività: in questo modo la percezione del disagio viene sistematicamente deviata lungo le innervazioni somatiche; questo tipo di risposta automatica si consolida nel tempo e viene generalizzata a tutte le situazioni in cui è necessario affrontare lo stress di una separazione. L’allontanamento dei figli da casa è in grado di ricreare la stessa atmosfera emotiva di insicurezza già sperimentata nell’ambiente familiare di origine, alla quale l’individuo ha reagito assestandosi sulla posizione emotiva del genitore: il ruolo genitoriale, che si è consolidato trovando il suo complemento nella presenza dei figli, viene ora messo in discussione facendo oscillare pericolosamente l’intera posizione esistenziale dei membri della coppia.
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L’angoscia viene anche in questo caso fatta scorrere lungo i canali somatici, inizialmente con un disagio generalizzato, irrequietezza e irritabilità, successivamente con una sintomatologia più precisa, alla quale l’individuo reagisce cercando di intensificare l’attività come forma di controllo per le sensazioni ingestibili. La personalità evitante può andare incontro in questo periodo a una “sindrome da dispersione dell’identità”, che è appunto una condizione di crisi nella quale non è più possibile utilizzare i propri riferimenti vitali usati fino a quel momento e che sono stati ormai messi in discussione dagli eventi evolutivi. A volte le risorse emotive vengono investite nella costituzione di uno stato conflittuale nella relazione tra i genitori; questo può essere salutare perché permette di evitare il rischio di una regressione collettiva o dell’accentuazione del disagio in uno dei membri della famiglia, che esprime in questi casi la funzione di segnalatore dell’impasse evolutivo generale.
I Figli per sempre
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In questo tipo di coppie il legame prioritario è spostato dalla coppia alla relazione di ciascun partner con le rispettive famiglie di origine; i membri della coppia infatti non hanno superato la posizione affettiva di figli e quindi non riescono a investire liberamente i propri sentimenti nel rapporto di coppia; contemporaneamente i genitori non sono riusciti nel compito di favorire l’emancipazione dei figli dalla famiglia di origine: la coppia quindi acquista un senso solo all’interno della configurazione allargata che include i rispettivi genitori e fratelli.
Lo scambio quindi non avviene tra due individui e i rispettivi mondi interni, ma tra due intere famiglie: la situazione più comune è quella nella quale le due famiglie competono per far prevalere il proprio modo di pensare, su come amministrare gli affetti e organizzare la vita di coppia.
I rapporti tra i suoceri sono scarsi e improntati alla squalifica reciproca. In altri casi una delle due famiglie “adotta” il partner del figlio/a, questo avviene quando il membro della coppia che è stato adottato ha scarsi rapporti con la sua famiglia di origine; anche in questo caso però la posizione affettiva del figlio prevale rispetto all’investimento coniugale. In questi casi possono sorgere dei problemi nel momento in cui il “partner adottivo” rimane deluso dai “suoceri” nelle sue aspettative di trovare la comprensione e l’affetto che non è riuscito ad avere nella sua famiglia di origine, subendo quindi una seconda sconfitta rispetto alle richieste di accudimento e appartenenza. Quando i due partner riescono a darsi a vicenda le consolazioni che inutilmente hanno cercato nelle rispettive famiglie di origine, dimostrando di avere delle risorse, è possibile un investimento del tutto nuovo nella relazione di coppia.
BIBLIOGRAFIA:
Berrini R, Cambiaso G, (2001) “Illusioni di coppia. Sto con te perché posso stare senza di te”, Franco Angeli, Milano
Bambini e senso della giustizia.
Mai sottovalutare le capacità dei bambini, anche se molto piccoli. E’ questa è una lezione che ormai quasi tutti abbiamo imparato. Fino ad oggi però non si annoverava, tra le loro qualità, anche la capacità di distinguere ciò che è giusto da ciò che è ingiusto, di capire quali atteggiamenti siano da apprezzare e quali da disapprovare. Il senso della giustizia.
Alcune ricerche condotte dalla dottoressa Stephanie Sloane, psicologa della University of Illinois, sembrano però dimostrare che già a partire da 19 mesi – ben prima quindi dell’età prescolare (momento in cui si riteneva che i bambini potessero capire questo concetto) – i bambini non solo riconoscono, ma per di più non approvano i comportamenti ingiusti.
Due gli esperimenti fondamentali che hanno portato a questa conclusione.
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Nel primo, ad alcuni bambini di 19 mesi, seduti sulle ginocchia di un genitore (che rimane però in silenzio e con gli occhi chiusi per non influenzare in alcun modo il figlio) vengono mostrati due cuccioli di giraffa a cui vengono distribuiti dei giochi, prima in maniera equa, poi tutti ad uno solo e niente all’altro. Si è notato che i bambini osservano per più tempo le giraffe quando i giochi sono distribuiti in maniera diseguale. Questo, per i ricercatori, avviene proprio perché i neonati si rendono conto della differenza e fissano, come attoniti, l’ingiusto comportamento.
Nel secondo esperimento i bambini, stavolta di 21 mesi, osservano due individui a cui viene chiesto di sistemare dei giochi in un cesto.
Sempre studiando le reazioni comportamentali attraverso complesse analisi sulla durata dell’attenzione visiva da parte dei bambini, gli studiosi hanno evidenziato che essi trovano giusto e “naturale” che, se entrambi i soggetti completano il lavoro, siano premiati in egual modo; mentre rimangono come “sbalorditi” nel caso in cui, se uno finisce il lavoretto e l’altro gioca, vengano comunque premiati entrambi.
Secondo i ricercatori ciò dimostra che, in molti bambini, lo sviluppo del senso della giustizia avvenga ben prima di quanto si pensi comunemente. Questo può ovviamente dipendere sia dai comportamenti delle persone con cui il piccolo vive o con cui entra in contatto (e non c’è da stupirsi visto che sappiamo quanto i bambini siano attenti osservatori e quanto imparino da tutto ciò che li circonda), sia da una particolare predisposizione individuale.
Attenzione quindi a quali giocattoli regalate ai vostri figli: con un martelletto, potrebbero finire per giudicarvi colpevoli!
Piccoli atti di violenza quotidiana e alleanza co-genitoriale.
– Rassegna Stampa –
Secondo una ricerca pubblicata nel Journal of Family Issues le coppie in attesa di un figlio in cui i partners sono stati violenti tra loro nel corso della relazione avranno problemi nello stabilire una buona alleanza co-genitoriale. La co-genitorialità è la gestione congiunta dell’accudimento e si riferisce, in senso ampio, alla coordinazione e al sostegno fra adulti responsabili della cura e dell’allevamento dei figli.
I ricercatori del Prevention Research Center for the Promotion of Human Development at Penn State hanno intervistato 156 coppie “in attesa” in tre diversi momenti: durante la gravidanza, a 6 e a 13 mesi dalla nascita del bambino. I dati raccolti sono serviti a determinare il grado di violenza nella coppia e, dopo la nascita del bambino, il livello di alleanza co-genitoriale.
I risultati confermano la correlazione tra violenza di coppia prenatale e debole alleanza co-genitoriale e indicano inoltre che sono le donne, più degli uomini, a compiere atti violenti nei confronti del partner: gli atti violenti, considerati “comuni” e che non hanno niente a che vedere con la violenza domestica caratterizzata dall’abuso e dal controllo, consistono in spintoni, schiaffi e pugni e di solito non hanno lo scopo di controllare il partner, ma si verificano in momenti di forte frustrazione nel bel mezzo di una discussione.
Entrambi i partner però hanno la stessa probabilità di agire all’interno della coppia la violenza “comune”. E ‘importante prestare attenzione alla violenza prenatale all’interno della coppia, perché anche bassi livelli di violenza di coppia possono peggiorare dopo la nascita del bambino a causa dello stress genitoriale caratteristico di questa prima fase della neo-famiglia; inoltre la correlazione tra la violenza di coppia e maltrattamento sui minori è forte. Dal momento che di solito la ricerca sulla violenza ha come oggetto le donne, un merito particolare dello studio è il fatto di avere considerato e indagato comportamenti e atteggiamenti di entrambi i partners della coppia.
Quando ero giovane ho vissuto il periodo bello e terribile del femminismo, bello perché ha cambiato molte vite tra cui la nostra, terribile perché molti costi sono stati pagati per questo cambiamento. Ora è di nuovo l’8 marzo, per noi allora una giornata di non lavoro e di manifestazioni e riunioni e decisioni. Giornata allegra e dura. Si pensava che la forza acquisita delle donne avrebbe abolito o ridotto la violenza o in generale le incomprensioni, ma la strada oggi ci appare difficile.
L’onda lunga del cambiamento femminile ha investito anche gli uomini e non tutti hanno capito o saputo adattarsi a questa maggiore libertà e desiderio di autogestirsi la vita, delle donne. Abbiamo generato negli uomini sentimenti di paura, desiderio di controllo, rabbia, e forse a volte anche invidia. Li abbiamo fatti sentire meno essenziali, meno in dovere di proteggerci? Ma questo non può impedire alle donne di esplorare autonomamente e sentirsi libere di scegliere la propria vita.
Primo problema: Gli uomini.
Articolo consigliato: E ora dove andiamo? Il conflitto libanese e la folle impulsività dei maschi.Questo otto marzo vorrei parlare del problema degli uomini che uccidono le donne. O che le feriscono, le minacciano. Degli uomini violenti. Più violenti di quanto erano prima? Più violenti perché le donne sono più libere? O semplicemente violenti come sono sempre stati, appoggiando la violenza alla forza fisica? La violenza può derivare dalla certezza del proprio dominio, nel patriarcato, o dalla minaccia a questo dominio, dalla sensazione che le cose cambino e che il proprio ruolo dominante non sia poi così scontato.
Tutti sappiamo che non tutti gli uomini sono violenti. E’ più facile che lo siano gli uomini che crescono in famiglie violente, o se assistono a violenza del padre verso la propria madre, o se si sentono particolarmente minacciati o in difficoltà anche in altre aree, come il lavoro. O se non avevano previsto la forza o l’indipendenza della propria compagna. O se vengono lasciati, magari per un altro.
Esistono segnali che ci possono mettere in guardia? Esistono, e qui vorremmo elencarne alcuni. Pensiamo che sia importante imparare a decodificare i segnali che indicano una propensione a comportarsi in modo violento sapendo che qualcuno scapperà sempre tra le maglie della prudenza e della osservazione preventiva.
I segnali di rigidità: La rigidità del modo di pensare, la difficoltà a cambiare idea e a tenere in conto delle opinioni altrui.
I segnali di paranoia: la diffidenza verso gli altri, la rigidità, la tendenza a sentirsi sempre minacciati, in difficoltà, traditi dagli altri.
I segnali di aggressività e violenza: la tendenza a rispondere in modo aggressivo o impulsivo se contraddetti. (“ma lui spacca solo il telefono cellulare, non se la prende con me!”).
La povertà mentale: la persona che si ha vicina non ha nessun altro, non sa stare vicino a nessuno e potrebbe non essere in grado di ricostruirsi una vita.
Una storia di maltrattamenti a donne. Che viene spiegata come: l’altra era matta, cattiva, non è vero che la picchiavo, è una diceria.
Secondo problema: Le donne.
Articolo consigliato: Violenza sulle donne e dinamiche di vittimizzazione
Che fare? Si può denunciare, ma occorre che le denunce si facciano, e non è facile. (un misero 10% dei casi di violenza viene denunciato) e occorre che la società le forze dell’ordine e il sistema giudiziario sappiano rispondere in modo rapido e decisivo. Molte delle donne morte negli ultimi anni erano state minacciate e avevano denunciato e non si sono salvate. I centri antiviolenza esistono in molte regioni italiane, spesso sono malfinanziati dal pubblico e quasi sempre si sostengono con il volontariato. Un centro antiviolenza che abbia anche posti letto e assistenza 24 ore su 24 è un ausilio vero e concreto alle donne in emergenza che possono trovare un posto dove rifugiarsi. Spesso le donne non denunciano perché non sanno dove andare.
Articolo consigliato: Le donne, l'ansia e la bicicletta. (Lettera alla donna milanese che va in bicicletta)
Cosa vuol dire prudenza? (che ovviamente non servirà sempre ma forse eviterà qualche vittima, qualche stupro, qualche aggressione). La prudenza ha molte facce. Una faccia è diventare più capaci di difendersi se attaccate. Si possono fare corsi di autodifesa, pugilato, e altre arti marziali. Questo non è un punto trascurabile perché un’idea di maggiore competenza fisica cambia anche la propria autostima e la visione di sé. Occorre non dimenticare mai la disparità muscolare che c’è tra maschi e femmine!
Ma prudenza è anche un’attitudine mentale a prevedere i rischi: non andare a un ultimo chiarimento in un bosco da sole, non trascurare i segnali di gelosia, non trovarsi da sole per dirgli che lo lasciamo.
Comprendere che la risposta politica e sociale non basta da sola, ma che occorre la disciplina interiore di essere in grado di difendersi prevedendo le situazioni difficili, esercitando la propria conoscenza di chi abbiamo vicino, e il coraggio di vedersi in pericolo. La patologica assenza di paranoia di molte donne le mette, rischia di metterle, in situazioni rischiose.
Sapere chiedere aiuto senza sentirci deboli. Ma sentendoci nel giusto.
L’invito a esercitare prudenza non è un tentativo di spostare la responsabilità della prevenzione della violenza sulle vittime e siamo pienamente consapevoli del fatto che nessuna prudenza potrà mai salvare tutte le donne vittime di violenza. Ma è un invito forte a mantenersi salde e vigili. Si spera che questo atteggiamento divenga nel tempo sempre meno necessario.
Quarto problema: Gli uomini civili.
Occorre allearsi con la parte civile degli uomini che incontriamo. Gli uomini in movimento, gli uomini che stanno cambiando idea e che rifondano il futuro per se stessi, per le loro donne e per la società in cui vivono: Tra l’altro una società in cui siano migliori le relazioni interpersonali uomo-donna è una società che funziona meglio in generale e molto meglio economicamente. Troppi vantaggi per rinunciarci.
E cito per concludere: dal blog “Il corpo delle donne”, un uomo parla agli altri uomini:
“la violenza e il femminicidio sono un mio problema, e rivelano l’incapacità della sessualità maschile di liberarsi dalla tentazione del dominio.”
Questo 8 marzo festeggiamolo non solo come un gioco e non solo al ristorante con le amiche. Ricordiamoci della paura e della prudenza.
Così afferma Steven Hayes, psicoterapeuta contemporaneo americano e promotore della necessità di accettare che la normalità dell’esistenza umana è costituita anche di sofferenza (Hayes et al., 1999).
Molte persone cercano diprevenire ed eliminare la sofferenza attraverso diverse forme di controllo, talvolta applicate in modo rigido e assoluto.
L’obiettivo è quello di annullare ogni forma, o anche solo rischio, di sofferenza e raggiungere una condizione di assoluta sicurezza. Tale scopo si infrange innanzi a due realtà dell’esistenza umana:
(1) Niente può assicurare che l’uomo non soffrirà.
(2) La certezza assoluta è un mito irraggiungibile.
Articolo consigliato: Fusione Pensiero Azione
Per questa frustrante verità la tendenza a un controllo assoluto può essere un tentativo di cura deleterio e può sostenere diverse forme di sofferenza mentale (Sassaroli & Ruggiero, 2008). In tutte le sue forme (la ricerca di rassicurazioni, il rimuginio, la continua imposizione di governo sulle azioni altrui, la repressione dell’espressione delle emozioni ecc…) il controllo è una carta fallimentare da giocare. Per quanto possa offrire un apparente sicurezza, alla lunga incastra in una serie di obblighi e fatiche estremamente stressanti.
Innanzitutto non si possono evitare gli imprevisti (per definizione) e quindi le persone si trovano a consumare energie per avere in mano solo un illusione.
In seconda battuta, quella stessa illusione ha vita breve. Come posso verificare se il mio controllo è assoluto? Solo verificando ogni dubbio e quindi andando a riesumare proprio ciò che per prima cosa volevo eliminare: lo stato di minima incertezza. Il controllo che nasce per cancellare dubbi (sul valore personale oppure sull’occorrenza di eventi negativi dolorosi), trasforma l’individuo in un cacciatore di dubbi. In terzo luogo, tutte le strategie di controllo consumano energie. La quotidianità diviene la ruota di un criceto fatta di dubbio-ansia-controllo-leggero sollievo-dubbio su cui le persone continuano a muoversi senza vedere quante altre attività piacevoli dell’esistenza vengono sacrificate. Infine, noi che vediamo la ruota da fuori, sappiamo che anche abbandonando il controllo, gli esiti tanto temuti (e il dolore che li accompagna) non si verificano o non sono così terribili come vengono immaginati. Tuttavia non sempre si è disposti a sperimentarlo (Sassaroli et al., 2007).
Molto spesso la psicoterapia per trattare i disturbi d’ansia (ma non solo) è un percorso di graduale abbandono del controllo e di accettazione dell’incertezza.
BIBLIOGRAFIA:
Hayes, Strosahl & Wilson (1999). Acceptance and Commitment Therapy: An experiential approach to behaviour change. New York: Guildford Press
Sassaroli & Ruggiero (2008). International Journal of Child and Adolescent Health, 2, 229-242
Psicoterapia cognitiva: le Dipendenze Patologiche e il lato oscuro del Desiderio
Continuano gli studi del gruppo ricerca di Studi Cognitivi e della London South Bank University su nuovi modelli di psicoterapia cognitiva delle dipendenze patologiche. Nel 2011 gli studi si sono concentrati principalmente sul ruolo del pensiero desiderante nella genesi e nel mantenimento dell’esperienza di craving e dei comportamenti di abuso di alcool e di altre dipendenze patologiche.
Il pensiero desideranteè uno stile di elaborazione delle informazioni riguardanti oggetti e attività piacevoli che avviene a due livelli interagenti: (Caselli & Spada 2010)
Verbal Perseveration: pensieri ripetitivi e automotivanti circa il bisogno di ottenere l’oggetto o di svolgere l’attività (es: devo farlo al più presto, ho bisogno di un bicchiere, devo provare a usare quella macchinetta)
Imaginal Prefiguration: immagini mentali multisensoriali dell’oggetto o attività desiderata e del contesto in cui l’individuo lo può realizzare o lo ha realizzato in passato (es: immagino il sapore del fumo nella bocca, mi immagino tutto ciò che ho dentro al frigorifero).
Articolo consigliato: Gioco d’Azzardo Patologico, la dipendenza invisibile.
Gli studi recenti hanno mostrato come questo stile di pensiero possa essere governato da alcuni scopi centrali: (1) ricercare uno stato di energia e di motivazione ad agire, (2) evitare di occupare la mente con pensieri negativi o preoccupazioni.
Tuttavia, da un punto di vista evolutivo, il pensiero desiderante nasce come strategia per pianificare il raggiungimento di obiettivi personali (es: pianificando le strategie da attuare) e per ritardare la gratificazione laddove l’obiettivo non possa essere raggiunto immediatamente. L’immaginazione infatti genera una sorta di gratificazione virtuale molto simile in termini fisiologici a quella ottenuta dal reale raggiungimento dell’oggetto desiderato. Tuttavia se non vi succede un diretto passaggio all’azione finalizzato al suo raggiungimento, l’individuo può restare bloccato in una condizione di desiderio insoddisfatto, dove l’attenzione continua a pendere dal pensiero desiderante al senso di deprivazione.
Con il passare dei minuti l’effetto del pensiero desiderante tende ad assuefarsi e rimane invece importante nella coscienza individuale la percezione della deprivazione poiché l’oggetto o l’attività desiderati sono continuamente pensati ma non raggiunti. In sintesi l’individuo che cognitivamente “desidera” gode di benefici motivanti e di distrazione nel breve periodo ma se non agisce la pianificazione mentale resta bloccato in una condizione di desiderio crescente che da un punto di vista tecnico viene definito “craving”.
Ricordiamo che il pensiero desiderante non è disfunzionale di per sé ma a seconda dell’utilizzo che se ne fa. È facile intuire come le conseguenze deleterie del pensiero desiderante vengano poi amplificate qualora emerga un conflitto tra scopi (es: desiderare di visitare dei siti pornografici mi aiuta a provare piacere e a staccare la mente ma non voglio farlo perché lo ritengo un comportamento sbagliato). In queste condizioni quello che l’individuo si induce è esattamente una condizione di blocco nello stato del desiderio e del craving di cui sopra.
Leggi gli articoli che trattano dell’argomento: Pensiero Desiderante.
Attualmente già diversi studi sostengono queste ipotesi teoriche (Kavanagh et al., 2005; Caselli & Spada, 2011) per quanto il campo di ricerca si trovi nel suo stadio preliminare. Tuttavia i risultati delle ricerche recenti mostrano come il pensiero desiderante possa discriminare in modo significativo e per certi aspetti superiore ad altre variabili psicopatologiche il livello di dipendenza patologica in diversi disturbi come dipendenza da alcool, dipendenza da nicotina e gioco d’azzardo patologico (Caselli, Ferla, Mezzaluna, Rovetto & Spada, 2012; Caselli, Nikcevic, Fiore, Mezzaluna & Spada, 2012). Da qui la necessità di focalizzare tecniche di psicoterapia cognitiva che si occupino dei processi cognitivi coinvolti nell’esperienza del desiderio.
Quindi attenzione al modo in cui usiamo la nostra capacità di desiderare qualcosa.
Caselli, G., Ferla, M., Mezzaluna, C., Rovetto, F. & Spada, M. M. (2012). Desire thinking across the continuum of drinking behavior. European Addiction Research, 18, 64-69 (http://content.karger.com/produktedb/produkte.asp?DOI=000333601&typ=pdf)
Caselli, G., Nikčević, A., Fiore, F., Mezzaluna, C. & Spada, M. M. (2012). Desire thinking accross the continuum of nicotine dependence, Addiction Research and Theory. Published online at 12th January 2012 (http://informahealthcare.com/doi/abs/10.3109/16066359.2011.644842)
L’avrete vista tutti la pubblicità di Ken TVB, specialmente se avete figli che monopolizzano la televisione in orari da cartoni animati. Ricordo ancora la mia prima volta e il mio primo pensiero: come vorrei che anche mio marito avesse un pulsante che gli fa dire ciò che voglio, anche se preferirei di gran lunga uno che gli facesse fare ciò che voglio. Ma ahimè quando mi sono sposata ho accettato di condividere la mia esistenza con un individuo che osa avere stati mentali indipendenti dai miei, che spesso lo conducono perfino a comportamenti che non condivido. Ma forse le mie figlie si salveranno da questo nefasto destino, forse avranno la fortuna di Barbie che ha un fidanzato che ripete esattamente ciò che vuole e io diventerò l’adorabile suocera di un bellissimo zerbino lobotomizzato.
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Scherzi a parte, non è mia attitudine di madre prendere troppo sul serio i giochi che si trovano sul mercato, ho sempre concesso tutto perchè non ho voluto frenare la fantasia delle mie bambine e perchè nel gioco c’è spazio per sperimentare qualsiasi cosa: va bene essere principesse con tanto di scarpine col tacco, va bene anche essere pirati con la pistola, ma il Ken TVB non lo compro! In realtà nemmeno me lo hanno chiesto dal momento che hanno un’età in cui non hanno ancora compreso il valore aggiunto della presenza di un uomo accanto a Barbie, ma se me lo chiedessero sarei decisa nell’imporre loro un secco NO e se volessero delle spiegazioni io sono già pronta per fornirle, con parole semplici, più o meno come quelle che seguono.
Registrare messaggi d’amore e farli ripetere al fidanzato “perfetto” con la sua voce significa innanzitutto non riconoscere all’altro un’esistenza mentale indipendente dalla nostra, tanto da poter proiettare i nostri contenuti mentali all’interno della mente altrui che, senza nessuna possibilità di rielaborazione ce li risputa esattamente così come glieli abbiamo inculcati.
Non sto dicendo che la mente dei nostri compagni non possa essere permeabile al nostro desiderio di essere venerate, ma lo può fare solo con il contributo delle proprie credenze e in considerazione dei propri scopi. E allora sarebbe stato più verosimile se su invito della bambina a ripetere “sei bellissima” Ken avesse ripetuto “hai un bel culo” ma a quanto pare il fidanzato perfetto non può permettersi uscite dal campo mentale dell’amata.
Ecco perchè non vorrei che le mie figlie giocassero con un bambacciano come questo, perchè vorrei imparassero a riconoscere e rispettare l’indipendenza mentale dell’altro. Una mente che può essere indagata ma la cui opacità va accettata, anzi accolta come uno degli elementi più affascinanti dell’incontro con un altro individuo.
Vincere…scatena l’aggressività
– Rassegna Stampa –
Un gruppo di ricercatori della Ohio State University ha condotto il primo studio sperimentale a sostegno della tesi che uscire vincenti da una competizione renda aggressivi nei confronti dell’avversario che ha perso.
Nel primo esperimento a un gruppo di studenti del liceo veniva chiesto di svolgere individualmente due compiti di riconoscimento durante i quali sarebbero stati in competizione con un altro studente. La competizione era in realtà solo simulata, informando costantemente ciascuno studente della sua migliore o minore performance rispetto al compagno. Il gruppo veniva quindi arbitrariamente diviso dai ricercatori in vincenti e perdenti. Nella fase successiva veniva misurata l’aggressività verso l’avversario: a ciascuno studente veniva chiesto di gareggiare in velocità contro lo stesso compagno della prova precedente, il compito consisteva nel premere un pulsante e chi avesse registrato una peggior performance avrebbe ascoltato un suono rumoroso attraverso delle cuffie. Il vincitore della competizione precedente poteva stabilire l’intensità e la durata del rumore ascoltato con le cuffie dal compagno perdente. I risultati, pubblicati sulla rivista Social Psychological and Personality Science, indicano chiaramente che i vincitori della prima prova infieriscono sui loro avversari perdenti con suoni più rumorosi e prolungati di quanto non facciano questi ultimi.
Ma è chi vince a diventare più aggressivo verso l’avversario o è chi perde a essere meno aggressivo della media? I ricercatori hanno risposto a questa domanda costruendo una terza prova sperimentale in cui, ai due gruppi dei perdenti e dei vincenti, veniva aggiunto un gruppo di controllo che per un errore del computer, così gli veniva detto, non veniva a conoscenza dei risultati della performance durante l’esecuzione del compito. Anche in questo caso seguiva una seconda prova per testare il livello di aggressività di ciascun partecipante. I risultati dell’esperimento precedente vengono replicati, inoltre è stato possibile osservare come il livello di aggressività degli studenti perdenti fosse paragonabile a quello del gruppo di controllo e quindi per nulla inferiore alla media, confermando che è la posizione di vincente a rendere particolarmente aggressivi. Insomma dopo avere perso meglio darsi alla fuga!
Specchio Specchio delle mie brame, sei tu il peggior nemico del mio Reame?
Sulle derive pericolose della Dismorfofobia.
A quanti è capitato guardandosi allo specchio di puntare sempre alla fronte un po’ troppo spaziosa, a quei capelli che sono troppo sottili, oppure semplicemente sono troppi o troppo pochi, a quel naso a patata, alle celeberrime colutte de chevals, incubo di tante donne, alla pancetta un po’ sporgente e a chi più ne ha più ne metta? In tanti condividono queste “fisse” su parti del corpo che proprio non vanno giù…un “callo” al quale taluni han fatto l’abitudine e hanno anche imparato a conviverci, mentre per altri una vera e propria spada di Damocle che ogni giorno si fa sempre più incombente. Il cruccio verso una o più parti del corpo a noi poco gradite è assai diffuso, tuttavia in alcuni casi il disagio è talmente significativo che parlare di semplice preoccupazione è assai riduttivo.
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Quando si parla di dismorfismo corporeo (o dismorfofobia) si fa riferimento a quei casi in cui una persona si preoccupa e si vergogna di una parte del corpo anche se questa rientra nei “canoni della normalità”. La sua attenzione è focalizzata sul difetto, tanto che questo può diventare una vera e propria ossessione, un pensiero dominante che può accompagnare la persona per tutta la giornata. Le stime relative alla diffusione di questo disturbo sono ancora da accertarsi, tuttavia pare che in Italia più di 500.000 persone soffrano di dismorfismo corporeo, in una bassissima percentuale viene fatta una diagnosi adeguata e una percentuale ancora inferiore segue un trattamento adatto.
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Frequente nel sesso femminile quanto in quello maschile l’esordio si ha nell’età adolescenziale, tuttavia i primi sintomi possono menifestarsi molto più in là nel tempo, questo andamento graduale è legato anche alla difficoltà di parlare di queste “fissazioni” che si fanno ogni giorno sempre più pressanti e opprimenti. Molto spesso, quando si decide di confidarsi con l’altro e parlare delle proprie preoccupazioni, queste vengono sminuite perché i difetti e le deformità, dall’esterno, non sono viste come tali, ciò rende doppiamente difficile comprendere il disagio legato a questi pensieri ripetuti e intrusivi. Guardandosi allo specchio la propria attenzione è attirata per lo più da quelle imperferzioni relative al volto che vanno dai capelli radi, all’acne più o meno accentuato, alle rughe, alle cicatrici più o meno evidenti, ma non solo, anche il colorito della carnagione rappresenta un possibile problema così come la peluria presente sul viso. Dimensione e forma di naso, occhi, sopracciglia, orecchie, labbra, mento e testa ma anche di fondoschiena e addome e di altre parti del corpo più nascoste come i genitali e il seno sono fonte di preoccupazione.
L’immagine riflesssa allo specchio altro non è che una visione distorta del proprio aspetto fisico, visione guidata da una ossessiva preoccupazione della propria esteriorità. È ripetuto ormai in ogni dove l’importanza che la bellezza riveste nella nostra società, immagini di avvenenti corpi che circondano la nostra vita quotidiana non aiutano di certo ad affrontare serenamente la tanto amata superficie riflettente. Ciò che va sottolineato è che di fronte allo specchio, colui che soffre di dismorfofobia, non ha scampo, non c’è possibilità di paragone con nessun modello di beltà, perché la bellezza non è propria di quel riflesso, lo sono solo e soltanto i difetti giorno dopo giorno. E così ci si appresta ad andare a scuola, al lavoro, a far la spesa ad uscire con gli amici, sempre in compagnia dell’immagine di un “orrendo mostro ” fino a quando questa non si fa talmente pressante e orrifica da impedire di fare tutto ciò. La vergogna provata può esser talmente intensa da portare all’evitamento di qualsivoglia situazione sociale, si possono sviluppare delle vere e proprie compulsioni che hanno lo scopo di monitorare il difetto “24 ore su 24”, talvolta la cura del proprio aspetto fisico, l’utilizzo di creme, la depilazione, il pettinarsi, l’eliminazione di brufoli e punti neri, può occupare buona parte della giornata tanto da risultare invalidante.
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Va ricordato inoltre che insieme all’irascibilità e alla richiesta di continue conferme e rassicurazioni sul proprio aspetto, può comparire anche un forte stato depressivo dal quale, nei casi più gravi non vengono escluse le idee suicidarie. Pertanto dietro ad ossessioni, che possono ricordare le preoccupazioni che ognuno di noi ha nei confronti del proprio aspetto fisico, si nasconde un mondo di idee invasive costanti e persistenti, fonte di grande sofferenza, e dato l’elevato rischio che il disturbo diventi cronico và da sé l’importanza di riconoscerle ed affrontarle adeguatamente. Pensare al tempo, al tempo usato per fomentare le proprie preoccupazioni, tempo sprecato davanti ad uno specchio ad ispezionare una realtà che reale non è, tempo sprecato a coprire uno specchio perché “lui è il peggior nemico”, tempo buttato via, perso e mai più ritrovato. Ne è valsa la pena? Se siete pronti, ve lo chiederete.
BIBLIOGRAFIA:
American Psychiatric Association. Diagnostic and Statisticai Manual of Mental Disorders. 4th ed. Washington, DC: American Psychiatric Association, 1995.
Disturbo di dismorfismo corporeo o Dismorfofobia
La Dismorfofobia identifica una condizione in cui una persona mostra preoccupazione per un difetto fisico che può essere presunto o reale, in quest’ultimo caso l’importanza data al difetto è di gran lunga eccessiva. Le lamentele possono riguardare qualsiasi parte del corpo, le più frequenti sono:
pelle
peli e capelli
naso e occhi
gambe e ginocchia
mammelle e capezzoli
pancia, labbra, struttura corporea e volto
organi genitali, guance, denti ed orecchie
mani, dita, braccia e gomiti
natiche e piedi
spalle, collo e sopracciglia
La persona può preoccuparsi di un unico difetto fisico o riportare preoccupazione per più parti del corpo contemporaneamente. L’esordio può avvenire fra i 10 e i 20 anni, è solitamente graduale e può diventare cronico se non trattato. Lo stato di disagio provato può essere profondo ed intenso, associato a grandi difficoltà nel controllare le preoccupazioni per il difetto, tanto che i pensieri relativi possono occupare gran parte della giornata. In questa condizione di forte disagio spesso il funzionamento sociale della persona risulta compromesso in tutte o quasi le sfere della sua vita.
BIBLIOGRAFIA:
American Psychiatric Assaciation. Diagnostic and Statisticai Manual of Mental Disorders. 4th ed. Washington, DC: American Psychiatric Association, 1995.