Sviluppi traumatici e rischio di Psicosi in età adulta.
– Rassegna Stampa –
Per molti anni la ricerca nel campo della salute mentale si è concentrata sui fattori biologici che stanno dietro patologie psichiatriche come la schizofrenia, il disturbo bipolare e la depressione psicotica, ma ci sono sempre più evidenze che suggeriscono che questi disturbi non possano essere del tutto compresi senza considerare le esperienze di vita dei singoli pazienti.
Un team di ricercatori della Liverpool e della Maastricht University nei Paesi Bassi sostiene che bambini che soffrono di traumi gravi sono tre volte più a rischio di sviluppare la schizofrenia in età adulta. La ricerca che gli ha permesso di arrivare a questi risultati è la prima a riunire ed analizzare i risultati di più di 30 anni di studi che si sono occupati dell’associazione tra trauma infantile e lo sviluppo di psicosi. I ricercatori hanno esaminato più di 27.000 articoli di ricerca per estrarre i dati provenienti da tre diversi tipi di studi: quelli sui progressi di bambini con un infanzia difficile; studi randomizzati; e ricerche sui pazienti psicotici che sono stati interrogati sulla loro infanzia.
In tutti i tre tipi di studi i risultati hanno portato a conclusioni simili: i bambini che hanno sperimentato traumi prima dei 16 anni hanno circa tre volte più probabilità di diventare psicotici in età adulta rispetto a quelli selezionati in modo casuale. I ricercatori hanno trovato una relazione tra la gravità del trauma e la probabilità di sviluppare una malattia psichiatrica successivamente nel corso della vita: in chi ha subito gravi traumi precoci il rischio è fino a 50 volte più alto, rispetto a chi ha subito traumi più lievi.
La squadra di Liverpool non si è limitata ad analizzare i risultati di ricerche precedenti, ma ha anche condotto un nuovo studio che ha esaminato la relazione tra sintomi psicotici specifici e tipo di trauma vissuto nell’infanzia: traumi di tipo diverso conducono a sintomi differenti. L’abuso sessuale infantile, per esempio, è stato associato ad allucinazioni, mentre il crescere in orfanotrofio è stato associato alla paranoia. La ricerca suggerisce inoltre una forte relazione tra l’ambiente e lo sviluppo della psicosi, e fornisce indizi circa i meccanismi che portano alla malattia mentale grave.
I ricercatori si occuperanno ora dei processi psicologici e cerebrali coinvolti nei diversi tipi di sintomi psicotici e nei diversi tipi di trauma. La ricerca futura avrà anche lo scopo di chiarire perché i sintomi psicotici possono esprimersi solo in età avanzata, nonostante si siano innescati molti anni prima, durante l’infanzia.
Superare la colpa in due terapeuti italiani: Davide Lopez e Francesco Mancini
Davide Lopez e Francesco Mancini sono due terapeuti italiani che si sono entrambi occupati di colpa. Oltre ciò, apparentemente nulla in comune tra loro. Non solo perché l’uno psicoanalista e l’altro cognitivista. È una coppia improbabilissima. A essi si adatta bene la metafora troppo usata dell’acqua e dell’olio. Non si mescolano e non interagiscono. Chi conosce Lopez quasi sicuramente nulla sa di Mancini, e viceversa. È necessario quindi fornire qualche cenno biografico.
Davide Lopez è stato un importante psicoanalista italiano. Si formò a Londra, dove incontrò Anna Freud, Winnicott, Bion e altri ancora. Entrò quindi in contatto con l’ortodossia (anna)freudiana, con la semieresia kleiniana e con gli indipendenti del terzo gruppo. Tornato in Italia negli anni ’60, in quarant’anni sviluppò un suo percorso molto personale, a tratti quasi idiosincraticamente personale. L’originalità di Lopez risiedeva nel fatto che nell’ultima fase della sua ricerca teorica era (quasi) giunto a metter Nietzsche al posto di Freud. Questo significava che Lopez raccomandava un tipo di sanità mentale fondato sul riconoscimento del desiderio e non sul controllo morale esercitato dal SuperIo, mentre invece –secondo Lopez- il tardo Freud indulgeva al moralismo superegoico (le mani mi tremano mentre uso questi termini a me –cognitivista- poco familiari). In termini cognitivisti potrei azzardare che Lopez sembrava raccomandare un intervento di accettazione non giudicante dei propri stati mentali accanto alla loro ristrutturazione razionalistica e adattativa. Egli, spesso in compagnia della sua collega e compagna Loretta Zorzi, espose questi suoi pensieri in libri dal sapore quasi sapienziale e applicò gli aspetti clinici alla cura dei depressi (Lopez, 2011; Lopez, Zorzi, 2003).
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È vero che il Nietzsche di Lopez è –per fortuna- quello più solare e sorridente e bisognoso di contatto umano e di affetto (ah, leggiamo una biografia di Nietzsche e scopriamo quanto fosse solo al mondo e timidissimo e affamato d’amore e d’amicizia come un tenero cagnolino–era un supercagnolino, in verità- e così goffo e perfino bislacco nel ricercarle), mentre le smargiassate più provocatorie di Nietzsche, quelle della bestia bionda, del disprezzo della massa degli schiavi, sono respinte da Lopez come megalomania adolescenziale. Per fortuna, di nuovo.
Francesco Mancini è uno dei maggiori cognitivisti clinici italiani. Da sempre interessato alla comprensione del disturbo ossessivo compulsivo, lo ha descritto in termini cognitivi come frutto di un senso eccessivo e pervasivo di responsabilità. Ipotesi che era già di Paul Salkovskis. Tuttavia Mancini l’ha sviluppata, dimostrando con un esperimento elegante che lo stato mentale della colpa, il timore di fare del male a qualcuno, quando si aggiunge a quello della responsabilità, del dover rispondere che qualcosa sia fatto secondo correttezza, è in grado di aggravare il livello di ossessività controllante. In seguito Mancini ha ulteriormente approfondito con finezza vari tipi di senso di colpa, distinguendo (anche dal punto di vista neurologico) senso di colpa altruistico –timore di recare danno ad altri- e senso di colpa deontologico –timore di violare le regole-. E così via.
Mancini però non è soltanto un ricercatore, ma anche e prima di tutto un terapeuta. E per curare il paziente ossessivo Mancini sfodera un aspetto dionisiaco e nicciano che in qualche modo lo apparenta, sia pure alla lontana, con Lopez. Infatti Mancini raccomanda un intervento di accettazione: il paziente ossessivo non si libererà mai del suo timore di essere immorale, della sua paura di poter essere colpevole (Castelfranchi, Mancini, Miceli, 2008; Paciolla, Mancini, 2010). Lopez (forse) direbbe: del suo SuperIo giudicante. E la soluzione, dice Mancini, non può essere solo ristrutturare razionalisticamente questo pensiero colpevolizzante. Al contrario, esso va accettato. Accettato come rischio: è vero, è possibile, è possibilissimo che capiti di essere nella vita di essere colpevoli di qualcosa. Questa eventualità va messa nel conto e non ossessivamente prevenuta o controllata o espiata, come vorrebbe fare e tenta di fare il paziente. In tal modo la colpa, da rischio terrificante da eliminare assolutamente diventa eventualità possibile, da affrontare laicamente solo se e quando si presenterà. In qualche modo Mancini, sia pure in modi meno martellanti e dionisiaci di Nietzsche, esprime lo stesso “si alla vita” del superuomo.
Insomma, io vedo in Mancini e Lopez, al di là delle grandi differenze di due storie diversissime, una strana somiglianza. In entrambi una volontà solare e mediterranea di vita si oppone al chiuso colpevolismo nordico e protestante. In entrambi si illumina una capacità di sdrammatizzare e di dire di si alla vita, ma in termini più moderati e, oserei dire, più italiani del dionisismo tragico e catastrofico di Nietzsche. E in entrambi è presente anche però una pietosa e francescana capacità di comprendere le radici emotive della sofferenza, diffidando delle prescrizioni ossessive della moralità colpevolizzante. In definitiva, entrambi appartengono a quella tradizione di pensiero emotivo e vivente che, come scrive il filosofo Roberto Esposito, è il marchio di fabbrica della tradizione sapienziale italiana (Esposito, 2010).
BIBLIOGRAFIA:
Lopez, D., Zorzi, L. (2003). Terapia psicoanalitica delle malattie depressive. Milano: Cortina.
Lopez, D. (2011). La strada dei maestri. Vicenza: Colla Editore.
Castelfranci, C., Mancini, F., Miceli, M. (2008). Fondamenti di cognitivismo clinico. Torino: Bollati Boringhieri.
Esposito, R. (2010). Pensiero Vivente. Torino: Einaudi.
Paciolla, A., Mancini, F. (2010). Cognitivismo esistenziale. Dal significato del sintomo al significato della vita. Roma: Franco Angeli.
La Solitudine: il modello della Discrepanza Cognitiva in Psicologia
La ricerca scientifica e psicoterapica ha comunemente distinto l’esperienza della solitudine (loneliness) dall’effettiva condizione dell’essere soli (being alone).
Secondo questa distinzione, è possibile che alcuni individui socialmente isolati possano sentirsi abbastanza soddisfatti nonostante il loro oggettivo scarso numero di interazioni sociali. Al contrario, altri individui possono essere oggettivamente coinvolti in un gran numero di relazioni interpersonali ma, nonostante questo, sentirsi profondamente insoddisfatti sotto alcuni importanti aspetti della loro vita (ad esempio, la qualità dei propri rapporti o la mancanza di un particolare tipo di relazione, come una relazione romantica e sentimentale) e fare di conseguenza esperienza di un doloroso senso solitudine.
Per comprendere la differenza tra isolamento sociale e solitudine è stato sviluppato il modello della discrepanza cognitiva (Perlman e Peplau, 1982). Secondo questo modello, le persone sviluppano uno standard interno di comparazione, un modello ideale e mentale con il quale confrontano e giudicano le loro relazioni interpersonali nella loro vita reale ed esterna. Se le loro relazioni con gli altri superano questo standard, l’individuo non sperimenterà sentimenti di solitudine e sarà soddisfatto delle proprie relazioni, sia in termini di quantità che di qualità. Al contrario, se le loro relazioni reali con gli altri sono al di sotto di questo standard e aspettativa interna, l’individuo sarà insoddisfatto e farà esperienza della solitudine, con un dolore più o meno intenso a seconda dei casi.
Il modello della discrepanza cognitiva della solitudine rappresenta un ampliamento delle precedenti teorie sviluppate da Thibaut e Kelley (1959). Questi autori presentarono un’analisi della soddisfazione e dell’attrazione nelle relazioni diadiche (di coppia) in base al livello di comparazione interno (Comparison Level, CL). Secondo questi ricercatori, se il risultato sperimentato dall’individuo in un determinato rapporto è al di sopra di questo livello di comparazione, allora l’individuo sarà soddisfatto ed avrà piacere di relazionarsi con l’altro. Al contrario, se il risultato di questa comparazione è al di sotto di un certo livello, l’individuo sperimenterà insoddisfazione e non percepirà attrazione.
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Il modello della discrepanza cognitiva della solitudine di Perlman e Peplau propone invece che l’individuo sviluppi un livello di comparazione per l’intera rete delle proprie relazioni sociali.
Questo livello di comparazione può essere pensato come la rappresentazione della quantità o della qualità del contatto sociale desiderato dalla persona e viene utilizzato dall’individuo per valutare l’adeguatezza della propria rete sociale attuale. Paradossalmente, secondo questa teoria, anche una persona apparentemente mai sola (come ad esempio un personaggio pubblico, un attore o un cantante), può provare profondi sentimenti di solitudine (e di conseguenza, di tristezza) se il suo modello di comparazione interno prevede una forte discrepanza tra quello che vorrebbe e quello che in realtà si trova ad avere.
Un altro fattore ipotizzato da Thibaut e Kelley (1959), utile nel determinare il livello di comparazione dell’individuo, è il confronto sociale. Vale a dire, l’individuo formula delle aspettative riguardo al numero e al tipo di relazioni sociali che secondo lui dovrebbe avere, in parte anche sulla base delle relazioni sociali di persone vicine o simili a sé (parenti, amici, vicini di casa, conoscenti del quartiere, ma anche modelli proposti dai mass media). Questo fattore complica leggermente le cose poiché a determinare l’esperienza della solitudine interverrebbe non solo il confronto con i propri standard interni, ma anche il confronto con degli standard esterni presentati dalle persone vicine all’individuo. D’altra parte, un modello esaustivo di spiegazione deve comunque necessariamente comprendere fattori di tipo sociale, oltre che individuale.
Una questione interessante riguarda il “come” le discrepanze tra le relazioni interpersonali reali e desiderate siano correlate al livello di soddisfazione dell’individuo. Kelley e Thibaut (1978) suggeriscono che l’associazione sia di tipo non-lineare. Russell, Steffen, e Salih (1981) hanno infatti trovato che il rapporto tra l’aumento del numero di amicizie intime e il senso di solitudine (o in modo inverso, di soddisfazione personale) era lineare fino al punto in cui le amicizie attuali e desiderate della persona si stabilizzavano sullo stesso numero in termini di quantità e di qualità. Con un ulteriore aumento del numero di amicizie intime, quindi al di sopra del livello di comparazione interno, non vi era alcun ulteriore aumento del grado di soddisfazione personale. Vale a dire, se si hanno più amici di quelli che si desidera, il livello di soddisfazione personale dell’individuo non aumenta, né diminuisce il senso di solitudine. Al contrario, se siamo al di sotto del nostro livello di comparazione interno (cioè, abbiamo meno amici di quanti ne vorremmo), la sensazione di solitudine aumenta con l’aumentare del numero di amici in meno rispetto a quanti ce ne aspettiamo.
Per comprendere questo dato, possiamo fare l’esempio della persona che desidera 5 amici ma ne ha effettivamente 4. Questa persona può essere maggiormente soddisfatta di una persona che ha 10 amici ma che, al contrario, ne vorrebbe avere 30. Allo stesso modo, una persona con 3 amici intimi che ne desidera effettivamente 3, può sentirsi più soddisfatta della persona che ha 4 amici ma ne desidera 5, pur avendo quindi oggettivamente meno amici, e così via. Diversamente, se la persona con 3 amici desiderati ha nella realtà 10 amici effettivi, secondo questi studi, non percepirà un aumento del senso di soddisfazione poiché quelli che effettivamente desidera, per così dire, già li possiede.
Un modello ancora più generale, sulla stessa onda della discrepanza cognitiva, è stato proposto da Higgins (1987) per spiegare il senso di disagio sperimentato dall’individuo nelle diverse situazioni della vita. Higgins parla di discrepanza del Sé (Self-Discrepancy Theory). Secondo questo autore, l’individuo ha una rappresentazione di come vorrebbe e gli piacerebbe essere (Sé ideale), di come è nella realtà (Sé reale), e di come la società o la morale impone che dovrebbe essere (Sé normativo). Ogni discrepanza tra queste tre rappresentazioni provoca un coinvolgimento emotivo più o meno rilevante per il soggetto, spingendolo, nel migliore dei casi, a costruire attivamente delle strategie per ridurre la discrepanza tra queste.
Se la discrepanza tra Sé reale e Sé ideale (per esempio, “sono grasso ma vorrei essere più magro; sono timido ma vorrei essere socievole; sono solo ma vorrei avere più amici; ecc.”) non viene attivamente risolta, l’individuo sperimenterà emozioni più o meno intense connotate nello specifico da un senso di scoraggiamento (insoddisfazione, delusione e tristezza). Se non è superata la discrepanza tra Sé reale e Sé normativo (per esempio, “sono pigro e dovrei essere più attivo; sono lento e dovrei essere più svelto; sono solo e dovrei avere più amici; ecc.”), invece, il soggetto sperimenterà più emozioni connotate nella direzione dell’agitazione (senso di minaccia incombente, irrequietezza, ansia e paura).
Insomma, le conclusioni a cui arrivano i diversi autori sarebbero più o meno fondate sullo stesso semplice ed identico concetto. Sembrerebbe a questo punto banale concludere con una citazione celebre (di Oscar Wilde, per esempio), ma è probabile che sia l’unico modo per riassumere il senso di un intero articolo in un’unica frase chiara e pertinente: la felicità non è avere quello che si desidera, ma desiderare quello che si ha.
Ma allora, forse dovremmo trovare una risposta ad un’altra domanda: cosa porta l’individuo a desiderare più di quanto già possiede?
BIBLIOGRAFIA:
HIGGINS, E. T., (1987). Self-discrepancy: A theory relating self and affect., Psychological Review, 94, pp. 319-340.
KELLEY, H. H., THIBAUT, J.W. (1978). Interpersonal relations: A theory of interdependence. New York: Wiley Interscience.
PERLMAN, D., PEPLAU, L. A. (1982). Loneliness: A sourcebook of current theory, research, and therapy., New York: Wiley Interscience, pp. 123-134.
RUSSEL, D. W., CUTRONA, C. E., MCRAE, C., GOMEZ, M. (2012). Is Loneliness the Same as Being Alone?, The Journal of Psychology, 146 (1-2), pp. 7-22.
RUSSELL, D., STEFFEN, M., SALIH, F. A. (1981). Testing a cognitive model of loneliness. Paper presented at the symposium “New Directions in Loneliness Research” at the Annual Convention of the American Psychological Association in Los Angeles, California.
THIBAUT, J.W., KELLEY, H. H. (1959). The social psychology of groups. New York: Wiley.
Cooperazione ed Evoluzione dell’intelligenza.
– Rassegna Stampa –
Secondo uno studio condotto da due ricercatori del Trinity College di Dublino in collaborazione con il dottor Sam Brown dell’Università di Edimburgo la cooperazione e il lavoro di gruppo influenzerebbero l’evoluzione dell’intelligenza e lo sviluppo delle dimensioni del cervello.
L’idea che le interazioni sociali siano alla base della evoluzione dell’intelligenza si sviluppa sin dalla metà degli anni ’70, e il supporto a questa ipotesi è venuto in gran parte dagli studi di correlazione che hanno osservato cervelli di grandi dimensioni negli animali sociali. Gli autori dello studio in questione forniscono la prima evidenza che collega meccanicamente il processo decisionale nelle interazioni sociali con l’evoluzione dell’intelligenza.
I ricercatori hanno costruito modelli computerizzati di organismi artificiali con cervelli artificiali, ognuno con un massimo di 10 processi interni e 10 nodi di memoria associati; nel corso dello studio 50 di questi cervelli semplici sono stati messi in competizione gli uni con gli altri con l’uso di giochi classici che condensano l’interazione sociale umana, come “Il dilemma del prigioniero”. La competizione nella quale sono stati ingaggiati i cervelli artificiali, proprio come nella vita reale, ha favorito gli individui di successo; i migliori, cioè quelli che hanno ottenuto il punteggio più alto, al netto della grandezza del loro cervello, potevano riprodursi e dare così vita alla seconda generazione di organismi.
Permettendo ai cervelli digitali di evolvere liberamente, i ricercatori sono riusciti a dimostrare che il passaggio alla società cooperativa favorisce fortemente la selezione dei cervelli più grandi. I cervelli più grandi in sostanza lavorano meglio quando la cooperazione aumenta.
Le strategie sociali che emergono spontaneamente in questi cervelli più grandi e più intelligenti mostrano una memoria complessa e processi decisionali. Comportamenti come il perdono, la pazienza, l’inganno e astuzia machiavellica evolvono all’interno del gioco quando i singoli cercano di adattarsi al loro ambiente sociale.
Questo modello, sostiene l’autore principale dello studio Luke McNally, si differenzia da quelli precedenti in quanto combina la teoria dell’evoluzione con l’uso delle reti neurali artificiali per dimostrare che effettivamente c’è un vero e proprio meccanismo di causa-effetto tra un cervello di grandi dimensioni e il bisogno di competere-contro e collaborare-con gli altri membri del proprio gruppo sociale.
“Il nostro livello di intelligenza straordinaria ci definisce come esseri umani e ci distingue dal resto del regno animale. Ci ha dato l’arte, scienza e linguaggio, e soprattutto la capacità di mettere in discussione la nostra stessa esistenza e meditare le origini di ciò che ci rende unici, sia come individui e come specie“, conclude McNally.
BIBLIOGRAFIA:
Luke McNally, Sam P. Brown, and Andrew L. Jackson (2012). Cooperation and the evolution of intelligence. Proc. R. Soc. B rspb20120206; published ahead of print April 11, 2012, doi:10.1098/rspb.2012.0206
Un giorno di ordinaria follia #3 – Lo Psicologo Errante
PSICHIATRIA PUBBLICA: LETTERE DAL FRONTE. Naturalmente tutti i dati ed i nomi citati in queste lettere sono stati inventati e le storie raccontate sono ispirate alla realtà ed alla vita in un csm, ma per doverose ragioni di privacy sono state amalgamate tra loro per renderle irriconoscibili. Ciò nonostante, a volte la realtà supera la fantasia! Buona lettura.
Un giorno di ordinaria follia
#3 Lo Psicologo Errante
Arriva in bicicletta, cappello a cono calcato a fondo fin sulle sopracciglia, un’ombra di barba dimenticata lì da qualche giorno, giacca a vento sportiva che ha visto tempi migliori ma che reca anche i segni di grandi vittorie, occhio lucido, rapido, furbo, sorridente che cerca lo sguardo solo un attimo di più del dovuto per far capire che lui c’è, ma è troppo di fretta per restare lì….chi è? Ma è lo psicologo errante, straordinaria figura mitologica che potrete incontrare in certe Asl…chissà, magari persino nella vostra!
Nel nostro caso questo ruolo è ricoperto da un simpatico e dinamico signore che chiameremo Umberto. Umberto è un grande sportivo e grazie a questo forse meno di altri accusa la fatica strettamente fisica dello spostamento. Ma, certo, anche se stoicamente non ne parla quasi mai, resta invece l’impresa eroica di affrontare un monte ore distribuito su ambulatori, comunità, centro diurno e una costellazione di gruppi appartamento più uno stuolo di interlocutori tra colleghi pazienti e loro familiari.
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Esperto di terapia sistemica viene chiamato in aiuto tutte le volte che il problema di un paziente si rivela particolarmente connesso alle dinamiche familiari. Con un territorio di riferimento che copre all’incirca un bacino di 200.000 residenti l’impresa, come potrete immaginare, è epica ma non capita facilmente di sentirlo alterato . Inoltre i molti anni di militanza fanno di lui un personaggio noto, radicato, e gli conferiscono quel diritto, che deriva dal generale riconoscimento, di guardarsi intorno con tono scanzonato senza risparmiare colpi a nessuno e men che meno alle figure gerarchiche.
Così tra il faceto e il serio Umberto anche oggi è riuscito ad approdare alla riunione d’equipe, o meglio di una delle equipe, per discutere i suoi casi. Sorride, sguardo scherzoso, aspetta che il gruppo finisca di discutere animatamente lasciandoti quel lieve senso di disagio che deriva dal non sentirti davvero sicuro che non sia venuto al lavoro perché il lavoro sei tu…! Da noi può effettuare ben due ore e mezzo di lavoro alla settimana e nonostante ciò i casi su cui confrontarsi sono molti.
RUBRICA CONSIGLIATA: Un Giorno di Ordinaria Follia. Psichiatria Pubblica, Lettere dal Fronte.
Qualcuno ride quando inizia a parlare in modo leggero, veloce e arguto dei pazienti ma subito lo stile cambia se c’è il rischio di non essere preso sul serio perché in effetti lui, Umberto, il suo lavoro lo prende molto sul serio e in quattro frasi ben piazzate e ben costruite zittisce la platea. Come si è arrivati alla richiesta del suo intervento, come ha concettualizzato il caso, condivisione del progetto e contratto terapeutico. Improvvisamente tutti ascoltano perché se è vero che a volte il lavoro al CSM è affannato e concitato è anche vero che per sopravvivere devi esserne appassionato e un approccio fatto bene porta entusiasmo e ottimismo a tutti.
Poi Umberto sorride si alza con la giacchetta, il cappello che si era dimenticato di togliersi, una manciata di biscotti rubata dal tavolo e con chiavi della catena in mano si congeda rapido per volare al prossimo appuntamento, qualche quartiere più in là. La dura vita dello psicologo errante non lo abbatte e sfreccia via sulla sua fidatissima bici.
Spegnere il Cervello. La Meditazione per contrastare il Rimuginio
Nuovi dati a conferma dell’efficacia della meditazione nel contrastare efficacemente il rimuginio come stile di pensiero negativo e ricorrente e nel migliorare le capacità di gestire le eccessive preoccupazioni per il futuro.
Grazie alle tecniche di meditazione sarebbe dunque più facile riuscire a concentrarsi sul momento presente. La conferma di questo dato, già noto nella letteratura scientifica di riferimento, ci arriva da uno studio di un gruppo di ricerca del Department of Psychiatry della Yale University School of Medicine. Il contributo di questa ricerca sta nell’aver identificato che attraverso alcune tecniche di meditazione è possibile “spegnere” una specifica area del cervello, indicata nello studio come Default Mode Network, considerato come motore automatico interno in grado di generare quel continuo emergere di idee e pensieri che in un qualche modo interferiscono con ciò che in quel momento si sta facendo.
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Quest’attività di produzione automatica dei pensieri è presente per circa la metà del tempo della veglia, e può portare alla luce ricordi spiacevoli e contribuire al nascere di preoccupazioni per il futuro, creando così uno stato di ansia e di depressione nella persona che in un qualche modo è vittima del suo stesso pensare.
Nello studio sono state prese in considerazione tre diverse tecniche di meditazione:
1. CONCENTRAZIONE: il razionale di questa tecnica è che il praticante deve concentrarsi sul respiro, sentendo l’aria che entra e che esce dal naso, percependo la pancia che si riempie e si svuota, e ogni qual volta che si presenta un pensiero con fermezza deve lasciarlo andare distogliendo l’attenzione da esso.
2. AMARE-GENTILEZZA: in questa tecnica il praticante deve ricordare e visualizzare una situazione nella quale ha desiderato il bene di qualcuno per lui significativo e lo utilizzerà per desiderare per estensione il bene degli altri.
3. CONSAPEVOLEZZA: questa tecnica consiste nel prestare attenzione momento per momento a quello che sta succedendo, a quello che arriva alla coscienza del praticante stesso, senza tentare di modificare il pensiero o la sensazione appena arrivata ma semplicemente accettandola.
Il campione di questo studio sono stati 12 praticanti esperti che sono stati confrontati tramite Risonanza Magnetica Funzionale con 13 soggetti volontari che non hanno mai avuto esperienza di meditazione.
Lo studio ha messo in luce tramite la risonanza magnetica funzionale che i soggetti esperti sono in grado di “spegnere” l’attività delle aree cerebrali comprese nel Default Mode Network, come la corteccia cingolata e la corteccia prefrontale mediale. Ma non solo rispetto alle persone non dedite alle pratiche meditative gli esperti mostrano un’attività della DMN ridotta anche fuori dalla pratica stessa come se “l’allenamento” portasse i suoi effetti benefici anche fuori dalla pratica in sé. Uno degli aspetti che viene messo in luce in questo studio a favore della meditazione è il suo essere di basso costo e facilmente accessibile per un grande numero di persone.
Brewer sottolinea poi a conclusione del suo lavoro che nonostante siano necessari altri studi prospettici, i risultati di questo studio aprono interessanti scenari per l’uso della meditazione nel trattamento del disturbo da deficit dell’attenzione. Inoltre un’ iperattivazione della DMN è stata riscontrata anche in pazienti affetti da Alzheimer e potrebbe essere responsabile della deposizione nelle cellule cerebrali di una sostanza chimica, beta-amiloide, tipica di questa forma di demenza. L’uso di tecniche meditative potrebbe spegnere questa attivazione e quindi avere un possibile effetto “protettivo”.
Ottimismo & Felicità: Fattori Protettivi per Malattie Cardiovascolari
– Rassegna Stampa –
Secondo l’American Heart Association negli Stati Uniti muore a causa di malattie cardiovascolari una persona ogni 39 secondi.
Un gruppo di ricercatori di Harvard sostiene che emozioni e stati mentali positivi, come l’ottimismo e la felicità, siano importanti fattori protettivi per la salute del cuore: secondo i risultati dello studio in questione, frutto della prima e più ampia rassegna sistematica del suo genere, sembra infatti che il benessere psicologico ed emotivo possa ridurre il rischio di attacchi cardiaci, ictus e altri eventi cardiovascolari e in generale rallentare la progressione delle malattie cardiovascolari. Per esempio, gli individui più ottimisti hanno il 50% di rischio in meno di vivere un evento iniziale cardiovascolare rispetto ai loro coetanei meno ottimisti.
Mentre numerosi studi si sono concentrati sugli effetti negativi di rabbia, ansia, ostilità e depressione sulla salute del cuore, sappiamo ben poco della relazione tra stati positivi e malattie cardiovascolari. Le autrici principali dello studio, Julia Boehm e Laura Kubzansky, sottolineano che l’assenza di stati negativi non è uguale alla presenza di stati positivi, infatti fattori come l’ottimismo, la soddisfazione di vita, e la felicità sembrano essere associati a un più basso rischio di malattia cardiovascolare indipendentemente da variabili quali l’età, lo stato socio-economico, il peso corporeo e dai tradizionali fattori di rischio e malessere, come il fare uso di tabacco o alcol.
Inoltre il senso di benessere rende le persone più propense a seguire una dieta equilibrata, a dormire a sufficienza ed è legato a una più bassa pressione sanguigna, meno grassi nel sangue e ad un peso corporeo normale.
Questi risultati hanno implicazioni importanti rispetto a come si può intervenire nella prevenzione delle malattie cardiovascolari e nella cura dei pazienti cardiopatici, infatti non basta limitarsi a ridurre il malessere psicologico che accompagna queste malattie, ma è anche importante lavorare sulle risorse individuali per promuovere e rafforzare stati di benessere psicologico ed emotivo.
Psicologia dello Sport: L’importanza dell’ambiente sportivo per lo sviluppo Psicologico.
Elisa Morosi.
ALLENARE GIOVANI SPORTIVI: CRESCERE PERSONE CONSAPEVOLI O ATLETI VINCENTI? (o tutte e due?)
Secondo una ricerca del Michigan State University sullo sport giovanile, fare sport in un ambiente focalizzato sul miglioramento e lo sviluppo di sé piuttosto che sulla competitività o sull’agonismo crea un senso del gruppo più forte e permette un migliore sviluppo dello spirito di iniziativa, delle competenze sociali e dell’identità personale.
Questo è quanto emerso da uno studio condotto da Daniel Gould, Ryan Flett e Larry Lauer pubblicato ad Agosto 2011 sulla rivista Psychology of Sport and Exercise e che conferma quanto già riscontrato da altri ricercatori, cioè che l’attenzione all’insegnamento e al clima della squadra hanno importanti influenze sullo sviluppo personale dei giovani atleti; più nello specifico i dati della ricerca di Gould, Flette e Lauer indicano ciò che gli allenatori dovrebbero promuovere. Più che il desiderio di vincere, è l’incremento delle abilità e competenze personali degli atleti attraverso un atteggiamento accogliente e interessato nei loro confronti.
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Gli atleti che hanno preso parte allo studio erano 239, di età compresa tra i 10 e i 19 anni, provenienti da aree urbane svantaggiate, con carenza di servizi e difficoltà economiche e sociali; il campione è stato sottoposto alla somministrazione di diversi test quali Youth Experiences Scale (YES-2), Sport Motivational Climate Scale e Caring Climate Scale ed è stata misurata l’importanza data dagli allenatori allo sviluppo psicologico e della persona.
I risultati indicano che un clima di maggior attenzione ai ragazzi e un orientamento al compito anziché alla competizione o alla vittoria durante gli allenamenti portano a sviluppi positivi per il gruppo e per i singoli.
Quando un giovane atleta entra a far parte di un gruppo sportivo entrano in gioco molti meccanismi che vanno al di là dell’allenamento motorio o tecnico, ma che hanno a che fare con le relazioni tra pari e con un adulto che svolge il ruolo di conduttore di quel gruppo e con tutte le dinamiche che si intrecciano al suo interno, passando dalla ricerca di un’identità personale e di un proprio ruolo all’interno di quel gruppo, dalla collaborazione con altri per raggiungere un fine comune, fino ad arrivare al rapporto con l’avversario e a tutti i vissuti che ne derivano. Appare evidente quanto competenze acquisite sul campo da gioco si possano facilmente esportare nella vita oltre lo sport e viceversa, e quanto sia importante esserne ben consapevoli.
La sfida degli allenatori dovrebbe quindi essere quella di riuscire a motivare gli atleti al gioco e alla competizione avendo sempre in primo piano obiettivi più ambiziosi e alti che hanno a che fare con lo sviluppo della persona nella sua totalità; con queste premesse non si esclude certamente l’attenzione alla prestazione e alle competenze prettamente sportive, che, secondo Lauer, potranno trarre giovamento dal fatto che i giovani atleti imparino ad essere persone responsabili, relazionalmente competenti ed emotivamente competenti.
L’uso di meccanismi di difesa specifici (Rubbini Paglia e Di Giovanni, 2001; Soccorsi, Lombardi, Rubbini Paglia, 1984; Soccorsi, 1986; Soccorsi, Di Giovanni, Ruggiero, Rubbini Paglia, 2001) è stato osservato nelle famiglie dove a rischiare la morte sono i bambini. La malattia oncologica, ma non solo, e il rischio di morte che questo tipo di malattia porta con sé, spinge tutta la famiglia a reagire tempestivamente con un disperato tentativo di circoscrivere e incistare, quella massa estranea nella speranza di neutralizzarla (Soccorsi, Lombardi e Rubbini Paglia, 1984).
Il tempo si ferma, i rapporti tra le persone si cristallizzano, il bisogno di controllare l’evoluzione degli eventi porta all’immobilità; il tentativo è quello di fermare il ciclo vitale della famiglia al momento prima dell’insorgenza della malattia. Cristallizzare le relazioni, impedendo che i modi di rapportarsi gli uni agli altri si modifichino nel tempo, permette di esercitare un controllo sull’angoscia dell’ignoto, cioè sull’angoscia di morte: questa staticità è un’attualizzazione della morte stessa in quanto negare il cambiamento è negare l’espressione di processi vitali, ma fermare il tempo è anche garanzia di immortalità. Attualizzando la morte la famiglia si illude di poterla controllare.
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Le autrici (Soccorsi, Lombardi e Rubbini Paglia, 1984; Soccorsi e Rubbini Paglia, 1989) hanno identificato due diversi gruppi di meccanismi di difesa: un primo gruppo comporta la abnorme redistribuzione dei ruoli all’interno della struttura familiare; un secondo gruppo riguarda invece le modificazioni radicali della struttura spazio-temporale della famiglia che arrivano a intaccare anche i confini individuali, fino alla fusione. Il passaggio dagli uni agli altri avviene senza soluzione di continuità.
Il primo livello di destrutturazione riguarda la cristallizzazione della dinamicità degli spazi: la famiglia si organizza al suo interno secondo rigide funzioni statiche, ruoli che sono funzionali a una reciproca protettività dall’angoscia di morte. Spesso nei bambini malati si osservano sintomi di infantilismo e adultismo (mentre nei fratelli sani è comune l’orfanità) grazie ai quali il bambino nega di “sapere” per evitare di aumentare l’angoscia dei genitori: in questo modo il bambino assume una funzione protettiva nei loro confronti, la barriera generazionale si infrange e il bambino si ritrova ad occupare la posizione generazionale dei nonni invece che quella di figlio (Role Reversing o Accudimento Invertito); in questo modo viene meno la possibilità di accogliere e contenere le sue angosce, che comunque permangono come fantasmi di cui è impossibile parlare.
Nelle famiglie che adottano questo meccanismo di difesa assume un particolare significato la somministrazione dei farmaci, infatti la terapia medica e i relativi controlli clinici comportano una somministrazione che scandisce il tempo e permette una ritualizzazione dell’evento. Se l’inversione dei ruoli genitoriali, l’infantilismo, l’adultismo e l’orfanità sono meccanismi nascosti e “non autorizzati”, l’uso del rito dei farmaci è invece legalizzato ed esplicito e allo stesso modo utilizzato per soddisfare il bisogno che la famiglia ha di cristallizzare lo spazio per negare lo scorrere del tempo e controllare l’angoscia. Nella fase iniziale del processo di guarigione, la sospensione della terapia farmacologia può essere un utile elemento terapeutico destabilizzante in grado di indurre una crisi e sbloccare la tendenza omeostatica della famiglia, per permettere la ripresa dell’evoluzione del ciclo vitale.
Con il protrarsi della malattia è possibile che la famiglia aumenti la rigidità dei meccanismi di difesa utilizzati perdendo ogni parametro spaziale. La rigidità aumenta favorendo processi fusionali che garantiscono il massimo grado di protettività omeostatica: ogni tentativo di separazione viene vissuto come pericolosissimo perché capace di provocare la morte propria e degli altri.
Spesso anche separarsi fisicamente per poco tempo gli uni dagli altri è intollerabile.
È a questo livello che, nel tentativo stesso di difendersi da essa, la famiglia attualizza la morte: la protettività garantisce l’omeostasi bloccando il ciclo vitale della famiglia e anticipando, paradossalmente, la morte stessa.
Il bisogno di fusionalità e l’impossibilità di definirsi come individui separati si esprime nel “fare finta”; questa modalità relazionale si manifesta nell’uso del linguaggio, che è una potente minaccia nei confronti della fusione: la parola detta ha un alto potere di definizione della realtà e di mediatore delle relazioni interpersonali, in quanto è difficile espropriare una parola del suo significato e scindere “chi” dice qualcosa da “cosa ha detto”. Gli effetti malefici e angosciosi della malattia sono scongiurati e negati dagli sforzi per evitare di pronunciare parole come leucemia o tumore o dall’uso di neologismi; spesso tra i membri della coppia cala il silenzio. In altri casi la famiglia ricorre a eccessive razionalizzazioni che hanno ugualmente la funzione di controllare l’angoscia di morte.
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In queste famiglie la crisi indotta dalla sospensione dei farmaci non è sufficiente a produrre una destrutturazione tale da promuovere la ripresa dell’evoluzione del ciclo vitale. Il protrarsi di livelli elevati di angoscia di morte ha provocato “l’appiattimento di ogni affermazione di individualità”. In questo caso la famiglia può essere aiutata a ritrovare la parola ripercorrendo il cammino a ritroso: rompendo il silenzio e riappropriandosi del linguaggio verbale è possibile rincominciare a comunicare, a condividere e a ridefinirsi rispetto agli altri.
I meccanismi di difesa dall’angoscia di morte, individuali e familiari, fanno riflettere sul bisogno che tutti abbiamo di proteggerci dall’idea della nostra morte e di quella di chi amiamo; l’idea della fine è qualcosa che necessita di un tempo e di uno spazio, di ascolto e condivisione, per essere accettata o anche solo pensata. A questo proposito è importante sottolineare il concetto di “atto terapeutico”, che contrapponendosi al “processo terapeutico”, invita i terapeuti che lavorano nei reparti ospedalieri a “esserci” nel qui ed ora della relazione con i pazienti e la famiglia che si trova a fare i conti con le sue angosce di morte.
L’atto terapeutico, scavalcando il rigore del metodo e le regole del setting, che impongono uno spazio e un tempo definiti, consente al terapeuta di attualizzarsi nella relazione con la famiglia e di fornire un’occasione per veicolare una ridefinizione della relazione. Un aspetto che caratterizza l’atto terapeutico è il tempo: l’atto terapeutico è specifico per una fase avanzata della malattia, come a sottolineare che è necessario concedere alla famiglia di usare i suoi meccanismi di difesa durante la fase più critica del trattamento intensivo. Il bisogno che la famiglia ha di “fermare il tempo” la rende impossibilitata a utilizzare un rapporto psicoterapeutico di per sé processuale.
Il bisogno di difendersi e di prendere tempo “fermando il tempo” prima di poter utilizzare la crisi affinché la differenziazione, l’individuazione e la crescita dei suoi membri sia nuovamente possibile, è rispettato anche dal permettere che la famiglia sviluppi una dipendenza dal centro di cura. Dopo aver visto la morte così da vicino, dopo averla addirittura “attualizzata” attraverso la paralisi, per tornare a vivere è necessario rinascere: il centro di cura, permettendo alla famiglia di sperimentare una dipendenza-appartenenza da esso, si pone come contenitore delle angosce di morte e come una sorta di “base sicura” dalla quale è possibile separarsi per ricominciare a crescere.
Soccorsi S., Di Giovanni S., Ruggiero A., Rubbini Paglia P. (2001) Percorso della famiglia tra appartenenza e separazione dal centro oncologico. Acta med. Rom., 39:82-86-
Soccorsi S., Lombardi F., Rubbini Paglia P. (1984) La famiglia come risorsa nel trattamento del bambino oncologico. Terapia Familiare, 16: 47-66.
Soccorsi S., Rubbini Paglia P. (1989) La malattia oncologica del bambino come incidente evolutivo della famiglia. Terapia familiare, 29: 5-15.
Ascoltare la propria Musica preferita migliora la Performance Sportiva
– Rassegna Stampa –
Sia musica classica, death metal o punk, ascoltare le canzoni preferite può favorire la prestazione e il coinvolgimento nella pratica delle discipline sportive.
Questo risultato è stato presentato ieri 18 aprile presso la British Psychological Society Annual Conference che si sta tenendo a Londra in questi giorni. Precedenti studi avevano già dimostrato il potere motivazionale della musica, ma per la prima volta si analizzano gli effetti sulla performance sportiva di una specifica musica o canzone preferita dall’individuo.
La ricerca ha coinvolto 64 partecipanti e ha confrontato tre gruppi di soggetti praticanti diverse discipline sportive: football, netball e corsa. Dopo avere identificato canzoni e generi preferiti individualmente, i partecipanti sono stati sottoposti ad assessment sia prima che durante allenamenti e competizioni sportive, nella condizione in cui era loro consentito di praticare l’attività fisica con o senza la loro musica/canzone preferita. Ogni sessione è stata valutata dai partecipanti in termini di diverse variabili tra cui motivazione percepita, coinvolgimento emotivo, consapevolezza e grado dello sforzo percepito.
Dai risultati è emerso che ascoltare la propria musica preferita migliora in tutti i gruppi i punteggi di coinvolgimento percepito e motivazione alla sfida dettata dall’attività sportiva, in particolare durante gli allenamenti; si è rilevata invece una ridotta percezione dello sforzo e della fatica sia negli allenamenti che nelle fasi di competizione.
Ecco i favourites nelle playlist per ciascun gruppo di sportivi:
Netball: Rihanna e Black Eyed Peas
Running: Eminem, Pendulum, Blondie e Muse
Football: Kings of Leon, Florence and the Machine, Survivor e Foo Fighters
Attenzione! “Eye of the Tiger” era presente nelle playlist di tutti i gruppi coinvolti!
Recensione di The Artist: possiamo fare a meno delle parole?
L’esperienza di vedere un film muto è piuttosto particolare, ci riporta indietro nel tempo e anzi, è il vissuto peculiare di un tempo che non esiste più.
L’esperienza di vedere The Artist, film francese pluripremiato alla recente cerimonia degli Oscar, è un viaggio in emozioni che sembravano dimenticate, smarrite dentro suoni e frastuoni, confuse fra colori sempre più vivi ma talvolta unificati secondo logiche poco immaginative, attente soprattutto ai gusti del pubblico di massa. The Artist è una scommessa, un film senza parole e senza colori, sebbene il bianco e nero sia spesso il colore della poesia, del cinema più intimo, della fotografia più minimalista e insieme introspettiva.
E’ il colore di Chaplin e Buster Keaton, di Humphrey Bogart e Ridolini, che unisce magia e oscurità, sorriso lieve e frenesia delle espressioni. Ascoltare un film muto, le carezze sottili con cui gli attori curano la propria interpretazione, e la musica che accompagna ogni scena col ritmo di un passo che addolcisce e spiega, penetra e riformula, è la possibilità che The Artist offre allo spettatore, scavando una piccola grotta di significato antico nell’universo attuale di un cinema che globalizzandosi rischia di appiattire parte dell’esperienza e di marginalizzare le diversità, le poetiche più originali, le scelte creative più private.
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The Artist racconta di un attore del cinema muto esaltato dal pubblico e poi dimenticato allorché prende il sopravvento il sonoro; sullo sfondo e poi sempre più centrale, l’amicizia con una ragazza che da sconosciuta fan del grande divo diventa stella del cinema, superando in fama e successo l’uomo grazie al quale si era avvicinata a quel mondo. Le emozioni scorrono delicate ma robuste, l’intreccio narrativo è semplice ma si avvale di trovate poetiche e geniali, come gli svenimenti di un cagnolino ammaestrato o un balletto che i due attori abbozzano divisi da uno schermo che fa intravedere loro solo le gambe dell’altro, senza svelarne l’identità.
L’assenza delle parole, che compaiono solo in pochi sottotitoli senza partecipare alla raffigurazione emotiva dei personaggi, è particolarmente stimolante per chi di parole vive e lavora utilizzandole nel setting terapeutico come principale strumento di relazione col paziente. La nostra esperienza clinica, le riflessioni teoriche che formuliamo riguardo alla pratica terapeutica, si nutrono di parole e dei loro significati condivisi, costantemente rinegoziati nella creazione di un codice comunicativo che semplifichi il nostro rapportarci col mondo; in questo continuo rinnovarsi di suoni crediamo spesso di generare una facilitazione espressiva, una modalità più agevole di comprendere ed essere compresi, un canale più lineare attraverso il quale fare scorrere i nostri significati affinché giungano all’altro.
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Non di rado dobbiamo invece constatare che non è così, che le parole possono diventare eloquio confuso e confusivo, e quei segnali che sembrano comporre un quadro comunicativo, non solo coerente ma anche rassicurante, sono in grado di trasformarsi in una fonte sempre attiva di incomunicabilità. Da qui nasce forse la catartica sensazione originata dall’immergersi in un film muto, nel quale i tempi sono più dilatati e più dilatate le espressioni degli attori, più vivide le loro emozioni. Sospeso il ritmo serrato delle parole siamo costretti a dare ai gesti un valore totalizzante, individuando in essi l’autentica natura delle relazioni; l’innamoramento di una ragazza nei confronti dell’uomo che ha sempre desiderato da lontano e che ora per una sequenza di eventi casuali le rivolge la propria attenzione, viene espresso con l’abbraccio ad un cappotto vuoto, infilando il braccio in una manica per immaginare di essere avvolta dall’amore dell’altro.
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E’ assai raro ammirare in una pellicola parlata la stessa raffinatezza comunicativa, la medesima capacita’ di rappresentare il reale ricorrendo a sfumature tenui; e’ assai raro in un film di parole l’incontro con un’arte altrettanto elevata nell’accompagnare il fruitore lungo sentimenti complessi eppure resi con eccezionale semplicità. Il muto rallenta l’incedere dell’azione amplificandone il significato profondo, come un treno che compiendo i primi passi della partenza ci fa cogliere la soluzione di continuità del nostro movimento. L’assenza di parole ci mette alla prova, ci conduce a percepire la realtà attraverso sfondi ed equilibri differenti: “The Artist” ha un colore speciale, libero e sorprendente.
Kill Me Please, il Suicidio Assistito e le nuove frontiere del Controllo.
Ognuno di loro poi, a seconda della forma che il nucleo doloroso più profondo decide di assumere per far capolino in superficie, sceglie la propria strategia vincente per rincorrere la chimera della Certezza Assoluta; c’è chi trova sollievo nel monitorare in modo coatto l’apporto calorico di carote e zucchine, chi si consola ripetendo con ritualità kafkiana l’ispezione di interruttori e valvole del gas, oppure chi si costruisce una vita mentale parallela in cui, a ritroso o con pretese da Nostradamus, si scervella su quanto di brutto può aver combinato in passato o su quanto di brutto potrebbe capitare in futuro, illudendosi che la fatica di un simile lavorìo mentale abbia il potere di incidere sulla realtà dei fatti o di modificare il corso degli eventi.
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Tra i possibili scenari minacciosi che potrebbero favorire un bisogno di controllo, la morte è di certo l’evento più inevitabile e allo stesso più imprevedibile (nella forma e nei tempi) che possa capitare (e che capiterà di sicuro) ad un essere umano, e quindi non stupisce che ci sia chi pretende di dominare anche questo aspetto misterioso della propria esistenza, sostituendosi al destino nella funzione di decidere tempi e modi del congedo finale.
Ma è davvero possibile controllare la propria morte o (ribaltando il punto di vista) mettere sotto controllo la pulsione di morte altrui?
A primo impatto verrebbe da dire di sì; nonostante il dibattito sull’eutanasia sia estenuante e si abbia spesso l’impressione che sia vero tutto e il contrario di tutto, tutt’altra storia è il suicidio assistito, in quanto ogni individuo è sovrano nelle scelte che riguardano la sua sfera privata.
Pertanto, bando ai cavilli etici, morali, politici, filosofici o legislativi del caso, il giudizio di chi decide di stabilire quando e come morire rimane del tutto insindacabile.
La commedia noir “Kill Me Please” del regista belga Olias Barco smentisce però questa prospettiva e interpreta l’attuale rivendicazione occidentale del diritto al suicidio assistito (e istituzionalizzato) smascherandone, con sguardo cinico e divertito, la follia. Nel film un medico illuminato gestisce una clinica sontuosa, simile a quella realmente esistente in Svizzera, in cui si offre a pagamento un suicido assistito e ad personam a chi lo richiede; ciascun paziente è libero di decidere di farla finita quando e come crede, e ha diritto di essere affiancato e supportato da uno staff esclusivo nell’attuazione del proprio progetto di morte.
I pazienti che arrivano alla clinica, strampalati e grotteschi, spesso non hanno nessuno dei requisiti che ci si aspetterebbe da degli aspiranti suicidi, bensì rappresentano un campione di umanità mediamente sofferente, in cui tanti potrebbero, per certi versi, riconoscersi: li accomuna il desiderio (e la pretesa) che per loro si organizzi una morte su misura, studiata in ogni dettaglio a seconda dei gusti individuali. E il Dottor Kruger asseconda e accarezza insieme a loro questo sogno di terrena onnipotenza, facendosi paladino del diritto di ciascuno a morire con dignità e consapevolezza e, soprattutto, nel pieno rispetto delle proprie fantasie.
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Ma nonostante il meccanismo sembri progettato alla perfezione, entrambe le parti capiranno presto che dominare le dinamiche della vita e della morte è un’illusione, non foss’altro perché la semplice esistenza dei rapporti interpersonali introduce un gradiente di complessità impossibile da addomesticare (e nel film la complessità è rappresentata ad esempio dall’ingerenza dello Stato e delle istituzioni nella vita dei pazienti, dall’ostilità dei cittadini che si oppongono con violenza all’attività ambigua della clinica, e dai rapporti allucinanti che si creano tra i pazienti stessi e che stravolgono continuamente i piani prestabiliti).
Si intuisce insomma una critica al mito della “dolce morte” e all’attitudine nevrotica con cui l’uomo moderno si illude di avere il controllo della propria sofferenza eludendola anziché indagandone le motivazioni.
“Kill Me Please” è una pellicola divertente e a tratti molto disturbante, che tra le altre cose ammonisce sull’impossibilità di spostare fuori da sé la gestione dei propri drammi personali e ci ricorda come il bisogno assoluto di controllo sugli eventi, vissuto come un obbligo e una meta da raggiungere a tutti i costi, venga spesso scambiato per una soluzione intelligente, quando in realtà altro non è se non un grosso problema.
BIBLIOGRAFIA:
Sassaroli S., Lorenzini R., Ruggiero G.M. (a cura di) (2006) Psicoterapia cognitiva dell’ansia – Rimuginio, controllo ed evitamento. Raffaello Cortina Editore
ADHD: Ricerche e Tendenze
Quanti genitori hanno figli agitati, fuori controllo, che non riescono mai a stare fermi?
Oggi sappiamo che molti di questi bambini non sono semplicemente irrequieti o maleducati, ma soffrono di un vero e proprio disturbo, chiamato ADHD, un acronimo per “Attention-Deficit/Hyperactivity Disorder”, cioè Disturbo dell’Attenzione, con o senza Iperattività.
Un’interessante ricerca condotta dalla NorthWestern University ha preso in esame, dal 2000 al 2010, un campione rappresentativo a livello nazionale di bambini e ragazzi, al di sotto dei 18 anni, cui è stato diagnosticato l’ADHD e che sono stati poi sottoposti a trattamento. Lo studio ha analizzato come nell’arco temporale di dieci anni siano cambiate le diagnosi e i trattamenti di ADHD.
I risultati hanno evidenziato innanzitutto che le diagnosi sono aumentate del 66%.
Questo dato deve preoccuparci? Prima si riteneva, troppo spesso ed in maniera troppo semplicistica, che il bambino fosse soltanto poco tranquillo o che i genitori non fossero capaci a svolgere il proprio compito. È possibile che ora invece si esageri nel senso opposto, tendendo a diagnosticare troppo frequentemente un ADHD?
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Secondo Craig Garfield, pediatra e assistente professore alla Northwestern University Feinberg School of Medicine, la risposta è decisamente negativa. Garfield è il primo autore di questo studio e sostiene che l’aumento di diagnosi sia dovuto al sempre maggior interesse riguardo a questo disturbo: oggi infatti le conoscenze sull’ADHD sono di gran lunga maggiori rispetto a dieci anni fa, ed è conseguentemente più facile riconoscerne i sintomi anche per chi non è un professionista del settore. Ovviamente, una volta riconosciuti i sintomi, è necessario rivolgersi a degli specialisti per una diagnosi effettiva e per la cura del disturbo.
Garfield ricorda come in molti casi, per la terapia, si ricorra a psicostimolanti, ma oggi ci sono molti metodi per curare il problema e i suoi effetti secondari, anche senza l’utilizzo di medicine. Questo comporta non solo un aiuto al bambino, ma anche ai genitori e agli insegnanti che lo seguono, per affrontare il problema nella maniera più corretta e più utile per il raggiungimento dell’autocontrollo.
Un recente studio canadese (MTA) effettuato su 579 bambini con ADHD dai 7 ai 9 anni, ha confrontato l’efficacia di tre tipi diversi di intervento: il trattamento psico-educativo (con i genitori, insegnanti e con il bambino), il trattamento esclusivamente farmacologico, il trattamento combinato farmacologico e psicologico. Alla fine dei 14 mesi dello studio MTA, il 68% dei bambini che hanno ricevuto il trattamento combinato presentano una remissione dei sintomi. Inoltre, i bambini che hanno ricevuto il trattamento combinato hanno ridotto in 14 mesi la dose del farmaco (18%). L’efficacia del farmaco, sebbene sia stata confermata dallo studio canadese, pone al vaglio alcune considerazioni di ordine morale. Il metilfenidato viene considerato tra i farmaci di scelta elettivi nel trattamento dello ADHD, ma non si possono tralasciare gli effetti collaterali: il “Science and Technology Committee”, una commissione inglese che consiglia il governo sulle questioni scientifiche di rilievo, ha giudicato il metilfenidato una delle venti sostanze psicoattive più dannose, al pari di LSD ed Ecstasy.
Il farmaco, inoltre, non agisce sugli altri tipi di problemi che i bambini con ADHD presentano, come la difficoltà di interazione con i pari, la difficoltà a inibire le risposte e le difficoltà comportamentali.
Diversamente dall’uso del farmaco, un approccio di tipo cognitivo-comportamentale si focalizza più sull’insegnamento diretto al bambino delle abilità di self-control e delle abilità per la risoluzione dei problemi.
BIBLIOGRAFIA:
Swanson JM, Kraemer HC, Hinshaw SP, et al. Clinical relevance of the primary findings of the MTA: success rates based on severity of ADHD and ODD symptoms at the end of treatment. J Am Acad Child Adolesc Psychiatry. 2001;40(2):168–179
Vitiello B, Severe JB, Greenhill LL, et al. Methylphenidate dosage for children with ADHD over time under controlled conditions: lessons from the MTA. J Am Acad Child Adolesc Psychiatry. 2001;40(2):88–196.
The MTA Cooperative Group. A 14-month randomized clinical trial of treatment strategies for attention-deficit/hyperactivity disorder. Arch Gen Psychiatry. 1999;56(12):1073–1086.
Horn, W.F., Ialongo, N.S., Pascoe, J.M., Greenberg, G., Packard, T., Lopez, M., Wagner, M., Puttler, L., (1991) ‘Additive effects of psychostimulants, parent training and self-control therapy with ADHD children.’ Journal of the American Academy of Child and Adolescent Psychiatry, 30,233-240.
Erin White, Diagnosis of ADHD on the rise. From the Northwestern University’s website
Abilità di lettura nei babbuini: il riconoscimento dell’ortografia.
– Rassegna Stampa –
Imparare a leggere implica anche l’abilità di riconoscere e memorizzare combinazioni regolari di lettere che compongono le parole. Un nuovo studio dimostra che i primati non umani sarebbero in grado di riconoscere specifiche combinazioni di lettere nelle parole e di rilevarne anomalie.
Un gruppo di ricercatori del Laboratoire de Psychologie Cognitive (Cognitive Psychology Laboratory, CNRS/Aix-Marseille University) di Marsiglia ha condotto un esperimento in cui venivano mostrati a babbuini alcune parole composte da quattro lettere su un dispositivo touch screen. I babbuini venivano addestrati a pigiare una forma ovale se lo stimolo presentato era effettivamente una parola scritta correttamente oppure una croce in caso vi fossero anomalie: ovviamente venivano rinforzati postitivamente e ricompensati mediante cereali a fronte delle risposte corrette. In pochi giorni di training i babbuini avevano effettivamente appreso a distinguere correttamente le parole in lingua inglese tipo “bank” rispetto a non-parole come “jank”.
Ancora più sorprendentemente, dopo avere memorizzato lo spelling di dozzine di parole, i babbuini erano poi in grado di dare le risposte corrette anche di fronte a parole che non avevano mai visto precedentemente. Ciò suggerisce che i nostri antenati primati non si limiterebbero a memorizzare la forma complessiva delle parole ma sarebbero in grado di rilevare e memorizzare patterns regolari nell’organizzazione delle parole: è come se fossero in grado di apprendere combinazioni di lettere regolari e frequenti all’interno delle parole di lingua inglese, e similmente di rilevarne anomalie e irregolarità.
Questa abilità, non specificamente umana nè linguistica, potrebbe quindi avere rappresentare una delle premesse per l’evoluzione del linguaggio nell’uomo.
Vestita di Rosso = più interessata al Sesso? (agli occhi degli uomini)
Gli abiti rossi aggrovigliano la mente degli uomini, basta chiedere a Neo di Matrix. In una scena del film, l’eroe subisce un’imboscata dopo essere stato distratto dalla “donna in rosso”.
Ora un nuovo studio indaga i fondamenti di questo sentire comune. L’assunto è che gli uomini valutino le donne che indossano abiti rossi come più interessate al sesso, suggerendo che gli esseri umani possano essere condizionati ad associare questo colore alla fertilità.
L’attrazione per il rosso non è una novità. Le donne hanno indossato blish rosato e rossetto luminoso per circa 12.000 anni. E, se siete stati abbastanza fortunati da ricevere un biglietto per il giorno di San Valentino, sarà probabilmente stato decorato di piccoli cuori rossi. È un effetto che deriva probabilmente dalla biologia, dice Adam Pazda, psicologo presso l’Università di Rochester, New York, e autore del nuovo studio. Quando molti primati femmina -dagli scimpanzè ai diversi tipi di babbuini chiamati mandrilli- diventano fertili, il picco dei livelli di estrogeni genera l’apertura dei vasi sanguigni che rendono il loro viso rosso brillante. Questa carnagione arrossata sembra dare ai maschi il segnale che è il momento di fare la loro mossa.
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Lo stesso potrebbe essere vero per gli esseri umani, dice Pazda. In uno studio precedente, scienziati hanno dimostrato che gli uomini sembrano essere più attratti da donne vestite di rosso, piuttosto che in un colore come il bianco. Questo a prescindere dall’abito. “Non deve essere un vestito rosso o un abito sexy”, dice. “Può essere anche una T-shirt rossa”.
ESPERIMENTO: Per capire perché, Pazda e i suoi colleghi hanno condotto un semplice esperimento. Hanno mostrato a 25 uomini una foto modificata di una donna single, in diversi casi, indossava una T-shirt bianca o rossa. I ricercatori hanno poi chiesto ai volontari di valutare, su una scala da 1 a 9, quanto la modella potesse essere interessata ad una storia. In altre parole, gli uomini hanno risposto alla domanda: “Lei è interessata al sesso?”.
Gli uomini hanno interpretato il vestito rosso come un segnale che la donna era effettivamente più aperta alle avances sessuali. Infatti, i ragazzi tendevano a dare un punteggio sulla disponibilità della donna al sesso da 1 a 1,5 punti in più quando portava la maglietta rossa piuttosto che bianca. È noto che gli uomini tendono a gonfiare l’appeal sessuale di una donna se credono che sarà più aperta e disponibile.
Il lavoro del team è molto interessante, secondo Markus Maier, psicologo presso l’Università di Monaco di Baviera in Germania. Ma, a questo punto, è impossibile dire perché gli uomini adorino così tanto il rosso. L’effetto potrebbe essere evolutivo, ma potrebbe anche essere un fenomeno culturale, in altre parole, un comportamento appreso tramandato di generazione in generazione. Per capire questo gli scienziati avrebbero bisogno di recarsi in angoli isolati del mondo per esaminare se universalmente il rosso sia un colore associato alla sessualità.
Ma è chiaro le donne dovrebbero stare attente, dice Pazda . Anche scelte apparentemente insignificanti del guardaroba possono inviare un sacco di segnali non intenzionali. “Indossare rosso può essere una lama a doppio taglio”, dice. Le donne “potrebbero ottenere sempre l’attenzione sessuale anche quando non la desiderano”. Ma c’è una lezione per gli uomini, inoltre. E’ importante per gli uomini essere consapevoli di come il loro atteggiamento verso le donne possa ritorcersi contro a causa di indizi fuorvianti. Questa è una lezione che Neo ha sicuramente imparato!
Neuroscienze e Psicoanalisi: il contributo di Mauro Mancia
Milko Prati.
MEMORIA ESPLICITA E MEMORIA IMPLICITA. L’INCONSCIO NON RIMOSSO
Fino a non molto tempo fa accostare i termini Neuroscienze e Psicoanalisi sarebbe equivalso ad esprimere un ossimoro. Negli ultimi anni, la ricerca neuroscientifica ha permesso l’individuazione di diversi punti di contatto con la psicoanalisi offrendo una base morfofunzionale a funzioni specifiche della mente sulle quali sono fondate le teorie psicoanalitiche.
In Italia, il progetto di una possibile integrazione tra le neuroscienze e la psicoanalisi è stato portato avanti da Mauro Mancia. Allievo di Cesare Musatti, è stato professore di Fisiologia Umana all’Università degli Studi di Milano e psicoanalista SPI, ha cercato di allontanare progressivamente la psicoanalisi dalla metapsicologia per avvicinarla sempre più alla psicologia aperta alla sperimentazione e alla osservazione scientifica.
Punto di partenza è la scoperta da parte delle neuroscienze dell’esistenza di due sistemi della memoria:
La memoria esplicita: a lungo termine, dichiarativa, autobiografica, relativa alla propria identità e storia personale, e che permette il ricordo.
La memoria implicita: che invece non è passibile di ricordo e non è verbalizzabile.
LEGGI LA RECENSIONE: Critica Psicoanalitica: Recensione di Perdere la Testa di Giuseppe Civitarese - A cura di GIovanni M. Ruggiero
Questa scoperta permette a Mancia di ipotizzare che le tutte esperienze infantili dei primi due anni di vita, prima dello sviluppo del linguaggio, siano depositate nella memoria implicita e che in questo sistema di memoria siano contenute le esperienze più arcaiche, anche traumatiche, relative alle prime relazioni del bambino con la madre.
Sulla base di tale ipotesi, Mancia introduce un concetto originale che gli consente di individuare un ponte di collegamento tra le due discipline: l’“inconscio non rimosso”.
È possibile mettere in relazione la memoria implicita con un’organizzazione inconscia, cosiddetta “non rimossa”, in quanto la rimozione necessita dell’integrità delle strutture neurofisiologiche (ippocampo, corteccia temporale e orbito-frontale) e della maturazione delle stesse, indispensabili per la memoria esplicita. La rimozione è pertanto collegata espressamente alla memoria esplicita, ma siccome tale memoria non è matura nel bambino prima dei due anni di vita, tutto ciò che avviene prima entra nella memoria implicita e si deposita in una forma d’inconscio che non può essere rimossa.
Le tracce mnestiche depositate nella memoria implicita e nell’inconscio, che non può essere rimosso, costituiscono il marchio, la struttura portante, il carattere e la personalità dell’individuo, e continueranno a condizionare la vita affettiva, emotiva, cognitiva per sempre.
Queste osservazioni permettono un ampliamento del concetto di inconscio, ridimensionando l’aspetto legato alla rimozione a favore di esperienze non rimosse. L’inconscio è considerato come una funzione della mente indispensabile per conoscere anche la coscienza e per poter comprendere i comportamenti, i sentimenti e le sensazioni dell’individuo. In questo senso, i risultati delle ricerche neuroscientifiche aiutano a conoscere le strutture o a comprendere maggiormente come si organizza la memoria, sia quella implicita che esplicita, offrendo una misura di come si organizza l’inconscio.
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Una questione di particolare interesse affrontata da Mancia è il rapporto tra il concetto di non conscio o non consapevole (unaware) delle neuroscienze e quello di inconscio (unconscious) della psicoanalisi. Definire chiaramente i due concetti evita confusioni semantiche ed epistemologiche, infatti la non consapevolezza trattata dalle neuroscienze riguarda eventi esterni al proprio Sé (neglet, prosopoagnosia, anosognosia ecc), in quanto non radicati nella storia affettiva ed emotiva del soggetto né nella sua memoria esplicita o implicita mentre, invece, sono proprio questi ultimi aspetti che riguardano essenzialmente il concetto di inconscio della psicoanalisi. Riguardo alle emozioni, alcuni cognitivisti (Kihlstrom, 1987) utilizzano il concetto di “inconscio cognitivo” per sottolineare l’identità tra emozioni e inconscio, suggerendo proprio questo come punto di convergenza tra la psicoanalisi e le neuroscienze.
In relazione alla clinica, Mancia sottolinea che l’inconscio dinamico di Freud, permettendo il ricordo, si manifesta nel transfert attraverso la narrazione, mentre l’inconscio non rimosso si manifesta attraverso le funzioni simboliche del sogno e la musicalità del transfert.
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Il sogno ha la capacità simbolo-poietica di trasformare esperienze all’origine pre-simboliche in contenuti verbalizzabili, e l’analisi dei sogni può favorire questo processo ricostruttivo, offrendo immagini pittografiche ed emozioni che permettono di simbolizzare, mentalizzare quindi rendere pensabile ciò che il bambino non poteva pensare.
Il transfert, concetto cardine della psicoanalisi, è rielaborato da Mancia in una chiave originale. Fondandosi sulla relazione stabilita tra memoria implicita e inconscio non rimosso, ritiene che la voce materna sia il primo strumento, il primo stimolo con cui il bambino entra in relazione con l’esterno.
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La voce materna rappresenta una sorta di imprinting perché attraverso la voce il bambino riconosce il carattere della madre, gli aspetti affettivi-emozionali e il bambino risulta, già in epoca molto precoce, sensibile all’intonazione e alla musicalità della voce materna, rappresentando quest’ultima la radice su cui si fonda la prima relazione affettiva del bambino con la madre. Questo ricomparirà nel transfert e l’inconscio non rimosso sarà presente nelle componenti verbali ed extraverbali. Mentre queste ultime saranno caratterizzate da agiti (postura, espressività facciale, modo di presentarsi ecc), la componente verbale deve essere colta nella doppia semantica del linguaggio che permette di dare un senso alla comunicazione del paziente, non tanto nel contenuto delle parole quanto attraverso tono, timbro, volume, ritmo, prosodia, sintassi e tempi del linguaggio.
La voce assume un determinato valore come esperienza di sé e, nello stesso tempo, come espressione di sé nella relazione psicoanalitica.
I messaggi trasmessi dalla vocalità raggiungono le voci dell’inconscio.
BIBLIOGRAFIA:
Mancia M., Psicoanalisi e Neuroscienze, Springer Verlag, 2008
Mancia M., Sentire le parole, Bollati Boringhieri, 2004
Kihlstrom J. E. (1987). The Cognitive Unconscious, Science, 237, 1445-52
Il Dio Postmoderno ne La Trama del Matrimonio, di Jeffrey Eugenides
Alcune osservazioni in aggiunta a quelle della mia amica Brunella Coratti, già uscite su State of Mind.
Si il libro è bello, e due sono i motivi che me lo fanno amare, innanzitutto il viaggio nel disturbo bipolare, di uno dei tre protagonisti (Leonard). Per un terapista entrare nella sua mente è veramente molto interessante, sia quando non è consapevole della sua malattia e agisce rabbia o distanza dagli altri, sia quando entra nell’illusione onnipotente di controllare il farmaco e l’umore.
Si, non credere a pensieri ed emozioni che ci abitano nella mente è veramente difficile, distanziarsi da cose che viviamo come nostre è la grande scommessa della psicoterapia con i pazienti difficili. Siamo abituati a credere a ciò che pensiamo e proviamo come l’espressione autentica di noi stessi e occorre una grande disciplina interiore per fidarsi di chi ci dice che queste emozioni, questi pensieri sono il sintomo di un malessere e non l’unico modo privilegiato di leggere il mondo. Ma anche quando abbiamo capito, riuscire a criticare questi stati, a distanziarsi o vivere come se fossero non nostri, è una grande e difficile battaglia.
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Il disturbo bipolare disgrega l’esistenza di Leonard, e il rapporto con Madeleine. Jeffrey Eugenides è benevolo però e ci promette che con il tempo e dopo molte distruzioni Leonard troverà un suo modo di convivere con la malattia.
Ma un’altra parte del libro è importante secondo me. Mitchell l’altro protagonista maschio del libro, intelligente, ostinatamente innamorato di Madeleine con il sapore perenne della sconfitta in bocca, attraversa una crisi spirituale che gli fa desiderare di divenire religioso, di avvicinarsi alla religione. Finisce in India nell’ospedale di Madre Teresa di Calcutta e ci rimane per qualche tempo tentando di fare i conti con il dolore dei malati e dei morenti. Con grande fatica e molto molto disgusto.
La domanda di religione e di spiritualità di Mitchell è tipicamente postmoderna, non nasce da un desiderio di spiegazione del mondo, del destino dell’uomo. Non nasce in un mondo oscuro e incomprensibile da un desiderio di ordine e organizzazione. Non ha lo scopo di spiegarsi l’aldilà, il dopovita, il senso stesso dell’esistenza. La sparizione degli affetti e la morte delle persone care.
No, la sua domanda di religione è molto simile a una domanda di psicoterapia, intima, solitaria, ansiolitica, antidepressiva.
E’ una domanda di Dio senza veramente bisogno di Dio.
Nasce da un’ infelicità esistenziale, emotiva, dall’amore infelice verso una donna, e non sembra spirituale ma psicologico. Ecco mi ha colpito questo Dio moderno che non spiega più il mondo ma serve a spiegare soprattutto la sofferenza psicologica umana. Un Dio intimista e psicoterapeuta più che un Dio di giustizia o di provvidenza.
Di Madeleine, la protagonista sana, sappiamo già tutto al’inizio, la sua sofferenza è sofferenza del crescere, e, al contrario della figlia giainista dello Svedese di Philip Roth, sappiamo che alla fine, dopo tanta confusione e sofferenza, si salverà. E qui Eugenides è meno grande che nella descrizione dei maschi del libro. Le donne le comprende di meno, e forse gli interessano di meno dei protagonisti maschi. E si vede.
Riconsolidamento Mnestico: Manipolare la Memoria per trattare la Dipendenza da Sostanze
– Rassegna Stampa –
Una procedura comportamentale che altera la memoria -in termini di apprendimento associativo- può essere utile per prevenire efficacemente il craving e le ricadute nei dipendenti da eroina.
Lo studio pubblicato in questi giorni su Science descrive tale procedura comportamentale come una manipolazione delle memorie derivanti da apprendimenti associativi riguardanti l’uso di sostanze. La prevenzione del craving e delle ricadute nell’ambiente quotidiano dei pazienti rappresenta uno dei nodi più critici del trattamento dell’addiction, proprio perché l’esposizione a stimoli legati alla sostanza vengono associati a livello mnestico agli effetti piacevoli a breve termine del suo utilizzo inducendo il craving e spesso anche l’abituale risposta d’uso.
La nuova procedura sottoposta a verifica nell’articolo combina l’esposizione agli stimoli triggers con la manipolazione del processo cognitivo chiamatoriconsolidamento mnestico in cui l’informazione viene recuperata dai magazzini della memoria a lungo termine e quindi riattivata così che si possa ulteriormente consolidare. Subito dopo il recupero mnestico l’informazione appena recuperata viene resa temporaneamente instabile e soggetta ad alterazioni di contenuto. Già tra il 2009 e il 2010 LeDoux e Phelps della New York University avevano dimostrato che l’interferenza nel processo di riconsolidamento mnestico può indebolire le memorie fobiche nei topi e negli umani.
La nuova procedura sperimentata dai ricercatori del National Institute of Drug Dependence dell’Università di Beijing consiste nella manipolazione del riconsolidamento mnestico dei precedenti comportamenti di uso di sostanze e relativi stimoli correlati. Una prima serie di esperimenti ha dimostrato che tale procedura riduce il comportamento di ricerca della sostanza nei topi; similmente nei pazienti dipendenti da cocaina tale manipolazione si è dimostrata efficace nella riduzione del craving fino a sei mesi in un regime di ricovero per disintossicazione.