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Behavioral Inhibition and Child Anxiety

 

In the next series of installments I will be discussing the concept, importance, course, prevalence and relation of behavioral inhibition (BI) to social phobia.

Behavioral Inhibition and Child Anxiety - Immagine: © dannywilde - Fotolia.com - Garcia-Coll, Kagan and Reznick (1984) define behavioral inhibition as a trait characterized by shy, withdrawn, uneasy, vigilant, and restrained behavior in the context of unfamiliar social or non social situations; in the same situations uninhibited children act spontaneously and confidently (Kagan, 1988). The prevalence rate of BI is estimated at 15% in two year old Caucasian children (Kagan, 1989). The link between BI and anxiety disorders has been a focus of much research. Many studies have examined the persistence of BI and, in particular, the link between it and the development of social phobia.

Research has examined the course and persistence of BI. Kagan, Reznick, Snidman, Gibbons and Johnson (1988) used a longitudinal design to assess the social development of behaviorally inhibited (n = 22) and uninhibited children (n = 19). At 21 months of age BI was assessed in a laboratory setting, and at seven and a half years the children’s behavioral profile was assessed. There was significant continuity from 21 months to seven and a half years of age. Thus, children who were labeled inhibited became more quiet and socially avoidant in unfamiliar situations than uninhibited children; uninhibited children became more talkative and interactive in these situations than inhibited children.

Parents' words and anxiety disorders
Related installment: Parents' words and Anxiety Disorders.

Asendorpf (1991) observed 87 children in free play sessions at four, six and eight years of age. The children’s main care giver completed questionnaires regarding their children’s behavior at each time point. The free play sessions were recorded and children’s behavior was later coded. The results showed that with an increase in age, early inhibited children spent longer periods in solitary-passive activity then uninhibited children. Children with an early uninhibited temperament spent more time engaged in social behavior than inhibited children as they became older.

From these two studies we have learned that behavioral inhibition is prevalent and common in children of younger ages, those children that shown inhibited behaviors in the early months of life also continue to demonstrate these behaviors into later childhood. In the installment I will examine the relationship between BI and social phobia.

 

 

BIBLIOGRAPHY: 

  • Asendorpf, J. B. (1991). Development of inhibited children‟s coping with unfamiliarity. Child Development, 62, 1460 – 1474.
  • Garcia-Coll, C., Kagan, J., & Reznick, J. S. (1984). Behavioral inhibition in young children. Child Development, 55, 1005 – 1019.
  • Kagan, J. (1989). Temperamental contributions to social behavior. American Psychologist, 44, 666 – 674.
  • Kagan, J., Reznick, J.S., Snidman, N., Gibbons, J., & Johnson, M.O. (1988). Childhood derivatives of inhibition lack of inhibition to the unfamiliar. Child Development, 59, 1580 – 1589.
  • Kagan, J., Snidman, N., Kahn, V., & Towsley, S. (2007). The preservation of two infant temperaments into adolescence. Monographs of the Society for Research in Child Development. No, 287. Blackwell. Boston.

SEMINARIO: Terapia Cognitivo-Comportamentale dell’Abuso di Alcool

AVVISO!! 

Ci dispiace comunicarvi che, per motivi di salute, il Professor Spada non può piu partecipare all’evento “Terapia Cognitivo-Comportamentale dell’Abuso di Alcool” che pertanto è stato annullato.

In questo momento non siamo in grado di stabilire se possiamo ricuperarlo in un’altra data e vi faremo sapere nei prossimi giorni.

 

Terapia Cognitivo-Comportamentale dell'Abuso di Alcool -

Programma dell’iniziativa

Nella maggior parte delle culture, l’alcool è il sedativo ad azione centrale più frequentemente usato e rappresenta una delle principali cause di mortalità e disabilità tra disturbi organici e psicologici nella regione europea (OMS, 2004). Per questa ragione il consumo di alcool e le sue conseguenze, specie tra gli adolescenti rappresenta un problema sociale di primo piano per il suo impatto negativo sia sul benessere che sui costi sociali. Questa esigenze ha portato allo sviluppo di protocolli sempre più strutturati e pratiche cliniche di eccellenza nel trattamento di individui con problemi di abuso di alcool. In particolare, l’approccio cognitivo-comportamentale in associazione a interventi di incremento della motivazione al cambiamento ha mostrato buoni risultati di efficacia nel trattamento del consumo problematico di alcool.

L’iniziativa si propone di divulgare in Italia le linee di ricerca e i modelli di intervento psicoterapeutico che stanno dando maggior prova di evidenza a livello scientifico internazionale. Il raggiungimento dell’obiettivo sarà sostenuto dal contributo scientifico del Prof. Marcantonio Spada dell’Università di London South Bank (UK), dirigente presso il North East London NHS Foundation Trust, autore di oltre 50 pubblicazioni internazionali sul trattamento delle dipendenze patologiche.

Il programma prevede una giornata seminariale tecnico-scientifica per psicologi, psicoterapeuti e psichiatri. La giornata condotta dal Prof. Marcantonio Spada illustrerà ed esplorerà l’applicazione della Terapia Cognitivo-Comportamentale (TCC) al trattamento del consumo di alcool problematico. Le aree di interesse trattate riguarderanno la valutazione psicodiagnostica, la concettualizzazione e formulazione del caso clinico e interventi terapeutici chiave. Eguale enfasi verrà data a sintetizzare le nuove linee di ricerca nel trattamento di questi problemi.

 SCARICA LA SCHEDA DI ISCRIZIONE

Obiettivi del corso:

  • Imparare a valutare rapidamente e con efficacia un paziente che presenta un problema alcool-correlati in termini di tipo del problema, grado di severità, modalità di funzionamento psico-sociale

  • Imparare a valutare rapidamente e con efficacia il miglior trattamento possible per quell paziente e in particolare se è adatto a un intervento cognitivo-comportamentale

  • Imparare a concettualizzare un problema alcool-correlato usando un modello cognitivo-comportamentale

  • Apprendere come integrare informazioni nella formulazione di casi complessi

  • Comprendere le tecniche di base di una Terapia Cognitivo-Comportamentale per problemi alcool-correlati con particolare attenzione alla strategia e sequenza degli interventi

 

Venerdì 13 Aprile 2012

 

Seminario Avanzato: Terapia Cognitivo-Comportamentale dell’Abuso di Alcool. Protocollo clinico e nuove linee di ricerca

 

Durata: 9:00 – 18:00

Sede: Aula Magna, Policlinico di Modena, Via del Pozzo, 71, Modena.

 

Docente: Prof. Marcantonio Spada (Professor of Psychological Therapies at London South Bank University in partnership with North East London NHS Foundation Trust)

 

Piano del giorno

 

09:00 – 09:10 Presentazione del seminario (Fabrizio Starace)

09:10 – 09:20 Introduzione ai lavori (Sandra Sassaroli)

09:20 – 11:00 Modello Cognitivo Comportamentale e Strumenti di Valutazione Psicodiagnostica

11:00 – 11:15 Pausa

11:15 – 13:00 Tecniche di Concettualizzazione clinica e Formulazione del Caso

13:00 – 14:00 Pausa Pranzo

14:00 – 15:45 Motivazione al cambiamento e Tecniche di Trattamento Cognitivo-Comportamentale

15:45 – 16:00 Pausa

16:00 – 17:15 Interventi chiave e nuove linee di ricerca nel trattamento dell’Abuso di Alcool

17:15 – 18:00 Discussione: prospettive future nel trattamento delle problematiche alcool-correlate (Marcantonio Spada, Giovanni Ruggiero, Claudio Ferretti, Sandra Sassaroli).

 

Materiali: pacchetto di strumenti di valutazione psicodiagnostica, schede di analisi funzionale e formulazione del caso, materiale con il contenuto del corso, articoli scientifici selezionati sulla base dei contenuti.

 

Lingua: Italiana

 

Accreditamento: In corso la richiesta di accreditamento ECM.

 

Iscrizioni e Costi:

Iscrizione workshop: 120€ (iva inclusa)

Iscrizione soci SITCC, AIAMC, SPR, dipendenti servizio pubblico settore sanitario: 100€

 SCARICA LA SCHEDA DI ISCRIZIONE

Enti organizzatori

Associazione Cognitivismo Clinico Modena

L’Associazione Cognitivismo Clinico nasce nel 2008 a Modena allo scopo di diffondere l’approccio cognitivo-comportamentale, di stimolare la ricerca facendosi promotore a livello locale di un approccio scientifico e culturale che ha già un’importante risonanza a livello nazionale ed internazionale.

 

Studi Cognitivi

STUDI COGNITIVI – Scuola di Specializzazione in Psicoterapia Cognitivo-Comportamentale e Istituto di Ricerca sulla Sofferenza Mentale e Psicoterapia. STUDI COGNITIVI è una società di terapeuti di orientamento cognitivo il cui obiettivo è diffondere la formazione in terapia cognitiva e promuovere la ricerca empirica sui meccanismi che sostengono la sofferenza mentale e sull’efficacia della terapia cognitiva.

Terapia Cognitivo-Comportamentale per le Psicosi – Parte II

 

Parte II – TRATTAMENTO 

Terapia Cognitivo-Comportamentale per le Psicosi - Parte II TRATTAMENTO. - Immagine: © margouillat photo - Fotolia.com - Dalle prime proposte di Beck, fondatore della Terapia Cognitiva, ad oggi sono stati fatti numerosi passi avanti nella costruzione di protocolli efficaci per la cura delle psicosi. Le neuroscienze hanno contribuito enormemente alle conoscenza attualmente in possesso della medicina e della psicologia, e l’esperienza clinica ha favorito la messa a punto di tecniche psicoterapeutiche sempre più specifiche e mirate alla riduzione dei sintomi più critici. Uno dei protocolli più efficaci emersi negli ultimi anni è quello di Fowler (2000) e utilizzato in molte ricerche successive come quella citata nel precedente contributo sull’argomento (Terapia Cognitivo-Comportamentale per le Psicosi – Parte I – DATI DI EFFICACIA).

I principali obiettivi del Trattamento Cognitivo-Comportamentale per le psicosi sono:

  • Ridurre l’angoscia e le disabilità prodotte dai sintomi psicotici. 
  • Ridurre la disregolazione emotiva.
  • Accrescere la consapevolezza del paziente sul suo disturbo e promuovere una partecipazione attiva al percorso di cura, che possa prevenire il rischio di ricadute e di isolamento sociale e lavorativo.

Ecco come procedere:

Terapia Cognitivo-Comportamentale per le Psicosi. - Immagine: © svedoliver - Fotolia.com
Articolo consigliato: Terapia Cognitivo-Comportamentale per le Psicosi - PARTE I

1. Porre una diagnosi accurata: i sintomi psicotici sono comuni ad alcuni disturbi dell’umore, all’assunzione di sostanze, a fenomeni transitori e acuti generati da un forte stress, oltre che nella schizofrenia. Una buona diagnosi permette la scelta del trattamento farmacologico più indicato, e la scelta del trattamento psicoterapico più adatto alle caratteristiche del disturbo. Senza questa fase è impossibile strutturare un trattamento adeguato ed efficace.

2. Costruire una relazione terapeutica collaborativa e trasparente sin dai primi colloqui: i pazienti vivono spesso un costante stato di paura e minaccia, che li rende sospettosi rispetto alla possibilità di chiedere aiuto, sono spesso arrabbiati con i servizi di salute mentale e rifiutano l’importanza del trattamento psicoterapico nella cura della loro patologia; la trasparenza si declina nella condivisione esplicita degli obiettivi terapeutici possibili.

3. Elaborare nuove strategie di coping per i sintomi più invalidanti: utilizzare schede di monitoraggio sull’ansia, sull’angoscia, sulla frequenza e presenza delle voci o su episodi di paura/rabbia, strategie comportamentali “d’emergenza”; tutte le tecniche cognitive citate possono aiutare a costruire strumenti utili a ridurre stati di overwhelming e comportamenti auto o etero lesivi.

4. Sviluppare un nuovo modello di comprensione dei sintomi e della malattia: approfondire le credenze del paziente sulla propria malattia e sulle cause che l’hanno scatenata, capire cosa attiva stati mentali e comportamenti dannosi e fare psicoeducazione sugli aspetti strettamente medici del disturbo.

5. Lavorare sui sintomi deliranti e sulle allucinazioni: l’analisi giorno per giorno degli eventi più significativi della settimana, permette di capire molto gradualmente l’intensità, la frequenza e il significato degli aspetti allucinatori. Non si tratta di fare disputing sulle credenze deliranti, ma di lavorare “al fianco” di questi contenuti con l’obiettivo di individuare dapprima il contesto e le emozioni che li attivano, e di introdurre successivamente elementi di realtà che possano favorire un’interpretazione meno drammatica dei vissuti personali e degli eventi esterni.

6. Affrontare aspetti legati alla valutazione di sé, all’ansia e alla depressione: collocare il disturbo nella più ampia cornice della storia personale del paziente per capirne i significati specifici, costruire una nuova valutazione di sé (re-appraisal) e delle proprie esperienze di vita, con l’obiettivo di aumentare l’autostima e recuperare una valutazione globale di sé più razionale. Ansia e depressione tendono a ridursi quando alcune credenze centrali rispetto al “essere un fallimento totale”, all’“essere un peso per gli altri”, all’“essere incapaci di vivere e sopravvivere da soli”, etc..etc.., vengono modificate.

I Circuiti Neurali attivi nel Delirio di Riferimento. - Immagine: © Vibe Images - Fotolia.com
Articolo consigliato: I Circuiti Neurali attivi nel Delirio di Riferimento.

7. Gestire le ricadute e l’isolamento sociale: l’ultima fase della terapia si concentra sul consolidamento dei nuovi “appraisal” e delle nuove strategie comportamentali di gestione degli stati emotivi; prevede il miglioramento delle capacità di monitoraggio dei segnali di crisi, la strutturazione della futura terapia e delle eventuali strategia di emergenza da mettere in atto in caso in cui nuovi eventi di vita negativi mettano in scacco l’equilibrio guadagnato. In questa fase si colloca la vera sperimentazione di esperienze più legate alla sfera sociale e lavorativa, ora che il bagaglio di strumenti ed esperienze permette di affrontare con più sicurezza le disabilità imposte dalla malattia.

Le fasi descritte dagli autori (Garety, Fowler et al. 2000), costituiscono un’indicazione utile per orientare il clinico alla strutturazione di un percorso ma (inutile dirlo!) ogni fase va condivisa, personalizzata e affrontata tenendo conto delle condizioni cliniche e delle variabili ambientali e sociali (eventi di vita, lavoro, familiari,..), che possano influenzare negativamente il percorso di cura.

Come ogni altra terapia di ambito cognitivo ci si occupa insomma di accrescere la consapevolezza e le capacità di ragionamento su credenze relative alla propria malattia, a sé e agli altri. Le emozioni vengono cercate in modo meno diretto e puntuale, mentre l’accettazione degli stati mentali dolorosi – ben nota alle terapie cognitive più recenti – può contribuire enormemente a ridurre l’irritabilità e la rabbia sempre associate al proprio stato di malato cronico.

 

 

BIBLIOGRAFIA: 

Il rapporto tra Creatività ed Emozioni

 

“Sentimento e desiderio sono le forze motrici dietro a ogni impresa e creazione umana, per quanto esaltata possa manifestarsi la forma di quest’ultima”
Albert Einstein 

 

Creatività ed Emozioni. - Immagine: © designer_things - Fotolia.com - Osservando un quadro o ascoltando un brano musicale vi siete mai domandati cosa può aver ispirato l’autore? Oppure vi siete mai sorpresi a chiedervi come sarà nata l’idea di inventare un particolare oggetto? Da quando l’uomo ha fatto la sua comparsa sulla terra per poter sopravvivere e adattarsi all’ambiente che lo circondava ha dovuto risolvere problemi, creare nuovi oggetti e utensili, trovare soluzioni. Base fondamentale di questo processo è la creatività.

Data la grande importanza, questa caratteristica (la creatività)  non poteva salvarsi dalle grinfie degli “psicologi ricercatori” che a partire dalle ricerche di Giulford del 1950 hanno condotto studi sistematici per comprendere più a fondo la creatività e come essa influenzi e sia influenzata dalla personalità, dalle relazioni sociali, dagli aspetti cognitivi ed emotivi.

Arteterapia: teoria e prassi di un nuovo approccio psicoterapeutico integrato – parte I - Immagine: © oscurecido - Fotolia.com
Articolo consigliato: Arteterapia: teoria e prassi di un nuovo approccio psicoterapeutico integrato – parte I

Fra tutti gli studi su questi fattori uno dei più indagati è stato sicuramente il rapporto fra stato emotivo, umore e creatività: dal momento che le emozioni sono noti intermediari tra la personalità e la performance, possono essere anche predittori di creatività? E tutti gli stati emotivi favoriscono la creatività nello stesso modo? Data l’ingente quantità di lavori sul tema una meta-analisi ha recentemente combinato i risultati di 102 articoli scientifici che hanno indagato la relazione fra creatività ed emozioni (Baas, M., De Dreu, C. K. W., Nijstad B. A., , 2008).

Quando si parla di emozioni la prima cosa che si nota è la loro valenza edonica o tono affettivo. Infatti alcune emozioni, come gioia, entusiasmo e tranquillità, hanno un tono positivo, mentre altre, come rabbia, ansia, tristezza, hanno un tono negativo. Attraverso evidenze neuropsicologiche si è scoperto inoltre che lo stato emotivo può essere attivante (ad alto arousal) o de-attivante (a basso arousal) (Posner, J., Russell, J. A., & Peterson, B. S., 2005). Combinando le due classificazioni si avranno stati emotivi positivi a basso arousal, come calma e tranquillità, e ad alto arousal, come felicità e euforia, così come stati emotivi negativi a basso arousal, come tristezza e depressione, e ad alto arousal, come rabbia e paura. La questione però si complica ulteriormente.

I risultati della meta-analisi hanno permesso di comprendere che il legame fra creatività e stato emotivo è molto più complesso di quanto sembrasse in partenza poiché sembra essere regolato dall’interazione fra valenza edonica, attivazione emotiva e motivazione. Dall’analisi di queste complesse interazioni emerge che in generale gli stati emotivi positivi sono la fonte migliore per la creatività rispetto a quelli negativi. Tuttavia non bisogna dimenticare il ruolo che il livello di attivazione o arousal ha in questa equazione: se si introduce questa variabile, infatti, si scopre che solo gli stati positivi attivanti sono veramente in grado di favorire la creatività. Quindi solo emozioni come la felicità possono favorire la flessibilità e la velocità di processamento cognitivo, che a loro volta favoriscono alti livelli di creatività e originalità. Come abbiamo detto ulteriori mediatori sono gli stati emotivi in grado di promuovere la motivazione. E le emozioni negative? Dalla ricerca è emerso che le emozioni negative a basso arousal non sono correlate con un aumento della creatività e addirittura quelle negative ad alto arousal sono negativamente correlate con essa soprattutto perché riducono drasticamente la flessibilità cognitiva impedendo così di trovare nuove soluzioni.

Quindi ricapitolando: se siete in cerca di un’idea geniale non dovete far altro che mettervi in uno stato emotivo positivo, ma che sia anche attivante (attenzione però, non troppo attivante!) e che sostenga e stimoli la motivazione ad agire. Facile no? Forse la prima fase della genialità sta proprio nel riuscire a entrare in questa chimera emotiva. Non trovate?

 

 

BIBLIOGRAFIA: 

  • Albert Einstein, (1999) “Il mondo come lo vedo io”, Secaucus, The Citadel Press, New Jersey.
  • Guilford, J. P. (1950). Creativity. American Psychologist, 5, 444 – 454.
  • Baas, M., De Dreu, C. K. W., Nijstad B. A., (2008). A Meta-Analysis of 25 Years of Mood–Creativity Research: Hedonic Tone, Activation, or Regulatory Focus?. Psychological Bulletin, Vol. 134, No. 6, 779 – 806
  • Posner, J., Russell, J. A., & Peterson, B. S., (2005). The circumplex model of affect: An integrative approach to affective neuroscience, cognitive development, and psychopathology. Development and Psychopathology,17, 715–73

Disturbi di personalità, neurobiologia e processi epigenetici

– Rassegna Stampa – 

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze PsicologicheI risultati dello studio di un gruppo di neuroscienziati della Cornell University si inseriscono all’interno del dibattito per la classificazione dei disturbi di personalità. Secondo i ricercatori l’attuale sistema di classificazione, basato su schemi tipici di pensiero e comportamento, è inadeguato a descrivere la realtà clinica del fenomeno; Una diagnosi dovrebbe definire un modello comportamentale coerente e permettere di prevedere il decorso della malattia, la prognosi e il trattamento più adeguato. Nessuna diagnosi di disturbo di personalità può farlo, sostiene Richard Depue.

La personalità umana si compone di circa sei tratti fondamentali, ciascuno con un correlato neurobiologico, capace di influenzare comportamenti come ansia o impulsività. La varietà dei comportamenti associati ai disturbi di personalità deriva dall’influenza di fattori genetici e ambientali sul funzionamento neurobiologico individuale. I processi epigenetici infatti possono ridurre o aumentare il rischio di sviluppare disturbi di personalità.

Nel modello multidimensionale proposto da Depue, i tratti della personalità possono essere tracciati in uno spazio tridimensionale dove gli assi rappresentano i sistemi neuro-comportamentali sottostanti. I modelli di comportamento associati ai disturbi di personalità emergono dall’interazione di valori di tratto estremamente alti, bassi o normali: ai valori più estremi corrispondono le modalità di interazione più disfunzionali. Legando i tratti della personalità alla neurobiologia sottostante, il modello di Depue permetterebbe di comprendere come e perchè si è sviluppato un disturbo della personalità e come è possibile intervenire sia dal punto di vista farmacologico che ambientale; addirittura sarebbe possibile progettare trattamenti che modificano più variabili neurobiologiche, piuttosto che una sola.

 

 

BIBLIOGRAFIA: 

  • Depue, R (2011). The Neurobiology of personality: Implications for conceptualizing personality disorders as dimensional, multifactorial phenomena. International Review of Psychiatry 23: 258–281. (Special Issue on Personality and Personality Disorders. Guest Editor: Gerald Nestadt).

Arteterapia: teoria e prassi di un nuovo approccio psicoterapeutico integrato – parte II

 

Roberto Pasanisi

Accademia di Belle Arti “Fidia”; CISAT, Centro Italiano Studi Arte-Terapia

 

Parte II: Prassi dell’Arteterapia

Arteterapia: teoria e prassi di un nuovo approccio psicoterapeutico integrato – parte II . - Immagine: Arteterapia: teoria e prassi di un nuovo approccio psicoterapeutico integrato – parte II Nella prassi dell’arteterapia (ART) si alternano a ‘sedute monotematiche’ ‘sedute a tema libero’: nelle prime il ‘soggetto tematico’ viene proposto dal terapeuta, con l’approvazione del gruppo; nelle sedute a tema libero il ‘soggetto’ è scelto liberamente dai componenti del gruppo. All’interno di ogni seduta vengono distinte tre fasi: la prima è quella ‘creativa’, in cui i componenti del gruppo devono creare l’opera nella massima libertà; la seconda fase è ‘interpretativa’, in cui il gruppo interpreta le opere creative dei singoli componenti del gruppo con la supervisione del terapeuta ed, eventualmente, del coterapeuta; la terza fase è quella ‘analitica’, in cui si analizzano le dinamiche che si innescano all’interno del gruppo attenendosi ai criterî della psicoterapia analitica di gruppo e delle psicoterapie esperienziali (la Gestalt e lo Psicodramma segnatamente).

Le ‘tecniche fondamentali’ in Arteterapia sono tre:

1. Psicodramma Creativo (PC)

2. Poiesi-Terapia (PT)

3. Icono-Terapia (IT)

Arteterapia: teoria e prassi di un nuovo approccio psicoterapeutico integrato – parte I - Immagine: © oscurecido - Fotolia.com
Articolo consigliato: Arteterapia: teoria e prassi di un nuovo approccio psicoterapeutico integrato – parte I

L’Arteterapia si divide dunque, innanzi tutto, in Pòiesi-Terapia ed Ìcono-Terapia: la prima si svolge in due fasi, una ‘attiva’ ed una ‘ricettiva’, entrambe concluse dalla fase ‘rielaborativa’. In quella attiva, al paziente viene proposto, mediante opportune tecniche, di elaborare dei testi poetici o narrativi; in quella ricettiva, al paziente si chiede di esprimere i ‘vissuti’ rispetto a testi d’autore proposti; nella fase ‘rielaborativa’, si elaborano, con tecniche analitiche ed esperienziali, i vissuti emersi.

Anche l’Icono-Terapia si sviluppa in due momenti: nella ‘fase attiva’, viene chiesto al paziente di produrre un’immagine, avvalendosi di tecniche ad hoc: egli elaborerà, in primis, un disegno, che potrà essere in bianco e nero od a colori; ma potrà avvalersi anche di altre tecniche, a cominciare dalla fotografia. Nella fase ‘ricettiva’, il terapeuta proporrà un’immagine d’autore — tipicamente un quadro, ma anche una scultura od una fotografia —, chiedendo poi al paziente di esprimere i vissuti rispetto a quella immagine.

Lo Psicodramma
Articolo consigliato: Lo Psicodramma

Lo Psicodramma Creativo (PC) è una forma di ‘psicodrammatizzazione strutturata’ precipua dell’Arteterapia: a differenza dello ‘psicodramma classico’ infatti, esso non è volto, freudianamente, alla ‘ricostruzione archeologica’ del ‘passato’; esso è votato invece alla ‘costruzione del futuro’. Nel corso della seduta viene infatti messo in scena, drammatizzato ed esplorato il ‘mondo del desiderio’ e l’ ‘universo delle potenzialità’ del paziente; idest non ‘ciò che è stato’, ma ‘ciò che sarà’, ovvero ‘ciò che vuole e può essere’: sono dunque in questa maniera evidenti la creatività e la dinamicità di una tale prospettiva, tesa a realizzare la propria vita futura così come si progetta e realizza un’opera d’arte, nel contempo liberando a pieno la creatività e la libertà della persona non meno che, rankianamente (e quasi nietzscheianamente), le forze più volontaristiche dell’individuo. Il paziente così, piuttosto che ripiegarsi in se stesso e rimuginare circolarmente sul suo passato, acquisisce fiducia nelle proprie potenzialità e capacità e sperimenta un modo di vita diverso e più positivo di quello abituale, ma nello stesso tempo non di pura fuga nella fantasia, ma con una sua fattuale concretezza situazionale.

Il Laboratorio di scrittura e pittura, che si affianca ove necessario nella prassi terapeutica al Poiesi-Terapia ed alla Icono-Terapia, consiste nell’applicazione delle tecniche di scrittura, specialmente poetica, e di pittura come veicolo elettivo nei livelli dell’esperienza sensoriale, corporea, emotiva, immaginativa e cognitiva-verbale: in questo senso l’Arte-Terapia (ART) trova pure piena applicazione in tutti quei contesti nei quali la capacità di instaurare una buona relazione è di fondamentale importanza nella propria vita sociale e professionale.

Ic. L’approccio integrato ART – TA

L’Arteterapia si giova di un approccio integrato col Training Autogeno (TA) nella sua formulazione classica.

Il TA si svolge a tre livelli: il primo è quello ‘di base’, come semplice ‘tecnica di rilassamento’; il secondo è quello ‘superiore’ o ‘proposizionale’: esso si fonda sulle ‘formule proposizionali’, tese ad autosuggestionare a partire da problematiche individuate attraverso la discussione fra il terapeuta o ‘maestro’ ed il paziente o ‘praticante’: esso funziona a mo’ di autoipnosi; il terzo è quello ‘sublime’, che è di livello ‘analitico’: i materiali emersi durante il training e quelli sviluppati nel corso di un’analisi condotta in margine alle sedute autogene ma comunque secondo le metodologie classiche vengono analizzati e convertiti in una ‘formula proposizionale’ che non sia solo autosuggestiva, ma anche capace di interagire e influire su aspetti profondi (inconsci) della personalità.

 

 

BIBLIOGRAFIA:

  • Caterina Camporesi, Psicoanalisi, Creatività, Interpretazione, intervento al Convegno Psiche e Scrittura, a cura dell’associazione culturale “Sguardo e Sogno” e del Comune di Firenze, Firenze, 14/II/1998
  • Jeanine Chasseguet-Smirgel, Creatività e perversione, Milano, Raffaello Cortina Editore, 1987
  • Jeanine Chasseguet-Smirgel, Per una psicoanalisi dell’arte e della creatività, Milano, Raffaello Cortina Editore, 1989
  • Max Lüscher, La terapia di alleggerimento, in “Babele”, II, 7, 1997, pp. 9-10
  • Flavio Manieri, Psicoanalisi e arte, Introduzione a S. Freud, Psicoanalisi del genio, Roma, Newton Compton Editori, 1977
  • Marco Manzoni (a cura di), Creazione e mal-essere, Milano, Guerini e Associati, 1989
  • Joyce McDougall, Eros. Le deviazioni del desiderio, Milano, Raffaello Cortina Editore, 1997
  • Marc Muret, Arte-terapia, Como, RED Edizioni, 1991
  • Roberto Pasanisi, Recensione a Ivan Fónagy, La ripetizione creativa. Ridondanze espressive nell’opera poetica, Dedalo, Bari, 1982, in “Annali dell’Istituto Universitario Orientale” Sezione Romanza, XXVIII, 1, 1986, pp. 407-410
  • Roberto Pasanisi, La forma della bellezza. Intorno alla genesi della lirica moderna: uno studio psicoanalitico, in “Gradiva” (New York, U.S.A.), VI, 2, 1996, pp. 97-105
  • Roberto Pasanisi, Arteterapia e Training autogeno: un approccio psicoterapeutico integrato, in “SIPE (Societé Internationale di Psychopathologie de l’Expression) Newsletter” (Paris, France), 21, 2000, p. 4
  • Roberto Pasanisi, Training in Artherapy with Autogenic Training, in “International Networking Group of Art Therapists” (Los Angeles, USA), XIII, 1, 2000, p. 14
  • Roberto Pasanisi, Recensione a Marco Manzoni (a cura di), Creazione e mal-essere, Milano, Guerini e Associati, 1989, in “Psiconline” (www.psiconline.it), 7/X/2000, www.psiconline.it/comunicati_stampa/libreria.htm
  • Roberto Pasanisi, Le «muse bendate»: la poesia del Novecento contro la modernità, Pisa – Roma, Istituti Editoriali e Poligrafici Internazionali, 2000 (Prefazione di Constantin Frosin; Postfazione di Carmine Di Biase)
  • Roberto Pasanisi, Una nuova scuola psicoterapeutica in Italia: l’Arteterapia, in “Ecomind” (www.ecomind.it), 7/X/2000, www.ecomind.it/Sezioni/Articoli/Articoli.html
  • Roberto Pasanisi, O noua scoala psihoterapeutica in Italia: Arte-Terapia [Una nuova scuola psicoterapeutica in Italia: l’Arteterapia], in “Akademia” (revista de cultura), Galati (Romania), II, 7-8, 2001, p. 37 (traduzione in Rumeno di Constantin Frosin)
  • Roberto Pasanisi, Una nuova scuola psicoterapeutica in Italia: l’Arteterapia, in “Psychomedia” (www.psychomedia.it), 12/VII/2001, www.psychomedia.it/pm/arther/art-ther/scuola.htm
  • Roberto Pasanisi, L’Arteterapia in Italia, in “Attiva Mente” (www.attivamente.net), agosto 2001, www.attivamente.nett/Am-Relazioni.htm#P1199_162768
  • Robin Philipp, Metred Healthcare, in “Poetry Review”, 85, 1, 1995, pp. 58-59
  • Robin Philipp, The links between poetry and healing, in “The Therapist”,, III, 4, 1996, p. 15
  • Robin Philipp, Poetry helps healing, in “The Lancet”, 347, 1996, pp. 332-333
  • Robin Philipp, Evaluating the Effectiveness of the Arts in Healthcare, in Charles Kaye – Tony Blee (a cura di), The Arts in Health Care. A Palette of Possibilities, London and Bristol (Pennsylvania), Jessica Kingsley Publishers, 1997, pp. 250-261
  • Platone, Politeía, 376e-417b (Platonis Opera, recognovit brevique adnotatione critica instruxit Ioannes Burnet, tomus IV, Oxford, Oxford University Press, 197821)
  • Jean-Luc Sudres, L’Art-Thérapie: actualités d’un concept et d’une pratique,  www.centrostudiarteterapia.org/products.htm, 1/V/2001
  • Bianca Tosatti (a cura di), Figure dell’anima. Arte irregolare in Europa, Milano, Mazzotta, 1998
  • Diane Waller, Towards a European art therapy. Creating a profession, Buckingam – Philadelphia, Open University Press, 1998
  • Diane Waller – Jacky Mahony (a cura di), Treatment of Addiction. Current issues for arts therapies, London – New York, Routledge, 1999

 

SITOGRAFIA:

  • www.arttherapy.org (A.A.T.A., American Art Therapy Association)
  • www.atcb.org (A.T.C.B., Art Therapy Credentials Board)
  • www.centrostudiarteterapia.org (C.I.S.A.T., Centro Italiano Studî Arte-Terapia)
  • http://forums.behavior.net/forums/jnjbbs.cgi?config=artstherapy&uid=nC1M8.user
  • http://guide.supereva.it/scrittura_creativa/ (“Supereva” – guide)
  • www.iamaonline.org (I.A.M.A., International Arts-Medicine Association)
  • http://mageos.ifrance.com/art-therapy/art-therapy/sipe.htm (S.I.P.E., Societé Internationale de Psychopathologie de l’Expression et d’Arthérapie)
  • http://www.societyartshealthcare.org/ (Society for the Arts in Healthcare)
  • http://www.users.dircon.co.uk/~poets/ecarte.html (ECArTE)
  • http://www.u-a-f.org/sipe_gb.php/ (Universal Art Forum)

 

Liste di Discussione:

  • http://lists.centrostudiarteterapia.org/mailman/listinfo/cisat-arteterapia
  • www.centrostudiarteterapia.org (C.I.S.A.T., Centro Italiano Studî Arte-Terapia)

 

Riviste:

  • “American Art Therapy Association Newsletter” (Mundelein, Illinois, USA)
  • “Artherapy (Journal of the American Art Therapy Association)” (Mundelein, Illinois, USA)
  • “International Arts-Medicine Association Newsletter” (Bryn Mawr, Pennsylvania, USA)
  • “Newsletter de la SIPE (Societé Internationale di Psychopathologie de l’Expression)” (Pau, France)

 

Cambiare la Psichiatria Pubblica

 

Cambiare la Psichiatria Pubblica. - Immagine: © Andres Rodriguez - Fotolia.comQueste riflessioni nascono da motivazioni personali e generali. Tra quelle personali più o meno inconsapevoli troviamo:

  • Il tentativo di arginare il senso di inutilità e vecchiezza che attanaglia ogni pensionato.
  • Una recrudescenza del narcisismo mai del tutto sconfitto potenziato da uno stagionale innalzamento del tono dell’umore;
  • L’idea che oltre a lamentarsi della situazione che stiamo vivendo ognuno può dare un piccolo contributo al cambiamento nel campo in cui è esperto.
  • Altre del tutto inconsapevoli che come tali non conosco e sulle quali sarebbe troppo costoso indagare.

Più interessanti quelle generali riassumibili in tre grandi categorie:

  • L’insoddisfazione degli utenti.
  • L’insoddisfazione degli operatori che da quando ho memoria lamentano una carenza di risorse ed in particolare di personale.
  • La progressiva riduzione delle risorse a disposizione per la sanità in generale e la psichiatria in particolare.

Da queste due simmetriche insoddisfazioni ne ricavo l’impressione che operatori e utenti siano coinvolti in un rito collettivo e ripetitivo fatto di ambulatori, domiciliarità, ricoveri e attività riabilitativa che si automantiene, è ostile a qualsiasi valutazione di efficacia e cambiamento in nome della purezza del verbo della psichiatria territoriale che ha dato senso alla nostra giovinezza professionale.

Ora due premesse:

Il Disturbo Narcisistico di Personalità secondo la Teoria di Kernberg. - Immagine: © marcodeepsub - Fotolia.com
Articolo consigliato: Il Disturbo Narcisistico di Personalità secondo la Teoria di Kernberg

1. I manicomi nascono con l’intento filantropico di curare amorevolmente gli alienati distinguendoli da altre categorie di emarginati e progressivamente diventano ciò che abbiamo conosciuto. Ad essi segue la rivoluzione kunhiana del paradigma che da ospedale centrico diventa territoriale con una forte ideologizzazione degli operatori impegnati nella liberazione degli utenti. Progressivamente anche i DSM divengono istituzioni totali che gestiscono completamente l’esistenza e i bisogni dei pazienti e sempre più attenti alle esigenze degli operatori piuttosto che degli utenti. Ho l’impressione che la maggior parte delle procedure consolidate dei DSM mantengano sé stesse e si siano progressivamente modellate sulle necessità dei lavoratori della salute mentale. Del resto spesso le istituzioni nascono su un movimento dello spirito e poi si ingessano in pesanti e oppressive strutture. La chiesa muove i primi passi leggera sulle rive del lago di Tiberiade e poi produce il vaticano e l’inquisizione. Ancor prima lo spirito della Thorà produsse le ferree regole del libro dei numeri. La rivoluzione di ottobre partorì i gulag. Mani pulite, Berlusconi.

2. La seconda premessa riguarda l’atteggiamento con cui leggere queste righe. Già a me nello scrivere venivano in mente mille obiezioni di casi concreti cui ciò che propongo è inapplicabile e spingerebbero a gettare tutto nel cestino e rifugiarsi nel già conosciuto e sperimentato che torna in mente come unica via praticabile con qualche aggiustamento. Immagino capiti ancor di più a voi ancora attivi nei DSM. Vi chiedo di accantonarle un istante. In verità una nuova prospettiva ha bisogno di crescere prima di essere sottoposta alla scure severa del falsificazionismo altrimenti si rischia una strage degli innocenti. Invito dunque il lettore a cogliere il senso generale della proposta e l’essenza del cambio di paradigma che propone rimandando a dopo le obiezioni che dovranno necessariamente generare degli aggiustamenti per renderla applicabile concretamente.

Tre sono i cardini su cui si fonda la proposta:

1. la centralità e l’assoluto protagonismo del paziente, ora cliente, che va inteso come colui che soffre (il malato e i suoi familiari) nella determinazione della propria cura e nell’investimento delle risorse a lui destinate.

2. La libera concorrenza tra gli erogatori delle cure che mira a migliorare la qualità e a ridurre i costi

3. Il ruolo del pubblico rivolto a stabilire degli standard irrinunciabili, a certificare l’idoneità e la qualità degli erogatori, a verificare la qualità delle prestazioni erogate.

Provo ora a descrivere sinteticamente il processo di cura:

  • Il paziente riceve una diagnosi multi assiale (psichiatrica, neuropsicologica, sociale) in un centro regionale di alta specializzazione (o negli SPDC, per valorizzare la “D” della sigla) dove, in base alla diagnosi gli viene assegnato un certo DRG vale a dire un budget di spese annue da investire per la sua cura e la riabilitazione.
  • Ricevuta l’assegnazione del budget la prima cosa che deve fare il cliente è la scelta dei case manager in un elenco regionale. I case manager in genere sono due per condividere le responsabilità e per una visione più complessiva. Il case manager deve avere una conoscenza approfondita della patologia in questione (sono dunque da immaginare case manager specializzati per aree problematiche) e dell’offerta terapeutica presente sul territorio regionale e nazionale.
  • A questo punto si costituisce il nucleo paziente – esperti – familiari (PEF) che rappresenta il cliente degli erogatori dei servizi. Il PEF predispone un piano biennale di interventi che viene sottoposto alla valutazione in termini di appropriatezza clinica e di costi da parte di una commissione regionale che ha anche lo scopo di favorire la circolazione delle idee e i progetti più innovativi. Tuttavia la decisionalità sulla spesa resta al PEF in quanto il titolare del budget è il paziente stesso.
  • Il PEF cliente acquista e usufruisce dei servizi dagli erogatori

Gli erogatori di servizi acquistabili con il budget assegnato non si limitano a quelli sanitari (anzi con il procedere della cura e della riabilitazione dovrebbero esserlo sempre meno) e sono dunque potenzialmente infiniti. A solo titolo di esempio ne elenco alcuni:

  • Erogatori di visite psichiatriche (psichiatri convenzionati con la ASL).
  • Erogatori di psicoterapie (psicoterapeuti convenzionati con la ASL).
  • Erogatori di assistenza domiciliare.
  • Erogatori di attività risocializzanti.
  • Erogatori di attività riabilitative.
  • Erogatori di periodi di ricovero.
  • Erogatori di sostegno all’housing.
  • Erogatori di formazione lavorativa.

 Al SSN resta affidato per legge il servizio di emergenza che non discostandosi dalle altre specialità mediche fa riferimento alla guardia medica ed al 118, integrato con competenze psichiatriche, e i SPDC ospedalieri.

E’ chiaro che una idea del genere non può riguardare un solo DSM ma l’intera assistenza psichiatrica nazionale

Un grazie personale a chi è arrivato in fondo.

Tipi di coppie #2 – Combattenti cronici, Ambivalenti e Fratellini.

La scorsa settimana abbiamo parlato delle 3 dimensioni fondamentali per considerare le varie configurazioni che una coppia può incarnare e si è parlato del tipo di coppia definito “i simbiotici”. Andiamo ora a introdurre altri tre tipi di coppie: I “Combattenti cronici”, gli “Ambivalenti” e i “Fratellini”.  

Tipi di coppie #2 - Combattenti Cronici, Ambivalenti e Fratellini. - Immagine: © 2012 Costanza Prinetti

I combattenti cronici. 

in questo tipo di coppie ritroviamo la stessa difficoltà a vivere la separatezza della categoria precedente, ma con la contemporanea impossibilità di riconoscere e ammettere il bisogno di vicinanza e di intesa. Questo paradosso relazionale è sostenuto grazie al perenne agonismo e all’incessante competizione tra i partner: la comunicazione e le transazioni nella coppia seguono le regole di un’escalation simmetrica, che generalmente si interrompe con un appassionato rapporto sessuale. È come se per queste coppie lo scontro avesse una funzione di preliminare erotico e quindi una finalità conservativa, e non distruttiva, per il legame.

Tipi di coppie #1 - I Simbiotici (o gemelli paradisiaci di Jackson) - Immagine: © kanate - Fotolia.com
Articolo consigliato: Tipi di coppie #1 - I Simbiotici (o gemelli paradisiaci di Jackson)

La prima regola del gioco è quella del rifiuto, rifiuto di farsi aiutare e accudire e ovviamente rifiuto alle richieste del partner. La seconda è di respingere ogni tentativo di avvicinamento, fino allo scattare del meccanismo autoregolativo, che avverte la coppia che continuare nell’escalation potrebbe portare alla rottura della relazione; in alcune coppie tuttavia questo meccanismo protettivo è troppo debole e si corre il rischio di arrivare al danno personale. Generalmente questa modalità relazionale è appresa già all’interno delle rispettive famiglie di origine, dove le relazioni si consolidano in un atmosfera competitiva e carica di aggressività, in cui l’indissolubilità del legame si esprime con una continua squalifica e disconferma reciproca.

I ruoli sono del tutto simmetrici, non ci sono né vittime né carnefici, l’area dello scambio è molto sviluppata anche se un vero scambio è precluso dall’impossibilità a raggiungere un accordo; le finalità comunicative infatti sono mirate a mettere in luce gli sbagli e i limiti del partner e a rifiutare e svalutare i suoi bisogni e le sue richieste, e non a una ricerca di accordo e comprensione delle posizioni altrui. Con le parole di Mara Selvini Palazzoli (1975) potremmo dire che è una guerra nella quale ciascuno tenta di imporre la sua definizione della relazione squalificando quella dell’altro.

Jackson (1968) li definirebbe “combattenti perditempo” e aggiunge una variante underground dei combattenti, quella degli “sfuggenti psicosomatici” (molto simile alla tipologia degli “ambivalenti”, che segue): sono coppie che non riuscendo ad esprimere apertamente la collera, spesso sviluppano sintomi psicosomatici legati allo stress, o in alternativa, presentano disfunzioni sessuali e problemi collegati al bere.

 

Gli Ambivalenti.

Questo tipo di coppie è composto da persone che non tollerano la componente conflittuale normalmente insita in ogni legame e per questo si sentono molto a disagio quando si trovano a fare i conti con la propria e altrui ambivalenza. Il meccanismo di auto-protezione utilizzato è l’occultamento e la minimizzazione dei sentimenti: queste coppie faticano a esprimere e verbalizzare le emozioni, per una forma di ritegno timoroso verso gli aspetti emotivi del proprio mondo interno e soprattutto per paura di affetti aggressivi, come la rabbia, il rancore o la delusione. La conseguenza è un incessante lavorio per abbassare la temperatura emotiva interna, così che i disaccordi e le delusioni rimangano sistematicamente inespressi, accumulandosi. Un’altra conseguenza è la presenza di disturbi della sfera sessuale, nel senso che il tentativo prolungato di rimuovere sentimenti di collera e di delusione porta a una progressiva diminuzione del desiderio erotico e alla sensazione che il sesso sia un peso e un obbligo.

La difesa utilizzata difronte alle emozioni negative è la razionalizzazione, che viene usata per formulare spiegazioni “ragionevoli” quando qualcosa non và: la conflittualità è banalizzata e il disagio emotivo è spiegato come una reazione a problemi di ordine pratico e concreto. In alternativa viene messo in atto uno “sciopero della comunicazione” (musi, rispondere a monosillabi, aumento della distanza fisica) fino a che le ferite si rimarginano naturalmente o le esigenze riparatorie (il bisogno di sentirsi buoni rispetto al rancore provato) hanno il sopravvento e l’“armonia” torna.

 

I Fratellini.

La coppia imprigionata. - Immagine: © michaltutko - Fotolia.com -
Articolo consigliato: La coppia imprigionata

Questo tipo di definizione ha lo scopo di sottolineare una distorsione di fondo dei ruoli all’interno della coppia, infatti, questo tipo di organizzazione mina le basi stesse della struttura coniugale. La coppia è affiatata, parole e gesti esprimono un attaccamento reciproco e i momenti difficili di conflittualità sono superati con una certa leggerezza che allontana la minaccia della separazione. La comunicazione è fluida, e gratificante e lo scambio è, a seconda dei casi, collaborativo o competitivo. Ciò che li differenzia dai Simbiotici, ai quali apparentemente assomigliano, è il fatto di avere un livello di autonomia individuale maggiore, dimostrandosi comunque in grado di condividere tempi e spazi con dedizione reciproca.

La distorsione dei ruoli di coppia si evidenzia nella tendenza al tradimento, cioé nello scarso impegno sul versante sessuale/sentimentale: queste coppie riescono ad evadere la clausola dell’impegno di fedeltà in virtù della mancata o incompleta assunzione del ruolo come membro di una “coppia”; il tradimento non è tanto avvallato dal punto di vista ideologico, quanto effettuato e reiterato senza troppi drammi, ripensamenti o sensi di colpa. La tenuta del rapporto non è una delle migliori.

Una variante della tipologia Fratellini è quella dei “fratellini abbandonici”: entrambi i partner hanno vissuto nella propria storia personale delle vicende di trascuratezza e abbandono vero e proprio, quindi le spinte che conducono al legame sono di tipo compensatorio e riparativo nei confronti di una sofferenza vissuta nel rapporto con le figure significative dell’infanzia. Come nel caso dei simbiotici, i fratellini abbandonici si stringono l’un l’altro in cerca di protezione e rassicurazione ma a differenza di questi tendono a organizzare il loro legame in modo più indipendente e conflittuale: il tradimento in questo caso genera più disagio in quanto è percepito come una minaccia all’equilibrio vitale individuale.

La prossima settimana: le coppie complementari.

 

 

BIBLIOGRAFIA:  

  • Berrini R, Cambiaso G, (2001) “Illusioni di coppia. Sto con te perché posso stare senza di te”, Franco Angeli, Milano
  • Selvini Palazzoli, M., Boscolo, L., Cecchin, G., Prata, G. (1975). Paradosso e controparadosso. Un nuovo modello nella terapia della famiglia a transazione schizofrenica. Milano: Feltrinelli.
  • Jackson, D. (1968). Mirages of Marriage. NY: W.W. Norton & Co.

Mangia la cipolla che ti passa

 

Mangia la cipolla che ti passa! - Immagine: © caprasilana - Fotolia.com Oggi parleremo di Allium cepa, pianta bulbosa appartenete alla famiglia delle Alliaceae. Come, non sapete di cosa si tratta? Si sta parlando della cipolla! Insaporisce i nostri piatti e provoca eccessiva lacrimazione alla casalinga che si appresta a soddisfare tutte le esigenze, soprattutto di chi ama l’aroma, ma disprezza l’alitosi che ne consegue. Eppure, questo ortaggio, quello rosso in particolare, la cipolla di Tropea, contiene una sostanza con riconosciute proprietà disintossicanti, anti-infiammatorie e anti-tumorali: la quercetina.

Perfino il cervello trae benefici dalla cipolla. Infatti, sembra funga da antidepressivo, ipotesi confermata da uno studio giapponese pubblicato sulla rivista scientifica internazionale, Bioscience Biotechnology and Biochemistry.

Psilocibina e funghi allucinogeni: bad trip? Good trip! - Immagine: © 2012 Costanza Prinetti
Articolo consigliato: Psilocibina e funghi allucinogeni: bad trip? Good trip!

Sakakibara e colleghi del Dipartimento di Scienze dell’Alimentazione dell’Università di Tokushima, hanno valutato quali siano gli effetti esercitati della polvere di cipolla, ottenuta dalla disidratazione dell’ortaggio, in un modello sperimentale sulla depressione chiamato Test di Nuoto Forzato (Forced Swim Test, FST; Porsolt et al., 1977), che consiste nel verificare la reazione avuta da un topo posto in un cilindro trasparente contenente acqua alla temperatura di 25° C. Il giorno successivo alla prima immersione il topo potrebbe reagire secondo due modalità: nuotando o muovendosi solo lo stretto necessario per tenere la testa fuori dall’acqua, comportamento considerato tipico del depresso. Nel secondo caso il topo è come se si lasciasse sopravvivere galleggiando.

Per dimostrare l’effetto anti-depressivo della quercetina, i topi sono stati suddivisi in gruppi, ciascuno dei quali era sottoposto a un trattamento diverso: farmaco antidepressivo, polvere di cipolla e placebo. Ripetendo il trattamento di FST si è osservato che il gruppo trattato con la polvere di cipolla aveva prestazione simili a quelle degli animali trattati con il farmaco antidepressivo.

Sono state osservate, dunque, dei miglioramenti nel comportamento e non nelle capacità di movimento, che controllate attraverso un altro test sono risultate identiche tra i gruppi. Quindi, il trattamento con la quercetina aumenta la quantità di dopamina e di serotonina presente nell’ipotalamo, area che controlla diverse funzioni cognitive: i riflessi, il ritmo sonno-veglia, il bilancio idrosalino, il mantenimento della temperatura corporea, l’appetito e l’espressione degli stati emotivi. La quercetina, in sostanza, prolunga il tempo di trasmissione nervosa della serotonina e della dopamina rallentandone l’eliminazione. Nella persona depressa, invece, il loro metabolismo è più veloce, e la comunicazione tra le cellule è minore rispetto al normale, avendo come conseguenza la comparsa della sintomatologia depressiva.

Sapere di poter utilizzare dei cibi aventi effetti positivi sull’umore potrebbe essere l’alternativa naturale alla farmacologia chimica di sintesi. Inoltre, è possibile utilizzare la cipolla anche a scopo preventivo per la genesi di questo disturbo, di cui tanto si parla e che attanaglia la società contemporanea.

Quindi, il riso abbonda sulle bocche di chi mangia cipolla. Meglio l’alitosi e un sorriso in più, piuttosto che una bella bocca e tanta tanta tristezza.

 

 

BIBLIOGRAFIA: 

  • Porsolt RD, Bertin A, Jalfre M (1977) Behavioral despair in mice: a primary screening test for antidepressants. Arch Int Pharmacodyn Ther 229:327-336.
  • Sakakibara, H., Yoshino, S., Kawai, Y., Terao, J. (2008). Antidepressant-like effect of onion (Allium cepa L.) powder in a rat behavioral model of depression. Biosci Biotechnol Biochem. 72, 94-100.

Stress lavorativo e supporto nella coppia

– Rassegna Stampa – 

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze PsicologicheIl numero di coppie in cui entrambi i partner lavorano è costantemente in aumento e questo può avere importanti ripercussioni sulla “tenuta” della coppia. Una vita lavorativa intensa può essere molto stressante e questo incide negativamente sulle possibilità di supporto reciproco all’interno della coppia, che va più facilmente incontro a divorzio e a fallimenti nella carriera lavorativa.

A sostenerlo è Wayne Hochwarter del Florida State University College of Business, che ha studiato il ruolo del sostegno tra coniugi quando entrambi riportano un alto livello di stress durante la giornata. Lo studio in questione, che ha coinvolto più di 400 coppie, ha messo a confronto coppie lavoratrici con un alto livello di stress e un buon supporto interpersonale e coppie con un alto livello di stress ma con un supporto reciproco insoddisfacente.

I risultati indicano che il numero di persone che tornano al posto di lavoro ancora più stressate del giorno precedente a causa di uno scarso supporto familiare è una percentuale rilevante dell’intero campione, e questo ha ovvie ripercussioni sulla qualità della giornata lavorativa, che può solo peggiorare, sostiene il prof. Hochwarter. Se alcune strategie attuate allo scopo di sostenere il coniuge sotto pressione si rivelano controproducenti, altre si sono dimostrate particolarmente utili, per esempio: avere coscienza delle pressioni lavorative quotidiane del proprio coniuge, non recriminare o tenere a distanza il partner, non competere per chi ha avuto la peggior giornata, non interrompere la comunicazione e aiutare il partner a ritrovare la calma se è particolarmente agitato o giù di corda, non contabilizzare il sostegno dato e ricevuto.

Uomini e donne inoltre sembrano differire per il tipo di supporto necessario a ridurre lo stress: in generale, le donne apprezzano particolarmente un aiuto nelle attività domestiche, il sentirsi volute, le manifestazioni di calore e affetto; gli uomini invece apprezzano particolarmente un aiuto se devono sbrigare commissioni e il sentirsi apprezzati e richiesti; entrambi hanno apprezzato l’aiuto del coniuge nel riuscire a ritagliare tempo lontano dai problemi lavorativi e per stare a casa a riposare e ricaricare le batterie.

 

 

BIBLIOGRAFIA: 

Quando la relazione terapeutica non cura: i Cicli Interpersonali

 

Quando la relazione terapeutica non cura: i Cicli Interpersonali. - Immagine: © Betacam-SP - Fotolia.com - Mi ricordo molto bene uno dei primissimi pazienti che ho avuto in privato. Venne per una sintomatologia depressiva e si mostrò da subito molto disponibile venendo incontro ai miei orari, senza esprimere alcuna preferenza o disappunto in caso di un mio ritardo. Le sensazioni che provavo prima di ogni visita erano di tranquillità e di piacevolezza, sensazioni molto diverse da quelle che provavo verso gli altri pazienti. Le prime visite passarono con l’aspettativa di una terapia semplice oltre che con la percezione di una ottima relazione terapeutica. Una volta dovendo spostare una visita per un impegno personale tra i 3 pazienti che avevo quel pomeriggio non ci misi più di qualche secondo a scegliere lei tra i pazienti da contattare, che ovviamente non fece una piega “ma si figuri dottore, senza alcun problema”. La terapia andò avanti per diversi mesi fino a che non ne parlai in supervisione a causa di uno stallo nel nostro percorso. All’inizio non avevo motivo di farlo visto che non percepivo alcun problema e anzi vivevo quella terapia come una prova di buona autoefficacia, che all’inizio della professione non guasta mai.

E’ stato grazie a questa esperienza che ho imparato a conoscere i cicli interpersonali, solo intuiti durante la formazione e sui libri, non perché fossero spiegati male ma semplicemente perché per capire come la relazione possa peggiorare un disturbo psicopatologico è necessario esserci dentro, sbatterci la testa, ed impararlo dalle reazioni che proprio quel determinato paziente, non altri, ti attiva.

Le psicoterapie che non funzionano: il punto di vista della ricerca empirica - Immagine: © Athanasia Nomikou - Fotolia.com
Articolo consigliato: Le psicoterapie che non funzionano: il punto di vista della ricerca empirica

Si ok ma cosa si intende per cicli interpersonali? Per Safran e Segal sono  “il modo in cui la relazione con l’altro attiva circuiti che rinforzano la patologia a causa dei segnali- in prevalenza non verbali, automatici ed emozionali- che i pazienti scambiano con i loro partner in interazione” (Safran e Segal; 1990). Di fatto sono strategie che il soggetto mette in atto per evitare di vivere stati per lui estremamente dolorosi ma che hanno il solo risultato di attivare nell’altro proprio i comportamenti temuti, che quindi confermeranno le credenze centrali. Questo vale per ogni relazione significativa e quindi assume particolare importanza in quella terapeutica dove il paziente altro non farà che costruire la relazione in base alle uniche modalità che conosce.

Tornando alla mia personale esperienza clinica, la paziente aveva uno schema di sé come persona non amabile e uno schema di sé con l’altro come criticata se avesse mostrato i proprio bisogni; a causa di questo schema interpersonale in cui sono presenti emozioni dolorose la paziente metteva in atto una strategia – “non mi espongo, vengo incontro all’altro” – che le garantiva di non attivare quei temi estremamente delicati. Nella nostra relazione successe però proprio questo: il suo accondiscendere con me, il mio sottolineare più le mie esigenze che le sue, di fatto confermava una credenza per lei centrale “i miei bisogni non hanno valore”.

Con disturbi nell’asse II, quando cioè vi sono presenti deficit metacognitivi, i cicli diventano elemento clinico di grande rilievo proprio per la difficoltà del paziente a riflettere sui propri, ed altrui, stati mentali. Può quindi accadere ad esempio che il paziente non si renda conto che la propria visione del mondo sia frutto dei propri schemi, dei propri personalissimi occhiali, ma la tratti come un dato di realtà.

Cosa possiamo fare quando siamo dentro un ciclo interpersonale?

Intanto dare importanza alle nostre reazioni emotive con quel determinato paziente. Questo vale in generale come regola per muoversi nella relazione con chi presenta aree relazionali problematiche . Una volta identificato cosa proviamo con il paziente potremmo chiederci se questo sia simile a ciò che prova il paziente o le persone che sono in relazione con lui. “L’obiettivo è di riuscire a collocarsi mentalmente in modo contrario alla tendenza spontanea che emerge dall’interazione con il paziente” (Dimaggio, Semerarai, 2007). Con la mia paziente questo ha voluto dire restituirgli la sua modalità di costruire le relazioni e mostrarle come lei, giustificata dal timore di poter vivere emozioni estremamente dolorose, portasse di fatto l’altro a comportarsi proprio come temeva. Dopo quel momento estremamente importante il nostro percorso fu focalizzato nella direzione di costruire una relazione terapeutica che potesse darle la possibilità di esprimere i propri bisogni, cercando quindi di disconfermare quella credenza centrale che di fatto giustificava l’entrata in cicli disfunzionali.

 

 

BIBLIOGRAFIA:

  • Safran, J. e Segal, V.Z. (1993) Il processo interpersonale nella terapia cognitiva, Feltrinelli
  • Dimaggio, G. e Semerari, A. (2007) I disturbi di personalità. Modelli e trattamento, Laterza 

Terapia Cognitiva dei Disturbi Alimentari basata sul controllo: trial randomizzato

 

Il modello cognitivo normalmente utilizzato per la cura dei disturbi alimentari ritiene siano la bassa autostima e il perfezionismo patologico gli obiettivi più importanti del trattamento terapeutico. Lo scopo di questo trattamento è ridurre la paura diffusa di fallimento, e di diminuire l’autocritica che nasce dalla valutazione negativa di una propria prestazione (Fairburn, Cooper, & Shafran, 2003.

La Terapia Cognitiva basata sul Controllo nei Disturbi Alimentari (Sassaroli, Gallucci and Ruggiero, 2008) è una variante al trattamento standard. Tale approccio parte dal presupposto che la valutazione e il trattamento della credenza del controllo possano aumentare la comprensione della psicopatologia del DA e l’efficacia del trattamento cognitivo. Per trattare i dolorosi sentimenti di bassa autostima e staccare il paziente dal meccanismo del controllo, tale modello include non solo il riconoscimento e il trattamento razionale di errori cognitivi, ma anche la valutazione di sentimenti dolorosi come la bassa autostima nascosta dietro alla ricerca del controllo e della perfezione. Il protocollo clinico è caratterizzato dai seguenti step:

1) valutazione e riconoscimento del controllo come credenza cognitiva cosciente;

2) valutazione della relazione tra controllo dell’alimentazione, del peso, e del cibo e la percezione di un controllo generale esercitato nella vita;

3) modificare le attitudini del paziente su una percezione di insufficiente controllo e la compulsione di controllo assoluto.

Per tale motivo si è pensato di confrontare i due trattamenti terapeutici: la CBT-ED (Fairburn & Harrison, 2003) e la CFT-ED (Sassaroli et al. 2009), attraverso la realizzazione di un Trial Clinico controllato e randomizzato, per verificare l’efficacia dei due approcci.

Aspetti metodologici:
32 pazienti afferenti all’Ambulatorio per i Disturbi Alimentari dell’Ospedale San Paolo di Milano sono stati suddivisi in due gruppi, uno per ogni approccio terapeutico. Ad entrambi i gruppi è stata somministrata una batteria di test, (EDI-2, MPS, ACQ, RSES), al T0, cioè in fase di arruolamento, ad un tempo T1 prima dell’intervento psicoterapico e ad un tempo T2, dopo l’intervento terapico della durata di 12 sedute.

I dati sono stati analizzati attraverso la realizzazione di una serie di statistiche multivariate. Confrontando i risultati ottenuti dai due gruppi si rilevano differenze sostanziali a carico dei due diversi percorsi terapeutici. I pazienti mostrano dei miglioramenti diversi in base all’intervento terapeutico effettuato. Infatti, Confrontando i dati del gruppo sperimentale e il gruppo di controllo nel T1, emergono differenze significative per la variabile Controllo, dell’autostima e del perfezionismo, oltre che per i sintomi alimentari.

In Conclusione, concentrandosi sul controllo è possibile aggiungere un grado di benessere psicologico e un miglioramento clinico maggiore al paziente affetto da patologia alimentare. I limiti dello studio sono determinati dalla esigua portata del campione.

 

BIBLIOGRAFIA: 

Correlati neurali del craving nei dipendenti da cocaina: differenze di genere

– Rassegna Stampa – 

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze PsicologicheUn nuovo studio in pubblicazione su American Journal of Psychiatry identifica specifiche differenze di genere nell’attivazione dei circuiti neurali legati al craving in pazienti dipendenti da cocaina. I ricercatori hanno sottoposto a risonanza magnetica funzionale 30 individui dipendenti da cocaina (bilanciati per genere) e 36 soggetti di controllo, mostrando loro due tipologie di stimoli: da una parte script di situazioni che i partecipanti avevano precedentemente valutato come soggettivamente stressanti per sé, dall’altra stimoli (sempre sotto forma di script) direttamente connessi alla cocaina.

Dallo studio emerge che nelle donne cocainomani sarebbe lo stress (o meglio gli script trigger di una condizione di stress) a indurre l’attivazione significativa del circuito di aree cerebrali associate al craving, tra cui lo striato, l’insula e la corteccia cingolata anteriore e posteriore; diversamente, negli uomini dipendenti da cocaina l’attivazione di tali regioni cerebrali sarebbe stimolato dalla presenza di drug-cues, ovvero script che richiamano esplicitamente l’uso della sostanza. L’attivazione del circuito corticostriatale-limbico è inoltre positivamente correlata, in entrambi i gruppi, con le misurazioni individuali self-report del craving. Questi risultati portano a riflettere quindi sull’interazione tra genere e reattività a specifici stimoli inducenti il craving in pazienti con dipendenza da cocaina.

 

 

BIBLIOGRAFIA: 


La saggezza del rock’ n’ roll (Il mio Psicoterapeuta suona il rock – Parte 2)

 

Gaspare Palmieri.

It’s not time to make a change, just relax and take it easy.
Father and son, Cat Stevens, 1970

 

La saggezza del Rock' n' roll. - Immagine: © Isaxar - Fotolia.comEssendo questo un articolo scritto e non un concerto (ahimè) o un gruppo di ascolto, a questo punto possiamo parlare soprattutto di testi di canzoni ma sono sicuro che appena nominerò alcuni titoli, le note della canzone inizieranno a muoversi nella mente del lettore.

Ho accennato nell’articolo precedente alla canzone d’autore italiana, ma mi tocca iniziare da oltreoceano, dove, parlando di canzoni, di cose da raccontare ce ne sono parecchie.

Nel 2008 mi trovavo a un congresso della Society of Psychotherapy Research a Edimburgo e la mia attenzione è stata letteralmente rapita da un libro in esposizione dello psicologo americano Barry Farber (2007) dal titolo “Rock ‘n’ roll wisdom: what psychologically astute lyrics teach about life and love (sex, love, and psychology)” .

In questo libro l’eminente collega ha raccolto, con l’impeccabile sistematicità metodologica anglosassone, una serie di frasi sagge e che possono aiutare a imparare a vivere meglio, contenute in tante canzoni rock. E’ molto interessante e paradossale come la musica rock, che dalla sua nascita ha rappresentato la trasgressione e la ribellione nei confronti del “sistema”, possa invece essere un veicolo di concetti di saggezza. Scorrendo le pagine del libro, diviso proprio per tematiche (ricerca di un significato alla vita, amore, amicizia, depressione, difese psicologiche…), si trovano tante frasi tratte dalle canzoni, che potrebbero essere pronunciate dal paziente per raccontare la propria esperienza interna o dallo psicoterapeuta, per empatizzare con i vissuti del cliente o per fungere da “cassa di risonanza emotiva”. Vediamo qualche esempio.

When you’re down and troubled, and you need an helping hand…you have got a friend

Il mio Psicoterapeuta suona il Rock! - Immagine: © Isaxar - Fotolia.com -
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Tratta da “You got a friend” (1971) interpretata da James Taylor (ma scritta da Carole King), brano che sottolinea l’importanza dell’amicizia nei momenti di difficoltà. Mi fa venire in mente le storie di tanti pazienti affetti da gravi forme psicotiche, che a causa delle difficoltà di funzionamento e di socializzazione legate alla malattia (ma anche a causa dello stigma legato ai disturbi psichici), non possono contare quasi su nessuno e si trovino assolutamente isolati. Un recente studio australiano ha mostrato come il 45% dei pazienti psicotici non abbia un amico con cui condividere pensieri e stati d’animo (Harvey e Brophy, 2011). Problema analogo per i pazienti affetti da disturbi della personalità (es. borderline e narcisisti), in cui è proprio il problema di carattere che tende a distruggere e rendere spesso impossibili le relazioni più intime. L’importanza dell’amicizia come fattore protettivo sembra quasi scontata, ma per molti casi gravi non lo è affatto e una canzone che tocchi questa corda, facendola risuonare può essere utile.

I will go down with the ship

Questa frase tratta da “White Flag” (2003) di Dido è una metafora molto potente di come una persona può sentirsi alla fine di una relazione sentimentale, letteralmente affondando con la nave. In questa frase non c’è neanche un tentativo di diventare un naufrago, non c’è la forza o forse non c’è il tempo. Si affonda e basta. Mi immagino questo affondare lento, con atteggiamento passivo e con il silenzio attorno. Questo tipo di reazione di fronte a una separazione venne descritta tanto tempo fa da John Bowlby (1982), “padre” delle ricerche sull’attaccamento, in particolare in persone caratterizzate da attaccamento insicuro ambivalente, dove la sofferenza rispetto alla separazione è molto più intensa del normale.

“I will survive”

Ecco questo è l’atteggiamento opposto cantato da Gloria Gaynor nel 1978 nell’omonima canzone. Rappresenta una strategia di coping, è il corrispettivo dell’atteggiamento psicologico del noto proverbio “Morto un papa se ne fa un altro”. La sofferenza psichica per una rottura sentimentale può essere davvero devastante, soprattutto se la fragilità è forte. In questi casi anche Gloria Gaynor può venire in aiuto. Il nostro Bowlby (1982) avrebbe forse classificato questo atteggiamento come insicuro evitante, l’opposto del precedente, quello che caratterizza persone con una compulsiva fiducia in sé stessi, in cui il lutto per la perdita può manifestarsi anche dopo anni, magari con veri e propri crolli in condizione di stress completamente svincolate dall’evento di separazione.

“Hello darkness my old friend”

“The sound of silence” (1966) di Simon and Garfunkel esordisce con questa frase che sembra lo slogan della popolazione dei depressi, dei distimici, dei tristi e dei pessimisti cronici. Il cordiale saluto di benvenuto all’oscurità implica una certa dimestichezza con il mondo delle tenebre, che è definito come amico, come qualcosa di famigliare che la persona conosce e che sa che prima o poi tornerà a trovarlo. Si tratta del difficile processo di accettazione di stati d’animo problematici, sempre meno compatibili con i modelli positivi idealizzati della vita di oggi. Anche la modernissima Mindfullness Based Cognitive Therapy (Segal, Teasdale e Williams 2006), di ispirazione orientale, si pone come obiettivo l’imparare ad accogliere gli stati mentali dolorosi senza volerli combattere. Quindi, benvenuta tristezza!

“I don’t know who I am, but you know, life is for learning”

Arteterapia: teoria e prassi di un nuovo approccio psicoterapeutico integrato – parte I - Immagine: © oscurecido - Fotolia.com
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Questa frase tratta dalla canzone Woodstock (1969) di Joni Mitchell ha a che fare con il problema dell’identità e della sua costruzione attraverso l’apprendere dall’esperienza, talvolta dolorosa. E’ una frase piena di speranza che può toccare soprattutto i giovani, penso in particolare agli adolescenti, ma anche i meno giovani che si trovano in momenti di confusione e di crisi. E’ un invito a non cadere nell’ansia che può dare il disorientamento, che può rendere ancora più confusi e disorientati. L’ansia può rappresentare un ostacolo insormontabile allo sviluppo di una vita ricca di scelte fatte in libertà. Un altro brano che affronta una tematica analoga è  “I still haven’t found what I am looking for” (1987) degli U2.

“You can’t always get what you want, but if you try sometimes, you just might find, you get what you need”

Tratto dal brano del 1969 “You can’t always get what you want” dei Rolling Stones, che oltre a sottolineare l’importanza dell’esplorare le possibilità e di inseguire i propri sogni, introduce il tema dei limiti. La questione del limite e dell’onnipotenza è cruciale nei percorsi terapeutici con pazienti borderline e narcisisti.
Marsha Linhean, nella sua terapia dialettico comportamentale per il disturbo di personalità borderline (Linhean, 1993), definisce l’obiettivo di guidare il paziente verso una “mente saggia”, in grado di accettare le situazioni di frustrazione senza reagire con eccessi di emotività (in particolare rabbia). La frustrazione rappresenta per il paziente borderline il limite imposto dall’esterno, a cui reagisce con rabbia distruttiva.

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In questo caso il discorso assume una connotazione ancora più interessante in quanto la canzone è cantata dai Rolling Stone, che hanno fatto, almeno per un certo periodo (lungo), della vita di eccessi la propria bandiera. In questo senso consiglio la lettura della biografia del chitarrista Keith Richards (Richards, 2011) che a tratti ricorda una lunga cartella clinica di un paziente tossicodipendente. Se quello che scrive è vero (credo sia d’obbligo porsi questa domanda quando si parla di rock ‘n’ roll) Keith si è disintossicato e ricaduto nell’eroina almeno sette volte! “Sono stato per dieci anni al numero uno della lista delle persone prossime a morire” racconta nel suo libro. Il fatto che la perla di saggezza venga regalata da persone che hanno conosciuto le tenebre credo che conferisca più autenticità e si spogli di quell’attitudine moralistica o paternalistica, che desta l’irritazione e la sospettosità in tanti pazienti “ribelli”, soprattutto i più giovani. Sottende il carattere narcisistico invece l’aspettativa idealistica che tutto debba avvenire come si desidera, con conseguenti gravissime frustrazioni depressive se questo non accade.

Uno dei compiti del terapeuta in questo caso è aiutare il paziente a capire che perseguire la grandiosità implica il rischio di disprezzarsi se si fallisce (Semerari e Dimaggio, 2003). Il titolo del brano di Mick Jagger e soci può avere anche una grande importanza educativa, in un momento storico in cui è difficilissimo che i giovani accettino dei “no” o in cui ci sia qualcuno che abbia ancora il coraggio di dirne dei “no” (citando un altro brano di Vasco Rossi). Ogni generazione ha infatti le sue canzoni e c’è chi le considera uno strumento efficace per ricucire il filo spezzato di un dialogo educativo tra giovani e adulti (Gigante, 2005).

 

 

BIBLIOGRAFIA: 

  • Bowlby J. Costruzione e rottura dei legami affettivi, Raffaello Cortina, 1982
  • Dimaggio G., Semerari A. I disturbi di personalità. Modelli e trattamento. Laterza, 2003
  • Farber B.A. (2007) “Rock ‘n’ roll wisdom: what psychologically astute lyrics teach about life and love (sex, love, and psychology)”, Praeger, London
  • Gigante L., Turi G. prestami orecchio. L’uso della canzone nel dialogo tra le generazioni. La meridiana, 2005
  • Harvey C., Brophy L. (2011). Social isolation in people with mental illness. Medicine Today,12, 10
  • Linhean M. Trattamento cognitivo comportamentale del disturbo borderline. Il modello dialettico. Raffaello Cortina, 1993
  • Richards K., Life, Feltrinelli, 2010
  • Segal Z.V, Williams J.M., Teasdale J.D. Mindfullness. Bollati Boringhieri, 2006  

Psicologia e Psicoterapia Cognitiva: i segreti della coscienza

 

Psicologia e Psicoterapia Cognitiva: i segreti della coscienza - Immagine: © mtkang - Fotolia.com -“Passavo ogni giorno davanti a quella porta socchiusa. E c’era ogni giorno quel terribile passo, tra tutti il più vicino alla soglia. Erano così inquiete le ombre che intravedevo a quella distanza che anche l’idea di porvi attenzione svegliava un profondo fastidio. Quel passo portava con sé la paura e bastava talvolta a torcere lo stomaco e scaldarmi la testa. Avrei potuto andare a vedere una volta per tutte, direste voi.
Non ricordavo cosa vi fosse rinchiuso, eppure non doveva esser così pericoloso come lo percepivo. Potevo scoprirlo. E invece mi occupai di licenziare quel passo, di renderlo più breve e stare lontano. Cercai di ignorare quella porta, di farmi sicuro oltre quanto non fossi. E più ero distante più la sicurezza acquisiva un velo di realtà, almeno ai miei occhi. Tanto si fece appresa quell’abitudine, che quasi dimenticai la porta e i suoi segreti, come se appartenesse a un mondo dimenticato. Essa restò lì, ferma, per anni, ma non cessò di esistere.
Finché un giorno mi ritrovai nuovamente appresso alla soglia. Fu quasi per caso o per sbadataggine, ma scoprii che la profonda paura di quel fanciullo era sempre lì, pronta ad attendermi tra le ombre, immutata. E tuttora esiste anche se ho almeno il coraggio di considerarla. Un coraggio però che basta a malapena per chiedermi: cosa temo di quella stanza e dei suoi segreti?”

 

Ci sono aspetti delle nostre reazioni emotive che non sono chiari alla coscienza. Questo è sempre stato un cruccio della psicologia cognitiva che si muoveva tra i modelli basati sull’inconscio e i modelli basati sul condizionamento. Quali spiegazioni alternative ha trovato?

Lostrano caso della coscienza. Immagine: © puckillustrations - Fotolia.com
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Partiamo dall’esempio descritto e immaginiamo che quella porta rappresenti il passaggio verso un ricordo doloroso. Potrebbe trattarsi di un episodio specifico (un trauma), ma anche di una condizione più generale (es: i ricordi di come ci si sentiva schiacciati dalle pesanti critiche dei genitori). Ricordi e temi di vita dolenti possono nascondersi oltre la porta e stimoli contestuali del tempo presente possono farli rivivere. È il caso per esempio di coloro i quali, innanzi a ogni presa in giro del collega di turno, rischiano di provare lo stesso senso di umiliazione di soprusi infantili ad opera dei bulli del quartiere. A questo punto la coscienza potrebbe trarre apparentemente un certo vantaggio dall’inibire l’accesso di questi ricordi a sé stessa.

Questa è l’idea chiave di Conway e collaboratori (2004), due ricercatori esperti nel campo della memoria autobiografica, e della loro Self-Memory System Theory (Conway & Pleydell-Pearce, 2000). Molto si è scritto riguardo alle strategie cognitive di controllo della minaccia che possono essere attivate dal sistema di controllo cosciente (es: ipermonitoraggio, attenzione selettiva, rimuginio e ruminazione, soppressione del pensiero ecc…). La Self-Memory System Theory spiega un altro genere di risposta, descrivendo il sistema di controllo esecutivo centrale non solo come attivatore di strategie cognitive ma anche come inibitore dell’accesso di informazioni autobiografiche nella coscienza, in quanto pericolose e dolorose.

 

Come fa la coscienza a inibire l’accesso a sé stessa di qualcosa che però è in grado di cogliere e di percepire come minaccia? Sembra un paradosso. A questo livello secondo gli autori entra in gioco il sistema associativo con cui leghiamo stimoli nella nostra memoria a lungo termine (o conoscenza autobiografica). I ricordi o gli stimoli che nella rete associativa si pongono in una posizione di vicinanza a questo tema dolente (il passo) vengono marchiati essi stessi come pericolosi e innescano una risposta di inibizione ed evitamento mentale. La vista della porta, il passo, le ombre divengono tutti segnali di pericolo, per cui non c’è bisogno di sapere cosa si nasconde oltre la soglia che nei fatti rimane oscuro. Basta tenersi lontano dalle vie di accesso a quel tema con credenze protettive (il cercare di farsi sicuro, banalmente un po’ raccontandosela) o con strategie di evitamento.

Le modalità di evitamento che conseguentemente si innescano possono avere diverse forme, tutte riducibili alle vecchie reazioni di attacco e di fuga. L’individuo può rispondere alla paura con rabbia contro lo stimolo che rischia di attivare il tema dolente, può fuggire lontano con la mente nei mondi del ragionamento iperazionale o della dissociazione vera e propria, oppure può decidere per tutelarsi di alterare direttamente la coscienza attraverso l’uso di sostanze. Lo scopo salvaguardato resta il medesimo: impedire l’accesso a un tema percepito come distruttivo per la coscienza.

La Self-Memory System Theory ha mostrato interessanti punti di forza e di sviluppo futuro. Primo, offre una spiegazione cognitiva a un fenomeno che è sempre stato un po’ oscuro e lo fa rimanendo ancorata alla ricerca, senza trovare spiegazioni in derive filosofiche. Secondo, offre un ponte scientifico di discussione tra approcci dinamici e cognitivi su temi di importante valore clinico come l’attività mentale ai limiti della consapevolezza e i meccanismi di difesa. Infine, apre molte nuove porte al trattamento dei disturbi psicologici. Per alcuni ricercatori infatti la SMS Theory rappresenta la spiegazione di fondo all’efficacia di una terapia di terza generazione che sta riscuotendo ampio successo come l’Eye Movement Desensitization and Reprocessing (EMDR) (Gunter & Bodner, 2009). Inoltre conferma la consapevolezza clinica per cui occorre attraversare assieme al paziente quella porta, conoscere cosa vi si nasconde imparare a restarci dentro per comprendere che non può distruggerci.

 

 

BIBLIOGRAFIA: 

  • Conway, M.A.,Meares, K. & Standart, S. (2004). Images and goals. Memory, 12(4), 525-531.
  • Conway, M.A. & Pleydell-Pearce, C.W. (2000). The Construction of Autobiographical Memories in the Self-Memory System. Psychological Review, 107(2), 261-288
  • Gunter, R.W., & Bodner, G.E. (2009). EMDR Works… But How? Recent Progress in the Search for Treatment Mechanisms. Journal of EMDR Practice and Research, 3(3), 161-168.

SMS e la tolleranza di nuovi vocaboli

– Rassegna Stampa – 

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche“Messaggiare” con il cellulare sembra avere un impatto negativo sulle nostre abilità linguistiche. Lo studio, condotto all’interno di una tesi di linguistica da Joan Lee (Calgary University) dimostra che chi utilizza di più gli sms sarebbe meno propenso ad accettare parole nuove, a differenza di chi invece messaggia meno e parimenti continua a leggere i buoni vecchi libri e giornali con tanto di pagine da sfogliare.

La ricerca ha indagato le abitudini comunicative e di lettura di un gruppo di studenti universitari: agli stessi studenti è stato presentato un insieme di parole sia reali che fittizie ed è stato chiesto loro di valutare velocemente se accettare la stringa di lettere come una parola (anche di cui magari non conoscevano il significato) oppure di rifiutarla come una “non parola”. Dai risultati è emerso che i partecipanti che facevano maggior uso di SMS erano anche quelli più intolleranti e meno accettanti verso possibili vocaboli nuovi e non conosciuti, e cioè rifiutavano più spesso le stringhe di lettere non familiari.

L’autrice dello studio sottolinea che l’intensiva pratica comunicativa degli SMS sarebbe legata a limiti linguistici rigidi e caratterizzata da una elevata ripetitività e prevedibilità di vocaboli utilizzati nelle conversazioni quotidiane; questi aspetti porterebbero il soggetto a essere più rigido e meno tollerante di fronte all’incertezza di un nuovo termine  considerandolo immediatamente come non-parola e non come termine nuovo e insolito da riconoscere in quanto da tale e in qualche modo da interpretare.

 

 

BIBLIOGRAFIA: 

La trama del matrimonio, di Jeffrey Eugenides. – Recensione

 

Brunella Coratti.

La Trama del Matrimonio: Recensione. -Bellissimo, questo terzo romanzo di Jeffrey Eugenides ambientato in America negli anni ’80, protagonisti tre studenti universitari: Madeleine Hanna, appassionata di letteratura, Mitchell Grammaticus, esperto di storia delle religioni e diviso tra l’amore idealizzato verso Madeleine e il desiderio della carriera sacerdotale e Leonard Bankhead, laureando e quasi ricercatore universitario, fidanzato e poi, successivamente, marito di Madeleine.

Nel triangolo relazionale tra i protagonisti e nella descrizione, intensa, delle varie forme dell’amore, si dipana la trama del romanzo.

Madeleine si sente fuori moda, per il suo interesse quasi esclusivo per la narrativa classica ottocentesca (James, Austen, Eliot) che ha il suo fulcro nelle relazioni amorose tra i protagonisti, in un periodo, gli anni ottanta, in cui in letteratura la razionalità si impone sulle emozioni, tentando di “decostruire” il concetto stesso d’amore (Handke, Barthes, Derrida).

La ragazza, che fino all’incontro con Leonard, aveva governato la sua vita sentimentale con un certo distacco, quasi con disinteresse si trova, inaspettatamente, affascinata e coinvolta dalla personalità carismatica di Leonard. Il ragazzo soffre di psicosi maniaco depressiva che Eugenides racconta in maniera magistrale nelle sue varie fasi: l’esordio depressivo in Leonard adolescente, l’ipomaniacalità che precede i momenti di vero e proprio eccitamento, i cicli depressivi e maniacali che si alternano, anche a distanza di tempo.

Jonathan Franzen - Cover of TIME
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L’autore analizza nei dettagli e con una profondità degna dei migliori classici della psicopatologia le caratteristiche più significative di questo disturbo che consiste nell’alterazione della disposizione affettiva individuale di base. L’umore, che in ognuno di noi oscilla normalmente in risposta a stati interni o accadimenti esterni, nella psicosi maniaco depressiva viaggia su montagne russe, spinto da dinamiche prevalentemente endogene, tanto da apparire svincolato dalla realtà e dunque imprevedibile, incomprensibile, distante ed estraneo al sentire comune.

Queste vertiginose ascese, con le conseguenti ricadute a precipizio, erigono un muro di impossibilità di condivisione empatica e, nel libro, sono raccontate sia dal punto di vista di Leonard che da quello di chi gli sta intorno, soprattutto di Madeleine.

Ed ecco, quindi, narrati i segni dell’ipomaniacalità: un Leonard loquace, iperattivo, che non dorme quasi mai e si lascia andare a promiscue e sfrenate attività ludiche. 

Poi, sempre più su, fino alla perdita di consapevolezza del proprio stato, le alterazioni sensoriali, la fuga delle idee, l’umore svincolato dalla realtà, l’autostima ipertrofica che giunge al delirio di onnipotenza, o persecutorio nei confronti di chiunque tenti di porre freno all’incontenibile grandiosità.

Nei periodi intercritici il tentativo di curarsi da solo con il terrore del baratro depressivo, la nostalgia dell’eccitamento e la consapevolezza dolorosa della propria schiavitù alla malattia. Madeleine cura, all’inizio coltivando l’illusione di poterci riuscire, forse coinvolta anche lei in una follia d’onnipotenza che la rende sorda alle ragionevoli obiezioni dei genitori e di Mitchell, lui sì ragazzo perfetto da sposare, a giudizio di tutti. Genitori benestanti e colti che, nonostante le incomprensioni, rappresentano l’aggancio con il reale, il comune buon senso cui alla fine ritornare per salvarsi.

Un libro da leggere quando si è stanchi di studiare e così si continua a farlo senza accorgersene e divertendosi con un’ottima lettura.

 

 

BIBLIOGRAFIA:  

  • Jeffrey Eugenides. (2011). La trama del matrimonio. Ed. Mondadori 

Iniziare una terapia cognitiva #2: stabilire gli obiettivi

 

Iniziare una terapia cognitiva: stabilire gli obiettivi. - Immagine: © Olivier Le Moal - Fotolia.com Perché il paziente si presenta in terapia? Perché richiede un trattamento? Cosa cerca, cosa richiede, cosa desidera, cosa si aspetta da noi e dalla terapia?

Queste domande non sono scontate. Anzi, è bene che i terapeuti cognitivi ci riflettano con attenzione. Spesso o talvolta legati a una visione astrattamente razionalistica della terapia, riteniamo che il nostro compito si concentri (o si limiti) ad accertare e ristrutturare le convinzioni cognitive irrazionali o disfunzionali. Ma fare solo questo e ritenere che tutto il resto scaturisca automaticamente dalla ricerca dell’errore cognitivo è a sua volta un errore.

Non dobbiamo dimenticare che in terapia le convinzioni cognitive si definiscono irrazionali non in termini assoluti, ma in rapporto agli scopi e ai bisogni del paziente. Il livello di abilità sociale di cui ha bisogno una persona che deve effettuare frequenti prestazioni pubbliche, discorsi, relazioni, esibizioni, è differente da quella richiesta a persone a cui non capitano spesso queste occasioni. Si tratta quindi di razionalità strumentale e pragmatica e quindi di funzionalità delle convinzioni. La domanda chiave non è sempre “cosa è giusto?” e nemmeno “cosa è vero?” ma piuttosto: “a che ti serve questo in rapporto a ciò che desideri?

A loro volta gli stessi obiettivi proposti dal paziente, i suoi desideri, vanno sottoposti a una valutazione critica. Non è scontato che ciò che ci chiede il paziente sia compatibile con una terapia. Un paziente potrebbe chiederci obiettivi che sarebbe più opportuno sottoporre a un avvocato (“il mio problema è che qualcuno mi perseguita”) o un personal trainer di una palestra (“mi devo rafforzare, sono fisicamente fragile”). Certo, il fatto che il paziente si sia rvolto a uno psicoterapeuta significa che in qualche modo egli percepisce la qualità psicologica e non materiale dei suoi problemi. Egli sa che in qualche modo il suo problema andrebbe riformulato in termini differenti: il paziente ha l’impressione di essere perseguitato, il paziente ha l’impressione di essere debole. Si tratta di valutazioni, convinzioni. Ma convinzioni che si esprimono in termini di scopi, obiettivi.

Iniziare una Terapia Cognitiva: Concordare le Regole. - Immagine: © Bernard BAILLY - Fotolia.com
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Gli obiettivi vanno quindi chiariti e condivisi. Se riteniamo che gli obiettivi proposti del paziente siano anch’essi disfunzionali e irrazionali, dobbiamo discuterli e confrontarci col paziente per arrivare a formulazioni condivise. Se questa condivisione non c’è, il lavoro terapeutico ne verrà danneggiato. Si tratta della cosiddetta alleanza di lavoro, che non va confusa con la relazione terapeutica (Bordin, 1979). Essa ne è solo una componente, ma forse è la componente più interessante dal punto di vista cognitivo, essendo quella più sensibile a un accertamento e a una ristrutturazione esplicite e quindi cognitive.

Per esempio, forse possiamo ritenere che un paziente desideri un livello di abilità sociale irrealistico o anche inutilmente elevato in rapporto al suo benessere. Costui desidera esercitare un fascino irresistibile e ci chiede di rimuovere le convinzioni irrazionali che gli impedirebbero di diventare estremamente simpatico. Davanti a noi c’è una persona di normale umanità e capacità relazionale, forse addirittura un po’ più timida della media, che desidera diventare il re delle serate tra amici. E inoltre costui, avendo raccolto su internet qualche informazione sulla terapia cognitiva, avendo afferrato qualcosa sul rapporto tra convinzioni irrazionali e sofferenza, ha pensato che la terapia cognitiva fosse lo strumento giusto per incrementare le sue capacità sociali. E magari può presentarsi in terapia proprio con la richiesta specifica di rimuovere quelle convinzioni che lo danneggiano nella prestazione sociale.

 

P.: Il mio problema è che non sono così simpatico come potrei. Ho letto qualche libro di Ellis. Mi ha colpito l’idea delle piccole frasi che ci diciamo che ci danneggiano. Forse anche io faccio così. Forse basterebbe che io smettessi di pensare qualcosa di sbagliato per diventare simpatico. Le chiedo questo.

Il che, in fondo, è ancora accettabile, sebbene occorra sempre andarci piano prima di promettere troppo. La richiesta terapeutica giusta non è tanto diventare più simpatici, ma star meglio, diminuire la sofferenza. Con questo paziente potremo convenire che la sua sofferenza avvenga soprattutto in contesti sociali, e anche che soffrendo meno effettivamente potrà avere più successo sociale.

T.: Beh, si, effettivamente la terapia cognitiva può aiutare anche a migliorare le nostre relazioni sociali. Però non è un addestramento in cui si apprende un’abilità. Si tratta di una terapia. L’obiettivo per noi è sempre superare la sofferenza. Stare meglio. Sia da soli che co gli altri. Probabilmente poi, stando meglio in mezzo agli altri, la sua compagnia diventerà più piacevole, più simpatica se vogliamo.

La stessa richiesta può essere espressa in termini ancora meno accettabili e adatti a una terapia.

P.: Il mio problema è che non sono così affascinante e attraente come potrei.

T.: In che senso?

P.: Penso che potrei avere molto più successo con le donne se solo sapessi cosa dire e come fare. Prima pensavo che ero incapace. Poi ho letto qualche libro di Ellis. E ho pensato che forse sarei capace se solo la smettessi di danneggiarmi da solo. Mi ha colpito l’idea delle piccole frasi che ci diciamo che ci danneggiano. Forse anche io faccio così. Forse basterebbe che io smettessi di pensare qualcosa di sbagliato per riuscire a corteggiare le donne molto meglio di quanto faccia ora. Le chiedo questo.

T.: Non so se è corretto considerare la terapia cognitiva una sorta di addestramento a corteggiare. Qual è esattamente il suo obiettivo? Cosa si aspetta?

P.: Vuole che sia esplicito? Vorrei essere capace di convincere a venire a letto con me tutte le donne che mi piacciono.

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In questo caso la richiesta è particolarmente allarmante e poco in sintonia con obiettivi terapeutici. Chiedere di incrementare le proprie capacità seduttive in un contesto terapeutico è un campanello d’allarme di possibili aspetti istrionici e impulsivi del paziente che fa una richiesta del genere. Ma anche davanti a richieste più congrue e meno preoccupanti, come diventare più simpatici, occorre essere guardinghi.

Il problema con questo tipo di richieste è la possibile confusione tra terapia e addestramento. L’obiettivo terapeutico deve essere la sofferenza psicologica prima che l’efficienza comportamentale. Una volta chiarito questo, possiamo poi anche comunicare al paziente che il benessere può facilitare l’efficienza e perfino tentare qualche applicazione addestrativa della terapia. È vero che la terapia cognitiva, rispetto ad altri orientamenti terapeutici può essere quella più disposta a contaminarsi con tecniche di addestramento, cosiddette skills training. Tuttavia l’obiettivo rimane la sofferenza psicologica e la cura dei sintomi. Per questo si dice che il paziente deve esprimere gli obiettivi in termini “internalizzati” e non “esternalizzati”.

La terapia cognitiva, sebbene applicabile a molti tipi di sofferenza psichica, ha sviluppato modelli clinici particolarmente sofisticati ed efficienti per i disturbi di tipo ansioso e depressivo. Quando gli obiettivi terapeutici non sono particolarmente chiari, un modo per orientare la terapia in una direzione per così dire “cognitiva” la terapia è focalizzarsi sulla sofferenza di tipo ansioso e depressivo: chiedere al paziente quali sono le sue paure e le sue malinconie, quando si presentano e come, e proporre al paziente di concentrarsi su quelle. Qualunque altro obiettivo potrà essere discusso e rinegoziato in un secondo momento.

In ogni caso gli obiettivi non sono mai definitivi ma sempre rinegoziabili a vari intervalli durante la terapia.

 

 

BIBLIOGRAFIA:  

  • Bordin, E. S. (1979). The generalizability of the psychoanalytic concept of the working alliance. Psychotherapy: Theory, Research & Practice, 16(3), 252-260.
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