expand_lessAPRI WIDGET

Iniziare una terapia cognitiva #2: stabilire gli obiettivi

 

Iniziare una terapia cognitiva: stabilire gli obiettivi. - Immagine: © Olivier Le Moal - Fotolia.com Perché il paziente si presenta in terapia? Perché richiede un trattamento? Cosa cerca, cosa richiede, cosa desidera, cosa si aspetta da noi e dalla terapia?

Queste domande non sono scontate. Anzi, è bene che i terapeuti cognitivi ci riflettano con attenzione. Spesso o talvolta legati a una visione astrattamente razionalistica della terapia, riteniamo che il nostro compito si concentri (o si limiti) ad accertare e ristrutturare le convinzioni cognitive irrazionali o disfunzionali. Ma fare solo questo e ritenere che tutto il resto scaturisca automaticamente dalla ricerca dell’errore cognitivo è a sua volta un errore.

Non dobbiamo dimenticare che in terapia le convinzioni cognitive si definiscono irrazionali non in termini assoluti, ma in rapporto agli scopi e ai bisogni del paziente. Il livello di abilità sociale di cui ha bisogno una persona che deve effettuare frequenti prestazioni pubbliche, discorsi, relazioni, esibizioni, è differente da quella richiesta a persone a cui non capitano spesso queste occasioni. Si tratta quindi di razionalità strumentale e pragmatica e quindi di funzionalità delle convinzioni. La domanda chiave non è sempre “cosa è giusto?” e nemmeno “cosa è vero?” ma piuttosto: “a che ti serve questo in rapporto a ciò che desideri?

A loro volta gli stessi obiettivi proposti dal paziente, i suoi desideri, vanno sottoposti a una valutazione critica. Non è scontato che ciò che ci chiede il paziente sia compatibile con una terapia. Un paziente potrebbe chiederci obiettivi che sarebbe più opportuno sottoporre a un avvocato (“il mio problema è che qualcuno mi perseguita”) o un personal trainer di una palestra (“mi devo rafforzare, sono fisicamente fragile”). Certo, il fatto che il paziente si sia rvolto a uno psicoterapeuta significa che in qualche modo egli percepisce la qualità psicologica e non materiale dei suoi problemi. Egli sa che in qualche modo il suo problema andrebbe riformulato in termini differenti: il paziente ha l’impressione di essere perseguitato, il paziente ha l’impressione di essere debole. Si tratta di valutazioni, convinzioni. Ma convinzioni che si esprimono in termini di scopi, obiettivi.

Iniziare una Terapia Cognitiva: Concordare le Regole. - Immagine: © Bernard BAILLY - Fotolia.com
Articolo consigliato: Iniziare una Terapia Cognitiva: Concordare le Regole

Gli obiettivi vanno quindi chiariti e condivisi. Se riteniamo che gli obiettivi proposti del paziente siano anch’essi disfunzionali e irrazionali, dobbiamo discuterli e confrontarci col paziente per arrivare a formulazioni condivise. Se questa condivisione non c’è, il lavoro terapeutico ne verrà danneggiato. Si tratta della cosiddetta alleanza di lavoro, che non va confusa con la relazione terapeutica (Bordin, 1979). Essa ne è solo una componente, ma forse è la componente più interessante dal punto di vista cognitivo, essendo quella più sensibile a un accertamento e a una ristrutturazione esplicite e quindi cognitive.

Per esempio, forse possiamo ritenere che un paziente desideri un livello di abilità sociale irrealistico o anche inutilmente elevato in rapporto al suo benessere. Costui desidera esercitare un fascino irresistibile e ci chiede di rimuovere le convinzioni irrazionali che gli impedirebbero di diventare estremamente simpatico. Davanti a noi c’è una persona di normale umanità e capacità relazionale, forse addirittura un po’ più timida della media, che desidera diventare il re delle serate tra amici. E inoltre costui, avendo raccolto su internet qualche informazione sulla terapia cognitiva, avendo afferrato qualcosa sul rapporto tra convinzioni irrazionali e sofferenza, ha pensato che la terapia cognitiva fosse lo strumento giusto per incrementare le sue capacità sociali. E magari può presentarsi in terapia proprio con la richiesta specifica di rimuovere quelle convinzioni che lo danneggiano nella prestazione sociale.

 

P.: Il mio problema è che non sono così simpatico come potrei. Ho letto qualche libro di Ellis. Mi ha colpito l’idea delle piccole frasi che ci diciamo che ci danneggiano. Forse anche io faccio così. Forse basterebbe che io smettessi di pensare qualcosa di sbagliato per diventare simpatico. Le chiedo questo.

Il che, in fondo, è ancora accettabile, sebbene occorra sempre andarci piano prima di promettere troppo. La richiesta terapeutica giusta non è tanto diventare più simpatici, ma star meglio, diminuire la sofferenza. Con questo paziente potremo convenire che la sua sofferenza avvenga soprattutto in contesti sociali, e anche che soffrendo meno effettivamente potrà avere più successo sociale.

T.: Beh, si, effettivamente la terapia cognitiva può aiutare anche a migliorare le nostre relazioni sociali. Però non è un addestramento in cui si apprende un’abilità. Si tratta di una terapia. L’obiettivo per noi è sempre superare la sofferenza. Stare meglio. Sia da soli che co gli altri. Probabilmente poi, stando meglio in mezzo agli altri, la sua compagnia diventerà più piacevole, più simpatica se vogliamo.

La stessa richiesta può essere espressa in termini ancora meno accettabili e adatti a una terapia.

P.: Il mio problema è che non sono così affascinante e attraente come potrei.

T.: In che senso?

P.: Penso che potrei avere molto più successo con le donne se solo sapessi cosa dire e come fare. Prima pensavo che ero incapace. Poi ho letto qualche libro di Ellis. E ho pensato che forse sarei capace se solo la smettessi di danneggiarmi da solo. Mi ha colpito l’idea delle piccole frasi che ci diciamo che ci danneggiano. Forse anche io faccio così. Forse basterebbe che io smettessi di pensare qualcosa di sbagliato per riuscire a corteggiare le donne molto meglio di quanto faccia ora. Le chiedo questo.

T.: Non so se è corretto considerare la terapia cognitiva una sorta di addestramento a corteggiare. Qual è esattamente il suo obiettivo? Cosa si aspetta?

P.: Vuole che sia esplicito? Vorrei essere capace di convincere a venire a letto con me tutte le donne che mi piacciono.

Lo Specchio Riflessivo (Psicoterapia e Video Feedback) - Immagine: © skvoor - Fotolia.com -
Articolo consigliato: Lo Specchio Riflessivo (Psicoterapia e Video Feedback)

In questo caso la richiesta è particolarmente allarmante e poco in sintonia con obiettivi terapeutici. Chiedere di incrementare le proprie capacità seduttive in un contesto terapeutico è un campanello d’allarme di possibili aspetti istrionici e impulsivi del paziente che fa una richiesta del genere. Ma anche davanti a richieste più congrue e meno preoccupanti, come diventare più simpatici, occorre essere guardinghi.

Il problema con questo tipo di richieste è la possibile confusione tra terapia e addestramento. L’obiettivo terapeutico deve essere la sofferenza psicologica prima che l’efficienza comportamentale. Una volta chiarito questo, possiamo poi anche comunicare al paziente che il benessere può facilitare l’efficienza e perfino tentare qualche applicazione addestrativa della terapia. È vero che la terapia cognitiva, rispetto ad altri orientamenti terapeutici può essere quella più disposta a contaminarsi con tecniche di addestramento, cosiddette skills training. Tuttavia l’obiettivo rimane la sofferenza psicologica e la cura dei sintomi. Per questo si dice che il paziente deve esprimere gli obiettivi in termini “internalizzati” e non “esternalizzati”.

La terapia cognitiva, sebbene applicabile a molti tipi di sofferenza psichica, ha sviluppato modelli clinici particolarmente sofisticati ed efficienti per i disturbi di tipo ansioso e depressivo. Quando gli obiettivi terapeutici non sono particolarmente chiari, un modo per orientare la terapia in una direzione per così dire “cognitiva” la terapia è focalizzarsi sulla sofferenza di tipo ansioso e depressivo: chiedere al paziente quali sono le sue paure e le sue malinconie, quando si presentano e come, e proporre al paziente di concentrarsi su quelle. Qualunque altro obiettivo potrà essere discusso e rinegoziato in un secondo momento.

In ogni caso gli obiettivi non sono mai definitivi ma sempre rinegoziabili a vari intervalli durante la terapia.

 

 

BIBLIOGRAFIA:  

  • Bordin, E. S. (1979). The generalizability of the psychoanalytic concept of the working alliance. Psychotherapy: Theory, Research & Practice, 16(3), 252-260.

Lo specchio riflessivo. (Psicoterapia e Video Feedback)

Maurizio Speciale, psicologo psicoterapeuta Socio SITCC
Piergiuseppe Vinai, medico psicoterapeuta Didatta Studi Cognitivi – Didatta SITCC


Considerazioni cliniche sull’utilizzo in terapia delle tecniche di video feedback. 

 

Gli specchi dovrebbero riflettere
prima di rimandarci l’immagine.

(Jean Cocteau)…

 

Lo Specchio Riflessivo (Psicoterapia e Video Feedback) - Immagine: © skvoor - Fotolia.com -Uno degli obiettivi principali della terapia cognitivo-comportamentale è identificare e rimuovere le credenze disfunzionali del paziente, in particolare quelle relative al sé, che costituiscono un ostacolo al cambiamento e generano meccanismi di evitamento cognitivo: rimuginio, controllo, perfezionismo. Inoltre è fondamentale per il paziente il riconoscimento delle emozioni legate a tali credenze patologiche poiché rivestono un importante ruolo nella genesi e nel mantenimento di molti quadri psicopatologici. Per raggiungere tale obiettivo il paziente deve acquisire un distacco critico e consapevole dal proprio modo di funzionare, deve cioè “osservarsi dal di fuori” per riconoscere le caratteristiche peculiari dei suoi pensieri, in quali situazioni vengono attivati, e come essi siano legati a particolari emozioni e comportamenti.

Osservarsi dall’esterno, ossia sviluppare un punto di vista alternativo rispetto al problema presentato, è un’operazione mentale estremamente importante che, con nomi e tecniche diverse, viene messa in atto da tutte le psicoterapie. Per raggiungere tale obiettivo la CBT dispone di vari strumenti tra cui il più noto è lo schema ABC di Ellis (1962) che guida l’auto-osservazione del paziente sottolineando il legame esistente tra le sue valutazioni degli eventi attivanti, le sue emozioni e il suo comportamento. L’obiettivo è di insegnare al paziente ad osservarsi fornendogli uno specchio che gli permetta di vedere ciò che solitamente è a lui invisibile, incrementando così la sua metacognizione (Sassaroli, Ruggiero, Lorenzini 2006). Tale metodologia ha però dei limiti insiti nella difficoltà da parte dei soggetti (in particolare, i pazienti alessitimici che presentano deficit nelle capacità metacognitive riguardanti soprattutto l’area dell’autoriflessività) di accedere ai propri stati mentali (pensieri, emozioni ecc.).

The Effectiveness of video feedback therapy - Part 4 - Immagine: © Vanessa - Fotolia.com
Suggested articles: The effectiveness of video feedback therapy.

Le nuove tecnologie nella fattispecie le videoregistrazioni della seduta e la successiva presentazione al paziente di alcune sequenze emotivamente significative (ad esempio mentre rievoca un particolare episodio con lo schema ABC durante il quale individua i suoi pensieri e le sue emozioni relative ad una determinata situazione) forniscono al paziente un vero specchio poiché gli consentono di collocarsi immediatamente in una posizione “meta” dalla quale poter osservare sia il proprio modo di pensare che le proprie emozioni da una nuova prospettiva esterna che facilita l’attribuzione di nuovi significati all’evento ristrutturando conseguentemente l’idea di sé con la conseguente sperimentazione di nuove emozioni relative a se stessi che agli altri (Smits, Powers, Buxkamper & Telch. 2006).

L’ABC in versione video, rispetto all’ABC tradizionale, è uno strumento molto più efficace per porre in modo diretto il paziente di fronte alle sue credenze autosvalutative “obbligandolo” emotivamente a “fare i conti” con esse. Sapere di avere pensieri negativi e autosvalutanti è molto diverso dall’avere l’esperienza tangibile di osservare se stesso nel processo d’interpretare in modo negativo e autosvalutante una determinata situazione. Nel primo caso si ha una presa di coscienza concettuale, nel secondo si ha una presa di coscienza empirica del processo attraverso il quale si valuta se stessi (Parr, Cartwright-Hatton 2009). Allo stesso modo comprendere “intellettualmente” attraverso un’ABC classico di aver avuto pensieri autosvalutanti in una determinaa situazione è molto diverso dall’avere l’esperienza concreta di osservarsi tristi e sentire la propria voce esprimere pensieri negativi e autosvalutanti.

Ad esempio una paziente bulimica di trentacinque anni, ormai pienamente consapevole, attraverso numerosi ABC, di avere pensieri autosvalutanti verso se stessa subito dopo essersi osservata durante uno spezzone di videofeedback in cui affermava: “sono un’incapace è tutta colpa mia se lui mi ha lasciato… non so tenermi le persone che mi vogliono bene… non gli avrei dovuto fargli quell’ennesima scenata di gelosia… lui è fatto così… ci prova con tutte.. lo sapevo fin dall’inizio” ha commentato con un’evidente espressione di rabbia: “mi faccio pena… come ho potuto stare tutti questi anni con uno così… non pensavo di valutarmi proprio come una m.”. In questo caso, grazie all’ABC in formato video, la paziente ha avuto l’esperienza tangibile di osservare se stessa nel processo di interpretarsi in modo negativo e autosvalutante; in altri termini ha visto “in azione” i propri pensieri disfunzionali che in quel momento gli passavano per la testa con tutte le emozioni ad essi legati. Questa modalità faciliterebbe la consapevolezza della distinzione tra realtà e la sua percezione da parte del paziente; maggiore sarà tale divario maggiore sarà il cambiamento terapeutico che si ottiene (Rapee & Lim 1992). Nel caso clinico sopra citato tutto ciò ha provocato, gradualmente, un cambiamento relativo all’idea di sé e dell’altro (sono io la vittima , lui è il carnefice) con la conseguente attivazione di nuove emozioni (tenerezza e compassione verso se stessi, rabbia verso l’altro).

Iniziare una Terapia Cognitiva: Concordare le Regole. - Immagine: © Bernard BAILLY - Fotolia.com
Articolo consigliato: Iniziare una Terapia Cognitiva: Concordare le Regole

Oltre che facilitare l’identificazione e una piena consapevolezza delle proprie credenze l’osservazione dei propri video feedback faciliterebbe al paziente anche il riconoscimento delle proprie emozioni manifestate nel setting clinico e non riconosciute nel hic et nunc, poiché, in questo caso il riconoscimento delle proprie emozioni non sfrutterebbero le capacità autoriflessive del paziente (spesso alquanto deficitarie) ma partirebbe inizialmente dall’osservazione di uno stimolo visivo esterno: la propria espressione emotiva. In altri termini il riconoscimento di un proprio stato d’animo non partirebbe da processi autoriflessivi ma sfrutterebbe gli stessi meccanismi della social cognition che normalmente usiamo per comprendere gli stati emotivi altrui. Molti pazienti riescono a comprendere meglio gli stati mentali altrui rispetto ai propri (Rapee & Lim 1992), tali soggetti beneficeranno maggiormente del video feedback poiché la metodologia permette loro di sfruttare la loro capacità di social cognition per vicariare quella autoriflessiva alquanto deficitaria. Non a caso il video feedback è stato ampiamente inserito nei protocolli della CBT al fine di migliorare la percezione di sè nei soggetti affetti da ansia sociale. (Rapee & Hayman, 1996; ).

 

Psicopedia - Immagine: © 2011-2012 State of Mind. Riproduzione riservata
Articolo Consigliato: La Tecnica ABC - Definizione - Psicopedia

Questi soggetti, infatti, percepiscono in modo distorto i loro stati emotivi, (in particolare la loro ansia se debbono parlare in pubblico) spesso sovrastimandone l’intensità. Ad esempio affermano erroneamente di essere apparsi molto ansiosi, sudati, tremanti e di aver balbettato mentre, al contrario, valutano molto accuratamente le performance altrui (Rapee & Hayman. 1996). Quando questi soggetti osservano se stessi in video usano la stessa valutazione come se osservassero un estraneo quindi adottano una valutazione più accurata e precisa. L’osservazione della loro performance crea, quindi, una discrepanza tra la rappresentazione negativa di sè ed il reale comportamento osservato; maggiore è tale bias, maggiore sarà il cambiamento della propria immagine con conseguente riduzione dell’ansia (Orr, Moscovitch 2010). Partendo quindi dai dati offerti dalla letteratura scientifica sull’efficacia del video feedback nei vari campi in cui è stato utilizzato (miglioramento nella percezione di sé e riduzione dell’attivazione emotiva nei soggetti affetti da fobia sociale (Orr, Moscovitch. 2010), miglioramento della qualità di interazione con tra madre e bambino (Kalinauskiene et al. 2009) ipotizziamo che l’uso del video feedback, all’interno di una CBT, incrementi le capacità metacognitive del paziente (identificazione dei pensieri, degli scopi e dei temi di vita che muovono il proprio comportamento nonché il riconoscimento delle emozioni ad essi legati) in tempi estremamente più brevi e in modo qualitativamente maggiore rispetto alla sola CBT. Ovviamente il video feed back non può sostituire la psicoterapia tradizionale, ma come già riportato da Nilsson e colleghi (2011) ne può amplificare l’efficacia terapeutica.

 

 

BIBLIOGRAFIA: 

Addestramento al “Pensiero concreto” come auto-cura per la depressione.

 

Addestramento al “Pensiero concreto” come auto-cura per la depressione. - Immagine: © Guido Vrola - Fotolia.com Recenti ricerche hanno dimostrato che i sintomi depressivi possono essere trattati “semplicemente” attraverso l’addestramento ad uno stile di pensiero orientato per obiettivi, attraverso esercizi mentali strutturati secondo l’approccio chiamato “Modificazione dei bias cognitivi” (Cognitive Bias Modification).

Lo studio condotto dalla University of Exeter e finanziato dal Medical Research Council, è stato pubblicato sulla rivista Psychological Medicine lo scorso Novembre e sembra interessante rispetto alla necessità di proporre programmi di intervento più rapidi, efficaci e meno costosi nei casi di depressione o depressione maggiore.

La proposta dei ricercatori è: un training di soli due mesi in grado di produrre, attraverso l“Addestramento al pensiero concreto” (Concreteness Training, CNT), un cambiamento dello stile di pensiero e una parziale riduzione della sintomatologia depressiva. L’obiettivo generale del training è di insegnare ad essere più specifici quando si riflette su un problema; questo infatti sembra ridurre le difficoltà iniziali di problem solving, il conseguente rimuginio, il brooding e infine l’umore depresso. Le persone che soffrono di depressione hanno infatti la tendenza a sviluppare uno stile di pensiero astratto e caratterizzato da una prevalenza di pensieri negativi e molto generali, che alimentano la loro generale “incapacità nella vita” e sensazione di impotenza. Il modello proposto dai ricercatori sembra in grado di intervenire in modo diretto proprio su questo stile di pensiero.

Come o Perché? E le conseguenze per il pensiero.
Articolo consigliato: “Come o Perché? E le conseguenze per il pensiero”

I 121 soggetti sperimentali, già seguiti in trattamento psicoterapico e scelti in una fase di abbassamento dell’umore all’interno di un episodio depressivo maggiore diagnosticato, sono stati suddivisi in tre gruppi: 1) somministrazione dell’antidepressivo e visite di controllo del medico di base (TAU, “treatment as usual”), 2) TAU + CNT, 3) TAU + trainig di rilassamento.

Il modello CNT prevedeva la somministrazione ai partecipanti di alcuni esercizi mentali giornalieri, standardizzati per step successivi e accompagnati dall’ascolto di un CD, in cui era richiesto loro di focalizzarsi su un recente evento di vita abbastanza negativo e fonte di stress e di identificarne specifici dettagli immaginando come ognuno di questi, presi singolarmente, avrebbe potuto influenzare l’esito immaginato.

La riduzione dell’ansia e della depressione ha favorito il passaggio da una diagnosi di “depressione grave” ad una di “depressione moderata” entro i primi due mesi di training, con un buon mantenimento dei risultati a distanza di 3 e 6 mesi. In media, i pazienti che hanno seguito il trattamento con antidepressivi e le visite regolari con il medico di base non sono migliorati nella sintomatologia depressiva, mentre quelli che avevano integrato con gli esercizi di rilassamento sono migliorati di più. Tuttavia solo i pazienti che hanno seguito il “Concreteness training” hanno ridotto significativamente l’intensità dei pensieri negativi legati alla ruminazione.

Il Professor Edward Watkins ha spiegato:

“Questo studio è la prima dimostrazione del fatto che il solo orientare lo stile di pensiero per obiettivi può avere un impatto significativo nell’affrontare la depressione. Si tratta di un approccio che può comportare un contatto minimo con il clinico e il training può essere seguito tramite assistenza on line, aprendo la possibilità di utilizzare CD o addirittura applicazioni per smartphone. Il vantaggio sta nella possibilità di offrire un trattamento poco costoso e accessibile per un numero maggiore di persone, obiettivo prioritario nella cura della depressione a causa della elevate percentuale di persone affette da questo problema e dai costi globali, sociali e sanitari, che questo comporta.”

I ricercatori proseguiranno in questa direzione per verificare l’efficacia del protocollo e la possibilità di inserire la CNT come trattamento privilegiato dal National Health Service britannico per la cura della depressione.

L’effetto di questo training sembra, ad una prima occhiata, paragonabile all’effetto del farmaco antidepressivo, in alcuni casi “salvavita” e spesso utile nel recuperare le “forze” cognitive necessarie ad intraprendere un percorso psicoterapico più approfondito, quindi da non sottovalutare la possibilità di utilizzare il protocollo proposto nella fase iniziale della terapia.

Ai posteri l’ardua sentenza!

 

 

BIBLIOGRAFIA:

Riconoscere la voce delle emozioni: deficitarietà nella schizofrenia

– Rassegna Stampa – 

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze PsicologicheL’associazione tra schizofrenia e difficoltà nella comprensione degli stati mentali altrui è dimostrata in letteratura da diversi studi (si veda ad esempio il recente articolo di Giardini “Da Freud ai neuroni specchio: schizofrenia e social perception”). Generalmente gli studi sul riconoscimento emotivo, sia in soggetti patologici che non, si focalizzano più spesso sul riconoscimento delle emozioni a partire dalle espressioni facciali; tuttavia, lo studio della voce delle emozioni rappresenta un aspetto altrettanto interessate essendo anche la voce un rilevante sistema di segnalazione delle emozioni.

Uno studio apparso in questi giorni su American Journal of Psychiatry indaga in quale modo la schizofrenia sia associata a difficoltà nel riconoscere le emozioni dalla voce. Il campione dello studio è costituito da 92 pazienti e 73 soggetti di controllo, cui è stato chiesto di ascoltare stimoli sonori dal contenuto neutro ma che presentavano caratteristiche acustiche (frequenza, intensità, ritmo) tipiche delle diverse emozioni (ansia, rabbia, paura, etc). A partire da questi stimoli i pazienti e i soggetti di controllo dovevano quindi inferire quale fosse l’emozione espressa.

Dai risultati è emerso che i pazienti schizofrenici presentano un deficit statisticamente significativo nel riconoscimento emotivo vocale, avendo in particolare maggiori difficoltà nel riconoscere le variazioni del tono (o frequenza) della voce rispetto ai soggetti di controllo. Quindi il deficit sembrerebbe giocarsi sia a livello di sensibilità percettiva alle variazioni acustiche di frequenza sia più specificamente a livello di inferenza emotiva a partire da indizi sonori.

 

 

BIBLIOGRAFIA: 

Disturbi Specifici dell’Apprendimento – (DSA)

 Andrea Bassanini, Barbara Stefania Comerci.

Nei Disturbi Specifici dell’Apprendimento (DSA) rientrano tutte quelle problematiche che ostacolano, nel bambino, l’apprendimento scolastico normativo e adeguato alle richieste della scuola.

“I Disturbi dell’Apprendimento vengono diagnosticati quando i risultati ottenuti dal soggetto in test standardizzati, somministrati individualmente, su lettura, calcolo, o espressione scritta risultano significativamente al di sotto di quanto previsto in base all’età, all’istruzione, e al livello di intelligenza. I problemi di apprendimento interferiscono in modo significativo con i risultati scolastici o con le attività della vita quotidiana che richiedono capacità di lettura, di calcolo, o di scrittura” (DSM-IV, APA, 1995).

“… sono disturbi nei quali le modalità normali di acquisizione delle capacità in questione sono alterate già nelle fasi iniziali dello sviluppo. Essi non sono semplicemente una conseguenza di una mancanza di opportunità di apprendere e non sono dovuti a una malattia cerebrale acquisita. Piuttosto si ritiene che i disturbi derivino da anomalie nell’elaborazione cognitiva legate in larga misura a qualche tipo di disfunzione biologica. Come per la maggior parte degli altri disturbi dello sviluppo, queste condizioni sono marcatamente più frequenti nei maschi” (ICD-10, OMS, 1992).

Nello specifico, i DSA sono suddivisi in :

  • Dislessia; caratterizzata da lettura lenta e scorretta con presenza di errori tipici e riconoscibili;
  • Disortografia; caratterizzata da scrittura scorretta a livello ortografico con errori molto simili a quelli che il bambino dislessico compie nella lettura;
  • Discalculia; caratterizzata da difficoltà nel compiere operazioni aritmetiche (anche le più semplici) in assenza di problematiche legate alle competenze logico-matematiche;
  • Disgrafia – caratterizzata dalla scarsa/insufficiente capacità del bambino di realizzare anche i segni grafici più elementari in modo comprensibile, anche al bambino stesso.

Sebbene non presente nei manuali diagnostici internazionali, alcuni autori tra cui Simonetta (2005, 2007, 2012) riconoscono anche l’esistenza della Disgnosia, disturbo più ampio della capacità di apprendimento. Tale disturbo riguarda la combinazione di ritardi nell’evoluzione del linguaggio verbale e nello sviluppo psicomotorio funzionale. Pertanto, a differenza dei DSA precedentemente citati, tale disturbo assume una chiara multifattorialità, che comprende non solo la presenza di deficit di tipo psicomotorio ma anche elementi legati alla storia di attaccamento e alla presenza di eventi traumatici nella storia del bambino.

 

 ARTICOLO CONSIGLIATO

Dislessia: da ko a ok! Il font ad alta leggibilità easyreading

BIBLIOGRAFIA:

  • American Psychiatric Association. (2014). Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali. Quinta edizione (DSM-5). Raffaello Cortina Editore. ACQUISTA ONLINE 

Cosa non farei per la danza!

 

Il mondo segreto delle ballerine, dove per diventare una “stella” si è disposte a tutto, anche a morire di anoressia.

Cosa non farei per la danza! - Immagine: © olly - Fotolia.com Il 7 dicembre, come da tradizione, c’è stata la serata inaugurale della stagione teatrale alla Scala con le note del Don Giovanni di Mozart. Qualche giorno prima, però un altro sipario si era alzato sul “tempio della lirica” milanese, con la denuncia al Guardian e subito ripresa dalle maggiori testate giornalistiche in tutto il mondo, da parte della Ballerina Mariafrancesca Garritano, una delle 14 soliste della Scala, che sembra aver scioccato i più, sui problemi di anoressia e bulimia tra le ballerine del corpo di danza del teatro La Scala di Milano. Corpo di ballo che ha prontamente replicato negando tutto e attaccando la ballerina.

La ballerina racconta la sua storia nel libro “La verità vi prego sulla danza”. È una storia fatta di solitudine, quella di una ragazza che a soli sedici anni lascia la Calabria e la casa non sentendosi voluta dal padre e dalla nuova famiglia. Una storia di sacrifici e rinunce, quelli che la danza impone e di problemi alimentari. Nel libro Mariafrancesca racconta di un mondo difficile, a tratti spietato, pieno di personaggi che per un posto sul palco farebbero di tutto.

ProYouth
Articolo consigliato: ProYouth: un Progetto per la Prevenzione dei Disturbi Alimentari online

Racconta che una ballerina su cinque soffre di un disturbo alimentare, prevalentemente bulimia nervosa e anoressia nervosa, e, triste a dirsi, il dato non la sorprende dal momento che i primi a spingere per raggiungere il “corpo perfetto” sono proprio gli insegnanti dell’accademia. Mariafrancesca dice: “Quando, appena sedicenne, sono entrata nell’accademia gli istruttori mi chiamavano “mozzarella” di fronte a tutti. Così ho ridotto il cibo così tanto – mangiavo un mela e uno yogurt al giorno – che per un anno e mezzo il mio ciclo mestruale si è interrotto e sono arrivata a pesare 43 kg”. La ballerina racconta di un mondo dove questa è la dieta della maggior parte delle ballerine e dove molte di esse vengono ricoverate in ospedale e sottoposte all’alimentazione forzata per cercare di salvare loro la vita.

Una storia che ricorda a tratti quella di Nina-Odette, interpretata da Natalie Portman nel Cigno Nero di Darren Aronofsky, senz’altro un dei film più belli dello scorso anno, è una ballerina del New York City Ballet che per ottenere il ruolo della vita arriverà all’estremo sacrificio. Per fortuna la storia di Odette non è certo quella una ballerina tipo, poiché accanto agli allenamenti massacranti, alla bulimia e a un mondo pronto a tutto, racconta anche la storia di ossessioni, di allucinazione, di cosa accade quando il lato oscuro ha la meglio su quello luminoso, di una mente che con la danza invece di ritrovarsi arriva a perdersi.

Le parole di Mariafrancesca trovano tristemente conferma anche nei recenti studi di Herbrich e colleghi (Herbrich, L., Pfeiffer, E., Lehmkuhl, U. & Schneider, N.) del “Dipartimento per i bambini e gli adolescenti” di Berlino”, che hanno messo a confronto un campione di studenti del liceo con un campione di giovani ballerini. Ad entrambi i gruppi hanno somministrato delle batterie specifiche di test per indagare l’area dei disturbi alimentari e l’anoressia nervosa è stata diagnosticata nel 5,8% dei ballerini contro il 2,9% degli studenti.

La Vergogna e la Colpa nei Disturbi del Comportamento Alimentare (DCA). Cicli Emotivi e Patologia. - Immagine: © bobyramone - Fotolia.com
Articolo consigliato: La Vergogna e la Colpa nei Disturbi del Comportamento Alimentare (DCA)

Questo episodio apre un dibattito che si estende anche ad altri sport. Alcuni si sorprenderanno nel leggere che in ambito clinico è purtroppo risaputo che certi sport non si limitano a trasformare il corpo in opere d’arte, ma lo espongono anche al rischio di sviluppare un disturbo alimentare. Nel 2005 Reinking e colleghi (Reinking, M. F & Alexander, L. E.), allarmati dall’aumento dei casi di amenorrea, osteoporosi e disturbi alimentari nel mondo dell’atletica, hanno condotto uno studio monitorando dal 2002 al 2003 la presenza di questi sintomi i un campione di 84 adolescenti che praticano sport, dividendo fra quelli che praticano sport nei quali aspetto fisico e peso sono molto importanti, come per esempio nell’atletica leggera, e quelli che praticano sport dove invece aspetto fisico e peso non sono fondamentali, come per esempio nel basket, con uno di 62 adolescenti che non la praticano. I risultati di questa ricerca hanno mostrato che gli atleti che praticavano la prima categoria di sport, avevano maggiori livelli di insoddisfazione, una minore obbiettività e un maggiore desiderio di perdere peso, rispetto agli atleti che praticavano sport della seconda categoria. Inoltre nel 25% degli atleti che pratica questi sport ha un rischio maggiore di sviluppare un disturbo alimentare. Attenzione quindi lo sport fa bene, ma se fatto con moderazione!! 

 

 

BIBLIOGRAFIA: 

  • Herbrich, L., Pfeiffer, E., Lehmkuhl, U. & Schneider, N. (2011). Anorexia athletica in pre-professional ballet dancers. Journal of Sports Science, 29 (11):1115-23.
  • Reinking, M.F. & Alexander L.E. (2005). Prevalence of Disordered-Eating Behaviors in Undergraduate Female Collegiate Athletes and Nonathletes. J Athl Train, 40(1):47-51.

Una scelta razionale. Davvero? (Psicologia dei Consumi)

 

Una scelta razionale. Davvero? (Psicologia dei Consumi) - Immagine: © M.Gove - Fotolia.com Provate a rispondere alle seguenti domande:

1. A Mr. A vengono dati due biglietti per delle lotterie del World Series. Mr A vince $50 in una lotteria e $25 nell’altra. Mr.B invece prende un solo biglietto per un’unica grande lotteria sempre del World Series. Mr B vince $75. Chi dei due è più soddisfatto?

2. Oggi il signor Bianchi ha vinto un regalo del valore di 20 euro a una tombola organizzata dai colleghi di lavoro e poi 80 euro a una tombola organizzata dagli abitanti del suo quartiere. Dal canto suo il signor Rossi ha vinto un regalo del valore di 100 euro a una tombola municipale. Quale dei due personaggi è più soddisfatto?

 

Se avete risposto Mr A nel primo caso e il signor Bianchi nel secondo avrete seguito un ragionamento tipico della maggior parte delle persone e che farà felici gli esperti di marketing. Secondo le principali teorie sulla presa di decisione, infatti, le persone tendono a considerare separatamente gli eventi che riguardano le vincite e a integrare come evento unico le perdite; tendono anche a considerare come evento minore una perdita se accompagnata da una vincita più consistente (Thaler, 1985).

Cognitivismo ed Economia - John Stuart Mill - Licenza d'uso: Creative Commons - Owner: http://www.flickr.com/photos/oxfordshire_church_photos/
Articolo Consigliato: “Cognitivismo ed Economia”

Il motivo per cui ci lasciamo tentare da un prodotto nuovo che in realtà a poco ci serve o la ragione per cui siamo più infelici anche di fronte a una perdita economica non così importante sta nel fatto che tutti noi abbiamo un modo più o meno esplicito di valutare gli eventi e che influenza tutte le decisioni che prendiamo, talvolta in maniera inaspettata. Se queste affermazioni possono sembrare scontate a una prima lettura, pensiamo a quante volte pensiamo di avere preso una decisione in maniera ponderata e razionale, soprattutto in situazioni importanti. Certo, non si può affermare che la gente sia irrazionale, ma gli studi della psicologia cognitiva ci dicono in realtà che i criteri di razionalità tanto proclamati dagli economisti non sempre funzionano. Anzi: nel momento in cui prendiamo una decisione è il valore percepito dal soggetto, in termini di guadagni o perdite, ad avere la meglio. Ovvero, le persone tendono a rispondere in base ai cambiamenti percepiti piuttosto che in base a valori assoluti di vantaggio o svantaggio (Thaler, 1985).

Tornando al nostro quesito iniziale possiamo dire che le persone tenderanno a interpretare gli eventi nel modo che li renda maggiormente felici; non solo, le persone sceglieranno anche in base a come un problema è organizzato, supponendo che ognuno abbia un proprio modo di organizzarsi la vita e categorizzare il mondo. Nella pratica, ciò che risulterà fondamentale a un venditore è sapere quali aspetti del prodotto integrare o separare al fine di attirare l’attenzione della gente. Ad esempio, il fatto di separare le vincite ci dice che per vendere un prodotto è molto meglio che esso abbia diverse dimensioni su cui il consumatore può effettuare la scelta (che porteranno la persona a valutare i diversi aspetti come separati). Allo stesso modo, i consumatori tenderanno a integrare le perdite: questo significa che i venditori hanno il vantaggio di potere vendere qualcosa se il suo costo può essere aggiunto a un’altra spesa.

Insomma, la prossima volta che andiamo al supermercato stiamo bene attenti alle promozioni: il pacco doppio sarà davvero più conveniente?

 

 

BIBLIOGRAFIA: 

  • Thaler, R.H. (1985). Mental accounting and consumer choice, Marketing Science, 4, 199-214.

Terapia Cognitivo-Comportamentale per le Psicosi.

 

Parte I – DATI DI EFFICACIA 

Terapia Cognitivo-Comportamentale per le Psicosi. - Immagine: © svedoliver - Fotolia.com Un crescente numero di ricerche ha ormai dimostrato che la persistenza di sintomi psicotici positivi, quali voci allucinazioni deliri, può essere alleviata da trattamenti psicoterapici specifici per le psicosi. Alterata percezione e distorta elaborazione degli stimoli minacciosi sembrano essere alla base dello sviluppo dei contenuti deliranti, aspetti che costituiscono dunque il target di intervento di un percorso psicoterapico che favorisca processi di recovery sulla base delle risorse residue e non ancora colpite dalla patologica psichiatrica.

Uno studio condotto presso il Dipartimento di Psicologia del London King’s College e pubblicato sulla rivista Brain nel 2011, si è occupato di esaminare tramite neuroimaging la presenza di cambiamenti significativi nella reattività neuronale a stimoli minacciosi, a seguito di un trattamento cognitivo-comportamentale in pazienti affetti da psicosi.

I Sintomi Psicotici delle persone sane. - © rolffimages - Fotolia.com
Articolo consigliato: I Sintomi Psicotici delle persone sane

Dei 56 pazienti affetti da schizofrenia con sintomi positivi residui e persistenti, 28 hanno ricevuto un trattamento cognitivo-comportamentale specifico per le psicosi (CBTp) di 6-8 mesi oltre alla regolare somministrazione di farmaci antipsicotici (TAU), mentre gli altri 28 è stato somministrato il solo trattamento farmacologico (TAU). I due gruppi sono risultati omogenei nel corso della valutazione iniziale, relativamente ai parametri clinici e demografici e alle risposte neurali e comportamentali agli stimoli emotigeni (espressioni facciali neutre o minacciose) somministrati durante lo scanning in risonanza magnetica funzionale. I risultati finali hanno mostrato significative differenze tra i due gruppi sperimentali: a) miglioramento clinico nel gruppo sottoposto a trattamento CBTp + farmaci antipsicotici (TAU), con un mantenimento dei cambiamenti al follow-up (6-8 mesi dopo la fine del trattamento); b) il solo gruppo sottoposto a CBTp ha mostrato una ridotta attivazione della corteccia frontale, dell’insula, del talamo e della corteccia occipitale, in risposta agli stimoli percepiti come minacciosi e questa ipo-reattività si è mantenuta stabile anche al follow-up dopo 6-8 mesi; c) la riduzione di reattività corticale in queste aree alla presentazione di volti arrabbiati è risultata altamente correlata al miglioramento sintomatico riferito dai pazienti.

I Circuiti Neurali attivi nel Delirio di Riferimento. - Immagine: © Vibe Images - Fotolia.com
Articolo consigliato: I Circuiti Neurali attivi nel Delirio di Riferimento.

Si tratta del primo studio pubblicato in ambito neuro scientifico che ha dimostrato gli effetti prodotti dalla terapia cognitivo-comportamentale per le psicosi (CBTp) sull’attività corticale: la CBTp abbinata ad una regolare terapia con antipsicotici sembra dunque in grado di attenuare la reattività corticale a stimoli emotigeni e costituisce un trattamento efficace nella riduzione dei sintomi perché promuove una migliore capacità di elaborare e interpretare gli stimoli minacciosi, facendo loro perdere il potenziale stressante.

Il dato clinico interessante è che il protocollo utilizzato dai ricercatori del King’s College London e validato in alcuni precedenti studi degli stessi autori (Kumari et al., 2010), costituisce uno dei pochi strumenti a disposizione di noi clinici per accostarsi alla cura delle psicosi, tutt’oggi considerate patologie destinate alla cronicizzazione e al progressivo isolamento. Lo stesso stigma che colpisce i pazienti affetti da psicosi, coinvolge spesso anche i clinici, le terapie e i protocolli ideati per la cura e il trattamento di queste patologie. Potrebbe essere proprio questo uno dei motivi della loro scarsa presenza nella letteratura scientifica e nei nostri ambulatori.

 LEGGI LA PARTE II – Trattamento

 

 

BIBLIOGRAFIA:

  • Kumari, V., Fannon, D., Peters, E.R., Ffytche, D.H., Sumich, A.L., Premkumar, P., Anilkumar, A.P., Andrew, C., Phillips, M.L., Williams, S.C.R., Kuipers, E. (2011). Neural changes following cognitive behaviour therapy for psychosis: a longitudinal study. Frontiers in Behavioural Neuroscience 4:4, 1-15.
  • Kumari, V., Antonova, E., Fannon, D., Peters, E.R., Ffytche, D.H., Premkumar, P., Raveendran, V., Andrew, C., Johns, L.C., McGuire, P.A., Williams, S.C.R., Kuipers, E. (2010). Beyond dopamine: functional MRI predictors of responsiveness to cognitive behaviour therapy for psychosis. Brain, 134, 2396–2407.

Bilinguismo e funzione esecutiva

– Rassegna Stampa –

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze PsicologicheBambini bilingui figli di coppie biculturali. Un fenomeno sempre più frequente, che le scienze psicologiche sono chiamate ad indagare sotto diversi aspetti dallo sviluppo cognitivo e linguistico ai processi di appropriazione di modelli culturali differenti.

Uno studio condotto presso la York University of Toronto e in fase di pubblicazione sulla rivista Child Development si è occupato di determinare quali effetti cognitivi possano essere associati al bilinguismo. A tale scopo i ricercatori hanno coinvolto nello studio 100 bambini di 6 anni di pari livello socioeconomico, monolingui (inglesi) e bilingui (cino-inglesi, franco-inglesi e ispano-inglesi) utilizzando tre compiti per misurare lo sviluppo linguistico e un compito non verbale per valutare la funzione esecutiva.

Il gruppo dei bambini bilingue differiva al suo interno per similarità tra le due lingue apprese, background culturale, storia di immigrazione e lingua utilizzata a scuola; nonostante tale eterogeneità, il gruppo dei bambini bilingue presentava prestazioni simili al suo interno e significativamente superiori rispetto al gruppo dei monolingui nel compito non verbale di funzione esecutiva in cui si doveva alternare flessibilmente l’utilizzo di due regole di categorizzazione per classificare un insieme di figure. Invece per quanto riguarda le performance nei compiti di linguaggio verbale si avevano prestazioni migliori da parte dei bambini bilingui che presentavano più similarità tra le due lingue acquisite e una coerenza tra la lingua che utilizzavano a scuola e la lingua del task.

Pensando alla migliore funzione esecutiva dei bilingui rispetto ai monolingui bisogna però chiedersi se e come tale effetto sia da attribuire solo al bilinguismo oppure anche allo sviluppo di una mente biculturale che si appropria di modelli culturali differenti per cosi dire su un “doppio binario”. Lo studio non ha considerato questa variabile e in altre parole così facendo si rischia di sovrapporre teoricamente lingua e cultura. Chi ci dice che l’essere più flessibili e veloci in un compito di funzione esecutiva non sia in realtà da attribuire all’appropriazione mentale di più registri culturali– e non solo linguistici- e quindi di una mente più flessibile da parte dei bambini bilingui che sono il più delle volte inevitabilmente anche biculturali?

 

 

BIBLIOGRAFIA:

Tipi di coppie #1 – I Simbiotici (o gemelli paradisiaci di Jackson)

 

Introduzione 

Tipi di coppie #1 - I Simbiotici (o gemelli paradisiaci di Jackson) - Immagine: © kanate - Fotolia.com Nel guardare alle coppie e alla varietà delle configurazioni possibili, la classificazione proposta da Berrini e Cambiaso (2001), tiene particolarmente in considerazione tre dimensioni molto importanti:

1- Un tema considerato è quello della distanza interpersonale tra i partners: su questo piano della relazione si gioca la possibilità di riconoscersi come individui separati, di condividere nel rispetto delle reciproche differenze e di tollerare l’ambivalenza all’interno della relazione. Saranno possibili, a seconda dei casi, modalità di interazione più o meno cooperative e possibilità di scambio più o meno ampie.

2- Un altro tema è quello dell’uso della relazione di coppia allo scopo di colmare “vuoti” emotivi e bisogni non appagati nel rapporto con le figure significative dell’infanzia; un tentativo, che come abbiamo visto, spesso fallisce, esprimendosi con la cristallizzazione di modalità relazionali e l’assunzione di ruoli rigidi, disadattivi ai fini della crescita individuale e di coppia.

3- Ultimo, ma non meno importante, è il tema dello svincolo dalle rispettive famiglie di origine.

 

 

#1 – I simbiotici (o gemelli paradisiaci di Jackson)

La coppia imprigionata. - Immagine: © michaltutko - Fotolia.com -
Articolo consigliato: La coppia imprigionata

La caratteristica principale di una coppia di “simbiotici” è la reciproca dipendenza tra i partner e la scarsa definizione dei confini interpersonali, al punto che più che un incontro tra due individui si realizza la costruzione di un unico corpo psichico. Queste coppie non conoscono il litigio, la diversità e la contrapposizione di opinioni e desideri individuali. I due infatti, si comportano come se a prendere decisioni fosse sempre una persona sola; lo scambio è estremamente ridotto e così come le possibilità di dialogo, anche il potenziale di cambiamento e la creatività sono atrofizzati.

In queste coppie il meccanismo di reciproca proiezione di parti del sé si focalizza sugli aspetti di fragilità e inadeguatezza: ciò che viene proiettato sull’altro, infatti, è la possibilità di essere rassicurati e protetti, allo stesso tempo ciascuno riconosce nell’altro la propria insicurezza e inadeguatezza nei confronti del mondo esterno. I due partner sono come due bambini impauriti dal buio, si tranquillizzano a vicenda e, paradossalmente, l’insicurezza dell’uno è fonte di sicurezza per l’altro. Ognuno si sente sicuro di muoversi solo se accanto a sé cammina l’altro e se il ritmo e la velocità dei loro passi è uguale, nel percorrere un cammino comune e nella medesima direzione.

La Scelta del Partner: dall'innamoramento alla costruzione di una relazione stabile. Immagine: © Artistan - Fotolia.com -
Articolo consigliato: La Scelta del Partner: dall'innamoramento alla costruzione di una relazione stabile.

Un’esasperazione della chiusura della coppia nei confronti di un mondo pauroso e pericoloso è colta da Jackson con la definizione di “predatori paranoici”, in cui l’intimità è appunto mantenuta a fronte di un mondo ostile.

L’assenza di diversità e confronto conduce anche all’appiattimento emotivo e a un impoverimento dell’intimità, anche sessuale: i simbiotici infatti hanno bisogno di non perdersi d’occhio ma allo stesso tempo non tollerano un eccessiva intimità. I bisogni infantili e fusionali di rassicurazione e protezione costante dal pericolo non permettono di accedere ad una dimensione relazionale più matura, nella quale è necessario saper reggere l’impatto emozionale di un’unione appassionata tra due individui separati: la vicinanza è avvertita con pericolo, come un’invasione, e non come una benefica regressione a cui abbandonarsi.

Questo tipo di coppie sono metodiche e ripetitive, non amano le sorprese, i viaggi, le distanze; di solito sono molto attaccati alla famiglia di origine e confinano la vita di coppia entro percorsi prevedibili. Ai figli trasmettono la fobia dell’intimità e dell’autonomia e questi ultimi possono sviluppare difficoltà al momento dello svincolo: unioni di questo tipo difficilmente vanno incontro a una crisi, che può però esprimersi nella generazione successiva.

Un buon esempio di questo tipo (esacerbato) di coppie è raccontato nel film “Il marito della parrucchiera” di Patrice Leconte. Anna Galiena e Jean Rochefort si costruiscono un mondo a parte, fatto di abitudini rassicuranti e privo di divergenze individuali, la minaccia di un’evoluzione del rapporto e di cambiamenti porta a un tragico epilogo con il suicidio della Galiena e l’impossibilità di Rochefort di accettarne l’evidenza.

La prossima settimana: i combattenti cronici, gli ambivalenti e i fratellini.

 

 

BIBLIOGRAFIA:

  • Berrini R, Cambiaso G, (2001) Illusioni di coppia. Sto con te perché posso stare senza di te, Franco Angeli, Milano
  • Jackson, D. (1968). Mirages of Marriage. NY: W.W. Norton & Co.

Arteterapia: teoria e prassi di un nuovo approccio psicoterapeutico integrato – parte I

Di Roberto Pasanisi.

Accademia di Belle Arti “Fidia”; CISAT, Centro Italiano Studi Arte-Terapia

 

Teoria dell’Arteterapia

Arteterapia: teoria e prassi di un nuovo approccio psicoterapeutico integrato – parte I  - Immagine:  © oscurecido - Fotolia.com L’Arteterapia si è finora sviluppata sulla base di tre modelli incompiuti: come una tecnica essenzialmente riabilitativa o di sostegno rivolta principalmente agli psicotici o ai minorati per migliorare le capacità relazionali e di socializzazione dell’individuo affetto da patologie psichiatriche; come una sorta di laboratorio di pittura e scultura, attento a cogliere (ed eventualmente ad esprimere) le emozioni connesse alla pratica artistica; e infine come una psicoterapia che si avvaleva delle arti figurative a livello essenzialmente strumentale e secondario nell’àmbito di una tecnica più vasta ed articolata, con un approccio psichiatrico-farmacologico.

Essa è stata praticata non soltanto da psicoterapeuti, ma da esperti dei più svariati campi — musicisti, artisti, scrittori, drammaturghi, maestri di scuola — restando al di qua o andando al di là della psicoterapia stricto sensu — l’unica che qui ci interessi — praticata da uno psicoterapeuta, o meglio ancóra se specialista in Arteterapia. Essa è stata sostanzialmente priva sia di un impianto teorico compiutamente definito che la legittimasse scientificamente, sia di una qualsivoglia istituzionalizzazione che ne precisasse i cómpiti e gli obiettivi, ne chiarisse le caratteristiche precipue (anche rispetto alle altre scuole psicoterapeutiche) e ne stabilisse i limiti, fissando nel contempo una deontologia professionale.

Molti oggi sono infatti le scuole ed i corsi di scrittura creativa, i laboratori di pittura e scultura a fini terapeutici o riabilitativi, ed altre iniziative simili; come pure gli psicologi, gli psicoterapeuti e gli psichiatri che adoperano l’arte in forma per così dire ‘ancillare’, idest come una tecnica fra le altre nell’àmbito di una teoria e di una prassi diverse, che nulla hanno a che vedere con l’Arteterapia.

Qui invece si intende l’Arteterapia come una ‘teoria ed una prassi psicoterapeutica’ a tutti gli effetti ed autonoma, sviluppando questa disciplina come una scuola di psicoterapia tout court, curata non da scrittori o pittori o scultori o da psicologi di altre scuole, ma da specialisti in questo particolare tipo di psicoterapia: e se ne pongono i ‘fondamenti’ teoretici e pratici.

Il mio Psicoterapeuta suona il Rock! - Immagine: © Isaxar - Fotolia.com -
Articolo consigliato: Il mio Psicoterapeuta suona il Rock!

Fissiamo in ‘ART’ la sigla abbreviativa della disciplina che qui vogliamo proporre sotto il nome di ‘Arteterapia’, intesa come una nuova scuola psicoterapeutica contrassegnata da tre caratteristiche fondamentali e sue specifiche: l’uso dell’arte e delle sue tecniche come ‘strumento terapeutico’; l’approccio integrato, ove opportuno, con il training autogeno (TA) nella sua formulazione classica; la costituzione eclettica, che le permetta di attingere, sia sul piano teorico che su quello propriamente terapeutico, a diverse altre scuole, segnatamente alla Psicoanalisi, alla Psicologia analitica, alla Psicologia della Gestalt ed all’Analisi Transazionale (AT). Ne consegue come rilevante corollario che l’Arteterapia così intesa si configura fra le cosiddette ‘psicologie del profondo’ e che integra ‘tecniche analitiche’ con ‘tecniche esperienziali’.

Il presupposto principale dal quale partiamo per considerare l’ART non come una ‘psicoterapia rieducativa’, con una valenza essenzialmente sociale e di recupero, ma come una ‘psicoterapia ricostruttiva di tipo psicodinamico’ è, in primis, la teoria elaborata da Freud riguardo alla funzione dell’artista: per il neurologo viennese la funzione fondamentale dell’artista è quella di mettere l’individuo in comunicazione con il suo Inconscio e di consentirgli di gustarne le fantasie «senza rimprovero e senza vergogna», liberando profonde tensioni della psiche.

 L’arte quindi per Freud rappresenta uno dei mezzi più adeguati per tollerare l’esistenza; come una sfera posta tra Eros e Thanatos, rappresentante una soddisfazione del desiderio sostitutiva, non ossessiva né nevrotica: una sorta di passaggio, di via regia verso l’inconscio, come il sogno. Oltre al contributo di Freud, ci sembra opportuno, per attribuire all’arte una valenza terapeutica, far riferimento all’operazione, considerata da taluni scandalosa, di desacralizzazione dell’artista in quanto tale effettuata dalla Chasseguet-Smirgel: operando infatti una smitizzazione dell’artista, la studiosa contribuisce non poco a ravvicinarcelo, a stabilire un contatto, a riprendere un colloquio interrotto, o forse a iniziarlo in quanto miticamente fantasticato e mai realmente esistito. Ricordandoci che tutti condividiamo gli stessi meccanismi psichici, sia conflitti che angosce, è possibile stabilire una continuità tra il fruitore e l’artista, rendendo così reale la comunicazione, anche se difficile e fluttuante nelle sue misteriose e fantasmagoriche valenze simboliche e sovratemporali.

In questo senso si comprende come l’approccio psicoterapeutico ricostruttivo, e in particolare quello psicoanalitico, rappresenti uno degli strumenti più validi per ritrovare l’artista che è in noi, ovvero la nostra parte creativa, che è in grado di metterci in contatto con il nostro inconscio e che attraverso la produzione di opere creative lato sensu ci permette di analizzare le nostre angosce e i nostri conflitti interiori. Infatti ponendo l’artista, idest il creatore, in una posizione di pseudo-privilegio, in realtà lo chiudiamo in un’inaccessibile turris eburnea, e così facendo lo emarginiamo e lo alieniamo; ma al prezzo di emarginare e alienare da noi quella parte di noi stessi che è la dimensione estetica e creativa nella sua valenza catartica e sublimativa. La possibilità di dare all’altro una valenza terapeutica e di considerarci artisti potenziali — lato sensu, obviously: idest nel senso di ‘creatività’ — ci è offerta anche dal fatto che nell’arte contemporanea è l’artista stesso che infrange il proprio ruolo, smitizzando la propria persona e il proprio fare artistico, parzialmente annullando, in questo modo, la distanza dal fruitore d’arte e contravvenendo così a quell’immagine che noi gli attribuiamo.

È grazie proprio a questi presupposti teorici che è possibile costituire dei gruppi terapeutici in cui ognuno esprima la personale creatività per conoscere meglio il proprio mondo inconscio e per cercare, conoscere ed interpretare, con l’aiuto del terapeuta, le proprie problematiche.

 Leggi la seconda parte dell’articolo: Prassi dell’Arteterapia.

 

BIBLIOGRAFIA: 

  • Caterina Camporesi, Psicoanalisi, Creatività, Interpretazione, intervento al Convegno Psiche e Scrittura, a cura dell’associazione culturale “Sguardo e Sogno” e del Comune di Firenze, Firenze, 14/II/1998
  • Jeanine Chasseguet-Smirgel, Creatività e perversione, Milano, Raffaello Cortina Editore, 1987
  • Jeanine Chasseguet-Smirgel, Per una psicoanalisi dell’arte e della creatività, Milano, Raffaello Cortina Editore, 1989
  • Max Lüscher, La terapia di alleggerimento, in “Babele”, II, 7, 1997, pp. 9-10
  • Flavio Manieri, Psicoanalisi e arte, Introduzione a S. Freud, Psicoanalisi del genio, Roma, Newton Compton Editori, 1977
  • Marco Manzoni (a cura di), Creazione e mal-essere, Milano, Guerini e Associati, 1989
  • Joyce McDougall, Eros. Le deviazioni del desiderio, Milano, Raffaello Cortina Editore, 1997
  • Marc Muret, Arte-terapia, Como, RED Edizioni, 1991
  • Roberto Pasanisi, Recensione a Ivan Fónagy, La ripetizione creativa. Ridondanze espressive nell’opera poetica, Dedalo, Bari, 1982, in “Annali dell’Istituto Universitario Orientale” Sezione Romanza, XXVIII, 1, 1986, pp. 407-410
  • Roberto Pasanisi, La forma della bellezza. Intorno alla genesi della lirica moderna: uno studio psicoanalitico, in “Gradiva” (New York, U.S.A.), VI, 2, 1996, pp. 97-105
  • Roberto Pasanisi, Arteterapia e Training autogeno: un approccio psicoterapeutico integrato, in “SIPE (Societé Internationale di Psychopathologie de l’Expression) Newsletter” (Paris, France), 21, 2000, p. 4
  • Roberto Pasanisi, Training in Artherapy with Autogenic Training, in “International Networking Group of Art Therapists” (Los Angeles, USA), XIII, 1, 2000, p. 14
  • Roberto Pasanisi, Recensione a Marco Manzoni (a cura di), Creazione e mal-essere, Milano, Guerini e Associati, 1989, in “Psiconline” (www.psiconline.it), 7/X/2000, www.psiconline.it/comunicati_stampa/libreria.htm
  • Roberto Pasanisi, Le «muse bendate»: la poesia del Novecento contro la modernità, Pisa – Roma, Istituti Editoriali e Poligrafici Internazionali, 2000 (Prefazione di Constantin Frosin; Postfazione di Carmine Di Biase)
  • Roberto Pasanisi, Una nuova scuola psicoterapeutica in Italia: l’Arteterapia, in “Ecomind” (www.ecomind.it), 7/X/2000, www.ecomind.it/Sezioni/Articoli/Articoli.html
  • Roberto Pasanisi, O noua scoala psihoterapeutica in Italia: Arte-Terapia [Una nuova scuola psicoterapeutica in Italia: l’Arteterapia], in “Akademia” (revista de cultura), Galati (Romania), II, 7-8, 2001, p. 37 (traduzione in Rumeno di Constantin Frosin)
  • Roberto Pasanisi, Una nuova scuola psicoterapeutica in Italia: l’Arteterapia, in “Psychomedia” (www.psychomedia.it), 12/VII/2001, www.psychomedia.it/pm/arther/art-ther/scuola.htm
  • Roberto Pasanisi, L’Arteterapia in Italia, in “Attiva Mente” (www.attivamente.net), agosto 2001, www.attivamente.nett/Am-Relazioni.htm#P1199_162768
  • Robin Philipp, Metred Healthcare, in “Poetry Review”, 85, 1, 1995, pp. 58-59
  • Robin Philipp, The links between poetry and healing, in “The Therapist”,, III, 4, 1996, p. 15
  • Robin Philipp, Poetry helps healing, in “The Lancet”, 347, 1996, pp. 332-333
  • Robin Philipp, Evaluating the Effectiveness of the Arts in Healthcare, in Charles Kaye – Tony Blee (a cura di), The Arts in Health Care. A Palette of Possibilities, London and Bristol (Pennsylvania), Jessica Kingsley Publishers, 1997, pp. 250-261
  • Platone, Politeía, 376e-417b (Platonis Opera, recognovit brevique adnotatione critica instruxit Ioannes Burnet, tomus IV, Oxford, Oxford University Press, 197821)
  • Jean-Luc Sudres, L’Art-Thérapie: actualités d’un concept et d’une pratique,  www.centrostudiarteterapia.org/products.htm, 1/V/2001
  • Bianca Tosatti (a cura di), Figure dell’anima. Arte irregolare in Europa, Milano, Mazzotta, 1998
  • Diane Waller, Towards a European art therapy. Creating a profession, Buckingam – Philadelphia, Open University Press, 1998
  • Diane Waller – Jacky Mahony (a cura di), Treatment of Addiction. Current issues for arts therapies, London – New York, Routledge, 1999

 

SITOGRAFIA: 

  • www.arttherapy.org (A.A.T.A., American Art Therapy Association)
  • www.atcb.org (A.T.C.B., Art Therapy Credentials Board)
  • www.centrostudiarteterapia.org (C.I.S.A.T., Centro Italiano Studî Arte-Terapia)
  • http://forums.behavior.net/forums/jnjbbs.cgi?config=artstherapy&uid=nC1M8.user
  • http://guide.supereva.it/scrittura_creativa/ (“Supereva” – guide)
  • www.iamaonline.org (I.A.M.A., International Arts-Medicine Association)
  • http://mageos.ifrance.com/art-therapy/art-therapy/sipe.htm (S.I.P.E., Societé Internationale de Psychopathologie de l’Expression et d’Arthérapie)
  • http://www.societyartshealthcare.org/ (Society for the Arts in Healthcare)
  • http://www.users.dircon.co.uk/~poets/ecarte.html (ECArTE)
  • http://www.u-a-f.org/sipe_gb.php/ (Universal Art Forum)

 

Liste di Discussione: 

  • http://lists.centrostudiarteterapia.org/mailman/listinfo/cisat-arteterapia
  • www.centrostudiarteterapia.org (C.I.S.A.T., Centro Italiano Studî Arte-Terapia)

 

Riviste:

  • “American Art Therapy Association Newsletter” (Mundelein, Illinois, USA)
  • “Artherapy (Journal of the American Art Therapy Association)” (Mundelein, Illinois, USA)
  • “International Arts-Medicine Association Newsletter” (Bryn Mawr, Pennsylvania, USA)
  • “Newsletter de la SIPE (Societé Internationale di Psychopathologie de l’Expression)” (Pau, France)

 

Psilocibina e funghi allucinogeni: bad trip? Good trip!

Psilocibina e funghi allucinogeni: bad trip? Good trip! - Immagine: © 2012 Costanza Prinetti -

Oggi parleremo di una vecchia diatriba nata tra coloro che ben pensano e chi, invece, sceglie di ‘pensare bene’. Assumere droghe produce serenità o crea danni cerebrali irrimediabili? A quanto pare, prendere alcune sostanze psichedeliche produce effetti sorprendenti!

Recentemente, è stato scoperto che le droghe, come i funghetti allucinogeni, migliorano la rievocazione di ricordi personali e di emozioni positive. Un gruppo di scienziati, autori di due lavori pubblicati rispettivamente su Proceedings of the National Academy of Sciences e sul British Journal of Psychiatry, ha dimostrato quali sono gli effetti della psilocibina, il principio attivo dei funghi allucinogeni, ovvero diminuire l’attività cerebrale e aiutare le persone a mantenere i ricordi più vividi. Questa sostanza è stata ampiamente utilizzata nella psicoterapia degli anni ’50, ma, fino ad ora, il razionale biologico non è mai stato adeguatamente indagato.

La nicotina migliora la memoria ed aiuta a combattere i Deterioramenti Cognitivi. Immagine: © dalaprod - Fotolia.com -
Articolo consigliato: La nicotina migliora la memoria ed aiuta a combattere i Deterioramenti Cognitivi.
Un gruppo di volontari, inseriti in uno scanner di risonanza magnetica funzionale, è stato spinto a pensare a dei ricordi associati a forti emozioni positive. Coloro che avevano assunto psilocibina valutavano i loro ricordi come più vividi rispetto a coloro che avevano ingerito un placebo. Infatti, la psilocibina produceva una maggiore attività in aree del cervello che processano informazione visiva e sensoriale. L’intensità degli effetti riportati dai partecipanti, visioni di motivi geometrici, insolite sensazioni corporee e senso alterato di spazio e tempo, è correlata ad una diminuzione dell’attivazione della corteccia prefrontale mediale, area coinvolta nel processamento delle emozioni, dell’apprendimento, della memoria e delle funzioni esecutive; e in quella cingolata posteriore, avente un ruolo nella coscienza e nell’ auto-identità

Il team ha poi utilizzato i dati per valutare come la connettività funzionale tra queste due regioni cerebrali vari nel corso del tempo, e ha scoperto che la loro contemporanea deattivazione avviene attraverso una rete che le collega le due aree, chiamata Default-Mode Network (DMN), che integra funzioni cerebrali come sensazioni e ambizioni e stabilisce chi si è e come si percepisce il mondo. Quindi nel momento in cui le aree implicate non si attivano, i significati che ciascuno attribuisce agli eventi che si presentano quotidianamente sono automaticamente eliminati.

Ma nel momento in cui un comportamento è depauperato dalla valutazione attribuitagli, cosa resta? Naturalmente, solo la situazione ricordata come una immagine, un frame. Detto in termini cognitivisti, sono eliminati i Belief, ma restano gli Activating event e le Consequences. Proprio queste immagini situazionali sono esaltate dalla droga, ottenendo, di conseguenza, una “conoscenza priva di vincoli”, tipo quella sperimentata nel 1960 da Leary, acerrimo e famigerato sostenitore dell’uso di sostanze psicotrope, durante una vacanza in Messico, grazie ai “funghetti magici”.

Ora sappiamo che la deattivazione di queste regioni porta ad uno stato in cui il mondo è vissuto come strano, estraneo, nuovo, inaspettato, quindi emotivamente positivo. Si creano i così detti “trip”, in cui la realtà diventa un sogno, l’immaginazione si mostra come straordinaria realtà, e lo stupore, misto alla felicità del nuovo, si impossessa della mente.

La psilocibina, inoltre, potrebbe fungere da antidepressivo, poiché esercita una riduzione dell’attività della mPFC, che risulta eccessiva in coloro che sono affetti da depressione, e da ansiolitico poiché i partecipanti che mostravano ansia, dopo la sostanza, stavano meglio. Inoltre, ha un effetto a lungo termine, nel senso che a distanza di settimane i partecipanti all’esperimento sostenevano di esperire ancora emozioni positive.

Per concludere, potrebbe essere un buon adiuvante alla psicoterapia, come si faceva nello scorso secolo, naturalmente utilizzando il principio attivo a scopo terapeutico.

Cosa ne dite?

 

 

BIBLIOGRAFIA: 

La percezione di controllo e padronanza: effetti sulle capacità cognitive.

– Rassegna Stampa – 

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze PsicologicheIl nostro senso di padronanza e controllo varia continuamente e questo può influenzare le nostre capacità cognitive.

Lo sostiene un gruppo di ricercatori della North Carolina State University che ha osservato le variazioni nella sensazione soggettiva di controllo in un gruppo di anziani con un età media di 74 anni. 

I partecipanti all’esperimento sono stati testati ogni 12 ore per due mesi consecutivi con domande sul loro senso di padronanza e competenza nel raggiungere obiettivi prefissati; contemporaneamente venivano anche misurate le loro capacità cognitive di memoria e ragionamento induttivo.

I risultati indicano che il senso di padronanza può variare molto rapidamente, anche nell’arco della stessa giornata e queste variazioni corrispondono a fluttuazioni nelle prestazioni cognitive. Sembra in particolare che sia l’incremento del senso di padronanza e controllo a provocare il miglioramento di alcune funzioni cognitive, e non viceversa.

Più precisamente, in chi ha riferito di avere normalmente uno scarso senso di padronanza, un aumento ha facilitato il problem solving; mentre in chi ha riferito di avere normalmente un buon senso di controllo un ulteriore incremento ha migliorato le prestazioni nei compiti di memoria. Questi risultati, dicono i ricercatori, sono importanti nello studio dei processi dinamici di invecchiamento cognitivo.

 

 

BIBLIOGRAFIA: 

Co-Rumination: un passatempo da ragazze…

 

Ragazze, cosa facciamo oggi pomeriggio dopo la scuola? Co-ruminiamo insieme!

Co-Rumination: un passatempo da ragazze... - Immagine: © Arto - Fotolia.com Chiunque sia stato adolescente sa benissimo come, durante quest’età, i compagni e il gruppo dei pari superi l’ambiente familiare nell’essere il primo “fornitore” di supporto sociale. I ragazzi stanno con i ragazzi, si riconoscono in un gruppo di appartenenza molto forte, tanto coeso all’interno e tanto “discriminante” nei confronti degli altri gruppi.

La letteratura è concorde nel considerare il gruppo dei pari in adolescenza come uno dei motori più consistenti di supporto (e talvolta di ostacolo) per la costruzione dell’identità individuale dei ragazzi.

 

Rumination - Immagine: © Johan van Beilen - Fotolia.com
Articolo consigliato: "Come o Perché? E le conseguenze per il pensiero"

Uno dei fenomeni recentemente studiati in letteratura è la cosiddetta co-rumination. Termine coniato da Rose (2002) viene definito come “eccessiva discussione di un problema all’interno di relazioni strette, caratterizzato da un mutuo incoraggiamento a speculare sul problema in questione in termini di cause e conseguenze e a “fare i conti” con le emozioni negative”.

Sembra che le ragazze siano più inclini a co-ruminare tutte insieme, vista la loro maggiore tendenza alla self-disclosure (parlare di sé e dei propri sentimenti) con le amiche dello stesso sesso (McNells & Connolly, 1999) e perseguono relazioni amicali strette e profonde (Camarena, Sarigiani & Peterson, 1990).

Fusione Pensiero Azione - Immagine: © ktsdesign - Fotolia.com
Articolo consigliato: Fusione Pensiero Azione

Sebbene questi ultimi due aspetti siano considerati come fattori di protezione allo sviluppo di disturbi psicopatologici (in particolare di tipo internalizzante, ansia, depressione e psicosomatici su tutti), sembra che il co-ruminare mantenga le ragazze maggiormente vulnerabili a sviluppare ansia e depressione, rispetto ai ragazzi.

Vediamo le caratteristiche salienti della co-rumination:

  • È simile alla self-disclosure, in quanto implica autoapertura, condivisione e intimità;
  • È anche simile alla rumination (di cui abbiamo già parlato qui su State of Mind);
  • È focalizzata sugli aspetti negativi dell’esperienza (“il ragazzo mi ha lasciato”, “i miei non mi lasciano fare niente”, “i miei non mi fanno usare facebook”, la mia amica mi ha tradito”, “lei è invidiosa” etc…);
  • È eccessiva, nel senso che prosegue molto più del necessario e non si concentra sugli aspetti che permetterebbero alle ragazze di trovare una soluzione (assume, pertanto, la forma WHY,);
  • A differenza della rumination, però, è un fenomeno sociale, stringe e annoda il gruppo, è condiviso e questo è rinforzato dal feedback sociale che riceve. Pensiamo alla reazione delle amiche quando una ragazza chiede loro di uscire e di parlare di un problema o di una situazione che la fa sentire a disagio o triste…

Pochissimi dati in letteratura, tanto che per ora tale dato assume la forma speculativa, la considerano una strategia di coping, di fronteggiamento dei problemi, in particolare per le esperienze stressanti.

Ma quali sono gli effetti del co-ruminare in compagnia? Le ragazze sembrano più vulnerabili a sviluppare sintomi di tipo ansioso-depressivo. La co-ruminazione potrebbe contribuire a spiegare perché le giovani ragazze/donne siano più a rischio di sviluppare questo tipo di problematiche.

Quindi, care giovani ragazze, lamentatevi, esprimetevi, condividete, confidatevi, insomma, co-ruminate… ma non esagerate!

 

 

BIBLIOGRAFIA: 

  • Camarena P.M., Sarigiani P.A. & Peterson A.C. (1990). Gender-specific pathways to intimacy in early adolescence. Journal of Youth and Adolescence. 19: 19-32.
  • McNells L.R. & Connolly J.A. (1999). Intimacy between adolescent friends: age and gender differences in intimate affect and intimate behaviors. Journal of Research on Adolescence. 9: 143-159.
  • Rose A.J. (2002). Co-rumination in friendships of girls and boys. Child Development. 73: 1830-1843.
  • Tompkins T.L., Hockett A.R., Abraibesh N. & Witt J.L. (2011). A closer look at co-rumination: gender, coping, peer functioning and internalizing/externalizing problems. Journal of Adolescence. 34: 801-811.

Un Matrimonio Perfetto? addestrare il partner come fosse un delfino.

 

Il segreto per una relazione perfetta? Addestrare il proprio partner…come un delfino.

Un Matrimonio perfetto? Addestrare il partner come fosse un delfino. - Immagine: © Lorelyn Medina - Fotolia.com - Siete stufe di sbraitare per la tavoletta alzata? Non c’è verso di convincere vostro marito a chiudere il tubetto del dentifricio? In “Un matrimonio perfetto”, pubblicato negli USA nel lontano 1961, Winifred Wolfe con uno stile civettuolo, frizzante e molto divertente ci rivela il segreto per plasmare il partner ideale. Il libro si legge d’un fiato e regala non poche risate.

La giovane Chantal, trasferitasi a New York, si innamora di uno scapolo impenitente e riesce a farsi sposare. Dopo un primo periodo idilliaco iniziano però i primi screzi: possibile che suo marito non abbia mai voglia di accompagnarla a scegliere le tende per il salotto?! Ma per fortuna che c’è Maman, pronta a svelare alla figlia il trucco per ottenere un matrimonio perfetto: addestrare il proprio partner…come un cane! Sebbene il consiglio appaia bizzarro, funziona! Fino a quando il marito non scopre l’inghippo, e allora cominciano i guai.

L’idea vi pare assurda? Provare per credere! La giornalista Amy Sutherland in un celebre articolo pubblicato sul The New York Times (2006) racconta di come, stanca dei calzini disseminati per casa dal marito, abbia deciso di applicare nei suoi confronti, con grande successo, una tecnica utilizzata per addestrare i delfini, la L.R.S (Least Reinforcing Scenario).

I nostri nonni si amavano di più? Evoluzione o declino del matrimonio? - Immagine: © alexcoolok - Fotolia.com -
Articolo consigliato: I nostri nonni si amavano di più? Evoluzione o declino del matrimonio?

L.R.S. consiste nel premiare (rinforzare) un comportamento desiderato ed ignorare un comportamento irritante, basandosi sul principio che se un comportamento non provoca alcuna risposta, si estingue perché risulta essere un inutile dispendio di energia.

Pertanto se il vostro obiettivo è rendere il vostro partner più ordinato, non dovete fare altro che ignorare la sua biancheria gettata a terra (sottoponendovi ad una grande prova di pazienza) e rinforzarlo prima ogni qual volta si avvicinerà al cesto della biancheria sporca, successivamente solo quando getterà i boxer nel cesto, fino al gran finale: premiarlo esclusivamente quando i suoi boxer verranno lanciati direttamente in lavatrice. Questa tecnica di condizionamento si chiama modellaggio per approssimazioni successive e oltre ad essere alla base di qualsiasi programma di addestramento animale viene utilizzata anche, per esempio, per educare i bambini.

L’alternativa spesso messa in atto, cioè strillare come un’isterica “Te l’ho detto mille volte di non lasciarmi in giro per casa la tua roba!”, risulta invece meno efficace poiché è vero che la punizione (cioè uno stimolo avversivo) riduce la probabilità che l’altro metta in atto il comportamento tanto odiato, ma ha effetto temporaneo e soprattutto non gli fornisce indicazioni su quale sia il comportamento corretto; in pratica gli si dice cosa non deve fare, ma non quello che dovrebbe fare. Quindi il modo migliore per plasmare il comportamento di qualcuno è rinforzarne le azioni desiderate. I rinforzi da utilizzare, cioè quegli stimoli che aumentano la probabilità che venga messa in atto una certa risposta, possono essere molteplici: dai cosiddetti rinforzi primari (es. cibo, contatto sessuale) a quelli generalizzati (es. manifestazione d’affetto) a quelli simbolici (es. denaro). Il più adatto? A voi la scelta!

E la prossima volta che la vostra ragazza esclamerà “bravo il mio cucciolone!” grattandovi amorevolmente sotto il mento…drizzate le orecchie!

 

 

BIBLIOGRAFIA:  

Schema Therapy: dal Training Internazionale di Roma – (#2 Terapia)

Di Silvia Taddei.

Schema Therapy: dal Training Internazionale di Roma (#2 Terapia). - Immagine: © smilewithjul - Fotolia.com -Dopo aver parlato nella prima parte dell’articolo della fase di Assessment (valutazione), parliamo adesso della seconda fase: quella di cambiamento ovvero la Terapia.

Definendo obiettivi, modalità e tempi.

Oltre alle tecniche tratte dalla Terapia Cognitiva Standard, utili per costruire un dialogo interno che favorisca la motivazione per il successivo lavoro esperienziale, sono state presentate le numerose tecniche per lavorare sul problema emotivo mentre viene attivato in seduta. Tutte le tecniche e strategie terapeutiche oltre che attraverso esempi clinici e la visione di video, sono state apprese attraverso un lavoro di role play svolto fra i partecipanti al training.

Le tecniche sicuramente più interessanti e che attraverso la pratica si comprende siano l’aspetto più pratico e utile della schema therapy sono quelle esperienziali. Ovvero le tecniche immaginative e di role play (Dialoghi con gli schemi, i mode e tecnica delle sedie vuote); la relazione terapeutica che diventa principio cardine della terapia e che spesso guida il lavoro del terapeuta. Il reparenting, in cui il terapeuta aiuta il paziente a soddisfare ed esprimere i bisogni che non sono mai stati soddisfatti nel rispetto dei confini della relazione terapeutica e che è forse l’aspetto più peculiare e più dibattuto della Schema Therapy.

Schema Therapy: dal Training Internazionale di Roma. - Immagine: © puckillustrations - Fotolia.com -
Articolo consigliato: Schema Therapy: dal Training Internazionale di Roma (#1 Assessment)

Tuttavia durante lo studio di Arnoud Arntz con pazienti Borderline citato sopra, l’aspetto definito dai pazienti più utile è risultato essere proprio questo;

Utilizzando tecniche immaginative, il Terapeuta chiede di entrare nell’immagine e parla con le persone che hanno fatto del male o che non hanno accudito il paziente quando era piccolo e che hanno favorito l’insorgere degli schemi, sia con quelle che continuano a rinforzarli nella vita quotidiana e aiuta il paziente a fare lo stesso nell’arco della terapia. Attraverso questi numerosi esercizi immaginativi il paziente può spesso per la prima volta iniziare a sentire di avere dei diritti e che i propri bisogni hanno valore.

Infatti uno degli aspetti spesso più problematici per i pazienti è che il messaggio che essi hanno ricevuto da sempre è che i loro bisogni, diritti o emozioni non hanno valore e spesso essi sono stati puniti nel momento in cui provavano ad esprimerli. Se tutto ciò è capitato da quando essi erano molto piccoli spesso la persona può avere sviluppato schemi quali: deprivazione emotiva, inadeguatezza, fallimento, sfiducia e abuso, sottomissione, vulnerabilità. Tutti schemi molto importanti nei pazienti che soffrono di disturbo borderline ma non solo. Comprendere quindi che i propri bisogni, diritti e le proprie emozioni sono importanti e che essi meritano di ricevere quello che non hanno mai ricevuto è un passo fondamentale verso l’inizio del cambiamento.

Durante gli esercizi immaginativi che richiamano ricordi negativi dell’infanzia, spesso traumatici, quindi non è insolito che il terapeuta chieda al paziente di poter entrare nell’immagine che sta esperendo, apportando quindi delle modifiche al ricordo stesso. Alleandosi con il paziente, proteggendolo e insegnandogli ad ottenere almeno una parte di ciò di cui è stato privato emotivamente. Tali esercizi sembra che permettano di richiamare ricordi immagazzinati nella memoria episodica a cui sono collegati vissuti emotivi molto intensi. Apportando delle modifiche alle immagini e determinando una modificazione delle emozioni, la nuova esperienza sembra possa integrarsi con il ricordo originariamente archiviato, modificando il ricordo stesso e il vissuto emotivo ad esso collegato.

Tale vissuto emotivo, risperimentato solitamente nel presente, da adulti, in situazioni anche vagamente simili a quelle che hanno originariamente dato vita agli schemi maladattivi, una volta modificato tenderà ad essere diverso anche nel presente in quelle situazioni in cui il paziente solitamente soffriva, permettendogli la messa in atto di comportamenti adattivi e più funzionali. Questo risultato non è immediato ma avviene nel tempo. Questa tecnica viene chiamata tecnica del Rescripting. Sembra che il paziente possa lentamente interiorizzare la figura di un adulto sano (il Terapeuta) che sia in contatto con le proprie emozioni e bisogni e che sia anche in grado di soddisfarli in modo adattivo. Tale processo di interiorizzazione quando i bisogni vengono soddisfatti adeguatamente nell’infanzia e nell’adolescenza avviene in maniera naturale per il bambino. Quando invece essi non vengono soddisfatti l’adulto interiorizzato invece che sano è spesso punitivo, critico, esigente o addirittura abusante. Negli esercizi immaginativi una volta individuata la parte definita Genitore Punitivo (o critico, o esigente, etc.) il Terapeuta può dialogare in maniera decisa e spesso contrastarlo prendendo le difese del bambino.

Analisi Critica della Schema Therapy - Immagine: © robodread - Fotolia.com
Leggi l’articolo: “Un’analisi critica della Schema Therapy”

La Schema Therapy cerca attraverso il lavoro terapeutico di fare in modo che sia il paziente stesso a poter contrastare questa parte critica e a prendersi cura del mode di quella parte di se che viene definita il Bambino Vulnerabile.

Assumendo il ruolo di “adulto funzionale”, il terapeuta fornisce quindi al paziente un esempio per costruire un “Adulto Funzionale” che si prenda cura del bambino che è in lui nella vita quotidiana. L’aspetto centrale del reparenting è il fatto che i pazienti iniziano ad ascoltarsi, a concentrarsi sui propri bisogni, bisogni che da sempre sono stati criticati, e iniziano soprattutto a desiderare la felicità per sé .

Tutto questo è chiaramente contornato dall’altro aspetto peculiare della schema therapy: la relazione terapeutica, all’interno della quale con il confronto empatico il terapeuta mostra comprensione per le motivazioni che spingono il paziente a perseverare nel mantenimento dello schema. Il terapeuta si sforza di comunicare empatia, calore, genuinità, fattori definiti da Rogers (1951) elementi aspecifici di una terapia efficace. Lo scopo è creare una atmosfera nella quale il paziente, sentendosi accettato e al sicuro, possa instaurare un legame significativo con il terapeuta. Il terapeuta si relaziona al paziente assumendo un’ atteggiamento di apertura e confidenza. Questo tipo di relazione terapeutica sembra essere molto vicino al concetto di “sintonizzazione affettiva” tra madre e bambino di Stern: consiste nell’esecuzione di comportamenti che esprimono la qualità di un sentimento condiviso senza tuttavia imitarne l’esatta espressione comportamentale.

Vorrei concludere con una frase di Young che a mio avviso sintetizza il processo di cambiamento che avviene durante la schema therapy:

“il compito più importante che possiamo assumerci nella nostra vita è scoprire le nostre naturali attitudini e inclinazioni. Rispetto a tale obiettivo, la guida migliore è rappresentata dalle emozioni e dalle sensazioni corporee. Quando ci impegniamo in attività o in relazioni che soddisfano le nostre inclinazioni naturali ci sentiamo bene: il nostro corpo è appagato e proviamo piacere e gioia”.

 

 

BIBLIOGRAFIA:

  • Jeffrey E.Young ; Janet S.Klosko Schema Therapy
  • Jeffrey E.Young; Janet S.Klosko Reinventa la tua vita.

Apprendimento del linguaggio nei bambini: una fase pre-linguistica tra i 6 e i 9 mesi.

– Rassegna Stampa – 

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze PsicologicheUn nuovo studio apparso su Proceedings of the National Academy of Sciences disconferma l’idea che i bambini incomincino a comprendere il significato di comuni vocaboli solo verso il primo anno di vita.

Si pensa infatti che i bambini tra i 6 e 9 mesi attraversino una fase “pre-linguistica” durante la quale, anche se in grado di percepire e comprendere gli elementi dei suoni della loro lingua nativa, non possiedono ancora la capacità di cogliere i significati trasmessi dal discorso. Secondo Elika Bergelson e Daniel Swingley, due ricercatori dell’ University of Pennsylvania, i tentativi fatti fino ad ora per determinare l’età in cui i bambini escono dalla fase pre linguistica non sono stati esaustivi. I ricercatori hanno osservato il comportamento di due diversi gruppi di bambini, di 6 / 9 mesi e 10 /20 mesi, mentre osservavano su uno schermo immagini di oggetti comuni e familiari, che venivano in alcuni momenti nominati dal genitore presente all’esperimento; nel frattempo gli sguardi dei bambini venivano monitorati con un dispositivo di eye-tracking.

Secondo i ricercatori la comprensione di un vocabolo avrebbe portato i bambini a guardare più a lungo sullo schermo l’oggetto a cui si riferiva. Alla quantità di tempo passata ad osservare ciascun oggetto nominato durante l’esperimento è stata sottratta la quantità di tempo normalmente impiegata da ciascun bambino a osservare lo stesso oggetto, in questo modo si è pensato di eliminare l’errore derivante dall’attrattiva suscitata da alcuni oggetti, preferiti rispetto ad altri. Secondo i ricercatori il fatto che i bambini tra i 6 e i 9 mesi comprendano il significato di alcuni oggetti è stato dimostrato dal posarsi del loro sguardo proprio sull’oggetto nominato rispetto agli altri presenti sullo schermo ma che non venivano nominati. Questo studio dimostra inoltre che la comprensione si riferisce a vocaboli che definiscono categorie di oggetti, come “le mele” o “i nasi”, e non a oggetti specifici, e questo è proprio l’aspetto che la rende il processo di apprendimento più complicato.

I risultati di questo esperimento mostrano inoltre che le capacità di apprendimento rimangono costanti tra i 6 e i 9 mesi, non sembra quindi esserci un evoluzione in questo arco temporale; un lento incremento delle prestazioni si verifica invece nel gruppo dei bambini più grandi con un picco a 14 mesi, età in cui i bambini probabilmente comprendono la natura del compito sperimentale e lo trattano come un gioco; inoltre a questa età probabilmente intervengono variabili non direttamente misurate dall’esperimento, come una migliore capacità di categorizzazione dei vocaboli e maggiore comprensione della sintassi.

 

 

BIBLIOGRAFIA: 

La Vergogna e la Colpa nei Disturbi del Comportamento Alimentare (DCA). Cicli Emotivi e Patologia.

Dott.ssa Alessia Zoppi, Dott.ssa Chiara Spinaci.
Università di Urbino “Carlo Bo”, Dipartimento di Scienze dell’Uomo.

 

La Vergogna e la Colpa nei Disturbi del Comportamento Alimentare (DCA). Cicli Emotivi e Patologia. - Immagine: © bobyramone - Fotolia.com Le emozioni più spesso trattate nella clinica dei DCA sono la vergogna e la colpa, stati emotivi autocoscienti che affliggono l’Io.

La vergogna è un’emozione che determina reazioni psico-fisiche specifiche: non si ha più controllo del proprio corpo e della propria mente, ci si sente smascherati, spogliati e inermi davanti all’altro che ci ha “scoperti”. Questa emozione favorisce comportamenti di rispetto verso se stesso e gli altri e protegge dalla costruzione di una identità grandiosa e megalomanica; se eccessiva può bloccare il soggetto e spingerlo al ritiro sociale, scatenando senso di inadeguatezza, inferiorità, inamabilità auto-attribuita, bassa autostima. Questa emozione può essere il risultato di una valutazione percepita come interna o esterna: quando è interna il Sé giudica se stesso, con connotazioni fortemente negative e invalidanti; quando è esterna il Sé si sente giudicato dagli altri, teme lo sguardo altrui, soprattutto quando si esperisce come portatore di aspetti negativi e umilianti.

No recipes for treating eating disorders. Image: © kikkerdirk #27366320 -
Articolo consigliato: Science does not offer recipes for treating eating disorders.

La colpa è un’emozione legata a qualcosa che si è compiuto a danno di terzi o che può essere giudicato negativamente. Questa emozione è legata a giudizi, valori e morale socialmente condivisi. Mentre nella vergogna il giudizio negativo è attribuito al Sé nella sua interezza, nella colpa si assiste ad una risposta emotiva evento-specifica: l’attribuzione negativa è legata allo specifico comportamento attuato.

La letteratura sulle emozioni nei DCA è ampia ed è possibile parlare di “circoli emotivi” di mantenimento della sintomatologia.

Da una ricerca di Skarderud (2007), attuata con un intervista semistrutturata che indaga il costrutto di vergogna nell’Anoressia Nervosa (AN), è emersa una classificazione delle tipologie di vergogna esperite da soggetti anoressici. Questa emozione è sia “vissuta” come interna (auto-valutazione negativa) che come esterna (sensazione che gli altri li giudichino negativamente).

I pazienti esprimono una sensazione generale di vergogna, ma a un livello più profondo sembra che essi vivano specifiche tematiche di vergogna:

  • vergogna di alcune emozioni: dell’avidità personale, dell’invidia, della tristezza, della sensazione di grandiosità, della rabbia;
  • vergogna del fallimento;
  • vergogna del corpo: della propria apparenza e della funzione del corpo;
  • vergogna rispetto all’autocontrollo e ai comportamenti auto-distruttivi;
  • vergogna degli abusi sessuali: sensazione di inferiorità, sensazione di non aver resistito;
  • vergogna di avere un disturbo alimentare: per il problema legato al mangiare, per auto-accuse di vanità, per timore dello stigma sociale.

Nell’AN i soggetti sospendono volontariamente e forzatamente l’alimentazione, in linea con un comportamento controllante e rigido più che punitivo. Essi spostano sul corpo l’espressione di un disagio psicologico legato alla propria valutazione personale: si sentono sbagliati, inamabili, inadeguati (emozione di vergogna) ma non provano colpa, rispetto al proprio comportamento patologico. Infatti nei pazienti emergono anche degli indici elevati legati al sentimento di orgoglio (Skarderud, 2007). Per orgoglio si intende uno stato emotivo opposto alla vergogna, autoconsapevole, associato al successo sociale e ad approvazione o ammirazione da parte degli altri. Le tematiche di orgoglio nella AN sono:

  • Orgoglio generato dall’auto-controllo rispetto alla gestione e assunzione del cibo, alle diete ferree, all’attività fisica compensatoria;
  • Orgoglio generato dalla sensazione di essere straordinario, manifestato attraverso una narrativa di eccezionalità, anche grazie alla patologia;
  • Orgoglio generato dall’apparenza fisica, espresso nell’attrazione per la magrezza;
  • Orgoglio generato dalla ribellione e protesta, manifestato con difese ripetute e irremovibili della sindrome.
I Disturbi dell'alimentazione: resoconto di un convegno - SISDCA 2011 - Immagine: © DURIS Guillaume - Fotolia.com
Articolo consigliato: “I Disturbi dell’alimentazione: resoconto di un convegno – SISDCA 2011”

La tenacia e l’orgoglio verso il comportamento patologico avrebbero lo scopo di compensare la propria inadeguatezza; ma i soggetti con AN continuano a esperire le diverse tematiche di vergogna a causa dell’impossibilità di raggiungere il perfezionismo auspicato.

Sarebbero dunque contemporaneamente attivi il circolo “vergogna-orgoglio” e il circolo preferenziale “vergogna-vergogna”.

Nel circolo “vergogna-vergogna” questa emozione, come causa dell’innesco di sintomi, è legata a: fattori svalutativi personali, gestione inadeguata delle emozioni, spostamento sul corpo delle emozioni negative. La vergogna come effetto è invece collegata a tutte le tematiche di vergogna sopracitate.

Nel circolo “vergogna-orgoglio” i sentimenti di vergogna iniziali sono i medesimi del circolo precedente ma la risposta da parte del soggetto ha lo scopo di garantire elevati livelli di orgoglio. Questo secondo circolo è interessante poiché può spiegare alcuni comportamenti tipici dei soggetti con AN in trattamento, come ridotta motivazione alla terapia e la difesa del sintomo.

Rifacendosi allo studio di Hayaki et al., (2002) nella Bulimia Nervosa (BN) i soggetti esperiscono emozioni fortemente destabilizzanti di colpa, oltre che vergogna, legate al meccanismo patogeno “abbuffata- eliminazione”. Si può dire che in questi pazienti il circolo emotivo sia caratterizzato da sentimenti di “vergogna-colpa”.

Disturbi Alimentari - Alpbach Bologna 2011 - Immagine: © waterlilly - Fotolia.com -
Articolo consigliato: “Alpbach e Bologna: due congressi non anglofoni sui disturbi alimentari”

La compulsività e la perdita di controllo nell’orgia bulimica alimenta emozioni negative. La colpa si manifesta come effetto del comportamento “abbuffata-eliminazione”, ma è anche un fattore eziologico poiché si riscontra nei pazienti con BN una vulnerabilità personale a sperimentare emozioni di colpa.

Colpa e vergogna possono inoltre spiegare la comorbilità esistente tra DCA e altre sindromi (Grabharn et al., 2006; Hayaki, et al., 2002): depressione, ansia e DCA sono i quadri più spesso associati all’emozione di vergogna globale interiorizzata.

In presenza di comorbilità tra DCA e Fobia Sociale è possibile pensare che l’emozione di vergogna legata al corpo e al Sé sia associata al timore di essere osservati, giudicati negativamente e “scoperti” dagli altri. Il soggetto vive la vergogna rispetto al Sé negativo e teme di essere giudicato dall’esterno.

Nel caso di comorbiltà tra quadri depressivi e DCA è possibile pensare che il soggetto giudichi in modo assolutamente negativo il Sé e perda qualsiasi aspettativa e speranza. La vergogna si esperisce a causa di fattori interni costituzionali sentiti come negativi.

Edimburgh - Immagine: Creative Commons - Attribution: By Yo (foto hecha por mí) [GFDL (www.gnu.org/copyleft/fdl.html) or CC-BY-SA-3.0-2.5-2.0-1.0 (www.creativecommons.org/licenses/by-sa/3.0)], via Wikimedia Commons
Articolo consigliato: EDRS 2011: le neuroscienze all’assalto dei disturbi alimentari.

La comorbilità dei DCA con il Disturbo Borderline di Personalità e del Controllo degli Impulsi potrebbe essere spiegata dal circolo emotivo “vergogna/colpa-rabbia” presente nei soggetti Shame-Prone. Essi non sono consapevoli dell’emozione esperita e tendono a esternalizzarla per evitare il contatto con la negatività del Sé: all’emergere di elevati livelli di vergogna e colpa il soggetto reagisce con comportamenti rabbiosi e attribuendo la causa dell’emozione a eventi o persone esterne, con esiti catastrofici sulle relazioni interpersonali (Meneghini, 2008).

Concludendo, le emozioni sono sia “attivatori” che “meccanismi di mantenimento” della sintomatologia. Colpa e vergogna sembrano avere un ruolo specifico come attivatori, in quanto nei DCA sembra esserci una vulnerabilità a sperimentare tali emozioni e difficoltà nella gestione e riconoscimento delle stesse; ma si dimostra anche come le stesse emozioni possano essere fattori di mantenimento ed effetti del comportamento patologico, paradossalmente attuato nel tentativo di allontanarle.

 

 

BIBLIOGRAFIA: 

  • GRABHORN et al., (2006). Social Anxiety in Anorexia Nervosa and Bulimia Nervosa: the mediating role of shame. Clin. Psychol. Psychother., 13, pp.12–19.
  • HAYAKI, J., FRIEDMAN, M.A., BROWNELL, K.D. (2002). Shame and severity of bulimic symptoms. Eating Behaviors, 3, pp. 73–83.
  • MENEGHINI, A.M., (2008). Quando la colpa è costruttiva. DIPAV, 23, pp. 103-120.
  • SKARDERUD, F. (2007). Shame and pride in anorexia nervosa: a qualitative descriptive study. European Eating Disorders Review, 15, pp. 81-97.
cancel