La Dismorfofobia identifica una condizione in cui una persona mostra preoccupazione per un difetto fisico che può essere presunto o reale, in quest’ultimo caso l’importanza data al difetto è di gran lunga eccessiva. Le lamentele possono riguardare qualsiasi parte del corpo, le più frequenti sono:
pelle
peli e capelli
naso e occhi
gambe e ginocchia
mammelle e capezzoli
pancia, labbra, struttura corporea e volto
organi genitali, guance, denti ed orecchie
mani, dita, braccia e gomiti
natiche e piedi
spalle, collo e sopracciglia
La persona può preoccuparsi di un unico difetto fisico o riportare preoccupazione per più parti del corpo contemporaneamente. L’esordio può avvenire fra i 10 e i 20 anni, è solitamente graduale e può diventare cronico se non trattato. Lo stato di disagio provato può essere profondo ed intenso, associato a grandi difficoltà nel controllare le preoccupazioni per il difetto, tanto che i pensieri relativi possono occupare gran parte della giornata. In questa condizione di forte disagio spesso il funzionamento sociale della persona risulta compromesso in tutte o quasi le sfere della sua vita.
BIBLIOGRAFIA:
American Psychiatric Assaciation. Diagnostic and Statisticai Manual of Mental Disorders. 4th ed. Washington, DC: American Psychiatric Association, 1995.
Le Metafore Psicologiche nei Cantautori Italiani
Tu prova ad avere un mondo nel cuore e non riesci a esprimerlo con le parole. Fabrizio de Andrè, Un matto, 1971
Il cantautore è colui che scrive canzoni e le canta. La parola contiene il termine autore, che deriva dal verbo latino augeo, che significa accrescere, aumentare. L’autore infatti, con la propria opera accresce la realtà. L’Italia vanta una ricca e importante tradizione cantautorale, nata tra gli anni sessanta e settanta e che ancora oggi continua. Sui testi dei cantautori si potrebbero scrivere trattati interi (alcuni ne sono stati scritti), ma qui vorrei concentrarmi sulle metafore che caratterizzano le canzoni d’autore, come del resto le sedute di psicoterapia.
L’uso delle metafore in letteratura si riferisce alla fusione di due o più immagini o idee allo scopo di creare una nuova esperienza, un nuovo ordine e significato. La metafora è una trasposizione simbolica di immagini, che consiste nell’utilizzo di un’immagine che ne rappresenta un’altra.
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In ambito psicologico Gregory Bateson (1972) sottolineava come l’individuo sano di mente, si distinguesse dall’individuo psicotico, per la capacità di ragionare per metafore e di pensare in termini di “come se”. Secondo la teoria della metafora concettuale, la metafora non è solo un elemento di estetica del linguaggio, ma è un modo di organizzare il nostro mondo (Lakoff e Johnson, 2004), un modo di portare “a terra” concetti astratti emozioni, desideri, pensieri.
La metafora, utilizzata dal paziente o dal terapeuta, è considerata di grande importanza in ambito psicoterapico e viene studiata nell’analisi dei trascritti delle sedute di diverso orientamento. L’uso delle metafore rappresenta ad esempio uno degli elementi fondamentali del cosiddetto “modello conversazionale” della psicoterapia interpersonale psicodinamica (Hobson, 1985).
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Questo modello considera la metafora come una strada che guida verso la rappresentazione del mondo interno, verso la dimensione emotiva. Hobson in Forms of feeling sottolinea come sia importante in terapia “stare con” l’esperienza immediata, pronti a ricevere le immagini che emergono, in una modalità che l’autore definisce “attitudine simbolica”. La metafora è comunemente usata dai terapeuti per fornire vitalità ad un’idea, per amplificare la comprensione di un’esperienza o di un concetto, e per approfondire il livello di scambio emotivo tra il paziente e il terapeuta. Ogni volta sia possibile, il terapeuta dovrebbe cogliere le metafore importanti utilizzate dal paziente ed aiutare l’esplorazione e l’amplificazione dello stato d’animo correlato.
Utilizzano molte metafore soprattutto i cantautori più visionari come Francesco De Gregori, che si è ispirato soprattutto all’inizio al maestro americano Bob Dylan, o come Vinicio Capossela. Alcune metafore contenute nelle canzoni possono trovare uno spazio e un senso nel lavoro psicoterapico. Vediamone alcune.
“Nino non aver paura di sbagliare un calcio di rigore, non è mica da questi particolari che si giudica un giocatore, un giocatore lo vedi dal coraggio, dall’altruismo e dalla fantasia”
Ritornello indimenticabile de La leva calcistica della classe 1968 (1980) di Francesco De Gregari (come dicevo prima grande utilizzatore di metafore, anche più oscure di questa), che rappresenta la vita e le sue sfide con una metafora calcistica.
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E’ inutile sottolineare quanto il calcio accenda la passione di milioni di italiani e possa rappresentare talvolta anche un argomento che entra nel setting psicoterapico per favorire la comunicazione, soprattutto con pazienti dall’affettività coartata. In questa metafora c’è una risposta a quell’attitudine di autorimprovero e di autocolpevolizzazione di fronte all’errore che caratterizza le persone che presentano schemi conoscitivi basati sul dovere-valore (Cionini, 1991). Quando prevale questo schema si costruisce il proprio sé come persona di valore solo nella misura in cui vengano raggiunti alti standard di prestazione. La metafora è un invito a non sentirsi amabili solo quando si dimostra di valore ottenendo un risultato (segnare il rigore), ma anche quando si gioca “bene”, con coraggio, fantasia e altruismo. Rimanendo in ambito calcistico è opportuno citare la canzone-metafora di Luciano Ligabue Una vita da mediano, una sorta di elogio del gregario, non dotato dei talenti del fuoriclasse, ma che con costanza e abnegazione resta “…lì sempre lì, lì nel mezzo…” fin che ce la fa. Anche il setting psicoterapico può essere rappresentato come un campo di allenamento per affrontare la vita, dove il gregario e l’allenatore lavorano duro con l’obiettivo della guarigione, che è un po’come vincere i Mondiali.
“Ho licenziato Dio, gettato via un amore, per costruirmi il vuoto nell’anima e nel cuore”
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E’ l’incipit perfetto del Cantico dei drogati (1968) di Fabrizio de Andrè che introduce il tema del vuoto, che ricordiamo è incluso tra i criteri diagnostici del DSM-IV per il disturbo di personalità borderline (“sentimenti cronici di vuoto”). Faber mette in luce come il tossicodipendente elimini dalla propria vita i valori e gli affetti per creare un vuoto in grado di essere colmato da un’unica cosa: la sostanza. Nella pratica clinica con i cosiddetti pazienti “doppia diagnosi”, affetti da un disturbo psichiatrico e dall’abuso o dipendenza da sostanze è frequentissimo imbattersi in soggetti che soddisfino i criteri per il disturbo di personalità borderline, per i quali la sostanza può rappresentare il riempitivo del vuoto, in quella che è stata definita una sorta di autocura (Khantzian EJ, 1985). Successivamente nel testo Faber accenna al problema dei limiti, affrontato ampliamente nella terapia dialettico comportamentale per i pazienti borderline da Marsha Linhean (1993), usando altre preziose metafore “Mi citeran di monito, a chi crede sia bello, giocherellare a palla, con il proprio cervello. Cercando di lanciarlo oltre il confine stabilito, che qualcuno ha tracciato ai bordi dell’infinito”.
“Ma misi me per l’alto mare aperto, oltre il recinto della ragione, oltre le colonne che reggono il cielo…”
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Recita la canzone Nostos (2011) di Vinicio Capossela, che parla del viaggio di Ulisse. L’avventura di Odisseo “oltre il recinto della ragione” può rappresentare metaforicamente anche un viaggio interno nel mare sconosciuto della propria mente e della propria immaginazione, ovvero un viaggio alla scoperta di sé. Ulisse era un viaggiatore solitario, mentre nella psicoterapia il viaggio si fa in due. Restando sempre in acqua possiamo ricordare la canzone La linea d’ombra (1997) di Jovanotti che dice “Mi offrono un incarico di responsabilità, portare questa nave verso una rotta che nessuno sa”. La canzone è ispirata all’omonimo romanzo di Joseph Conrad che tratta il tema del passaggio dall’adolescenza all’età adulta.
“Stringimi forte, che nessuna notte è infinita”
Frase contenuta nel brano I migliori anni della nostra vita (1995) ci suggerisce come anche i dolori più intensi possono passare con il tempo e trasmettere quella speranza di cui c’è sempre bisogno quando si parla di sofferenza mentale.
“Mi sveglio e piove col sole”
Canta Massimo Bubola nella canzone Piove col sole (2002) descrivendo uno stato d’animo misto, in cui coesistono elementi contrapposti che caratterizzano l’ambivalenza, che possiamo trovare ad esempio come “vincolo ambivalente” nell’organizzazione ossessiva di personalità dove il comportamento genitoriale è sorretto da due esplicazioni antagonistiche (Cionini, 1991).
BIBLIOGRAFIA:
Linhean M. Trattamento cognitivo comportamentale del disturbo borderline. Il modello dialettico. Raffaello Cortina, 1993.
Hobson, R.F. (1985). Forms of feeling: the heart of psychotherapy. London: Tavistock Publications
Lakhoff G., Johnson M. Metafora e vita quotidiana, Bompiani, 2004
Brewer, M. B., (1991). The social self: On being the same and different at the same time. Personality and Social Psychology Bulletin, 17, 475-482.
Bateson G. Verso un’ecologia della mente. Adelphi, 1977
Cionini L. Psicoterapia cognitiva. La Nuova Italia Scientifica, 1991
Khantzian EJ. The self-medication hypothesis of addictive disorders: focus on heroine and cocaine dependence, American Journal of Psychiatry,142, 1985.
L’importanza del pointing per i bambini in età prescolare.
– Rassegna Stampa –
Alcuni gesti sono utilizzati per comunicare su un piano cooperativo e rivestono un significato particolarmente importante nei contesti di insegnamento e apprendimento in cui i bambini si aspettano che gli adulti siano ben informati e pronti a condividere ciò che sanno con loro. Il pointing, cioè l’indicare con il dito qualcosa invitando l’interlocutore a condividere l’attenzione, sembra essere un gesto particolarmente significativo per i bambini in età scolare.
Carolyn Palmquist e Vikram K. Jaswal della University of Virginia hanno scoperto che è possibile indurre in errore bambini in età prescolare semplicemente usando il gesto di indicare: l’esperimento effettuato consisteva nel mostrare ai bambini un filmato con due donne, tre tazze e una pallina; una delle due donne nascondeva la pallina dentro una tazza mentre l’altra si copriva il viso per non vedere; i bambini invece potevano vedere che la donna nascondeva la pallina, ma non in quale tazza. Seguivano tre diversi epiloghi: le due donne rimangono sedute con le mani in grembo, oppure entrambe prendono una tazza in mano o entrambe indicano una tazza. Ai bambini veniva quindi chiesto quale donna sapesse dove si trovava la pallina. Quando le due donne prendono una tazza o stanno con le mani in grembo i bambini hanno hanno dato la risposta corretta tre volte su quattro, mentre quando le due donne fanno il gesto di indicare i bambini rispondono correttamente la metà delle volte, indicando statisticamente che viene effettuata una scelta casuale.
Questi risultati indicano che il gesto di indicare è per i bambini così significativo da indurli a considerare l’informazione così ottenuta più importante di quella già in loro possesso, anche quando questa li induce in errore.
I danni fisiologici del narcisismo: colpisce solo gli uomini?
Ancora una volta si parla di narcisismo, tratto di personalità caratterizzato da grandiosità, da un tronfio senso di auto-importanza, e sovrastima di unicità. Le persone affette da questo disturbo di personalità sono costantemente alla ricerca di stimoli, provenienti dall’ambiente esterno, che possano tenere alto il proprio senso di sé.
Non sorprende, quindi, che il narcisismo sia associato ad una serie di problemi interpersonali. Il narcisista induce nell’altro una prima impressione positiva che, nel lungo periodo, cede il posto a sensazioni negative. D’altro canto nelle relazioni romantiche, queste persone tendono ad accerchiarsi di partners che possano tenere alta la propria autostima, affannandosi eccessivamente per soddisfare ogni loro ordine. Di conseguenza, risultano spesso poco empatici, estremamente criticisti, ostili e tendenzialmente aggressivi verso coloro che fungono da ostacolo al loro affermarsi.
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Nonostante questi aspetti negativi interpersonali, esistono anche notevoli aspetti positivi. Ad esempio, i narcisisti che mostrano alti livelli di autostima hanno bassi livelli di depressione, ansia e solitudine. Essi tendono, inoltre, a segnalare più felicità e benessere soggettivo rispetto a coloro che sono meno narcisi. Malgrado questa coltre di ferro apparente, i narcisiti sono molto fragili e possiedono un elevato senso di inferiorità e di inutilità. Per far fronte a questi sentimenti di inferiorità, i narcisisti utilizzano strategie di difesa nei confronti di coloro che fungono da minaccia, reale o presunta, alla autostima. Questo costante combattere con provocazioni esterne, porta queste persone a mettere in atto delle strategie di coping difensive e repressive, che portano ad una maggiore reattività cardiovascolare, ad elevato stress, pressione sanguigna più alta, e peggiori esiti a malattie cardiovascolari, di cui, i narcisisti, non sono affatto consapevoli.
Dato che il narcisismo è associato a strategie difensive, e la difesa ha conseguenze fisiologiche, ne deriva che i narcisisti possono avere sistemi fisici altamente reattivi, e tutto ciò può portare ad iperattivazione cronica del sistema fisiologico in risposta allo stress, che a lungo termine potrebbe indebolire le difese naturali dell’organismo. La reattività cardiovascolare associata al mantenimento di una visione positiva di se stessi, attiva, di consegenza, l’asse ipotalamo- ipofisi-surreni, con relativa secrezione di cortisolo.
Un recente studio dimostra che gli uomini con punteggi elevati al narcisismo, hanno maggiori aumenti di cortisolo dopo situazioni di stress, cosa che non si verifica in coloro che non hanno tratti narcisistici. Inoltre, gli uomini presentano di default un’elevata concentrazione basale di cortisolo, rispetto alle donne. Quindi, è possibile che i narcisisti maschi abbiano una maggiore reattività cardiovascolare, con evidenti conseguenze per la loro salute.
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Questi dati non sono stati confermati su narcisisti di sesso femminile, in cui l’attivazione cronica del cortisolo può portare a problemi diversi, quali soppressione del funzionamento del sistema immunitario. Come mai si rileva questa netta differenza di genere?
Forse perché le donne hanno un ruolo sociale diverso rispetto agli uomini, che in qualche modo devono comprovare la loro dominanza sociale, a conferma della teoria narcisistica. Forse le narcisiste femmina usano il loro ruolo per vantaggi personali, allo scopo di ottenere risorse sociali e finanziarie indirettamente. Si tratta di un’ipotesi da testare, al fine di capire perché il narcisismo sembra essere più nocivo per gli uomini che per le donne.
Malattia di Parkinson e Memoria Prospettica: l’efficacia farmacologica sul deficit cognitivo.
Alice Mannarino.
La memoria prospettica fa riferimento ai processi e alle abilità implicate nel ricordo di intenzioni che devono essere realizzate nel futuro (Meacham e Sincer, 1977). Ricordarsi di partecipare ad una riunione, di comprare le batterie per una sveglia, di seguire una trasmissione televisiva alla nove di sera, di fare una telefonata tra venti minuti sono tutti esempi di compiti di memoria prospettica. Si tratta di un’abilità molto importante nel garantire un buon livello di funzionamento cognitivo quotidiano.
Un eventuale disturbo della memoria prospettica si manifesta generalmente con difficoltà nel seguire un progetto, un piano di trattamento, o semplicemente, non rispettando un appuntamento. Per quanto riguarda i disturbi di memoria prospettica nella malattia di Parkinson, un numero sempre maggiore di studi sembra evidenziare un deficit di memoria prospettica in soggetti affetti da malattia di Parkinson.
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Un buon funzionamento prospettico dipende soprattutto dall’integrità delle aree cerebrali prefrontali; allo stesso tempo diversi studi hanno messo in evidenza la presenza in soggetti affetti da malattia di Parkinson di difficoltà cognitive riguardanti soprattutto test che investigano l’integrità funzionale dei circuiti fronto-striatali. In particolare, gli studi riportano peggioramenti nelle abilità di shifting, nei processi di working memory e nella pianificazione, tutte funzioni strettamente correlate con le abilità di memoria prospettica.
Negli studi attualmente disponibili, sono stati generalmente utilizzati paradigmi sperimentali in cui ai partecipanti veniva chiesto di compiere delle azioni dopo un certo intervallo di tempo, ovvero al verificarsi di un evento specifico. Nell’intervallo di tempo che intercorre tra le istruzioni date e il momento in cui è necessario compiere le azioni richieste, i soggetti sono impegnati nello svolgimento di compiti di natura attentiva. Nel primo di questi studi Katai et al. (2003) hanno confrontato la prestazione di un gruppo di pazienti con malattia di Parkinson senza demenza con quella di un gruppo di soggetti sani. I risultati mettono in evidenza che i pazienti con il Parkinson hanno una riduzione della capacità di attivarsi spontaneamente al fine di eseguire le azioni prestabilite nel compito di memoria prospettica. Gli autori non hanno trovato, invece, differenze significative tra i i due gruppi nella componente di memoria retrospettiva del compito.
Un altro studio recente è quello di Costa e al. (2008). In particolare, ad un gruppo diverso di 20 pazienti con Parkinson veniva chiesto di compiere tre azioni tra loro non correlate dopo 20 minuti (condizione time-based) o al suono di un timer (condizione event-based). I pazienti sono stati testati in una condizione off (dopo effetto della terapia farmacologica) e una condizione on (subito dopo la somministrazione in acuto di levodopa). I risultati documentano un significativo miglioramento dell’accuratezza nella componente prospettica del compito, dopo somministrazione del farmaco, tanto da rendere i pazienti non più differenziabili dai soggetti di controllo.
Nel sintetizzare i dati esposti, emerge chiaramente che la memoria prospettica è deficitaria nei pazienti con Parkinson e il deficit osservato coinvolge maggiormente la capacità di attivazione spontanea, dunque la componente propriamente prospettica dei compiti utilizzati. Inoltre il deficit di memoria prospettica, appare connesso con l’alterazione della trasmissione dopaminergica e con l’efficacia indotta dal trattamento farmacologico.
Gioco d’Azzardo Patologico: la Dipendenza Invisibile.
Simona Meroni.
In un recente articolo apparso sul Corriere della Sera (“L’appello al Casinò dei malati di gioco: non fateci entrare”) si racconta in breve l’iniziativa del Casinò di Sanremo di mettere a disposizione dei giocatori un modulo prestampato che, debitamente firmato, vieta loro l’ingresso.
Il Casinò ha firmato con il Comune un protocollo di intesa per imporre a chi chiede l’autosospensione una pausa minima di 90 giorni, per evitare – si deduce – che “i pentiti” possano contro firmare una dichiarazione che annulla la validità della loro richiesta di aiuto.
I giocatori d’azzardo compulsivi sembrano un campione variegato, per età, sesso e condizione sociale. E’ importante, infatti, non perdere di vista i giocatori che esulano dall’immaginario del Casinò: la dipendenza da gioco, infatti, può nascere non solo ai tavoli verdi, ma anche – e forse soprattutto – al monitor del videopoker, con i numeri del Lotto, con la patina argentea del Gratta e Vinci.
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Il gioco d’azzardo, infatti, offre una speranza di guadagno immediato, che può essere avvertita come una ‘soluzione-scorciatoia’ alla crisi economica. La dipendenza da gioco (gambling, o GAP – Gioco d’azzardo patologico) costringe a riflettere su quanto a volte sia difficile discriminare tra un comportamento autenticamente ludico, un leggero disturbo e un comportamento francamente patologico. Tra questi tre atteggiamenti, infatti, il confine è molto labile e a volte confuso da norme sociali e comportamentali.
Il DSM IV TR (American Psychiatric Association, 2000) include la dipendenza da gioco tra i Disturbi del Controllo degli Impulsi Non Classificati Altrove, cioè non riconducibili al quadro clinico di altri disturbi, insieme alla piromania, alla cleptomania, al disturbo esplosivo intermittente, alla tricotillomania (torcersi e strapparsi i capelli) e al disturbo del controllo degli impulsi Non Altrimenti Specificato. La caratteristica fondamentale che accomuna tali disturbi è l’incapacità a resistere ad un impulso o ad un desiderio impellente: il soggetto prova una tensione o un eccitamento crescente prima di compiere l’azione e prova gratificazione o sollievo nel momento in cui la compie; in seguito possono o meno essere presenti rimorsi e sensi di colpa.
Per il DSM IV , dunque, la dipendenza da gioco è un comportamento maladattativo persistente e ricorrente, che interferisce con la situazione economica e relazionale della persona che ne soffre, e con caratteristiche simili a quelle delle dipendenze da sostanze. Tra i sintomi possiamo trovare: coinvolgimento eccessivo nell’attività, necessità di giocare quantità sempre maggiori di denaro per raggiungere l’eccitazione desiderata, insuccesso nei tentativi di interrompere il comportamento, irrequietezza e irritabilità provocate dal tentativo di interrompere l’abitudine e compromissione di importanti attività sociali o lavorative.
I giochi che provocano dipendenza possono essere classificati secondo diverse categorie, la più semplice li vede suddivisi tra:
1) giochi dalla vincita immediata (es.: gratta e vinci, slot machine, videopoker, bingo)
2) giochi che prevedono un più prolungato tempo d’attesa (es.: lotterie, poker, scacchi, totocalcio).
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I giochi a riscossione immediata sembrano essere a maggiore rischio di addiction a causa della sensazione di eccitazione immediata, che spinge il giocatore a volerla sperimentare nuovamente subito dopo. In modo analogo appaiono fortemente “a rischio” i giochi in cui prevale il fattore fortuna, nei quali i giocatori inseguono la vincita spinti dal convincimento magico che prima o poi la “fortuna girerà”. Secondo la Società Italiana di Intervento sulle Patologie Compulsive (SII.Pa.C.), infatti, tra i giochi che provocano dipendenza, il 51% è costituito dai videopoker, seguiti dalle scommesse sui cavalli, dal Lotto, dal SuperEnalotto e dai Casinò.
Con l’avvento di Internet il gioco d’azzardo sembra aver subito un’impennata: secondo i dati della Committee on Treatment Services for Addicted Patients dell’American Psychiatric Association, nel 1997 circa 6,9 milioni di persone erano potenziali internet gamblers (giocatori compulsivi), un anno dopo erano 14,5 milioni e i siti dedicati al gioco d’azzardo erano oltre 1300.
Le ragioni del fenomeno possono essere diverse: Internet consente l’anonimato; può essere nascosto agli occhi dei familiari; è sottratto ai limiti temporali e spaziali. Inoltre l’utilizzo della carta di credito consente di giocare ingenti somme di denaro senza averne piena consapevolezza.
Analizzando più da vicino le diverse forme di gioco che possono suscitare dipendenza, si potrebbe trovare un nocciolo comune.
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Come sostiene Riccardo Zerbetto: “E’ l’attitudine nei confronti del rischio l’anima dei comportamenti osservabili nelle diverse forme del gioco d’azzardo”. La maggior parte di questi giochi, infatti, pongono il Soggetto davanti ad una decisione da prendere in pochi istanti, consentendo così di sperimentare un attimo di incertezza in cui ci si può giocare il tutto e per tutto.
Questa “teoria del brivido decisionale” -se così può essere chiamata- rende ragione anche del collegamento che viene spesso fatto tra GAP e tossicodipendenza. I due tipi di disturbo, infatti, hanno molti punti in comune, a partire dai criteri diagnostici (pressoché identici, se si esclude il rincorrere la perdita e il rischio di dissesto finanziario, caratteristici del GAP ma non del tutto estranei alla tossicomania), ma soprattutto sono accomunati dalla ricerca di una sostanza (o condizione) che possa produrre un eccitamento.
Sempre secondo Zerbetto, infatti, uno dei fattori che accomuna il GAP alla tossicomania è “il bisogno di indurre uno stato di attivazione” per far fronte a frequenti vissuti di noia o depressione.
Il trattamento, ma soprattutto l’identificazione dei dipendenti da gioco d’azzardo, è un discorso articolato e complesso, che chiama in causa fattori biologici, psicologici ma anche – e soprattutto – sociali.
Come scritto in apertura, i giocatori patologici spesso passano inosservati, per svariate ragioni. Molto spesso, infatti, il gioco gode di rispetto sociale (non dimentichiamoci che buona parte dei Giochi sono Monopolio di Stato), visibilità (quanti giochi a premi sono fioriti in questi ultimi anni?), può essere mascherato da un rito (ad esempio, il poker del Mercoledì sera, tanto caro a film e telefilm), oppure non visto perché non ci sono occhi in grado di vedere (la solitudine degli anziani nei bar, ad esempio).
L’iniziativa del Casinò di Sanremo, dunque, supportato dalla Cooperativa Sociale L’Ancora, è sicuramente lodevole, e forse può rappresentare un passo avanti nell’accoglienza e nella “cura” di un disagio che risulta eclatante solo quando supera il limite.
BIBLIOGRAFIA:
Bergler E. (1957), tr. it., Psicologia del giocatore, New Compton, 1970
Zerbetto R (2001, a), Dall’intervento terapeutico a una politica di gioco responsabile. Da Lavanco, Psicologia del gioco d’azzardo, McGraw-Hill
Zuckerman M. (1994), Behavioural expressions and biosocial bases of sensation seeking, Cambridge University Press.
La Fenice, terapie riabilitative: http://www.lafeniceaddictions.it/
Società Italiana di Intervento sulle Patologie Compulsive: http://www.siipac.it/
Aracnofobia: se hai paura dei ragni li vedrai più grandi!
– Rassegna Stampa –
Effetti della fobia specifica sulla percezione dell’oggetto temuto
Più una persona ha paura dei ragni, più la percezione visiva dello stesso animale ne risulterà alterata. Questo è quanto emerge da uno studio pubblicato da poco su Journal of Anxiety Disorders in cui ai partecipanti, 57 individui che si definivano aracnofobici, veniva chiesto durante un periodo di circa 8 settimane di interagire in vivo con 5 ragni della dimensione da 2,5 a 15 centimetri e in seguito di fornire una stima della dimensione dei ragni appena “incontrati”.
I ragni erano contenuti in un contenitore di vetro aperto. I soggetti iniziavano la loro esposizione all’animale a circa 12 passi dal contenitore e veniva poi chiesto loro di avvicinarsi. Una volta arrivati a fianco del contenitore, i partecipanti dovevano toccare il dorso del ragno con una sonda. Nel corso di queste esposizioni i partecipanti riportavano l’intensità della paura che stavano provando su una scala SUD (subjective units of distress) da 0 a 100, e compilavano poi una serie di altri questionari self-report relativi alla fobia specifica, panico e pensieri riguardo la riduzione della paura in future esposizioni con i ragni. Da ultimo, i ricercatori richiedevano ai soggetti una stima delle dimensioni del ragno con cui avevano appena interagito disegnando su una linea un trattino indicante la lunghezza dell’animale.
Dalle analisi dei risultati è emerso che i picchi più alti di fobia soggettivamente riportata dai soggetti corrispondevano anche a stime di maggiori dimensioni dei ragni di fatto inesatte rispetto alle dimensioni reali. Quindi quanto più intensa era l’emozione di paura riferita ai ragni cui ci si era esposti tanto maggiore era la dimensione del ragno stimata dalla stessa persona. Chissà se questo fenomeno sia generalizzabile ad altre forme di fobie specifiche, che possono risultare maggiormente invalidanti nella vita quotidiana, basti pensare alla fobia degli aghi. Se la fobia impatta sulla percezione visiva dell’oggetto fobico, allora può essere utile condividere questo bias con il paziente che si ritrovi impegnato in faticose esposizioni in cui è possibile che continui a percepire visivamente il mostro più grande di quello che è in realtà. Attenzione però: il messaggio non dovrebbe focalizzarsi tanto nel contenuto stesso (“chi se ne frega se il ragno è grande o piccolo, mi terrorizza per mille altri questioni…”) ma sul processo: l’intensità delle nostre emozioni può impattare non solo su funzioni psicologiche quali per esempio attenzione e memoria, ma anche sulla funzione psicologica che più ci illude di poter essere oggettivi: la percezione visiva.
BIBLIOGRAFIA:
Michael W. Vasey, Michael R. Vilensky, Jacqueline H. Heath, Casaundra N. Harbaugh, Adam G. Buffington, Russell H. Fazio. It was as big as my head, I swear!. Journal of Anxiety Disorders, 2012; 26 (1): 20 DOI: 10.1016/j.janxdis.2011.08.009
Quando la religione diventa un’ossessione: la Scrupolosità
Scrupolosità: una sottocategoria diagnostica del Disturbo Ossessivo-Compulsivo
La Scrupolosità è un sottotipo del Disturbo Ossessivo-Compulsivo (DOC) caratterizzato principalmente da sensi di colpae paure legate a questioni morali e religiose.
Questo disturbo provoca un disagio significativo e una marcata compromissione nell’adattamento sociale nelle persone che ne sono affette (DSM 4-TR, 2000). Nonostante la scarsa considerazione in ambito clinico e scientifico, la Scrupolosità può essere considerata un disturbo relativamente comune. Questo disturbo vanta infatti una delle storie più lunghe e più ricche di esempi rispetto a qualsiasi altro disturbo psicologico.
La recente ricerca clinica suggerisce che fino al 30% degli individui con diagnosi di DOC soffrano anche di questa sottocategoria diagnostica (Mataix-Cols e al., 2002). Tuttavia, altri risultati segnalano percentuali ben maggiori in base alla localizzazione geografica e, soprattutto, in base alla confessione religiosa o spirituale di origine (50% in Arabia Saudita e fino al 60% in Egitto) (Tek & Ulug, 2001). In ogni caso, non sono disponibili stime affidabili sulla frequenza della scrupolosità nella popolazione mondiale, dato che non tutti i soggetti con questo disturbo si rivolgono ad uno specialista (Medici, Psichiatri e Psicoterapeuti). Sembra invece che (del tutto coerentemente con il tipo di diagnosi) la maggior parte delle persone che soffrono di questo disturbo tendano a cercare con maggiore facilità una consulenza di tipo religioso o spirituale.
Articolo consigliato: Storie di terapie #2: Un Pomeriggio con il Demonio.
La scrupolosità è un disturbo che ha specifiche caratteristiche cognitive, comportamentali, affettive e sociali. In primo luogo, i pazienti con scrupolosità presentano modelli di pensiero disfunzionali che possono essere concettualizzati in vari modi. Il più evidente è l’eccessivo senso di colpa e di responsabilità. Si tratterebbe quindi di uno stato abituale della mente che, a causa di una costante paura irragionevole del peccato, porta la persona a giudicare certi pensieri o azioni come peccaminosi o sbagliati anche quando in realtà non lo sono. In altre parole, i pazienti con scrupolosità possono esagerare patologicamente la valutazione della gravità delle trasgressioni, classificandole in maniera impropria. Per esempio:
uno studente con scrupolosità iscritto ad un corso di anatomia può sentirsi colpevole per la visione di cadaveri o di foto con soggetti senza vestiti.
La spiegazione di un simile eccessivo senso di colpa potrebbe rintracciarsi nel meccanismo mentale di fusione pensiero-azione, tramite il quale una persona giudica un particolare pensiero come moralmente equivalente ad un comportamento reale.Ad esempio:
una persona con scrupolosità può sentirsi un depravato e un peccatore per dei pensieri involontari che ha avuto, pur non avendo commesso nella realtà nessun tipo di comportamento o azione che ne giustificherebbe l’accusa e la condanna.
La componente comportamentale compulsiva di questo disturbo è data dal fatto che queste persone si sentono costrette a confessare più volte e con insistenza ad un capo ecclesiastico i propri peccati, credendo di aver commesso una violazione morale così grave da meritare una punizione. La ricerca compulsiva della confessione religiosa è vista come un meccanismo per risolvere i propri sentimenti di angoscia e ripristinare il proprio rapporto con la divinità, mettendo a dura prova l’infinita pazienza dei propri padri spirituali.
Tuttavia, la scrupolosità di questi pazienti può lasciarli quasi completamente insensibili alle rassicurazioni dei propri confessori religiosi o spirituali, come nel caso dell’ipocondria dove anche le rassicurazioni dei servizi professionali medici possono fornire soltanto un sollievo temporaneo. Allo stesso modo, i sentimenti soggettivi di colpa spesso guidano altri tipi di comportamento, come la preghiera compulsiva. La preghiera compulsiva sembra quindi assomigliare più ad un particolare tentativo di impedire il verificarsi di una qualche catastrofe non meglio definita, che ad un autentico pentimento consapevole.
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I soggetti con scrupolosità si dedicano spesso a periodi di alta ruminazione morale dolorosa. Questi periodi di ruminazione possono comportare l’analisi filosofica delle proprie questioni morali o una revisione meticolosa dei propri “peccati”, procedimenti talmente gravosi e impegnativi da portare con il tempo a un vero e proprio stato di sofferenza, sia fisica che mentale. I pazienti con Scrupolosità inoltre, presentano spesso stili cognitivi negativi, come la tendenza psicologica ad interpretare stimoli ambigui (oggettivamente né positivi né negativi) nella maniera più grave e triste possibile. Questa tendenza cognitiva è particolarmente problematica nel contesto della religione e della moralità, dato che i principi religiosi sono caratteristicamente espressi in termini ampi ed ambigui.
I pazienti con scrupolosità presentano poi una fissazione selettiva dell’attenzione sulle questioni religiose. Mentre la maggior parte degli individui religiosi apprezzano di buon grado la proprie credenze religiose, nei pazienti con scrupolosità la religione e le questioni morali diventano fonte di un vero e proprio disagio. Anche le informazioni più ordinarie e banali sembrano passare attraverso un filtro attentivo che inietta le percezioni di una sfumatura di ansia e di gravità. Questa distorsione percettiva può privare i pazienti della loro capacità di rilassarsi e di godere di semplici attività quotidiane (tra queste anche il pregare, il partecipare a funzioni religiose, ecc.). Secondo questo modello, questa forma di visione “tunnel” è così onerosa che consuma una quantità critica di energia mentale, lasciando i pazienti incapaci di far fronte alle altre esigenze cognitive e rendendoli vulnerabili ad altre forme di ansia e depressione.
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Il trattamento clinico della scrupolosità è problematico per una varietà di ragioni. In primo luogo, la scrupolosità riguarda temi tipicamente astratti, impossibili da riprodurre nello studio del clinico in modo adeguato. Di conseguenza, il trattamento dei comportamenti bersaglio (ad esempio, attraverso la tecnica dell’Esposizione con Prevenzione della Risposta, E/RP) sono considerevolmente più difficili da utilizzare perché le preoccupazioni della scrupolosità spesso comportano problemi religiosi o spirituali piuttosto che concreti, come oggetti o situazioni riproducibili nella realtà (per intenderci, il trattamento terapeutico della fobia dei gatti è per ovvie ragioni diverso dal trattamento della fobia del Diavolo).
Questo disturbo pone inoltre dei vincoli etici alla professione della psicoterapia: Art. 4 del Codice Deontologico degli Psicologi Italiani “[lo psicologo] non opera discriminazioni in base a religione, etnia, nazionalità, estrazione sociale, stato socio-economico, sesso di appartenenza, orientamento sessuale, disabilità e […] rispetta opinioni e credenze, astenendosi dall’imporre il suo sistema di valori”; questione di non poco conto se si tiene presente quanto sia importante l’alleanza paziente-terapeuta nel predire il buon esito del trattamento.
È utile per il terapeuta sottolineare che l’obiettivo del trattamento è quello di aiutare il paziente a tornare a praticare la propria religione con serenità, piuttosto che per l’esclusiva paura di una ritorsione divina. I pazienti con scrupolosità hanno bisogno di comprendere chiaramente le differenze tra una pratica religiosa normale e una patologica, e deve essere chiarito con il paziente che l’unico scopo del trattamento è quello di ripristinare un sereno e normale rapporto con la propria religiosità. Sembra fondamentale a questo scopo una chiara spiegazione di come la tecnica dell’esposizione sia coerente con i nostri obiettivi nel favorire un rapporto terapeutico di successo e a mantenere alta la motivazione. Decidere quali situazioni specifiche siano utili per l’esposizione è anch’essa una questione importante.
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Istruire il paziente a violare le proprie leggi religiose per verificare se la catastrofe si realizzi nella realtà, non è una pratica né appropriata né necessaria per ridurre la paura patologica del peccato. I pazienti con scrupolosità hanno paura di commettere un peccato, non tanto del peccato in sé. Si tratta di una paura che sta a monte della reale azione di commissione del reato/peccato. Pertanto, l’esposizione dovrebbe comportare un avvicinamento graduale a situazioni in cui c’è solo il rischio che si possa commettere il peccato, situazione di per sé sufficiente ad innescare nel paziente una reazione di disagio e paura.
Il delicato terreno di confronto tra scienza e religione, ci pone di fronte ad un’infinità di domande alle quali, molto probabilmente, è impossibile avere una risposta. L’unica domanda che potremmo porci in qualità di professionisti con dei doveri etici ben delineati sarebbe: come possiamo aiutare queste persone a vivere più serenamente la propria religiosità? E ancora, chi può chiarire se e in che misura la sofferenza dell’uomo sia eticamente ammissibile nella vita di un cristiano o di un musulmano fedele al proprio culto? Qual è il vero confine tra normalità e patologia?
BIBLIOGRAFIA:
American Psychiatric Association (2000). Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders, Ed. 4-TR, Washington, DC.
Dormi che ti passa! Le proprietà terapeutiche della fase REM
Numerose ricerche ci dicono che dormire non ha l’unica funzione di ritemprare le membra ma anche la mente, aiutando i nostri processi di apprendimento, la memoria e la regolazione emotiva.
Un gruppo di ricercatori di Berkeley, University of California, ha confermato i benefici della fase REM nel rimuovere gli aspetti più vivi delle esperienze emotive. Il periodo del sonno dedicato ai sogni funzionerebbe, grazie alla caratteristiche neurochimiche che lo contraddistinguono, come una terapia notturna che aiuta il cervello ad elaborare le esperienze emotive e le alleggerisce dal carico doloroso che alcune memorie portano con sè.
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Precedenti studi hanno già evidenziato come i pattern tipici del sonno siano danneggiati in pazienti con disturbi dell’umore o nel disturbo post traumatico da stress (PTSD). In quest’ultimo caso, quando la persona che ha subito un trauma incappa in uno stimolo che produce un flashback dell’evento traumatico, l’esperienza emotiva ad esso associata viene rivissuta in tutta la sua originale intensità proprio perchè, a quanto pare, il cattivo sonno non ha permesso di attenuare l’emotività legata alle tracce mnestiche.
“Durante la fase REM le memorie si riattivano, vengono messe in prospettiva, connesse e integrate tra loro, ma solo in uno stato in cui la neurochimica dello stress viene beneficamente soppressa” (Walker, M.P.), in assenza cioè di disturbi dell’umore o di disturbi post traumatici.
Il protocollo di ricerca ha previsto un campione di 35 giovani adulti in salute. Tutti hanno visionato per due volte, a distanza di 12 ore, 150 immagini dal forte contenuto emotivo. Nel frattempo uno scanner per la risonanza magnetica registrava la loro attività cerebrale. Metà dei soggetti ha preso visione delle immagini in mattinata e poi in serata, mentre l’altra metà ha affrontato la seconda parte dell’esperimento dopo un’intera notte di sonno. Questi ultimi hanno riportato una significativa riduzione nella loro reazione emotiva alle immagini, confermata dai risultati della fMRI che evidenziano una sostanziale riduzione dell’attività dell’amigdala, una parte del cervello coinvolta in prima linea nel processamento delle emozioni.
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L’elettroencefalogramma dei dormienti ha inoltre confermato una ridotta attività elettrica durante la fase REM: “riprocessando le esperienze emotive precedenti in questo sicuro ambiente neurochimico, caratterizzato da bassi livelli di norefineprina – una sostanza chimica positivamente correlata allo stress – ci svegliamo l’indomani e quelle esperienze risultano affievolite nella loro forza emotiva. Ci sentiamo meglio riguardo ad esse, sentiamo di poterle affrontare.” (Walker, M.P.).
Ecco allora che nel trattamento del PTSD risolvere i disturbi del sonno diventa un obiettivo centrale. I pazienti che dormono male non possono godere dei benefici di attenuazione dell’intensità emotiva legata all’evento traumatico, il che innesca un pericoloso circolo vizioso che aggrava ancor più i sintomi e impedisce di riprendere una sana condotta del sonno.
Disidratazione, tono dell’umore e funzioni cognitive: gli effetti su uomini e donne.
-Rassegna Stampa –
La disidratazione influenza l’umore delle donne e la funzionalità cognitiva negli uomini.
Due recenti studi svolti presso lo University of Connecticut’s Human Performance Laboratory hanno scoperto che la disidratazione influenza non solo il corpo ma anche la mente. Anche una lieve disidratazione, definita come la perdita dell’1,5% del normale volume di acqua presente nel nostro corpo, può impattare significativamente sul tono dell’umore e sulle funzioni cognitive.
I ricercatori hanno coinvolto nei due studi 25 uomini e 26 donne in salute (né atleti agonisti, né sedentari) per tre volte nell’arco di tre mesi. Una lieve disdratazione veniva indotta ai soggetti somministrando diuretici, chiedendo loro di non assumere liquidi e di camminare su un tapis-roulant per 40 minuti; immediatamente a seguito di ciò i ricercatori valutavano diversi aspetti mediante una batteria di test cognitivi:vigilanza, concentrazione, tempo di reazione, memoria di lavoro, ragionamento e tono dell’umore.
Dal confronto con una condizione di adeguata idratazione, è emerso che negli uomini la disidratazione determina difficoltà nei task di memoria di lavoro e nel livello di vigilanza; nelle donne invece la disidratazione causa una lieve riduzione nelle capacità cognitive, ma un significativo aumento di affaticamento, tensione e ansia. Questi cambiamenti in termini di umore a seguito delle deidratazione si sono verificati in modo rilevante nelle donne, ma non negli uomini. I ricercatori sono ancora incerti rispetto alla spiegazione di questo effetto differenziale della disidratazione sulla mente e sull’umore negli uomini e nelle donne, ma nel frattempo suggeriscono di bere molta acqua e non solo per ragioni prettamente somatiche!
BIBLIOGRAFIA:
Armstrong, L.E., Ganio, M.S., Casa, D.J., Lee, E.C., McDermott, B.P., Klau, J.F., Jimenez, L., Le Bellego, L., Chevillotte, E., Lieberman, H.R. (2012). Mild dehydration affects mood in healthy young women. Journal of Nutrition, vol. 142 no. 2, 382-388, February 1, 2012.
Ganio, M.S., Armstrong, L.E., Casa, D.J., McDermott, B.P., Lee, E.C., Yamamoto, L.M., Marzano, S., Lopez, R.M., Jimenez, L., Le Bellego, L., Chevillotte, E., and Lieberman, H.R. (2011) Mild dehydration impairs cognitive performance and mood of men. British Journal of Nutrition 106(10),1535-1543, 2011.
Tipi di coppie #3 – I Complementari
Per definizione le coppie complementari sono quelle all’interno delle quali l’assegnazione dei ruoli è rigida: un membro in posizione up e uno in posizione down. I termini up e down riflettono per lo più una configurazione superficiale della distribuzione del potere all’interno delle coppie, infatti spesso accade che il partner in posizione down abbia in realtà molto più potere di quello up.
Le coppie complementari sono composte da partner che entrambi presentano una scissione netta e profonda nei confronti di un aspetto di sé stesso ritenuto inaccettabile, indesiderabile o irraggiungibile; questa parte di sé viene facilmente proiettata sul partner “adatto” ad accoglierla, in quanto in accordo con l’immagine “ufficiale” che quest’ultimo ha di sé stesso.
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L’esito di questo tipo di unioni dipenderà dalla possibilità di riconoscere e integrare le parti proiettate di sé di cui il partner si fa portatore e attore. All’interno di questa tipologia gli autori identificano diversi sottotipi che si distinguono tra loro per gli aspetti che vengono scissi e proiettati sull’altro.
Il primo sottotipo è quello del Genitore/Bambino: in questo tipo di coppie risulta essere saliente il tipo di attaccamento che è stato stabilito con le figure di accudimento e quindi la percezione della propria sicurezza e insicurezza rispetto all’opportunità di ricevere conforto e protezione, nonché la soluzione adottata. L’autosufficienza e l’evitamento delle emozioni “negative” favoriscono l’approdo alla posizione affettiva di genitore, nelle sue varianti di persecutorio o salvatore; la modalità di continua richiesta di attenzione e rassicurazione definisce invece la posizione del bambino, nelle sue varianti di bambino ribelle o in difficoltà.
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Il gioco di coppia si organizza in modo tale per cui gli atteggiamenti persecutori o salvifici dell’uno contribuiscono a mantenere e rinforzare gli aspetti di incompetenza e debolezza infantile dell’altro, gioco nel quale entrambi hanno affidato all’altro le proprie parti non riconosciute ribelli, depresse o autosufficienti. Se la costante relazionale negativa espressa è molto ingombrante i copioni individuali occuperanno molto spazio lasciandone poco alla costruzione di un copione condiviso che permetta un evoluzione ad entrambi.
Un altro sottotipo è quello di sano/malato: in questo tipo di coppie uno dei coniugi è “sano” mentre l’altro è deputato ad esprimere “malessere”, fisico o psichico: durante la terapia di coppia, alla quale generalmente approda il partner malato come “ultima spiaggia”, può emergere come la disfunzione individuale del partner malato esprima anche la componente “malata” del partner “sano”, che quest’ultimo non può permettersi di esprimere.
Dall’indagine terapeutica a volte emerge che il matrimonio, e la spartizione dei ruoli, ha avuto una funzione importante nel regolare la distanza di uno o entrambi i coniugi dalle famiglie di origine: il ruolo di infermiere o malato a tempo pieno può degnamente giustificare una decisiva presa di distanza dalle vicende della propria famiglia di origine o da quella del partner.
Terzo sottotipo: Il giudice e l’imputato: i ruoli sono assegnati sulla base di un’evidente differenza di curriculum vitae tra i due membri della coppia, per cui uno si sente in difetto rispetto all’altro; per esempio uno dei due è o è stato alcolista o tossicodipendente, o si è prostituito, o situazioni di grosso divario in termini di scolarità o competenze sociali. Anche la gelosia può essere un terreno fertile sul quale costruire i ruoli complementari del giudice, che accusa di tradimento, e dell’imputato, che deve continuamente giustificarsi, scusarsi e addurre prove della sua innocenza. Questo avviene perché ognuno chiede all’altro una forma di controllo e protezione dagli impulsi, che sente pericolosi e che lo impauriscono: il partner nel ruolo di giudice si protegge dall’impulso a trasgredire continuando a stigmatizzare l’inadeguatezza dell’altro di fronte al suo ideale di comportamento corretto, mentre il partner imputato userà questo tipo di relazione per confermare a sé stesso il fatto di non avere niente di buono, continuando a proiettare sul compagno il suo ideale di bontà e rettitudine, che sente di non poter raggiungere.
La pubblicazione del DSM-5, prevista nel maggio del 2013, sarà uno degli eventi più attesi nel campo della salute mentale.
Dagli ultimi aggiornamenti pubblicati in merito ai disturbi di personalità (Changes to the Reformulation of Personality Disorders for DSM-5 Updated June 21, 2011), apprendiamo che il gruppo di lavoro dell’APA ha raccomandato una riformulazione dell’approccio alla valutazione e alla diagnosi degli stessi, includendo una revisione dei criteri generali.
Le valutazioni essenziali di un disturbo di personalità saranno effettuate in base alle compromissioni del funzionamento (sé e interpersonale) e alla presenza di tratti patologici.
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Elemento di assoluta novità è la proposta di un modello ibrido dimensionale-categoriale per la personalità, che coniughi la possibilità di misurare il funzionamento personologico con la nosografia. A tale scopo è stata ideata una scala, definita “del Funzionamento della Personalità”, in cui si valutano le compromissioni del dominio del sé, che si riflettono nelle dimensioni dell’identità e della auto-direzionalità (self-directness), mentre quelle interpersonali sono considerate alterazioni nella capacità di empatia e di intimità. Il grado di disturbo presente nei domini, del sé e interpersonale, è stato pensato lungo un continuum che va da un livello 0, equivalente a una assenza di deficit, a un livello 4 che indica una compromissione estrema.
Il DSM-5 prevederà, dunque, sei specifici disturbi di personalità: Borderline, Ossessivo-Compulsivo, Evitante, Schizotipico, Antisociale, Narcisistico, e Disturbo di Personalità Tratto Specifico (PDTS).
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Per fare diagnosi di disturbo di personalità dovranno essere soddisfatti i seguenti criteri:
Criterio A. Compromissioni significative del sé (identità o auto-direzionalità self-direction) e del funzionamento interpersonale (empatia o intimità).
Criterio B. Uno o più domini del tratto patologico della personalità o sfaccettature/aspetti del tratto.
Criterio C. La compromissione nel funzionamento della personalità e l’espressione del tratto della personalità dell’individuo sono relativamente stabili nel tempo e costanti tra le situazioni.
Criterio D. La compromissione nel funzionamento della personalità e l’espressione del tratto della personalità dell’individuo non sono meglio compresi come normativi per la fase di sviluppo individuale o per l’ambiente socio-culturale.
Criterio E. La compromissione nel funzionamento della personalità e l’espressione del tratto della personalità dell’individuo non sono dovuti agli effetti fisiologici diretti di una sostanza (per esempio, un abuso di droga, l’uso di qualche particolare farmaco) o di una condizione medica generale (per esempio, grave trauma cranico, effetti particolari di patologie metaboliche ecc).
Gli elementi chiave per i Livelli di Funzionamento della Personalità, relativamente al criterio A, sono indicati di seguito.
Dominio del Sé:
Identità: l’esperienza di sé come unico, con chiari confini tra sé e gli altri, stabilità dell’autostima e precisione di auto-valutazione; capacità e abilità di regolare una gamma di esperienze emotive.
Self-direction: perseguire obiettivi coerenti e significativi sia a breve termine che di vita, utilizzo di standard di comportamenti interni costruttivi e prosociali, capacità di auto-riflettere (self-reflect) in modo produttivo (acquisire quindi il senso delle proprie capacità e anche dei propri limiti).
Funzionamento interpersonale:
Empatia: comprensione e apprezzamento delle esperienze e motivazioni altrui, tolleranza di prospettive diverse, comprensione degli effetti del proprio comportamento sugli altri.
Intimità: profondità e durata della relazione positiva con gli altri, desiderio e capacità di vicinanza, reciprocità nei comportamenti interpersonali.
Per quanto riguarda il criterio B, sono stati individuati i seguenti domini della personalità:
Affettività negativa: sperimentare intensamente e frequentemente emozioni negative.
Distacco: ritiro da altre persone e da interazioni sociali.
Antagonismo: comportamenti che mettono le persone in contrasto con altre persone.
Disinibizione vs Compulsività: impegnarsi in comportamenti impulsivi senza riflettere sulle possibili conseguenze future. La compulsività è il polo opposto di questo dominio.
Psicoticismo: avere esperienze insolite e bizzarre
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Per porre diagnosi di disturbo di personalità il clinico dovrebbe seguire una sorta di percorso guidato.
1- È presente una compromissione del funzionamento (nell’ambito del sé e in quello interpersonale) della personalità?
2- Se è presente, valutare il livello di compromissione del soggetto nell’ambito del sé e in quello interpersonale sulla Scala dei Livelli del Funzionamento di Personalità.
3- È presente uno dei sei tipi di disturbi di personalità contemplati dal DSM-5?
4- Se è presente, valutare il tipo e la gravità di compromissione e disturbo.
5- In caso contrario, è presente un disturbo di personalità tratto specifico (PDTS)?
6- Se è presente un PDTS, identificare e elencare i tratti/domini che caratterizzano il soggetto e valutare la gravità della compromissione.
7- Se, in presenza di un PDTS, si desidera stilare un profilo di personalità dettagliato e utile per la formulazione del caso clinico e si proceda con la valutazione dei sottodomini.
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8- In assenza sia di un tipo specifico disturbo di personalità sia di un disturbo di personalità tratto specifico (PDTS), valutare la presenza dei tratti/domini specifici e dei relativi sottodomini qualora fossero utili nella formulazione del caso clinico.
È possibile affermare con certezza che la pubblicazione del DSM-5 cambierà radicalmente la modalità con cui i clinici saranno chiamati ad effettuare diagnosi di disturbi di personalità e il modello ibrido dimensionale-categoriale proposto richiederà di valutare un numero considerevole di dimensioni.
La nuova modalità di valutazione della personalità e dei suoi disturbi ha prodotto un acceso dibattito all’interno della comunità scientifica ed una parte di essa ha assunto una posizione decisamente critica. In ogni modo, il cambiamento proposto dall’APA rappresenta un’assoluta novità e un importante contributo da parte della psichiatria americana al miglioramento dell’efficacia diagnostica del manuale, soprattutto per quanto riguarda il tentativo di associare una diagnosi di tipo categoriale con un sistema di valutazione dimensionale.
Skodol, A. E., Bender, D. S., Morey, L. C., Clark, L. A., Oldham, J. M., Alarcon, R. D., Krueger, R. F., Verheul, R., Bell, C. C., & Siever, L. J. (2011). Personality disorder types proposed for DSM-5. Journal of Personality Disorders, 25, 136-169.
Pensiero matematico e linguaggi anumerici: la tribù Piraha in Amazzonia
– Rassegna Stampa –
Un recentissimo studio pubblicato sulla rivista Journal of Cognitive Science dimostra che alcune lingue presenti sul nostro pianeta non dispongono di parole per esprimere i numeri, e cioè sarebbero linguaggi anumerici, e che gli individui di tali culture abbiano difficoltà nell’esecuzione di comuni compiti quantitativo-matematici.
Lo studio ha preso in considerazione la popolazione Piraha dell’Amazzonia, un gruppo di circa 700 individui semi-nomadi che vivono in piccoli villaggi lungo il fiume Maici, un affluente del Rio delle Amazzoni. Secondo l’antropologo Caleb Everett (University of Miami) i Piraha avrebbero difficoltà nel concettualizzare mentalmente specifiche quantità. Il loro linguaggio presenta solo 3 termini per indicare in modo aspecifico e generico le quantità senza alcun vocabolo che indichi dei numeri: “Hòi” significa “piccola quantità o dimensione”, “Hoì” “abbastanza grande”, mentre “baàgiso” vuol dire “molti o molto grande”.
Everett, sulla base di studi precedenti relativi a questa e ad altre popolazioni anumeriche, ha condotto una serie di esperimenti sul campo che hanno indicato come la popolazione dei Piraha non sarebbe in grado di eseguire semplici compiti matematici, come ad esempio accoppiare singoli elementi quando le quantità in gioco sono maggiori di tre. D’altro canto, quando sono stati introdotti nella loro lingua alcuni termini numerici (ad esempio la parola “tutti i figli della mano” per indicare il numero 4), è stato rilevato un miglioramento anche nelle prestazioni di tipo matematico.
Nell’affrontare l’intricato legame tra linguaggio e pensiero, l’antopologo sottolinea come il miglioramento delle prestazioni matematiche sia da associare a fattori linguistici e non a un più generico fattore culturale. “La preservazione delle lingue è fondamentale sia dal punto di vista scientifico perché ci dice molto riguardo la cognizione umana culturalmente radicata” sottolinea Everett ” sia dal punto di vista degli individui di quella cultura poiché mantenendo viva la loro lingua, mantengono viva anche la loro eredità culturale”.
Trauma e dissociazione: Riflessioni Teoriche e Cliniche verso il DSM-5
La convinzione che l’aver subito abitualmente, da parte delle figure di riferimento, maltrattamenti, abusi o grave trascuratezza durante l’infanzia rappresenti un importante fattore di vulnerabilità per un’ampia gamma di disturbi psichici è ormai in crescente diffusione fra i clinici. Negli ultimi due decenni numerose sono state le ricerche intorno al concetto di trauma ed alle sue ricadute psicopatologiche, e il dibattito che ne è derivato è sempre più intenso e foriero di nuove ed importanti scoperte, utili non solo alla ricerca di base ed alla pratica clinica, ma con rilevanti ricadute a livello sociale.
Ciò che ancora manca è un riconoscimento nosografico ufficiale che permetta di identificare una sindrome specifica che affondi le sue radici in uno sviluppo traumatico e che possa essere diagnosticata nell’adulto in comorbilità con altri disturbi di Asse I o II.
Le diagnosi di Disturbo da Stress Post-Traumatico (Post-Traumatic Stress Disorder – PTSD) e Disturbo Acuto da Stress (DAS), uniche a tenere in considerazione fra i criteri diagnostici l’aspetto eziologico, il trauma appunto (APA, 2000), non sono sufficienti a dare conto di una serie abbastanza specifica di sintomi che ritroviamo con una certa frequenza in pazienti affetti da disturbi differenti ma accomunati dall’aver vissuto storie di sviluppo costellate da traumi relazionali.
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Diversi clinici e ricercatori esperti di patologie correlate ai traumi hanno proposto varie diagnosi, molto simili fra loro, che permetterebbero di identificare anche negli adulti gli esiti psicopatologici di traumi relazionali ripetuti e cumulativi subiti nell’infanzia: Disturbo Traumatico dello Sviluppo (Van der Kolk, 2005) e PTSD complesso (Herman, 1992), per citarne alcuni.
Sembra, infatti, esserci un buon accordo sul fatto che la vulnerabilità conseguente a simili itinerari di sviluppo riguardi principalmente funzioni integratrici di memoria e coscienza ed esiti pertanto in sintomi dissociativi, come mettono in evidenza anche Liotti e Farina nel loro ultimo libro “Sviluppi traumatici”, dedicato proprio a questo argomento (Liotti e Farina, 2011).
Il DSM-IV, tuttavia, non ha accolto queste proposte. Pare che si possa sperare nell’introduzione della diagnosi di “Developmental Traumatic Disorder” nel tanto atteso DSM-5 che renda finalmente conto di una realtà tanto vasta quanto scarsamente riconosciuta a livello diagnostico e di conseguenza anche terapeutico.
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Vorrei qui soffermarmi su alcuni aspetti che riguardano la dissociazione ed il suo legame con esperienze traumatiche ripetute nel corso dello sviluppo.
L’essere esposti ad un’esperienza traumatica, ovvero che comporti un pericolo di vita (da definizione del DSM), attiva in noi il sistema di difesa, un sistema molto arcaico incaricato di proteggerci dalle minacce ambientali che agisce con estrema rapidità ed al di fuori della consapevolezza. Quando scorgiamo un pericolo si attivano in noi in modo assolutamente automatico le 4 risposte fondamentali del sistema di difesa: freezing (congelamento), fight (attacco), flight (fuga), faint (svenimento/distacco).
Il freezing è un’immobilità tonica che permette di non farsi vedere dal “predatore” mentre si valuta quale strategia (attacco o fuga) sia la più adatta per la situazione specifica. Quando nessuna di queste strategie sembra avere qualche possibilità di riuscita l’unica ed estrema risposta possibile è il faint, la brusca ed estrema riduzione del tono muscolare accompagnata da una disconnessione fra i centri superiori e quelli inferiori. E’ una simulazione di morte, ovviamente automatica e non consapevole, perché in genere i predatori preferiscono prede vive. In questa situazione, per mezzo di attivazione del sistema dorso-vagale, vi è un distacco dall’esperienza e sono possibili sintomi dissociativi.
Se, come negli sviluppi traumatici, le condizioni di attivazione del sistema di difesa perdurano a lungo, questa attivazione si trasforma da risposta evolutivamente adattativa in disadattativa, perché impedisce un normale esercizio della metacognizione ed in generale delle funzioni superiori della coscienza, non permettendo l’integrazione di quella memoria traumatica che rimane, tuttavia, iscritta nel corpo (Tagliavini, 2011). Da questo processo deriva la frammentazione, la “molteplicità non integrata degli stati dell’Io” (Liotti e Farina, 2011, pg 37) .
Il termine francese “desaggregation”, disgregazione, utilizzato originariamente da Pierre Janet (Janet, 1898) (uno dei primi e più importanti autori ad occuparsi delle conseguenze psicopatologiche di esperienze traumatiche), ben evidenzia il processo di perdita di coerenza ed integrazione dovuta alla progressiva dissoluzione delle funzioni di coscienza: immaginate ad esempio un edificio, poi immaginate che si disgreghi, piano piano, immaginate che venga giù un pezzettino di intonaco, poi un pezzo di muro, poi un intero mattone, poi tutto il muro, poi la finestra attaccata al muro. Lo stesso avviene nella mente.
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Le esperienze traumatiche agiscono sulle funzioni integratrici superiori disgregandole, come l’edificio che abbiamo immaginato. In questo senso la disgregazione è un processo di cui fenomeni e sintomi dissociativi (distacco/alienazione e compartimentazione) sono il risultato. Per fenomeni si intendono quelle esperienze brevi e poco significative di alterazione della coscienza cui tutti noi andiamo incontro, per esempio nei momenti di transizione tra il sonno e la veglia, o come il dejà vù. Come sintomo, ossia come evento clinicamente significativo, la dissociazione e’ caratterizzata da due aspetti fondamentali: distacco / alienazione e compartimentazione.
I sintomi dissociativi di distacco (o meglio ancora alienazione) sono rappresentati da stati di coscienza di qualità abnorme: trance, stati ipnoidi, stati oniroidi, stati crepuscolari, stati di assorbimento, ottundimento della coscienza, senso di irrealtà. Tali stati esprimono l’allontanamento dall’usuale forma della coscienza e rimandano all’alterazione dell’esperienza di sé (depersonalizzazione) e del proprio mondo circostante (derealizzazione).
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Compartimentazione, invece, significa che la mente sembra funzionare a compartimenti stagni. Sintomi eclatanti di compartimentazione sono l’amnesia dissociativa, la fuga dissociativa fino al disturbo dissociativo dell’identità. Più frequentemente nella pratica clinica si riscontrano stati dell’Io poco o per nulla integrati caratterizzati da atteggiamenti e rappresentazioni di sé divergenti che mai hanno accesso simultaneamente alla coscienza. Non sono infrequenti in questi casi anche sintomi dissociativi somatoformi, come sintomi di conversione, sindromi dolorose psicogene e somatizzazioni.
Questo insieme di sintomi si ritrova con elevata frequenza in persone che hanno subito, nel corso dello sviluppo, ripetute esperienze traumatiche all’interno delle loro relazioni significative.
Un punto importante su cui si è discusso molto negli ultimi anni è se la dissociazione sia o meno una risposta adattativa al trauma, come estrema protezione dall’esperienza dolorosa (Steinberg e Schnall, 2001). Sebbene l’ipotesi più diffusa sia quella che concepisce i sintomi dissociativi come difesa, alcuni autori, fra cui Liotti, sostengono, in maniera piuttosto convincente, che la dissociazione sia “una disgregazione primaria del tessuto della coscienza e dell’intersoggettività, mentre la protezione dal dolore è un aspetto secondario e collaterale che fra l’altro spesso fallisce” (Liotti e Farina, 2011, pg. 85).
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Di più ancora: la dissociazione non solo non sarebbe una protezione dal dolore, ma un’esperienza al limite dell’annichilimento, dalla quale la mente deve difendersi per non sprofondare nell’abisso. Come un osso che si rompe in mille pezzi in seguito ad un trauma fisico non è il risultato di un meccanismo di difesa del nostro corpo, allo stesso modo la disgregazione delle funzioni integratrici della coscienza conseguente ad un trauma psicologico non sembra essere una difesa della nostra mente, ma un effetto collaterale devastante, con gravi ripercussioni sulla capacità di regolazione emotiva, sulle capacità metacognitive e sull’identità.
Certamente l’argomento è troppo vasto per essere esaurito in questa sede. Ciò che mi sembra importante mettere in evidenza è la necessità di dare maggiore spazio a riflessioni su questi temi che sempre di più sembrano riguardare non solo la ricerca ma anche e soprattutto la realtà clinica. Sempre più pazienti che varcano le soglie dei nostri studi (per non parlare degli ambulatori del servizio pubblico) provengono da storie traumatiche e sempre di più avvertiamo l’esigenza di modelli teorici e strumenti di intervento che tengano conto della complessità e della specificità della loro esperienza. Anche l’esponenziale aumento di seminari, corsi ed interventi relativi al trauma ed alle sue connessioni con i disturbi dissociativi sembra una testimonianza importante del diffondersi dell’interesse e di nuove scoperte su questi temi.
American Psychiatric Association (2000) Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorder. Fourth Edition. Text Revision. Washington D.C. Tr.it. Andreoli, V., Cassano, G.B., Rossi, R. (a cura di). DSM-IV-TR. Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali, Masson, Milano 2002.
Herman, J.L. (1992). Complex PTDS: a syndrome in survivors of prolonged and repeated trauma. Journal of Traumatic Stress, 5 (3), 377-391.
Janet, P. (1898) Névroses et Idées Fixes. Alcan, Paris, 1898. Reprint: Société Pierre Janet, 1990.
Liotti, G., Farina, B. (2011). Sviluppi traumatici. Eziopatogenesi, clinica e terapia della dimensione dissociativa. Raffaello Cortina, Milano.
Steinberg, M., Schnall, M. (2001). La dissociazione. I cinque sintomi fondamentali. Tr.it. Raffaello Cortina, Milano 2006.
Tagliavini, G. (2011). Modulazione dell’arousal, memoria procedurale ed elaborazione del trauma: il contributo clinico del modello polivagale e della psicoterapia sensomotoria. Cognitivismo Clinico, 8 (1), 60-72.
Van der Kolk, B.A. (2005). Il Disturbo Traumatico dello Sviluppo: verso una diagnosi razionale per i bambini cronicamente traumatizzati. Tr. it. in Caretti V., Craparo G. (a cura di) Trauma e Psicopatologia. Astrolabio: Roma 2009.
Il sessismo dell’ Ape Regina. Donne che perpetuano gli stereotipi di genere.
Sempre più donne, oggi, scelgono di lavorare, di realizzarsi e di portare avanti il loro progetto professionale, subordinando in alcuni casi il ruolo di madre e di moglie. Diventa obsoleto e chimerico il concetto di potersi dedicare in maniera esclusiva alla famiglia, anzi nell’immaginario collettivo colei che decide di darsi anima e corpo solo ai propri cari risulta poco integrata nella società, per questo sempre meno donne fanno solo le casalinghe.
Per contro, nell’ambito lavorativo si possono incontrare infinite difficoltà, soprattutto da parte dei colleghi, che non vorrebbero mai vedersi scavalcare, surclassare da una donna. Alla fine, nella cultura contemporanea lavorativa è molto diffuso lamentarsi del maschilismo e si è pronti ad additare gli uomini di negare potere, dignità e rispetto alle donne, proprio perché sono anche mamme e mogli.
In realtà si scopre che spesso sono le donne a perpetuare stereotipi sessisti.
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Col termine Ape regina la psicologia del lavoro indica una donna che occupa una posizione di potere, si riconosce una serie di attributi mascolini e deroga compiti di bassa lega alle sue subalterne, relazionandosi solo con colleghi dell’altro sesso, che stima e approva. Secondo i media è proprio la disuguaglianza di trattamento ricevuta dalle donne a determinare la differenza di genere, non i tabù maschilisti quindi, ma i preconcetti esercitati e i comportamenti discriminanti dallo stesso sesso, una sorta di maschilismo al femminile. In uno studio recente si analizza quanto di vero esiste nella credenza: l’insediamento dell’ape regina è la conseguenza o la causa di un luogo di lavoro impregnato di sessismo? In base a questo studio, ambienti lavorativi in cui esiste l’ape regina sono caratterizzati da competitività e agonismo che portano alla lotta per poter raggiungere un ruolo di prestigio. Da questo comportamento deriverebbe, inoltre, invidia per le colleghe e il malcontento diffuso che si traduce in mancanza di mordente. Quindi, le persone oggetto di sessismo sono quotidianamente sul filo del rasoio, e anche le loro emozioni oscillano tra sentimenti discordanti, portando a casa, ineluttabilmente, un senso di rancore e rivalsa.
Da questo studio realizzato dal gruppo di Derks emerge che solo il 7% dei posti di potere nelle 100 più grandi compagnie è occupato dalle donne, che guadagnano stipendi più bassi del 6,5% rispetto agli uomini. E’ stato evidenziato anche come le donne che mostravano i tratti caratteristici dell’ ape regina confermavano, a loro volta, di aver sofferto molto a causa del sessismo e dei pregiudizi durante la loro carriera e si identificavano di meno con le altre donne, poichè riconoscevano a loro stesse delle capacità di dedizione, solerzia, audacia, determinazione e autoefficacia che non individuavano tra le colleghe, ma solo tra i colleghi.
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Le donne in un posto di lavoro potrebbero avere due chance: implementare e stabilire un legame con le altre donne per fare gruppo, per coalizzarsi e diventare “amiche”, o potrebbero distanziare le altre, perdendo la propria identità femminile. Le donne che per personalità tendono a non identificarsi con il sesso femminile ma si riconoscono caratteristiche maschili (non parliamo ovviamente di scelte sessuali, ma di tratti di personalità) scelgono più facilmente la seconda opzione. In questo caso la cultura sessista del lavoro le indurrebbe a lottare per diventare un’Ape regina. Un ambiente di lavoro sessista potrebbe essere la causa, o la conseguenza, del maschilismo al femminile e dare vita a lotte di potere a scapito di altre donne.
Potrebbe essere utile riflettere su questi temi per ridurre il gap esistente tra uomo e donna nei posti di lavoro. L’obiettivo potrebbe essere lavorare per ridurre i valori e le pratiche sessiste che si insidiano nei posti di lavoro, in cui si predica la parità, ma non la garantiscono sul piano sostanziale, dando vita a iniquità e malcontenti sessisti. Alla fine, lottare per ridurre le differenze tra i sessi potrebbe servire? O si finirebbe per aumentare il divario, attribuendo più potere a chi ne ha, portando se stessi in una spirale di autodistruzione?
Secondo me, è la profezia che si autoavvera e la parità non fa parte di questa realtà.
La terapia come un romanzo: chiavi di lettura e interpretazione dei significati.
Il tema di come il soggetto organizzi la propria esperienza, di come la psicoterapia possa fungere da prezioso organizzatore dell’esperienza, è presente con sfumature diverse all’interno di modelli sia psicoterapici sia afferenti ad altre scienze umane. La psicoterapia post-razionalista (Guidano, 1992; 2008; 2010) affronta le molteplici dimensioni del Sé proponendosi di individuare dei principi unificatori che l’individuo utilizza per conferire senso e forma alle percezioni, ai pensieri, ai vissuti emotivi.
Secondo questo approccio la psicoterapia non deve porsi come fonte di insegnamenti che il paziente riceve da una figura esterna più competente di lui, bensì come cammino condiviso nel quale il paziente e il clinico vanno alla ricerca e alla scoperta delle chiavi di lettura adatte a ricostruire un percorso esistenziale. La psicoterapia cognitiva, negli ultimi anni, si è molto interessata allo studio delle narrative personali (Lenzi e Bercelli, 2010), che si configurano anch’esse come un cammino di esplorazione che pone parzialmente in secondo piano l’intervento diretto sul sintomo, privilegiando invece il significato soggettivo che il paziente attribuisce alla propria esperienza.
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Nella stessa direzione si colloca il pensiero filosofico (Demetrio, 1996), che riconosce nell’autobiografia un esercizio fondamentale a disposizione dell’individuo per comporre un quadro coerente ed esplicativo dei propri vissuti. Tale strumento è considerato utile non tanto al terapeuta impegnato a comprendere il funzionamento psicologico del paziente – l’approccio filosofico estende la propria teoria a qualunque contesto di analisi introspettiva – quanto al soggetto stesso che raccontandosi diventa autore e insieme fruitore di questo mezzo espressivo.
I temi di vita, i progetti esistenziali che condizionano l’esperienza secondo sfumature differenti, divengono più che mai centrali allorché la sofferenza dell’individuo risulta insopportabile e lo conduce ad intraprendere una psicoterapia; il lavoro del clinico sarà perciò orientato a comprendere quali aspettative, obblighi morali, desideri profondi abbiano fin lì determinato le scelte del paziente, la qualità delle sue relazioni interpersonali, le modalità di interpretazione del contesto ambientale, l’immagine di sé.
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E’ frequente in terapia incontrare delle resistenze al cambiamento che appaiono indecifrabili, sfuggenti; da clinici ci domandiamo cosa impedisca al paziente di elaborare alternative esistenziali che sarebbero per lui più utili, più strategiche e benefiche: la risposta è spesso contenuta nei temi di vita, nei progetti esistenziali, che possono proteggere l’individuo attraverso l’evitamento di quegli scenari sui quali egli percepisce di non avere un controllo sufficiente. Viene quindi privilegiato il mantenimento di una costellazione emotiva e cognitiva che pur riverberandosi in una serie di esperienze dalle quali il paziente afferma di ricavare sofferenza, rappresentano una sorta di male minore: dovesse abbandonare quegli automatismi, egli sarebbe costretto ad elaborare un’immagine di sé del tutto nuova, in conflitto col sistema di valori e percezioni che fino a quel momento hanno conferito un significato stabile e controllabile al suo vissuto.
La terapia può essere la riscrittura di un romanzo: il paziente porta una storia di vita che esattamente come le opere letterarie presenta un protagonista, uno o più antagonisti, uno o più ambienti esterni e molti personaggi che entrano in contatto con la trama.
Ciascuna di queste figure è portatrice di contenuti propri e peculiari, ciascuna di queste figure è animata da richieste, scopi, conflitti; le relazioni tra esse possono svilupparsi in modi coerenti o contraddittori, generare piacere o dolore, e in ogni interazione sono posti in gioco valori identitari, emozioni legate alle funzioni di ruolo, comportamenti evolutivi o di semplice autoconservazione. Nella nostra esperienza di lettori sappiamo che un romanzo può essere scritto perfettamente ma non trasmettere emozioni, o al contrario lasciarci perplessi sullo stile donandoci però un senso profondo di ciò che leggiamo; la prima esigenza che manifestiamo da lettori è quella di ricavare un significato, non importa se oggettivo o soggettivo, e a partire da questo bisogno ci poniamo delle domande cercando di collocare i vari elementi narrativi in una cornice che alla fine risulti esaustiva.
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Anche quando un romanzo ci racconta di eventi terribili, anche quando ci lascia nell’incertezza, è importante per noi comprendere cosa sia successo o avere almeno la possibilità di ricostruire con la nostra soggettività una o più ipotesi di significazione dell’intreccio letterario.
La psicoterapia può essere questo: il paziente giunge con un libro pieno di vuoti, con tante note a pie’ di pagina che non sa più come integrare, e tanti dubbi su quale sia stata la reale funzione degli eventi che hanno contraddistinto la sua vita. Man mano che la terapia colma queste lacune di senso, accrescendo non la felicità del paziente bensì la sua capacità di maneggiare le emozioni spiacevoli, prende corpo un romanzo rivisto e corretto, nel quale non si è modificata la cifra oggettiva dei fatti bensì la rappresentazione del significato globale. Il paziente attraversa spesso una fase depressiva quando realizza che né la terapia né il tempo sopprimono gli stati d’animo indesiderati, ma con l’aiuto discreto del terapeuta diventa più forte nell’accettare che ogni elemento abbia avuto una funzione all’interno del romanzo, che nulla, in altre parole, sia stato vissuto inutilmente.
BIBLIOGRAFIA:
Demetrio, D. (1996). Raccontarsi. L’autobiografia come cura di sé. Raffaello Cortina, Milano.
Guidano, V. (1992). Il Sé nel suo divenire. Verso una terapia cognitiva post-razionalista. Bollati Boringhieri, Torino.
Guidano, V. (a cura di Cutolo, G.) (2008). La psicoterapia fra arte e scienza. Franco Angeli, Milano.
Guidano, V. (a cura di Mannino, G.) (2010). Le dimensioni del Sé. Una lezione sugli ultimi sviluppi del modello post-razionalista. Alpes Italia, Roma.
Lenzi, S., Bercelli, F. (2010). Parlar di sé con un esperto dei Sé. L’elaborazione delle narrative personali: strategie avanzate di terapia cognitiva. Eclipsi, Firenze.
Ansia Sociale. Non ci siamo già visti da qualche parte?
– Rassegna Stampa –
Studiati gli effetti di un breve contatto in chat sull’ansia sociale nelle successive interazioni faccia a faccia.
L’ansia sociale è un fenomeno diffuso in relazione a molteplici situazioni interpersonali. L’emergere della comunicazione mediata da computer (CMC) e l’esplosione dei social networks, sta modificando le modalità con cui le persone creano e mantengono le relazioni sociali.
In un recente studio sperimentale attualmente in press e disponibile on-line su Behaviour Research and Therapy i ricercatori hanno voluto verificare l’effetto di una breve e iniziale presentazione via chat sull’ansia sociale, ipotizzando un effetto positivo di riduzione di ansia ed evitamento negli individui fobici sociali. Nello studio 60 soggetti – con livelli alti e bassi di ansia sociale, sono stati assegnati in modo randomizzato a due condizioni: una condizione sperimentale in cui veniva loro chiesto di presentarsi e di conoscere brevemente in chat un interlocutore, e una condizione di controllo in cui dovevano semplicemente navigare in Internet. A seguito di tali condizioni, i partecipanti incontravano effettivamente faccia a faccia il loro interlocutore, già conosciuto in chat nella condizione sperimentale, mentre completamente estraneo nella condizione di controllo. I risultati confermano l’ipotesi dei ricercatori: quanto meno in semplici situazioni comuni in cui la presentazione in chat precede l’interazione faccia a faccia con la stessa persona, il contatto virtuale determinerebbe una riduzione dell’ansia sociale.
I Volti della Menzogna, di Paul Ekman – L’arte di mentire senza farsi scoprire.
A detta di Samuel Butler “Qualsiasi imbecille può dire la verità, ma è necessario un uomo di senno per saper mentire bene”. Raccontare una bugia e darla a bere a chi ci sta di fronte non è così semplice. Certo, il fattore sfortuna è sempre in agguato: avete appena terminato di raccontare ai vostri genitori della interessantissima giornata trascorsa a scuola ed eccovi immortalati in un servizio del tg serale mentre gozzovigliate alla Fiera del Fumetto. Ci sono però degli errori che commettete vostro malgrado: essere colti alla sprovvista con una domanda e non avere pronta una storia, non ricordare quanto raccontato in precedenza e cadere in contraddizione sono errori strategici che possono far nascere il sospetto che non la stiate contando giusta; dopo aver mentito occorre avere buona memoria e prontezza di spirito, e non è cosa da tutti!
Quando poi entrano in gioco le emozioni, queste creano dei problemi assolutamente particolari. “Le bugie fanno fiasco perché trapela qualche segno di un’emozione nascosta”, come per esempio la paura di essere scoperti, il senso di colpa perché si sta mentendo e in alcuni casi l’incontenibile piacere provato all’idea di beffare l’altro.
La situazione si fa ancora più complicata quando si tenta di celare un’emozione simulandone un’altra. Provate a mostrarvi arrabbiati quando invece avete paura: la vostra faccia si contorcerà facendovi somigliare ad un ritratto cubista perché gli impulsi suscitati dai due sentimenti tirano in direzioni opposte; per esempio le sopracciglia nella paura si sollevano involontariamente, ma nella rabbia bisogna aggrottarle!
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Ma quali sono gli indizi che svelano l’inganno? Ce li spiega Paul Ekman, uno dei più grandi studiosi di emozioni e comunicazione non verbale, alle cui ricerche si sono interessati persino il Dipartimento di Difesa americano e i servizi segreti per il controspionaggio. Nel suo libro I volti della menzogna (che ha ispirato la celebre serie tv Lie to me con Tim Roth), Ekman indica cosa cercare nella voce, nelle parole, nel volto e nella postura delle persone per capire se stanno mentendo o meno.
Il capitolo più affascinante descrive gli indizi di menzogna nel viso e spiega come sia possibile distinguere le espressioni autentiche di un’emozione, determinate dall’attivazione dei muscoli involontari, da quelle false, dovute all’azione intenzionale dei muscoli volontari del viso. Ekman ha dedicato allo studio delle espressioni facciali decenni e migliaia di ore di attenta osservazione di videoregistrazioni, ed è stato il primo a sviluppare un metodo esauriente e oggettivo per rilevarle e quantificarle; il risultato di questo imponente lavoro è The Facial Action Coding System (1978), un corso programmato, completo di manuale, software, fotografie e filmati illustrativi che insegna a descrivere e misurare qualsiasi espressione. Un vero e proprio corso per lie detector! Ekman sostiene che con un po’ di esercizio e dedicando tempo a guardare ed ascoltare con attenzione, osservando la comparsa degli indizi descritti nel libro, si può effettivamente migliorare nella stima della probabilità che l’interlocutore stia mentendo. Il programma di training è disponibile anche sul sito www.paulekman.com.
Se sperate invece che il libro vi sveli qualche trucco per mentire meglio, cascate male! A quanto pare saper mentire è un talento naturale, un’arte che non può essere appresa. A meno che non siate attori nati, ogni qual volta racconterete una bugia lascerete dietro di voi un’infinità di indizi inequivocabili! Fortunatamente per voi la gente di solito presta maggiormente attenzione proprio alle fonti meno degne di fede (es. le parole) anziché a quelle più affidabili (es. voce, corpo) lasciandosi trarre facilmente in inganno. Pertanto se ne avete appena raccontata una grossa, dormite pure sonni tranquilli! A meno che il vostro interlocutore non abbia seguito il training di Ekman, molto probabilmente la passerete liscia.
BIBLIOGRAFIA:
Ekman, P. (1989) I volti della menzogna (titolo originale: Telling Lies. Clues to deceit in the merketplace, politics, and marriage). Firenze. Giunti Editore spa
Ekman, P. & Friesen, W.V. (1978) The Facial Action Coding System. Palo Alto, Consulting Psychologists Press