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Iniziare una terapia cognitiva #1: Concordare le regole

 

Iniziare una Terapia Cognitiva: Concordare le Regole. - Immagine: © Bernard BAILLY - Fotolia.com Il punto di partenza della terapia cognitiva, la prima regola del gioco da stabilire tra paziente e terapeuta, è chiarire le regole. Il terapeuta cognitivo fin dall’inizio agisce in piena trasparenza e comunica al paziente come funziona la terapia cognitiva e come agisce sulla sofferenza emotiva. Proprio perché la terapia cognitiva privilegia l’aspetto esplicito e cosciente dell’attività mentale, è giusto che le regole del gioco siano condivise esplicitamente.

Si tratta di comunicare al paziente l’ipotesi del primato cognitivo, per la quale l’elaborazione consapevole degli stati mentali in forma di informazione esplicita, verbalizzabile e comunicabile è in grado di spiegare e guidare gli stati emotivi e pianificare il comportamento in vista di scopi (Clark e coll., 1999). Una formulazione leggermente differente sostiene che ogni stato mentale, anche il più spontaneo e immediato, corrisponde in realtà a una valutazione cognitiva della realtà esterna e degli stati interni, ovvero è informazione. È il caso delle emozioni, stati interiori spontanei che però sono anche informazione: così la paura è una valutazione di pericolo, la vergogna di un imbarazzo sociale, la colpa di violazione di una regola (Castelfranchi, 1988).

Naturalmente tutto questo va comunicato al paziente non usando questa pedante terminologia tecnica, ma con parole semplici e facilmente comprensibili. La spiegazione avviene partendo proprio dal problema presentato dal paziente stesso. A volte questa operazione è – almeno apparentemente- non troppo difficile. Ad esempio:

P.: Vengo da lei perché ho timore di prendere l’ascensore.

Storie di Terapie - © Athanasia Nomikou - Fotolia.com
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In questo caso lo stato emotivo di timore è già ben collegato a un pensiero: la valutazione di un pericolo abbastanza ben definito, che è naturalmente rimanere bloccati in ascensore (anche se poi il terapeuta cognitivo metterà in discussione questo pericolo; ma questa è già terapia e quindi lo vedremo in seguito).

Altre volte l’intervento può essere più complesso. Lo stato emotivo di sofferenza è percepito come stato mentale, ma il paziente sembra concepire questo stato mentale come una sorta di fatto oggettivo dotato di vita propria e non come prodotto di operazioni mentali, sia pure in parte automatiche e non ponderate. Leggiamo un altro esempio.

P.: Il mio problema è l’ansia.

T.: Capisco. Poniamoci insieme una domanda: perché proviamo ansia?

Annotazione tecnica: il rischio della sfida razionalistica è sempre dietro l’angolo. Il paziente potrebbe sentirsi sottoposto a un interrogatorio, o peggio trattato da idiota. Il “noi” terapeutico evita questo rischio. Noi soffriamo insieme al paziente e condividiamo il suo problema.

P.: Non so. Perché proviamo ansia?

T.: Intendo dire: questo stato d’animo, l’ansia, come mai lo proviamo? Quando e perché siamo in ansia? Perché lo si prova?

P.: Non c’è un perché. Io ho l’ansia. L’ansia c’è, arriva. Vorrei liberarmene.

Qui è evidente che per questo paziente l’ansia è un fatto negativo che capita, una sorta di disgrazia o di sciagura, sia pure mentale, che va eliminata.

Marco, l'ultimo samurai. Immagine: © Diedie55 - Fotolia.com -
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Non a caso, questa concezione oggettiva degli stati mentali può portare il paziente a cercare spiegazioni in cause non coscienti. La concezione popolare della genetica o dell’inconscio freudiano sono particolarmente adatte a fornire questo tipo di giustificazioni.

P.: La mia ansia potrebbe avere della cause inconsce. Non saprei. Forse c’è un significato che non conosco?

Oppure

P.: Dipenderà dalla mia genetica?

Le ipotesi psicodinamiche o genetiche sono naturalmente rispettabili, ma non sono compatibili con la fiducia della terapia cognitiva nell’elaborazione volontaria e consapevole. 

La terapia cognitiva invece mantiene il presupposto che gli stati emotivi di sofferenza sono spiegabili con cose che il paziente pensa o ha pensato consapevolmente e non inconsciamente. Questi pensieri collegati alla sofferenza sono però percepiti come confusi e incontrollabili. In ogni caso, a un certo punto la condivisione esplicita delle regole diventa necessaria:

T.: Ora le spiego. In terapia cognitiva si dà importanza a quel che lei pensa consapevolemente.

P.: E quindi?

T.: Quindi, ogni emozione, ogni stato d’animo è anche un pensiero. Per “pensiero” intendo quelle piccole frasi che tutti noi diciamo a noi stessi mentalmente, e con le quali valutiamo una situazione, pensiamo cosa fare, come comportarci. Queste frasi interiori sono quello che pensiamo. O meglio, sono il modo con il quale chiariamo a noi stessi quel che sentiamo e pensiamo. Per esempio, la gioia si accompagna alla constatazione che è accaduto qualcosa che ci rende felici, o che almeno ci soddisfa. Per l’ansia è lo stesso. Cosa si pensa quando si ha l’ansia?

Vado in terapia: aspettative e timori - Immagine: © andrewgenn - Fotolia.com -
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A questo punto dovrebbe essere più facile per il pensiero collegare l’ansia a una preoccupazione cosciente per qualcosa: una valutazione consapevole della presenza di un pericolo.

P.: Beh, l’ansia è timore, timore di qualcosa.

T.: Esatto: per essere precisi l’ansia si unisce a una valutazione di pericolo. Lei teme qualcosa. E che cosa?

Naturalmente non sempre va così liscia.

P.: Le assicuro che non ho pensato a nulla. Ho l’ansia, e nient’altro.

T.: Capisco. Tuttavia vorrei che fossimo d’accordo su questo punto: ogni emozione corrisponde a un pensiero. Magari un pensiero confuso, un pensiero in cui davvero lei non ha pronunciato nessuna particolare “piccola frase” dentro la sua testa. Un pensiero che somiglia più a una sensazione che a qualcosa che possa essere detto in parole. Ma comunque un pensiero.

P.: (cenni o mormorii di assenso)

T.: Quindi le direi che comunque l’ansia corrisponde a un pensiero. Pensiamoci: a quale pensiero?

P.: Evidentemente c’è qualcosa che mi preoccupa. Che mi mette in ansia. Ho paura di qualcosa? Ma di cosa?

T.: Cercheremo di capirlo.

E qui finisce bene. Ma se ancora il nostro paziente non afferra il concetto?

P.: Dottore, continuo a non capire. So solo che io ho l’ansia, punto. Non so come dirglielo: non penso a nulla.

T.: D’accordo, la aiuto. Facciamo l’esempio inverso. Lei dice che quando ha questa ansia che la tormenta non pensa a niente. D’accordo. Ci credo. Però è vero che esistono pensieri che ci fanno venire l’ansia.

P.: Per esempio?

T.: Mah, per esempio, il timore di arrivare in ritardo. Il timore di non poter stare più bene

P.: (cenni o mormorii di assenso) e quindi?

T.: E quindi l’ansia può essere generata da un pensiero.

P.: D’accordo, ma nel mio caso? Continuo a non avere idea di quale pensiero può avermi generato ansia.

T.: Lo troveremo. Per ora l’importante è che lei convenga su questo punto: può esserci un pensiero. Un pensiero che possiamo chiarire e poi perfino modificare. E modificandolo, agire sulla sua sofferenza. Questa è la terapia cognitiva. Vediamo ora come e quando si presenta questa ansia. In quali momenti della sua giornata. Ora le farò delle domande precise.

 

E così siamo passati alla fase successiva: dal concordare le regole al grande tema dell’accertamento cognitivo. Che approfondiremo nei prossimi capitoli. Ora concludiamo con qualche altra annotazione teorica e pratica su come concordare regole.

Insomma, la terapia cognitiva si gioca tutta su questo rapporto tra pensiero verbale interno e altri stati d’animo non verbali. Al paziente il terapeuta cognitivo chiede sempre di effettuare il passaggio dal “sentire” e “provare” al “pensare frasi”. Passaggio a volte forse difficile, ma mai ritenuto impossibile. Non si deve andare alla ricerca di significati profondi, ma valutare le ragioni dei propri stati d’animo del presente con buon senso e semplicità.

Come già scritto, chi ideò questo principio terapeutico fu Albert Ellis. Ellis riteneva che gli stati mentali non solo fossero agevolmente traducibili in parole, ma che essi fossero sempre determinati da pensieri coscienti espressi in forma verbale, o almeno verbalizzabile, che precedevano gli stati emotivi “sentiti”. Questa posizione era ingenua, ma di grande efficacia pratica nello stabilire i principi della tecnica cognitiva.

La formulazione ingenua non impedì a Ellis di cogliere con grande chiarezza e precisione il nuovo principio terapeutico: la sofferenza mentale non dipende da stati mentali inconsci e pregressi, ma da elaborazioni mentali consapevoli che il soggetto si auto-infligge nel presente con un certo automatismo ma in fondo volontariamente, dandone per scontato il valore di verità e la fondatezza razionale. Ellis svalutava quindi tutta la porzione non esplicita e non verbalizzabile dell’elaborazione mentale, sostenendo che invece è la componente esplicita l’elemento responsabile della sofferenza emotiva.

Una spietata e instancabile amorevolezza: Otto Kernberg e John Clarkin a Padova. 21-23 settembre 2011
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Naturalmente Ellis non arrivava a sostenere che i pensieri si presentino alla mente sempre e comunque in forma perfettamente articolata e sviluppata. Per Ellis si tratta, piuttosto, di piccole e rapide frasi, apparentemente innocue ma in grado di generare sofferenza.

La formulazione con la quale questi pensieri si presentano alla mente è spesso semplicistica e definitiva: etichettature, indottrinamenti, auto-istruzioni, per lo più poco argomentate e ancor meno articolate ma auto-inflitte in forma di verità apodittiche e auto-evidenti con un gusto che parrebbe masochistico, dato il loro contenuto negativo. Ellis le chiamava “sciocche frasi” che usiamo dire a noi stessi.

La componente effettivamente terapeutica del trattamento diventava quindi la ricerca e l’esplorazione di queste “sciocche frasi” (Ellis, 1962). Così si esprime una paziente descritta da Ellis: “Ogni qual volta mi scopro ad avere dei sensi di colpa o un turbamento, penso immediatamente che la causa di questo turbamento debba essere una sciocca frase che sto dicendo a me stessa…” Non si tratta più di andare a cercare le cause lontane della sofferenza, ma le cause mentali immediate, presenti ed agenti qui ed ora, in questo momento.

Per il terapeuta cognitivo ogni stato mentale è verbalizzabile come informazione, valutazione di una situazione più o meno problematica ed è padroneggiabile e modificabile attraverso la rielaborazione critica razionale e consapevole. Questo vale per qualunque stato mentale, dalle emozioni alle immagini mentali, dagli stati affettivi alle fantasticherie, dalle meditazioni più ponderate agli impulsi improvvisi. Ognuno di questi stati è traducibile in parole, in pensieri verbali comunicabili. E questo è valido anche per gli stati di sofferenza emotiva che sono alla base delle richieste di trattamento terapeutico.

La condivisione esplicita di questo principio con il paziente è una regola molto caratteristica della terapia cognitiva. Essa invece non è sempre presente in altri orientamenti terapeutici, nei quali si ritiene che queste spiegazioni esplicite delle regole del gioco possano o addirittura debbano essere almeno in parte evitate. Il che non vuole dire che esse siano intenzionalmente nascoste al paziente. Semmai si preferisce che esse emergano da sole dallo spontaneo articolarsi dell’interazione tra paziente e terapeuta. Si tratta di una concezione diversa, nella quale si prova diffidenza per l’esplicito, elemento ritenuto potenzialmente sospetto e in grado di falsare l’emergere dei contenuti psichici più profondi e inconsci. Non è invece così nella terapia cognitiva, la quale fin dall’inizio invece segnala la sua fiducia nella gestione esplicita e consapevole del gioco terapeutico e degli stati mentali.

 

 

BIBLIOGRAFIA: 

  • Castelfranchi, C (ed.) (1988). Che figura. Emozioni e immagine sociale. Bologna: Il Mulino, 1988.
  • Clark, D. A., Beck, A. T., Alford, B. A. (1999). Scientific foundations of cognitive therapy and therapy of depression. New York: John Wiley & Sons.
  • Ellis, A. (1962). Ragione ed Emozione in Psicoterapia. Tr. it. 1989. Roma, Astrolabio.

Il mio psicoterapeuta suona il rock

Di Gaspare Palmieri. 

 

La canzone è una penna e un foglio così fragili fra queste dita, è quel che non è, è l’erba voglio ma può essere complessa come la vita.

Una canzone, Francesco Guccini, 2004,

 

Il mio Psicoterapeuta suona il Rock! - Immagine: © Isaxar - Fotolia.com - Il lavoro psicoterapico può avvalersi di una serie di strumenti non propriamente nati all’interno delle teorie psicologiche, ma che possono essere utilizzati strategicamente dal terapeuta con diverse finalità come quella di:

  • migliorare l’alleanza terapeutica,
  • allenare il paziente al riconoscimento delle proprie emozioni,
  • evocare stati emotivi piacevoli o spiacevoli ed aiutarlo a riflettere sugli stessi,
  • condividere nuove idee e scenari rispetto al raggiungimento del benessere psichico,
  • dare speranza in situazioni fortemente problematiche.

La canzone d’autore italiana, ha una serie di caratteristiche importanti che la rendono uno strumento utile all’interno di un contesto psicoterapico. I testi dei cantautori sono caratterizzati dalla ricchezza e dalla profondità dei contenuti, trattando argomenti legati alle difficoltà esistenziali, al rapporto tra individuo e società, ai legami coppia e alla loro rottura, al dilemma tra ricerca di libertà e amore romantico, al sogno. Questi temi si presentano molto frequentemente all’interno di un percorso psicoterapico e il testo della canzone può così integrarsi molto facilmente.

Ma cosa si intende esattamente per canzone?

Psicantria - Copertina disco -
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Gli studiosi di musicologia fanno risalire la nascita della canzone italiana moderna al 1958, quando Domenico Modugno, dal palco dell’Ariston di Sanremo regalò al mondo la sua celeberrima Volare, e le sue braccia spalancate nel ritornello hanno assunto il significato storico di una piccola rivoluzione. Non solo la gestualità di Modugno, così lontana dalla compostezza controllatissima dei cantanti del tempo, lasciò un paese intero a bocca aperta, ma la canzone in sé rappresentava un’evidente evoluzione a livello di contenuti rispetto ai brani di quel periodo. Fino ad allora la canzone italiana aveva avuto come tema prevalente l’amore idealizzato e romantico, spesso cantato in modo melodrammatico, o ancora prima tematiche patriottiche derivanti dalla canzone popolare. Volare apriva la strada a un modo di scrivere canzoni più libero, che lasciva spazio alla metafora, alla fantasia, al sogno, e paradossalmente alla realtà più autentica.

Da quel momento la canzone italiana ha assunto le caratteristiche di un’entità più complessa costituita da un testo, una melodia, un’armonia e un arrangiamento che integrandosi costituiscono qualcosa di unico. Alcuni produttori definiscono la canzone come un piccolo film, che deve essere equilibrato in tutte le sue parti per essere un buon film.

 

Oltre al contenuto della canzone, ci sono altri due elementi da considerare per definire meglio la potenza dello strumento canzone.

Il primo è l’adattamento del testo su una musica (che distingue la canzone dalla poesia), capace di penetrare letteralmente nell’ascoltatore con effetti evocativi ed emotivamente stimolanti. Questi effetti sono legati alla musica, ma anche all’interpretazione vocale del cantante. L’interpretazione e la voce del cantante sono fondamentali. Sono ciò che rende immediatamente riconoscibile ed unico un brano a partire dalla voce narrante.

Potremmo definire la voce del cantante come una trasmissione di “umanità” da un individuo all’altro. In un gioco simbolico la voce narrante nella canzone può diventare la voce di tua madre che ti canta la ninna nanna, la voce di tuo padre che ti incoraggia ad andare avanti o che canta con te l’Inno di Mameli di fronte alla TV durante i Mondiali, la voce del tuo partner che ti sussurra all’orecchio qualche frase nell’intimità o addirittura la voce dello psicoterapeuta, che solitamente non canta (ma ci possono essere eccezioni…), ma che ti ascolta e che può pronunciare frasi chiave, che possono rappresentare una guida per la vita intera (o quasi). Francesco Guccini, nel suo sforzo metacognitivo intitolato appunto “Una canzone”, parla di “…una voce che non è voce, ma con carambola lessicale, può essere un prisma di rifrazione, cristallo e pietra filosofale”.

Musica didattica metacognitiva - © Tommi - Fotolia.com
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Il secondo elemento è l’incredibile capacità delle canzoni di penetrare nella vita delle persone, consciamente o inconsciamente. L’anno scorso è uscito un bel libro di Vincenzo Incenzo (2011), musicista e parolierie di Renato Zero, La canzone in cui viviamo, un viaggio in cento canzoni importanti per la musica italiana. L’autore sottolinea come le canzoni, proprio perché brevi e memorizzabili, possono rappresentare dei cips cibernetici che vanno a costituire la nostra memoria di vita, dei markers delle nostre emozioni e dei nostri ricordi, un concime ricchissimo per la nostra crescita maturativa.

Risultano addirittura fondamentali in quel bisogno di appartenenza che caratterizza ad esempio gli adolescenti, soprattutto nel mondo di oggi. Secondo la psicosociologa Marylin Brewer (1991) gli individui oscillano tra due bisogni fondamentali: quello di appartenenza ad un gruppo e quello di differenziazione. Certe canzoni riescono a rispondere ad entrambi i bisogni allo stesso tempo. Da una parte il brano ci dice “Sei uno di noi”, fai parte del nostro gruppo, non sei solo, ma dall’altra ci dice anche “Sei unico” o “Siamo unici”. L’inno generazionale di Vasco Rossi Siamo solo noi (1981) è un esempio perfetto di appartenenza (Siamo…noi) e differenziazione (solo) dal resto del mondo piccolo borghese e perbenista. Visto che di questi tempi non si può citare Vasco Rossi senza fare dedicare un pensiero al grande “rivale”, non possiamo dimenticare Luciano Ligabue che canta Non è tempo per noi (1990), un manifesto degli abitanti della “provincia” del mondo, un po’ delusi, un po’ disillusi, in cui migliaia di fans del cantautore di Correggio si identificano da oltre due decenni. Vasco Rossi e Luciano Ligabue, sicuramente i due cantautori italiani viventi con più vasto seguito, gli unici oggi a riuscire a celebrare quelle incredibili cerimonie laiche che sono i concerti negli stadi, devono il loro meritato successo alla capacità di scrivere canzoni in cui risulta molto semplice riconoscersi e identificarsi.

Musicoterapia_© puckillustrations - Fotolia.com
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Vasco Rossi ci riesce scrivendo testi dai confini concettuali spesso un po’ labili e indefiniti, con tanti puntini di sospensione, che vengono riempiti dall’esperienza stessa dell’ascoltatore. Frasi come “ti piace vivere come vuoi”, “siamo i difficili, fatti così”, “liberi, liberi siamo noi” nella loro spontanea genericità, sono un invito immediato all’identificazione.

Luciano Ligabue usa un linguaggio più preciso e circostanziato, che ha però la stessa capacità di favorire il processo di immedesimazione dell’ascoltatore, cercando un equilibrio tra il racconto di un’esperienza personale e la voglia di condividere in un sentimento collettivo, come in “A parte che i tempi stringono e tu li vorresti allargare e intanto si allarga la nebbia e avresti voluto vivere al mare” (Niente paura, 2007), o in “E ora che ci sei, fammi fare un giro su chi non son stato mai” (Questa è la mia vita, 2002) “L’amore conta, conosci un altro modo per fregar la morte?” (L’amore conta, 2005).

Spesso è proprio quando riascoltiamo una canzone dopo tanti anni che ci rendiamo conto quanto quella canzone ha significato per noi, a quali ricordi è collegata, in una sorta di intricato percorso mentale fatto di associazioni che spesso ci lascia a bocca aperta.

Mi capita di notare costantemente questo fenomeno durante il gruppo di ascolto che tengo settimanalmente all’Ospedale Privato Villa Igea di Modena con gruppi di pazienti ricoverati affetti da depressioni gravi, disturbi della personalità e alcolismo. Anche i pazienti più gravi pare che abbiano conservato questo sistema evocativo e sono in grado di ricordare in modo preciso luoghi, circostanze e persone collegate alla canzone. Gli stessi pazienti che faticano invece moltissimo nelle ricostruzioni narrative dei propri disturbi nelle sedute psicoterapiche, come se ci fosse una vera e propria via preferenziale per le canzoni. Questa cosa mi ha sempre colpito.

Le canzoni possono rappresentare le tappe che aiutano l’autonarrazione della propria storia personale.

 

 

BIBLIOGRAFIA:  

  • Brewer, M. B., (1991). The social self: On being the same and different at the same time. Personality and Social Psychology Bulletin, 17, 475-482.
  • Incenzo V. La canzone in cui viviamo. No reply, 2011.

Stili educativi genitoriali e delinquenza adolescenziale.

– Rassegna Stampa – 

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze PsicologicheOgni genitore è costretto a confrontarsi con il tema dell’autorità genitoriale e a chiedersi quale si il modo migliore per trasmettere regole e valori ai propri figli.

Una ricerca pubblicata sul Journal of Adolescence ha indagato la relazione tra stile educativo genitoriale e percezione di autorevolezza da parte dei figli, allo scopo di vedere come questa è in grado di mediare nella messa in atto di comportamenti delinquenziali. 

Lo studio ha utilizzato i dati di una ricerca longitudinale, condotta su ragazzi delle scuole medie e superiori, nel corso della quale sono stati analizzati i fattori psicologici, sociologici, legali e di sviluppo che influenzano la delinquenza negli adolescenti. I ricercatori hanno valutato gli effetti di tre diversi stili educativi genitoriali: autorevole, autoritario e permissivo.

  • I Comportamenti aggressivi dei bambini - Immagine: © Pixlmaker - Fotolia.com
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    I genitori autorevoli sono esigenti e controllanti ma sanno anche essere accoglienti e attenti alle esigenze dei figli. La comunicazione su regole e ruoli è bidirezionale e condivisa. I figli di genitori autorevoli tendono ad avere fiducia in sé stessi, autocontrollo e ad essere soddisfatti.
  • I genitori autoritari sono anch’essi controllanti ed esigenti, ma sordi alle esigenze dei figli. La comunicazione è quindi unilaterale e i ruoli e le regole sono stabiliti rigidamente e imposti dall’alto, senza condivisione dei significati. I figli di genitori autoritari sono scontenti, chiusi e sospettosi.
  • In ultimo i genitori permissivi sono poco esigenti e per nulla controllanti, accoglienti e sensibili alle esigenze dei figli; se stabiliscono delle regole raramente queste vengono rinforzate e fatte rispettare. I loro figli sono i meno autosufficienti, aperti all’esplorazione, e con minor autocontrollo delle tre categorie considerate.

L’elemento che lega lo stile genitoriale ai comportamenti delinquenziali è la percezione di legittimità dell’autorità genitoriale: lo stile autorevole rende gli adolescenti più propensi ad accettare i tentativi di socializzazione dei genitori e rende più facile che rispettino e facciano proprie le regole stabilite in famiglia; lo stile autoritario invece ha l’effetto opposto sulla legittimazione dell’autorità genitoriale e spinge gli adolescenti a respingere i tentativi di socializzazione dei genitori e di conseguenza anche le regole proposte; in ultimo lo stile permissivo rende difficile che i figli riconoscano e rispettino l’autorità genitoriale; sembra che questo stile educativo non favorisca né impedisca il verificarsi di comportamenti delinquenziali.

E tu che genitore sei?

 

 

 BIBLIOGRAFIA: 

Intervista al Dott. Paolo Rigliano

Paolo Rigliano, psichiatra e psicoterapeuta. Il suo nuovo libro , edito da Cortina, esce in questi giorni e propone un’analisi e una disanima scientifica delle pseudoterapie e delle ideologie riparative dell’omosessualità, considerata come una “malattia”, e in quanto tale, curabile.

Gentilissimo, il Dott. Rigliano ha accettato di fare due chiacchiere con la redazione di State of Mind:

 

 

BIBLIOGRAFIA: 

  • Rigliano, P. Ciliberto, J. Ferrari, F.  (2012). Curare i gay? Oltre l’ideologia riparativa dell’omosessualità. Raffaello Cortina Editore
  • Stacey, J., Biblarz, T.J. How does the sexual orientation of parents matter? In «American Sociological Review», 66, 2001, pp. 159-183.
  • Biblarz, T.J., Stacey, J. How does the gender of parents matter? In «Journal of Marriage and Family», 72, 2010, pp. 3-22.
  • Committee on Lesbian, Gay, and Bisexual Concerns (CLGBC), Committee on Children, Youth, and Families (CYF), Committee on Women in Psychology (CWP). Lesbian and Gay Parenting. American Psychological Association, Washington, DC, 2005.

E ora dove andiamo? Il conflitto libanese e la folle impulsività dei maschi.

 

E ora dove andiamo? Il conflitto libanese e la folle impulsività dei maschi. -  Immagine:  © Les Films des TournellesIeri sono capitata in un film di cui mi si parlava bene: “E ora dove andiamo?” (Et maintenant, on va où?), della regista libanese Nadine Labaki.

La trama è presto detta: in uno sperduto villaggio al centro di un conflitto che rievoca metaforicamente le guerre in Libano, un gruppo di cristiani e un gruppo di islamici (aventi come riferimento un sacerdote cristiano-orientale e un imam dalla lunga barba) si muovono ai confini dell’esplosione della violenza. Si comprende che all’inizio del film tutti in qualche modo sono riusciti ad evitare che lo scontro tra le due comunità religiose,ma la rabbia, l’intolleranza, la reciproca diffidenza premono alle porte. Il film però in fondo non è su questo, ma preferisce raccontare l’incredibile ostinata battaglia di un gruppo misto di donne cristiane e arabe (intelligenti, ironiche e allegre) per evitare che il conflitto esploda o torni a esplodere anche tra le poche case del paese.

Le donne sono belle, simpatiche, di buon senso, capaci di strategie e di solidarietà. Quello che stupisce sono gli uomini. Maschi senza apparente cervello, ammassi di muscoli pronti a esplodere. Stupidi e irragionevoli, incapaci di mettere un pensiero tra una notizia, una frustrazione, un problema e uno scatto di rabbia. Gli unici uomini che si salvano sono gli adolescenti che vivono e muoiono, ma almeno tentano di dare senso alla vita, costruire strategie di sopravvivenza, portare provviste e tutto il resto.

La cosa che mi ha colpito è che le donne per tenere sotto controllo questi maschioni impulsivi e senza cervello le tentano tutte.

(SPOILER!! chi non ha visto il film si fermi qui, verranno svelate parti della trama)

La prima strategia è il miracolo della Madonna che suggerisce pace ai paesani (discussione e costruzione di un altro punto di vista, come direbbero i cognitivisti di vecchia generazione).

La seconda tattica è l’arrivo di un gruppo di donne che lavorano in un night club, belle, sensuali, attaccate al denaro e piene di buonsenso. Lo scopo è distrarre gli uomini che ci fanno una figura barbina (tecnica della distrazione per scacciare i cattivi pensieri). Distratti, ma goffi, inconcludenti e velleitari.

Psicologia di Guerre Stellari 2: Mindful Yoda - Immagine: © 2012 Costanza Prinetti
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L’ultima tecnica: riempirli di droghe e hashish (psicofarmaci per attutire l’effetto delle emozioni dolorose e della sofferenza psicologica) mettendoli in un umore allegro e amichevole che nella realtà funziona per portarci alla conclusione del film.

Che dire. Confesso che mi sono divertita a contemplare questi maschi testosteronici e senza cervello. Ma mi è mancata nel film la speranza che con questi energumeni disregolati e impulsivi si potesse parlare, ci si potesse spiegare, si potesse discutere di problemi e costruire le ragioni dell’altro, rispettarle e a considerarle (intervento sulla mentalizzazione, cioè della capacità di riconoscere e gestire i propri e altrui stati mentali). 

Alla fine è un film con scene visionarie (soprattutto quella iniziale), che mescola comico e tragico, ora pessimista e dolente ora allegro e ottimista, in cui però le donne sono troppo fragili anche nelle loro strategie e furbizie per salvare la terra. Ma anche un film unilaterale che getta sugli uomini un discredito e un segno negativo che non vorremmo allargare a tutto il genere maschile, altrimenti siamo rovinate. Uomini ribellatevi all’imperativo stereotipante dell’impulsività!

 

Da Freud ai Neuroni Specchio: Schizofrenia e social perception.

 

Cervello, Neuroni Specchio. - Immagine: © V. Yakobchuk - Fotolia.com - P. G. Northoff, dell’Istitute of Mental Health Research dell’Università di Ottawa, sottolinea l’importanza, sia per la pratica clinica e l’impostazione del progetto terapeutico dei pazienti schizofrenici sia per la comprensione sempre più accurata del funzionamento del cervello umano, di una recente ricerca italiana:

“Questa ricerca mostra come i pazienti schizofrenici perdano il contatto con la realtà in quanto incapaci di integrare il loro sé con quello degli altri e quindi con l’ambiente sociale”, e ancora “ Questo lavoro studia una dimensione di base della nostra esperienza e della nostra coscienza, cioè l’abilità preverbale di integrare vari stimoli sensoriali al proprio sé e dimostra che i pazienti schizofrenici presentano attivazioni alterate della corteccia premotoria.”

Punto centrale dello studio è stato, dunque, l’evidenziare le basi neurali dell’incapacità di stabilire un confine tra sé e l’altro, tratto, per altro, peculiare nei pazienti schizofrenici.

Scendendo nei particolari dello studio, i ricercatori guidati da Vittorio Gallese, professore di fisiologia al Dipartimento di Neuroscienze all’Università di Parma, hanno utilizzato la tecnica del fMRI per osservare nei pazienti schizofrenici le risposte cerebrali a situazioni sociali, in particolare relative all’osservazione di sensazioni corporee esperite da altri. Il campione di questo primo studio era formato da un gruppo di 22 soggetti di controllo e 24 pazienti in una fase di esordio psicotico. Ai soggetti veniva fatto vedere un video dove una mano veniva a volte toccata, altre accarezzata, altre ancora schiaffeggiata da un’altra. Dalla risonanza si è potuto vedere che l’area della corteccia premotoria si attivava molto meno nei pazienti schizofrenici che nei controlli, e che l’attivazione era inversamente proporzionale alla gravità dei sintomi della schizofrenia, in particolare rispetto alla percezione del sé. Inoltre, l’insula posteriore che nei soggetti di controllo si “spegne” davanti all’esperienza tattile altrui, nei soggetti schizofrenici rimane attiva.

Gallese sottolinea come i risultati di questo studio abbiano per base il modello dei neuroni specchio (cellule nervose che si attivano sia quando si osserva una persona fare una azione, sia facendola in prima persona); infatti, traslando il concetto, possiamo pensare che basti vedere un’emozione su un viso o osservare la mano di un altro essere sfiorata per attivare nel nostro cervello una sensazione – e relativa attivazione- corrispondente. Detto questo, risulta evidente come questo modello debba essere preso in considerazione come ingrediente aggiuntivo per lo studio di tutte quelle patologie che hanno nell’intersoggettività un nodo cruciale.

Merito di questo studio è l’avere dato una chiave di lettura, mettendo in evidenza le basi neurali, di uno dei problemi nucleari della patologia schizofrenica: il non essere capaci di definire dei confini netti tra il sé e l’altro. D’altronde è forse vero che ogni nuova scoperta prende linfa dall’origine: infatti, già Freud aveva supposto che alla base del pensiero psicotico ci fosse un’alterazione nella distinzione tra me e un altro-da-me. Questa ricerca, di fatto, fornisce una nuova base scientifica a questa teoria, identificando i meccanismi cerebrali implicati.

Chissà che cosa avrebbe fatto Freud se avesse avuto a disposizione la risonanza magnetica funzionale…

 

 

BIBLIOGRAFIA:

ProYouth: un Progetto per la Prevenzione dei Disturbi Alimentari online

 

NASCE IL PROGETTO PROYOUTH: per la promozione della salute mentale in ragazzi e ragazze con un’età compresa tra i 15 e i 25 anni, incentrata soprattutto su un sano regime alimentare, sulla soddisfazione corporea e sui sintomi che caratterizzano i disturbi alimentari. Una piattaforma online per offrire ai giovani informazioni e diversi moduli di supporto.

 

ProYouth LogoSono gli alti standard suggeriti prima e successivamente pretesi dalla società? È la necessità di gestire e controllare tutto, anche i bisogni fisiologici più elementari come la fame? È il rifiuto di crescere, di vedere il proprio corpo bambino trasformarsi in un corpo adulto? Forse sono tutti questi aspetti, forse solo alcuni. Quello che ci interessa è l’esito che fattori non del tutto determinati possono avere sul benessere fisico e psicologico di ragazzi che transitano in una fascia di età che è per sua natura estremamente fragile e troppo influenzabile da principi e valori ammalianti e caduchi come l’importanza di un aspetto fisico che rientri in determinati standard.

A prescindere dai nessi causali o dai tentativi esplicativi, quello che abbiamo oggi è una serie di consapevolezze: quanto l’età adolescenziale sia un periodo difficile e delicato per il benessere psicologico e per una gestione efficace dell’emotività; quanto sia difficile rivolgersi ai servizi di cura senza sentirsi “diversi” e allo stesso tempo senza aspettare che il disagio vada oltre e sfoci in un comportamento alimentare problematico; quanto troppo spesso ci sia da parte dei genitori la voglia di raccontarsi che tutti gli adolescenti sono problematici, che alla fine rimane solo da aspettare che crescano.

Per tutte queste ragioni, la Scuola di Specializzazione in Psicoterapia Cognitiva e Cognitivo-Comportamentale Studi Cognitivi sta promuovendo in Italia un progetto per la prevenzione dei Disturbi Alimentari indirizzato alla giovane popolazione, che cerca di abbattere le difficoltà descritte utilizzando una modalità telematica, attraverso una piattaforma web, mirando a ridurre ai minimi termini le problematiche di stigmatizzazione e identificazione troppo tardiva del disagio.

DEFINIZIONE DI STIGMA SU PSICOPEDIA 

Il ProYouth nasce da una collaborazione internazionale che vede l’Italia schierata con Irlanda, Germania, Romania, Repubblica Ceca, Ungheria e Paesi Bassi nella prevenzione dei Disturbi Alimentari tra gli adolescenti, progetto ambizioso che può contare sul co-finanziamento della Executive Agency for Health and Consumers, Health Programme della Commissione Europea.

A partire dal 1 aprile 2011 questi sette Paesi hanno collaborato per costruire una piattaforma web attiva in Italia dall’inizio del 2012, che garantisce un sostegno anonimo e del tutto gratuito ai giovani utenti che vorranno registrarsi al programma e usufruire senza nessun costo di tutti i servizi offerti:

  • una sezione psicoeducativa contenente diversi consigli e le informazioni più rilevanti sui disturbi alimentari;
  • un blog che permetterà a tutti gli utenti di accedere in forma anonima e scambiarsi suggerimenti, consigli, rassicurazioni, incoraggiamenti, sempre sotto l’occhio vigile dei componenti dello staff che garantiranno sì la libertà di parola, ma nel rispetto delle norme di educazione e “convivenza”;
  • chat individuali, in cui un singolo adolescente potrà comunicare con uno psicologo gratuitamente e in forma anonima;
  • chat di gruppo in cui i ragazzi sotto la garanzia dell’anonimato potranno confrontarsi tra loro e con lo psicologo moderatore circa tematiche che li preoccupano;
  • un forum, moderato dallo staff ProYouth, in cui postare commenti, suggerimenti, informazioni e dubbi e commentare i post degli altri utenti;
  • una serie di questionari di monitoraggio, compilati regolarmente, che consentiranno di osservare l’andamento del disagio psicologico degli utenti.

Grazie a tutti questi strumenti e alla garanzia di anonimato e gratuità, il ProYouth vuole affiancarsi al sistema di cura convenzionale, non sostituirsi a esso, ma limitarsi alla fase di prevenzione e a tempestive indicazioni di accesso al sistema di cura stesso nel caso in cui un semplice malessere assumesse le sembianze di una problematica più seria.

L’efficacia di interventi di prevenzione e promozione della salute attraverso l’utilizzo di piattaforme online simili a quella proposta è già stata toccata con mano da alcuni precedenti progetti implementati dai partner tedeschi del ProYouth, per utenti universitari (Bauer et al., 2009) e adolescenti (Lindenberg et al. 2011).

Alla luce di queste considerazioni, diamo il benvenuto a uno strumento che, ci auguriamo, potrà facilitare la diffusione di informazioni corrette sull’alimentazione e fornire un primo sostegno alla difficile gestione delle emozioni in adolescenza.

 

RIFERIMENTI:
www.proyouth.eu
www.facebook.com/proyouth.italia

 

 

BIBLIOGRAFIA:

  • Bauer, S., Moessner, M., Wolf, M., Haug, S. and Kordy, H. (2009). ES[S]PRIT – an Internet-based programme for the prevention and early intervention of eating disorders in college students. British Journal of Guidance & Counselling, 37 (3), 327-336.
  • Lindenberg, K., Moessner, M., Harney, J., McLaughlin, O. and Bauer, S. (2011). E-Health for Individualized Prevention of Eating Disorders. Clinical Practice & Epidemiology in Mental Health, 7, 74-83.

Punizioni corporali sui bambini ed effetti negativi a lungo termine.

– Rassegna Stampa – 

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze PsicologichePer chi avesse ancora dei dubbi in merito: le punizioni corporali sui bambini hanno effetti negativi a lungo termine sul loro sviluppo.

Due ricercatori canadesi, Joan Durrant del Department of Family Social Sciences, dell’università di Manitoba, and Ron Ensom del Children’s Hospital of Eastern, Ontario, hanno analizzato la letteratura sull’argomento degli ultimi 20 anni, evidenziando come i bambini che hanno subito punizioni corporali siano più aggressivi verso i genitori, i fratelli, i compagni e, da adulti, anche verso il/la partner; sono inoltre più inclini a sviluppare comportamenti antisociali.

Una delle ricerche prese in esame suggerisce un effetto causale diretto delle punizioni corporali sul comportamento dei bambini, sia come risposta al dolore che come effetto del modellamento familiare, infatti in un campione di ben 500 famiglie in cui i genitori sono stati addestrati a ridurre le punizioni corporali con i figli si è registrato un corrispondente declino delle difficoltà comportamentali nei bambini.

Le punizioni fisiche sono anche risultate associate a disturbi emotivi come ansia e depressione e all’uso di droga e alcol; addirittura, come suggeriscono recenti studi di neuroimaging, queste provocherebbero alterazioni in alcune aree cerebrali in grado di aumentare la vulnerabilità alla dipendenza dall’alcol e alle droghe.

 

 

BIBLIOGRAFIA: 

Children’s understanding of emotion and behavior problems

 

The effectiveness of video feedback therapy. Part 5

Children’s understanding of emotion and behavior problems. - Immagine: © Marcel Mooij - Fotolia.com Until recently, children who have difficulties in understanding emotion have not been examined in relation to the development and maintenance of psychopathology. In recent years however, some research has been conducted which has demonstrated that children who have limited understanding of emotion are more likely to demonstrate behaviour problems and lack social competence (Izard, 2002; Denham, Blair, DeMulder, Levitas, Sawyer, Auerbach-Major & Queenan 2003).

Since the literature has shown that children who struggle to understand emotion are likely to develop behavior problems, recent research has investigated if mothers can be successfully trained to use more emotional and elaborative conversations with their children. This has recently been tested in the context of child oppositional behavior problems. Salmon, Dadds, Allen and Hawes (2009) provided 14 mothers of children (age three to eight) with oppositional behavior problems with Parent Management Training (PMT), which trained mothers to use reinforcement and teaching social learning strategies, and also trained them to be more elaborative and use a more emotion-rich style during conversations as well. These mothers were compared to 12 mothers provided with PMT only. Both groups of mothers received six sessions of training, which included watching videos of mother-child interactions. The videos watched by the experimental group encouraged mothers to use open-ended questions and emotion talk with their children while the video watched by the control group encouraged mothers to observe and encourage their children while they played.

The Effectiveness of video feedback therapy - Part 4 - Immagine: © Vanessa - Fotolia.com
Suggested articles: The effectiveness of video feedback therapy.

The results demonstrated that across both types of training, experimental and PMT, children’s oppositional behaviour problems decreased over the course of the training. The children of mothers who were provided with training which focused on emotional language and elaborative styles, showed increased elaborative style and emotional references in conversations compared to the comparison group. The experimental group did not, however, alter children’s behaviour significantly more than the PMT only group.

These findings are particularly important as, in the context of psychopathology, the children of mothers who were trained to use more emotion words and be more elaborative demonstrated an increase in understanding of emotion themselves. Additionally, this increase was only shown in children of mothers trained in this style of discourse, not in the children of mothers trained in PMT only. Further research would benefit from additional investigation of the effect increased emotional understanding has on children with clinical psychopathology. Based on the literature, it could be argued that this increase of understanding could lead to less behavior and social problems.

 

 

BIBLIOGRAFIA: 

  • Izard, C.E. (2002). Translating emotion theory and research into preventive interventions. Psychological Bulletin, 128, 796 – 824.
  • Denham, S, A., Blair, K. A., DeMulder., Levitas. J., Sawyer, K., Auerbach-Major, S., & Queenan, P. (2003). Preschool emotional competence: pathway to social competence? Child Development, 74, 238 – 256.
  • Salmon, K., Dadds, M. R., Allen, J., & Hawes, D. J. (2009). Can emotional language skills be taught during parent training for conduct problem children? Child Psychiatry and Human Development, 40, 485 – 498.   

“Ricomporre il puzzle. Quando il trauma interferisce nel percorso di crescita”

 

– Milano, 9 febbraio 2012.  Reportage dal convegno: RICOMPORRE IL PUZZLE – Quando il trauma interferisce nel percorso di crescita. GIOVEDI’ 9 FEBBRAIO 2012 ORE 9.00 – 14.30 Sala delle Colonne della BPM Via S.Paolo 12 – Milano – Organizzato dalla SOCIETA’ ITALIANA di PSICOLOGIA CLINICA e PSICOTERAPIA.

RICOMPORRE IL PUZZLE  Quando il trauma interferisce  nel percorso di crescita -  SOCIETA’ ITALIANA di PSICOLOGIA CLINICA e PSICOTERAPIA - Immagine:  Pablo Picasso, Girl with a boat. Nell’accogliente cornice di un palazzo nel centro di Milano si sono incontrati il 9 febbraio alcuni tra gli esponenti di rilievo italiani nell’ambito del trauma e sviluppo. Infatti, tra i relatori di oggi, ci sono Benedetto Farina e Isabel Fernandez. Il buon numero di partecipanti -circa 60- conferma quanto i temi affrontati sono di grande attualità, rilievo e interesse.

Come è noto, negli ultimi anni, l’interesse della scienza psicologica sulle conseguenze degli eventi traumatici nei bambini continua a crescere. La diffusione di interventi (EMDR su tutti) dimostra questo aspetto. E, come previsto, la presenza di Fernandez e colleghi copre circa la metà delle relazioni odierne.

Una breve apertura dei lavori di Marisa Zipoli (Presidente della Società Italiana di Psicologia Clinica e Psicoterapia SPCP, organizzatore del convegno), oltre ad introdurre l’evento, descrive la cornice teorica di riferimento dell’intero convegno.

Violenza sulle donne e dinamiche di vittimizzazione - Immagine: © olly - Fotolia.com
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In una delle relazioni più attese della giornata, quella di Benedetto Farina su sviluppo traumatico e trauma dello sviluppo, viene descritto il legame tra trauma e esperienza dissociativa (“il trauma disintegra, continuamente”), legame ormai dimostrato in moltissima letteratura. Le esperienze dissociative possono essere considerate come una sorta di “strategia salvavita” di fronte ad esperienze eccessivamente traumatizzanti per noi (aspetto peraltro sostenuto anche da Elena Simonetta nella sua stimolante relazione su Trauma e DSA). Il tema centrale però è il trauma dello sviluppo, esperienza continuativa dello sviluppo dei bambini in cui è prevalente una valenza relazionale; circa il 60% delle situazioni a rischio sono rappresentate dalla presenza di genitori neglecting. Tale sviluppo traumatico interferisce drammaticamente con i processi integrativi che avvengono durante lo sviluppo, contribuendo alla strutturazione di uno stile di Attaccamento di tipo Disorganizzato.
Piccola nota per gli addetti ai lavori: nel futuro DSM V dovrebbe (con discreta certezza) comparire una nuova categoria nosografica, il Developmental Traumatic Disorder; questo potrebbe diventare un terreno fertile (anche in termini di linguaggio comune per tutti) per ricerche scientifiche e per la strutturazione di interventi sempre più efficaci specifici sul trauma dello sviluppo.

Psicopatia - Immagine: © Gina Sanders - Fotolia.com -
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Alla brillante relazione di Farina segue un altro intervento molto atteso, quello di Isabel Fernandez, da pochi mesi Vice-Presidente della EMDR Europe, già Presidente EMDR Italia. Il tema trattato riguarda EMDR e reazioni da stress post-traumatico nei bambini vittime di grandi disastri e/o gravi incidenti. La proposta della Fernandez è quella di trattare tutti i bambini e non solo quelli che manifestano sintomi PTSD sopra la soglia clinica. Questo perché l’esperienza traumatica permane nella memoria implicita (e/o esplicita) dei bambini e, anche se non si struttura in un PTSD conclamato, può mantenere la sua funzione di fattore di rischio e riattivarsi successivamente in presenza di eventuali altre situazioni stressanti che richiamano l’esperienza traumatica fatta. Il dato riportato, che sicuramente fa riflettere, è che i bambini vittime di disastri che non presentano alcun sintomo PTSD sembrano essere meno del 30%, mentre dopo l’intervento EMDR, tale dato sale a iperbole verso il 93%.

Senza molte novità o spunti innovativi, l’interessante relazione rappresenta in larga parte una panoramica degli interventi svolti (e dei risultati dell’ormai molto nota efficacia…) negli ultimi anni durante alcuni tra i più rilevanti disastri o grandi incidenti avvenuti in Italia negli ultimi 10 anni (Alluvione di Capoterra, il terremoto dell’Aquila, l’incidente del Pirellone – in particolare i bambini della scuola Galvani sotto al Palazzo – a Milano etc…).

 

Dopo un breve e polare coffe break, è la volta di Elena Simonetta. Il suo intervento su DSA e Trauma conferma l’interesse emergente in letteratura su un approccio multifattoriale ai DSA (come ho già scritto nella serie di State of Mind su Attaccamento e DSA). In discordanza con gli approcci più diffusi, che vedono i DSA come problematiche legate a questioni “genetiche” , nell’intervento di Simonetta emergono diversi fattori che correlano con la strutturazione di un DSA, in particolare. Tali fattori sono: Sviluppo Psicomotorio, Sviluppo Psicolinguistico, Sviluppo Cognitivo, Attaccamento e Trauma. La teoria esposta sulla Disgnosia, ritenuto da Simonetta come un disturbo legato alla comprensione/apprendimento e non solo all’esecuzione di compiti richiesti ai bambini nelle prestazioni scolastiche, distingue in modo chiaro un problema “esecutivo” (ad esempio dislessia e discalculia) da un problema anche “funzionale” (la disgnosia appunto). L’intervento sui DSA proposto da Simonetta prevede quindi un intervento con focus doppio: uno specifico e centrato sui DSA e un secondo, non meno importante, su Attaccamento ed eventuale presenza di traumi nella storia evolutiva del bambino.

Istruzioni per creare uno psicopatico: recensione di "Io ti troverò" by Shane Stevens - Immagine: Copyright © 2010-2012 fazieditore.com
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Gli ultimi due interventi della giornata riguardano due applicazioni cliniche con pazienti con situazioni traumatiche. In particolare, Anna Rita Verardo riporta la sua esperienza con la nota e quasi onnipresente EMDR con i genitori. Il focus è centrato sugli aspetti che dovrebbero rappresentare i target degli interventi con i genitori: lutti, traumi, paure, convinzioni legate al sé e “riattivatori traumatici”, cioè quegli elementi che elicitano le esperienze legate al trauma (individuate tramite le narrazioni della AAI, Adult Attachment Interview, strumento principe per valutare lo stile di attaccamento adulto). Un’ipotesi di ricerca portata all’attenzione riguarda le modificazioni che le narrazioni all’AAI ottengono a seguito di un intervento EMDR sugli eventi traumatici.

In ultimo, Cecilia Ragaini, seguendo un altro approccio, maggiormente psicodinamico e altrettanto stimolante, relaziona sull’uso della Terapia con la Sabbia (Sand Play Therapy, nata in ambito jungiano) con i bambini che attraversano un percorso adottivo. L’ipotesi di base consiste nella considerazione che, per alcuni bambini, l’evento stesso dell’arrivo nel paese di destinazione si configuri come situazione traumatica e che l’uso della Sand Play Therapy possa aiutare il bambino ad esprimere immagini del proprio mondo interno in un modo diverso e più accessibile rispetto al piano “superiore” della verbalizzazione. Ciò permetterebbe un percorso di elaborazione del trauma, attraverso l’accesso a contenuti emotivi arcaici e primari.

Il titolo del convegno si pone come obiettivo quello di “ricomporre il puzzle” degli sviluppi traumatici nei percorsi di crescita e sembra che i relatori oggi siano riusciti nell’intento. Inoltre, credo abbiano sollevato alcune questioni cruciali e brillanti, che continuano a rappresentare terreno di discussioni, riflessioni e ricerche.

I Circuiti Neurali attivi nel Delirio di Riferimento

 

I Circuiti Neurali attivi nel Delirio di Riferimento. - Immagine: © Vibe Images - Fotolia.com In un recente studio condotto dal Centre for Addiction and Mental Health (CAMH), è stata dimostrata una maggiore attivazione neurale, in pazienti affetti da schizofrenia, durante alcuni test in grado di indurre un lieve forma di delirio di riferimento.

La ricerca è stata pubblicata in Dicembre sulla rivista Biological Psychiatry e costituisce un importante punto di partenza per le future ricerche sul trattamento delle psicosi, di cui ancora poco si conosce sia sul piano dell’eziopatogenesi che della cura.

I ricercatori si sono occupati di approfondire una particolare forma di delirio, chiamato appunto delirio di riferimento: si tratta di una forma di delirio caratterizzato dalla tendenza dei pazienti a considerare stimoli esterni quali giornali, articoli, conversazioni di estranei, come riferite a loro. Anticamera del vero e proprio delirio paranoide, il delirio di riferimento costituisce una forma difficile da trattare e soggetta a continuo rischio di “ri-attivazione” proprio perché legata a stimoli esterni “reali”.

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A differenza delle voci o di altri fenomeni allucinatori, il delirio di riferimento parte da una percezione corretta della realtà, che viene però letta in modo rigido e “autoriferito”, tale da rendere il disputing sulle credenze praticamente impossibile. 2/3 dei pazienti affetti da schizofrenia presenta questa forma di delirio e il meccanismo neurale coinvolto sembra essere un’eccessiva attivazione dei recettori della dopamina in specifiche aree cerebrali deputate ad identificare nell’ambiente informazioni rilevanti per se stessi e la propria sopravvivenza.

I ricercatori del CAMH, guidati dal Dr. Mahesh Menon, hanno cercato di individuare tramite risonanza magnetica funzionale (fMRI), i pattern di attivazione specifici del delirio di riferimento, con l’obiettivo di somministrare terapie e farmacoterapie più mirate a ridurre questo sintomo, spesso presente anche nei periodi intercritici e capace di condizionare negativamente un buon funzionamento sociale e lavorativo. 

La Psicosi e Roman Polanski: formazione per terapeuti. - Immagine: Immagine: The poster art copyright is believed to belong to the distributor of the film, the publisher of the film or the graphic artist - Retrievable from: : http://www.affichescinema.com
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A tutti i partecipanti all’esperimento, pazienti affetti da schizofrenia e soggetti di controllo, era richiesto di valutare se 60 frasi sottoposte loro durante la risonanza, fossero riferite o meno a loro: 20 frasi erano in effetti riferite a loro poiché includevano dettagli raccolti durante lo screening iniziale, 40 erano generiche (20 neutre “Lui colleziona CD”, 20 a valenza emotiva “tutti la odiano”).

I risultati hanno evidenziato la tendenza dei pazienti a riferire a loro stessi anche le frasi generiche, mostrando un maggior tempo di risposta nel decidere se queste fossero o meno riferite a loro; l’fMRI ha mostrato un’attivazione delle specifiche aree cerebrali (corteccia mediale pre-frontale e corteccia cingolata anteriore) in tutti i partecipanti quando riconoscevano le frasi realmente riferite a loro, mentre solo i pazienti affetti da schizofrenia hanno mostrato lo stesso pattern di attivazione anche quando rispondevano “no” alle frasi generiche. I ricercatori hanno attribuito questo pattern di attivazione, assente nei controlli, ad una difficoltà specifica per i pazienti schizofrenici nel differenziare tra stimoli rilevanti o non-rilevanti per loro stessi.

Una volta replicati e confermati, questi risultati possono portare alla messa a punto di terapie mirate ad intervenire su queste aree cerebrali in modo indiretto attraverso l’Attentional Retraining Therapy, una terapia mirata alla riabilitazione di funzioni cognitive legate all’attenzione, in grado di migliorare le capacità di intercettare e comprendere gli stimoli esterni, o in modo diretto attraverso la somministrazione di cicli ripetuti di Stimolazione Magnetica Transcranica (TMS), una forma non invasiva di stimolazione cerebrale, in grado di inibire o aumentare l’attivazione di specifici circuiti neurali.

Siamo in un ambito “futuristico” (almeno per l’Italia!) ma di enorme rilevanza se si pensa alla possibilità di ridurre le terapie farmacologiche e migliorare il generale funzionamento sociale e lavorativo, che rischia di essere gravemente compromesso dalla lettura frettolosa di una notizia di cronaca sul quotidiano locale, che improvvisamente appare allarmante per una casuale e improbabile attinenza con la propria vita!

 

 

BIBLIOGRAFIA:  

Attività fisica ed entusiasmo

– Rassegna Stampa – 

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze PsicologicheChe l’attività fisica faccia bene anche all’umore lo raccontano le linee guida NICE nel delineare il trattamento e prevenzione delle ricadute dei sintomi depressivi, lo racconta spesso chi ci vuole smuovere dalla pigrizia per motivarci a fare un po’ di sport. Alcuni ricercatori della Penn State University però hanno deciso di spacchettare queste ampie associazioni tra attività fisica e positività e si sono chiesti:“Quale tipo di emozioni si riscontrano nei giorni in cui facciamo un po’ di attività fisica e in coloro che sono generalmente più attivi?”.

I ricercatori hanno chiesto a 190 studenti universitari di tenere un diario quotidiano per 8 giorni in cui registrare la quantità e intensità di attività sportiva (lieve, moderata, o intensa) nel tempo libero, la quantità e qualità del sonno, i livelli di stress percepito e gli stati emotivi esperiti durante la giornata. In particolare i partecipanti dovevano segnalare attività fisico-sportive della durata di almeno 15 minuti.
Gli stati emotivi riportati nei diari quotidiani sono poi stati categorizzati in quattro gruppi: stati emotivi a valenza positiva e attivazione medio-alta (entusiasmo), stati emotivi piacevoli a bassa attivazione (tranquillità, soddisfazione), stati emotivi negativi e attivanti (ansia, rabbia) e infine stati emotivi negativi a bassa attivazione (tristezza).

Dai diari è emerso che le persone che sono fisicamente attive riportano un maggior livello di entusiasmo (stato emotivo piacevole e a medio-alta attivazione) rispetto a coloro che sono fisicamente più passive; inoltre nei giorni in cui i partecipanti si dimostravano più sportivi riferivano maggior livello di entusiasmo rispetto al solito. Mentre precedenti studi si sono focalizzati principalmente sulla valenza edonica questo studio allarga l’interesse di analisi anche al livello di attivazione dello stato emotivo: non solo lo sport si associa a stati emotivi positivi ma a stati emotivi attivanti, energizzanti ed entusiasmanti.

 

 

BIBLIOGRAFIA: 

Le proprietà anti-age del Prozac

 

Le proprietà anti-age del Prozac. - Immagine: © pkulik - Fotolia.com - Nel panorama scientifico numerose sono le ricerche che tentano di dimostrare l’efficacia degli antidepressivi di ultima generazione (SSRI) nel trattamento di diversi disturbi psicologici. I ricercatori impegnati in tale ambito giungono a conclusioni ben diverse, c’è chi li giudica meno efficaci di un placebo e chi ne sostiene l’utilizzo evidenziando i successi dell’intervento farmacologico.

La questione sembrerebbe dunque essere tutt’altro che chiusa, anche se sembra esserci un consenso diffuso rispetto all’idea che psicoterapia e antidepressivi conducano a migliori risultati se impiegati insieme nel trattamento di pazienti con disturbi d’ansia o dell’umore,  piuttosto che se scelti come unica modalità di intervento.

In che modo però il trattamento farmacologico è in grado di supportare “la terapia della parola“?

Secondo Nina Karpova, Eero Castrèn e illustri colleghi del Centro di Neuroscienze dell’Università di Helsinki, gli antidepressivi, come il Prozac, sono in grado di preparare il cervello, attraverso una riprogrammazione dei circuiti difettosi, ad accogliere con maggior permeabilità gli esiti del lavoro psicoterapeutico.

Anche in questo caso un ringraziamento particolare va al topo di laboratorio, che per esigenze di protocollo si è visto ripetutamente friggere i piedi subito dopo la comparsa di uno stimolo sonoro. Una volta consolidato l’apprendimento, accertato dal fatto che il povero animaletto mostrasse segni di terrore al solo udire il suono, i ricercatori hanno dato il via al training di estinzione: da quel momento al rumore temuto non seguiva alcuna scossa elettrica. I ricercatori avevano già notato in precedenza una differente reazione a seconda dell’età del roditore: i topi più giovani imparavano velocemente che il segnale sonoro non era più prodromo di pericolo, mentre i più anziani mostravano maggior resistenza ad interrompere l’associazione.

Antidepressivi
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In quest’ultimo studio i topi adulti, trattati con fluoxetina (Prozac) durante il training di estinzione, hanno dimostrato un comportamento simile ai giovani spavaldi. La paura del suono si è estinta in tempi più brevi rispetto al campione di topi non trattato farmacologicamente e soprattutto l’ansia non è ricomparsa a distanza di tempo.

Doveroso sottolineare che l’antidepressivo, in assenza di un programma di estinzione, non ha prodotto gli stessi incoraggianti esiti, condannando le cavie a permanere nello stato ansioso.

Già altri ricercatori avevano ipotizzato che la depressione fosse responsabile della morte dei neuroni mentre gli antidepressivi promuovessero la crescita di nuove cellule nel cervello. La ricerca di Castren approfondisce questa evidenza, riconoscendo al Prozac il merito di far regredire alcune aree del cervello ad uno stato di immaturità in cui i neuroni sono in grado di creare o interrompere più connessioni tra loro di quanto non sia in grado di fare il cervello adulto. In altre parole, l’antidepressivo favorisce la plasticità neuronale che a suo volta renderebbe il cervello in grado di riorganizzarsi nei termini della maggiore funzionalità psicologica promossa dal  lavoro psicoterapeutico.

Tuttavia ancora una volta mi tocca chiudere l’argomento con parole non certo nuove, questa volta pronunciate dallo stesso Castrèn:

We know that a combination of antidepressant treatment and cognitive behavioral therapy has better effects than either of these treatments alone, but the neurobiological basis is not known”.

 

 

BIBLIOGRAFIA:  

La coppia imprigionata

 

La coppia imprigionata. - Immagine: © michaltutko - Fotolia.com - Come è stato detto nei post precedenti, la scelta del partner può essere intesa come la ricerca della persona con cui realizzare un’aspettativa soggettiva: da una parte questa è legata alla necessità di sperimentare nuovamente un senso di condivisione già vissuto in passato, rendendo attuale un particolare contesto di attaccamento e senso di appartenenza, e dall’altra è determinata dal desiderio di esplorazione e ricerca, attraverso l’altro, di stimoli nuovi che permettano di modificare, il proprio scenario interno.

In alcune relazioni di coppia, però, utilizzare la relazione per riconfigurare il proprio scenario interno (Norsa e Zavattini, 1997) risulta essere un impresa impossibile. Sono le coppie che si costituiscono su un modello di relazione negativo: una sorta di “prototipo” relazionale che nega qualunque possibilità di cambiamento e che ciascun partner ripropone nella relazione attuale nel tentativo di anticipare le aspettative negative e assicurarsi un controllo e una prevedibilità sull’andamento della relazione.

La Scelta del Partner: dall'innamoramento alla costruzione di una relazione stabile. Immagine: © Artistan - Fotolia.com -
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Questa costante relazionale negativa (Seganti, 1995) è l’espressione di una difesa dell’individuo rispetto a situazioni relazionali che sono state estremamente frustranti; relazioni in cui realizzare un cambiamento in senso creativo ed evolutivo è stato impossibile, una lotta vana condannata al fallimento. Attraverso la ripetizione di uno schema frustrante, ma “familiare” e quindi prevedibile, viene preservato il senso di coesione e integrità del sé. In questo tipo di relazioni, le relazioni interne, deludenti e frustranti, si impongono sulle esperienze reali, negando la possibilità di una disconferma e revisione dei modelli interni e neutralizzando l’aspetto riparativo delle relazioni umane.

Nelle situazioni più gravi la sensazione soggettiva è quella di inglobare l’altro nei propri schemi o di esservi inglobato, perdendo di vista più o meno totalmente il partner reale: il costo di questa operazione infatti è quello di percepire l’altro solo per quegli aspetti che si teme di incontrare e dai quali ci si difende. La relazione è caratterizzata dalla paura e dalla diffidenza; a seconda del modello internalizzato si può temere e anticipare l’abbandono, il tradimento, la superiorità o la prevaricazione da parte del partner.

La Scelta del Partner. Immagine: © Christian Maurer - Fotolia.com -
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Quando entrambi i partner condividono un modello di relazione interno carico di aspetti “negativi” si parla di collusione di coppia (Diks, 1967). La relazione di coppia in questi casi diventa un luogo nel quale ci si sente imprigionati in dinamiche ripetitive e condannati all’infelicità, incapaci di utilizzare la dimensione naturalmente terapeutica dei rapporti umani. La collusione garantisce a entrambi di non avere accesso o modificare alcune aree della propria vita emotiva, mantenendo intatti i propri oggetti interni danneggiati (Monguzzi, 2003).


Per Freud (1914) la collusione di coppia si verifica quando uno dei due partner assume il ruolo infantile di colui che deve essere protetto e salvato in una “scelta per appoggio”, e l’altro quello complementare di onnipotente salvatore in una scelta complementare “di tipo narcisistico”, collusione che può arrivare fino al sadomasochismo. Nella scelta per appoggio si va quindi alla ricerca di un partner che rappresenti un sostituto genitoriale, protettivo e normativo, che si ponga come guida nel lavoro, nella vita e negli studi; la posizione in cui si mette chi sceglie questo tipo di partner è quella del bambino. Nella scelta di tipo narcisistico invece ad agire è il meccanismo di identificazione proiettiva per cui i propri bisogni infantili frustrati vengono proiettati sul partner, per poi identificarsi con lui; l’altro quindi rappresenta una parte del proprio sé, quella negata e rimossa, il sé stesso bambino a cui è stato negato l’amore materno.

Un altro tipo di scelta narcisistica è quella di chi proietta sul partner scelto gli aspetti idealizzati di sé che non riescono a esprimersi, l’ideale dell’Io che non è stato raggiunto. Chi compie questa scelta sceglie un ruolo infantile, ma il partner non sarà un genitore accudente, bensì un “dio” adorato e idealizzato. L’impossibilità di raggiungere le mete ideali che ci si pone è anche legata a una difficoltà nell’espressione e nell’uso dell’aggressività in modo costruttivo, questa infatti viene negata e rimossa, a favore di un’ eccessiva tenerezza che viene usata in maniera seduttiva e manipolatoria; l’aggressività tuttavia non è scomparsa e finisce per rivolgersi a livello inconscio verso chi ha raggiunto ciò che il soggetto avrebbe voluto per sé: i sentimenti verso il partner saranno allora ambivalenti, carichi di ammirazione e invidia. Relazioni di questo tipo possono condurre alla formazione di coppie dove la disparità tra i partner favorisce una totale identificazione con la coppia genitore/figlio.

"Gelosi tecno-patologici" - Immagine: © 2012 Costanza Prinetti -
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Le due scelte sopra descritte comportano relazioni complementari: uno dei due partner invierà segnali per ottenere appoggio, cercando nel partner una figura genitoriale o un dio da adorare, e l’altro sarà lieto di avere per compagno un bambino a cui dare quella felicità che egli stesso non ha avuto; in entrambi i casi uno dei due avrà una posizione di potere, anche se non sempre sarà quello ad apparire più forte.

Per Baldaro Verde (1990) è una scelta di scelta di ripiego quella di chi pensa di non avere scelta, per problemi reali legati all’aspetto fisico o a condizioni sociali estreme. Questo tipo di rapporto provoca spesso una svalutazione del partner; su di lui/lei vengono proiettati i propri sentimenti di inferiorità, per questo motivo chi accetta un rapporto di questo tipo si sente a sua volta una persona di poco valore.

La coppia: chi si somiglia si piglia? - Immagine: © Jan Will - Fotolia.com -
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A proposito di coppie imprigionate in un meccanismo relazionale che non lascia spazio al cambiamento Mony Elkaim (1990) spiega come in alcune coppie entrambi i partner si rivolgano, a livello esplicito, delle richieste che però sono impossibili da soddisfare perché in contraddizione a un livello più profondo con la propria “mappa del mondo”, cioè con il proprio bagaglio interno di rappresentazioni e aspettative su di sé, sull’altro e sulla relazione. L’idea è quella che ciascuno sia diviso tra due livelli di aspettative contrastanti, preesistenti all’incontro con il partner e che la relazione permette di esteriorizzare. È un po’ come se grazie alla relazione ciascuno spostasse sull’altro il “carceriere” che è in lui, garantendosi una protezione rispetto alle possibilità di modificare il suo mondo interno: se si riescono a portare in superficie entrambe le aspettative, quella esplicita e quella implicita contraria, emerge come la richiesta fatta al partner sia in realtà una richiesta impossibile da soddisfare, perché tale soddisfazione è in realtà inaccettabile a livello delle proprie rappresentazioni interne.

Nei prossimi articoli di questa serie verranno analizzate in maniera più specifica alcuni tipi di scelte relazionali.

 

 

BIBLIOGRAFIA:  

  • Baldaro Verde, J. (1990). Lo spazio dell’illusione. Viaggio attorno alla coppia. Milano: Raffaello Cortina.
  • Dicks, H. V. (1967). Marital Tensions. Trad. it. Tensioni coniugali. Studi clinici per una teoria psicologica dell’interazione. Roma: Borla 1992.
  • Elkaim M. (1990). Se mi ami, non amarmi. Orientamento sistemico e psicoterapia. Torino: Boringhieri
  • Freud S. (1914). Introduzione al narcisismo. Freud Opere, 7: 441-472. Torino: Boringhieri, 1975
  • Monguzzi F. (2003), La coppia: analisi della domanda di psicoterapia congiunta, Psychomedia.it, consultato il 20 dicembre 2011 su http://www.psychomedia.it/pm/grpind/family/monguzzi1.htm
  • Norsa D, Zavattini G, C. (1997). Intimità e collusione. Teoria e tecnica della psicoterapia psicoanalitica di coppia. Milano: Ragffaello Cortina Editore.
  • Seganti, A. (1995). La memoria sensoriale delle relazioni. Ipotesi verificabili di psicoterapia psicoanalitica. Torino: Bollati-Boringhieri.

Motherhood: Il mito della Madre

 

Motherhood: il mito della madre. - Immagine: © Dmitry Ersler - Fotolia.com Motherhood, o la mammitudine, come potrebbe essere tradotto, è un concetto sfaccettato di cui è assai difficile cogliere ogni ramificazione, che tocca la sfera della cultura, della biologia, della psicologia, le soggettivissime preferenze umane, la politica. Senza tentare di cogliere qui la mammitudine nella sua complessità, mi vorrei soffermare su alcuni dati interessanti riguardanti un suo aspetto specifico: quello dell’esclusività del rapporto madre-figlio e delle sue conseguenze sulla nostra vita quotidiana.

In un recente articolo sul New York Review of Books, MelvinKonner riporta il lavoro dell’antropologa e primatologa Sarah Blaffer Hrdy, soffermandosi in particolare sulla sua ultima opera, Mothers and Others: The EvolutionaryOrigins of Mutual Understanding. La tesi di Hrdy è in larga parte tesa a sostenere l’importanza di quello che viene chiamato cooperative breeding, cioè la crescita dei bambini all’interno di un contesto sociale più ampio di quello della famiglia nucleare (o della sola mamma), per la nostra evoluzione come specie. Qui vorrei concentrarmi su alcuni dati discussi nell’articolo che mi sembrano non solo i più interessanti, ma anche più ‘solidi’ da un punto di vista scientifico.

Amica? Nemica! - Immagine: 2011-2012 © Costanza Prinetti.
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Prima di tutto, mentre le madri sembrano avere un ruolo centrale nella crescita dei bambini in quasi tutte le culture, studi etnografici dimostrano che ad occuparsi della crescita dei bambini sono molto spesso altre persone all’interno della comunità, e che di norma il rapporto della madre con i propri figli non esiste in un vacuum, ma è strettamente integrato nel suo contesto sociale più ampio. Per la maggior parte della loro storia, ed in larga misura ancora in molte culture non occidentali, le donne si sono occupate di ogni sorta di attività – dalla raccolta di piante all’agricoltura, alla pesca, alla costruzione di case, alla produzione di tessuti ed altri manufatti eccetera – attività che non avrebbero mai potuto condurre se la cura dei figli non fosse stata almeno in parte condivisa, sia all’interno di famiglie allargate, che all’interno della comunità più in generale.

Non solo le famiglie nucleari che conosciamo non sono dunque la norma, ma il rapporto ‘esclusivo’ tra madre e bambino che è diventato uno degli assunti culturali della società occidentale è in larga misura un incidente storico, nient’affatto ‘naturale’. Dove nasca il mito della madre-chioccia la cui principale e (talvolta assoluta) funzione è quella di riprodursi e prendersi cura dei figli è un altro problema – un inglese risponderebbe citando l’età vittoriana, un italiano potrebbe pensare all’atteggiamento della chiesa, un americano al boom degli anni ’50 – ma è importante riconoscerlo per quello che è: un mito, appunto. Come scrive Konner:

‘the working mother has always been a central part of the human scene, and the classic stay-at-home mom of 1950s television may have been limited to Western cultures in that era’.

Un approccio più integrato alla mammitudine è inoltre supportato da una serie di dati emergenti. Uno studio condotto dalla Columbia University School of Social Work, pubblicato nel Luglio del 2010, ha seguito più di 1000 bambini in 10 aree geografiche differenti, fino all’età di sette anni, analizzando il loro contesto familiare e il loro sviluppo. La conclusione di questo studio è stata che nel complesso, gli svantaggi causati dall’allontanamento della madre per motivi lavorativi nel primo anno di vita del bambino sono bilanciati dai vantaggi che questo genera (un aumento dell’income della madre e una maggiore probabilità che i bambini ricevano cure migliori). Le madri lavoratrici non danneggiano, dunque, lo sviluppo dei propri figli.

Segnali incoraggianti, anche se oh, così timidi e lenti!, vengono anche dai padri, che vengono ancora considerati troppo poco e in modo troppo marginale quando si parla della cura dei figli. Eppure, sta diventato sempre più evidente che un cambiamento culturale è in atto anche dal lato della paternità, perlomeno a livello Europeo. La direttiva (n.9285 20/10/2010) approvata dal parlamento Europeo è senz’altro un passo importante. Diversi paesi del nord Europa sono, in questo senso, ancora più avanzati. Mentre in Inghilterra, uno studio del 2009 della Equality and Human Rights Commission ha rilevato come un desiderio di impiegare maggior tempo nella cura dei propri figli sia ormai diffuso nella maggior parte degli uomini (62%).

Perfezionismo e genitorialità. Immagine: © sonya etchison - Fotolia.com -
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Ci sono, naturalmente, una miriade di problemi aperti sia dal punto di vista lavorativo, che legislativo, che del welfare, che al momento ostacolano lo sviluppo lavorativo di molte donne quanto la serenità della loro gravidanza. Qui, mi premeva mettere a fuoco un pregiudizio di ordine prettamente culturale, quello che vede la madre come unica protagonista della cura dei propri figli e la cura dei figli come suo destino ineluttabile e assoluto. Pregiudizio appunto, che però è strettamente legato, se non la prima causa, degli ostacoli materiali, lavorativi e legislativi cui alludevo sopra. È importante, invece, trovare un equilibrio sensato tra le reali necessità biologiche legate alla mammitudine e le inclinazioni personali e le ambizioni lavorative di ogni mamma (ed ogni padre), senza farsi travolgere da teorie evoluzionistiche che più che scientifiche, sembrano ideologici dictat culturali volti a riaffermare l’ineluttabile destino delle donne occidentali. È rassicurante sapere che siamo invece libere di scegliere, e che questo delicato percorso culturale può, al contrario, essere portato avanti con serenità e senza temere che la nostra biologia ci si ritorca contro.

 

 

 

BIBLIOGRAFIA: 

Ci facciamo una risata? Non saprei, è pur sempre una terapia

O forse ridere è già una terapia?

Ci facciamo una risata? Non saprei, è pur sempre una terapia. - Immagine: © Yuri Arcurs - Fotolia.com - Nel riprendere un filone di articoli che affronta piccole scene da terapia, passando per la tecnica della bacchetta magica e arrivando fino alla monetina e al suo “testa o croce?”, vorrei introdurre una riflessione sull’uso dell’ironia con i nostri pazienti.

Spesso ci interroghiamo su quale sia l’atteggiamento più opportuno da tenere nel setting clinico, in particolare quando consideriamo il tema della giusta distanza da adottare nei confronti del paziente. Da un lato infatti esiste un ruolo, il nostro ruolo di terapeuti che deve nutrirsi di credibilità, autorevolezza e competenza professionale, dall’altro è indubbio che la relazione terapeutica sia in primo luogo una relazione umana e come tale si componga di molteplici elementi, fra i quali la condivisione di momenti più leggeri.

Tecniche terapeutiche: la bacchetta magica - Immagine: © Ekler - Fotolia.com
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Il paziente non arriva da noi solo per ottenere un miglioramento sintomatico oppure, nel caso di soggetti dotati di maggiori risorse, una più profonda conoscenza di sé. Egli si rappresenta la terapia come uno spazio e un tempo nei quali essere accolto, riconosciuto: questa almeno è la nostra speranza nonché l’obiettivo al quale rivolgiamo parte del nostro lavoro. Uno dei nostri talenti deve essere la capacità di trasmettere a chi chiede il nostro aiuto il senso di un’esperienza in parte comune: se non manifestiamo mai un’emozione di fronte alle emozioni del paziente, se non sappiamo mai nulla degli interessi di cui ci parla, se rimaniamo seriosi anche di fronte al suo tentativo di sdrammatizzare alcuni passaggi della terapia, finiamo inevitabilmente per apparire ed essere lontani da lui.

Il Metodo della Monetina in Psicoterapia: Testa o Croce? - Immagine: © ra3rn - Fotolia.com
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Ciò non significa seguire gli stati emotivi del paziente come uno specchio piatto, né guardare tutte le sere il suo programma preferito se non riusciamo a digerirlo in alcun modo; può accadere però che una battuta del paziente, ad esempio una frase autoironica, ci dica molto del suo bisogno di condividere il contenuto di quell’istante. E mi sento di aggiungere che in queste parole riecheggia sia l’anima del terapeuta al lavoro sia quella del clinico in terapia personale; l’autoironia del paziente può comunicarci che è riuscito a mentalizzare uno stato emotivo problematico, a trasformarlo in un vissuto più tollerabile, mentre una frase che dileggia qualcuno che appartiene al suo contesto di vita attuale o alla sua storia non necessariamente corrisponde ad una svalutazione narcisistica. In alcuni casi avviene un depotenziamento delle tematiche fonte di sofferenza e noi possiamo avvertirlo anche grazie all’ironia; se il paziente ci racconta un episodio che ha visto protagonista il suo capo e la narrazione si arricchisce di commenti ironici, diversi dai toni cupi o dal sarcasmo rabbioso del passato, possiamo intuire che sta avvenendo una trasformazione nella quale ciò che prima era considerato ingestibile viene ora accompagnato da uno sguardo più consapevole.

Il capo del nostro paziente non è più il suo tiranno, colui che con i propri sbalzi d’umore definisce la scarsa amabilità della vittima ansiosa, bensì una figura che è possibile accettare nella bizzarria che la contraddistingue. Ironia come capacità di coping. E noi possiamo ascoltare le venature di tale umorismo, sentire se è un riso amaro col quale il paziente colpisce duramente la propria autostima oppure si sta verificando una catartica decatastrofizzazione; nel secondo caso, ritengo assai opportuno che sciogliamo per qualche istante la nostra ricerca di credibilità professionale per accedere ad una dimensione solo apparentemente diversa, nella quale l’intento terapeutico di creare una relazione col paziente e di fargli percepire che siamo dalla sua parte passa attraverso la condivisione dell’ironia. In altre situazioni possiamo invece essere noi a spostare il registro della comunicazione verso un piano più divertente, qualora la conoscenza del paziente ci suggerisca che si tratta di un’operazione realizzabile ed efficace. Possiamo prendere in giro noi il suo capo, essere noi a mostrare che esiste la via alternativa della presa di coscienza dei limiti altrui. Nulla di meglio dell’ironia, con alcuni pazienti ai quali lo spostamento del focus può solo giovare.

Storie di Terapie - © Athanasia Nomikou - Fotolia.com
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Come nel caso della bacchetta magica, anche questa strategia apre scenari più flessibili in cui riflettere insieme sulla reale utilità del dare sempre un significato assoluto ed autoriferito agli eventi. Naturalmente l’ironia non è la stessa con tutti i pazienti né si rivela con tutti praticabile, non solo per ragioni legate alle loro problematiche ma anche per fattori più semplici: soggetti diversi hanno un umorismo differente, alcuni possono esserne palesemente sprovvisti e, mai dimenticarlo, ognuno di loro ci ispira un livello peculiare di empatia, di simpatia e di partecipazione ironica. Un paziente con cui fatichiamo a relazionarci in modo spontaneo è certamente una montagna da scalare per il nostro intento di utilizzare l’ironia, ma anche quando ci sentiamo vicini possono presentarsi difficoltà da gestire con cura: un paziente che ci piace, con cui sentiamo un ottimo feeling rappresenta una situazione clinica nella quale la distanza potrebbe ridursi troppo, fino al generarsi di interazioni più simili ad uno scambio dialettico tra amici che ad una psicoterapia. La consapevolezza delle nostre reazioni presenti e di quelle potenziali può di conseguenza indurci a contenere l’ironia: torniamo così ad occuparci dell’interrogativo iniziale, come comportarci col paziente. E attenzione agli errori, c’è poco da ridere!

Mamma triste in gravidanza e dopo il parto: una concordanza vantaggiosa?

– Rassegna Stampa – 

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze PsicologicheSorprendenti gli esiti di un nuovo studio su maternità e depressione pubblicato da Psychological Science: la condizione prenatale negativa che consiste nell’avere una madre in gravidanza depressa può di fatto persino essere vantaggiosa se la medesima condizione viene mantenuta anche dopo la nascita. Il risultato è in linea con il modello “risposta predittiva-adattiva” secondo cui le avversità in-utero possono avere vantaggi adattivi se le medesime difficoltà si presentano dopo la nascita.

I ricercatori hanno misurato il livello di sintomi depressivi in 221 donne in stato di gravidanza e per dodici mesi a seguito della nascita del figlio. I bambini sono stati quindi categorizzati in quattro gruppi: due gruppi “concordanti” in cui la condizione depressiva della madre era la stessa pre e post-parto (madri che erano depresse o madri senza alcun sintomo depressivo sia prima che dopo il parto) e due gruppi “discrepanti” in cui la condizione materna era differente in gravidanza rispetto alla fase successiva al parto (la madre aveva sintomi depressivi in una fase ma non nell’altra).

I risultati dimostrano che i bambini dei gruppi “concordanti” presentano punteggi maggiori nello sviluppo mentale a 3 e 6 mesi e un miglior sviluppo psicomotorio a 6 mesi rispetto ai bambini facenti parte dei gruppi “discordanti”. In altre parole, tra i figli di madri con depressione post-natale coloro che avevano un miglior sviluppo mentale e psicomotorio erano proprio i bambini la cui mamma era depressa anche durante la gravidanza. Questa evidenza controintuitiva si differenzia dalla mole di studi che sostengono un inflessibile associazione tra avversità durante la gravidanza ed esiti negativi per il bambino, e sicuramente va a considerare in qualche modo la regolarità dei contesti come aspetto rilevante per favorire vantaggi adattivi nello sviluppo ontogenetico.

Nel passaggio dalla ricerca alla clinica però non è accettabile la cinica ipotesi di non trattare una madre depressa per assicurare una concordanza di condizione che favorirebbe lo sviluppo psicomotorio e cognitivo del figlio: primo, anche la madre ha chiaramente diritto di alleviare i propri sintomi depressivi; secondo, avere una madre depressa può rappresentare una variabile implicata in difficoltà psicopatologiche a lungo termine nel bambino e nel futuro adulto.  

 

 

BIBLIOGRAFIA: 


Working Memory & la Percezione del Tempo che Scorre.

– Rassegna Stampa –

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze PsicologicheIl tempo non passa mai oppure sentite che scorre troppo velocemente? Accanto a fattori emotivi che possono influenzare tale percezione soggettiva, anche la memoria di lavoro, o working memory, può giocare un ruolo importante. Un nuovo studio pubblicato in questi giorni su Acta Psicologica suggerisce che via sia un legame tra la capacità della memoria di lavoro e la percezione del tempo.

I ricercatori hanno coinvolto un campione di 99 studenti dividendoli in funzione della loro capacità di memoria di lavoro in due gruppi: soggetti con elevata e bassa capacità di working memory. Ai partecipanti è stato richiesto di impegnarsi nella risoluzione di problemi matematici, chiedendo loro contemporaneamente di valutare soggettivamente il tempo trascorso in tale attività.

I risultati hanno evidenziato come i soggetti con maggiori capacità di memoria di lavoro tendano a valutare soggettivamente inferiore il tempo impiegato nella risoluzione del compito rispetto ai soggetti con bassa capacità di memoria di lavoro.
Ma perché una elevata capacità di memoria di lavoro fa sì che via sia uno scorrere del tempo soggettivamente più veloce? Secondo gli autori gli individui con migliori capacità di working memory sarebbero in grado di focalizzare la loro attenzione quasi interamente sullo svolgimento del problema matematico (task primario), portando benefici alla performance matematica e prestando meno attenzione al trascorrere del tempo; viceversa, i partecipanti con scarsa capacità di memoria di lavoro allocano una parte della loro attenzione sulla valutazione soggettiva dello scorrere del tempo risultando quindi più accurati nella percezione di tale variabile, a scapito però della performance matemantica.

Quante implicazioni può avere questo studio pensando alle performance accademiche in cui studenti con minore memoria di lavoro potrebbero focalizzare maggiormente la loro attenzione sul tempo che trascorre mentre svolgono un esame scritto a scapito della prestazione. Un limite dello studio è riscontrabile nella scelta di non indagare lo stato emotivo dei soggetti alle prese con problemi matematici e di non considerare possibili mediazioni di questa variabile sulla funzionalità della memoria di lavoro.

 

 

BIBLIOGRAFIA:

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