Psicologia delle emozioni: Lie to Me, Cal Lightman come Paul Ekman?
Lie To Me è una serie televisiva statunitense ispirata alla vita e all’attività di Paul Ekman, psicologo studioso delle emozioni, e ne ripercorre il lavoro attraverso le riflessioni del protagonista, il Dr. Cal Lightman.
1885: George Eastam inventa la pellicola cinematografica
14 ottobre 1888: Louis Aimé Augustin Le Prince realizza la prima ripresa cinematografica, Roundhay Garden Scene, un cortometraggio di 2 secondi appena.
28 dicembre 1895, Gran Cafè del Boulevard des Capucines, Parigi: grazie all’invenzione dei fratelli Louis e Auguste Lumière viene proiettata la prima pellicola stampata ad un pubblico pagante. Nasce la cinematografia.
25 marzo 1925, Selfridges, Londra. L’ingegnere scozzese John Logie Baird presenta per la prima volta al mondo la Televisione. Circa un anno dopo il 27 gennaio 1926 riesce a mandare in onda la prima trasmissione televisiva in bianco e nero. Appena due anni dopo fu già in grado di creare la prima trasmissione a colori. Chissà se questi grandi uomini erano consapevoli dell’immenso cambiamento culturale al quale avevano dato origine?
Da allora sono stati prodotti circa 2.101.345 titoli: di cui 1.243.050 episodi di serie televisive, 268.752 film , 62.582 serie televisive e 62.512 film per la televisione (per ulteriori statistiche consultare il sito IMDB). Da quando sono nate nei lontani anni trenta, le serie televisive sono state il prodotto mediatico per eccellenza nel piccolo schermo. Nella scalata al trono autori e produttori di serie tv e sit-com hanno spesso preso spunto dal mondo della psicologia per creare dei veri successi, ne sono un buon esempio serie come The Mentalist, Profliler, Dexter, e Lie to me.
Lie to me nasce dalla mente geniale di Samuel Baum, già autore di The Evidence, e dai produttori esecutivi di 24 e Arrested Development. Questa serie è ispirata alla vita e all’attività di Paul Ekman, psicologo studioso del comportamento e delle emozioni umane, e ne ripercorre le riflessioni attraverso il lavoro del Dr. Cal Lightman (Tim Roth), affiancato dalla sua preziosa assistente, la Dottoressa Gillian Foster (Kelli Williams).
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Lightman, analista delle espressioni facciali e del linguaggio del corpo e fondatore della Lightman Group, usa queste sue capacità per capire se la persona che ha di fronte sta dicendo o meno la verità. Capacità che risultano molto preziose per l’FBI, la polizia locale, gli studi legali, le grandi aziende o semplici privati, che richiedono il suo aiuto per risolvere casi complessi e pericolosi che possono coinvolgere omicidi, politici corrotti, truffatori e giornalisti senza scrupoli.
FoxTv riporta “Lie to Me vanta un’integrità realistica costruita sul bagaglio scientifico della criminologia e mescola sapientemente psicologia e attualità, con risultati assolutamente originali”. Sarà veramente possibile capire quando una persona mente e soprattutto riuscire a farlo così velocemente? Secondo il dott. Ekman la risposta è sì!.
Ekman studia le emozioni e come esse si esprimono attraverso il linguaggio non verbale da più di 15 anni, famose sono le “Espressioni Facciali di Ekman” che vengono ancora oggi utilizzate per condurre gli studi sulle emozioni. Anche le ricadute cliniche del suo lavoro sono state subito evidenti: i clinici si sono rivolti a lui per comprendere se i pazienti mentivano oppure no. Per rispondere a questa annosa domanda il dott. Ekman ha studiato accuratamente per ore ed ore in slow – motion, una moltitudine di video di pazienti e condotto diversi esperimenti analizzando ogni minima espressione facciale e gesto nel tentativo di identificare quelli associati alla bugia.
Dopo anni di studi quindi Ekman sostiene che il mentire sia preceduto da micro espressioni, spesso subito coperte con un sorriso, e micro gesti della durata di pochi decimi di secondo (Ekman, 2009). Un scrollata di spalle appena abbozzata, un gesto mancato, un espressione facciale mantenuta troppo a lungo, un repentino cambio del tono della voce o un rapido movimento degli occhi e molti altri sono tutti indizi che segnalano che si sta mentendo e che non sfuggono all’occhio dell’esperto.
Ecco quindi svelato un altro mistero che attanaglia tutti gli adolescenti del mondo: come fa la mamma a capire sempre quando dico una bugia? Semplice ha fatto il corso da Ekman!
BIBLIOGRAFIA:
Ekman P. (2009) Telling Lies. New York: Times Books (US).
Musica & Terapia: “La prossima volta porti la chitarra” – Un caso Clinico.
La musica e le canzoni hanno fatto da sottofondo al lavoro psicoterapico settimanale della durata di un anno con J., uomo di mezza età sposato con due figlie maggiorenni, inviatomi in cura dopo un ricovero in ambiente psichiatrico per un grave tentativo autolesivo tramite abuso di psicofarmaci. Per J., a cui durante il ricovero era stato diagnosticato un disturbo di personalità narcisistico, era il secondo tentativo autolesivo.
Il primo era avvenuto due anni prima per svenamento. J. lavorava come paramedico, categoria professionale notoriamente ad alto rischio di suicidio sia per il possibile burnout, che per la disponibilità di mezzi autolesivi (Meltzer, 2008). Entrambi i tentativi avevano un forte carattere autolesivo, in quanto avvenuti in solitudine, senza preavviso e con mezzi potenzialmente letali.
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I problemi del paziente erano insorti tre anni prima quando aveva perso entrambi i genitori in pochi mesi e successivamente era entrato in una profonda crisi di coppia con la moglie, in seguito alla scoperta di un tradimento di lui avvenuto due anni prima. In realtà non era il solo tradimento. La coppia non aveva rapporti sessuali da quasi vent’anni ma aveva trovato una sorta di equilibrio in altri aspetti del rapporto: l’educazione delle figlie, i viaggi, la casa delle vacanze, le uscite con gli amici. Dopo la scoperta del tradimento, la moglie l’aveva cacciato di casa e lui era andato a stare nella casa vuota dei genitori, piena di ricordi, non solo piacevoli. Il clima famigliare veniva infatti descritto dal paziente come gelido da un punto di vista emotivo, caratterizzato da un grande contegno. Il paziente non ricordava che la madre gli avesse mai fatto una carezza o una coccola, ma sottolineava che i genitori fossero comunque stati attenti ad altri suoi bisogni più materiali.
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Il ritorno nella casa dei genitori era stato drammatico in quanto il paziente, terminato l’orario di lavoro si chiudeva dentro al buio, in un profondo stato depressivo. Mostrava una forte ambivalenza nei confronti della moglie e provava forti sentimenti di fallimento rispetto al “progetto famiglia”. C’erano momenti di avvicinamento tra i due, a cui seguivano improvvise rotture dovute a scoperte da parte della moglie di nuove frequentazioni del marito. Una di queste frequentazioni aveva una forte connotazione patologica in quanto era con una giovane paziente affetta da una malattia terminale che J. aveva conosciuto sul lavoro. Dietro alla sua giustificazione “E’ il solo tipo di relazione che potevo concepire perché sapevo che era a termine”, c’era un preoccupante bisogno di contatto con l’esperienza della morte, che poi si concretizzò nei due tentativi autolesivi. C’era anche una particolare spinta filantropica in J. in quel periodo, che si manifestava con continui gesti altruistici diretti verso gli sconosciuti, mentre emergeva fortissima la difficoltà a manifestare affetto verso i propri famigliari, figlie comprese. In quel periodo era anche arrivato a pensare di partire come volontario per una missione umanitaria, in una sorta di slancio di “narcisismo filantropico”.
J. era dotato di una personalità eclettica, suonava la chitarra e il pianoforte e cantava. In passato aveva allestito diversi spettacoli teatrali su tematiche sociali e aveva una grande passione per la musica d’autore italiana. I nostri primi incontri furono molto difficili in quanto J. mostrava una certa sfiducia nei confronti della terapia. Tra il primo e il secondo tentativo di suicidio aveva fatto un percorso psicoterapico di otto mesi con un collega che non aveva portato particolari benefici.
Sentivo da parte di J. un atteggiamento di distacco e di sufficienza rispetto ai nostri incontri che mi preoccupava, anche perché il fantasma del suicidio continuava ad aleggiare sulla terapia. Mi consultavo spesso con la collega del Centro di Salute Mentale che lo vedeva mensilmente per la terapia farmacologica (uno stabilizzatore dell’umore), che non sortiva particolari effetti.
J. rimaneva sospeso nel dubbio se tornare con la moglie e riparare il fallimento famigliare, ma ogni volta che provava a riavvicinarsi, in modo perverso, infieriva sadicamente su di lei. Viveva da solo, ma aveva lasciato tutti i vestiti e gli oggetti personali a casa della famiglia. Viveva da single, ma non pensava assolutamente a separarsi. In quel periodo era salvato dal lavoro che svolgeva sempre con passione, ma si sentiva talmente solo che mi chiese di trascorrere le due settimane di vacanza ricoverato nella clinica dove lavoro e io interpretai questa richiesta come un fatto positivo, preventivo rispetto ad ulteriori agiti.
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La situazione era decisamente bloccata e dopo il ricovero decisi di consigliare qualche seduta di terapia di coppia da una collega, con l’obiettivo di fare chiarezza sulla situazione. Alla seconda seduta la moglie quasi aggredì fisicamente il marito di fronte alla terapeuta e questa esplosione di rabbia servì ad allontanare definitivamente i due. Era evidente che non c’era spazio per un riavvicinamento. Dopo un ulteriore periodo di malessere, seguito alla presa di consapevolezza dell’allontanamento definitivo della moglie, cominciò la lenta risalita.
La fase successiva della terapia fu il recupero graduale del rapporto con le figlie, che si erano schierate con la mamma, e di fronte alle quali J. provava una grande vergogna e un’incapacità completa a manifestare il proprio affetto. Partendo da piccoli gesti di disponibilità materiale (commissioni, babysitting ai nipoti, riparazioni domestiche) riprese vita un rapporto che si era interrotto molto bruscamente.
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In questa fase ricomparve anche la musica, che fino a quel momento era stata investita, come il resto della vita di J., da una deriva nichilistica. Si chiedeva “Che senso ha suonare, organizzare spettacoli in questa situazione?”. Era bloccato da una sorta di vergogna di fronte alle figlie che non aveva mai provato prima. Si era convinto che suonare in giro o organizzare un nuovo spettacolo sarebbe stato giudicato severamente dalle figlie, come se l’unico modo in cui avrebbe potuto presentarsi davanti a loro fosse come il padre colpevole che aveva abbandonato la casa e per quello meritava di soffrire per il resto dei sui giorni come Caino.
Mi aveva incuriosito che tra le poche cose che aveva portato con sé durante il trasloco nella casa dei genitori c’era la chitarra, e sapevo che ogni tanto suonava le canzoni dei cantautori per farsi un po’ compagnia. Mi aveva raccontato che in passato aveva scritto qualche canzone sua e i tempi mi sembravano maturi per un invito un po’ insolito in un contesto psicoterapeutico: “La prossima volta, porti la chitarra!”.
J. non fece una piega alla mia richiesta e la settimana successiva me lo trovai in sala d’aspetto con la sua bella chitarra classica appoggiata sulle gambe. Mi suonò una sua vecchia canzone che aveva come argomento la felicità, che non era affatto male e glielo dissi. Mi rendevo conto del possibile pericolo di fornire un palcoscenico a una persona così fragile, ma ero convinto che trovare il modo di stimolare la parte artistica e creativa di J. l’avrebbe aiutato a comunicare meglio anche sul piano emotivo.
Poche settimane dopo mi raccontò che per il compleanno della moglie di un suo carissimo amico aveva regalato alla coppia un concerto privato a casa loro, allestendo tutto l’impianto audio e la scenografia. Si stava lentamente sbloccando!
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Gli ultimi mesi di terapia furono caratterizzati da un graduale miglioramento dell’umore e una maggiore apertura alla dimensione sociale, seppure in contesti abbastanza “protetti”. J. cominciò infatti a frequentare un gruppo di meditazione buddista, dove conobbe alcuni giovani attori che avevano appena restaurato e preso un gestione un piccolo teatro parrocchiale. Venne invitato all’inaugurazione del teatro e rimase letteralmente folgorato dalla magia del luogo.
Incoraggiato dagli attori, J. cominciò a maturare l’idea di tornare a esibirsi con uno spettacolo di canzoni che lo rappresentassero, che raccontassero la sua storia. Lo incoraggiai anche io, soprattutto rispetto alle paure del giudizio delle figlie, che comunque non invitò allo spettacolo.
Preparò e consegnò personalmente gli inviti alle persone che avrebbe voluto presenti, prevalentemente colleghi, musicisti che avevano suonato con lui, ammiratori di suoi spettacoli precedenti e iniziò a prepararsi in modo molto serio per il suo one-man show. Scelse come titolo “L’ultima canzone”, dove quell’ultima sinceramente un po’ mi inquietava, ma trovammo anche il modo di scherzarci sopra e comunque mi rassicurò che non era uno spettacolo di addio.
Invitò anche me e io chiaramente andai, uscendo (solo leggermente…) dal setting, godendomi due ore di canzoni d’autore intervallate da parti lette di un racconto che J. aveva scritto negli ultimi mesi sulla storia di un uomo che trovava in soffitta una vecchia cassetta piena di ricordi e da lì ricostruiva la propria storia. Quella sera fu un successo e J. venne ricoperto di applausi e di affetto per avere avuto il coraggio di tornare sul palco a raccontare sé e la sua sofferenza attraverso le canzoni.
Quest’anno mi ha invitato a un altro spettacolo che ha preparato insieme a una poetessa e a tre musicisti, ma purtroppo non sono riuscito ad andarci.
Quando l’ho chiamato il giorno dopo per sentire com’era andata, mi ha raccontato che si è trovato sua figlia in sala. Una bella sorpresa.
Sembra che ben il 40% delle coppie ciclicamente si lascino per poi tornare insieme. Questo comportamento altalenante è stato oggetto di studio da parte del prof. Amber Vennum della Kansas State University, che ha messo a confronto le informazioni raccolte da coppie “cicliche” e “non cicliche” sul loro rapporto e le sue caratteristiche.
Per fare questo ha utilizzato la Relationship Deciding Scale (RDS), che valuta le qualità relazionali e permette di fare previsioni accurate a 14 settimane di distanza. I risultati dello studio non sono così romantici come quelli suggeriti dalla letteratura o dai film; sembra infatti che le coppie cicliche, quando si tratta di transizioni importanti – come andare a coabitare, comprare un cane o fare un figlio – siano di gran lunga più impulsive di quelle non cicliche. Il risultato è che i partner di coppie cicliche sono meno soddisfatti della loro relazione di coppia, hanno una peggiore comunicazione, prendono più frequentemente decisioni che hanno conseguenze negative sulla relazione, hanno una bassa autostima e maggiore senso di incertezza sul loro futuro insieme.
Secondo Vennum ciò che manca in queste coppie è la capacità di esplicitare un ingaggio reciproco, rendendo così difficile impegnarsi in comportamenti a favore della relazione, come ad esempio discutere della coppia ed essere disposti a fare sacrifici in favore di questa. La ricerca ha anche messo in luce le strategie di rottura e riparazione del legame delle coppie cicliche: in questo tipo di coppie è l’idea che il partner sia cambiato in meglio o la comunicazione migliorata a spingere a riprovarci, anche se i dati di realtà indicano tutto il contrario. In alcuni casi il legame si ricostituisce perchè non è neanche chiaro cosa abbia provocato la rottura; come se il livello di ambiguità presente in queste coppie, non permettendo di definire chiaramente un ingaggio reciproco, rendesse impossibile anche sancire la fine della relazione e i motivi della rottura.
La ciclicità inoltre sembra essere una caratteristica che rimane stabile nel tempo, riproponendosi anche dopo il matrimonio.
Storie di Terapie #2: Un pomeriggio con il demonio
STORIE DI TERAPIE
Nei casi clinici che seguono, l’arrosto sostanzioso dei vari pazienti è condito con il sugo della fantasia, per rendere non identificabili le persone e la lettura più avvincente. Spesso ho condensato in un solo paziente più persone e, quasi sempre ci sono scappati pezzetti di me stesso. – Leggi l’introduzione –
#2 Un pomeriggio con il demonio
Dieci giorni prima
La signora Anna viene al mio studio certa di avermi già visto, cosa che non ricordo, lamentando una sintomatologia generica di preoccupazione diffusa per il futuro proprio e della figlia in quanto sole con un solo stipendio di assistente sociale e senza nessun contributo da parte del marito che tratteggia rapidamente come un debosciato, violento “senza arte ne parte”. Alla preoccupazione si è aggiunta da alcuni mesi la tristezza generata dalla scomparsa della anzianissima madre morta in clinica psichiatra dove era ricoverata per un delirio mistico che si è presentato nelle varie generazioni in più membri della sua famiglia. Prima di proseguire con il suo affannato resoconto Anna mi chiede se io ci creda o no. Le rispondo affermativamente sia in quanto sono abituato a non deludere l’interlocutore sia in quanto non ha precisato in cosa si aspettasse credessi e dunque non trattavasi di una vera e propria bugia.
Non sono certo che lei sappia che tra pochi giorni incontrerò la figlia e dunque lascio al margine tale argomento e mi concentrò su di lei. Oggi è il suo giorno. Nasce figlia unica 55 anni fa in un minuscolo paesino del Lazio da una famiglia di contadini onesti, lavoratori e timorati di Dio e vive fino ai diciotto anni nella stretta cerchia dei parenti serrata a proteggerla dalle insidie del mondo. Inesperta si invaghisce di un bell’imbusto di passaggio. Un peter pan di Firenze che orfano vive con una zia iperprotettiva con la quale ha un rapporto simbiotico e se la cava con espedienti post sessantottini (collanine e manufatti personalizzati) e non disdegna l’uso di sostanze diffuse tra i figli dei fiori. Forse fu proprio lo stordimento dovuto alle droghe unito alla baldanzosa euforia ormonale dei diciotto anni che consentirono a Marcello di superare il serio ostacolo posto dall’aspetto fisico di Anna (che si distingueva per sgradevolezza anche in un tempo in cui le donne brutte erano molto più diffuse e brutte di oggi) e portarono in un colpo solo alla perdita della verginità che Anna intendeva donare al signore considerato anche lo scarso valore di mercato che aveva tra gli umani e all’annidamento nel suo utero di un assembramento di cellule primo abbozzo della futura Luana.
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Forse fu proprio l’innato atteggiamento oblativo da assistente sociale che spinse Anna a volersi dedicare a Marcello cercando di trasformarlo in un responsabile padre di famiglia. Ma lui e la sua forse incestuosa zietta non vedevano di buon occhio il progetto di redenzione dell’orfano dei fiori. Marcello tentò in tutti i modi possibili di far abortire Anna in primo luogo con una strategia fai da te consistente nel massacrarla di botte. Le botte rimasero da allora una costante della loro relazione e più volte la piccola Luana le salverà la vita chiamando i soccorsi dopo averla trovata riversa in un lago di sangue. In questo modo ricambiando il dono fattole dalla madre che la protesse dalla furia abortiva del padre. Ognuna salva e vigila sulla vita dell’altra costantemente minacciate da tutto ciò che è esterno alla loro diade simbiotica. Anna raggiunge Marcello a Firenze decisa a fargli accettare il suo ruolo di padre e durante la sua assenza suo padre si suicida con un colpo di pistola in bocca. Il gesto e la sua assenza in quel frangente saranno sempre vissute da Anna come una sua gravissima colpa per riparare la quale si dedica totalmente alla cura della madre vedova.
La vita di Anna è dedicata completamente al Signore anche senza potergli donare il fiore della sua verginità, alla cura della madre della figlia e del prossimo più sfortunato con il suo lavoro di assistente sociale. E’ un’esistenza di risarcimento ed espiazione. Marcello frequenta moltissime donne ma non abbandona mai la sua zietta fiorentina e continua a malmenare Anna ogni qual volta lei gli si fa sotto. Poi fa perdere le sue tracce in Australia non avendo trovato sul nostro pianeta una terra più lontana dall’Italia. Ad Anna prescrivo ansiolitici per lenire le preoccupazioni che la tengono sveglia la notte (il sonno si vedrà essere un tema drammaticamente ricorrente) e degli antidepressivi blandi per aiutarla nel superamento del recente lutto della madre verso la quale prova anche sensi di colpa per averla “rinchiusa in clinica” e per aver provato nascostamente sollievo alla notizia della sua scomparsa. Ci lasciamo sulle mie rassicurazioni circa la disponibilità ad occuparmi della figlia.
Un pomeriggio dalle suore
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Incontriamo Luana alle 15,00 di un soleggiato pomeriggio invernale in un convento di suore della consolata a due passi da Nepi dove Luana è giunta la mattina stessa in fuga da una cosiddetta comunità terapeutica. Mi accompagna Carlo, uno psicoterapeuta esperto in problemi giovanili, inizialmente smarrito tra gli odori di minestrina, formaggio insipido e verdure lesse che rendono riconoscibile un qualsiasi stabile come un convento di suore con la sua atmosfera rassicurante e laboriosa. Luana arriva accompagnata per mano dalla superiora Suor Simona. Appare come una ventiduenne tipica vestita semplicemente e con qualche chilo di troppo. Soprattutto è visibilmente spaventata e chiede continue rassicurazioni circa il fatto che non sarà più rimandata nella comunità di Perugia dove ha trascorso gli ultimi tre mesi da incubo. Suor Simona, bionda, magra e delicata ma di rocciosa solidità è la giovane superiora con una laurea in psicologia che si pone come figura protettiva e materna e la lascia solo dopo essersi assicurata che Luana sia tranquilla a restare con noi considerato l’aspetto da diavolo buono (Geppo) ma pur sempre diavolo di Carlo. L’arrivo del vescovo cui si affida totalmente la rassicura e la fiducia che lui mostra in noi accresce enormemente la nostra autorevolezza. Accetta di buon grado di rimanere sola con noi.
In un contesto clinico avremmo scritto in cartella “la paziente è orientata nel tempo e nello spazio, accede volentieri al colloquio e non presenta manifestazioni psicopatologiche di alcun genere”. Essendo invece nel salottino di un convento diremo che Luana è una ragazza estremamente lucida, consapevole e molto intelligente che ci racconta volentieri la sua storia ed ha con noi un ottimo rapporto empatico. Mentalmente escludiamo qualsiasi forma psicotica. I matti veri li riconosciamo ad occhio e lei non lo è. Allora però se non è matta come sembra sarà davvero indemoniata. Se non fossimo a conoscenza dei risvolti ultraterreni della vicenda e di tutte le figure che vi ruotano o svolazzano intorno dopo mezz’ora saremmo a chiudere il pomeriggio in un bar di Nepi con una birra. Ma l’attesa del manifestarsi del soprannaturale ci trattiene. Più passa il tempo ed il colloquio procede più iniziamo a temere di aver fatto il viaggio a vuoto e di poter chiedere a Satana il rimborso dei soldi per il mancato spettacolo. Ma la vicenda si fa umanamente interessante e la sua brillante e profonda narrazione ci avvince. Luana ricorda un’infanzia segnata dalla continua guerra tra il padre e la madre. La madre descriveva il padre come un demonio ma la spingeva ad andare da lui a Firenze perché questo spetta ad una brava figlia. Quando il padre era presente le liti tra i genitori esplodevano furibonde e ricorda spesso la madre a terra insanguinata e lei che chiama l’ambulanza. Quando il padre non c’era le liti erano tra la madre e la nonna descritta come una iperansiosa, controllante e fissata con la religione. Il padre non tollerava di stare con loro anche per questa presenza asfissiante per tutti.
Penso anche ad un abuso che giustificherebbe la dissociazione. Invece ricorda il padre stordito dalle sostanze e inaffidabile ma mai direttamente violento nei suoi confronti. La madre invece mai disponibile per lei presa dalle liti con il padre, le cure della vecchia madre e dei suoi utenti. Le chiedo di elencarci i suoi sintomi. Convinta della sua possessione o in alternativa minore della sua follia racconta di aver avuto tutti i possibili disturbi tra cui degli attacchi di panico che non risulteranno essere tali. Il primo infatti consiste in uno svenimento a seguito di una sigaretta fumata a digiuno.
Scivola a terra e la madre lascia perdere tutto per occuparsi di lei. A quel punto consapevolmente resta a terra e si lamenta eccessivamente beandosi dell’attenzione della madre finalmente richiamata. Luana dice di aver compreso allora che l’unico modo per avere l’attenzione della madre era star male.
Insomma “piccole isteriche crescono”. La scuola di perfezionamento la fa alle cosiddette “messe di liberazione” di per sé pratiche innocue in quanto preghiere a favore dei malati dove viene spinta dalla nonna con l’argomentazione che “non si sa mai” e poi “pregare certamente non fa male a nessuno” (stessi argomenti utilizzati in genere a difesa dell’omeopatia e dell’astrologia). L’ambiente però è mal frequentato e Luana assiste a clamorose crisi isteriche di fronte ad un pubblico che esalta entusiasticamente le più teatrali. Ne resta turbata e chiede di non andarci più in accordo con la ferma presa di posizione del padre. Ma agli occhi di chi ha una fede primitiva condita con tanta tanta ignoranza ed una spruzzatina di tendenza al delirio che tutto spiega autoconfermandosi cosa può significare questo rifiuto? Ovviamente che il demonio che si è introdotto nella ragazzina vuole fuggire dall’incontro con Dio che può batterlo.
In questo modo si entra in una terribile spirale autoconfermatoria tipica anche della malattia mentale. Una volta che intervengono gli psichiatri, qualsiasi tentativo di mostrare la propria sanità mentale e magari l’irritazione per essere considerati folli divengono ulteriori prove dello stato di follia (si legga in proposito “La beffa di Roshenam” sul volume La Realtà inventata di Watzlavich, Feltrinelli). Altrettanto con gli esorcisti. Non è forse la prima delle astuzie del demonio quella di far credere che non esiste! Tornando alla sua realtà di quattordicenne bruttina e timida racconta delle difficoltà ad inserirsi nel gruppo classe, dei primi turbamenti sessuali con relativi sensi di colpa. Poi finalmente una cotta per Marco di tre anni più grande e i sogni di normalità. Escono persino un paio di volte insieme e lui mostra un interesse per il suo fisico ma viene respinto fermamente. Mamma Anna, anche forte della sua esperienza con Marcello l’ha messa in guardia: il sesso è la via maestra per l’inferno su questa terra e soprattutto…
…nella successiva vita eterna. Dopo mesi di inutile assedio alla virtù di Luana Marco durante una gita scolastica si mette con una ragazzetta più grande e disponibile. Per Luana è il dolore allo stato puro. Vede confermate le sue previsioni di solitudine, emarginazione e derisione. E’ diversa dalle altre. Si sveglia la notte e rimugina ossessivamente su quanto è successo, cercando le sue colpe e le sue mancanze. Si preoccupa del sonno disturbato che era una caratteristica del nonno nel periodo precedente al suicidio e lo dice alla mamma. Anna allarmatasi inizia a dormire nel letto con la figlia per controllarne il sonno e pensa ad interventi terapeutici più sostanziosi che non le messe di liberazione. Luana ha ottenuto la vicinanza della madre che le dorme accanto ma paga il prezzo di un escalation di esorcismi verrebbe da dire “privati” nel senso di professionisti scaccia diavoli non organici alla chiesa ma dotati di poteri particolari che utilizzano per sbarcare il lunario. Un po’ come gli psichiatri privati, fuoriclasse, rispetto alle truppe dei dipartimenti di salute mentale. Il problema del sonno resta immutato richiedendo interventi sempre più massicci. Attualmente Luana sostiene una cosa inverosimile perché incompatibile con la vita e cioè di non dormire da quattro anni. Leggende analoghe riguardano il nonno suicida. Ogni incontro con gli scaccia demoni se non risolve la sintomatologia aiuta però a confermare la diagnosi per il suo comportamento rifiutante. Luana è piena zeppa di demoni e di quelli importanti. La loro presenza si manifesta oltre che con l’ insonnia con vizi notoriamente ispirati dal maligno come il fumo e l’assunzione di caffè che lei ha infatti eliminato da quattro anni. Durante una pausa dopo due ore ininterrotte di colloquio io prendo un caffè e insisto che lo faccia anche lei. Difficilmente scorderò la sua faccia stupita avvicinarsi al bicchiere di carta fumante stretto con due mani mentre continuava a ripetere”ma davvero posso?” mentre noi ironizzavamo sulla probabile immediata comparsa di Belzebù stesso cui avremmo dovuto offrire un caffè ma pronti ad annientarlo con la bottiglia di acqua di Nepi che Carlo aveva preso (non dorme se prende il caffè il pomeriggio) come demonifugo e lenimento per la sua prostata. Il fatto di essere stata catalogata come indemoniata a motivo delle convinzioni della madre e del delirio della nonna non era la cosa peggiore che potesse capitare a Luana. Il peggio doveva succedere negli ultimi tre mesi quando la gestione è passata agli strizzacervelli. La madre abbattuta dal lutto della propria madre aveva gettato la spugna e Luana era stata inviata in una comunità terapeutica vicino Perugia. Questa comunità mette insieme matti, tossicodipendenti di tutti i tipi, internati sottoposti dal giudice a misure di sicurezza, barboni e ogni sorta di umanità sofferente e marginale. La gestione sotto la guida della chiesa locale è affidata ad ex ricoverati che si gettano con zelo e certezze assolute come solo gli ignoranti possono avere nel recupero delle anime in via di perdizione per ogni tipo di vizio. La filosofia di fondo è che tutto il male provenga dalla mancanza di regole, dal proprio egoismo e dall’orgoglio (lo stesso in definitiva che portò alla rivolta di Lucifero. Di conseguenza la terapia consiste essenzialmente nell’imposizione di regole e nella sistematica vessazione e umiliazione. Il paziente va domato, deve abbassare la cresta, riconoscere chi comanda. E’ chiaro che una tale impostazione si presta a tirare fuori il peggio da operatori già evidentemente disturbati per il loro passato se persino persone normali e oblative possono diventare aguzzini feroci come ha dimostrato l’esperimento di Zimbardo nel laboratorio di Stantford (riportato nel suo volume “the lucifer effect”). Se questo avviene spesso in queste sedicenti comunità terapeutiche riedizione privata e dunque meno controllata dei vecchi manicomi, la situazione di Perugia è particolarmente grave. Luana vive tre mesi di incubo. Maltrattamenti e umiliazioni di ogni genere, tanto chi crederebbe alle denunce di una povera matta? E’ costretta a riferire, sotto minaccia, al vescovo che si trova bene. Tutti gli ospiti non possono comunicare con l’esterno l’inferno, questo si, che stanno vivendo. Per la prima volta davvero Luana incontra il diavolo. La situazione se possibile peggiora ancora dopo una puntata delle iene che denuncia le violenze di cui è protagonista Don Lucio ora inquisito dalla magistratura. Lui viene immediatamente sostituito e i filmati delle iene scompaiono da internet. Ma il suo vice è un laico ex tossico che sentendosi accerchiato dalla magistratura si fa ancora più minaccioso. Questa mattina Luana lascia la comunità ma per avere la certezza che torni non le permettono di portar via le sue cose e non restituiscono i documenti. Mi impegno formalmente con lei che non tornerà mai più in quel luogo di sevizie. Si sta facendo tardi e l’ultima parte del colloquio è dedicata al futuro. Luana chiede solo di dormire e insieme concordiamo che i farmaci non basteranno. Sarà necessaria anche una vita migliore e lei esprime il desiderio di allontanarsi da Rieti e di studiare scienze infermieristiche o imparare un lavoro più pratico legato al mondo dell’estetica. Ricompare Suor Simona che ci racconta come avesse pensato di trovare una sistemazione per Luana e la madre a Passo Corese in modo che Anna potesse facilmente raggiungere il suo lavoro a Rieti e Luana con il treno rapidamente Roma che offre tutte le possibilità di studio e di lavoro per costruire la sua esistenza lontana da strizzacervelli e scaccia diavoli. Suor Simona riferisce che la madre è contraria a lasciare Rieti e concordiamo per una serie di incontri a tre in cui affrontare il problema. Luana aggiunge una richiesta che denota ulteriormente il suo buonsenso. Vorrebbe anche fare una psicoterapia per rimettersi in carreggiata. Se tutto finisse qui sarebbe stato un pomeriggio utile e perfetto ma c’è ancora una incombenza. La preghiera o il cosiddetto esorcismo che deve tenersi a Capena nella parrocchia di Don Gilberto, padre amoroso e comprensivo per i suoi fedeli di giorno e implacabile cacciatore di demoni dopo il crepuscolo. Luana esprime chiaramente il suo desiderio di soprassedere almeno per oggi. E’ stata una giornata impegnativa. Sveglia nella comunità, poi la fuga poi tre ore con gli strizzacervelli le sembra di aver dato abbastanza. Ma la macchina è già in moto. Noi non ci opponiamo decisamente per non entrare in conflitto con l’ambiente che per il momento accoglie Luana e che ci vedrebbe perdenti e bollati come presuntuosi materialisti e forse persino un tantino in odore di zolfo (meglio non rischiare). Forse anche perché siamo curiosi di vedere l’epifania del soprannaturale, non vogliamo perderci lo spettacolo e per questo ci sentiremo in colpa a non aver agito.
Non avrei voluto vedere il medioevo contemporaneo
Una lunga processione di auto si incammina verso Capena. In una Luana e Gilberto. In un’altra tre suore. Nell’ultima Carlo ed io finalmente liberi di confrontarci e concordare su un disturbo ossessivo come causa dell’insonnia su un disturbo istrionico di personalità. La strada è lunga e tutta curve ed io avverto nausea ma Carlo non vuole farmi scendere per farmi vomitare certo che sarebbe verde. Nei gelidi locali di Capena troviamo ad aspettarci altre quattro persone. Frate Gabrielle giovane esorcista che sembra uscito da un volume di Dan Brown con il suo saio elegante e severo e gi avambracci protetti da una guaina di pesante cuoio fermata con delle fibbie in metallo per proteggersi da morsi e graffi. Mario, un ex ammiraglio vedovo che porta il suo contributo immobilizzando con i suoi 90 kg. il corpo dove ha trovato dimora il maligno. Livio un sacrestano sessantenne con l’aria annoiata di chi è costretto agli straordinari rimandando la cena che prepara gli strumenti per il rito: un materassaccio a molle, gettato in terra, cuscini per la testa di Luana e cuscini per coloro che vi si getteranno addosso, l’aspersorio con l’acqua santa che inonderà Luana ma raggiungerà tutti per maggior sicurezza, il libro con il testo del rito, rotoli di scottex per pulire la bava e gli sputi che sono attesi. Luana si siede al centro del materasso con intorno nove persone adulte di cui 6 uomini , mi guarda e dice “ora sono davvero al centro dell’attenzione”. Nel frattempo è sopraggiunta la madre che non vede da tre mesi, si salutano ma la madre la sollecita a non perdere tempo. Si accovaccia al suo fianco e la avvolge in un abbraccio che mi mette i brividi. Mi ricorda quello di una madre in visita al figlio adolescente ricoverato. Ogni volta gli portava dei peluche e poi teneramente lo abbracciava nel letto e lo masturbava per soddisfare i suoi bisogni adolescenziali. Ho sempre pensato che fosse un abbraccio mortale come in effetti fu. Quel giovane si fracassò la testa contro il muro nonostante il caschetto che i medici gli avevano imposto. Dall’abbraccio con la madre Luana è riemersa diversa. Sguardo nel vuoto, inespressiva, direi rassegnata e pronta a recitare la sua parte. Poi è accaduto quanto tutti si aspettavano che accadesse. Uno spettacolo di estrema violenza ancor più inquietante in quanto fatto da soggetti certamente a fin di bene e volto esplicitamente al benessere della vittima. Del resto qualche secolo addietro ci sarebbe stato, sempre a fin di bene, il rogo. Tutti i maschi presenti, perfino Carlo viene precettato e mi guarda implorante perché impedisca il suo utilizzo nel ruolo di peso morto, si gettano su Luana per immobilizzarla. Se mi immobilizzano a me sta la parte di chi si divincola e Luana non delude le aspettative. Scalcia, urla con voce rauca. In perfetta sincronicità con Don Gilberto le sue imprecazioni diventano più forti quando lui affronta in passaggi più enfatici con voce più stentorea e mostra un accanimento maggiore con gli schizzi dell’aspersorio. Si vede che hanno provato altre volte. Comunque la qualità della rappresentazione resta dilettantesca e qualsiasi attore amatoriale farebbe di meglio. Le pie donne (madre e suore) si affaccendano in preghiere di sottofondo e asciugano il volto di Luana madido di sudore e di acqua santa. Il gelo dell’ambiente non si è ancora stemperato e mi accorgo di un clono spastico alla mia gamba sinistra (la guardo preoccupato e mi ricordo che se anche non lo controllo è solo una questione neurologica). Lo blocco immediatamente poggiandovi sopra la destra perché temo di finire anch’io sul materasso. Don Gilberto mi si avvicina e mi fa notare gli sputi di Luana come prova incontrovertibile della presenza del demonio, gli ribatto che se uno è immobilizzato quella è l’unica forma di reazione possibile ad un aggressione. Mi chiede se fermarsi con questa che è la forma breve o proseguire con l’esorcismo completo che durerebbe almeno altre due ore. I postumi della mia malattia e la famiglia in preoccupata attesa sono una scusa sufficiente per scegliere la versione breve e porre fine alla tortura. Appena data la benedizione finale tutti si abbracciano provati e soddisfatti del lavoro compiuto. Io mi rivolgo a Luana con voce normale e le dico “rimettiti i calzettoni che con tutto questo casino ti si sono sfilati e fa freddo”. Si tira su i calzettoni e infila le scarpe poi chiede di rivederci e ci scambiamo i cellulari per un futuro appuntamento anche con mamma Anna. Durante il parapiglia tra le forze del male e del bene non ho assistito a nessun fenomeno soprannaturale ( a meno che non si voglia considerare tale il fatto che Luana abbia un paio di volte mandato tutti a fare in culo e invocato Satana tre volte, due lucifero e abbia dichiarato di essere il diavolo) e nemmeno paranormale ma semplicemente ad una crisi isterica di entità e qualità piuttosto mediocre.
Insomma non posso escludere l’esistenza del demonio mentre sono certo di quella del male che ho visto spesso dentro di me e negli altri. Quello di cui sono certo è che se il maligno esiste l’altro giorno non si è scomodato a venirci a trovare
P.S: La contraddizione tra l’osservazione di persone colte e non facilmente suggestionabili come il vescovo e suor Simona che accreditano la presenza del demonio e l’ipotesi esclusivamente psichiatrica sostenuta dagli psicologi potrebbe spiegarsi supponendo che lo stesso estensore della presente relazione sia proprio……..
Roberto lorenzini 29 gen 2012
Infine riporto alcune note sul fenomeno dell’esorcismo scritte alcuni mesi fa in relazione alla richiesta del vescovo di ragionare su questo fenomeno:
Esorcismo Scrivo alcune osservazioni sul fenomeno dell’esorcismo partendo però da cinque premesse indispensabili.
Scrivo alcune osservazioni sul fenomeno dell’esorcismo partendo però da cinque premesse indispensabili. 1. L’interesse per il fenomeno è dovuto semplicemente alla richiesta di Romano di darci un’occhiata e, conseguentemente, dall’aver incontrato in Don Gilberto e Don Gabriele due persone serie, intelligenti e disponibili al confronto. 2. Se fossi uno studioso serio prima di dire una sola parola e ancor più di scriverla mi andrei a leggere tutta la bibliografia in proposito che credo copiosa. Ma non lo sono e comunque preferisco prima fermare le mie impressioni per evitare di farmi influenzare da quanto già detto da altri, salvo leggerli dopo. 3. La mia esperienza è molto modesta perché ho letto un resoconto su una giovane e ne ho vista un’altra (ragazzina di 16 anni) parlandoci per poco tempo. 4. Non è mio compito valutare l’effettiva presenza del Maligno. Mi limito a fare lo psichiatra ed a cercare spiegazioni in tal senso (potremmo dirle maligno free) di quello che ho visto o mi è stato raccontato. 5. Concluderò dando una serie di suggerimenti banali .
Si tratta di persone che per età e condizione hanno una spiccata tendenza alla suggestionabilità. Vivono in un contesto familiare conflittuale in cui si fronteggiano, nel presente ma anche attraverso le generazioni, due anime: una profondamente religiosa di una religiosità piuttosto magica che chiameremo A, e un’altra assolutamente atea e caricaturalmente avversa alla chiesa ( modello:mangiapreti) che chiameremo B. Il conflitto tra queste due anime ha probabilmente altre e più profonde radici che non la divisione sul problema della fede, ma su questo terreno si esplicita.. Il soggetto soffre di questa situazione conflittuale presentando sintomi più o meno intensi di ansia. Tali sintomi sono interpretati da A come segno di possessione e ne viene attribuita la colpa all’ateismo di B. B interpreta questi sintomi come prova dell’influenza negativa di A che ha suggestionato il soggetto. A e B possono continuare ad agire il loro conflitto attribuendosi reciprocamente la colpa della sofferenza del soggetto. Il soggetto nella sua posizione di posseduto mantiene appartenenza a entrambe le fazioni. Se è posseduto è ad un tempo di Dio e del diavolo. Tutto ciò che fa ed è contrario ad A non dipende da lui ma dal maligno. Si aggiunga che i sintomi d’ansia iniziali vengono moltiplicati enormemente dalla credenza di essere posseduti dal demonio e quindi si entra in un circolo vizioso di auto mantenimento: più pensi di essere indemoniato e più ti agiti…. e più ti agiti e più sei indemoniato. Al di là di questo schemino generale credo che in alcuni casi (come quello visto da me) ci sia una vera e propria “follia a due” in cui il soggetto veramente matto o posseduto (a piacere) non è il soggetto ma una sua figura parentale che ha forte influenza su di lui. Suggerimenti: prima di qualsiasi intervento che automaticamente innesca il circolo di mantenimento raccogliere una accurata anamnesi o storia di vita individuale e familiare. Conoscere a fondo prima di fare alcunché, perché il fare modifica definitivamente il quadro. Cercare di immaginare esperimenti cruciali che eliminano il fattore suggestione (ostia non consacrata, acqua non benedetta ecc.) Garantirsi da possibili reazioni di B che potrebbero agire legalmente per abuso di professione medica pur di continuare ad agire il conflitto con A
Il significato negativo degli eventi: il laddering
L’accertamento del significato negativo degli eventi temuti, di qualunque tipo essi siano, va sotto il nome di laddering. Occorre però ricordare che il termine laddering può essere confusivo. La tecnica del laddering nasce nell’ambito della teoria dei costrutti personali di George Kelly (1955). Per Kelly i contenuti cognitivi hanno un significato positivo o negativo in base a catene di implicazioni, i cosiddetti costrutti.
George Kelly è una figura parzialmente laterale nella storia del cognitivismo clinico. Particolarmente amato e studiato in Italia e in Inghilterra, egli è conosciuto anche nell’ambito del cognitivismo internazionale. Kelly si distingue da Beck perché definisce il pensiero negativo di vario tipo (ansioso o depressivo o rabbioso che si voglia) non tanto in termini di pericoli o minacce o disavventure (per non dire sciagure) percepite o temute, ma in termini di significato negativo attribuito agli accadimenti, esterni o interiori che siano. Un evento è negativo perché per me lo è, per i miei tic personali, o per la mia scala di valori, se volete. Una sorta di cognitivismo che spinge molto sugli aspetti soggettivi della persona.
Articolo consigliato: Iniziare una Terapia Cognitiva: Concordare le Regole
Qualcosa che possiamo paragonare non a un’eruzione vulcanica o a una strage terroristica, ma piuttosto all’avvento di Facebook o, un tempo, dei telefonini. Comportamenti di massa che inizialmente generavano qualche difficoltà in molti. Difficoltà per un vago, ma negativo, significato sociale. Inizialmente iscriversi a Facebook o possedere un telefonino sembrarono atti bislacchi o ridicoli o perfino un’insostenibile resa alla volgarità di massa. Poi gradualmente sono diventati qualcosa di divertente, di brillante e seducente e perfino di utile. Si tratta di significati percepiti più che di eventi oggettivamente catastrofici.
Il principio del laddering è analizzare le implicazioni (negative, nel caso dei pazienti) degli eventi, delle situazioni o degli stati d’animo temuti. Per questo esso è utile come concetto introduttivo generale per comprendere cosa sia l’accertamento cognitivo della sofferenza psicologica. Insomma, la domanda che si fa per accertare un laddering é: cosa c’è che non le va in questo?
P.: Il mio problema è parlare in pubblico. Devo farlo, il mio lavoro lo richiede. Ma ogni volta è sempre difficile.
T.: Riflettiamo. Può darsi che lei percepisca nel parlare in pubblico qualche aspetto che lei disapprova. Che significa per lei questo? C’è qualche significato negativo nel parlare in pubblico?
P.: Talvolta mi sorprendo a pensare che chi sa parlare bene in pubblico è una persona falsa. Qualcuno che recita. Un politico. E forse anche un po’ arrogante, dietro il suo sorriso accattivante. Oggi ho letto sul giornale una vecchia dichiarazione del presidente Reagan. Diceva più o meno che ogni politico deve aver fatto l’attore.
Nella teoria di Kelly queste implicazioni negative si organizzano secondo coppie dicotomiche di opposti che si illuminano a vicenda. Per esempio, nel caso appena riportato della paziente parlare in pubblico implica anche falsità, inautenticità e perfino arroganza. Ne consegue che per lei il contrario di “timido” è “arrogante”. Tuttavia organizzare i significati per coppie dicotomiche in un colloquio clinico può essere farraginoso. In un buon laddering è sufficiente cercare le implicazioni di significato negative.
Occorre ancora sottolineare che per Kelly si tratta di significati e non di eventi oggettivamente catastrofici o comunque negativi nel senso che producono un danno materiale. È vero che, almeno in alcune forme di sofferenza ansiosa, ci sono vere e proprie catene di eventi negativi temuti. È la cosiddetta catastrofizzazione (catastrophizing). In questo caso, chiedendo cosa ci sia di male in una certa situazione, otteniamo effettivamente la descrizione di minacce o pericoli che possiamo definire oggettivi:
P.: Evito sistematicamente di entrare negli ascensori
T.: Perché non le piace?
P.: Temo che possa fermarsi.
T.: E una volta che l’ascensore si è fermato, perché non le piacerebbe?
P.: Beh, potrei rimanerci dentro per giorni.
O peggio:
P.: Potrei morire. Magari impazzisco.
Ma anche questi eventi esterni e concreti possono però avere una implicazione psicologica di significato personale.
T: E se ci rimanesse giorni, cosa non le piacerebbe?
P: Mi sentirei sola.
T: E se fosse solo perché non le piacerebbe?
P: Solo, per me fragile, vulnerabile, paura, angoscia.
Articolo consigliato: Iniziare una terapia cognitiva: stabilire gli obiettivi.
Il laddering ebbe grande fortuna nell’ambiente delle indagini di mercato e di publicizzazione dei prodotti commerciali (Gutman, 1982; Reynolds e Gutman, 1984; 1988; Reynolds e Whitlark, 1995). In ambito commerciale il laddering si sviluppa come una tecnica d’intervista per analizzare la catena mentale dei mezzi-fini che sottende la decisione del cliente di acquistare un certo prodotto, tentando di ricostruire gli attributi qualitativi che hanno determinato il gradimento del prodotto, in rapporto ai bisogni e ai valori del cliente stesso.
L’applicazione del laddering all’indagine clinica implica alcune modifiche. La prima è che, mentre il laddering delle indagini di mercato è positivo, quello clinico deve essere inevitabilmente negativo. Gli scopi e le credenze di un cliente che vuole comprare un prodotto sono credenze positive. Le domande che potremmo fargli sono domande tese a chiarire le ragioni di un acquisto: perché lei potrebbe comperare un certo prodotto? Perché potrebbe piacerle? A cose potrebbe servirle?
Non così condurremo l’intervista con un paziente affetto d’ansia. Il nostro paziente non vuole acquisire qualcosa. Egli teme e non desidera, i suoi scopi non sono acquisitivi ma di evitamento. Egli intende nascondersi, proteggersi, evitare un danno. Le domande saranno quindi negative: cosa teme? Perché teme questa situazione? Cosa non le piace in questo? E perché?
Articolo consigliato: Storie di Terapie - Casi clinici di Psicoterapia
In seguito Hinkle (1965) classificò queste implicazioni in laddering up (verso l’alto) in cui convinzioni sopraordinate e più astratte giustificano secondo regole o concetti più generali e ampi una certa idea dell’individuo; e in laddering down (verso il basso), in cui le stesse convinzioni sono giustificate ricorrendo a esemplificazioni concrete o comunque concetti più ristretti. Possiamo osservare che il laddering down in fondo è molto simile al catastrophizing, al predire eventi negativi. E così si passa dal kelliano “cosa non le va in questo?” al più beckiano “cosa potrebbe capitarle di brutto in questa situazione?”
In questa maniera chiariamo la catena dei timori della persona che ha chiesto le nostre cure. Si tratta di un accertamento, ma anche di un primo abbozzo di cura. Il laddering permette al terapeuta di capire sempre meglio qual è esattamente l’oggetto dell’ansia del paziente, ma costringe al tempo stesso il paziente a giustificare secondo una logica più stringente i suoi timori. Non si tratta più di limitarsi a riconoscere una certa situazione come pericolosa e temibile, ma di fondare più razionalmente questo timore.
Per quale ragione tu temi questo? Il paziente è invitato a rispondere, e già così comincia ad esporre una primissima forma di distacco critico dalle sue emozioni. Emozioni che fino a un momento prima erano vissute con ingenua adesione e pienezza emozionale.
BIBLIOGRAFIA:
Gutman, J. (1982). A means-end chain model based on consumer categorization processes. Journal of Marketing, 60, 60-72.
Hinkle, D.N. (1965). The change of personal constructs from the viewpoint of a thoery of implications. Unpublished Ph.D. thesis, Ohio State University. Reviewed by Bannister and Mair (1968).
Kelly, (1955). The psychology of personal constructs, vol. 1. New York: Academic Press.
Reynolds, T. J., & Gutman, J. (1984). Laddering: Extending the repertory grid methodology to construct attribute-consequence-value hierarchies. In R. Ritts & A. Woodside (eds.) Personal values and consumer Psychology, Vol. II, pp. 11-31.
Reynolds, T. J., & Gutman, J. (1988). Laddering theory, method, analysis and interpretation. Journal of advertising research, 28, 11-31.
Ricerca: Intolleranza alle emozioni e Pensiero Desiderante nei fumatori
La letteratura scientifica descrive il craving come un’esperienza soggettiva che motiva gli individui a cercare e raggiungere un oggetto o praticare un’attività (target) allo scopo di ottenere determinati effetti. Per diversi autori è considerato il cuore delle dipendenze patologiche, nonché il processo nucleare che guida verso la perdita di controllo del proprio comportamento ed è considerato un oggetto d’intervento chiave nel trattamento delle dipendenze patologiche (Frone et al., 1994; Marlatt, 1987).
Recentemente alcuni studi hanno cercato di indagare il possibile funzionamento cognitivo che alimenta o sostiene la sensazione di desiderio e l’impulso incontrollabile legato al craving (Kavanagh et al., 2004).
In particolar modo recenti ricerche hanno esplorato il modo in cui individui con disturbi da dipendenze patologiche e controllo degli impulsi pensano agli oggetti del proprio desiderio, individuando uno stile di pensiero con caratteristiche specifiche (Caselli & Spada, 2010). Il pensiero desiderante, questo è il suo nome tecnico, è una forma di elaborazione cognitiva volontaria di informazioni riguardanti oggetti e attività piacevoli e positive che avviene a due livelli interagenti:
Verbal Perseveration: pensieri ripetitivi e automotivanti circa il bisogno di ottenere l’oggetto o di svolgere l’attività.
Imaginal Prefiguration: immagini mentali multisensoriali dell’oggetto o attività desiderata e del contesto in cui l’individuo lo può realizzare o lo ha realizzato in passato.
Studi preliminari (Caselli & Spada, 2010) non solo mostrano che il pensiero desiderante risulta eccessivo in molti individui con problemi di controllo degli impulsi, ma sostengono che abbia caratteristiche trasversali e indipendenti dalla natura dell’oggetto del desiderio (cibo, alcool, fumo, gioco d’azzardo, attività sessuale ecc…). Questi risultati suggeriscono che alcune modalità di usare il pensiero rispetto ai nostri desideri (quelle appunto identificate dal pensiero desiderante) possono influire sull’intensità dei nostri impulsi e sulle nostre capacità di autocontrollo.
Diverse ricerche (Williams et al., 1997) inoltre associano l’intolleranza alle emozioni negative al discontrollo degli impulsi e la pongono come credenza centrale dei disturbi d’ansia. L’uso di sostanze potrebbe agire come strategia di gestione di emozioni intollerabili e attenuare i sintomi ansiogeni. Tuttavia resta ancora da definire la relazione tra pensiero desiderante, intolleranza delle emozioni e craving.
Lo studio che presentiamo ha lo scopo di valutare il meccanismo di interazione tra pensiero desiderante, intolleranza delle emozioni e la specifica influenza sull’insorgenza ed il mantenimento della dipendenza in soggetti consumatori di tabacco.
Se siete fumatori e volete collaborare alla nostra ricerca vi chiediamo solo 15 minuti del vostro tempo per completare una serie di questionari. Basta cliccare su questo link:
NOTA: TUTTI I DATI SONO TRATTATI IN FORMA RIGOROSAMENTE ANONIMA.
Grazie a tutti per la vostra collaborazione. Vedrete presto i risultati su State of Mind
BIBLIOGRAFIA:
Caselli, G., & Spada, M.M. (2010). Metacognition in Desire Thinking: A Preliminary Investigation. Behavioural and Cognitive Psychotherapy, 38, 629-637.
Frone, M. R., Cooper, M. L. & Russell, M. (1994). Stressful life events, gender, and substance use: an application of tobit regression. Psychology of Addictive Behaviors, 8, 59-69.
Kavanagh, D.J., Andrade, J, & May, J. (2004). Beating the urge: Implications of research into substance-related desires. Addictive Behaviors, 29, 1399-1372.
Marlatt, G.A. (1987). Craving notes. British Journal of Addiction, 82, 42-43.
Williams, K.E., Chambless, D.L. & Ahrens, A. (1997). Are emotions frightening? An extension of the fear of fear construct. Behaviour Research and Therapy, 35(3), 239-248.
Emozioni positive e cattive scelte alimentari
– Rassegna Stampa –
Molte ricerche associano stati mentali negativi a cattive scelte alimentari, ma secondo un recente studio, pubblicato sul Journal for Consumer Research, anche stati mentali positivi possono portare a scelte insalubri.
I ricercatori hanno messo a confronto gli effetti di sentimenti positivi di orgoglio e felicità, determinati dal pensare al passato o al presente, e di speranza, emozione orientata al futuro. I risultati, alquanto curiosi, indicano che è l’orientamento verso il futuro a spingere a scelte alimentari più sane (preferenza per la frutta); chi si concentra invece sul passato, anche in presenza di emozioni positive, indulgerà in scelte alimentari meno sane (dolciumi). Anche la speranza, emozione che proietta verso il futuro, è meno incisiva nel ridurre le cattive scelte alimentari quando lo stato mentale dei partecipanti è rimasto orientato al passato. Allo stesso modo il senso di orgoglio conduce a scelte alimentari più sane quando è il risultato di un’anticipazione piuttosto che quando è legato al presente.
Infine i ricercatori hanno confrontato gli effetti sulle scelte alimentari di emozioni positive e orientate al futuro di speranza e orgoglio con quelli di emozioni negative, ugualmente orientate al futuro, di paura e vergogna. I risultati, com’è facilmente prevedibile, indicano che le scelte più salubri sono legate a sentimenti positivi e orientati al futuro. Insomma, suggeriscono i ricercatori, la prossima volta che ti senti bene non concentrarti troppo sul passato, ma pensa al futuro, il tuo corpo ti ringrazierà!
In the next series of installments I will be discussing the concept, importance, course, prevalence and relation of behavioral inhibition (BI) to social phobia.
Garcia-Coll, Kagan and Reznick (1984) define behavioral inhibition as a trait characterized by shy, withdrawn, uneasy, vigilant, and restrained behavior in the context of unfamiliar social or non social situations; in the same situations uninhibited children act spontaneously and confidently (Kagan, 1988). The prevalence rate of BI is estimated at 15% in two year old Caucasian children (Kagan, 1989). The link between BI and anxiety disorders has been a focus of much research. Many studies have examined the persistence of BI and, in particular, the link between it and the development of social phobia.
Research has examined the course and persistence of BI. Kagan, Reznick, Snidman, Gibbons and Johnson (1988) used a longitudinal design to assess the social development of behaviorally inhibited (n = 22) and uninhibited children (n = 19). At 21 months of age BI was assessed in a laboratory setting, and at seven and a half years the children’s behavioral profile was assessed. There was significant continuity from 21 months to seven and a half years of age. Thus, children who were labeled inhibited became more quiet and socially avoidant in unfamiliar situations than uninhibited children; uninhibited children became more talkative and interactive in these situations than inhibited children.
Related installment: Parents' words and Anxiety Disorders.
Asendorpf (1991) observed 87 children in free play sessions at four, six and eight years of age. The children’s main care giver completed questionnaires regarding their children’s behavior at each time point. The free play sessions were recorded and children’s behavior was later coded. The results showed that with an increase in age, early inhibited children spent longer periods in solitary-passive activity then uninhibited children. Children with an early uninhibited temperament spent more time engaged in social behavior than inhibited children as they became older.
From these two studies we have learned that behavioral inhibition is prevalent and common in children of younger ages, those children that shown inhibited behaviors in the early months of life also continue to demonstrate these behaviors into later childhood. In the installment I will examine the relationship between BI and social phobia.
BIBLIOGRAPHY:
Asendorpf, J. B. (1991). Development of inhibited children‟s coping with unfamiliarity. Child Development, 62, 1460 – 1474.
Garcia-Coll, C., Kagan, J., & Reznick, J. S. (1984). Behavioral inhibition in young children. Child Development, 55, 1005 – 1019.
Kagan, J. (1989). Temperamental contributions to social behavior. American Psychologist, 44, 666 – 674.
Kagan, J., Reznick, J.S., Snidman, N., Gibbons, J., & Johnson, M.O. (1988). Childhood derivatives of inhibition lack of inhibition to the unfamiliar. Child Development, 59, 1580 – 1589.
Kagan, J., Snidman, N., Kahn, V., & Towsley, S. (2007). The preservation of two infant temperaments into adolescence. Monographs of the Society for Research in Child Development. No, 287. Blackwell. Boston.
SEMINARIO: Terapia Cognitivo-Comportamentale dell’Abuso di Alcool
AVVISO!!
Ci dispiace comunicarvi che, per motivi di salute, il Professor Spada non può piu partecipare all’evento “Terapia Cognitivo-Comportamentale dell’Abuso di Alcool” che pertanto è stato annullato.
In questo momento non siamo in grado di stabilire se possiamo ricuperarlo in un’altra data e vi faremo sapere nei prossimi giorni.
Programma dell’iniziativa
Nella maggior parte delle culture, l’alcool è il sedativo ad azione centrale più frequentemente usato e rappresenta una delle principali cause di mortalità e disabilità tra disturbi organici e psicologici nella regione europea (OMS, 2004). Per questa ragione il consumo di alcool e le sue conseguenze, specie tra gli adolescenti rappresenta un problema sociale di primo piano per il suo impatto negativo sia sul benessere che sui costi sociali. Questa esigenze ha portato allo sviluppo di protocolli sempre più strutturati e pratiche cliniche di eccellenza nel trattamento di individui con problemi di abuso di alcool. In particolare, l’approccio cognitivo-comportamentale in associazione a interventi di incremento della motivazione al cambiamento ha mostrato buoni risultati di efficacia nel trattamento del consumo problematico di alcool.
L’iniziativa si propone di divulgare in Italia le linee di ricerca e i modelli di intervento psicoterapeutico che stanno dando maggior prova di evidenza a livello scientifico internazionale. Il raggiungimento dell’obiettivo sarà sostenuto dal contributo scientifico del Prof. Marcantonio Spada dell’Università di London South Bank (UK), dirigente presso il North East London NHS Foundation Trust, autore di oltre 50 pubblicazioni internazionali sul trattamento delle dipendenze patologiche.
Il programma prevede una giornata seminariale tecnico-scientifica per psicologi, psicoterapeuti e psichiatri. La giornata condotta dal Prof. Marcantonio Spada illustrerà ed esplorerà l’applicazione della Terapia Cognitivo-Comportamentale (TCC) al trattamento del consumo di alcool problematico. Le aree di interesse trattate riguarderanno la valutazione psicodiagnostica, la concettualizzazione e formulazione del caso clinico e interventi terapeutici chiave. Eguale enfasi verrà data a sintetizzare le nuove linee di ricerca nel trattamento di questi problemi.
Imparare a valutare rapidamente e con efficacia un paziente che presenta un problema alcool-correlati in termini di tipo del problema, grado di severità, modalità di funzionamento psico-sociale
Imparare a valutare rapidamente e con efficacia il miglior trattamento possible per quell paziente e in particolare se è adatto a un intervento cognitivo-comportamentale
Imparare a concettualizzare un problema alcool-correlato usando un modello cognitivo-comportamentale
Apprendere come integrare informazioni nella formulazione di casi complessi
Comprendere le tecniche di base di una Terapia Cognitivo-Comportamentale per problemi alcool-correlati con particolare attenzione alla strategia e sequenza degli interventi
Venerdì 13 Aprile 2012
Seminario Avanzato: Terapia Cognitivo-Comportamentale dell’Abuso di Alcool. Protocollo clinico e nuove linee di ricerca
Durata: 9:00 – 18:00
Sede: Aula Magna, Policlinico di Modena, Via del Pozzo, 71, Modena.
Docente: Prof. Marcantonio Spada (Professor of Psychological Therapies at London South Bank University in partnership with North East London NHS Foundation Trust)
Piano del giorno
09:00 – 09:10 Presentazione del seminario (Fabrizio Starace)
09:10 – 09:20 Introduzione ai lavori (Sandra Sassaroli)
09:20 – 11:00 Modello Cognitivo Comportamentale e Strumenti di Valutazione Psicodiagnostica
11:00 – 11:15 Pausa
11:15 – 13:00 Tecniche di Concettualizzazione clinica e Formulazione del Caso
13:00 – 14:00 Pausa Pranzo
14:00 – 15:45 Motivazione al cambiamento e Tecniche di Trattamento Cognitivo-Comportamentale
15:45 – 16:00 Pausa
16:00 – 17:15 Interventi chiave e nuove linee di ricerca nel trattamento dell’Abuso di Alcool
17:15 – 18:00 Discussione: prospettive future nel trattamento delle problematiche alcool-correlate (Marcantonio Spada, Giovanni Ruggiero, Claudio Ferretti, Sandra Sassaroli).
Materiali: pacchetto di strumenti di valutazione psicodiagnostica, schede di analisi funzionale e formulazione del caso, materiale con il contenuto del corso, articoli scientifici selezionati sulla base dei contenuti.
Lingua: Italiana
Accreditamento: In corso la richiesta di accreditamento ECM.
Iscrizioni e Costi:
Iscrizione workshop: 120€ (iva inclusa)
Iscrizione soci SITCC, AIAMC, SPR, dipendenti servizio pubblico settore sanitario: 100€
L’Associazione Cognitivismo Clinico nasce nel 2008 a Modena allo scopo di diffondere l’approccio cognitivo-comportamentale, di stimolare la ricerca facendosi promotore a livello locale di un approccio scientifico e culturale che ha già un’importante risonanza a livello nazionale ed internazionale.
Studi Cognitivi
STUDI COGNITIVI – Scuola di Specializzazione in Psicoterapia Cognitivo-Comportamentale e Istituto di Ricerca sulla Sofferenza Mentale e Psicoterapia. STUDI COGNITIVI è una società di terapeuti di orientamento cognitivo il cui obiettivo è diffondere la formazione in terapia cognitiva e promuovere la ricerca empirica sui meccanismi che sostengono la sofferenza mentale e sull’efficacia della terapia cognitiva.
Terapia Cognitivo-Comportamentale per le Psicosi – Parte II
Parte II – TRATTAMENTO
Dalle prime proposte di Beck, fondatore della Terapia Cognitiva, ad oggi sono stati fatti numerosi passi avanti nella costruzione di protocolli efficaci per la cura delle psicosi. Le neuroscienze hanno contribuito enormemente alle conoscenza attualmente in possesso della medicina e della psicologia, e l’esperienza clinica ha favorito la messa a punto di tecniche psicoterapeutiche sempre più specifiche e mirate alla riduzione dei sintomi più critici. Uno dei protocolli più efficaci emersi negli ultimi anni è quello di Fowler (2000) e utilizzato in molte ricerche successive come quella citata nel precedente contributo sull’argomento (Terapia Cognitivo-Comportamentale per le Psicosi – Parte I – DATI DI EFFICACIA).
I principali obiettivi del Trattamento Cognitivo-Comportamentale per le psicosi sono:
Ridurre l’angoscia e le disabilità prodotte dai sintomi psicotici.
Ridurre la disregolazione emotiva.
Accrescere la consapevolezza del paziente sul suo disturbo e promuovere una partecipazione attiva al percorso di cura, che possa prevenire il rischio di ricadute e di isolamento sociale e lavorativo.
Ecco come procedere:
Articolo consigliato: Terapia Cognitivo-Comportamentale per le Psicosi - PARTE I
1. Porre una diagnosi accurata: i sintomi psicotici sono comuni ad alcuni disturbi dell’umore, all’assunzione di sostanze, a fenomeni transitori e acuti generati da un forte stress, oltre che nella schizofrenia. Una buona diagnosi permette la scelta del trattamento farmacologico più indicato, e la scelta del trattamento psicoterapico più adatto alle caratteristiche del disturbo. Senza questa fase è impossibile strutturare un trattamento adeguato ed efficace.
2. Costruire una relazione terapeutica collaborativa e trasparente sin dai primi colloqui: i pazienti vivono spesso un costante stato di paura e minaccia, che li rende sospettosi rispetto alla possibilità di chiedere aiuto, sono spesso arrabbiati con i servizi di salute mentale e rifiutano l’importanza del trattamento psicoterapico nella cura della loro patologia; la trasparenza si declina nella condivisione esplicita degli obiettivi terapeutici possibili.
3. Elaborare nuove strategie di coping per i sintomi più invalidanti: utilizzare schede di monitoraggio sull’ansia, sull’angoscia, sulla frequenza e presenza delle voci o su episodi di paura/rabbia, strategie comportamentali “d’emergenza”; tutte le tecniche cognitive citate possono aiutare a costruire strumenti utili a ridurre stati di overwhelming e comportamenti auto o etero lesivi.
4. Sviluppare un nuovo modello di comprensione dei sintomi e della malattia: approfondire le credenze del paziente sulla propria malattia e sulle cause che l’hanno scatenata, capire cosa attiva stati mentali e comportamenti dannosi e fare psicoeducazione sugli aspetti strettamente medici del disturbo.
5. Lavorare sui sintomi deliranti e sulle allucinazioni: l’analisi giorno per giorno degli eventi più significativi della settimana, permette di capire molto gradualmente l’intensità, la frequenza e il significato degli aspetti allucinatori. Non si tratta di fare disputing sulle credenze deliranti, ma di lavorare “al fianco” di questi contenuti con l’obiettivo di individuare dapprima il contesto e le emozioni che li attivano, e di introdurre successivamente elementi di realtà che possano favorire un’interpretazione meno drammatica dei vissuti personali e degli eventi esterni.
6. Affrontare aspetti legati alla valutazione di sé, all’ansia e alla depressione: collocare il disturbo nella più ampia cornice della storia personale del paziente per capirne i significati specifici, costruire una nuova valutazione di sé (re-appraisal) e delle proprie esperienze di vita, con l’obiettivo di aumentare l’autostima e recuperare una valutazione globale di sé più razionale. Ansia e depressione tendono a ridursi quando alcune credenze centrali rispetto al “essere un fallimento totale”, all’“essere un peso per gli altri”, all’“essere incapaci di vivere e sopravvivere da soli”, etc..etc.., vengono modificate.
Articolo consigliato: I Circuiti Neurali attivi nel Delirio di Riferimento.
7. Gestire le ricadute e l’isolamento sociale: l’ultima fase della terapia si concentra sul consolidamento dei nuovi “appraisal” e delle nuove strategie comportamentali di gestione degli stati emotivi; prevede il miglioramento delle capacità di monitoraggio dei segnali di crisi, la strutturazione della futura terapia e delle eventuali strategia di emergenza da mettere in atto in caso in cui nuovi eventi di vita negativi mettano in scacco l’equilibrio guadagnato. In questa fase si colloca la vera sperimentazione di esperienze più legate alla sfera sociale e lavorativa, ora che il bagaglio di strumenti ed esperienze permette di affrontare con più sicurezza le disabilità imposte dalla malattia.
Le fasi descritte dagli autori (Garety, Fowler et al. 2000), costituiscono un’indicazione utile per orientare il clinico alla strutturazione di un percorso ma (inutile dirlo!) ogni fase va condivisa, personalizzata e affrontata tenendo conto delle condizioni cliniche e delle variabili ambientali e sociali (eventi di vita, lavoro, familiari,..), che possano influenzare negativamente il percorso di cura.
Come ogni altra terapia di ambito cognitivo ci si occupa insomma di accrescere la consapevolezza e le capacità di ragionamento su credenze relative alla propria malattia, a sé e agli altri. Le emozioni vengono cercate in modo meno diretto e puntuale, mentre l’accettazione degli stati mentali dolorosi – ben nota alle terapie cognitive più recenti – può contribuire enormemente a ridurre l’irritabilità e la rabbia sempre associate al proprio stato di malato cronico.
“Sentimento e desiderio sono le forze motrici dietro a ogni impresa e creazione umana, per quanto esaltata possa manifestarsi la forma di quest’ultima” Albert Einstein
Osservando un quadro o ascoltando un brano musicale vi siete mai domandati cosa può aver ispirato l’autore? Oppure vi siete mai sorpresi a chiedervi come sarà nata l’idea di inventare un particolare oggetto? Da quando l’uomo ha fatto la sua comparsa sulla terra per poter sopravvivere e adattarsi all’ambiente che lo circondava ha dovuto risolvere problemi, creare nuovi oggetti e utensili, trovare soluzioni. Base fondamentale di questo processo è la creatività.
Data la grande importanza, questa caratteristica (la creatività) non poteva salvarsi dalle grinfie degli “psicologi ricercatori” che a partire dalle ricerche di Giulford del 1950 hanno condotto studi sistematici per comprendere più a fondo la creatività e come essa influenzi e sia influenzata dalla personalità, dalle relazioni sociali, dagli aspetti cognitivi ed emotivi.
Articolo consigliato: Arteterapia: teoria e prassi di un nuovo approccio psicoterapeutico integrato – parte I
Fra tutti gli studi su questi fattori uno dei più indagati è stato sicuramente il rapporto fra stato emotivo, umore e creatività: dal momento che le emozioni sono noti intermediari tra la personalità e la performance, possono essere anche predittori di creatività? E tutti gli stati emotivi favoriscono la creatività nello stesso modo? Data l’ingente quantità di lavori sul tema una meta-analisi ha recentemente combinato i risultati di 102 articoli scientifici che hanno indagato la relazione fra creatività ed emozioni (Baas, M., De Dreu, C. K. W., Nijstad B. A., , 2008).
Quando si parla di emozioni la prima cosa che si nota è la loro valenza edonica o tono affettivo. Infatti alcune emozioni, come gioia, entusiasmo e tranquillità, hanno un tono positivo, mentre altre, come rabbia, ansia, tristezza, hanno un tono negativo. Attraverso evidenze neuropsicologiche si è scoperto inoltre che lo stato emotivo può essere attivante (ad alto arousal) o de-attivante (a basso arousal) (Posner, J., Russell, J. A., & Peterson, B. S., 2005). Combinando le due classificazioni si avranno stati emotivi positivi a basso arousal, come calma e tranquillità, e ad alto arousal, come felicità e euforia, così come stati emotivi negativi a basso arousal, come tristezza e depressione, e ad alto arousal, come rabbia e paura. La questione però si complica ulteriormente.
I risultati della meta-analisi hanno permesso di comprendere che il legame fra creatività e stato emotivo è molto più complesso di quanto sembrasse in partenza poiché sembra essere regolato dall’interazione fra valenza edonica, attivazione emotiva e motivazione. Dall’analisi di queste complesse interazioni emerge che in generale gli stati emotivi positivi sono la fonte migliore per la creatività rispetto a quelli negativi. Tuttavia non bisogna dimenticare il ruolo che il livello di attivazione o arousal ha in questa equazione: se si introduce questa variabile, infatti, si scopre che solo gli stati positivi attivanti sono veramente in grado di favorire la creatività. Quindi solo emozioni come la felicità possono favorire la flessibilità e la velocità di processamento cognitivo, che a loro volta favoriscono alti livelli di creatività e originalità. Come abbiamo detto ulteriori mediatori sono gli stati emotivi in grado di promuovere la motivazione. E le emozioni negative? Dalla ricerca è emerso che le emozioni negative a basso arousal non sono correlate con un aumento della creatività e addirittura quelle negative ad alto arousal sono negativamente correlate con essa soprattutto perché riducono drasticamente la flessibilità cognitiva impedendo così di trovare nuove soluzioni.
Quindi ricapitolando: se siete in cerca di un’idea geniale non dovete far altro che mettervi in uno stato emotivo positivo, ma che sia anche attivante (attenzione però, non troppo attivante!) e che sostenga e stimoli la motivazione ad agire. Facile no? Forse la prima fase della genialità sta proprio nel riuscire a entrare in questa chimera emotiva. Non trovate?
BIBLIOGRAFIA:
Albert Einstein, (1999) “Il mondo come lo vedo io”, Secaucus, The Citadel Press, New Jersey.
Guilford, J. P. (1950). Creativity. American Psychologist, 5, 444 – 454.
Baas, M., De Dreu, C. K. W., Nijstad B. A., (2008). A Meta-Analysis of 25 Years of Mood–Creativity Research: Hedonic Tone, Activation, or Regulatory Focus?. Psychological Bulletin, Vol. 134, No. 6, 779 – 806
Posner, J., Russell, J. A., & Peterson, B. S., (2005). The circumplex model of affect: An integrative approach to affective neuroscience, cognitive development, and psychopathology. Development and Psychopathology,17, 715–73
Disturbi di personalità, neurobiologia e processi epigenetici
– Rassegna Stampa –
I risultati dello studio di un gruppo di neuroscienziati della Cornell University si inseriscono all’interno del dibattito per la classificazione dei disturbi di personalità. Secondo i ricercatori l’attuale sistema di classificazione, basato su schemi tipici di pensiero e comportamento, è inadeguato a descrivere la realtà clinica del fenomeno; Una diagnosi dovrebbe definire un modello comportamentale coerente e permettere di prevedere il decorso della malattia, la prognosi e il trattamento più adeguato. Nessuna diagnosi di disturbo di personalità può farlo, sostiene Richard Depue.
La personalità umana si compone di circa sei tratti fondamentali, ciascuno con un correlato neurobiologico, capace di influenzare comportamenti come ansia o impulsività. La varietà dei comportamenti associati ai disturbi di personalità deriva dall’influenza di fattori genetici e ambientali sul funzionamento neurobiologico individuale. I processi epigenetici infatti possono ridurre o aumentare il rischio di sviluppare disturbi di personalità.
Nel modello multidimensionale proposto da Depue, i tratti della personalità possono essere tracciati in uno spazio tridimensionale dove gli assi rappresentano i sistemi neuro-comportamentali sottostanti. I modelli di comportamento associati ai disturbi di personalità emergono dall’interazione di valori di tratto estremamente alti, bassi o normali: ai valori più estremi corrispondono le modalità di interazione più disfunzionali. Legando i tratti della personalità alla neurobiologia sottostante, il modello di Depue permetterebbe di comprendere come e perchè si è sviluppato un disturbo della personalità e come è possibile intervenire sia dal punto di vista farmacologico che ambientale; addirittura sarebbe possibile progettare trattamenti che modificano più variabili neurobiologiche, piuttosto che una sola.
BIBLIOGRAFIA:
Depue, R (2011). The Neurobiology of personality: Implications for conceptualizing personality disorders as dimensional, multifactorial phenomena. International Review of Psychiatry 23: 258–281. (Special Issue on Personality and Personality Disorders. Guest Editor: Gerald Nestadt).
Arteterapia: teoria e prassi di un nuovo approccio psicoterapeutico integrato – parte II
Roberto Pasanisi
Accademia di Belle Arti “Fidia”; CISAT, Centro Italiano Studi Arte-Terapia
Parte II: Prassi dell’Arteterapia
Nella prassi dell’arteterapia (ART) si alternano a ‘sedute monotematiche’ ‘sedute a tema libero’: nelle prime il ‘soggetto tematico’ viene proposto dal terapeuta, con l’approvazione del gruppo; nelle sedute a tema libero il ‘soggetto’ è scelto liberamente dai componenti del gruppo. All’interno di ogni seduta vengono distinte tre fasi: la prima è quella ‘creativa’, in cui i componenti del gruppo devono creare l’opera nella massima libertà; la seconda fase è ‘interpretativa’, in cui il gruppo interpreta le opere creative dei singoli componenti del gruppo con la supervisione del terapeuta ed, eventualmente, del coterapeuta; la terza fase è quella ‘analitica’, in cui si analizzano le dinamiche che si innescano all’interno del gruppo attenendosi ai criterî della psicoterapia analitica di gruppo e delle psicoterapie esperienziali (la Gestalt e lo Psicodramma segnatamente).
Le ‘tecniche fondamentali’ in Arteterapia sono tre:
1. Psicodramma Creativo (PC)
2. Poiesi-Terapia (PT)
3. Icono-Terapia (IT)
Articolo consigliato: Arteterapia: teoria e prassi di un nuovo approccio psicoterapeutico integrato – parte I
L’Arteterapia si divide dunque, innanzi tutto, in Pòiesi-Terapia ed Ìcono-Terapia: la prima si svolge in due fasi, una ‘attiva’ ed una ‘ricettiva’, entrambe concluse dalla fase ‘rielaborativa’. In quella attiva, al paziente viene proposto, mediante opportune tecniche, di elaborare dei testi poetici o narrativi; in quella ricettiva, al paziente si chiede di esprimere i ‘vissuti’ rispetto a testi d’autore proposti; nella fase ‘rielaborativa’, si elaborano, con tecniche analitiche ed esperienziali, i vissuti emersi.
Anche l’Icono-Terapia si sviluppa in due momenti: nella ‘fase attiva’, viene chiesto al paziente di produrre un’immagine, avvalendosi di tecniche ad hoc: egli elaborerà, in primis, un disegno, che potrà essere in bianco e nero od a colori; ma potrà avvalersi anche di altre tecniche, a cominciare dalla fotografia. Nella fase ‘ricettiva’, il terapeuta proporrà un’immagine d’autore — tipicamente un quadro, ma anche una scultura od una fotografia —, chiedendo poi al paziente di esprimere i vissuti rispetto a quella immagine.
Articolo consigliato: Lo Psicodramma
Lo Psicodramma Creativo (PC) è una forma di ‘psicodrammatizzazione strutturata’ precipua dell’Arteterapia: a differenza dello ‘psicodramma classico’ infatti, esso non è volto, freudianamente, alla ‘ricostruzione archeologica’ del ‘passato’; esso è votato invece alla ‘costruzione del futuro’. Nel corso della seduta viene infatti messo in scena, drammatizzato ed esplorato il ‘mondo del desiderio’ e l’ ‘universo delle potenzialità’ del paziente; idest non ‘ciò che è stato’, ma ‘ciò che sarà’, ovvero ‘ciò che vuole e può essere’: sono dunque in questa maniera evidenti la creatività e la dinamicità di una tale prospettiva, tesa a realizzare la propria vita futura così come si progetta e realizza un’opera d’arte, nel contempo liberando a pieno la creatività e la libertà della persona non meno che, rankianamente (e quasi nietzscheianamente), le forze più volontaristiche dell’individuo. Il paziente così, piuttosto che ripiegarsi in se stesso e rimuginare circolarmente sul suo passato, acquisisce fiducia nelle proprie potenzialità e capacità e sperimenta un modo di vita diverso e più positivo di quello abituale, ma nello stesso tempo non di pura fuga nella fantasia, ma con una sua fattuale concretezza situazionale.
Il Laboratorio di scrittura e pittura, che si affianca ove necessario nella prassi terapeutica al Poiesi-Terapia ed alla Icono-Terapia, consiste nell’applicazione delle tecniche di scrittura, specialmente poetica, e di pittura come veicolo elettivo nei livelli dell’esperienza sensoriale, corporea, emotiva, immaginativa e cognitiva-verbale: in questo senso l’Arte-Terapia (ART) trova pure piena applicazione in tutti quei contesti nei quali la capacità di instaurare una buona relazione è di fondamentale importanza nella propria vita sociale e professionale.
Ic. L’approccio integrato ART – TA
L’Arteterapia si giova di un approccio integrato col Training Autogeno (TA) nella sua formulazione classica.
Il TA si svolge a tre livelli: il primo è quello ‘di base’, come semplice ‘tecnica di rilassamento’; il secondo è quello ‘superiore’ o ‘proposizionale’: esso si fonda sulle ‘formule proposizionali’, tese ad autosuggestionare a partire da problematiche individuate attraverso la discussione fra il terapeuta o ‘maestro’ ed il paziente o ‘praticante’: esso funziona a mo’ di autoipnosi; il terzo è quello ‘sublime’, che è di livello ‘analitico’: i materiali emersi durante il training e quelli sviluppati nel corso di un’analisi condotta in margine alle sedute autogene ma comunque secondo le metodologie classiche vengono analizzati e convertiti in una ‘formula proposizionale’ che non sia solo autosuggestiva, ma anche capace di interagire e influire su aspetti profondi (inconsci) della personalità.
BIBLIOGRAFIA:
Caterina Camporesi, Psicoanalisi, Creatività, Interpretazione, intervento al Convegno Psiche e Scrittura, a cura dell’associazione culturale “Sguardo e Sogno” e del Comune di Firenze, Firenze, 14/II/1998
Jeanine Chasseguet-Smirgel, Creatività e perversione, Milano, Raffaello Cortina Editore, 1987
Jeanine Chasseguet-Smirgel, Per una psicoanalisi dell’arte e della creatività, Milano, Raffaello Cortina Editore, 1989
Max Lüscher, La terapia di alleggerimento, in “Babele”, II, 7, 1997, pp. 9-10
Flavio Manieri, Psicoanalisi e arte, Introduzione a S. Freud, Psicoanalisi del genio, Roma, Newton Compton Editori, 1977
Marco Manzoni (a cura di), Creazione e mal-essere, Milano, Guerini e Associati, 1989
Joyce McDougall, Eros. Le deviazioni del desiderio, Milano, Raffaello Cortina Editore, 1997
Marc Muret, Arte-terapia, Como, RED Edizioni, 1991
Roberto Pasanisi, Recensione a Ivan Fónagy, La ripetizione creativa. Ridondanze espressive nell’opera poetica, Dedalo, Bari, 1982, in “Annali dell’Istituto Universitario Orientale” Sezione Romanza, XXVIII, 1, 1986, pp. 407-410
Roberto Pasanisi, La forma della bellezza. Intorno alla genesi della lirica moderna: uno studio psicoanalitico, in “Gradiva” (New York, U.S.A.), VI, 2, 1996, pp. 97-105
Roberto Pasanisi, Arteterapia e Training autogeno: un approccio psicoterapeutico integrato, in “SIPE (Societé Internationale di Psychopathologie de l’Expression) Newsletter” (Paris, France), 21, 2000, p. 4
Roberto Pasanisi, Training in Artherapy with Autogenic Training, in “International Networking Group of Art Therapists” (Los Angeles, USA), XIII, 1, 2000, p. 14
Roberto Pasanisi, Recensione a Marco Manzoni (a cura di), Creazione e mal-essere, Milano, Guerini e Associati, 1989, in “Psiconline” (www.psiconline.it), 7/X/2000, www.psiconline.it/comunicati_stampa/libreria.htm
Roberto Pasanisi, Le «muse bendate»: la poesia del Novecento contro la modernità, Pisa – Roma, Istituti Editoriali e Poligrafici Internazionali, 2000 (Prefazione di Constantin Frosin; Postfazione di Carmine Di Biase)
Roberto Pasanisi, Una nuova scuola psicoterapeutica in Italia: l’Arteterapia, in “Ecomind” (www.ecomind.it), 7/X/2000, www.ecomind.it/Sezioni/Articoli/Articoli.html
Roberto Pasanisi, O noua scoala psihoterapeutica in Italia: Arte-Terapia [Una nuova scuola psicoterapeutica in Italia: l’Arteterapia], in “Akademia” (revista de cultura), Galati (Romania), II, 7-8, 2001, p. 37 (traduzione in Rumeno di Constantin Frosin)
Roberto Pasanisi, Una nuova scuola psicoterapeutica in Italia: l’Arteterapia, in “Psychomedia” (www.psychomedia.it), 12/VII/2001, www.psychomedia.it/pm/arther/art-ther/scuola.htm
Roberto Pasanisi, L’Arteterapia in Italia, in “Attiva Mente” (www.attivamente.net), agosto 2001, www.attivamente.nett/Am-Relazioni.htm#P1199_162768
Robin Philipp, Metred Healthcare, in “Poetry Review”, 85, 1, 1995, pp. 58-59
Robin Philipp, The links between poetry and healing, in “The Therapist”,, III, 4, 1996, p. 15
Robin Philipp, Poetry helps healing, in “The Lancet”, 347, 1996, pp. 332-333
Robin Philipp, Evaluating the Effectiveness of the Arts in Healthcare, in Charles Kaye – Tony Blee (a cura di), The Arts in Health Care. A Palette of Possibilities, London and Bristol (Pennsylvania), Jessica Kingsley Publishers, 1997, pp. 250-261
Platone, Politeía, 376e-417b (Platonis Opera, recognovit brevique adnotatione critica instruxit Ioannes Burnet, tomus IV, Oxford, Oxford University Press, 197821)
Jean-Luc Sudres, L’Art-Thérapie: actualités d’un concept et d’une pratique, www.centrostudiarteterapia.org/products.htm, 1/V/2001
Bianca Tosatti (a cura di), Figure dell’anima. Arte irregolare in Europa, Milano, Mazzotta, 1998
Diane Waller, Towards a European art therapy. Creating a profession, Buckingam – Philadelphia, Open University Press, 1998
Diane Waller – Jacky Mahony (a cura di), Treatment of Addiction. Current issues for arts therapies, London – New York, Routledge, 1999
SITOGRAFIA:
www.arttherapy.org (A.A.T.A., American Art Therapy Association)
www.atcb.org (A.T.C.B., Art Therapy Credentials Board)
www.centrostudiarteterapia.org (C.I.S.A.T., Centro Italiano Studî Arte-Terapia)
www.centrostudiarteterapia.org (C.I.S.A.T., Centro Italiano Studî Arte-Terapia)
Riviste:
“American Art Therapy Association Newsletter” (Mundelein, Illinois, USA)
“Artherapy (Journal of the American Art Therapy Association)” (Mundelein, Illinois, USA)
“International Arts-Medicine Association Newsletter” (Bryn Mawr, Pennsylvania, USA)
“Newsletter de la SIPE (Societé Internationale di Psychopathologie de l’Expression)” (Pau, France)
Cambiare la Psichiatria Pubblica
Queste riflessioni nascono da motivazioni personali e generali. Tra quelle personali più o meno inconsapevoli troviamo:
Il tentativo di arginare il senso di inutilità e vecchiezza che attanaglia ogni pensionato.
Una recrudescenza del narcisismo mai del tutto sconfitto potenziato da uno stagionale innalzamento del tono dell’umore;
L’idea che oltre a lamentarsi della situazione che stiamo vivendo ognuno può dare un piccolo contributo al cambiamento nel campo in cui è esperto.
Altre del tutto inconsapevoli che come tali non conosco e sulle quali sarebbe troppo costoso indagare.
Più interessanti quelle generali riassumibili in tre grandi categorie:
L’insoddisfazione degli utenti.
L’insoddisfazione degli operatori che da quando ho memoria lamentano una carenza di risorse ed in particolare di personale.
La progressiva riduzione delle risorse a disposizione per la sanità in generale e la psichiatria in particolare.
Da queste due simmetriche insoddisfazioni ne ricavo l’impressione che operatori e utenti siano coinvolti in un rito collettivo e ripetitivo fatto di ambulatori, domiciliarità, ricoveri e attività riabilitativa che si automantiene, è ostile a qualsiasi valutazione di efficacia e cambiamento in nome della purezza del verbo della psichiatria territoriale che ha dato senso alla nostra giovinezza professionale.
Ora due premesse:
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1. I manicomi nascono con l’intento filantropico di curare amorevolmente gli alienati distinguendoli da altre categorie di emarginati e progressivamente diventano ciò che abbiamo conosciuto. Ad essi segue la rivoluzione kunhiana del paradigma che da ospedale centrico diventa territoriale con una forte ideologizzazione degli operatori impegnati nella liberazione degli utenti. Progressivamente anche i DSM divengono istituzioni totali che gestiscono completamente l’esistenza e i bisogni dei pazienti e sempre più attenti alle esigenze degli operatori piuttosto che degli utenti. Ho l’impressione che la maggior parte delle procedure consolidate dei DSM mantengano sé stesse e si siano progressivamente modellate sulle necessità dei lavoratori della salute mentale. Del resto spesso le istituzioni nascono su un movimento dello spirito e poi si ingessano in pesanti e oppressive strutture. La chiesa muove i primi passi leggera sulle rive del lago di Tiberiade e poi produce il vaticano e l’inquisizione. Ancor prima lo spirito della Thorà produsse le ferree regole del libro dei numeri. La rivoluzione di ottobre partorì i gulag. Mani pulite, Berlusconi.
2. La seconda premessa riguarda l’atteggiamento con cui leggere queste righe. Già a me nello scrivere venivano in mente mille obiezioni di casi concreti cui ciò che propongo è inapplicabile e spingerebbero a gettare tutto nel cestino e rifugiarsi nel già conosciuto e sperimentato che torna in mente come unica via praticabile con qualche aggiustamento. Immagino capiti ancor di più a voi ancora attivi nei DSM. Vi chiedo di accantonarle un istante. In verità una nuova prospettiva ha bisogno di crescere prima di essere sottoposta alla scure severa del falsificazionismo altrimenti si rischia una strage degli innocenti. Invito dunque il lettore a cogliere il senso generale della proposta e l’essenza del cambio di paradigma che propone rimandando a dopo le obiezioni che dovranno necessariamente generare degli aggiustamenti per renderla applicabile concretamente.
Tre sono i cardini su cui si fonda la proposta:
1. la centralità e l’assoluto protagonismo del paziente, ora cliente, che va inteso come colui che soffre (il malato e i suoi familiari) nella determinazione della propria cura e nell’investimento delle risorse a lui destinate.
2. La libera concorrenza tra gli erogatori delle cure che mira a migliorare la qualità e a ridurre i costi
3. Il ruolo del pubblico rivolto a stabilire degli standard irrinunciabili, a certificare l’idoneità e la qualità degli erogatori, a verificare la qualità delle prestazioni erogate.
Provo ora a descrivere sinteticamente il processo di cura:
Il paziente riceve una diagnosi multi assiale (psichiatrica, neuropsicologica, sociale) in un centro regionale di alta specializzazione (o negli SPDC, per valorizzare la “D” della sigla) dove, in base alla diagnosi gli viene assegnato un certo DRG vale a dire un budget di spese annue da investire per la sua cura e la riabilitazione.
Ricevuta l’assegnazione del budget la prima cosa che deve fare il cliente è la scelta dei case manager in un elenco regionale. I case manager in genere sono due per condividere le responsabilità e per una visione più complessiva. Il case manager deve avere una conoscenza approfondita della patologia in questione (sono dunque da immaginare case manager specializzati per aree problematiche) e dell’offerta terapeutica presente sul territorio regionale e nazionale.
A questo punto si costituisce il nucleo paziente – esperti – familiari (PEF) che rappresenta il cliente degli erogatori dei servizi. Il PEF predispone un piano biennale di interventi che viene sottoposto alla valutazione in termini di appropriatezza clinica e di costi da parte di una commissione regionale che ha anche lo scopo di favorire la circolazione delle idee e i progetti più innovativi. Tuttavia la decisionalità sulla spesa resta al PEF in quanto il titolare del budget è il paziente stesso.
Il PEF cliente acquista e usufruisce dei servizi dagli erogatori
Gli erogatori di servizi acquistabili con il budget assegnato non si limitano a quelli sanitari (anzi con il procedere della cura e della riabilitazione dovrebbero esserlo sempre meno) e sono dunque potenzialmente infiniti. A solo titolo di esempio ne elenco alcuni:
Erogatori di visite psichiatriche (psichiatri convenzionati con la ASL).
Erogatori di psicoterapie (psicoterapeuti convenzionati con la ASL).
Erogatori di assistenza domiciliare.
Erogatori di attività risocializzanti.
Erogatori di attività riabilitative.
Erogatori di periodi di ricovero.
Erogatori di sostegno all’housing.
Erogatori di formazione lavorativa.
Al SSN resta affidato per legge il servizio di emergenza che non discostandosi dalle altre specialità mediche fa riferimento alla guardia medica ed al 118, integrato con competenze psichiatriche, e i SPDC ospedalieri.
E’ chiaro che una idea del genere non può riguardare un solo DSM ma l’intera assistenza psichiatrica nazionale
Un grazie personale a chi è arrivato in fondo.
Tipi di coppie #2 – Combattenti cronici, Ambivalenti e Fratellini.
La scorsa settimana abbiamo parlato delle 3 dimensioni fondamentali per considerare le varie configurazioni che una coppia può incarnare e si è parlato del tipo di coppia definito “i simbiotici”. Andiamo ora a introdurre altri tre tipi di coppie: I “Combattenti cronici”, gli “Ambivalenti” e i “Fratellini”.
I combattenti cronici.
in questo tipo di coppie ritroviamo la stessa difficoltà a vivere la separatezza della categoria precedente, ma con la contemporanea impossibilità di riconoscere e ammettere il bisogno di vicinanza e di intesa. Questo paradosso relazionale è sostenuto grazie al perenne agonismo e all’incessante competizione tra i partner: la comunicazione e le transazioni nella coppia seguono le regole di un’escalation simmetrica, che generalmente si interrompe con un appassionato rapporto sessuale. È come se per queste coppie lo scontro avesse una funzione di preliminare erotico e quindi una finalità conservativa, e non distruttiva, per il legame.
Articolo consigliato: Tipi di coppie #1 - I Simbiotici (o gemelli paradisiaci di Jackson)
La prima regola del gioco è quella del rifiuto, rifiuto di farsi aiutare e accudire e ovviamente rifiuto alle richieste del partner. La seconda è di respingere ogni tentativo di avvicinamento, fino allo scattare del meccanismo autoregolativo, che avverte la coppia che continuare nell’escalation potrebbe portare alla rottura della relazione; in alcune coppie tuttavia questo meccanismo protettivo è troppo debole e si corre il rischio di arrivare al danno personale. Generalmente questa modalità relazionale è appresa già all’interno delle rispettive famiglie di origine, dove le relazioni si consolidano in un atmosfera competitiva e carica di aggressività, in cui l’indissolubilità del legame si esprime con una continua squalifica e disconferma reciproca.
I ruoli sono del tutto simmetrici, non ci sono né vittime né carnefici, l’area dello scambio è molto sviluppata anche se un vero scambio è precluso dall’impossibilità a raggiungere un accordo; le finalità comunicative infatti sono mirate a mettere in luce gli sbagli e i limiti del partner e a rifiutare e svalutare i suoi bisogni e le sue richieste, e non a una ricerca di accordo e comprensione delle posizioni altrui. Con le parole di Mara Selvini Palazzoli (1975) potremmo dire che è una guerra nella quale ciascuno tenta di imporre la sua definizione della relazione squalificando quella dell’altro.
Jackson (1968) li definirebbe “combattenti perditempo” e aggiunge una variante underground dei combattenti, quella degli “sfuggenti psicosomatici” (molto simile alla tipologia degli “ambivalenti”, che segue): sono coppie che non riuscendo ad esprimere apertamente la collera, spesso sviluppano sintomi psicosomatici legati allo stress, o in alternativa, presentano disfunzioni sessuali e problemi collegati al bere.
Gli Ambivalenti.
Questo tipo di coppie è composto da persone che non tollerano la componente conflittuale normalmente insita in ogni legame e per questo si sentono molto a disagio quando si trovano a fare i conti con la propria e altrui ambivalenza. Il meccanismo di auto-protezione utilizzato è l’occultamento e la minimizzazione dei sentimenti: queste coppie faticano a esprimere e verbalizzare le emozioni, per una forma di ritegno timoroso verso gli aspetti emotivi del proprio mondo interno e soprattutto per paura di affetti aggressivi, come la rabbia, il rancore o la delusione. La conseguenza è un incessante lavorio per abbassare la temperatura emotiva interna, così che i disaccordi e le delusioni rimangano sistematicamente inespressi, accumulandosi. Un’altra conseguenza è la presenza di disturbi della sfera sessuale, nel senso che il tentativo prolungato di rimuovere sentimenti di collera e di delusione porta a una progressiva diminuzione del desiderio erotico e alla sensazione che il sesso sia un peso e un obbligo.
La difesa utilizzata difronte alle emozioni negative è la razionalizzazione, che viene usata per formulare spiegazioni “ragionevoli” quando qualcosa non và: la conflittualità è banalizzata e il disagio emotivo è spiegato come una reazione a problemi di ordine pratico e concreto. In alternativa viene messo in atto uno “sciopero della comunicazione” (musi, rispondere a monosillabi, aumento della distanza fisica) fino a che le ferite si rimarginano naturalmente o le esigenze riparatorie (il bisogno di sentirsi buoni rispetto al rancore provato) hanno il sopravvento e l’“armonia” torna.
I Fratellini.
Articolo consigliato: La coppia imprigionata
Questo tipo di definizione ha lo scopo di sottolineare una distorsione di fondo dei ruoli all’interno della coppia, infatti, questo tipo di organizzazione mina le basi stesse della struttura coniugale. La coppia è affiatata, parole e gesti esprimono un attaccamento reciproco e i momenti difficili di conflittualità sono superati con una certa leggerezza che allontana la minaccia della separazione. La comunicazione è fluida, e gratificante e lo scambio è, a seconda dei casi, collaborativo o competitivo. Ciò che li differenzia dai Simbiotici, ai quali apparentemente assomigliano, è il fatto di avere un livello di autonomia individuale maggiore, dimostrandosi comunque in grado di condividere tempi e spazi con dedizione reciproca.
La distorsione dei ruoli di coppia si evidenzia nella tendenza al tradimento, cioé nello scarso impegno sul versante sessuale/sentimentale: queste coppie riescono ad evadere la clausola dell’impegno di fedeltà in virtù della mancata o incompleta assunzione del ruolo come membro di una “coppia”; il tradimento non è tanto avvallato dal punto di vista ideologico, quanto effettuato e reiterato senza troppi drammi, ripensamenti o sensi di colpa. La tenuta del rapporto non è una delle migliori.
Una variante della tipologia Fratellini è quella dei “fratellini abbandonici”: entrambi i partner hanno vissuto nella propria storia personale delle vicende di trascuratezza e abbandono vero e proprio, quindi le spinte che conducono al legame sono di tipo compensatorio e riparativo nei confronti di una sofferenza vissuta nel rapporto con le figure significative dell’infanzia. Come nel caso dei simbiotici, i fratellini abbandonici si stringono l’un l’altro in cerca di protezione e rassicurazione ma a differenza di questi tendono a organizzare il loro legame in modo più indipendente e conflittuale: il tradimento in questo caso genera più disagio in quanto è percepito come una minaccia all’equilibrio vitale individuale.
Berrini R, Cambiaso G, (2001) “Illusioni di coppia. Sto con te perché posso stare senza di te”, Franco Angeli, Milano
Selvini Palazzoli, M., Boscolo, L., Cecchin, G., Prata, G. (1975). Paradosso e controparadosso. Un nuovo modello nella terapia della famiglia a transazione schizofrenica. Milano: Feltrinelli.
Jackson, D. (1968). Mirages of Marriage. NY: W.W. Norton & Co.
Mangia la cipolla che ti passa
Oggi parleremo di Allium cepa, pianta bulbosa appartenete alla famiglia delle Alliaceae. Come, non sapete di cosa si tratta? Si sta parlando della cipolla! Insaporisce i nostri piatti e provoca eccessiva lacrimazione alla casalinga che si appresta a soddisfare tutte le esigenze, soprattutto di chi ama l’aroma, ma disprezza l’alitosi che ne consegue. Eppure, questo ortaggio, quello rosso in particolare, la cipolla di Tropea, contiene una sostanza con riconosciute proprietà disintossicanti, anti-infiammatorie e anti-tumorali: la quercetina.
Perfino il cervello trae benefici dalla cipolla. Infatti, sembra funga da antidepressivo, ipotesi confermata da uno studio giapponese pubblicato sulla rivista scientifica internazionale, Bioscience Biotechnology and Biochemistry.
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Sakakibara e colleghi del Dipartimento di Scienze dell’Alimentazione dell’Università di Tokushima, hanno valutato quali siano gli effetti esercitati della polvere di cipolla, ottenuta dalla disidratazione dell’ortaggio, in un modello sperimentale sulla depressione chiamato Test di Nuoto Forzato (Forced Swim Test, FST; Porsolt et al., 1977), che consiste nel verificare la reazione avuta da un topo posto in un cilindro trasparente contenente acqua alla temperatura di 25° C. Il giorno successivo alla prima immersione il topo potrebbe reagire secondo due modalità: nuotando o muovendosi solo lo stretto necessario per tenere la testa fuori dall’acqua, comportamento considerato tipico del depresso. Nel secondo caso il topo è come se si lasciasse sopravvivere galleggiando.
Per dimostrare l’effetto anti-depressivo della quercetina, i topi sono stati suddivisi in gruppi, ciascuno dei quali era sottoposto a un trattamento diverso: farmaco antidepressivo, polvere di cipolla e placebo. Ripetendo il trattamento di FST si è osservato che il gruppo trattato con la polvere di cipolla aveva prestazione simili a quelle degli animali trattati con il farmaco antidepressivo.
Sono state osservate, dunque, dei miglioramenti nel comportamento e non nelle capacità di movimento, che controllate attraverso un altro test sono risultate identiche tra i gruppi. Quindi, il trattamento con la quercetina aumenta la quantità di dopamina e di serotonina presente nell’ipotalamo, area che controlla diverse funzioni cognitive: i riflessi, il ritmo sonno-veglia, il bilancio idrosalino, il mantenimento della temperatura corporea, l’appetito e l’espressione degli stati emotivi. La quercetina, in sostanza, prolunga il tempo di trasmissione nervosa della serotonina e della dopamina rallentandone l’eliminazione. Nella persona depressa, invece, il loro metabolismo è più veloce, e la comunicazione tra le cellule è minore rispetto al normale, avendo come conseguenza la comparsa della sintomatologia depressiva.
Sapere di poter utilizzare dei cibi aventi effetti positivi sull’umore potrebbe essere l’alternativa naturale alla farmacologia chimica di sintesi. Inoltre, è possibile utilizzare la cipolla anche a scopo preventivo per la genesi di questo disturbo, di cui tanto si parla e che attanaglia la società contemporanea.
Quindi, il riso abbonda sulle bocche di chi mangia cipolla. Meglio l’alitosi e un sorriso in più, piuttosto che una bella bocca e tanta tanta tristezza.
BIBLIOGRAFIA:
Porsolt RD, Bertin A, Jalfre M (1977) Behavioral despair in mice: a primary screening test for antidepressants. Arch Int Pharmacodyn Ther 229:327-336.
Sakakibara, H., Yoshino, S., Kawai, Y., Terao, J. (2008). Antidepressant-like effect of onion (Allium cepa L.) powder in a rat behavioral model of depression. Biosci Biotechnol Biochem. 72, 94-100.
Stress lavorativo e supporto nella coppia
– Rassegna Stampa –
Il numero di coppie in cui entrambi i partner lavorano è costantemente in aumento e questo può avere importanti ripercussioni sulla “tenuta” della coppia. Una vita lavorativa intensa può essere molto stressante e questo incide negativamente sulle possibilità di supporto reciproco all’interno della coppia, che va più facilmente incontro a divorzio e a fallimenti nella carriera lavorativa.
A sostenerlo è Wayne Hochwarter del Florida State University College of Business, che ha studiato il ruolo del sostegno tra coniugi quando entrambi riportano un alto livello di stress durante la giornata. Lo studio in questione, che ha coinvolto più di 400 coppie, ha messo a confronto coppie lavoratrici con un alto livello di stress e un buon supporto interpersonale e coppie con un alto livello di stress ma con un supporto reciproco insoddisfacente.
I risultati indicano che il numero di persone che tornano al posto di lavoro ancora più stressate del giorno precedente a causa di uno scarso supporto familiare è una percentuale rilevante dell’intero campione, e questo ha ovvie ripercussioni sulla qualità della giornata lavorativa, che può solo peggiorare, sostiene il prof. Hochwarter. Se alcune strategie attuate allo scopo di sostenere il coniuge sotto pressione si rivelano controproducenti, altre si sono dimostrate particolarmente utili, per esempio: avere coscienza delle pressioni lavorative quotidiane del proprio coniuge, non recriminare o tenere a distanza il partner, non competere per chi ha avuto la peggior giornata, non interrompere la comunicazione e aiutare il partner a ritrovare la calma se è particolarmente agitato o giù di corda, non contabilizzare il sostegno dato e ricevuto.
Uomini e donne inoltre sembrano differire per il tipo di supporto necessario a ridurre lo stress: in generale, le donne apprezzano particolarmente un aiuto nelle attività domestiche, il sentirsi volute, le manifestazioni di calore e affetto; gli uomini invece apprezzano particolarmente un aiuto se devono sbrigare commissioni e il sentirsi apprezzati e richiesti; entrambi hanno apprezzato l’aiuto del coniuge nel riuscire a ritagliare tempo lontano dai problemi lavorativi e per stare a casa a riposare e ricaricare le batterie.