Quando la relazione terapeutica non cura: i Cicli Interpersonali
Mi ricordo molto bene uno dei primissimi pazienti che ho avuto in privato. Venne per una sintomatologia depressiva e si mostrò da subito molto disponibile venendo incontro ai miei orari, senza esprimere alcuna preferenza o disappunto in caso di un mio ritardo. Le sensazioni che provavo prima di ogni visita erano di tranquillità e di piacevolezza, sensazioni molto diverse da quelle che provavo verso gli altri pazienti. Le prime visite passarono con l’aspettativa di una terapia semplice oltre che con la percezione di una ottima relazione terapeutica. Una volta dovendo spostare una visita per un impegno personale tra i 3 pazienti che avevo quel pomeriggio non ci misi più di qualche secondo a scegliere lei tra i pazienti da contattare, che ovviamente non fece una piega “ma si figuri dottore, senza alcun problema”. La terapia andò avanti per diversi mesi fino a che non ne parlai in supervisione a causa di uno stallo nel nostro percorso. All’inizio non avevo motivo di farlo visto che non percepivo alcun problema e anzi vivevo quella terapia come una prova di buona autoefficacia, che all’inizio della professione non guasta mai.
E’ stato grazie a questa esperienza che ho imparato a conoscere i cicli interpersonali, solo intuiti durante la formazione e sui libri, non perché fossero spiegati male ma semplicemente perché per capire come la relazione possa peggiorare un disturbo psicopatologico è necessario esserci dentro, sbatterci la testa, ed impararlo dalle reazioni che proprio quel determinato paziente, non altri, ti attiva.
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Si ok ma cosa si intende per cicli interpersonali? Per Safran e Segal sono “il modo in cui la relazione con l’altro attiva circuiti che rinforzano la patologia a causa dei segnali- in prevalenza non verbali, automatici ed emozionali- che i pazienti scambiano con i loro partner in interazione” (Safran e Segal; 1990). Di fatto sono strategie che il soggetto mette in atto per evitare di vivere stati per lui estremamente dolorosi ma che hanno il solo risultato di attivare nell’altro proprio i comportamenti temuti, che quindi confermeranno le credenze centrali. Questo vale per ogni relazione significativa e quindi assume particolare importanza in quella terapeutica dove il paziente altro non farà che costruire la relazione in base alle uniche modalità che conosce.
Tornando alla mia personale esperienza clinica, la paziente aveva uno schema di sé come persona non amabile e uno schema di sé con l’altro come criticata se avesse mostrato i proprio bisogni; a causa di questo schema interpersonale in cui sono presenti emozioni dolorose la paziente metteva in atto una strategia – “non mi espongo, vengo incontro all’altro” – che le garantiva di non attivare quei temi estremamente delicati. Nella nostra relazione successe però proprio questo: il suo accondiscendere con me, il mio sottolineare più le mie esigenze che le sue, di fatto confermava una credenza per lei centrale “i miei bisogni non hanno valore”.
Con disturbi nell’asse II, quando cioè vi sono presenti deficit metacognitivi, i cicli diventano elemento clinico di grande rilievo proprio per la difficoltà del paziente a riflettere sui propri, ed altrui, stati mentali. Può quindi accadere ad esempio che il paziente non si renda conto che la propria visione del mondo sia frutto dei propri schemi, dei propri personalissimi occhiali, ma la tratti come un dato di realtà.
Cosa possiamo fare quando siamo dentro un ciclo interpersonale?
Intanto dare importanza alle nostre reazioni emotive con quel determinato paziente. Questo vale in generale come regola per muoversi nella relazione con chi presenta aree relazionali problematiche . Una volta identificato cosa proviamo con il paziente potremmo chiederci se questo sia simile a ciò che prova il paziente o le persone che sono in relazione con lui. “L’obiettivo è di riuscire a collocarsi mentalmente in modo contrario alla tendenza spontanea che emerge dall’interazione con il paziente” (Dimaggio, Semerarai, 2007). Con la mia paziente questo ha voluto dire restituirgli la sua modalità di costruire le relazioni e mostrarle come lei, giustificata dal timore di poter vivere emozioni estremamente dolorose, portasse di fatto l’altro a comportarsi proprio come temeva. Dopo quel momento estremamente importante il nostro percorso fu focalizzato nella direzione di costruire una relazione terapeutica che potesse darle la possibilità di esprimere i propri bisogni, cercando quindi di disconfermare quella credenza centrale che di fatto giustificava l’entrata in cicli disfunzionali.
BIBLIOGRAFIA:
Safran, J. e Segal, V.Z. (1993) Il processo interpersonale nella terapia cognitiva, Feltrinelli
Dimaggio, G. e Semerari, A. (2007) I disturbi di personalità. Modelli e trattamento, Laterza
Terapia Cognitiva dei Disturbi Alimentari basata sul controllo: trial randomizzato
Il modello cognitivo normalmente utilizzato per la cura dei disturbi alimentari ritiene siano la bassa autostima e il perfezionismo patologico gli obiettivi più importanti del trattamento terapeutico. Lo scopo di questo trattamento è ridurre la paura diffusa di fallimento, e di diminuire l’autocritica che nasce dalla valutazione negativa di una propria prestazione (Fairburn, Cooper, & Shafran, 2003.
La Terapia Cognitiva basata sul Controllo nei Disturbi Alimentari (Sassaroli, Gallucci and Ruggiero, 2008) è una variante al trattamento standard. Tale approccio parte dal presupposto che la valutazione e il trattamento della credenza del controllo possano aumentare la comprensione della psicopatologia del DA e l’efficacia del trattamento cognitivo. Per trattare i dolorosi sentimenti di bassa autostima e staccare il paziente dal meccanismo del controllo, tale modello include non solo il riconoscimento e il trattamento razionale di errori cognitivi, ma anche la valutazione di sentimenti dolorosi come la bassa autostima nascosta dietro alla ricerca del controllo e della perfezione. Il protocollo clinico è caratterizzato dai seguenti step:
1) valutazione e riconoscimento del controllo come credenza cognitiva cosciente;
2) valutazione della relazione tra controllo dell’alimentazione, del peso, e del cibo e la percezione di un controllo generale esercitato nella vita;
3) modificare le attitudini del paziente su una percezione di insufficiente controllo e la compulsione di controllo assoluto.
Per tale motivo si è pensato di confrontare i due trattamenti terapeutici: la CBT-ED (Fairburn & Harrison, 2003) e la CFT-ED (Sassaroli et al. 2009), attraverso la realizzazione di un Trial Clinico controllato e randomizzato, per verificare l’efficacia dei due approcci.
Aspetti metodologici: 32 pazienti afferenti all’Ambulatorio per i Disturbi Alimentari dell’Ospedale San Paolo di Milano sono stati suddivisi in due gruppi, uno per ogni approccio terapeutico. Ad entrambi i gruppi è stata somministrata una batteria di test, (EDI-2, MPS, ACQ, RSES), al T0, cioè in fase di arruolamento, ad un tempo T1 prima dell’intervento psicoterapico e ad un tempo T2, dopo l’intervento terapico della durata di 12 sedute.
I dati sono stati analizzati attraverso la realizzazione di una serie di statistiche multivariate. Confrontando i risultati ottenuti dai due gruppi si rilevano differenze sostanziali a carico dei due diversi percorsi terapeutici. I pazienti mostrano dei miglioramenti diversi in base all’intervento terapeutico effettuato. Infatti, Confrontando i dati del gruppo sperimentale e il gruppo di controllo nel T1, emergono differenze significative per la variabile Controllo, dell’autostima e del perfezionismo, oltre che per i sintomi alimentari.
In Conclusione, concentrandosi sul controllo è possibile aggiungere un grado di benessere psicologico e un miglioramento clinico maggiore al paziente affetto da patologia alimentare. I limiti dello studio sono determinati dalla esigua portata del campione.
BIBLIOGRAFIA:
Fairburn C G, Cooper Z, Shafran, R. (2003). Cognitive behaviour therapy for eating disorders: a “transdiagnostic” theory and treatment. Behaviour Research and Therapy 41, 509-28.
Fairburn C G, Harrison P J (2003). Eating disorders. Lancet, 361, 407-16.
Correlati neurali del craving nei dipendenti da cocaina: differenze di genere
– Rassegna Stampa –
Un nuovo studio in pubblicazione su American Journal of Psychiatry identifica specifiche differenze di genere nell’attivazione dei circuiti neurali legati al craving in pazienti dipendenti da cocaina. I ricercatori hanno sottoposto a risonanza magnetica funzionale 30 individui dipendenti da cocaina (bilanciati per genere) e 36 soggetti di controllo, mostrando loro due tipologie di stimoli: da una parte script di situazioni che i partecipanti avevano precedentemente valutato come soggettivamente stressanti per sé, dall’altra stimoli (sempre sotto forma di script) direttamente connessi alla cocaina.
Dallo studio emerge che nelle donne cocainomani sarebbe lo stress (o meglio gli script trigger di una condizione di stress) a indurre l’attivazione significativa del circuito di aree cerebrali associate al craving, tra cui lo striato, l’insula e la corteccia cingolata anteriore e posteriore; diversamente, negli uomini dipendenti da cocaina l’attivazione di tali regioni cerebrali sarebbe stimolato dalla presenza di drug-cues, ovvero script che richiamano esplicitamente l’uso della sostanza. L’attivazione del circuito corticostriatale-limbico è inoltre positivamente correlata, in entrambi i gruppi, con le misurazioni individuali self-report del craving. Questi risultati portano a riflettere quindi sull’interazione tra genere e reattività a specifici stimoli inducenti il craving in pazienti con dipendenza da cocaina.
La saggezza del rock’ n’ roll (Il mio Psicoterapeuta suona il rock – Parte 2)
Gaspare Palmieri.
It’s not time to make a change, just relax and take it easy. Father and son, Cat Stevens, 1970
Essendo questo un articolo scritto e non un concerto (ahimè) o un gruppo di ascolto, a questo punto possiamo parlare soprattutto di testi di canzoni ma sono sicuro che appena nominerò alcuni titoli, le note della canzone inizieranno a muoversi nella mente del lettore.
Ho accennato nell’articolo precedente alla canzone d’autore italiana, ma mi tocca iniziare da oltreoceano, dove, parlando di canzoni, di cose da raccontare ce ne sono parecchie.
Nel 2008 mi trovavo a un congresso della Society of Psychotherapy Research a Edimburgo e la mia attenzione è stata letteralmente rapita da un libro in esposizione dello psicologo americano Barry Farber (2007) dal titolo “Rock ‘n’ roll wisdom: what psychologically astute lyrics teach about life and love (sex, love, and psychology)” .
In questo libro l’eminente collega ha raccolto, con l’impeccabile sistematicità metodologica anglosassone, una serie di frasi sagge e che possono aiutare a imparare a vivere meglio, contenute in tante canzoni rock. E’ molto interessante e paradossale come la musica rock, che dalla sua nascita ha rappresentato la trasgressione e la ribellione nei confronti del “sistema”, possa invece essere un veicolo di concetti di saggezza. Scorrendo le pagine del libro, diviso proprio per tematiche (ricerca di un significato alla vita, amore, amicizia, depressione, difese psicologiche…), si trovano tante frasi tratte dalle canzoni, che potrebbero essere pronunciate dal paziente per raccontare la propria esperienza interna o dallo psicoterapeuta, per empatizzare con i vissuti del cliente o per fungere da “cassa di risonanza emotiva”. Vediamo qualche esempio.
“When you’re down and troubled, and you need an helping hand…you have got a friend”
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Tratta da “You got a friend” (1971) interpretata da James Taylor (ma scritta da Carole King), brano che sottolinea l’importanza dell’amicizia nei momenti di difficoltà. Mi fa venire in mente le storie di tanti pazienti affetti da gravi forme psicotiche, che a causa delle difficoltà di funzionamento e di socializzazione legate alla malattia (ma anche a causa dello stigma legato ai disturbi psichici), non possono contare quasi su nessuno e si trovino assolutamente isolati. Un recente studio australiano ha mostrato come il 45% dei pazienti psicotici non abbia un amico con cui condividere pensieri e stati d’animo (Harvey e Brophy, 2011). Problema analogo per i pazienti affetti da disturbi della personalità (es. borderline e narcisisti), in cui è proprio il problema di carattere che tende a distruggere e rendere spesso impossibili le relazioni più intime. L’importanza dell’amicizia come fattore protettivo sembra quasi scontata, ma per molti casi gravi non lo è affatto e una canzone che tocchi questa corda, facendola risuonare può essere utile.
“I will go down with the ship”
Questa frase tratta da “White Flag” (2003) di Dido è una metafora molto potente di come una persona può sentirsi alla fine di una relazione sentimentale, letteralmente affondando con la nave. In questa frase non c’è neanche un tentativo di diventare un naufrago, non c’è la forza o forse non c’è il tempo. Si affonda e basta. Mi immagino questo affondare lento, con atteggiamento passivo e con il silenzio attorno. Questo tipo di reazione di fronte a una separazione venne descritta tanto tempo fa da John Bowlby (1982), “padre” delle ricerche sull’attaccamento, in particolare in persone caratterizzate da attaccamento insicuro ambivalente, dove la sofferenza rispetto alla separazione è molto più intensa del normale.
“I will survive”
Ecco questo è l’atteggiamento opposto cantato da Gloria Gaynor nel 1978 nell’omonima canzone. Rappresenta una strategia di coping, è il corrispettivo dell’atteggiamento psicologico del noto proverbio “Morto un papa se ne fa un altro”. La sofferenza psichica per una rottura sentimentale può essere davvero devastante, soprattutto se la fragilità è forte. In questi casi anche Gloria Gaynor può venire in aiuto. Il nostro Bowlby (1982) avrebbe forse classificato questo atteggiamento come insicuro evitante, l’opposto del precedente, quello che caratterizza persone con una compulsiva fiducia in sé stessi, in cui il lutto per la perdita può manifestarsi anche dopo anni, magari con veri e propri crolli in condizione di stress completamente svincolate dall’evento di separazione.
“Hello darkness my old friend”
“The sound of silence” (1966) di Simon and Garfunkel esordisce con questa frase che sembra lo slogan della popolazione dei depressi, dei distimici, dei tristi e dei pessimisti cronici. Il cordiale saluto di benvenuto all’oscurità implica una certa dimestichezza con il mondo delle tenebre, che è definito come amico, come qualcosa di famigliare che la persona conosce e che sa che prima o poi tornerà a trovarlo. Si tratta del difficile processo di accettazione di stati d’animo problematici, sempre meno compatibili con i modelli positivi idealizzati della vita di oggi. Anche la modernissima Mindfullness Based Cognitive Therapy (Segal, Teasdale e Williams 2006), di ispirazione orientale, si pone come obiettivo l’imparare ad accogliere gli stati mentali dolorosi senza volerli combattere. Quindi, benvenuta tristezza!
“I don’t know who I am, but you know, life is for learning”
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Questa frase tratta dalla canzone Woodstock (1969) di Joni Mitchell ha a che fare con il problema dell’identità e della sua costruzione attraverso l’apprendere dall’esperienza, talvolta dolorosa. E’ una frase piena di speranza che può toccare soprattutto i giovani, penso in particolare agli adolescenti, ma anche i meno giovani che si trovano in momenti di confusione e di crisi. E’ un invito a non cadere nell’ansia che può dare il disorientamento, che può rendere ancora più confusi e disorientati. L’ansia può rappresentare un ostacolo insormontabile allo sviluppo di una vita ricca di scelte fatte in libertà. Un altro brano che affronta una tematica analoga è “I still haven’t found what I am looking for” (1987) degli U2.
“You can’t always get what you want, but if you try sometimes, you just might find, you get what you need”
Tratto dal brano del 1969 “You can’t always get what you want” dei Rolling Stones, che oltre a sottolineare l’importanza dell’esplorare le possibilità e di inseguire i propri sogni, introduce il tema dei limiti. La questione del limite e dell’onnipotenza è cruciale nei percorsi terapeutici con pazienti borderline e narcisisti. Marsha Linhean, nella sua terapia dialettico comportamentale per il disturbo di personalità borderline (Linhean, 1993), definisce l’obiettivo di guidare il paziente verso una “mente saggia”, in grado di accettare le situazioni di frustrazione senza reagire con eccessi di emotività (in particolare rabbia). La frustrazione rappresenta per il paziente borderline il limite imposto dall’esterno, a cui reagisce con rabbia distruttiva.
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In questo caso il discorso assume una connotazione ancora più interessante in quanto la canzone è cantata dai Rolling Stone, che hanno fatto, almeno per un certo periodo (lungo), della vita di eccessi la propria bandiera. In questo senso consiglio la lettura della biografia del chitarrista Keith Richards (Richards, 2011) che a tratti ricorda una lunga cartella clinica di un paziente tossicodipendente. Se quello che scrive è vero (credo sia d’obbligo porsi questa domanda quando si parla di rock ‘n’ roll) Keith si è disintossicato e ricaduto nell’eroina almeno sette volte! “Sono stato per dieci anni al numero uno della lista delle persone prossime a morire” racconta nel suo libro. Il fatto che la perla di saggezza venga regalata da persone che hanno conosciuto le tenebre credo che conferisca più autenticità e si spogli di quell’attitudine moralistica o paternalistica, che desta l’irritazione e la sospettosità in tanti pazienti “ribelli”, soprattutto i più giovani. Sottende il carattere narcisistico invece l’aspettativa idealistica che tutto debba avvenire come si desidera, con conseguenti gravissime frustrazioni depressive se questo non accade.
Uno dei compiti del terapeuta in questo caso è aiutare il paziente a capire che perseguire la grandiosità implica il rischio di disprezzarsi se si fallisce (Semerari e Dimaggio, 2003). Il titolo del brano di Mick Jagger e soci può avere anche una grande importanza educativa, in un momento storico in cui è difficilissimo che i giovani accettino dei “no” o in cui ci sia qualcuno che abbia ancora il coraggio di dirne dei “no” (citando un altro brano di Vasco Rossi). Ogni generazione ha infatti le sue canzoni e c’è chi le considera uno strumento efficace per ricucire il filo spezzato di un dialogo educativo tra giovani e adulti (Gigante, 2005).
BIBLIOGRAFIA:
Bowlby J. Costruzione e rottura dei legami affettivi, Raffaello Cortina, 1982
Dimaggio G., Semerari A. I disturbi di personalità. Modelli e trattamento. Laterza, 2003
Farber B.A. (2007) “Rock ‘n’ roll wisdom: what psychologically astute lyrics teach about life and love (sex, love, and psychology)”, Praeger, London
Gigante L., Turi G. prestami orecchio. L’uso della canzone nel dialogo tra le generazioni. La meridiana, 2005
Harvey C., Brophy L. (2011). Social isolation in people with mental illness. Medicine Today,12, 10
Linhean M. Trattamento cognitivo comportamentale del disturbo borderline. Il modello dialettico. Raffaello Cortina, 1993
Richards K., Life, Feltrinelli, 2010
Segal Z.V, Williams J.M., Teasdale J.D. Mindfullness. Bollati Boringhieri, 2006
Psicologia e Psicoterapia Cognitiva: i segreti della coscienza
“Passavo ogni giorno davanti a quella porta socchiusa. E c’era ogni giorno quel terribile passo, tra tutti il più vicino alla soglia. Erano così inquiete le ombre che intravedevo a quella distanza che anche l’idea di porvi attenzione svegliava un profondo fastidio. Quel passo portava con sé la paura e bastava talvolta a torcere lo stomaco e scaldarmi la testa. Avrei potuto andare a vedere una volta per tutte, direste voi. Non ricordavo cosa vi fosse rinchiuso, eppure non doveva esser così pericoloso come lo percepivo. Potevo scoprirlo. E invece mi occupai di licenziare quel passo, di renderlo più breve e stare lontano. Cercai di ignorare quella porta, di farmi sicuro oltre quanto non fossi. E più ero distante più la sicurezza acquisiva un velo di realtà, almeno ai miei occhi. Tanto si fece appresa quell’abitudine, che quasi dimenticai la porta e i suoi segreti, come se appartenesse a un mondo dimenticato. Essa restò lì, ferma, per anni, ma non cessò di esistere. Finché un giorno mi ritrovai nuovamente appresso alla soglia. Fu quasi per caso o per sbadataggine, ma scoprii che la profonda paura di quel fanciullo era sempre lì, pronta ad attendermi tra le ombre, immutata. E tuttora esiste anche se ho almeno il coraggio di considerarla. Un coraggio però che basta a malapena per chiedermi: cosa temo di quella stanza e dei suoi segreti?”
Ci sono aspetti delle nostre reazioni emotive che non sono chiari alla coscienza. Questo è sempre stato un cruccio della psicologia cognitiva che si muoveva tra i modelli basati sull’inconscio e i modelli basati sul condizionamento. Quali spiegazioni alternative ha trovato?
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Partiamo dall’esempio descritto e immaginiamo che quella porta rappresenti il passaggio verso un ricordo doloroso. Potrebbe trattarsi di un episodio specifico (un trauma), ma anche di una condizione più generale (es: i ricordi di come ci si sentiva schiacciati dalle pesanti critiche dei genitori). Ricordi e temi di vita dolenti possono nascondersi oltre la porta e stimoli contestuali del tempo presente possono farli rivivere. È il caso per esempio di coloro i quali, innanzi a ogni presa in giro del collega di turno, rischiano di provare lo stesso senso di umiliazione di soprusi infantili ad opera dei bulli del quartiere. A questo punto la coscienza potrebbe trarre apparentemente un certo vantaggio dall’inibire l’accesso di questi ricordi a sé stessa.
Questa è l’idea chiave di Conway e collaboratori (2004), due ricercatori esperti nel campo della memoria autobiografica, e della loro Self-Memory System Theory (Conway & Pleydell-Pearce, 2000). Molto si è scritto riguardo alle strategie cognitive di controllo della minaccia che possono essere attivate dal sistema di controllo cosciente (es: ipermonitoraggio, attenzione selettiva, rimuginio e ruminazione, soppressione del pensiero ecc…). La Self-Memory System Theory spiega un altro genere di risposta, descrivendo il sistema di controllo esecutivo centrale non solo come attivatore di strategie cognitive ma anche come inibitore dell’accesso di informazioni autobiografiche nella coscienza, in quanto pericolose e dolorose.
Come fa la coscienza a inibire l’accesso a sé stessa di qualcosa che però è in grado di cogliere e di percepire come minaccia? Sembra un paradosso. A questo livello secondo gli autori entra in gioco il sistema associativo con cui leghiamo stimoli nella nostra memoria a lungo termine (o conoscenza autobiografica). I ricordi o gli stimoli che nella rete associativa si pongono in una posizione di vicinanza a questo tema dolente (il passo) vengono marchiati essi stessi come pericolosi e innescano una risposta di inibizione ed evitamento mentale. La vista della porta, il passo, le ombre divengono tutti segnali di pericolo, per cui non c’è bisogno di sapere cosa si nasconde oltre la soglia che nei fatti rimane oscuro. Basta tenersi lontano dalle vie di accesso a quel tema con credenze protettive (il cercare di farsi sicuro, banalmente un po’ raccontandosela) o con strategie di evitamento.
Le modalità di evitamento che conseguentemente si innescano possono avere diverse forme, tutte riducibili alle vecchie reazioni di attacco e di fuga. L’individuo può rispondere alla paura con rabbia contro lo stimolo che rischia di attivare il tema dolente, può fuggire lontano con la mente nei mondi del ragionamento iperazionale o della dissociazione vera e propria, oppure può decidere per tutelarsi di alterare direttamente la coscienza attraverso l’uso di sostanze. Lo scopo salvaguardato resta il medesimo: impedire l’accesso a un tema percepito come distruttivo per la coscienza.
La Self-Memory System Theory ha mostrato interessanti punti di forza e di sviluppo futuro. Primo, offre una spiegazione cognitiva a un fenomeno che è sempre stato un po’ oscuro e lo fa rimanendo ancorata alla ricerca, senza trovare spiegazioni in derive filosofiche. Secondo, offre un ponte scientifico di discussione tra approcci dinamici e cognitivi su temi di importante valore clinico come l’attività mentale ai limiti della consapevolezza e i meccanismi di difesa. Infine, apre molte nuove porte al trattamento dei disturbi psicologici. Per alcuni ricercatori infatti la SMS Theory rappresenta la spiegazione di fondo all’efficacia di una terapia di terza generazione che sta riscuotendo ampio successo come l’Eye Movement Desensitization and Reprocessing (EMDR) (Gunter & Bodner, 2009). Inoltre conferma la consapevolezza clinica per cui occorre attraversare assieme al paziente quella porta, conoscere cosa vi si nasconde imparare a restarci dentro per comprendere che non può distruggerci.
BIBLIOGRAFIA:
Conway, M.A.,Meares, K. & Standart, S. (2004). Images and goals. Memory, 12(4), 525-531.
Conway, M.A. & Pleydell-Pearce, C.W. (2000). The Construction of Autobiographical Memories in the Self-Memory System. Psychological Review, 107(2), 261-288
Gunter, R.W., & Bodner, G.E. (2009). EMDR Works… But How? Recent Progress in the Search for Treatment Mechanisms. Journal of EMDR Practice and Research, 3(3), 161-168.
SMS e la tolleranza di nuovi vocaboli
– Rassegna Stampa –
“Messaggiare” con il cellulare sembra avere un impatto negativo sulle nostre abilità linguistiche. Lo studio, condotto all’interno di una tesi di linguistica da Joan Lee (Calgary University) dimostra che chi utilizza di più gli sms sarebbe meno propenso ad accettare parole nuove, a differenza di chi invece messaggia meno e parimenti continua a leggere i buoni vecchi libri e giornali con tanto di pagine da sfogliare.
La ricerca ha indagato le abitudini comunicative e di lettura di un gruppo di studenti universitari: agli stessi studenti è stato presentato un insieme di parole sia reali che fittizie ed è stato chiesto loro di valutare velocemente se accettare la stringa di lettere come una parola (anche di cui magari non conoscevano il significato) oppure di rifiutarla come una “non parola”. Dai risultati è emerso che i partecipanti che facevano maggior uso di SMS erano anche quelli più intolleranti e meno accettanti verso possibili vocaboli nuovi e non conosciuti, e cioè rifiutavano più spesso le stringhe di lettere non familiari.
L’autrice dello studio sottolinea che l’intensiva pratica comunicativa degli SMS sarebbe legata a limiti linguistici rigidi e caratterizzata da una elevata ripetitività e prevedibilità di vocaboli utilizzati nelle conversazioni quotidiane; questi aspetti porterebbero il soggetto a essere più rigido e meno tollerante di fronte all’incertezza di un nuovo termine considerandolo immediatamente come non-parola e non come termine nuovo e insolito da riconoscere in quanto da tale e in qualche modo da interpretare.
Bellissimo, questo terzo romanzo di Jeffrey Eugenides ambientato in America negli anni ’80, protagonisti tre studenti universitari: Madeleine Hanna, appassionata di letteratura, Mitchell Grammaticus, esperto di storia delle religioni e diviso tra l’amore idealizzato verso Madeleine e il desiderio della carriera sacerdotale e Leonard Bankhead, laureando e quasi ricercatore universitario, fidanzato e poi, successivamente, marito di Madeleine.
Nel triangolo relazionale tra i protagonisti e nella descrizione, intensa, delle varie forme dell’amore, si dipana la trama del romanzo.
Madeleine si sente fuori moda, per il suo interesse quasi esclusivo per la narrativa classica ottocentesca (James, Austen, Eliot) che ha il suo fulcro nelle relazioni amorose tra i protagonisti, in un periodo, gli anni ottanta, in cui in letteratura la razionalità si impone sulle emozioni, tentando di “decostruire” il concetto stesso d’amore (Handke, Barthes, Derrida).
La ragazza, che fino all’incontro con Leonard, aveva governato la sua vita sentimentale con un certo distacco, quasi con disinteresse si trova, inaspettatamente, affascinata e coinvolta dalla personalità carismatica di Leonard. Il ragazzo soffre di psicosi maniaco depressiva che Eugenides racconta in maniera magistrale nelle sue varie fasi: l’esordio depressivo in Leonard adolescente, l’ipomaniacalità che precede i momenti di vero e proprio eccitamento, i cicli depressivi e maniacali che si alternano, anche a distanza di tempo.
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L’autore analizza nei dettagli e con una profondità degna dei migliori classici della psicopatologia le caratteristiche più significative di questo disturbo che consiste nell’alterazione della disposizione affettiva individuale di base. L’umore, che in ognuno di noi oscilla normalmente in risposta a stati interni o accadimenti esterni, nella psicosi maniaco depressiva viaggia su montagne russe, spinto da dinamiche prevalentemente endogene, tanto da apparire svincolato dalla realtà e dunque imprevedibile, incomprensibile, distante ed estraneo al sentire comune.
Queste vertiginose ascese, con le conseguenti ricadute a precipizio, erigono un muro di impossibilità di condivisione empatica e, nel libro, sono raccontate sia dal punto di vista di Leonard che da quello di chi gli sta intorno, soprattutto di Madeleine.
Ed ecco, quindi, narrati i segni dell’ipomaniacalità: un Leonard loquace, iperattivo, che non dorme quasi mai e si lascia andare a promiscue e sfrenate attività ludiche.
Poi, sempre più su, fino alla perdita di consapevolezza del proprio stato, le alterazioni sensoriali, la fuga delle idee, l’umore svincolato dalla realtà, l’autostima ipertrofica che giunge al delirio di onnipotenza, o persecutorio nei confronti di chiunque tenti di porre freno all’incontenibile grandiosità.
Nei periodi intercritici il tentativo di curarsi da solo con il terrore del baratro depressivo, la nostalgia dell’eccitamento e la consapevolezza dolorosa della propria schiavitù alla malattia. Madeleine cura, all’inizio coltivando l’illusione di poterci riuscire, forse coinvolta anche lei in una follia d’onnipotenza che la rende sorda alle ragionevoli obiezioni dei genitori e di Mitchell, lui sì ragazzo perfetto da sposare, a giudizio di tutti. Genitori benestanti e colti che, nonostante le incomprensioni, rappresentano l’aggancio con il reale, il comune buon senso cui alla fine ritornare per salvarsi.
Un libro da leggere quando si è stanchi di studiare e così si continua a farlo senza accorgersene e divertendosi con un’ottima lettura.
BIBLIOGRAFIA:
Jeffrey Eugenides. (2011). La trama del matrimonio. Ed. Mondadori
Iniziare una terapia cognitiva #2: stabilire gli obiettivi
Perché il paziente si presenta in terapia? Perché richiede un trattamento? Cosa cerca, cosa richiede, cosa desidera, cosa si aspetta da noi e dalla terapia?
Queste domande non sono scontate. Anzi, è bene che i terapeuti cognitivi ci riflettano con attenzione. Spesso o talvolta legati a una visione astrattamente razionalistica della terapia, riteniamo che il nostro compito si concentri (o si limiti) ad accertare e ristrutturare le convinzioni cognitive irrazionali o disfunzionali. Ma fare solo questo e ritenere che tutto il resto scaturisca automaticamente dalla ricerca dell’errore cognitivo è a sua volta un errore.
Non dobbiamo dimenticare che in terapia le convinzioni cognitive si definiscono irrazionali non in termini assoluti, ma in rapporto agli scopi e ai bisogni del paziente. Il livello di abilità sociale di cui ha bisogno una persona che deve effettuare frequenti prestazioni pubbliche, discorsi, relazioni, esibizioni, è differente da quella richiesta a persone a cui non capitano spesso queste occasioni. Si tratta quindi di razionalità strumentale e pragmatica e quindi di funzionalità delle convinzioni. La domanda chiave non è sempre “cosa è giusto?” e nemmeno “cosa è vero?” ma piuttosto: “a che ti serve questo in rapporto a ciò che desideri?”
A loro volta gli stessi obiettivi proposti dal paziente, i suoi desideri, vanno sottoposti a una valutazione critica. Non è scontato che ciò che ci chiede il paziente sia compatibile con una terapia. Un paziente potrebbe chiederci obiettivi che sarebbe più opportuno sottoporre a un avvocato (“il mio problema è che qualcuno mi perseguita”) o un personal trainer di una palestra (“mi devo rafforzare, sono fisicamente fragile”). Certo, il fatto che il paziente si sia rvolto a uno psicoterapeuta significa che in qualche modo egli percepisce la qualità psicologica e non materiale dei suoi problemi. Egli sa che in qualche modo il suo problema andrebbe riformulato in termini differenti: il paziente ha l’impressione di essere perseguitato, il paziente ha l’impressione di essere debole. Si tratta di valutazioni, convinzioni. Ma convinzioni che si esprimono in termini di scopi, obiettivi.
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Gli obiettivi vanno quindi chiariti e condivisi. Se riteniamo che gli obiettivi proposti del paziente siano anch’essi disfunzionali e irrazionali, dobbiamo discuterli e confrontarci col paziente per arrivare a formulazioni condivise. Se questa condivisione non c’è, il lavoro terapeutico ne verrà danneggiato. Si tratta della cosiddetta alleanza di lavoro, che non va confusa con la relazione terapeutica (Bordin, 1979). Essa ne è solo una componente, ma forse è la componente più interessante dal punto di vista cognitivo, essendo quella più sensibile a un accertamento e a una ristrutturazione esplicite e quindi cognitive.
Per esempio, forse possiamo ritenere che un paziente desideri un livello di abilità sociale irrealistico o anche inutilmente elevato in rapporto al suo benessere. Costui desidera esercitare un fascino irresistibile e ci chiede di rimuovere le convinzioni irrazionali che gli impedirebbero di diventare estremamente simpatico. Davanti a noi c’è una persona di normale umanità e capacità relazionale, forse addirittura un po’ più timida della media, che desidera diventare il re delle serate tra amici. E inoltre costui, avendo raccolto su internet qualche informazione sulla terapia cognitiva, avendo afferrato qualcosa sul rapporto tra convinzioni irrazionali e sofferenza, ha pensato che la terapia cognitiva fosse lo strumento giusto per incrementare le sue capacità sociali. E magari può presentarsi in terapia proprio con la richiesta specifica di rimuovere quelle convinzioni che lo danneggiano nella prestazione sociale.
P.: Il mio problema è che non sono così simpatico come potrei. Ho letto qualche libro di Ellis. Mi ha colpito l’idea delle piccole frasi che ci diciamo che ci danneggiano. Forse anche io faccio così. Forse basterebbe che io smettessi di pensare qualcosa di sbagliato per diventare simpatico. Le chiedo questo.
Il che, in fondo, è ancora accettabile, sebbene occorra sempre andarci piano prima di promettere troppo. La richiesta terapeutica giusta non è tanto diventare più simpatici, ma star meglio, diminuire la sofferenza. Con questo paziente potremo convenire che la sua sofferenza avvenga soprattutto in contesti sociali, e anche che soffrendo meno effettivamente potrà avere più successo sociale.
T.: Beh, si, effettivamente la terapia cognitiva può aiutare anche a migliorare le nostre relazioni sociali. Però non è un addestramento in cui si apprende un’abilità. Si tratta di una terapia. L’obiettivo per noi è sempre superare la sofferenza. Stare meglio. Sia da soli che co gli altri. Probabilmente poi, stando meglio in mezzo agli altri, la sua compagnia diventerà più piacevole, più simpatica se vogliamo.
La stessa richiesta può essere espressa in termini ancora meno accettabili e adatti a una terapia.
P.: Il mio problema è che non sono così affascinante e attraente come potrei.
T.: In che senso?
P.: Penso che potrei avere molto più successo con le donne se solo sapessi cosa dire e come fare. Prima pensavo che ero incapace. Poi ho letto qualche libro di Ellis. E ho pensato che forse sarei capace se solo la smettessi di danneggiarmi da solo. Mi ha colpito l’idea delle piccole frasi che ci diciamo che ci danneggiano. Forse anche io faccio così. Forse basterebbe che io smettessi di pensare qualcosa di sbagliato per riuscire a corteggiare le donne molto meglio di quanto faccia ora. Le chiedo questo.
T.: Non so se è corretto considerare la terapia cognitiva una sorta di addestramento a corteggiare. Qual è esattamente il suo obiettivo? Cosa si aspetta?
P.: Vuole che sia esplicito? Vorrei essere capace di convincere a venire a letto con me tutte le donne che mi piacciono.
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In questo caso la richiesta è particolarmente allarmante e poco in sintonia con obiettivi terapeutici. Chiedere di incrementare le proprie capacità seduttive in un contesto terapeutico è un campanello d’allarme di possibili aspetti istrionici e impulsivi del paziente che fa una richiesta del genere. Ma anche davanti a richieste più congrue e meno preoccupanti, come diventare più simpatici, occorre essere guardinghi.
Il problema con questo tipo di richieste è la possibile confusione tra terapia e addestramento. L’obiettivo terapeutico deve essere la sofferenza psicologica prima che l’efficienza comportamentale. Una volta chiarito questo, possiamo poi anche comunicare al paziente che il benessere può facilitare l’efficienza e perfino tentare qualche applicazione addestrativa della terapia. È vero che la terapia cognitiva, rispetto ad altri orientamenti terapeutici può essere quella più disposta a contaminarsi con tecniche di addestramento, cosiddette skills training. Tuttavia l’obiettivo rimane la sofferenza psicologica e la cura dei sintomi. Per questo si dice che il paziente deve esprimere gli obiettivi in termini “internalizzati” e non “esternalizzati”.
La terapia cognitiva, sebbene applicabile a molti tipi di sofferenza psichica, ha sviluppato modelli clinici particolarmente sofisticati ed efficienti per i disturbi di tipo ansioso e depressivo. Quando gli obiettivi terapeutici non sono particolarmente chiari, un modo per orientare la terapia in una direzione per così dire “cognitiva” la terapia è focalizzarsi sulla sofferenza di tipo ansioso e depressivo: chiedere al paziente quali sono le sue paure e le sue malinconie, quando si presentano e come, e proporre al paziente di concentrarsi su quelle. Qualunque altro obiettivo potrà essere discusso e rinegoziato in un secondo momento.
In ogni caso gli obiettivi non sono mai definitivi ma sempre rinegoziabili a vari intervalli durante la terapia.
BIBLIOGRAFIA:
Bordin, E. S. (1979). The generalizability of the psychoanalytic concept of the working alliance. Psychotherapy: Theory, Research & Practice, 16(3), 252-260.
Lo specchio riflessivo. (Psicoterapia e Video Feedback)
Piergiuseppe Vinai, medico psicoterapeuta Didatta Studi Cognitivi – Didatta SITCC
Considerazioni cliniche sull’utilizzo in terapia delle tecniche di video feedback.
Gli specchi dovrebbero riflettere prima di rimandarci l’immagine.
(Jean Cocteau)…
Uno degli obiettivi principali della terapia cognitivo-comportamentale è identificare e rimuovere le credenze disfunzionali del paziente, in particolare quelle relative al sé, che costituiscono un ostacolo al cambiamento e generano meccanismi di evitamento cognitivo: rimuginio, controllo, perfezionismo. Inoltre è fondamentale per il paziente il riconoscimento delle emozioni legate a tali credenze patologiche poiché rivestono un importante ruolo nella genesi e nel mantenimento di molti quadri psicopatologici. Per raggiungere tale obiettivo il paziente deve acquisire un distacco critico e consapevole dal proprio modo di funzionare, deve cioè “osservarsi dal di fuori” per riconoscere le caratteristiche peculiari dei suoi pensieri, in quali situazioni vengono attivati, e come essi siano legati a particolari emozioni e comportamenti.
Osservarsi dall’esterno, ossia sviluppare un punto di vista alternativo rispetto al problema presentato, è un’operazione mentale estremamente importante che, con nomi e tecniche diverse, viene messa in atto da tutte le psicoterapie. Per raggiungere tale obiettivo la CBT dispone di vari strumenti tra cui il più noto è lo schema ABC di Ellis (1962) che guida l’auto-osservazione del paziente sottolineando il legame esistente tra le sue valutazioni degli eventi attivanti, le sue emozioni e il suo comportamento. L’obiettivo è di insegnare al paziente ad osservarsi fornendogli uno specchio che gli permetta di vedere ciò che solitamente è a lui invisibile, incrementando così la sua metacognizione (Sassaroli, Ruggiero, Lorenzini 2006). Tale metodologia ha però dei limiti insiti nella difficoltà da parte dei soggetti (in particolare, i pazienti alessitimici che presentano deficit nelle capacità metacognitive riguardanti soprattutto l’area dell’autoriflessività) di accedere ai propri stati mentali (pensieri, emozioni ecc.).
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Le nuove tecnologie nella fattispecie le videoregistrazioni della seduta e la successiva presentazione al paziente di alcune sequenze emotivamente significative (ad esempio mentre rievoca un particolare episodio con lo schema ABC durante il quale individua i suoi pensieri e le sue emozioni relative ad una determinata situazione) forniscono al paziente un vero specchio poiché gli consentono di collocarsi immediatamente in una posizione “meta” dalla quale poter osservare sia il proprio modo di pensare che le proprie emozioni da una nuova prospettiva esterna che facilita l’attribuzione di nuovi significati all’evento ristrutturando conseguentemente l’idea di sé con la conseguente sperimentazione di nuove emozioni relative a se stessi che agli altri (Smits, Powers, Buxkamper & Telch. 2006).
L’ABC in versione video, rispetto all’ABC tradizionale, è uno strumento molto più efficace per porre in modo diretto il paziente di fronte alle sue credenze autosvalutative “obbligandolo” emotivamente a “fare i conti” con esse. Sapere di avere pensieri negativi e autosvalutanti è molto diverso dall’avere l’esperienza tangibile di osservare se stesso nel processo d’interpretare in modo negativo e autosvalutante una determinata situazione. Nel primo caso si ha una presa di coscienza concettuale, nel secondo si ha una presa di coscienza empirica del processo attraverso il quale si valuta se stessi (Parr, Cartwright-Hatton 2009). Allo stesso modo comprendere “intellettualmente” attraverso un’ABC classico di aver avuto pensieri autosvalutanti in una determinaa situazione è molto diverso dall’avere l’esperienza concreta di osservarsi tristi e sentire la propria voce esprimere pensieri negativi e autosvalutanti.
Ad esempio una paziente bulimica di trentacinque anni, ormai pienamente consapevole, attraverso numerosi ABC, di avere pensieri autosvalutanti verso se stessa subito dopo essersi osservata durante uno spezzone di videofeedback in cui affermava: “sono un’incapace è tutta colpa mia se lui mi ha lasciato… non so tenermi le persone che mi vogliono bene… non gli avrei dovuto fargli quell’ennesima scenata di gelosia… lui è fatto così… ci prova con tutte.. lo sapevo fin dall’inizio” ha commentato con un’evidente espressione di rabbia: “mi faccio pena… come ho potuto stare tutti questi anni con uno così… non pensavo di valutarmi proprio come una m.”. In questo caso, grazie all’ABC in formato video, la paziente ha avuto l’esperienza tangibile di osservare se stessa nel processo di interpretarsi in modo negativo e autosvalutante; in altri termini ha visto “in azione” i propri pensieri disfunzionali che in quel momento gli passavano per la testa con tutte le emozioni ad essi legati. Questa modalità faciliterebbe la consapevolezza della distinzione tra realtà e la sua percezione da parte del paziente; maggiore sarà tale divario maggiore sarà il cambiamento terapeutico che si ottiene (Rapee & Lim 1992). Nel caso clinico sopra citato tutto ciò ha provocato, gradualmente, un cambiamento relativo all’idea di sé e dell’altro (sono io la vittima , lui è il carnefice) con la conseguente attivazione di nuove emozioni (tenerezza e compassione verso se stessi, rabbia verso l’altro).
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Oltre che facilitare l’identificazione e una piena consapevolezza delle proprie credenze l’osservazione dei propri video feedback faciliterebbe al paziente anche il riconoscimento delle proprie emozioni manifestate nel setting clinico e non riconosciute nel hic et nunc, poiché, in questo caso il riconoscimento delle proprie emozioni non sfrutterebbero le capacità autoriflessive del paziente (spesso alquanto deficitarie) ma partirebbe inizialmente dall’osservazione di uno stimolo visivo esterno: la propria espressione emotiva. In altri termini il riconoscimento di un proprio stato d’animo non partirebbe da processi autoriflessivi ma sfrutterebbe gli stessi meccanismi della social cognition che normalmente usiamo per comprendere gli stati emotivi altrui. Molti pazienti riescono a comprendere meglio gli stati mentali altrui rispetto ai propri (Rapee & Lim 1992), tali soggetti beneficeranno maggiormente del video feedback poiché la metodologia permette loro di sfruttare la loro capacità di social cognition per vicariare quella autoriflessiva alquanto deficitaria. Non a caso il video feedback è stato ampiamente inserito nei protocolli della CBT al fine di migliorare la percezione di sè nei soggetti affetti da ansia sociale. (Rapee & Hayman, 1996; ).
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Questi soggetti, infatti, percepiscono in modo distorto i loro stati emotivi, (in particolare la loro ansia se debbono parlare in pubblico) spesso sovrastimandone l’intensità. Ad esempio affermano erroneamente di essere apparsi molto ansiosi, sudati, tremanti e di aver balbettato mentre, al contrario, valutano molto accuratamente le performance altrui (Rapee & Hayman. 1996). Quando questi soggetti osservano se stessi in video usano la stessa valutazione come se osservassero un estraneo quindi adottano una valutazione più accurata e precisa. L’osservazione della loro performance crea, quindi, una discrepanza tra la rappresentazione negativa di sè ed il reale comportamento osservato; maggiore è tale bias, maggiore sarà il cambiamento della propria immagine con conseguente riduzione dell’ansia (Orr, Moscovitch 2010). Partendo quindi dai dati offerti dalla letteratura scientifica sull’efficacia del video feedback nei vari campi in cui è stato utilizzato (miglioramento nella percezione di sé e riduzione dell’attivazione emotiva nei soggetti affetti da fobia sociale (Orr, Moscovitch. 2010), miglioramento della qualità di interazione con tra madre e bambino (Kalinauskiene et al. 2009) ipotizziamo che l’uso del video feedback, all’interno di una CBT, incrementi le capacità metacognitive del paziente (identificazione dei pensieri, degli scopi e dei temi di vita che muovono il proprio comportamento nonché il riconoscimento delle emozioni ad essi legati) in tempi estremamente più brevi e in modo qualitativamente maggiore rispetto alla sola CBT. Ovviamente il video feed back non può sostituire la psicoterapia tradizionale, ma come già riportato da Nilsson e colleghi (2011) ne può amplificare l’efficacia terapeutica.
BIBLIOGRAFIA:
Ellis A. Reason and Emotion in Pschotherapy, New York: Lyle Stuart 1962.
Rapee, R. M., & Lim, L. (1992). Discrepancy between self- and observer ratings of performance in social phobics. Journal of Abnormal Psychology, 101, 728-731.
Rapee, R. M., & Hayman, K. (1996). The effects of video feedback on the self-evaluation of performance in socially anxious subjects. Behaviour Research and Therapy, 34, 315-322.
Smits, J., Powers, M., Buxkamper, R., & Telch, M. (2006). The efficacy of videotape feedback for enhancing the effects of exposure-based treatment for social anxiety disorders: a controlled investigation. Behaviour Research and Therapy, 44, 1773-1785.
Addestramento al “Pensiero concreto” come auto-cura per la depressione.
Recenti ricerche hanno dimostrato che i sintomi depressivi possono essere trattati “semplicemente” attraverso l’addestramento ad uno stile di pensiero orientato per obiettivi, attraverso esercizi mentali strutturati secondo l’approccio chiamato “Modificazione dei bias cognitivi” (Cognitive Bias Modification).
Lo studio condotto dalla University of Exeter e finanziato dal Medical Research Council, è stato pubblicato sulla rivista Psychological Medicine lo scorso Novembre e sembra interessante rispetto alla necessità di proporre programmi di intervento più rapidi, efficaci e meno costosi nei casi di depressione o depressione maggiore.
La proposta dei ricercatori è: un training di soli due mesi in grado di produrre, attraverso l“Addestramento al pensiero concreto” (Concreteness Training, CNT), un cambiamento dello stile di pensiero e una parziale riduzione della sintomatologia depressiva. L’obiettivo generale del training è di insegnare ad essere più specifici quando si riflette su un problema; questo infatti sembra ridurre le difficoltà iniziali di problem solving, il conseguente rimuginio, il brooding e infine l’umore depresso. Le persone che soffrono di depressione hanno infatti la tendenza a sviluppare uno stile di pensiero astratto e caratterizzato da una prevalenza di pensieri negativi e molto generali, che alimentano la loro generale “incapacità nella vita” e sensazione di impotenza. Il modello proposto dai ricercatori sembra in grado di intervenire in modo diretto proprio su questo stile di pensiero.
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I 121 soggetti sperimentali, già seguiti in trattamento psicoterapico e scelti in una fase di abbassamento dell’umore all’interno di un episodio depressivo maggiore diagnosticato, sono stati suddivisi in tre gruppi: 1) somministrazione dell’antidepressivo e visite di controllo del medico di base (TAU, “treatment as usual”), 2) TAU + CNT, 3) TAU + trainig di rilassamento.
Il modello CNT prevedeva la somministrazione ai partecipanti di alcuni esercizi mentali giornalieri, standardizzati per step successivi e accompagnati dall’ascolto di un CD, in cui era richiesto loro di focalizzarsi su un recente evento di vita abbastanza negativo e fonte di stress e di identificarne specifici dettagli immaginando come ognuno di questi, presi singolarmente, avrebbe potuto influenzare l’esito immaginato.
La riduzione dell’ansia e della depressione ha favorito il passaggio da una diagnosi di “depressione grave” ad una di “depressione moderata” entro i primi due mesi di training, con un buon mantenimento dei risultati a distanza di 3 e 6 mesi. In media, i pazienti che hanno seguito il trattamento con antidepressivi e le visite regolari con il medico di base non sono migliorati nella sintomatologia depressiva, mentre quelli che avevano integrato con gli esercizi di rilassamento sono migliorati di più. Tuttavia solo i pazienti che hanno seguito il “Concreteness training” hanno ridotto significativamente l’intensità dei pensieri negativi legati alla ruminazione.
Il Professor Edward Watkins ha spiegato:
“Questo studio è la prima dimostrazione del fatto che il solo orientare lo stile di pensiero per obiettivi può avere un impatto significativo nell’affrontare la depressione. Si tratta di un approccio che può comportare un contatto minimo con il clinico e il training può essere seguito tramite assistenza on line, aprendo la possibilità di utilizzare CD o addirittura applicazioni per smartphone. Il vantaggio sta nella possibilità di offrire un trattamento poco costoso e accessibile per un numero maggiore di persone, obiettivo prioritario nella cura della depressione a causa della elevate percentuale di persone affette da questo problema e dai costi globali, sociali e sanitari, che questo comporta.”
I ricercatori proseguiranno in questa direzione per verificare l’efficacia del protocollo e la possibilità di inserire la CNT come trattamento privilegiato dal National Health Service britannico per la cura della depressione.
L’effetto di questo training sembra, ad una prima occhiata, paragonabile all’effetto del farmaco antidepressivo, in alcuni casi “salvavita” e spesso utile nel recuperare le “forze” cognitive necessarie ad intraprendere un percorso psicoterapico più approfondito, quindi da non sottovalutare la possibilità di utilizzare il protocollo proposto nella fase iniziale della terapia.
Riconoscere la voce delle emozioni: deficitarietà nella schizofrenia
– Rassegna Stampa –
L’associazione tra schizofrenia e difficoltà nella comprensione degli stati mentali altrui è dimostrata in letteratura da diversi studi (si veda ad esempio il recente articolo di Giardini “Da Freud ai neuroni specchio: schizofrenia e social perception”). Generalmente gli studi sul riconoscimento emotivo, sia in soggetti patologici che non, si focalizzano più spesso sul riconoscimento delle emozioni a partire dalle espressioni facciali; tuttavia, lo studio della voce delle emozioni rappresenta un aspetto altrettanto interessate essendo anche la voce un rilevante sistema di segnalazione delle emozioni.
Uno studio apparso in questi giorni su American Journal of Psychiatry indaga in quale modo la schizofrenia sia associata a difficoltà nel riconoscere le emozioni dalla voce. Il campione dello studio è costituito da 92 pazienti e 73 soggetti di controllo, cui è stato chiesto di ascoltare stimoli sonori dal contenuto neutro ma che presentavano caratteristiche acustiche (frequenza, intensità, ritmo) tipiche delle diverse emozioni (ansia, rabbia, paura, etc). A partire da questi stimoli i pazienti e i soggetti di controllo dovevano quindi inferire quale fosse l’emozione espressa.
Dai risultati è emerso che i pazienti schizofrenici presentano un deficit statisticamente significativo nel riconoscimento emotivo vocale, avendo in particolare maggiori difficoltà nel riconoscere le variazioni del tono (o frequenza) della voce rispetto ai soggetti di controllo. Quindi il deficit sembrerebbe giocarsi sia a livello di sensibilità percettiva alle variazioni acustiche di frequenza sia più specificamente a livello di inferenza emotiva a partire da indizi sonori.
Nei Disturbi Specifici dell’Apprendimento (DSA) rientrano tutte quelle problematiche che ostacolano, nel bambino, l’apprendimento scolastico normativo e adeguato alle richieste della scuola.
“I Disturbi dell’Apprendimento vengono diagnosticati quando i risultati ottenuti dal soggetto in test standardizzati, somministrati individualmente, su lettura, calcolo, o espressione scritta risultano significativamente al di sotto di quanto previsto in base all’età, all’istruzione, e al livello di intelligenza. I problemi di apprendimento interferiscono in modo significativo con i risultati scolastici o con le attività della vita quotidiana che richiedono capacità di lettura, di calcolo, o di scrittura” (DSM-IV, APA, 1995).
“… sono disturbi nei quali le modalità normali di acquisizione delle capacità in questione sono alterate già nelle fasi iniziali dello sviluppo. Essi non sono semplicemente una conseguenza di una mancanza di opportunità di apprendere e non sono dovuti a una malattia cerebrale acquisita. Piuttosto si ritiene che i disturbi derivino da anomalie nell’elaborazione cognitiva legate in larga misura a qualche tipo di disfunzione biologica. Come per la maggior parte degli altri disturbi dello sviluppo, queste condizioni sono marcatamente più frequenti nei maschi” (ICD-10, OMS, 1992).
Nello specifico, i DSA sono suddivisi in :
Dislessia; caratterizzata da lettura lenta e scorretta con presenza di errori tipici e riconoscibili;
Disortografia; caratterizzata da scrittura scorretta a livello ortografico con errori molto simili a quelli che il bambino dislessico compie nella lettura;
Discalculia; caratterizzata da difficoltà nel compiere operazioni aritmetiche (anche le più semplici) in assenza di problematiche legate alle competenze logico-matematiche;
Disgrafia – caratterizzata dalla scarsa/insufficiente capacità del bambino di realizzare anche i segni grafici più elementari in modo comprensibile, anche al bambino stesso.
Sebbene non presente nei manuali diagnostici internazionali, alcuni autori tra cui Simonetta (2005, 2007, 2012) riconoscono anche l’esistenza della Disgnosia, disturbo più ampio della capacità di apprendimento. Tale disturbo riguarda la combinazione di ritardi nell’evoluzione del linguaggio verbale e nello sviluppo psicomotorio funzionale. Pertanto, a differenza dei DSA precedentemente citati, tale disturbo assume una chiara multifattorialità, che comprende non solo la presenza di deficit di tipo psicomotorio ma anche elementi legati alla storia di attaccamento e alla presenza di eventi traumatici nella storia del bambino.
American Psychiatric Association. (2014). Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali. Quinta edizione (DSM-5). Raffaello Cortina Editore. ACQUISTA ONLINE
Cosa non farei per la danza!
Il mondo segreto delle ballerine, dove per diventare una “stella” si è disposte a tutto, anche a morire di anoressia.
Il 7 dicembre, come da tradizione, c’è stata la serata inaugurale della stagione teatrale alla Scala con le note del Don Giovanni di Mozart. Qualche giorno prima, però un altro sipario si era alzato sul “tempio della lirica” milanese, con la denuncia al Guardian e subito ripresa dalle maggiori testate giornalistiche in tutto il mondo, da parte dellaBallerina Mariafrancesca Garritano, una delle 14 soliste della Scala, che sembra aver scioccato i più, sui problemi di anoressia e bulimia tra le ballerine del corpo di danza del teatro La Scala di Milano. Corpo di ballo che ha prontamente replicato negando tutto e attaccando la ballerina.
La ballerina racconta la sua storia nel libro “La verità vi prego sulla danza”. È una storia fatta di solitudine, quella di una ragazza che a soli sedici anni lascia la Calabria e la casa non sentendosi voluta dal padre e dalla nuova famiglia. Una storia di sacrifici e rinunce, quelli che la danza impone e di problemi alimentari. Nel libro Mariafrancesca racconta di un mondo difficile, a tratti spietato, pieno di personaggi che per un posto sul palco farebbero di tutto.
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Racconta che una ballerina su cinque soffre di un disturbo alimentare, prevalentemente bulimia nervosa e anoressia nervosa, e, triste a dirsi, il dato non la sorprende dal momento che i primi a spingere per raggiungere il “corpo perfetto” sono proprio gli insegnanti dell’accademia. Mariafrancesca dice: “Quando, appena sedicenne, sono entrata nell’accademia gli istruttori mi chiamavano “mozzarella” di fronte a tutti. Così ho ridotto il cibo così tanto – mangiavo un mela e uno yogurt al giorno – che per un anno e mezzo il mio ciclo mestruale si è interrotto e sono arrivata a pesare 43 kg”. La ballerina racconta di un mondo dove questa è la dieta della maggior parte delle ballerine e dove molte di esse vengono ricoverate in ospedale e sottoposte all’alimentazione forzata per cercare di salvare loro la vita.
Una storia che ricorda a tratti quella di Nina-Odette, interpretata da Natalie Portman nel Cigno Nero di Darren Aronofsky, senz’altro un dei film più belli dello scorso anno, è una ballerina del New York City Ballet che per ottenere il ruolo della vita arriverà all’estremo sacrificio. Per fortuna la storia di Odette non è certo quella una ballerina tipo, poiché accanto agli allenamenti massacranti, alla bulimia e a un mondo pronto a tutto, racconta anche la storia di ossessioni, di allucinazione, di cosa accade quando il lato oscuro ha la meglio su quello luminoso, di una mente che con la danza invece di ritrovarsi arriva a perdersi.
Le parole di Mariafrancesca trovano tristemente conferma anche nei recenti studi di Herbrich e colleghi (Herbrich, L., Pfeiffer, E., Lehmkuhl, U. & Schneider, N.) del “Dipartimento per i bambini e gli adolescenti” di Berlino”, che hanno messo a confronto un campione di studenti del liceo con un campione di giovani ballerini. Ad entrambi i gruppi hanno somministrato delle batterie specifiche di test per indagare l’area dei disturbi alimentari e l’anoressia nervosa è stata diagnosticata nel 5,8% dei ballerini contro il 2,9% degli studenti.
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Questo episodio apre un dibattito che si estende anche ad altri sport. Alcuni si sorprenderanno nel leggere che in ambito clinico è purtroppo risaputo che certi sport non si limitano a trasformare il corpo in opere d’arte, ma lo espongono anche al rischio di sviluppare un disturbo alimentare. Nel 2005 Reinking e colleghi (Reinking, M. F & Alexander, L. E.), allarmati dall’aumento dei casi di amenorrea, osteoporosi e disturbi alimentari nel mondo dell’atletica, hanno condotto uno studio monitorando dal 2002 al 2003 la presenza di questi sintomi i un campione di 84 adolescenti che praticano sport, dividendo fra quelli che praticano sport nei quali aspetto fisico e peso sono molto importanti, come per esempio nell’atletica leggera, e quelli che praticano sport dove invece aspetto fisico e peso non sono fondamentali, come per esempio nel basket, con uno di 62 adolescenti che non la praticano. I risultati di questa ricerca hanno mostrato che gli atleti che praticavano la prima categoria di sport, avevano maggiori livelli di insoddisfazione, una minore obbiettività e un maggiore desiderio di perdere peso, rispetto agli atleti che praticavano sport della seconda categoria. Inoltre nel 25% degli atleti che pratica questi sport ha un rischio maggiore di sviluppare un disturbo alimentare. Attenzione quindi lo sport fa bene, ma se fatto con moderazione!!
BIBLIOGRAFIA:
Herbrich, L., Pfeiffer, E., Lehmkuhl, U. & Schneider, N. (2011). Anorexia athletica in pre-professional ballet dancers. Journal of Sports Science, 29 (11):1115-23.
Reinking, M.F. & Alexander L.E. (2005). Prevalence of Disordered-Eating Behaviors in Undergraduate Female Collegiate Athletes and Nonathletes. J Athl Train, 40(1):47-51.
Una scelta razionale. Davvero? (Psicologia dei Consumi)
Provate a rispondere alle seguenti domande:
1. A Mr. A vengono dati due biglietti per delle lotterie del World Series. Mr A vince $50 in una lotteria e $25 nell’altra. Mr.B invece prende un solo biglietto per un’unica grande lotteria sempre del World Series. Mr B vince $75. Chi dei due è più soddisfatto?
2. Oggi il signor Bianchi ha vinto un regalo del valore di 20 euro a una tombola organizzata dai colleghi di lavoro e poi 80 euro a una tombola organizzata dagli abitanti del suo quartiere. Dal canto suo il signor Rossi ha vinto un regalo del valore di 100 euro a una tombola municipale. Quale dei due personaggi è più soddisfatto?
Se avete risposto Mr A nel primo caso e il signor Bianchi nel secondo avrete seguito un ragionamento tipico della maggior parte delle persone e che farà felici gli esperti di marketing. Secondo le principali teorie sulla presa di decisione, infatti, le persone tendono a considerare separatamente gli eventi che riguardano le vincite e a integrare come evento unico le perdite; tendono anche a considerare come evento minore una perdita se accompagnata da una vincita più consistente (Thaler, 1985).
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Il motivo per cui ci lasciamo tentare da un prodotto nuovo che in realtà a poco ci serve o la ragione per cui siamo più infelici anche di fronte a una perdita economica non così importante sta nel fatto che tutti noi abbiamo un modo più o meno esplicito di valutare gli eventi e che influenza tutte le decisioni che prendiamo, talvolta in maniera inaspettata. Se queste affermazioni possono sembrare scontate a una prima lettura, pensiamo a quante volte pensiamo di avere preso una decisione in maniera ponderata e razionale, soprattutto in situazioni importanti. Certo, non si può affermare che la gente sia irrazionale, ma gli studi della psicologia cognitiva ci dicono in realtà che i criteri di razionalità tanto proclamati dagli economisti non sempre funzionano. Anzi: nel momento in cui prendiamo una decisione è il valore percepito dal soggetto, in termini di guadagni o perdite, ad avere la meglio. Ovvero, le persone tendono a rispondere in base ai cambiamenti percepiti piuttosto che in base a valori assoluti di vantaggio o svantaggio (Thaler, 1985).
Tornando al nostro quesito iniziale possiamo dire che le persone tenderanno a interpretare gli eventi nel modo che li renda maggiormente felici; non solo, le persone sceglieranno anche in base a come un problema è organizzato, supponendo che ognuno abbia un proprio modo di organizzarsi la vita e categorizzare il mondo. Nella pratica, ciò che risulterà fondamentale a un venditore è sapere quali aspetti del prodotto integrare o separare al fine di attirare l’attenzione della gente. Ad esempio, il fatto di separare le vincite ci dice che per vendere un prodotto è molto meglio che esso abbia diverse dimensioni su cui il consumatore può effettuare la scelta (che porteranno la persona a valutare i diversi aspetti come separati). Allo stesso modo, i consumatori tenderanno a integrare le perdite: questo significa che i venditori hanno il vantaggio di potere vendere qualcosa se il suo costo può essere aggiunto a un’altra spesa.
Insomma, la prossima volta che andiamo al supermercato stiamo bene attenti alle promozioni: il pacco doppio sarà davvero più conveniente?
Un crescente numero di ricerche ha ormai dimostrato che la persistenza di sintomi psicotici positivi, quali voci allucinazioni deliri, può essere alleviata da trattamenti psicoterapici specifici per le psicosi. Alterata percezione e distorta elaborazione degli stimoli minacciosi sembrano essere alla base dello sviluppo dei contenuti deliranti, aspetti che costituiscono dunque il target di intervento di un percorso psicoterapico che favorisca processi di recovery sulla base delle risorse residue e non ancora colpite dalla patologica psichiatrica.
Uno studio condotto presso il Dipartimento di Psicologia del London King’s College e pubblicato sulla rivista Brain nel 2011, si è occupato di esaminare tramite neuroimaging la presenza di cambiamenti significativi nella reattività neuronale a stimoli minacciosi, a seguito di un trattamento cognitivo-comportamentale in pazienti affetti da psicosi.
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Dei 56 pazienti affetti da schizofrenia con sintomi positivi residui e persistenti, 28 hanno ricevuto un trattamento cognitivo-comportamentale specifico per le psicosi (CBTp) di 6-8 mesi oltre alla regolare somministrazione di farmaci antipsicotici (TAU), mentre gli altri 28 è stato somministrato il solo trattamento farmacologico (TAU). I due gruppi sono risultati omogenei nel corso della valutazione iniziale, relativamente ai parametri clinici e demografici e alle risposte neurali e comportamentali agli stimoli emotigeni (espressioni facciali neutre o minacciose) somministrati durante lo scanning in risonanza magnetica funzionale. I risultati finali hanno mostrato significative differenze tra i due gruppi sperimentali: a) miglioramento clinico nel gruppo sottoposto a trattamento CBTp + farmaci antipsicotici (TAU), con un mantenimento dei cambiamenti al follow-up (6-8 mesi dopo la fine del trattamento); b) il solo gruppo sottoposto a CBTp ha mostrato una ridotta attivazione della corteccia frontale, dell’insula, del talamo e della corteccia occipitale, in risposta agli stimoli percepiti come minacciosi e questa ipo-reattività si è mantenuta stabile anche al follow-up dopo 6-8 mesi; c) la riduzione di reattività corticale in queste aree alla presentazione di volti arrabbiati è risultata altamente correlata al miglioramento sintomatico riferito dai pazienti.
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Si tratta del primo studio pubblicato in ambito neuro scientifico che ha dimostrato gli effetti prodotti dalla terapia cognitivo-comportamentale per le psicosi (CBTp) sull’attività corticale: la CBTp abbinata ad una regolare terapia con antipsicotici sembra dunque in grado di attenuare la reattività corticale a stimoli emotigeni e costituisce un trattamento efficace nella riduzione dei sintomi perché promuove una migliore capacità di elaborare e interpretare gli stimoli minacciosi, facendo loro perdere il potenziale stressante.
Il dato clinico interessante è che il protocollo utilizzato dai ricercatori del King’s College London e validato in alcuni precedenti studi degli stessi autori (Kumari et al., 2010), costituisce uno dei pochi strumenti a disposizione di noi clinici per accostarsi alla cura delle psicosi, tutt’oggi considerate patologie destinate alla cronicizzazione e al progressivo isolamento. Lo stesso stigma che colpisce i pazienti affetti da psicosi, coinvolge spesso anche i clinici, le terapie e i protocolli ideati per la cura e il trattamento di queste patologie. Potrebbe essere proprio questo uno dei motivi della loro scarsa presenza nella letteratura scientifica e nei nostri ambulatori.
Kumari, V., Fannon, D., Peters, E.R., Ffytche, D.H., Sumich, A.L., Premkumar, P., Anilkumar, A.P., Andrew, C., Phillips, M.L., Williams, S.C.R., Kuipers, E. (2011). Neural changes following cognitive behaviour therapy for psychosis: a longitudinal study. Frontiers in Behavioural Neuroscience 4:4, 1-15.
Kumari, V., Antonova, E., Fannon, D., Peters, E.R., Ffytche, D.H., Premkumar, P., Raveendran, V., Andrew, C., Johns, L.C., McGuire, P.A., Williams, S.C.R., Kuipers, E. (2010). Beyond dopamine: functional MRI predictors of responsiveness to cognitive behaviour therapy for psychosis. Brain, 134, 2396–2407.
Bilinguismo e funzione esecutiva
– Rassegna Stampa –
Bambini bilingui figli di coppie biculturali. Un fenomeno sempre più frequente, che le scienze psicologiche sono chiamate ad indagare sotto diversi aspetti dallo sviluppo cognitivo e linguistico ai processi di appropriazione di modelli culturali differenti.
Uno studio condotto presso la York University of Toronto e in fase di pubblicazione sulla rivista Child Development si è occupato di determinare quali effetti cognitivi possano essere associati al bilinguismo. A tale scopo i ricercatori hanno coinvolto nello studio 100 bambini di 6 anni di pari livello socioeconomico, monolingui (inglesi) e bilingui (cino-inglesi, franco-inglesi e ispano-inglesi) utilizzando tre compiti per misurare lo sviluppo linguistico e un compito non verbale per valutare la funzione esecutiva.
Il gruppo dei bambini bilingue differiva al suo interno per similarità tra le due lingue apprese, background culturale, storia di immigrazione e lingua utilizzata a scuola; nonostante tale eterogeneità, il gruppo dei bambini bilingue presentava prestazioni simili al suo interno e significativamente superiori rispetto al gruppo dei monolingui nel compito non verbale di funzione esecutiva in cui si doveva alternare flessibilmente l’utilizzo di due regole di categorizzazione per classificare un insieme di figure. Invece per quanto riguarda le performance nei compiti di linguaggio verbale si avevano prestazioni migliori da parte dei bambini bilingui che presentavano più similarità tra le due lingue acquisite e una coerenza tra la lingua che utilizzavano a scuola e la lingua del task.
Pensando alla migliore funzione esecutiva dei bilingui rispetto ai monolingui bisogna però chiedersi se e come tale effetto sia da attribuire solo al bilinguismo oppure anche allo sviluppo di una mente biculturale che si appropria di modelli culturali differenti per cosi dire su un “doppio binario”. Lo studio non ha considerato questa variabile e in altre parole così facendo si rischia di sovrapporre teoricamente lingua e cultura. Chi ci dice che l’essere più flessibili e veloci in un compito di funzione esecutiva non sia in realtà da attribuire all’appropriazione mentale di più registri culturali– e non solo linguistici- e quindi di una mente più flessibile da parte dei bambini bilingui che sono il più delle volte inevitabilmente anche biculturali?
Tipi di coppie #1 – I Simbiotici (o gemelli paradisiaci di Jackson)
Introduzione
Nel guardare alle coppie e alla varietà delle configurazioni possibili, la classificazione proposta da Berrini e Cambiaso (2001), tiene particolarmente in considerazione tre dimensioni molto importanti:
1- Un tema considerato è quello della distanza interpersonale tra i partners: su questo piano della relazione si gioca la possibilità di riconoscersi come individui separati, di condividere nel rispetto delle reciproche differenze e di tollerare l’ambivalenza all’interno della relazione. Saranno possibili, a seconda dei casi, modalità di interazione più o meno cooperative e possibilità di scambio più o meno ampie.
2- Un altro tema è quello dell’uso della relazione di coppia allo scopo di colmare “vuoti” emotivi e bisogni non appagati nel rapporto con le figure significative dell’infanzia; un tentativo, che come abbiamo visto, spesso fallisce, esprimendosi con la cristallizzazione di modalità relazionali e l’assunzione di ruoli rigidi, disadattivi ai fini della crescita individuale e di coppia.
3- Ultimo, ma non meno importante, è il tema dello svincolo dalle rispettive famiglie di origine.
#1 – I simbiotici (o gemelli paradisiaci di Jackson)
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La caratteristica principale di una coppia di “simbiotici” è la reciproca dipendenza tra i partner e la scarsa definizione dei confini interpersonali, al punto che più che un incontro tra due individui si realizza la costruzione di un unico corpo psichico. Queste coppie non conoscono il litigio, la diversità e la contrapposizione di opinioni e desideri individuali. I due infatti, si comportano come se a prendere decisioni fosse sempre una persona sola; lo scambio è estremamente ridotto e così come le possibilità di dialogo, anche il potenziale di cambiamento e la creatività sono atrofizzati.
In queste coppie il meccanismo di reciproca proiezione di parti del sé si focalizza sugli aspetti di fragilità e inadeguatezza: ciò che viene proiettato sull’altro, infatti, è la possibilità di essere rassicurati e protetti, allo stesso tempo ciascuno riconosce nell’altro la propria insicurezza e inadeguatezza nei confronti del mondo esterno. I due partner sono come due bambini impauriti dal buio, si tranquillizzano a vicenda e, paradossalmente, l’insicurezza dell’uno è fonte di sicurezza per l’altro. Ognuno si sente sicuro di muoversi solo se accanto a sé cammina l’altro e se il ritmo e la velocità dei loro passi è uguale, nel percorrere un cammino comune e nella medesima direzione.
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Un’esasperazione della chiusura della coppia nei confronti di un mondo pauroso e pericoloso è colta da Jackson con la definizione di “predatori paranoici”, in cui l’intimità è appunto mantenuta a fronte di un mondo ostile.
L’assenza di diversità e confronto conduce anche all’appiattimento emotivo e a un impoverimento dell’intimità, anche sessuale: i simbiotici infatti hanno bisogno di non perdersi d’occhio ma allo stesso tempo non tollerano un eccessiva intimità. I bisogni infantili e fusionali di rassicurazione e protezione costante dal pericolo non permettono di accedere ad una dimensione relazionale più matura, nella quale è necessario saper reggere l’impatto emozionale di un’unione appassionata tra due individui separati: la vicinanza è avvertita con pericolo, come un’invasione, e non come una benefica regressione a cui abbandonarsi.
Questo tipo di coppie sono metodiche e ripetitive, non amano le sorprese, i viaggi, le distanze; di solito sono molto attaccati alla famiglia di origine e confinano la vita di coppia entro percorsi prevedibili. Ai figli trasmettono la fobia dell’intimità e dell’autonomia e questi ultimi possono sviluppare difficoltà al momento dello svincolo: unioni di questo tipo difficilmente vanno incontro a una crisi, che può però esprimersi nella generazione successiva.
Un buon esempio di questo tipo (esacerbato) di coppie è raccontato nel film “Il marito della parrucchiera” di Patrice Leconte. Anna Galiena e Jean Rochefort si costruiscono un mondo a parte, fatto di abitudini rassicuranti e privo di divergenze individuali, la minaccia di un’evoluzione del rapporto e di cambiamenti porta a un tragico epilogo con il suicidio della Galiena e l’impossibilità di Rochefort di accettarne l’evidenza.
Berrini R, Cambiaso G, (2001) Illusioni di coppia. Sto con te perché posso stare senza di te, Franco Angeli, Milano
Jackson, D. (1968). Mirages of Marriage. NY: W.W. Norton & Co.
Arteterapia: teoria e prassi di un nuovo approccio psicoterapeutico integrato – parte I
Di Roberto Pasanisi.
Accademia di Belle Arti “Fidia”; CISAT, Centro Italiano Studi Arte-Terapia
Teoria dell’Arteterapia
L’Arteterapia si è finora sviluppata sulla base di tre modelli incompiuti: come una tecnica essenzialmente riabilitativa o di sostegno rivolta principalmente agli psicotici o ai minorati per migliorare le capacità relazionali e di socializzazione dell’individuo affetto da patologie psichiatriche; come una sorta di laboratorio di pittura e scultura, attento a cogliere (ed eventualmente ad esprimere) le emozioni connesse alla pratica artistica; e infine come una psicoterapia che si avvaleva delle arti figurative a livello essenzialmente strumentale e secondario nell’àmbito di una tecnica più vasta ed articolata, con un approccio psichiatrico-farmacologico.
Essa è stata praticata non soltanto da psicoterapeuti, ma da esperti dei più svariati campi — musicisti, artisti, scrittori, drammaturghi, maestri di scuola — restando al di qua o andando al di là della psicoterapia stricto sensu — l’unica che qui ci interessi — praticata da uno psicoterapeuta, o meglio ancóra se specialista in Arteterapia. Essa è stata sostanzialmente priva sia di un impianto teorico compiutamente definito che la legittimasse scientificamente, sia di una qualsivoglia istituzionalizzazione che ne precisasse i cómpiti e gli obiettivi, ne chiarisse le caratteristiche precipue (anche rispetto alle altre scuole psicoterapeutiche) e ne stabilisse i limiti, fissando nel contempo una deontologia professionale.
Molti oggi sono infatti le scuole ed i corsi di scrittura creativa, i laboratori di pittura e scultura a fini terapeutici o riabilitativi, ed altre iniziative simili; come pure gli psicologi, gli psicoterapeuti e gli psichiatri che adoperano l’arte in forma per così dire ‘ancillare’, idest come una tecnica fra le altre nell’àmbito di una teoria e di una prassi diverse, che nulla hanno a che vedere con l’Arteterapia.
Qui invece si intende l’Arteterapia come una ‘teoria ed una prassi psicoterapeutica’ a tutti gli effetti ed autonoma, sviluppando questa disciplina come una scuola di psicoterapia tout court, curata non da scrittori o pittori o scultori o da psicologi di altre scuole, ma da specialisti in questo particolare tipo di psicoterapia: e se ne pongono i ‘fondamenti’ teoretici e pratici.
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Fissiamo in ‘ART’ la sigla abbreviativa della disciplina che qui vogliamo proporre sotto il nome di ‘Arteterapia’, intesa come una nuova scuola psicoterapeutica contrassegnata da tre caratteristiche fondamentali e sue specifiche: l’uso dell’arte e delle sue tecniche come ‘strumento terapeutico’; l’approccio integrato, ove opportuno, con il training autogeno (TA) nella sua formulazione classica; la costituzione eclettica, che le permetta di attingere, sia sul piano teorico che su quello propriamente terapeutico, a diverse altre scuole, segnatamente alla Psicoanalisi, alla Psicologia analitica, alla Psicologia della Gestalt ed all’Analisi Transazionale (AT). Ne consegue come rilevante corollario che l’Arteterapia così intesa si configura fra le cosiddette ‘psicologie del profondo’ e che integra ‘tecniche analitiche’ con ‘tecniche esperienziali’.
Il presupposto principale dal quale partiamo per considerare l’ART non come una ‘psicoterapia rieducativa’, con una valenza essenzialmente sociale e di recupero, ma come una ‘psicoterapia ricostruttiva di tipo psicodinamico’ è, in primis, la teoria elaborata da Freud riguardo alla funzione dell’artista: per il neurologo viennese la funzione fondamentale dell’artista è quella di mettere l’individuo in comunicazione con il suo Inconscio e di consentirgli di gustarne le fantasie «senza rimprovero e senza vergogna», liberando profonde tensioni della psiche.
L’arte quindi per Freud rappresenta uno dei mezzi più adeguati per tollerare l’esistenza; come una sfera posta tra Eros e Thanatos, rappresentante una soddisfazione del desiderio sostitutiva, non ossessiva né nevrotica: una sorta di passaggio, di via regia verso l’inconscio, come il sogno. Oltre al contributo di Freud, ci sembra opportuno, per attribuire all’arte una valenza terapeutica, far riferimento all’operazione, considerata da taluni scandalosa, di desacralizzazione dell’artista in quanto tale effettuata dalla Chasseguet-Smirgel: operando infatti una smitizzazione dell’artista, la studiosa contribuisce non poco a ravvicinarcelo, a stabilire un contatto, a riprendere un colloquio interrotto, o forse a iniziarlo in quanto miticamente fantasticato e mai realmente esistito. Ricordandoci che tutti condividiamo gli stessi meccanismi psichici, sia conflitti che angosce, è possibile stabilire una continuità tra il fruitore e l’artista, rendendo così reale la comunicazione, anche se difficile e fluttuante nelle sue misteriose e fantasmagoriche valenze simboliche e sovratemporali.
In questo senso si comprende come l’approccio psicoterapeutico ricostruttivo, e in particolare quello psicoanalitico, rappresenti uno degli strumenti più validi per ritrovare l’artista che è in noi, ovvero la nostra parte creativa, che è in grado di metterci in contatto con il nostro inconscio e che attraverso la produzione di opere creative lato sensu ci permette di analizzare le nostre angosce e i nostri conflitti interiori. Infatti ponendo l’artista, idest il creatore, in una posizione di pseudo-privilegio, in realtà lo chiudiamo in un’inaccessibile turris eburnea, e così facendo lo emarginiamo e lo alieniamo; ma al prezzo di emarginare e alienare da noi quella parte di noi stessi che è la dimensione estetica e creativa nella sua valenza catartica e sublimativa. La possibilità di dare all’altro una valenza terapeutica e di considerarci artisti potenziali — lato sensu, obviously: idest nel senso di ‘creatività’ — ci è offerta anche dal fatto che nell’arte contemporanea è l’artista stesso che infrange il proprio ruolo, smitizzando la propria persona e il proprio fare artistico, parzialmente annullando, in questo modo, la distanza dal fruitore d’arte e contravvenendo così a quell’immagine che noi gli attribuiamo.
È grazie proprio a questi presupposti teorici che è possibile costituire dei gruppi terapeutici in cui ognuno esprima la personale creatività per conoscere meglio il proprio mondo inconscio e per cercare, conoscere ed interpretare, con l’aiuto del terapeuta, le proprie problematiche.
Caterina Camporesi, Psicoanalisi, Creatività, Interpretazione, intervento al Convegno Psiche e Scrittura, a cura dell’associazione culturale “Sguardo e Sogno” e del Comune di Firenze, Firenze, 14/II/1998
Jeanine Chasseguet-Smirgel, Creatività e perversione, Milano, Raffaello Cortina Editore, 1987
Jeanine Chasseguet-Smirgel, Per una psicoanalisi dell’arte e della creatività, Milano, Raffaello Cortina Editore, 1989
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Marco Manzoni (a cura di), Creazione e mal-essere, Milano, Guerini e Associati, 1989
Joyce McDougall, Eros. Le deviazioni del desiderio, Milano, Raffaello Cortina Editore, 1997
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