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Otto marzo della forza e della prudenza

 

Otto Marzo della Forza e della Prudenza. - Immagine: © olly - Fotolia.com Premessa: Il diritto delle donne alla libertà

Quando ero giovane ho vissuto il periodo bello e terribile del femminismo, bello perché ha cambiato molte vite tra cui la nostra, terribile perché molti costi sono stati pagati per questo cambiamento. Ora è di nuovo l’8 marzo, per noi allora una giornata di non lavoro e di manifestazioni e riunioni e decisioni. Giornata allegra e dura. Si pensava che la forza acquisita delle donne avrebbe abolito o ridotto la violenza o in generale le incomprensioni, ma la strada oggi ci appare difficile.

L’onda lunga del cambiamento femminile ha investito anche gli uomini e non tutti hanno capito o saputo adattarsi a questa maggiore libertà e desiderio di autogestirsi la vita, delle donne. Abbiamo generato negli uomini sentimenti di paura, desiderio di controllo, rabbia, e forse a volte anche invidia. Li abbiamo fatti sentire meno essenziali, meno in dovere di proteggerci? Ma questo non può impedire alle donne di esplorare autonomamente e sentirsi libere di scegliere la propria vita.

 

Primo problema: Gli uomini. 

E ora dove andiamo? Il conflitto libanese e la folle impulsività dei maschi. - Immagine: © Les Films des Tournelles
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Questo otto marzo vorrei parlare del problema degli uomini che uccidono le donne. O che le feriscono, le minacciano. Degli uomini violenti. Più violenti di quanto erano prima? Più violenti perché le donne sono più libere? O semplicemente violenti come sono sempre stati, appoggiando la violenza alla forza fisica? La violenza può derivare dalla certezza del proprio dominio, nel patriarcato, o dalla minaccia a questo dominio, dalla sensazione che le cose cambino e che il proprio ruolo dominante non sia poi così scontato.

Tutti sappiamo che non tutti gli uomini sono violenti. E’ più facile che lo siano gli uomini che crescono in famiglie violente, o se assistono a violenza del padre verso la propria madre, o se si sentono particolarmente minacciati o in difficoltà anche in altre aree, come il lavoro. O se non avevano previsto la forza o l’indipendenza della propria compagna. O se vengono lasciati, magari per un altro.

Esistono segnali che ci possono mettere in guardia? Esistono, e qui vorremmo elencarne alcuni. Pensiamo che sia importante imparare a decodificare i segnali che indicano una propensione a comportarsi in modo violento sapendo che qualcuno scapperà sempre tra le maglie della prudenza e della osservazione preventiva.

  • I segnali di rigidità: La rigidità del modo di pensare, la difficoltà a cambiare idea e a tenere in conto delle opinioni altrui.
  • I segnali di paranoia: la diffidenza verso gli altri, la rigidità, la tendenza a sentirsi sempre minacciati, in difficoltà, traditi dagli altri.
  • I segnali di aggressività e violenza: la tendenza a rispondere in modo aggressivo o impulsivo se contraddetti. (“ma lui spacca solo il telefono cellulare, non se la prende con me!”).
  • La povertà mentale: la persona che si ha vicina non ha nessun altro, non sa stare vicino a nessuno e potrebbe non essere in grado di ricostruirsi una vita.
  • Una storia di maltrattamenti a donne. Che viene spiegata come: l’altra era matta, cattiva, non è vero che la picchiavo, è una diceria.

 

Secondo problema: Le donne.

Violenza sulle donne e dinamiche di vittimizzazione - Immagine: © olly - Fotolia.com
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Che fare? Si può denunciare, ma occorre che le denunce si facciano, e non è facile. (un misero 10% dei casi di violenza viene denunciato) e occorre che la società le forze dell’ordine e il sistema giudiziario sappiano rispondere in modo rapido e decisivo. Molte delle donne morte negli ultimi anni erano state minacciate e avevano denunciato e non si sono salvate. I centri antiviolenza esistono in molte regioni italiane, spesso sono malfinanziati dal pubblico e quasi sempre si sostengono con il volontariato. Un centro antiviolenza che abbia anche posti letto e assistenza 24 ore su 24 è un ausilio vero e concreto alle donne in emergenza che possono trovare un posto dove rifugiarsi. Spesso le donne non denunciano perché non sanno dove andare.

 

Terzo problema: la prudenza

Occorre parlare di prudenza come occorre parlare di paura e di coraggio nell’affrontare la paura di girare in bicicletta da sole la notte?

Le donne, l'ansia e la bicicletta. Immagine: © Ksym - Fotolia.com -
Articolo consigliato: Le donne, l'ansia e la bicicletta. (Lettera alla donna milanese che va in bicicletta)

Cosa vuol dire prudenza? (che ovviamente non servirà sempre ma forse eviterà qualche vittima, qualche stupro, qualche aggressione). La prudenza ha molte facce. Una faccia è diventare più capaci di difendersi se attaccate. Si possono fare corsi di autodifesa, pugilato, e altre arti marziali. Questo non è un punto trascurabile perché un’idea di maggiore competenza fisica cambia anche la propria autostima e la visione di sé. Occorre non dimenticare mai la disparità muscolare che c’è tra maschi e femmine!

Ma prudenza è anche un’attitudine mentale a prevedere i rischi: non andare a un ultimo chiarimento in un bosco da sole, non trascurare i segnali di gelosia, non trovarsi da sole per dirgli che lo lasciamo.

Comprendere che la risposta politica e sociale non basta da sola, ma che occorre la disciplina interiore di essere in grado di difendersi prevedendo le situazioni difficili, esercitando la propria conoscenza di chi abbiamo vicino, e il coraggio di vedersi in pericolo. La patologica assenza di paranoia di molte donne le mette, rischia di metterle, in situazioni rischiose.

Sapere chiedere aiuto senza sentirci deboli. Ma sentendoci nel giusto.

L’invito a esercitare prudenza non è un tentativo di spostare la responsabilità della prevenzione della violenza sulle vittime e siamo pienamente consapevoli del fatto che nessuna prudenza potrà mai salvare tutte le donne vittime di violenza. Ma è un invito forte a mantenersi salde e vigili. Si spera che questo atteggiamento divenga nel tempo sempre meno necessario.

 

Quarto problema: Gli uomini civili.

Occorre allearsi con la parte civile degli uomini che incontriamo. Gli uomini in movimento, gli uomini che stanno cambiando idea e che rifondano il futuro per se stessi, per le loro donne e per la società in cui vivono: Tra l’altro una società in cui siano migliori le relazioni interpersonali uomo-donna è una società che funziona meglio in generale e molto meglio economicamente. Troppi vantaggi per rinunciarci. 

E cito per concludere: dal blog “Il corpo delle donne”, un uomo parla agli altri uomini:

“la violenza e il femminicidio sono un mio problema, e rivelano l’incapacità della sessualità maschile di liberarsi dalla tentazione del dominio.” 

Questo 8 marzo festeggiamolo non solo come un gioco e non solo al ristorante con le amiche. Ricordiamoci della paura e della prudenza.

 

 

RIFERIMENTI: 

Il Controllo è il Problema, non la Soluzione.

 

Il Controllo è il Problema, non la Soluzione. - Immagine: © somenski - Fotolia.com “Control is the problem, not the solution” 

Così afferma Steven Hayes, psicoterapeuta contemporaneo americano e promotore della necessità di accettare che la normalità dell’esistenza umana è costituita anche di sofferenza (Hayes et al., 1999).

Molte persone cercano di prevenire ed eliminare la sofferenza attraverso diverse forme di controllo, talvolta applicate in modo rigido e assoluto.

L’obiettivo è quello di annullare ogni forma, o anche solo rischio, di sofferenza e raggiungere una condizione di assoluta sicurezza. Tale scopo si infrange innanzi a due realtà dell’esistenza umana:

(1) Niente può assicurare che l’uomo non soffrirà.

(2) La certezza assoluta è un mito irraggiungibile.

Fusione Pensiero Azione - Fotografia: © ktsdesign - Fotolia.com
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Per questa frustrante verità la tendenza a un controllo assoluto può essere un tentativo di cura deleterio e può sostenere diverse forme di sofferenza mentale (Sassaroli & Ruggiero, 2008). In tutte le sue forme (la ricerca di rassicurazioni, il rimuginio, la continua imposizione di governo sulle azioni altrui, la repressione dell’espressione delle emozioni ecc…) il controllo è una carta fallimentare da giocare. Per quanto possa offrire un apparente sicurezza, alla lunga incastra in una serie di obblighi e fatiche estremamente stressanti.

Innanzitutto non si possono evitare gli imprevisti (per definizione) e quindi le persone si trovano a consumare energie per avere in mano solo un illusione.

In seconda battuta, quella stessa illusione ha vita breve. Come posso verificare se il mio controllo è assoluto? Solo verificando ogni dubbio e quindi andando a riesumare proprio ciò che per prima cosa volevo eliminare: lo stato di minima incertezza. Il controllo che nasce per cancellare dubbi (sul valore personale oppure sull’occorrenza di eventi negativi dolorosi), trasforma l’individuo in un cacciatore di dubbi. In terzo luogo, tutte le strategie di controllo consumano energie. La quotidianità diviene la ruota di un criceto fatta di dubbio-ansia-controllo-leggero sollievo-dubbio su cui le persone continuano a muoversi senza vedere quante altre attività piacevoli dell’esistenza vengono sacrificate. Infine, noi che vediamo la ruota da fuori, sappiamo che anche abbandonando il controllo, gli esiti tanto temuti (e il dolore che li accompagna) non si verificano o non sono così terribili come vengono immaginati. Tuttavia non sempre si è disposti a sperimentarlo (Sassaroli et al., 2007).

Molto spesso la psicoterapia per trattare i disturbi d’ansia (ma non solo) è un percorso di graduale abbandono del controllo e di accettazione dell’incertezza.

 

 

BIBLIOGRAFIA:

  • Hayes, Strosahl & Wilson (1999). Acceptance and Commitment Therapy: An experiential approach to behaviour change. New York: Guildford Press
  • Sassaroli, Lorenzini & Ruggiero (2007). Psicoterapia Cognitiva dell’Ansia. Raffaello Cortina Editore.
  • Sassaroli & Ruggiero (2008). International Journal of Child and Adolescent Health, 2, 229-242

Psicoterapia cognitiva: le Dipendenze Patologiche e il lato oscuro del Desiderio

 

Psicoterapia cognitiva: le dipendenze patologiche e il lato oscuro del desiderio. - Immagine: © Andrea Danti - Fotolia.com Continuano gli studi del gruppo ricerca di Studi Cognitivi e della London South Bank University su nuovi modelli di psicoterapia cognitiva delle dipendenze patologiche. Nel 2011 gli studi si sono concentrati principalmente sul ruolo del pensiero desiderante nella genesi e nel mantenimento dell’esperienza di craving e dei comportamenti di abuso di alcool e di altre dipendenze patologiche.

 

Il pensiero desiderante è uno stile di elaborazione delle informazioni riguardanti oggetti e attività piacevoli che avviene a due livelli interagenti: (Caselli & Spada 2010)

  • Verbal Perseveration: pensieri ripetitivi e automotivanti circa il bisogno di ottenere l’oggetto o di svolgere l’attività (es: devo farlo al più presto, ho bisogno di un bicchiere, devo provare a usare quella macchinetta)
  • Imaginal Prefiguration: immagini mentali multisensoriali dell’oggetto o attività desiderata e del contesto in cui l’individuo lo può realizzare o lo ha realizzato in passato (es: immagino il sapore del fumo nella bocca, mi immagino tutto ciò che ho dentro al frigorifero).
Gioco d'Azzardo Patologico, la dipendenza invisibile. - Immagine: © Robbic - Fotolia.com
Articolo consigliato: Gioco d’Azzardo Patologico, la dipendenza invisibile.

Gli studi recenti hanno mostrato come questo stile di pensiero possa essere governato da alcuni scopi centrali: (1) ricercare uno stato di energia e di motivazione ad agire, (2) evitare di occupare la mente con pensieri negativi o preoccupazioni.

Tuttavia, da un punto di vista evolutivo, il pensiero desiderante nasce come strategia per pianificare il raggiungimento di obiettivi personali (es: pianificando le strategie da attuare) e per ritardare la gratificazione laddove l’obiettivo non possa essere raggiunto immediatamente. L’immaginazione infatti genera una sorta di gratificazione virtuale molto simile in termini fisiologici a quella ottenuta dal reale raggiungimento dell’oggetto desiderato. Tuttavia se non vi succede un diretto passaggio all’azione finalizzato al suo raggiungimento, l’individuo può restare bloccato in una condizione di desiderio insoddisfatto, dove l’attenzione continua a pendere dal pensiero desiderante al senso di deprivazione.

Con il passare dei minuti l’effetto del pensiero desiderante tende ad assuefarsi e rimane invece importante nella coscienza individuale la percezione della deprivazione poiché l’oggetto o l’attività desiderati sono continuamente pensati ma non raggiunti. In sintesi l’individuo che cognitivamente “desidera” gode di benefici motivanti e di distrazione nel breve periodo ma se non agisce la pianificazione mentale resta bloccato in una condizione di desiderio crescente che da un punto di vista tecnico viene definito “craving”.

Ricordiamo che il pensiero desiderante non è disfunzionale di per sé ma a seconda dell’utilizzo che se ne fa. È facile intuire come le conseguenze deleterie del pensiero desiderante vengano poi amplificate qualora emerga un conflitto tra scopi (es: desiderare di visitare dei siti pornografici mi aiuta a provare piacere e a staccare la mente ma non voglio farlo perché lo ritengo un comportamento sbagliato). In queste condizioni quello che l’individuo si induce è esattamente una condizione di blocco nello stato del desiderio e del craving di cui sopra.

Psicopedia - Immagine: © 2011-2012 State of Mind. Riproduzione riservata
Leggi gli articoli che trattano dell’argomento: Pensiero Desiderante.

Attualmente già diversi studi sostengono queste ipotesi teoriche (Kavanagh et al., 2005; Caselli & Spada, 2011) per quanto il campo di ricerca si trovi nel suo stadio preliminare. Tuttavia i risultati delle ricerche recenti mostrano come il pensiero desiderante possa discriminare in modo significativo e per certi aspetti superiore ad altre variabili psicopatologiche il livello di dipendenza patologica in diversi disturbi come dipendenza da alcool, dipendenza da nicotina e gioco d’azzardo patologico (Caselli, Ferla, Mezzaluna, Rovetto & Spada, 2012; Caselli, Nikcevic, Fiore, Mezzaluna & Spada, 2012). Da qui la necessità di focalizzare tecniche di psicoterapia cognitiva che si occupino dei processi cognitivi coinvolti nell’esperienza del desiderio.

Quindi attenzione al modo in cui usiamo la nostra capacità di desiderare qualcosa.

 

 

BIBLIOGRAFIA:

Ken, il fidanzato perfetto. Ecco perchè non lo comprerei alle mie figlie!

Ken, il fidanzato perfetto. Ecco perché non lo comprerei mai alle mie figlie. - Immagine: © 2012 Costanza Prinetti
Ken, fidanzato in saldo. © 2012 Costanza Prinetti

L’avrete vista tutti la pubblicità di Ken TVB, specialmente se avete figli che monopolizzano la televisione in orari da cartoni animati. Ricordo ancora la mia prima volta e il mio primo pensiero: come vorrei che anche mio marito avesse un pulsante che gli fa dire ciò che voglio, anche se preferirei di gran lunga uno che gli facesse fare ciò che voglio. Ma ahimè quando mi sono sposata ho accettato di condividere la mia esistenza con un individuo che osa avere stati mentali indipendenti dai miei, che spesso lo conducono perfino a comportamenti che non condivido. Ma forse le mie figlie si salveranno da questo nefasto destino, forse avranno la fortuna di Barbie che ha un fidanzato che ripete esattamente ciò che vuole e io diventerò l’adorabile suocera di un bellissimo zerbino lobotomizzato.

La Trama del Matrimonio: Recensione. -
Articolo consigliato: La Trama del Matrimonio, di Jeffrey Eugenides. Recensione

Scherzi a parte, non è mia attitudine di madre prendere troppo sul serio i giochi che si trovano sul mercato, ho sempre concesso tutto perchè non ho voluto frenare la fantasia delle mie bambine e perchè nel gioco c’è spazio per sperimentare qualsiasi cosa: va bene essere principesse con tanto di scarpine col tacco, va bene anche essere pirati con la pistola, ma il Ken TVB non lo compro! In realtà nemmeno me lo hanno chiesto dal momento che hanno un’età in cui non hanno ancora compreso il valore aggiunto della presenza di un uomo accanto a Barbie, ma se me lo chiedessero sarei decisa nell’imporre loro un secco NO e se volessero delle spiegazioni io sono già pronta per fornirle, con parole semplici, più o meno come quelle che seguono.

Registrare messaggi d’amore e farli ripetere al fidanzato “perfetto” con la sua voce significa innanzitutto non riconoscere all’altro un’esistenza mentale indipendente dalla nostra, tanto da poter proiettare i nostri contenuti mentali all’interno della mente altrui che, senza nessuna possibilità di rielaborazione ce li risputa esattamente così come glieli abbiamo inculcati.

Non sto dicendo che la mente dei nostri compagni non possa essere permeabile al nostro desiderio di essere venerate, ma lo può fare solo con il contributo delle proprie credenze e in considerazione dei propri scopi. E allora sarebbe stato più verosimile se su invito della bambina a ripetere “sei bellissima” Ken avesse ripetuto “hai un bel culo” ma a quanto pare il fidanzato perfetto non può permettersi uscite dal campo mentale dell’amata.

Ecco perchè non vorrei che le mie figlie giocassero con un bambacciano come questo, perchè vorrei imparassero a riconoscere e rispettare l’indipendenza mentale dell’altro. Una mente che può essere indagata ma la cui opacità va accettata, anzi accolta come uno degli elementi più affascinanti dell’incontro con un altro individuo.

Vincere…scatena l’aggressività

– Rassegna Stampa – 

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze PsicologicheUn gruppo di ricercatori della Ohio State University ha condotto il primo studio sperimentale a sostegno della tesi che uscire vincenti da una competizione renda aggressivi nei confronti dell’avversario che ha perso.

Nel primo esperimento a un gruppo di studenti del liceo veniva chiesto di svolgere individualmente due compiti di riconoscimento durante i quali sarebbero stati in competizione con un altro studente. La competizione era in realtà solo simulata, informando costantemente ciascuno studente della sua migliore o minore performance rispetto al compagno. Il gruppo veniva quindi arbitrariamente diviso dai ricercatori in vincenti e perdenti. Nella fase successiva veniva misurata l’aggressività verso l’avversario: a ciascuno studente veniva chiesto di gareggiare in velocità contro lo stesso compagno della prova precedente, il compito consisteva nel premere un pulsante e chi avesse registrato una peggior performance avrebbe ascoltato un suono rumoroso attraverso delle cuffie. Il vincitore della competizione precedente poteva stabilire l’intensità e la durata del rumore ascoltato con le cuffie dal compagno perdente. I risultati, pubblicati sulla rivista Social Psychological and Personality Science, indicano chiaramente che i vincitori della prima prova infieriscono sui loro avversari perdenti con suoni più rumorosi e prolungati di quanto non facciano questi ultimi.

Ma è chi vince a diventare più aggressivo verso l’avversario o è chi perde a essere meno aggressivo della media? I ricercatori hanno risposto a questa domanda costruendo una terza prova sperimentale in cui, ai due gruppi dei perdenti e dei vincenti, veniva aggiunto un gruppo di controllo che per un errore del computer, così gli veniva detto, non veniva a conoscenza dei risultati della performance durante l’esecuzione del compito. Anche in questo caso seguiva una seconda prova per testare il livello di aggressività di ciascun partecipante. I risultati dell’esperimento precedente vengono replicati, inoltre è stato possibile osservare come il livello di aggressività degli studenti perdenti fosse paragonabile a quello del gruppo di controllo e quindi per nulla inferiore alla media, confermando che è la posizione di vincente a rendere particolarmente aggressivi. Insomma dopo avere perso meglio darsi alla fuga!

 

 

BIBLIOGRAFIA:  

Specchio Specchio delle mie brame, sei tu il peggior nemico del mio Reame?

 

Sulle derive pericolose della Dismorfofobia.  

Specchio specchio delle mie brame.... Le derive della dismorfofobia. - Immagine: © Danomyte - Fotolia.com A quanti è capitato guardandosi allo specchio di puntare sempre alla fronte un po’ troppo spaziosa, a quei capelli che sono troppo sottili, oppure semplicemente sono troppi o troppo pochi, a quel naso a patata, alle celeberrime colutte de chevals, incubo di tante donne, alla pancetta un po’ sporgente e a chi più ne ha più ne metta? In tanti condividono queste “fisse” su parti del corpo che proprio non vanno giù…un “callo” al quale taluni han fatto l’abitudine e hanno anche imparato a conviverci, mentre per altri una vera e propria spada di Damocle che ogni giorno si fa sempre più incombente. Il cruccio verso una o più parti del corpo a noi poco gradite è assai diffuso, tuttavia in alcuni casi il disagio è talmente significativo che parlare di semplice preoccupazione è assai riduttivo.

 

Lo Specchio Riflessivo (Psicoterapia e Video Feedback) - Immagine: © skvoor - Fotolia.com -
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Quando si parla di dismorfismo corporeo (o dismorfofobia) si fa riferimento a quei casi in cui una persona si preoccupa e si vergogna di una parte del corpo anche se questa rientra nei “canoni della normalità”. La sua attenzione è focalizzata sul difetto, tanto che questo può diventare una vera e propria ossessione, un pensiero dominante che può accompagnare la persona per tutta la giornata. Le stime relative alla diffusione di questo disturbo sono ancora da accertarsi, tuttavia pare che in Italia più di 500.000 persone soffrano di dismorfismo corporeo, in una bassissima percentuale viene fatta una diagnosi adeguata e una percentuale ancora inferiore segue un trattamento adatto.

 

Disturbi Alimentari - Alpbach Bologna 2011 - Immagine: © waterlilly - Fotolia.com -
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Frequente nel sesso femminile quanto in quello maschile l’esordio si ha nell’età adolescenziale, tuttavia i primi sintomi possono menifestarsi molto più in là nel tempo, questo andamento graduale è legato anche alla difficoltà di parlare di queste “fissazioni” che si fanno ogni giorno sempre più pressanti e opprimenti. Molto spesso, quando si decide di confidarsi con l’altro e parlare delle proprie preoccupazioni, queste vengono sminuite perché i difetti e le deformità, dall’esterno, non sono viste come tali, ciò rende doppiamente difficile comprendere il disagio legato a questi pensieri ripetuti e intrusivi. Guardandosi allo specchio la propria attenzione è attirata per lo più da quelle imperferzioni relative al volto che vanno dai capelli radi, all’acne più o meno accentuato, alle rughe, alle cicatrici più o meno evidenti, ma non solo, anche il colorito della carnagione rappresenta un possibile problema così come la peluria presente sul viso. Dimensione e forma di naso, occhi, sopracciglia, orecchie, labbra, mento e testa ma anche di fondoschiena e addome e di altre parti del corpo più nascoste come i genitali e il seno sono fonte di preoccupazione.

L’immagine riflesssa allo specchio altro non è che una visione distorta del proprio aspetto fisico, visione guidata da una ossessiva preoccupazione della propria esteriorità. È ripetuto ormai in ogni dove l’importanza che la bellezza riveste nella nostra società, immagini di avvenenti corpi che circondano la nostra vita quotidiana non aiutano di certo ad affrontare serenamente la tanto amata superficie riflettente. Ciò che va sottolineato è che di fronte allo specchio, colui che soffre di dismorfofobia, non ha scampo, non c’è possibilità di paragone con nessun modello di beltà, perché la bellezza non è propria di quel riflesso, lo sono solo e soltanto i difetti giorno dopo giorno. E così ci si appresta ad andare a scuola, al lavoro, a far la spesa ad uscire con gli amici, sempre in compagnia dell’immagine di un “orrendo mostro ” fino a quando questa non si fa talmente pressante e orrifica da impedire di fare tutto ciò. La vergogna provata può esser talmente intensa da portare all’evitamento di qualsivoglia situazione sociale, si possono sviluppare delle vere e proprie compulsioni che hanno lo scopo di monitorare il difetto “24 ore su 24”, talvolta la cura del proprio aspetto fisico, l’utilizzo di creme, la depilazione, il pettinarsi, l’eliminazione di brufoli e punti neri, può occupare buona parte della giornata tanto da risultare invalidante.

"Gelosi tecno-patologici" - Immagine: © 2012 Costanza Prinetti -
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Va ricordato inoltre che insieme all’irascibilità e alla richiesta di continue conferme e rassicurazioni sul proprio aspetto, può comparire anche un forte stato depressivo dal quale, nei casi più gravi non vengono escluse le idee suicidarie. Pertanto dietro ad ossessioni, che possono ricordare le preoccupazioni che ognuno di noi ha nei confronti del proprio aspetto fisico, si nasconde un mondo di idee invasive costanti e persistenti, fonte di grande sofferenza, e dato l’elevato rischio che il disturbo diventi cronico và da sé l’importanza di riconoscerle ed affrontarle adeguatamente. Pensare al tempo, al tempo usato per fomentare le proprie preoccupazioni, tempo sprecato davanti ad uno specchio ad ispezionare una realtà che reale non è, tempo sprecato a coprire uno specchio perché “lui è il peggior nemico”, tempo buttato via, perso e mai più ritrovato. Ne è valsa la pena? Se siete pronti, ve lo chiederete.

 

 

BIBLIOGRAFIA: 

  • American Psychiatric Association. Diagnostic and Statisticai Manual of Mental Disorders. 4th ed. Washington, DC: American Psychiatric Association, 1995.

Disturbo di dismorfismo corporeo o Dismorfofobia

 

Psicopedia - Immagine: © 2011-2012 State of Mind. Riproduzione riservataLa Dismorfofobia identifica una condizione in cui una persona mostra preoccupazione per un difetto fisico che può essere presunto o reale, in quest’ultimo caso l’importanza data al difetto è di gran lunga eccessiva. Le lamentele possono riguardare qualsiasi parte del corpo, le più frequenti sono:

  • pelle
  • peli e capelli
  • naso e occhi
  • gambe e ginocchia
  • mammelle e capezzoli
  • pancia, labbra, struttura corporea e volto
  • organi genitali, guance, denti ed orecchie
  • mani, dita, braccia e gomiti
  • natiche e piedi
  • spalle, collo e sopracciglia 

La persona può preoccuparsi di un unico difetto fisico o riportare preoccupazione per più parti del corpo contemporaneamente. L’esordio può avvenire fra i 10 e i 20 anni, è solitamente graduale e può diventare cronico se non trattato. Lo stato di disagio provato può essere profondo ed intenso, associato a grandi difficoltà nel controllare le preoccupazioni per il difetto, tanto che i pensieri relativi possono occupare gran parte della giornata. In questa condizione di forte disagio spesso il funzionamento sociale della persona risulta compromesso in tutte o quasi le sfere della sua vita.

 

 

BIBLIOGRAFIA: 

  • American Psychiatric Assaciation. Diagnostic and Statisticai Manual of Mental Disorders. 4th ed. Washington, DC: American Psychiatric Association, 1995.

Le Metafore Psicologiche nei Cantautori Italiani

 

Tu prova ad avere un mondo nel cuore e non riesci a esprimerlo con le parole.
Fabrizio de Andrè, Un matto, 1971

 

Le Metafore Psicologiche dei Cantautori Italiani. - Immagine: © nmarques74 - Fotolia.com Il cantautore è colui che scrive canzoni e le canta. La parola contiene il termine autore, che deriva dal verbo latino augeo, che significa accrescere, aumentare. L’autore infatti, con la propria opera accresce la realtà. L’Italia vanta una ricca e importante tradizione cantautorale, nata tra gli anni sessanta e settanta e che ancora oggi continua. Sui testi dei cantautori si potrebbero scrivere trattati interi (alcuni ne sono stati scritti), ma qui vorrei concentrarmi sulle metafore che caratterizzano le canzoni d’autore, come del resto le sedute di psicoterapia.

L’uso delle metafore in letteratura si riferisce alla fusione di due o più immagini o idee allo scopo di creare una nuova esperienza, un nuovo ordine e significato. La metafora è una trasposizione simbolica di immagini, che consiste nell’utilizzo di un’immagine che ne rappresenta un’altra.

Musica & Terapia: "La prossima volta porti la chitarra". - Immagine: © RA Studio - Fotolia.com
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In ambito psicologico Gregory Bateson (1972) sottolineava come l’individuo sano di mente, si distinguesse dall’individuo psicotico, per la capacità di ragionare per metafore e di pensare in termini di “come se”. Secondo la teoria della metafora concettuale, la metafora non è solo un elemento di estetica del linguaggio, ma è un modo di organizzare il nostro mondo (Lakoff e Johnson, 2004), un modo di portare “a terra” concetti astratti emozioni, desideri, pensieri.

La metafora, utilizzata dal paziente o dal terapeuta, è considerata di grande importanza in ambito psicoterapico e viene studiata nell’analisi dei trascritti delle sedute di diverso orientamento. L’uso delle metafore rappresenta ad esempio uno degli elementi fondamentali del cosiddetto “modello conversazionale” della psicoterapia interpersonale psicodinamica (Hobson, 1985).

La saggezza del Rock' n' roll. - Immagine: © Isaxar - Fotolia.com
Articolo consigliato: La saggezza del Rock' n' roll. (Il mio psicoterapeuta suona il Rock #2)

Questo modello considera la metafora come una strada che guida verso la rappresentazione del mondo interno, verso la dimensione emotiva. Hobson in Forms of feeling sottolinea come sia importante in terapia “stare con” l’esperienza immediata, pronti a ricevere le immagini che emergono, in una modalità che l’autore definisce “attitudine simbolica”. La metafora è comunemente usata dai terapeuti per fornire vitalità ad un’idea, per amplificare la comprensione di un’esperienza o di un concetto, e per approfondire il livello di scambio emotivo tra il paziente e il terapeuta. Ogni volta sia possibile, il terapeuta dovrebbe cogliere le metafore importanti utilizzate dal paziente ed aiutare l’esplorazione e l’amplificazione dello stato d’animo correlato.

Utilizzano molte metafore soprattutto i cantautori più visionari come Francesco De Gregori, che si è ispirato soprattutto all’inizio al maestro americano Bob Dylan, o come Vinicio Capossela. Alcune metafore contenute nelle canzoni possono trovare uno spazio e un senso nel lavoro psicoterapico. Vediamone alcune.

“Nino non aver paura di sbagliare un calcio di rigore, non è mica da questi particolari che si giudica un giocatore, un giocatore lo vedi dal coraggio, dall’altruismo e dalla fantasia”

Ritornello indimenticabile de La leva calcistica della classe 1968 (1980) di Francesco De Gregari (come dicevo prima grande utilizzatore di metafore, anche più oscure di questa), che rappresenta la vita e le sue sfide con una metafora calcistica.

Il mio Psicoterapeuta suona il Rock! - Immagine: © Isaxar - Fotolia.com -
Articolo consigliato: Il mio Psicoterapeuta suona il Rock!

E’ inutile sottolineare quanto il calcio accenda la passione di milioni di italiani e possa rappresentare talvolta anche un argomento che entra nel setting psicoterapico per favorire la comunicazione, soprattutto con pazienti dall’affettività coartata. In questa metafora c’è una risposta a quell’attitudine di autorimprovero e di autocolpevolizzazione di fronte all’errore che caratterizza le persone che presentano schemi conoscitivi basati sul dovere-valore (Cionini, 1991). Quando prevale questo schema si costruisce il proprio sé come persona di valore solo nella misura in cui vengano raggiunti alti standard di prestazione. La metafora è un invito a non sentirsi amabili solo quando si dimostra di valore ottenendo un risultato (segnare il rigore), ma anche quando si gioca “bene”, con coraggio, fantasia e altruismo. Rimanendo in ambito calcistico è opportuno citare la canzone-metafora di Luciano Ligabue Una vita da mediano, una sorta di elogio del gregario, non dotato dei talenti del fuoriclasse, ma che con costanza e abnegazione resta “…lì sempre lì, lì nel mezzo…” fin che ce la fa. Anche il setting psicoterapico può essere rappresentato come un campo di allenamento per affrontare la vita, dove il gregario e l’allenatore lavorano duro con l’obiettivo della guarigione, che è un po’come vincere i Mondiali.

“Ho licenziato Dio, gettato via un amore, per costruirmi il vuoto nell’anima e nel cuore”

Psicantria - Copertina disco -
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E’ l’incipit perfetto del Cantico dei drogati (1968) di Fabrizio de Andrè che introduce il tema del vuoto, che ricordiamo è incluso tra i criteri diagnostici del DSM-IV per il disturbo di personalità borderline (“sentimenti cronici di vuoto”). Faber mette in luce come il tossicodipendente elimini dalla propria vita i valori e gli affetti per creare un vuoto in grado di essere colmato da un’unica cosa: la sostanza. Nella pratica clinica con i cosiddetti pazienti “doppia diagnosi”, affetti da un disturbo psichiatrico e dall’abuso o dipendenza da sostanze è frequentissimo imbattersi in soggetti che soddisfino i criteri per il disturbo di personalità borderline, per i quali la sostanza può rappresentare il riempitivo del vuoto, in quella che è stata definita una sorta di autocura (Khantzian EJ, 1985). Successivamente nel testo Faber accenna al problema dei limiti, affrontato ampliamente nella terapia dialettico comportamentale per i pazienti borderline da Marsha Linhean (1993), usando altre preziose metafore “Mi citeran di monito, a chi crede sia bello, giocherellare a palla, con il proprio cervello. Cercando di lanciarlo oltre il confine stabilito, che qualcuno ha tracciato ai bordi dell’infinito”.

“Ma misi me per l’alto mare aperto, oltre il recinto della ragione, oltre le colonne che reggono il cielo…”

Musica didattica metacognitiva - © Tommi - Fotolia.com
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Recita la canzone Nostos (2011) di Vinicio Capossela, che parla del viaggio di Ulisse. L’avventura di Odisseo “oltre il recinto della ragione” può rappresentare metaforicamente anche un viaggio interno nel mare sconosciuto della propria mente e della propria immaginazione, ovvero un viaggio alla scoperta di sé. Ulisse era un viaggiatore solitario, mentre nella psicoterapia il viaggio si fa in due. Restando sempre in acqua possiamo ricordare la canzone La linea d’ombra (1997) di Jovanotti che dice “Mi offrono un incarico di responsabilità, portare questa nave verso una rotta che nessuno sa”. La canzone è ispirata all’omonimo romanzo di Joseph Conrad che tratta il tema del passaggio dall’adolescenza all’età adulta.

“Stringimi forte, che nessuna notte è infinita”

Frase contenuta nel brano I migliori anni della nostra vita (1995) ci suggerisce come anche i dolori più intensi possono passare con il tempo e trasmettere quella speranza di cui c’è sempre bisogno quando si parla di sofferenza mentale.

“Mi sveglio e piove col sole”

Canta Massimo Bubola nella canzone Piove col sole (2002) descrivendo uno stato d’animo misto, in cui coesistono elementi contrapposti che caratterizzano l’ambivalenza, che possiamo trovare ad esempio come “vincolo ambivalente” nell’organizzazione ossessiva di personalità dove il comportamento genitoriale è sorretto da due esplicazioni antagonistiche (Cionini, 1991).

 

 

BIBLIOGRAFIA: 

  • Linhean M. Trattamento cognitivo comportamentale del disturbo borderline. Il modello dialettico. Raffaello Cortina, 1993.
  • Hobson, R.F. (1985). Forms of feeling: the heart of psychotherapy. London: Tavistock Publications
  • Lakhoff G., Johnson M. Metafora e vita quotidiana, Bompiani, 2004
  • Brewer, M. B., (1991). The social self: On being the same and different at the same time. Personality and Social Psychology Bulletin, 17, 475-482.
  • Bateson G. Verso un’ecologia della mente. Adelphi, 1977
  • Cionini L. Psicoterapia cognitiva. La Nuova Italia Scientifica, 1991
  • Khantzian EJ. The self-medication hypothesis of addictive disorders: focus on heroine and cocaine dependence, American Journal of Psychiatry,142, 1985.

L’importanza del pointing per i bambini in età prescolare.

– Rassegna Stampa – 

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze PsicologicheAlcuni gesti sono utilizzati per comunicare su un piano cooperativo e rivestono un significato particolarmente importante nei contesti di insegnamento e apprendimento in cui i bambini si aspettano che gli adulti siano ben informati e pronti a condividere ciò che sanno con loro. Il pointing, cioè l’indicare con il dito qualcosa invitando l’interlocutore a condividere l’attenzione, sembra essere un gesto particolarmente significativo per i bambini in età scolare.

Carolyn Palmquist e Vikram K. Jaswal della University of Virginia hanno scoperto che è possibile indurre in errore bambini in età prescolare semplicemente usando il gesto di indicare: l’esperimento effettuato consisteva nel mostrare ai bambini un filmato con due donne, tre tazze e una pallina; una delle due donne nascondeva la pallina dentro una tazza mentre l’altra si copriva il viso per non vedere; i bambini invece potevano vedere che la donna nascondeva la pallina, ma non in quale tazza. Seguivano tre diversi epiloghi: le due donne rimangono sedute con le mani in grembo, oppure entrambe prendono una tazza in mano o entrambe indicano una tazza. Ai bambini veniva quindi chiesto quale donna sapesse dove si trovava la pallina. Quando le due donne prendono una tazza o stanno con le mani in grembo i bambini hanno hanno dato la risposta corretta tre volte su quattro, mentre quando le due donne fanno il gesto di indicare i bambini rispondono correttamente la metà delle volte, indicando statisticamente che viene effettuata una scelta casuale.

Questi risultati indicano che il gesto di indicare è per i bambini così significativo da indurli a considerare l’informazione così ottenuta più importante di quella già in loro possesso, anche quando questa li induce in errore.

 

 

BIBLIOGRAFIA: 

I danni fisiologici del narcisismo: colpisce solo gli uomini?

 

I danni fisiologici del narcisismo: colpisce solo gli uomini? - Immagine: © auremar - Fotolia.com Ancora una volta si parla di narcisismo, tratto di personalità caratterizzato da grandiosità, da un tronfio senso di auto-importanza, e sovrastima di unicità. Le persone affette da questo disturbo di personalità sono costantemente alla ricerca di stimoli, provenienti dall’ambiente esterno, che possano tenere alto il proprio senso di sé.

Non sorprende, quindi, che il narcisismo sia associato ad una serie di problemi interpersonali. Il narcisista induce nell’altro una prima impressione positiva che, nel lungo periodo, cede il posto a sensazioni negative. D’altro canto nelle relazioni romantiche, queste persone tendono ad accerchiarsi di partners che possano tenere alta la propria autostima, affannandosi eccessivamente per soddisfare ogni loro ordine. Di conseguenza, risultano spesso poco empatici, estremamente criticisti, ostili e tendenzialmente aggressivi verso coloro che fungono da ostacolo al loro affermarsi.

Narcisismo e Leadership: gli svantaggi delle apparenze. Immagine: © 2011-2012 Costanza Prinetti
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Nonostante questi aspetti negativi interpersonali, esistono anche notevoli aspetti positivi. Ad esempio, i narcisisti che mostrano alti livelli di autostima hanno bassi livelli di depressione, ansia e solitudine. Essi tendono, inoltre, a segnalare più felicità e benessere soggettivo rispetto a coloro che sono meno narcisi. Malgrado questa coltre di ferro apparente, i narcisiti sono molto fragili e possiedono un elevato senso di inferiorità e di inutilità. Per far fronte a questi sentimenti di inferiorità, i narcisisti utilizzano strategie di difesa nei confronti di coloro che fungono da minaccia, reale o presunta, alla autostima. Questo costante combattere con provocazioni esterne, porta queste persone a mettere in atto delle strategie di coping difensive e repressive, che portano ad una maggiore reattività cardiovascolare, ad elevato stress, pressione sanguigna più alta, e peggiori esiti a malattie cardiovascolari, di cui, i narcisisti, non sono affatto consapevoli.

Dato che il narcisismo è associato a strategie difensive, e la difesa ha conseguenze fisiologiche, ne deriva che i narcisisti possono avere sistemi fisici altamente reattivi, e tutto ciò può portare ad iperattivazione cronica del sistema fisiologico in risposta allo stress, che a lungo termine potrebbe indebolire le difese naturali dell’organismo. La reattività cardiovascolare associata al mantenimento di una visione positiva di se stessi, attiva, di consegenza, l’asse ipotalamo- ipofisi-surreni, con relativa secrezione di cortisolo.

Un recente studio dimostra che gli uomini con punteggi elevati al narcisismo, hanno maggiori aumenti di cortisolo dopo situazioni di stress, cosa che non si verifica in coloro che non hanno tratti narcisistici. Inoltre, gli uomini presentano di default un’elevata concentrazione basale di cortisolo, rispetto alle donne. Quindi, è possibile che i narcisisti maschi abbiano una maggiore reattività cardiovascolare, con evidenti conseguenze per la loro salute.

L’insostenibile pesantezza dei secondi. Narcisismo, ossessioni e un pianista irraggiungibile
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Questi dati non sono stati confermati su narcisisti di sesso femminile, in cui l’attivazione cronica del cortisolo può portare a problemi diversi, quali soppressione del funzionamento del sistema immunitario.
Come mai si rileva questa netta differenza di genere?

Forse perché le donne hanno un ruolo sociale diverso rispetto agli uomini, che in qualche modo devono comprovare la loro dominanza sociale, a conferma della teoria narcisistica. Forse le narcisiste femmina usano il loro ruolo per vantaggi personali, allo scopo di ottenere risorse sociali e finanziarie indirettamente. Si tratta di un’ipotesi da testare, al fine di capire perché il narcisismo sembra essere più nocivo per gli uomini che per le donne.

 

 

BIBLIOGRAFIA: 

Malattia di Parkinson e Memoria Prospettica: l’efficacia farmacologica sul deficit cognitivo.

Alice Mannarino. 

Malattia di Parkinson e Memoria Prospettica: l’Efficacia Farmacologica sul Deficit Cognitivo© V. Yakobchuk - Fotolia.com La memoria prospettica fa riferimento ai processi e alle abilità implicate nel ricordo di intenzioni che devono essere realizzate nel futuro (Meacham e Sincer, 1977). Ricordarsi di partecipare ad una riunione, di comprare le batterie per una sveglia, di seguire una trasmissione televisiva alla nove di sera, di fare una telefonata tra venti minuti sono tutti esempi di compiti di memoria prospettica. Si tratta di un’abilità molto importante nel garantire un buon livello di funzionamento cognitivo quotidiano.

Un eventuale disturbo della memoria prospettica si manifesta generalmente con difficoltà nel seguire un progetto, un piano di trattamento, o semplicemente, non rispettando un appuntamento. Per quanto riguarda i disturbi di memoria prospettica nella malattia di Parkinson, un numero sempre maggiore di studi sembra evidenziare un deficit di memoria prospettica in soggetti affetti da malattia di Parkinson.

Cellule Staminali: nuovo passo avanti, restaurando telomeri.- Immagine:  © Elena Pankova - Fotolia.com
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Un buon funzionamento prospettico dipende soprattutto dall’integrità delle aree cerebrali prefrontali; allo stesso tempo diversi studi hanno messo in evidenza la presenza in soggetti affetti da malattia di Parkinson di difficoltà cognitive riguardanti soprattutto test che investigano l’integrità funzionale dei circuiti fronto-striatali. In particolare, gli studi riportano peggioramenti nelle abilità di shifting, nei processi di working memory e nella pianificazione, tutte funzioni strettamente correlate con le abilità di memoria prospettica.

Negli studi attualmente disponibili, sono stati generalmente utilizzati paradigmi sperimentali in cui ai partecipanti veniva chiesto di compiere delle azioni dopo un certo intervallo di tempo, ovvero al verificarsi di un evento specifico. Nell’intervallo di tempo che intercorre tra le istruzioni date e il momento in cui è necessario compiere le azioni richieste, i soggetti sono impegnati nello svolgimento di compiti di natura attentiva. Nel primo di questi studi Katai et al. (2003) hanno confrontato la prestazione di un gruppo di pazienti con malattia di Parkinson senza demenza con quella di un gruppo di soggetti sani. I risultati mettono in evidenza che i pazienti con il Parkinson hanno una riduzione della capacità di attivarsi spontaneamente al fine di eseguire le azioni prestabilite nel compito di memoria prospettica. Gli autori non hanno trovato, invece, differenze significative tra i i due gruppi nella componente di memoria retrospettiva del compito.

Un altro studio recente è quello di Costa e al. (2008). In particolare, ad un gruppo diverso di 20 pazienti con Parkinson veniva chiesto di compiere tre azioni tra loro non correlate dopo 20 minuti (condizione time-based) o al suono di un timer (condizione event-based). I pazienti sono stati testati in una condizione off (dopo effetto della terapia farmacologica) e una condizione on (subito dopo la somministrazione in acuto di levodopa). I risultati documentano un significativo miglioramento dell’accuratezza nella componente prospettica del compito, dopo somministrazione del farmaco, tanto da rendere i pazienti non più differenziabili dai soggetti di controllo.

Nel sintetizzare i dati esposti, emerge chiaramente che la memoria prospettica è deficitaria nei pazienti con Parkinson e il deficit osservato coinvolge maggiormente la capacità di attivazione spontanea, dunque la componente propriamente prospettica dei compiti utilizzati. Inoltre il deficit di memoria prospettica, appare connesso con l’alterazione della trasmissione dopaminergica e con l’efficacia indotta dal trattamento farmacologico.

 

 

BIBLIOGRAFIA: 

Gioco d’Azzardo Patologico: la Dipendenza Invisibile.

Simona Meroni.

Gioco d'Azzardo Patologico, la dipendenza invisibile. - Immagine: © Robbic - Fotolia.com In un recente articolo apparso sul Corriere della Sera (“L’appello al Casinò dei malati di gioco: non fateci entrare”) si racconta in breve l’iniziativa del Casinò di Sanremo di mettere a disposizione dei giocatori un modulo prestampato che, debitamente firmato, vieta loro l’ingresso.

Il Casinò ha firmato con il Comune un protocollo di intesa per imporre a chi chiede l’autosospensione una pausa minima di 90 giorni, per evitare – si deduce – che “i pentiti” possano contro firmare una dichiarazione che annulla la validità della loro richiesta di aiuto.

I giocatori d’azzardo compulsivi sembrano un campione variegato, per età, sesso e condizione sociale. E’ importante, infatti, non perdere di vista i giocatori che esulano dall’immaginario del Casinò: la dipendenza da gioco, infatti, può nascere non solo ai tavoli verdi, ma anche – e forse soprattutto – al monitor del videopoker, con i numeri del Lotto, con la patina argentea del Gratta e Vinci.

Realtà virtuale e dissociazione. Immagine: © HaywireMedia - Fotolia.com -
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Il gioco d’azzardo, infatti, offre una speranza di guadagno immediato, che può essere avvertita come una ‘soluzione-scorciatoia’ alla crisi economica. La dipendenza da gioco (gambling, o GAP – Gioco d’azzardo patologico) costringe a riflettere su quanto a volte sia difficile discriminare tra un comportamento autenticamente ludico, un leggero disturbo e un comportamento francamente patologico. Tra questi tre atteggiamenti, infatti, il confine è molto labile e a volte confuso da norme sociali e comportamentali.

Il DSM IV TR (American Psychiatric Association, 2000) include la dipendenza da gioco tra i Disturbi del Controllo degli Impulsi Non Classificati Altrove, cioè non riconducibili al quadro clinico di altri disturbi, insieme alla piromania, alla cleptomania, al disturbo esplosivo intermittente, alla tricotillomania (torcersi e strapparsi i capelli) e al disturbo del controllo degli impulsi Non Altrimenti Specificato. La caratteristica fondamentale che accomuna tali disturbi è l’incapacità a resistere ad un impulso o ad un desiderio impellente: il soggetto prova una tensione o un eccitamento crescente prima di compiere l’azione e prova gratificazione o sollievo nel momento in cui la compie; in seguito possono o meno essere presenti rimorsi e sensi di colpa.

Per il DSM IV , dunque, la dipendenza da gioco è un comportamento maladattativo persistente e ricorrente, che interferisce con la situazione economica e relazionale della persona che ne soffre, e con caratteristiche simili a quelle delle dipendenze da sostanze. Tra i sintomi possiamo trovare: coinvolgimento eccessivo nell’attività, necessità di giocare quantità sempre maggiori di denaro per raggiungere l’eccitazione desiderata, insuccesso nei tentativi di interrompere il comportamento, irrequietezza e irritabilità provocate dal tentativo di interrompere l’abitudine e compromissione di importanti attività sociali o lavorative.

I giochi che provocano dipendenza possono essere classificati secondo diverse categorie, la più semplice li vede suddivisi tra:

1) giochi dalla vincita immediata (es.: gratta e vinci, slot machine, videopoker, bingo)

2) giochi che prevedono un più prolungato tempo d’attesa (es.: lotterie, poker, scacchi, totocalcio).

La Felicità? E' una cosa semplice - Immagine: © chesterF - Fotolia.com
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I giochi a riscossione immediata sembrano essere a maggiore rischio di addiction a causa della sensazione di eccitazione immediata, che spinge il giocatore a volerla sperimentare nuovamente subito dopo. In modo analogo appaiono fortemente “a rischio” i giochi in cui prevale il fattore fortuna, nei quali i giocatori inseguono la vincita spinti dal convincimento magico che prima o poi la “fortuna girerà”. Secondo la Società Italiana di Intervento sulle Patologie Compulsive (SII.Pa.C.), infatti, tra i giochi che provocano dipendenza, il 51% è costituito dai videopoker, seguiti dalle scommesse sui cavalli, dal Lotto, dal SuperEnalotto e dai Casinò.

Con l’avvento di Internet il gioco d’azzardo sembra aver subito un’impennata: secondo i dati della Committee on Treatment Services for Addicted Patients dell’American Psychiatric Association, nel 1997 circa 6,9 milioni di persone erano potenziali internet gamblers (giocatori compulsivi), un anno dopo erano 14,5 milioni e i siti dedicati al gioco d’azzardo erano oltre 1300.

Le ragioni del fenomeno possono essere diverse: Internet consente l’anonimato; può essere nascosto agli occhi dei familiari; è sottratto ai limiti temporali e spaziali. Inoltre l’utilizzo della carta di credito consente di giocare ingenti somme di denaro senza averne piena consapevolezza.

Analizzando più da vicino le diverse forme di gioco che possono suscitare dipendenza, si potrebbe trovare un nocciolo comune.

La felicità? E' una cosa semplice. Parte 2 - Immagine: © Kudryashka - Fotolia.com
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Come sostiene Riccardo Zerbetto: “E’ l’attitudine nei confronti del rischio l’anima dei comportamenti osservabili nelle diverse forme del gioco d’azzardo”. La maggior parte di questi giochi, infatti, pongono il Soggetto davanti ad una decisione da prendere in pochi istanti, consentendo così di sperimentare un attimo di incertezza in cui ci si può giocare il tutto e per tutto.

Questa “teoria del brivido decisionale” -se così può essere chiamata- rende ragione anche del collegamento che viene spesso fatto tra GAP e tossicodipendenza. I due tipi di disturbo, infatti, hanno molti punti in comune, a partire dai criteri diagnostici (pressoché identici, se si esclude il rincorrere la perdita e il rischio di dissesto finanziario, caratteristici del GAP ma non del tutto estranei alla tossicomania), ma soprattutto sono accomunati dalla ricerca di una sostanza (o condizione) che possa produrre un eccitamento.

Sempre secondo Zerbetto, infatti, uno dei fattori che accomuna il GAP alla tossicomania è “il bisogno di indurre uno stato di attivazione” per far fronte a frequenti vissuti di noia o depressione.

Il trattamento, ma soprattutto l’identificazione dei dipendenti da gioco d’azzardo, è un discorso articolato e complesso, che chiama in causa fattori biologici, psicologici ma anche – e soprattutto – sociali.

Come scritto in apertura, i giocatori patologici spesso passano inosservati, per svariate ragioni. Molto spesso, infatti, il gioco gode di rispetto sociale (non dimentichiamoci che buona parte dei Giochi sono Monopolio di Stato), visibilità (quanti giochi a premi sono fioriti in questi ultimi anni?), può essere mascherato da un rito (ad esempio, il poker del Mercoledì sera, tanto caro a film e telefilm), oppure non visto perché non ci sono occhi in grado di vedere (la solitudine degli anziani nei bar, ad esempio).

L’iniziativa del Casinò di Sanremo, dunque, supportato dalla Cooperativa Sociale L’Ancora, è sicuramente lodevole, e forse può rappresentare un passo avanti nell’accoglienza e nella “cura” di un disagio che risulta eclatante solo quando supera il limite.

 

 

BIBLIOGRAFIA:

  • Bergler E. (1957), tr. it., Psicologia del giocatore, New Compton, 1970
  • Zerbetto R (2001, a), Dall’intervento terapeutico a una politica di gioco responsabile. Da Lavanco, Psicologia del gioco d’azzardo, McGraw-Hill
  • Zuckerman M. (1994), Behavioural expressions and biosocial bases of sensation seeking, Cambridge University Press.
  • Dellacasa E. (2012). L’ appello al Casinò dei malati di gioco «Non fateci entrare». Il Corriere della Sera, 6 febbraio 2012.
  • La Fenice, terapie riabilitative: http://www.lafeniceaddictions.it/
  • Società Italiana di Intervento sulle Patologie Compulsive: http://www.siipac.it/

Aracnofobia: se hai paura dei ragni li vedrai più grandi!

– Rassegna Stampa – 

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze PsicologicheEffetti della fobia specifica sulla percezione dell’oggetto temuto

Più una persona ha paura dei ragni, più la percezione visiva dello stesso animale ne risulterà alterata. Questo è quanto emerge da uno studio pubblicato da poco su Journal of Anxiety Disorders in cui ai partecipanti, 57 individui che si definivano aracnofobici, veniva chiesto durante un periodo di circa 8 settimane di interagire in vivo con 5 ragni della dimensione da 2,5 a 15 centimetri e in seguito di fornire una stima della dimensione dei ragni appena “incontrati”.

I ragni erano contenuti in un contenitore di vetro aperto. I soggetti iniziavano la loro esposizione all’animale a circa 12 passi dal contenitore e veniva poi chiesto loro di avvicinarsi. Una volta arrivati a fianco del contenitore, i partecipanti dovevano toccare il dorso del ragno con una sonda. Nel corso di queste esposizioni i partecipanti riportavano l’intensità della paura che stavano provando su una scala SUD (subjective units of distress) da 0 a 100, e compilavano poi una serie di altri questionari self-report relativi alla fobia specifica, panico e pensieri riguardo la riduzione della paura in future esposizioni con i ragni. Da ultimo, i ricercatori richiedevano ai soggetti una stima delle dimensioni del ragno con cui avevano appena interagito disegnando su una linea un trattino indicante la lunghezza dell’animale.

Dalle analisi dei risultati è emerso che i picchi più alti di fobia soggettivamente riportata dai soggetti corrispondevano anche a stime di maggiori dimensioni dei ragni di fatto inesatte rispetto alle dimensioni reali. Quindi quanto più intensa era l’emozione di paura riferita ai ragni cui ci si era esposti tanto maggiore era la dimensione del ragno stimata dalla stessa persona. Chissà se questo fenomeno sia generalizzabile ad altre forme di fobie specifiche, che possono risultare maggiormente invalidanti nella vita quotidiana, basti pensare alla fobia degli aghi. Se la fobia impatta sulla percezione visiva dell’oggetto fobico, allora può essere utile condividere questo bias con il paziente che si ritrovi impegnato in faticose esposizioni in cui è possibile che continui a percepire visivamente il mostro più grande di quello che è in realtà. Attenzione però: il messaggio non dovrebbe focalizzarsi tanto nel contenuto stesso (“chi se ne frega se il ragno è grande o piccolo, mi terrorizza per mille altri questioni…”) ma sul processo: l’intensità delle nostre emozioni può impattare non solo su funzioni psicologiche quali per esempio attenzione e memoria, ma anche sulla funzione psicologica che più ci illude di poter essere oggettivi: la percezione visiva.

 

 

BIBLIOGRAFIA:

  • Michael W. Vasey, Michael R. Vilensky, Jacqueline H. Heath, Casaundra N. Harbaugh, Adam G. Buffington, Russell H. Fazio. It was as big as my head, I swear!. Journal of Anxiety Disorders, 2012; 26 (1): 20 DOI: 10.1016/j.janxdis.2011.08.009

Quando la religione diventa un’ossessione: la Scrupolosità

Scrupolosità: una sottocategoria diagnostica del Disturbo Ossessivo-Compulsivo

Quando la Religione diventa un'Ossessione: la Scrupolosità. - Immagine: © Alex Motrenko - Fotolia.comLa Scrupolosità è un sottotipo del Disturbo Ossessivo-Compulsivo (DOC) caratterizzato principalmente da sensi di colpa e paure legate a questioni morali e religiose.

Questo disturbo provoca un disagio significativo e una marcata compromissione nell’adattamento sociale nelle persone che ne sono affette (DSM 4-TR, 2000). Nonostante la scarsa considerazione in ambito clinico e scientifico, la Scrupolosità può essere considerata un disturbo relativamente comune. Questo disturbo vanta infatti una delle storie più lunghe e più ricche di esempi rispetto a qualsiasi altro disturbo psicologico.

La recente ricerca clinica suggerisce che fino al 30% degli individui con diagnosi di DOC soffrano anche di questa sottocategoria diagnostica (Mataix-Cols e al., 2002). Tuttavia, altri risultati segnalano percentuali ben maggiori in base alla localizzazione geografica e, soprattutto, in base alla confessione religiosa o spirituale di origine (50% in Arabia Saudita e fino al 60% in Egitto) (Tek & Ulug, 2001). In ogni caso, non sono disponibili stime affidabili sulla frequenza della scrupolosità nella popolazione mondiale, dato che non tutti i soggetti con questo disturbo si rivolgono ad uno specialista (Medici, Psichiatri e Psicoterapeuti). Sembra invece che  (del tutto coerentemente con il tipo di diagnosi) la maggior parte delle persone che soffrono di questo disturbo tendano a cercare con maggiore facilità una consulenza di tipo religioso o spirituale.

Storie di terapie #2: Un Pomeriggio con il Demonio. - Immagine: © lineartestpilot - Fotolia.com -
Articolo consigliato: Storie di terapie #2: Un Pomeriggio con il Demonio.

La scrupolosità è un disturbo che ha specifiche caratteristiche cognitive, comportamentali, affettive e sociali. In primo luogo, i pazienti con scrupolosità presentano modelli di pensiero disfunzionali che possono essere concettualizzati in vari modi. Il più evidente è l’eccessivo senso di colpa e di responsabilità. Si tratterebbe quindi di uno stato abituale della mente che, a causa di una costante paura irragionevole del peccato, porta la persona a giudicare certi pensieri o azioni come peccaminosi o sbagliati anche quando in realtà non lo sono. In altre parole, i pazienti con scrupolosità possono esagerare patologicamente la valutazione della gravità delle trasgressioni, classificandole in maniera impropria. Per esempio:

uno studente con scrupolosità iscritto ad un corso di anatomia può sentirsi colpevole per la visione di cadaveri o di foto con soggetti senza vestiti.

La spiegazione di un simile eccessivo senso di colpa potrebbe rintracciarsi nel meccanismo mentale di fusione pensiero-azione, tramite il quale una persona giudica un particolare pensiero come moralmente equivalente ad un comportamento reale.Ad esempio:

una persona con scrupolosità può sentirsi un depravato e un peccatore per dei pensieri involontari che ha avuto, pur non avendo commesso nella realtà nessun tipo di comportamento o azione che ne giustificherebbe l’accusa e la condanna.

La componente comportamentale compulsiva di questo disturbo è data dal fatto che queste persone si sentono costrette a confessare più volte e con insistenza ad un capo ecclesiastico i propri peccati, credendo di aver commesso una violazione morale così grave da meritare una punizione. La ricerca compulsiva della confessione religiosa è vista come un meccanismo per risolvere i propri sentimenti di angoscia e ripristinare il proprio rapporto con la divinità, mettendo a dura prova l’infinita pazienza dei propri padri spirituali.

Tuttavia, la scrupolosità di questi pazienti può lasciarli quasi completamente insensibili alle rassicurazioni dei propri confessori religiosi o spirituali, come nel caso dell’ipocondria dove anche le rassicurazioni dei servizi professionali medici possono fornire soltanto un sollievo temporaneo. Allo stesso modo, i sentimenti soggettivi di colpa spesso guidano altri tipi di comportamento, come la preghiera compulsiva. La preghiera compulsiva sembra quindi assomigliare più ad un particolare tentativo di impedire il verificarsi di una qualche catastrofe non meglio definita, che ad un autentico pentimento consapevole.

Fusione Pensiero Azione - Fotografia: © ktsdesign - Fotolia.com
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I soggetti con scrupolosità si dedicano spesso a periodi di alta ruminazione morale dolorosa. Questi periodi di ruminazione possono comportare l’analisi filosofica delle proprie questioni morali o una revisione meticolosa dei propri “peccati”, procedimenti talmente gravosi e impegnativi da portare con il tempo a un vero e proprio stato di sofferenza, sia fisica che mentale. I pazienti con Scrupolosità inoltre, presentano spesso stili cognitivi negativi, come la tendenza psicologica ad interpretare stimoli ambigui (oggettivamente né positivi né negativi) nella maniera più grave e triste possibile. Questa tendenza cognitiva è particolarmente problematica nel contesto della religione e della moralità, dato che i principi religiosi sono caratteristicamente espressi in termini ampi ed ambigui.

I pazienti con scrupolosità presentano poi una fissazione selettiva dell’attenzione sulle questioni religiose. Mentre la maggior parte degli individui religiosi apprezzano di buon grado la proprie credenze religiose, nei pazienti con scrupolosità la religione e le questioni morali diventano fonte di un vero e proprio disagio. Anche le informazioni più ordinarie e banali sembrano passare attraverso un filtro attentivo che inietta le percezioni di una sfumatura di ansia e di gravità. Questa distorsione percettiva può privare i pazienti della loro capacità di rilassarsi e di godere di semplici attività quotidiane (tra queste anche il pregare, il partecipare a funzioni religiose, ecc.). Secondo questo modello, questa forma di visione “tunnel” è così onerosa che consuma una quantità critica di energia mentale, lasciando i pazienti incapaci di far fronte alle altre esigenze cognitive e rendendoli vulnerabili ad altre forme di ansia e depressione.

La Vergogna e la Colpa nei Disturbi del Comportamento Alimentare (DCA). Cicli Emotivi e Patologia. - Immagine: © bobyramone - Fotolia.com
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Il trattamento clinico della scrupolosità è problematico per una varietà di ragioni. In primo luogo, la scrupolosità riguarda temi tipicamente astratti, impossibili da riprodurre nello studio del clinico in modo adeguato. Di conseguenza, il trattamento dei comportamenti bersaglio (ad esempio, attraverso la tecnica dell’Esposizione con Prevenzione della Risposta, E/RP) sono considerevolmente più difficili da utilizzare perché le preoccupazioni della scrupolosità spesso comportano problemi religiosi o spirituali piuttosto che concreti, come oggetti o situazioni riproducibili nella realtà (per intenderci, il trattamento terapeutico della fobia dei gatti è per ovvie ragioni diverso dal trattamento della fobia del Diavolo).

Questo disturbo pone inoltre dei vincoli etici alla professione della psicoterapia: Art. 4 del Codice Deontologico degli Psicologi Italiani “[lo psicologo] non opera discriminazioni in base a religione, etnia, nazionalità, estrazione sociale, stato socio-economico, sesso di appartenenza, orientamento sessuale, disabilità e […] rispetta opinioni e credenze, astenendosi dall’imporre il suo sistema di valori”; questione di non poco conto se si tiene presente quanto sia importante l’alleanza paziente-terapeuta nel predire il buon esito del trattamento.

È utile per il terapeuta sottolineare che l’obiettivo del trattamento è quello di aiutare il paziente a tornare a praticare la propria religione con serenità, piuttosto che per l’esclusiva paura di una ritorsione divina. I pazienti con scrupolosità hanno bisogno di comprendere chiaramente le differenze tra una pratica religiosa normale e una patologica, e deve essere chiarito con il paziente che l’unico scopo del trattamento è quello di ripristinare un sereno e normale rapporto con la propria religiosità. Sembra fondamentale a questo scopo una chiara spiegazione di come la tecnica dell’esposizione sia coerente con i nostri obiettivi nel favorire un rapporto terapeutico di successo e a mantenere alta la motivazione. Decidere quali situazioni specifiche siano utili per l’esposizione è anch’essa una questione importante.

Lavati e non ci pensi più. Ma i processi mentali restano. Immagine: Lady Macbeth by George Cattermole - Wikimedia Commons Public Domain Art -
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Istruire il paziente a violare le proprie leggi religiose per verificare se la catastrofe si realizzi nella realtà, non è una pratica né appropriata né necessaria per ridurre la paura patologica del peccato. I pazienti con scrupolosità hanno paura di commettere un peccato, non tanto del peccato in sé. Si tratta di una paura che sta a monte della reale azione di commissione del reato/peccato. Pertanto, l’esposizione dovrebbe comportare un avvicinamento graduale a situazioni in cui c’è solo il rischio che si possa commettere il peccato, situazione di per sé sufficiente ad innescare nel paziente una reazione di disagio e paura.

Il delicato terreno di confronto tra scienza e religione, ci pone di fronte ad un’infinità di domande alle quali, molto probabilmente, è impossibile avere una risposta. L’unica domanda che potremmo porci in qualità di professionisti con dei doveri etici ben delineati sarebbe: come possiamo aiutare queste persone a vivere più serenamente la propria religiosità? E ancora, chi può chiarire se e in che misura la sofferenza dell’uomo sia eticamente ammissibile nella vita di un cristiano o di un musulmano fedele al proprio culto? Qual è il vero confine tra normalità e patologia?

 

 

BIBLIOGRAFIA:

Dormi che ti passa! Le proprietà terapeutiche della fase REM

 

Dormi che ti passa! Le proprietà terapeutiche della fase REM - Immagine: © Valua Vitaly - Fotolia.com Numerose ricerche ci dicono che dormire non ha l’unica funzione di ritemprare le membra ma anche la mente, aiutando i nostri processi di apprendimento, la memoria e la regolazione emotiva.

Un gruppo di ricercatori di Berkeley, University of California, ha confermato i benefici della fase REM nel rimuovere gli aspetti più vivi delle esperienze emotive. Il periodo del sonno dedicato ai sogni funzionerebbe, grazie alla caratteristiche neurochimiche che lo contraddistinguono, come una terapia notturna che aiuta il cervello ad elaborare le esperienze emotive e le alleggerisce dal carico doloroso che alcune memorie portano con sè.

Trauma e dissociazione: riflessioni teoriche e cliniche verso il DSM-5 - Immagine: © Redshinestudio - Fotolia.com
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Precedenti studi hanno già evidenziato come i pattern tipici del sonno siano danneggiati in pazienti con disturbi dell’umore o nel disturbo post traumatico da stress (PTSD). In quest’ultimo caso, quando la persona che ha subito un trauma incappa in uno stimolo che produce un flashback dell’evento traumatico, l’esperienza emotiva ad esso associata viene rivissuta in tutta la sua originale intensità proprio perchè, a quanto pare, il cattivo sonno non ha permesso di attenuare l’emotività legata alle tracce mnestiche.

Durante la fase REM le memorie si riattivano, vengono messe in prospettiva, connesse e integrate tra loro, ma solo in uno stato in cui la neurochimica dello stress viene beneficamente soppressa” (Walker, M.P.), in assenza cioè di disturbi dell’umore o di disturbi post traumatici.

Il protocollo di ricerca ha previsto un campione di 35 giovani adulti in salute. Tutti hanno visionato per due volte, a distanza di 12 ore, 150 immagini dal forte contenuto emotivo. Nel frattempo uno scanner per la risonanza magnetica registrava la loro attività cerebrale. Metà dei soggetti ha preso visione delle immagini in mattinata e poi in serata, mentre l’altra metà ha affrontato la seconda parte dell’esperimento dopo un’intera notte di sonno. Questi ultimi hanno riportato una significativa riduzione nella loro reazione emotiva alle immagini, confermata dai risultati della fMRI che evidenziano una sostanziale riduzione dell’attività dell’amigdala, una parte del cervello coinvolta in prima linea nel processamento delle emozioni.

Sonno e Memoria - Immagine: © Jean B. - Fotolia.com
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L’elettroencefalogramma dei dormienti ha inoltre confermato una ridotta attività elettrica durante la fase REM: “riprocessando le esperienze emotive precedenti in questo sicuro ambiente neurochimico, caratterizzato da bassi livelli di norefineprina – una sostanza chimica positivamente correlata allo stress ci svegliamo l’indomani e quelle esperienze risultano affievolite nella loro forza emotiva. Ci sentiamo meglio riguardo ad esse, sentiamo di poterle affrontare.” (Walker, M.P.).

Ecco allora che nel trattamento del PTSD risolvere i disturbi del sonno diventa un obiettivo centrale. I pazienti che dormono male non possono godere dei benefici di attenuazione dell’intensità emotiva legata all’evento traumatico, il che innesca un pericoloso circolo vizioso che aggrava ancor più i sintomi e impedisce di riprendere una sana condotta del sonno.

 

 

BIBLIOGRAFIA:

Disidratazione, tono dell’umore e funzioni cognitive: gli effetti su uomini e donne.

-Rassegna Stampa – 

La disidratazione influenza l’umore delle donne e la funzionalità cognitiva negli uomini.

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze PsicologicheDue recenti studi svolti presso lo University of Connecticut’s Human Performance Laboratory hanno scoperto che la disidratazione influenza non solo il corpo ma anche la mente. Anche una lieve disidratazione, definita come la perdita dell’1,5% del normale volume di acqua presente nel nostro corpo, può impattare significativamente sul tono dell’umore e sulle funzioni cognitive.

I ricercatori hanno coinvolto nei due studi 25 uomini e 26 donne in salute (né atleti agonisti, né sedentari) per tre volte nell’arco di tre mesi. Una lieve disdratazione veniva indotta ai soggetti somministrando diuretici, chiedendo loro di non assumere liquidi e di camminare su un tapis-roulant per 40 minuti; immediatamente a seguito di ciò i ricercatori valutavano diversi aspetti mediante una batteria di test cognitivi: vigilanza, concentrazione, tempo di reazione, memoria di lavoro, ragionamento e tono dell’umore.

Dal confronto con una condizione di adeguata idratazione, è emerso che negli uomini la disidratazione determina difficoltà nei task di memoria di lavoro e nel livello di vigilanza; nelle donne invece la disidratazione causa una lieve riduzione nelle capacità cognitive, ma un significativo aumento di affaticamento, tensione e ansia. Questi cambiamenti in termini di umore a seguito delle deidratazione si sono verificati in modo rilevante nelle donne, ma non negli uomini.
I ricercatori sono ancora incerti rispetto alla spiegazione di questo effetto differenziale della disidratazione sulla mente e sull’umore negli uomini e nelle donne, ma nel frattempo suggeriscono di bere molta acqua e non solo per ragioni prettamente somatiche!

 

 

BIBLIOGRAFIA:

  • Armstrong, L.E., Ganio, M.S., Casa, D.J., Lee, E.C., McDermott, B.P., Klau, J.F., Jimenez, L., Le Bellego, L., Chevillotte, E., Lieberman, H.R. (2012). Mild dehydration affects mood in healthy young women. Journal of Nutrition, vol. 142 no. 2, 382-388, February 1, 2012.
  • Ganio, M.S., Armstrong, L.E., Casa, D.J., McDermott, B.P., Lee, E.C., Yamamoto, L.M., Marzano, S., Lopez, R.M., Jimenez, L., Le Bellego, L., Chevillotte, E., and Lieberman, H.R. (2011) Mild dehydration impairs cognitive performance and mood of men. British Journal of Nutrition 106(10),1535-1543, 2011.

Tipi di coppie #3 – I Complementari

 

Tipi di coppie #3 - I Complementari. - Immagine: © carlosgardel - Fotolia.com Per definizione le coppie complementari sono quelle all’interno delle quali l’assegnazione dei ruoli è rigida: un membro in posizione up e uno in posizione down. I termini up e down riflettono per lo più una configurazione superficiale della distribuzione del potere all’interno delle coppie, infatti spesso accade che il partner in posizione down abbia in realtà molto più potere di quello up.

Le coppie complementari sono composte da partner che entrambi presentano una scissione netta e profonda nei confronti di un aspetto di sé stesso ritenuto inaccettabile, indesiderabile o irraggiungibile; questa parte di sé viene facilmente proiettata sul partner “adatto” ad accoglierla, in quanto in accordo con l’immagine “ufficiale” che quest’ultimo ha di sé stesso.

Tipi di coppie #2 - Combattenti Cronici, Ambivalenti e Fratellini. - Immagine: © 2012 Costanza Prinetti -
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L’esito di questo tipo di unioni dipenderà dalla possibilità di riconoscere e integrare le parti proiettate di sé di cui il partner si fa portatore e attore. All’interno di questa tipologia gli autori identificano diversi sottotipi che si distinguono tra loro per gli aspetti che vengono scissi e proiettati sull’altro.

Il primo sottotipo è quello del Genitore/Bambino: in questo tipo di coppie risulta essere saliente il tipo di attaccamento che è stato stabilito con le figure di accudimento e quindi la percezione della propria sicurezza e insicurezza rispetto all’opportunità di ricevere conforto e protezione, nonché la soluzione adottata. L’autosufficienza e l’evitamento delle emozioni “negative” favoriscono l’approdo alla posizione affettiva di genitore, nelle sue varianti di persecutorio o salvatore; la modalità di continua richiesta di attenzione e rassicurazione definisce invece la posizione del bambino, nelle sue varianti di bambino ribelle o in difficoltà.

Tipi di coppie #1 - I Simbiotici (o gemelli paradisiaci di Jackson) - Immagine: © kanate - Fotolia.com
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Il gioco di coppia si organizza in modo tale per cui gli atteggiamenti persecutori o salvifici dell’uno contribuiscono a mantenere e rinforzare gli aspetti di incompetenza e debolezza infantile dell’altro, gioco nel quale entrambi hanno affidato all’altro le proprie parti non riconosciute ribelli, depresse o autosufficienti. Se la costante relazionale negativa espressa è molto ingombrante i copioni individuali occuperanno molto spazio lasciandone poco alla costruzione di un copione condiviso che permetta un evoluzione ad entrambi.

 

Un altro sottotipo è quello di sano/malato: in questo tipo di coppie uno dei coniugi è “sano” mentre l’altro è deputato ad esprimere “malessere”, fisico o psichico: durante la terapia di coppia, alla quale generalmente approda il partner malato come “ultima spiaggia”, può emergere come la disfunzione individuale del partner malato esprima anche la componente “malata” del partner “sano”, che quest’ultimo non può permettersi di esprimere.

Dall’indagine terapeutica a volte emerge che il matrimonio, e la spartizione dei ruoli, ha avuto una funzione importante nel regolare la distanza di uno o entrambi i coniugi dalle famiglie di origine: il ruolo di infermiere o malato a tempo pieno può degnamente giustificare una decisiva presa di distanza dalle vicende della propria famiglia di origine o da quella del partner.

Terzo sottotipo: Il giudice e l’imputato: i ruoli sono assegnati sulla base di un’evidente differenza di curriculum vitae tra i due membri della coppia, per cui uno si sente in difetto rispetto all’altro; per esempio uno dei due è o è stato alcolista o tossicodipendente, o si è prostituito, o situazioni di grosso divario in termini di scolarità o competenze sociali. Anche la gelosia può essere un terreno fertile sul quale costruire i ruoli complementari del giudice, che accusa di tradimento, e dell’imputato, che deve continuamente giustificarsi, scusarsi e addurre prove della sua innocenza. Questo avviene perché ognuno chiede all’altro una forma di controllo e protezione dagli impulsi, che sente pericolosi e che lo impauriscono: il partner nel ruolo di giudice si protegge dall’impulso a trasgredire continuando a stigmatizzare l’inadeguatezza dell’altro di fronte al suo ideale di comportamento corretto, mentre il partner imputato userà questo tipo di relazione per confermare a sé stesso il fatto di non avere niente di buono, continuando a proiettare sul compagno il suo ideale di bontà e rettitudine, che sente di non poter raggiungere.

La prossima settimana: le coppie simmetriche

  

 

 BIBLIOGRAFIA: 

  • Berrini R, Cambiaso G, (2001) “Illusioni di coppia. Sto con te perché posso stare senza di te”, Franco Angeli, Milano


Verso il DSM-5: la nuova classificazione dei Disturbi di Personalità

Milko Prati.

Verso il DSM-V: la nuova classificazione dei Disturbi di Personalità. - Immagine: © 2009 David Gothard
Verso il DSM-V: la nuova classificazione dei Disturbi di Personalità. – Image: © 2009-2012 David Gothard

La pubblicazione del DSM-5, prevista nel maggio del 2013, sarà uno degli eventi più attesi nel campo della salute mentale.

Dagli ultimi aggiornamenti pubblicati in merito ai disturbi di personalità (Changes to the Reformulation of Personality Disorders for DSM-5 Updated June 21, 2011), apprendiamo che il gruppo di lavoro dell’APA ha raccomandato una riformulazione dell’approccio alla valutazione e alla diagnosi degli stessi, includendo una revisione dei criteri generali.

Le valutazioni essenziali di un disturbo di personalità saranno effettuate in base alle compromissioni del funzionamento (sé e interpersonale) e alla presenza di tratti patologici.

Trauma e dissociazione: riflessioni teoriche e cliniche verso il DSM-V - Immagine: © Redshinestudio - Fotolia.com
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Elemento di assoluta novità è la proposta di un modello ibrido dimensionale-categoriale per la personalità, che coniughi la possibilità di misurare il funzionamento personologico con la nosografia. A tale scopo è stata ideata una scala, definita “del Funzionamento della Personalità”, in cui si valutano le compromissioni del dominio del sé, che si riflettono nelle dimensioni dell’identità e della auto-direzionalità (self-directness), mentre quelle interpersonali sono considerate alterazioni nella capacità di empatia e di intimità. Il grado di disturbo presente nei domini, del sé e interpersonale, è stato pensato lungo un continuum che va da un livello 0, equivalente a una assenza di deficit, a un livello 4 che indica una compromissione estrema.

Il DSM-5 prevederà, dunque, sei specifici disturbi di personalità: Borderline, Ossessivo-Compulsivo, Evitante, Schizotipico, Antisociale, Narcisistico, e Disturbo di Personalità Tratto Specifico (PDTS).

Verso il DSM-V: Il Disturbo dello Spettro Autistico. - Immagine: © Jaimie Duplass - Fotolia.com
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Per fare diagnosi di disturbo di personalità dovranno essere soddisfatti i seguenti criteri:

  • Criterio A. Compromissioni significative del sé (identità o auto-direzionalità self-direction) e del funzionamento interpersonale (empatia o intimità).
  • Criterio B. Uno o più domini del tratto patologico della personalità o sfaccettature/aspetti del tratto.
  • Criterio C. La compromissione nel funzionamento della personalità e l’espressione del tratto della personalità dell’individuo sono relativamente stabili nel tempo e costanti tra le situazioni.
  • Criterio D. La compromissione nel funzionamento della personalità e l’espressione del tratto della personalità dell’individuo non sono meglio compresi come normativi per la fase di sviluppo individuale o per l’ambiente socio-culturale.
  • Criterio E. La compromissione nel funzionamento della personalità e l’espressione del tratto della personalità dell’individuo non sono dovuti agli effetti fisiologici diretti di una sostanza (per esempio, un abuso di droga, l’uso di qualche particolare farmaco) o di una condizione medica generale (per esempio, grave trauma cranico, effetti particolari di patologie metaboliche ecc).

 

Gli elementi chiave per i Livelli di Funzionamento della Personalità, relativamente al criterio A, sono indicati di seguito.

Dominio del Sé:

  • Identità: l’esperienza di sé come unico, con chiari confini tra sé e gli altri, stabilità dell’autostima e precisione di auto-valutazione; capacità e abilità di regolare una gamma di esperienze emotive.
  • Self-direction: perseguire obiettivi coerenti e significativi sia a breve termine che di vita, utilizzo di standard di comportamenti interni costruttivi e prosociali, capacità di auto-riflettere (self-reflect) in modo produttivo (acquisire quindi il senso delle proprie capacità e anche dei propri limiti).

 Funzionamento interpersonale:

  • Empatia: comprensione e apprezzamento delle esperienze e motivazioni altrui, tolleranza di prospettive diverse, comprensione degli effetti del proprio comportamento sugli altri.
  • Intimità: profondità e durata della relazione positiva con gli altri, desiderio e capacità di vicinanza, reciprocità nei comportamenti interpersonali.

 

Per quanto riguarda il criterio B, sono stati individuati i seguenti domini della personalità:

  • Affettività negativa: sperimentare intensamente e frequentemente emozioni negative.
  • Distacco: ritiro da altre persone e da interazioni sociali.
  • Antagonismo: comportamenti che mettono le persone in contrasto con altre persone.
  • Disinibizione vs Compulsività: impegnarsi in comportamenti impulsivi senza riflettere sulle possibili conseguenze future. La compulsività è il polo opposto di questo dominio.
  • Psicoticismo: avere esperienze insolite e bizzarre

 

Otto Kernberg, Lectio Magistralis Milano-Bicocca, Narcissistic personality disorder, towards DSM-5 - Lectio Magistralis by Otto Kernberg and Frank Yeoman (2) - Immagine: © 2012 State of Mind - Anteprima
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Per porre diagnosi di disturbo di personalità il clinico dovrebbe seguire una sorta di percorso guidato.

1- È presente una compromissione del funzionamento (nell’ambito del sé e in quello interpersonale) della personalità?

2- Se è presente, valutare il livello di compromissione del soggetto nell’ambito del sé e in quello interpersonale sulla Scala dei Livelli del Funzionamento di Personalità.

3- È presente uno dei sei tipi di disturbi di personalità contemplati dal DSM-5?

4- Se è presente, valutare il tipo e la gravità di compromissione e disturbo.

5- In caso contrario, è presente un disturbo di personalità tratto specifico (PDTS)?

6- Se è presente un PDTS, identificare e elencare i tratti/domini che caratterizzano il soggetto e valutare la gravità della compromissione.

7- Se, in presenza di un PDTS, si desidera stilare un profilo di personalità dettagliato e utile per la formulazione del caso clinico e si proceda con la valutazione dei sottodomini.

Otto Kernberg, Lectio Magistralis Milano-Bicocca, Narcissistic personality disorder, towards DSM-5 - Lectio Magistralis by Otto Kernberg and Frank Yeoman - Immagine: © 2012 State of Mind
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8- In assenza sia di un tipo specifico disturbo di personalità sia di un disturbo di personalità tratto specifico (PDTS), valutare la presenza dei tratti/domini specifici e dei relativi sottodomini qualora fossero utili nella formulazione del caso clinico.

 

È possibile affermare con certezza che la pubblicazione del DSM-5 cambierà radicalmente la modalità con cui i clinici saranno chiamati ad effettuare diagnosi di disturbi di personalità e il modello ibrido dimensionale-categoriale proposto richiederà di valutare un numero considerevole di dimensioni.

La nuova modalità di valutazione della personalità e dei suoi disturbi ha prodotto un acceso dibattito all’interno della comunità scientifica ed una parte di essa ha assunto una posizione decisamente critica. In ogni modo, il cambiamento proposto dall’APA rappresenta un’assoluta novità e un importante contributo da parte della psichiatria americana al miglioramento dell’efficacia diagnostica del manuale, soprattutto per quanto riguarda il tentativo di associare una diagnosi di tipo categoriale con un sistema di valutazione dimensionale.

 

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BIBLIOGRAFIA:

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