I precedenti psichiatrici in famiglia e interessi intellettuali.
– Rassegna Stampa –
Uno studio condotto da un gruppo di ricercatori della Princeton University suggerisce che la storia psichiatrica della propria famiglia, specialmente quella legata ad autismo e depressione, possa influenzare gli interessi di una persona, cioè quello che questa giudicherà interessante e degno di particolare attenzione nel corso della sua vita.
I campi di interesse privilegiati sarebbero quelli delle arti e delle scienze, che già in precedenti studi sperimentali sono stati associati ad alcuni disturbi psichiatrici. Lo studio è stato fatto su un campione di 1100 studenti ai quali è stato chiesto quali fossero i loro interessi intellettuali e quale l’incidenza familiare nelle due generazioni precedenti di disturbi dell’umore, l’abuso di sostanze e disturbi dello spettro autistico.
Dai risultati è emerso che gli studenti interessati a un percorso in materie umanistiche o sociali avevano il doppio delle probabilità di riferire che un membro della loro famiglia avesse un disturbo dell’umore o un problema di abuso di sostanze; gli studenti con un interesse per la scienza e la tecnica, invece, avevano tre volte più probabilità di avere un fratello con un disturbo dello spettro autistico. La novità dello studio sta nel fatto che la correlazione tra familiarità psichiatrica e interessi è indipendente dal talento e dalla carriera delle persone in esame, cioè questo studio prende in considerazione la semplice predilezione per un argomento, un interesse che non necessariamente si manifesta con capacità eccellenti o che sfocia in una carriera lavorativa.
Mentre gli interessi di una persona e le sue scelte professionali sono presumibilmente correlati, gli interessi intellettuali potrebbero modellarsi indipendentemente, sulla base delle condizioni psichiatriche, a loro volta influenzate dal contesto genetico familiare. L’idea di fondo dei ricercatori infatti è che la correlazione tra interessi intellettuali e malattia psichiatrica derivi da un percorso genetico comune che potrebbe portare gli individui di una stessa famiglia in direzioni simili, ma mentre alcuni svilupperebbero disturbi psichiatrici, altri possiederebbero solo alcuni tratti, e questi stessi tratti potrebbero manifestarsi con specifiche preferenze e interessi intellettuali.
In occasione della Lectio Magistralis di Otto Kernberg e Frank Yeomans di sabato 28 gennaio 2012 tenutasi a Milano, La redazione di State of Mind ha posto una domanda al gentilissimo Prof. Frank Yeomans:
INTERVISTATRICE: Dunque, la nostra domanda è: “Cosa può imparare un terapeuta cognitivo dal vostro approccio?”
PROF. YEOMANS: Questa è una bella domanda!
INTERVISTATRICE: Certo che sì!
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PROF. YEOMANS: Cosa può imparare un terapeuta cognitivo… non sono un terapeuta cognitivo, ma la mia prima impressione è che mi aiuterebbe ad apprezzare semplicemente il potere delle cose di cui non siamo consapevoli, non semplicemente perché non le conosciamo – perché capisco che nella terapia cognitiva si aiutino le persone a conoscere cose che non conoscono – ma la differenza è…
INTERVISTATRICE: Più o meno…
PROF. YEOMAS: Li aiuti a comprenderle meglio e può essere…può essere molto utile. Ma penso che quello che un terapeuta cognitivo possa apprezzare meglio è ciò che nella nostra mente ci impedisce di conoscere le cose, le ragioni per cui non conosciamo le cose. Perché la mia conoscenza, che è limitata, della terapia cognitiva…la mia impressione è che si focalizzi un po’ troppo semplicemente sui processi razionali piuttosto che sui nostri processi primitivi dove i livelli più profondi della nostra mente, neurobiologicamente parlando il sistema limbico, creano intensi affetti con cui la mente cognitiva cosciente non sa cosa fare.
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E la terapia cognitiva può aiutare a gestire in termini di ordine ciò che è nella nostra mente, ma, per quel poco che ne so, mi pare che non aiuti molto con i conflitti primari tra intensi impulsi aggressivi e di amore e non ci aiuta a capire la resistenza a conoscerli, il perché non vogliamo sapere alcune cose di noi stessi. Penso che l’approccio psicodinamico renda più il senso di conflitto che c’è nella nostra mente che non dovremmo conoscere. E si dovrebbe ricordare la definizione di psicodinamica: significa la mente in movimento. Non solo la mente dei nostri pazienti è in movimento, ma anche la nostra mente è in movimento perché ogni essere umano ha sempre un equilibrio difensivo tra intense urgenze biologiche, proibizioni sociali e valori morali. Quindi il nostro obiettivo è trovare un equilibrio. Credo che il terapeuta cognitivo dovrebbe essere più consapevole della sua natura primitiva.
INTERVISTATRICE: Grazie mille per tutto!
PROF. YEOMANS: prego!
(NDR: Traduzione dell’intervista a cura di Valentina Davi).
Verso il DSM-5: Il Disturbo dello Spettro Autistico
Ottenere una diagnosi di autismo pare diventi più difficile con l’uscita del DSM-5 nel 2013. Questo è quanto ci dicono i dati preliminari raccolti dai ricercatori dell’Università di Yale, negli Stati Uniti.
Seguendo i nuovi criteri, infatti, parrebbe che quasi la metà delle persone classificate sotto lo spettro autistico secondo il DSM-IV potrebbero non raggiungere i criteri per la stessa diagnosi nel nuovo manuale diagnostico. Questi primi studi sono stati condotti da Fred Volkmar e colleghi della facoltà di Medicina della prestigiosa università statunitense e saranno pubblicati tra la fine di Febbraio e l’inizio di Marzo 2012. Se questi risultati verranno confermati da studi successivi e più approfonditi, si avranno certamente notevoli implicazioni dal punto di vista clinico e dei servizi offerti a queste persone, soprattutto in età evolutiva.
Per ora possiamo presentare i nuovi criteri proposti per la nuova diagnosi di Disturbo dello Spettro Autistico (DSM-V):
Criteri Diagnostici:
Deve soddisfare i criteri A, B, C e D:
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A. Deficit persistente nella comunicazione sociale e nell’interazione sociale in diversi contesti, non spiegabile attraverso un ritardo generalizzato dello sviluppo, e manifestato da tutti e 3 i seguenti punti:
1. Deficit nella reciprocità socio-emotiva: un’approccio sociale anormale e fallimento nella normale conversazione (in avanti ed indietro) e/o un ridotto interesse nella condivisione degli interessi, emozioni, affetto e risposta e/o una mancanza di iniziativa nell’interazione sociale.
2. Deficit nei comportamenti comunicativi non verbali usati per l’interazione sociale: che vanno da una povera integrazione della comunicazione verbale e non verbale, attraverso anormalità nel contatto oculare e nel linguaggio del corpo, o deficit nella comprensione e nell’uso della comunicazione non verbale, fino alla totale mancanza di espressività facciale e gestualità.
3. Deficit nello sviluppo e mantenimento di relazioni, appropriate al livello di sviluppo (non comprese quelle con i genitori e caregiver): difficoltà nel regolare il comportamento rispetto ai diversi contesti sociali e/o difficoltà nella condivisione del gioco immaginativo e nel fare amicizie e/o apparente mancanza di interesse nelle persone.
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B. Comportamenti e/o interessi e/o attività ristrette e ripetitive come manifestato da almeno 2 dei seguenti punti:
1. Linguaggio e/o movimenti motori e/o uso di oggetti, stereotipato e/o ripetitivo: come semplici stereotipie motorie, ecolalia, uso ripetitivo di oggetti, frasi idiosincratiche.
2. Eccessiva aderenza alla routine, comportamenti verbali o non verbali riutilizzati e/o eccessiva resistenza ai cambiamenti: rituali motori, insistenza nel fare la stessa strada o mangiare lo stesso cibo, domande o discussioni incessanti o estremo stress a seguito di piccoli cambiamenti.
3. Fissazione in interessi altamente ristretti con intensità o attenzione anormale: forte attaccamento o preoccupazione per oggetti inusuali, interessi eccessivamente perseveranti o circostanziati.
4. Iper-reattività e/o Ipo-reattività agli stimoli sensoriali o interessi inusuali rispetto a certi aspetti dell’ambiente: apparente indifferenza al caldo/freddo/dolore, risposta avversa a suoni o tessuti specifici, eccessivo odorare o toccare gli oggetti, fascinazione verso luci o oggetti roteanti.
C. I sintomi devono essere presenti nella prima infanzia (ma possono non diventare completamente manifesti finché la domanda sociale non eccede il limite delle capacità).
D. L’insieme dei sintomi deve compromettere il funzionamento quotidiano.
Razionale.
Un unico spettro
E’ stato dato un nuovo nome alla categoria, Disturbi dello Spettro Autistico, che include il Disturbo Autistico (autismo), Sindrome di Asperger, Disturbo disintegrativo dell’infanzia, e disturbi pervasivi dello sviluppo non altrimenti specificati.
La differenziazione dello spettro autistico rispetto allo sviluppo tipico e ad altri disturbi non nello spettro è fatta con validità ed efficacia; mentre la distinzione tra i diversi disturbi è stata trovata inconsistente nel tempo, variabile tra i diversi luoghi in cui è stata effettuata la diagnosi, e spesso associata alla severità, livello linguistico o intelligenza invece che alle caratteristiche specifiche dei diversi disturbi.
Poiché l’autismo è definito come un insieme comune di comportamenti, è meglio rappresentato da una singola categoria diagnostica che si possa adattare alle presentazioni cliniche individuali (es. severità, abilità verbale e altre) e alle condizioni associate (es. disordini genetici conosciuti, epilessia, disabilità intellettuale e altre). Un singolo spettro riflette meglio lo stato attuale delle conoscenza riguardo la patologia e la presentazione clinica; i criteri clinici precedenti erano equivalenti a voler spaccare il capello con un’accetta (“cleave meatloaf at the joints” in inglese n.d.r.)
Tre domini diventano due:
Deficit Socio-Comunicativi / Interessi fissati e comportamenti ripetitivi
I deficit nella comunicazione e nel comportamento sociale sono inseparabili e più accuratamente considerati come un singolo insieme di sintomi con specificità rispetto all’ambiente e al contesto.
I ritardi nel linguaggio non sono ne unici ne universali rispetto allo spettro autistico e sono più accuratamente considerati come un fattore che influenza la presentazione clinica della sintomatologia autistica piuttosto che come definitori della diagnosi.
Richiedere che entrambi i criteri (1 e 2)i siano raggiunti aumenta la specificità della diagnosi senza intaccarne la sensibilità rispetto ai diversi livelli, dal moderato fino al più severo, mentre si mantiene la specificità con solo due domini.
Le decisioni sono state basate sulla letteratura, la consultazione di esperti e le discussioni nei gruppi di lavoro; i dati sono stati in un secondo momento confermati dalle analisi della CPEA e STAART, Università del Michigan, e i database del Simons Simplex Collection.
Diversi criteri socio-comunicativi sono stati uniti e specificati in modo da chiarire i requisiti diagnostici.
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Nel DSM-IV criteri multipli riguardavano in realtà lo stesso sintomo e quindi pesavano troppo nella decisione della diagnosi. L’unione delle aree comunicative e sociali richiedeva un nuovo approccio ai criteri. Una secondaria analisi dei dati è stata condotta sui sintomi socio-comunicativi per determinare l’insieme di sintomi più sensibili e specifici per ogni gruppo di età e capacità linguistica.
Interessi fissi e movimenti ripetitivi
Richiedere che si manifestino almeno due sintomi aumenta la specificità del criterio senza diminuirne significativamente la sensibilità. La necessità di molteplici fonti di informazione include la capacità nell’osservazione clinica, il racconto di genitori/custodi/insegnanti ed è sottolineata dalla necessità di validare un’alta proporzione di criteri.
La presenza, attraverso l’osservazione clinica o il racconto dei genitori, di una storia di interessi fissi, routine, rituali o movimenti stereotipati aumenta sensibilmente la stabilità di una diagnosi di spettro autistico nel tempo e la differenzia da altri tipi di disturbi.
La riorganizzazione dei sottodomini aumenta la chiarezza e continua a permettere un’adeguata sensibilità e nel mentre aumenta la specificità attraverso esempi adatti a differenti età e livelli linguistici.
Comportamenti sensoriali inusuali sono stati esplicitamente inclusi in un sottodominio, espandendo la specificazione di differenti comportamenti che possono essere codificati in questo dominio, con esempi particolarmente rilevanti per i bambini più piccoli.
I disturbi dello spettro autistico sono disturbi dello sviluppo neurologico che possono essere presenti dall’infanzia o dalla prima giovinezza, ma possono non essere rilevanti fino a più tardi a causa della minima richiesta sociale o della presenza di supporto da parte dei genitori nei primi anni.
Severità
Livello 3: Richiede supporto rilevante
Comunicazione sociale: I severi deficit nella comunicazione sociale, verbale e non verbale, causano un impedimento severo nel funzionamento; iniziativa molto limitata nell’interazione sociale e minima risposta all’iniziativa altrui.
Interessi ristretti e comportamenti ripetitivi: Preoccupazioni, rituali fissi e/o comportamenti ripetitivi che interferiscono marcatamente con il funzionamento in tutte le sfere. Stress marcato quando i rituali o le routine sono interrotte; è molto difficile ridirigere dall’interesse fissativo o ritorna rapidamente ad esso.
Livello 2: Richiede supporto moderato
Comunicazione sociale: Deficit marcati nella comunicazione sociale, verbale e non verbale, l’impedimento sociale appare evidente anche quando è presente supporto; iniziativa limitata nell’interazione sociale e ridotta o anormale risposta all’iniziativa degli altri.
Interessi ristretti e comportamenti ripetitivi: Preoccupazioni, rituali fissi e/o comportamenti ripetitivi appaiono abbastanza di frequente da essere ovvi all’osservatore casuale ed interferiscono con il funzionamento in diversi contesti. Stress o frustrazione appaiono quando sono interrotti ed è difficile ridirigere l’attenzione.
Livello 1: Richiede supporto lieve
Comunicazione sociale: senza supporto i deficit nella comunicazione sociale causano impedimenti che possono essere notati. Ha difficoltà ad iniziare le interazioni sociali e mostra chiari esempi di atipicità o insuccesso nella risposta alle iniziative altrui. Può sembrare che abbia un ridotto interesse nell’interazione sociale.
Interessi ristretti e comportamenti ripetitivi: Rituali e comportamenti ripetitivi causano un’interferenza significativa in uno o più contesti. Resiste ai tentativi da parte degli altri di interromperli.
Nel romanzo “Il Piccolo Principe” di Antoine de Saint-Exupéry c’è un celebre dialogo in cui la volpe ammonisce il protagonista con una frase destinata a diventare un aforisma senza tempo: “Non si vede bene che con il cuore, l’essenziale è invisibile agli occhi.”
Riflessione semplice e profonda allo stesso tempo, che rinnova in chiave poetica un concetto abbastanza ovvio: sul piano delle relazioni interpersonali c’è una bella differenza tra la semplice dimensione visiva e quella affettiva ed emozionale. Se poi tra i due livelli si percepisce addirittura un’incongruenza, le cose si complicano notevolmente.
La Sindrome di Capgras è un esempio clinico di come possa manifestarsi un conflitto tra queste due dimensioni: chi soffre di questa patologia neurologica sa infatti riconoscere perfettamente le fattezze e il volto dei propri cari ma, nonostante la familiarità, viene a mancare completamente l’aspetto dell’attivazione affettiva ed emotiva nei loro confronti. Per esempio un uomo può continuare a riconoscere correttamente la propria moglie, ma allo stesso tempo non provare più alcun sentimento per lei: una simile dissonanza cognitiva viene “risolta” dal paziente con un delirio, ossia con la ferma convinzione che il proprio caro sia stato sostituito da un impostore, un robot o un alieno che si limita ad assomigliare in tutto e per tutto alla persona amata.
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Al delirio si accompagna spesso un comportamento aggressivo e violento nei confronti di quello che si considera un sosia, soprattutto in risposta ai tentativi di mettere in discussione la convinzione delirante. Questa condizione clinica di scissione tra identificazione visiva ed emozioni, generalmente correlata a quadri psicotici o a lesioni cerebrali, incoraggia una riflessione generale su quale sia il processo cognitivo attraverso il quale riconosciamo come autentica l’identità altrui.
Uno studio di Ellis e Young, basato sulla misurazione dei parametri di conduttanza cutanea, ha confermato che i pazienti affetti da sindrome di Capgras mantengono intatta l’abilità conscia di discriminare i volti familiari, ma che a questa capacità non corrisponde un’adeguata risposta di attivazione automatica e inconscia delle emozioni congruenti, quasi ci fosse una compromissione nello scambio di informazioni tra corteccia visiva e sistema limbico.
Le ipotesi formulate a partire da questa premessa sono molteplici: esistono forse due sistemi anatomicamente distinti coinvolti nel processo di riconoscimento dei volti amati, uno deputato ad elaborare le informazioni visive e uno a riconoscerne la risonanza emotiva? In quale sede cerebrale (o a che livello cognitivo) potrebbe collocarsi la connessione tra le due strutture? Perché una compromessa integrazione fra questi due sistemi dovrebbe spingere il paziente a delirare su sosia e duplicanti? E che cos’è che fa sì che di fronte ad una fisionomia razionalmente riconosciuta come familiare il paziente percepisca che a livello viscerale c’è qualcosa che non quadra?
In attesa di ulteriori studi in ambito neuropsicologico, un’interpretazione alternativa e sicuramente intrigante è quella psicoanalitica, secondo la quale la genesi e il mantenimento del delirio di Capgras garantirebbe una sorta di “tornaconto” al paziente, nel senso che servirebbe a risolvere una preesistente ambivalenza nel rapporto tra il paziente e la persona oggetto del delirio.
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Proviamo a tornare all’esempio del marito: dopo anni di malumori, insofferenze taciute e rabbia soffocata nei confronti della moglie, interviene la sindrome a slatentizzare il tutto e ad appagare finalmente l’aggressività repressa. Il sosia è l’espediente geniale: ci si può accanire quanto si vuole senza per questo sentirsi minimamente in colpa (che male c’è a incattivirsi contro un alieno bugiardo?) e allo stesso tempo continuare a nutrire profondi sentimenti di affetto e amore per il proprio coniuge, inspiegabilmente sostituito e perduto.
Se non si trattasse di una psicosi su base organica, potrebbe quindi sembrare una strategia cognitiva straordinariamente elegante per risolvere un problema complesso: dopotutto l’autostima è salva, l’incolumità del proprio caro pure, e l’ostilità ha finalmente libero sfogo.
Insomma, che dire? Chapeau!
BIBLIOGRAFIA:
Hadyn D. Ellis, Michael B. Lewis. (2001). Capgras delusion: a window on face recognition TRENDS in Cognitive Sciences 5 (4): 149-156
McKay R., Langdon R., Coltheart M. (2005) “Sleights of mind”: Delusions, defences and self-deception Cognitive Neuropsychiatry 10 (4): 305-326
Mindfulness in rosa: ridurre lo stress nelle diagnosi di cancro al seno.
La diagnosi di cancro al seno porta con sé numerosi cambiamenti nella vita delle donne e delle loro famiglie: vengono compromesse la sfera sociale, fisica, funzionale ed emotiva. Anche quando le terapie si dimostrano efficaci e la situazione sembra rientrare, per alcune donne non è facile recuperare un equilibrio psicofisiologico.
Le tecniche mente-corpo possono, in questo delicato momento, supportare le donne operate al seno. I dati di uno studio pubblicato sul Wester Journal of Nursing Research, condotto da un team di ricercatori della Sinclair School of Nursing dell’università del Missouri (USA), sottolineano l’efficacia del protocollo Mindfulness Based Stress Reduction per migliorare la qualità della vita e la gestione dello stress nelle donne operate al seno. La ricerca prevedeva un ciclo di otto sedute di gruppo, una parte del campione oltre al trattamento standard seguiva il protocollo MBSR.
I benefici maggiori dopo il trattamento MBSR sono stati:
abbassamento della pressione sanguigna;
rallentamento della frequenza respiratoria;
rallentamento del battito cardiaco;
miglioramento del tono dell’umore.
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Conferma di questo dato la troviamo sulla rivista Integrative Cancer Therapie: una pratica meditativa aiuterebbe, dunque, a ridurre lo stress e a migliorare il benessere emotivo. A questo studio hanno partecipato 130 donne affette da tumore al seno in cura presso un reparto oncologico. L’intero campione è stato diviso in due gruppi: una seguiva una terapia combinata di cure tradizionali + meditazione, e un secondo gruppo che seguiva solamente le cure “tradizionalmente” prescritte. In particolare i soggetti della ricerca hanno trovato nella meditazione un ottimo strumento per la riduzione dello stress, e riportano i benefici maggiori dopo gli incontri di gruppo.
La meditazione come trattamento aggiuntivo per le donne operate al seno viene utilizzata anche presso l’Ospedale Bellaria di Bologna dove il Dott. Gioacchino Pagliaro porta avanti dal 2003 il progetto “ Armoniosamente”. (Scarica il pdf della presentazione)
Questo protocollo prevede due parti: una prima fase di psico-educazione i cui obiettivi principali sono:
accrescere la speranza nei confronti della guarigione;
aumentare la fiducia nella cura radio e chemio terapica;
aiutare a migliorare il rapporto con il corpo ”malato”.
In una seconda fase vengono insegnate tecniche di meditazione e visualizzazione. In questo caso gli obiettivi principali sono:
ridurre lo stress;
far sentire le donne protagoniste della cura e dei processi di guarigione;
aumentare l’autostima;
ridurre gli effetti collaterali della chemioterapia;
aiutare a fronteggiare la paura.
A breve un‘intervista con il Dott. Pagliaro per racconti più dettagliati su questo interessante progetto.
Pregiudizi sociali e senso di appartenenza nei bambini.
– Rassegna Stampa –
Tra i tre e i quattro anni i bambini incominciano a preferire la compagnia di altri bambini dello stesso sesso, poco più grandi la preferenza per le somiglianze si estende anche all’etnia e alla nazionalità. Sovrastimare la positività del proprio gruppo sociale è un processo del tutto normale e funzionale alla costruzione dell’identità e allo sviluppo del senso di appartenenza alla comunità.
In alcun casi però c’è il rischio che questo atteggiamento si estremizzi a sostegno di pregiudizi sociali e discriminazioni nei confronti di coloro che sono percepiti come diversi da sé. Per far fronte a questa eventualità Prof. Dr. Andreas Beelmann e il suo team della Friedrich Schiller University Jena in Germania hanno messo a punto un programma di prevenzione disegnato per ridurre il pregiudizio e incoraggiare la tolleranza verso gli altri. Il momento adatto per intervenire in questo senso è tra i 5 e i 7 anni, età in cui i pregiudizi, derivanti dall’assumere acriticamente la categorizzazione sociale del proprio ambiente, specialmente quello familiare, raggiungono l’apice, per poi lasciare spazio alla formulazione di giudizi più personali in grado di imporsi sugli stereotipi.
Alcuni elementi facilitano o ostacolano il processo di integrazione delle differenze culturali: innanzi tutto la possibilità di entrare in contatto personalmente con altri bambini di etnia o nazionalità diversa, invece che costruire un idea della loro diversità solo sui libri o attraverso i racconti; addirittura secondo i ricercatori la xenofobia tipicamente diffusa in alcune aree geografiche si spiegherebbe proprio con la scarsa presenza di stranieri ed immigrati e quindi con la limitata possibilità di entrare in contatto con la variabilità culturale ed etnica. I bambini che appartengono a minoranze sociali sono invece inizialmente soggetti alla costruzione di un pregiudizio positivo verso la comunità sociale dominate, che è percepita come un modello verso cui tendere; solo in un secondo momento, come reazione alla discriminazione subita, si costruiscono uno stereotipo negativo e fortemente persistente, difficile da modificare.
I ricercatori concludono ricordandoci che i pregiudizi possono comunque essere cambiati a qualunque età e che le persone che possono identificarsi in più gruppi sociali saranno meno inclini a dare giudizi generici e discriminatori nei confronti di chi appartiene a gruppi sociali diversi dal proprio.
DSM-5: Quando l’ideologia sconfigge la scienza: sulla Lectio Magistralis di Kernberg a Milano
Otto Kernberg a Milano-Bicocca per la Lectio Magistralis su Narcisismo e il nuovo DSM-V
“Lasciatemi dire che il sistema di classificazione americano finge di essere un sistema scientifico, ma in realtà non lo è, è un sistema politico e riflette l’impegno ideologico dell’American Psychiatric Association.”
Con queste parole si apre l’intervento del Prof. Kernberg sul DSM-5, secondo il quale all’interno dell’APA si evidenziano principalmente due aree di conflitto che inevitabilmente hanno influenzato la stesura del nuovo manuale di classificazione dei disturbi mentali (la cui pubblicazione è prevista per il 2013).
La prima riguarda la descrizione dei disturbi. L’intento dell’APA era creare un sistema diagnostico ufficiale che fosse descrittivo, fenomenologico, ateoretico e quindi scientifico. Ma come classificare e descrivere i Disturbi di Personalità? Il tentativo di rispondere a tale domanda ha visto esplodere l’annosa diatriba tra la psicologia clinica, sostenitrice dell’approccio categoriale, e la psicologia sperimentale, che utilizza invece criteri dimensionali. Nel corso degli anni abbiamo visto la prima salire sul carro dei vincitori nella stesura del DSM III e IV e la seconda nella stesura del DSM 5.
Articolo consigliato: “Il disturbo narcisistico di personalità, verso il DSM-5″ – Lectio Magistralis di Otto Kernberg e Frank Yeomans
Secondo Kernberg, poiché i Disturbi di Personalità hanno differenti livelli di gravità e appaiono tra loro differenti (“lo schizotipico è una forma più grave di schizoide, il borderline è una forma più grave di istrionico, l’istrionico è una forma più grave dell’isterico, etc.”), appare chiaro come dal punto di vista clinico si abbia bisogno sia dell’approccio categoriale che dimensionale.
L’altra area di conflitto riguarda invece la concettualizzazione dei Disturbi di Personalità. Nell’APA vi è una tendenza sempre più forte, afferma Kernberg, a concettualizzare i Disturbi di Personalità come entità neurobiologiche all’interno di un approccio secondo cui è possibile tradurre alcuni sistemi neurobiologici in sintomi psichici che riflettono cosa sta succedendo nel funzionamento della corteccia orbitale o prefrontale, nell’amigdala, etc. Tale tendenza a sposare una visione neurobiologica radicale, denuncia il professore, è fortemente influenzata dall’industria farmacologica, alla ricerca di caratteristiche che permettano il trattamento dei sintomi con psicofarmaci, ed è sostenuta dalla necessità di individuare trattamenti alternativi a terapie psicologiche a lungo termine, dispendiose sia dal punto di vista economico che di tempo.
In che modo questa competizione professionale si riflette all’interno del nuovo DSM?
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Dei 10 Disturbi di Personalità presenti nel DSM IV la commissione ha risparmiato solo i 5 che sono stati oggetto di ricerca empirica in tempi recenti. Non essendoci, per esempio, ricerche significative sul disturbo paranoide, esso è stato eliminato dal manuale diagnostico pur essendo un’importante sindrome clinica. È stato mantenuto il disturbo schizotipico, ma non il disturbo schizoide; si è tenuto il disturbo borderline, ma non l’istrionico. E allora come mai inizialmente era stato eliminato anche il Disturbo Narcisistico di Personalità per il quale vi è invece una vasta ricerca in letteratura? La scelta è stata frutto della spinosa battaglia tra la neurobiologia radicale e la psicodinamica, sostiene Kernberg, e quale bersaglio migliore se non proprio il Disturbo Narcisistico di Personalità, per la cui concettualizzazione il contributo della psicodinamica è innegabile?
“Il Disturbo Narcisistico di Personalità è stato eliminato per le stesse ragioni politiche che già in passato hanno portato all’eliminazione della personalità depressivo masochista, della personalità isterica, etc.”
Sotto la pressione della psichiatria clinica, alla fine, il Disturbo Narcisistico è stato reintrodotto nell’Olimpo dei Disturbi di Personalità, anche se non per motivi scientifici, bensì politici.
Si osserva però un impoverimento dei criteri diagnostici rispetto al DSM IV: nel DSM 5 il disturbo è infatti caratterizzato da deficit nel funzionamento del Sé, da problemi nell’identità, nell’autodirezionalità, nell’empatia e nell’intimità, in aggiunta alla grandiosità e al bisogno di attenzione. Tra le caratteristiche rilevanti del disturbo scompare la psicopatologia dell’invidia, e il criterio della mancanza di intimità non rende conto della grave incapacità di dipendere e di stabilire relazioni interpersonali di questi pazienti. Pertanto, afferma Kernberg, la descrizione di questo disturbo non è per nulla soddisfacente.
Ma si può salvare qualcosa della nuova concettualizzazione dei Disturbi di Personalità del DSM 5? A quanto pare sì! “Hanno finalmente compreso quello che il nostro istituto (NDR: Personality Disorders Institute, New York Presbyterian Hospital) sostiene da 30 anni, cioè che l’aspetto principale dei Disturbi di Personalità è il livello di gravità determinato dalla mancata integrazione del sé e delle rappresentazioni degli altri significativi. Sotto questo punto di vista il DSM 5 rappresenta sicuramente un miglioramento rispetto ai precedenti perché ora ci sarà un sistema dimensionale in cui la dimensione principale è la gravità del disturbo data dalla normalità o patologia del Sé e, se non del mondo interiore degli altri significativi, delle relazioni con gli altri significativi.”
Che si sia raggiunto un timido compromesso? Se sì, meglio tardi che mai, no?!
“Il disturbo narcisistico di personalità, verso il DSM-5” – Lectio Magistralis di Otto Kernberg e Frank Yeomans
Otto Kernberg all’Università Milano-Bicocca, sabato 28 gennaio 2012
Ore 9:00 del mattino. La sala è gremita. Tutti sono in attesa. Finalmente fa il suo ingresso Otto Kernberg: un uomo piccolino, composto, che con le sue teorie ha letteralmente rivoluzionato il mondo della psicodinamica e non solo.
L’arduo compito di presentare la Lectio Magistralis del Professor Kernberg spetta al dott. Mauro Grimoldi, presidente dell’OPL, che dopo aver simpaticamente scherzato sull’ampia coorte di sintomi ansiosi e disturbi del sonno che lo ha colpito nei giorni precedenti all’idea di dover introdurre un personaggio del calibro di Otto Kernberg, illustra in maniera breve e concisa perché la psicologia è debitrice nei confronti di questo professore, il cui contributo alla disciplina psicologica è innegabile; basti pensare che qualsiasi manuale di psicologia riporta almeno un capitolo inerente la sua teoria. Il presidente dell’OPL non si dilunga troppo, ridendo ci svela che sa che, come nei concerti pop a cui partecipava da ragazzo, nessuno è lì per ascoltare il gruppo di supporto, sono tutti in trepidazione per l’headliner.
Il prof. esordisce nel più inaspettato dei modi, scusandosi, con un sorriso, di non parlare italiano. Conquistata così tutta la platea, inizia ad esporre la sua teoria del Disturbo Narcisistico Di Personalità all’interno della concezione psicoanalitica, con una chiarezza espositiva che ne ha permesso la comprensione anche a chi non è avvezzo alla terminologia psicodinamica.
Articolo consigliato: DSM-V: Quando l’ideologia sconfigge la scienza: sulla Lectio Magistralis di Kernberg a Milano
Il narcisismo patologico, che si configura come uno specifico disturbo di personalità, rientra all’interno dell’organizzazione borderline di personalità, caratterizzata da un deficit nell’integrazione delle rappresentazioni positive e negative di Sé e degli altri. A differenza del Disturbo Borderline di Personalità in cui il soggetto continua ad oscillare tra idealizzazione e svalutazione, il Disturbo narcisistico rimane ancorato alla parte idealizzata. A difesa del caos interiore determinato dalla mancanza di integrazione si sviluppa un Sé grandioso patologico che include le rappresentazioni idealizzate e le fantasie grandiose sul Sé e sugli altri; le rappresentazioni negative vengono invece proiettate all’esterno. Ciò rende impossibile un coinvolgimento profondo nelle relazioni interpersonali poiché l’altro viene continuamente svalutato: “Non ho bisogno di nessuno. Ho tutto ciò di cui ho bisogno” è il motto del narcisista, che nega la dipendenza dagli altri e si rifugia nella sua onnipotenza. In realtà il narcisista è una persona profondamente sola, che allontana tutto e tutti per difendersi da una realtà pericolosa che in ogni momento potrebbe invalidare la sua rappresentazione idealizzata di sé. La sua condizione è talmente drammatica che paradossalmente ha un estremo bisogno dell’ammirazione dell’altro per poter mantenere intatta la propria immagine grandiosa: ovviamente la critica da parte dell’altro non è concessa!
Articolo Consigliato: Una spietata e instancabile amorevolezza: Otto Kernberg e John Clarkin a Padova. 21-23 settembre 2011
Chissà invece se la commissione che segue la stesura del DSM V, la cui pubblicazione è prevista per il 2013, accetterà di buon grado le critiche mosse nei suoi confronti da Kernberg.
“Lasciatemi dire che il sistema di classificazione americano finge di essere un sistema scientifico, ma in realtà non lo è, è un sistema politico e riflette l’impegno ideologico dell’American Psychiatric Association.”
Secondo il professore all’interno dell’APA si evidenziano principalmente due aree di conflitto: la prima riguarda la descrizione delle patologie, che deve fare i conti con la diatriba tra la psicologia clinica, sostenitrice dell’approccio categoriale, e la psicologia sperimentale, che utilizza invece criteri dimensionali; la seconda, invece, riguarda la concettualizzazione dei Disturbi di Personalità, dove oggi emerge forte una tendenza a riconcettualizzare tali disturbi in un’ottica neurobiologica radicale, sotto la spinta dell’industria farmaceutica. Per quanto riguarda il destino dei Disturbi di Personalità presenti nel DSM IV, Kernberg illustra come la commissione abbia risparmiato solo i 5 che sono stati oggetto di ricerca empirica in tempi recenti. Fra gli esclusi inizialmente c’era anche il Disturbo Narcisistico di Personalità, scelta che è stata frutto della spinosa battaglia tra la neurobiologia radicale e la psicodinamica. Tuttavia, sotto la pressione della psichiatria clinica, alla fine, il Disturbo Narcisistico è stato reintrodotto tra i Disturbi di Personalità, anche se con un impoverimento dei criteri diagnostici rispetto al DSM IV che certamente non soddisfa i clinici.
Una sola cosa è certa: il DSM V sarà una vera gatta da pelare per tutti i clinici, cognitivi o psicodinamici.
Dopo una breve pausa è il turno del Prof. Yeomans che inizia la sua brillante relazione dal tema “The TFP approach to the Narcissistic patient”. La psicoterapia focalizzata sul transfert (TFP), applicata per molti disturbi di personalità, si pone come obiettivo centrale il cambiamento strutturale della personalità. È un intervento centrato sull’individuo, che tiene conto degli aspetti del Sé e degli altri significativi interiorizzati dal soggetto e sui quali investe emotivamente.
Articolo consigliato: Intervista a Frank Yeomans.
Nello specifico quando si applica il TFP a pazienti con un disturbo narcisistico di personalità l’obiettivo è neutralizzare il Sé grandioso patologico attraverso l’integrazione delle parti scisse del Sé. Ciò è reso complesso dalla tenacia dei processi difensivi che rinforzano il Sé Grandioso Patologico e la straordinaria sensibilità all’umiliazione, alla vergogna, al senso di inferiorità e alla sottomissione. Come suggerisce il nome TFP, si tratta di una terapia focalizzata sulla costante interpretazione del transfert, ovvero i sentimenti che il paziente prova verso il terapeuta che tipicamente è considerato come un individuo da svalutare e da sconfiggere, e del controtrasfert, ovvero ciò che il terapeuta percepisce nella relazione (che il più delle volte è noia, preoccupazione e voglia di contrattaccare).
Articolo consigliato: Il Disturbo Narcisistico di Personalità secondo la Teoria di Kernberg
La TFP inizia con la formulazione di un contratto terapeutico, tuttavia gli interventi non si susseguono secondo un percorso prestabilito, un protocollo diremmo noi, ma sono frutto della valutazione del tema affettivo dominante che il paziente mostra: più il narcisismo è patologico, più rigida sarà la cornice terapeutica all’interno della quale verrà indagata la natura più primitiva dell’aggressività del paziente. Nel corso delle sedute il terapeuta impone al paziente narcisista di vivere un confronto con la realtà e di andare incontro gradualmente a momenti di consapevolezza che entrano inevitabilmente in conflitto con il suo abituale modo di rifugiarsi all’interno di un falso Sé. Il terapeuta diviene così l’unica congiunzione tra realtà e realtà immaginata ed è solo in questo momento che può tentare di incrementare la funzione riflessiva del paziente.
Ore 13:00 si conclude quest’interessante e affascinante Lectio.
Al termine dell’evento una folla di studenti (e non) si è messa in coda per autografi e foto, le reporter di State of Mind prime tra tutti!! Perché, come ha esclamato emozionata una ragazza: “un’occasione così non capita tutti i giorni!”
Lavorare per più di 11 ore al giorno predispone a un episodio di depressione maggiore
– Rassegna Stampa –
Lavorare per 11 ore o più al giorno non solo affatica l’individuo ma lo espone a un maggior rischio di sviluppare episodi di depressione maggiore.
Lo studio pubblicato questa settimana sul giornale scientifico PLoS One ha coinvolto 2,123 impiegati statali seguiti mediamente per circa 5 anni e sottoposti regolarmente alla valutazione di sintomi depressivi. In termini di ritmi lavorativi, è emerso che la maggior parte degli individui (52%) lavoravano sette-otto ore al giorno, il 37% trascorreva al lavoro 9-10 ore al giorno, mentre l’11% lavorava per 11 ore o più al giorno. I ricercatori hanno rilevato che lavorare per 11 o più ore al giorno sarebbe associato a un rischio di 2.3-2.5 volte maggiore di sviluppare un episodio depressivo maggiore rispetto a coloro che trascorrono la giornata lavorativa standard da 8 ore.
Tale associazione si mantiene significativa anche considerando nelle analisi variabili sociodemografiche e altri fattori quali l’uso di alcool, fumo, etc. E’interessante sottolineare il risultato della ricerca secondo cui sarebbero gli impiegati iperlavoratori junior e di medio livello ad essere maggiormente a rischio rispetto ai loro superiori: la lunghezza della giornata lavorativa infatti non avrebbe un impatto egualmente significativo sulla salute mentale di dirigenti, team leaders, direttori e managers che occupano posizioni superiori e con elevate retribuzioni. Tra i limiti dello studio, al di à del comprendere al generalizzabilità dei risultati ad altre categorie di lavoratori, vi è anche la questione legata alla latenza ed esordio dell’episodio depressivo maggiore: quante giornate da 11 ore lavorative devono trascorre prima che insorgano i sintomi depressivi? E tutto sommato, ricordiamolo vale la pena al di là dell’esito interrogarsi sul processo e su relativi mediatori e moderatori: in termini di esordio è ragionevole ipotizzare che costrutti quali perfezionismo patologico e controllo, pressando l’individuo verso un comportamento di iperlavoro, medino o moderino verso lo sviluppo di una franca sintomatologia depressiva.
Venerdì 27 gennaio è stato celebrato il Giorno della Memoria, commemorazione che ogni anno rinnova il cordoglio per la shoah, una delle massime espressioni della distruttività umana.
Primo Levi sosteneva che conoscere l’Olocausto è necessario, ma comprenderlo è impossibile; lo psicoanalista austriaco Bruno Bettelheim, anch’egli deportato nei campi di concentramento di Dachau e Buchenwald, tenta quantomeno, nella sua opera “Sopravvivere”, di comprendere la psicologia dei prigionieri dei campi di sterminio, analizzando la disintegrazione e l’alienazione psichica che derivavano da quell’esperienza.
L’analisi riguarda da una parte l’adattamento, individuale e di massa, alla vita nel lager, caratterizzato da diversi fenomeni psicologici comuni alla gran parte dei detenuti: tra le altre cose, vissuti ambivalenti nei confronti dei famigliari scampati all’arresto, la tendenza ad indulgere in fantasie irreali sulla vita dopo la liberazione, la regressione a comportamenti infantili nel tentativo di ingraziarsi gli ufficiali ed evitare le punizioni, l’aggressività dei detenuti più anziani nei confronti dei nuovi arrivati, che a volte finiva addirittura per tradursi in un’identificazione con le SS e con i loro valori.
Bettelheim non si limita alla descrizione della vita nel campo, ma si sofferma anche sulla sindrome del sopravvissuto al campo di concentramento, che vede emergere l’impossibilità di reintegrare la propria personalità a seguito di quell’esperienza atroce, il senso di colpa e il rimorso per ciò che si era fatto o non fatto, la necessità di mettere in atto potenti meccanismi di rimozione e negazione per non impazzire.
Il Corriere della Sera online propone in questi giorni un toccante documentario interattivo proprio con le testimonianze di alcuni sopravvissuti ai campi di sterminio; tra queste la storia di Liliana Segre, ebrea di origini milanesi deportata al campo di concentramento di Auschwitz, che ha il merito di rivendicare il suo statuto di vittima di un crimine orrendo senza però cedere mai all’autocommiserazione.
Sono infatti tanti gli episodi che racconta e in cui confessa con rimpianto la sua personale “psicopatologia da campo di concentramento”, analizzando come le condizioni di gravissima degradazione fisica e morale l’abbiano ad esempio portata ad essere egoista e indifferente al destino di una compagna più sfortunata, a passare le giornate tesa al solo e unico scopo animale di procurarsi il cibo, e a dormire “con le dita dentro le orecchie” per non sentire le urla dei bambini che venivano strappati alle loro madri.
Uno degli aspetti più toccanti della sua testimonianza è il fatto che non vuole limitarsi ad essere una condanna nei confronti della ferocia dei propri aguzzini, bensì vuole essere anche un messaggio di profonda speranza e di incoraggiamento a non arrendersi mai.
Parlando della disastrosa “marcia della morte” verso la Germania nel gelo dell’inverno polacco alla vigilia della liberazione, in cui i prigionieri stremati che cadevano a terra venivano fucilati sul posto, la Segre riferisce di come continuasse a ripetersi “voglio vivere, voglio vivere, voglio vivere” e in una disperata quanto lucida forma di analisi del compito, dato che il compito di dover camminare le appariva impensabile in quelle condizioni, avesse mentalmente ridotto la marcia al “mettere una gamba davanti all’altra” per non cadere, mentre i cadaveri cadevano dietro e davanti a lei ai bordi della strada.
Un messaggio audace a chi sta soffrendo, un’esortazione a cercare dentro di sé la forza anche nelle situazioni più drammatiche, spesso rivolto alle giovani generazioni che vivono un periodo storico di oggettiva e scoraggiante incertezza affinché affrontino la complessità e non accettino di subirla.
Una gamba davanti all’altra.
BIBLIOGRAFIA:
Bettelheim B. (2005) Sopravvivere. Milano: SE Edizioni
Il Corriere della Sera (Edizione Online), 2012, Salvi per Caso. Documentario interattivo. http://video.corriere.it/salvi-per-caso/index.shtml
Psicologia di Guerre Stellari 2: “mindful” Yoda
La lettura dell’articolo di Gabriele Caselli sul Maestro del Dark Side, Darth Vader , mi ha fatto riflettere sull’altro grande personaggio della saga di Lucas: il Maestro Indiscusso della Forza, Yoda (Sansweet et al., 2008). Master Yoda rappresenta in Star Wars il Gran Maestro del Consiglio e dell’Ordine Jedi, uno dei membri più saggi e anziani dell’Ordine, e probabilmente il più potente tra tutti i cavalieri Jedi.
Non sembra che Yoda viva in un costante atteggiamento mindful? Sembra che lui non conosca il doing mode, la “modalità del fare” in automatico, è sempre attento e consapevole di ciò che sta facendo. Che stia masticando il bastoncino di gimer (ve lo ricordate?), o suonando il suo flauto donatogli dagli Wookie di Kashyyyk, appare consapevole e attento a ciò che gli accade, momento per momento… per momento. E allo stesso tempo, come i migliori esseri (non necessariamente umani…), esprime la sua rabbia, lasciandola scorrere e fluire, come nel tragico duello contro l’Oscuro Lord Sidious, portando con sé tutto il dolore della strage dei Cavalieri Jedi.
Articolo consigliato: Psicologia di Guerre Stellari: Una diagnosi per Darth Vader.
Appena ho avuto in mente quel piccolo mostriciattolo verde, basso (66 cm per l’esattezza) e simpaticamente brutto, mi sono venuti in mente i sette principi della mindfulness indicati da Jon Kabat Zinn (2005) e ripresi dai recenti approcci ACT (Harris, 2011):
1) Atteggiamento non giudicante e 2) accettazione: lui per primo è consapevole e accetta anche la presenza del Lato Oscuro nel mondo, ma soprattutto dentro le anime. Venne tentato dal Lato Oscuro, tanto tempo fa… in una galassia lontana (“Dentro di me, una oscurità io porto). Chissà quante volte, durante le sue pratiche di meditazione, ha lasciato scorrere le emozioni legate a quella tentazione.
3) Pazienza: come raccontano su Jawapedia, Nel 200 BBY, Yoda, insieme ad altri grandi Maestri, scoprì che la forma della Forza era diventata strana e incerta. Studiando il mistero in meditazione, il Consiglio aveva accettato la sua interpretazione – la potenza del Lato Oscuro stava crescendo. Alcuni pensavano a un imminente ritorno dei Sith, ma siccome nessun Signore Oscuro si era rivelato, Yoda propose una altra teoria: l’arrivo del Prescelto della Forza, che avrebbe distrutto i Sith e il Lato Oscuro una volta per sempre. Questa consapevolezza probabilmente Yoda l’ha raggiunta solo con un grande sforzo di meditazione, che l’ha “risvegliato” e gli ha permesso di guardare oltre ciò che la maggior parte dei suoi colleghi Anziani Maestri stava professando.
La “mente del principiante”: pensate a quanto possa essere curioso un vecchietto di 900 anni… invece no, Yoda, durante la Guerra dei Cloni, “trasmigra” brevemente nel Lato Oscuro per comprendere le ragioni profonde per le quali il Conte Dooku gli propose di passare al Lato Oscuro. Ricordiamo che, proprio l’aver affrontato questa prova, in modo autentico e curioso, gli ha permesso di diventare definitivamente “intoccabile” dal Lato Oscuro.
5) Fiducia: “Difficile da vedere, il Lato Oscuro è”; questa considerazione non ha mai fatto desistere Yoda dal continuare a meditare, aspettandosi fiducioso che il mondo non sarebbe caduto nelle mani del lato oscuro (cosa che, peraltro, avviene, con grandi festeggiamenti delle truppe dei ribelli, usciti definitivamente vittoriosi dalla lotta contro l’Impero, a Endor). Tutto lo sforzo compiuto da Yoda negli anni è ripagato e lui, ormai diventato Luce, festeggia con tutti i ribelli.
6) Non cercare risultati: Questa potremmo tradurla con “non cercare i risultati subito… riflettere, affrontare le proprie paure e impegnarsi per i tuoi valori si deve”
7) Lasciare andare: Mentre addestra Luke Skywalker, Yoda cerca di insegnare al giovane futuro Jedi di far scorrere la Forza dentro di sé, “devi sentire la Forza”. “lasciare andare” chiede uno sforzo preliminare: di non voler controllare sempre che le cose siano come la nostra mente ci dice che sono. Questo atteggiamento, su cui le terapie ACT insistono molto (Harris, 2011) è ciò che ci fa convincere delle nostre convinzioni e non ci fa esplorare scenari alternativi (per dirla con le parole di Star Wars: Luke: non ci posso credere, Yoda: …ecco perché hai fallito).
Infine, 8 ) Impegno nella pratica… Non mi permetto di commentare l’esperienza di un Maestro che ha meditato per la maggior parte della sua vita… Considerando per di più che ha vissuto poco meno di 900 anni…
BIBLIOGRAFIA:
Harris R. (2011). Fare ACT. Milano: Franco Angeli
Kabt-Zinn J. (2005). Vivere momento per momento. Milano: Tea Editore.
Sansweet S., Hidalgo P., Vitas B., Wallace D., Franklin M., Kushins J. & Cassidy C. (2008). The Complete Star Wars Encyclopedia. Del Ray Publishers.
Nella discussione del decreto-legge sul sovraffollamento delle carceri, il Senato ha approvato un emendamento che dispone la chiusura degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari entro il marzo 2013. L’iter parlamentare prevede ora il passaggio alla Camera per il via libera definitivo ad un provvedimento che ha già suscitato numerose reazioni, sia per la delicatezza dell’argomento trattato sia per il carattere innovativo di un’azione politica che, nell’epoca intollerabile della casta, si è distinta per competenza, efficacia e chiarezza. La Commissione di inchiesta sull’efficacia e l’efficienza del Servizio Sanitario Nazionale, presieduta dal Senatore democratico Ignazio Marino, ha preso in esame la “Relazione sulle condizioni di vita e di cura all’interno degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari”, presentata dai Senatori Michele Saccomanno e Daniele Bosone. Tale rapporto ha evidenziato, negli istituti di detenzione psichiatrica italiani:
gravi carenze strutturali e igienico-sanitarie ad eccezione dell’Opg di Castiglione delle Stiviere e -in parte- Napoli;
un assetto strutturale “totalmente diverso da quello riscontrabile nei servizi psichiatrici italiani”;
una presenza di professionalità mediche specialistiche “globalmente insufficienti in tutti gli Opg rispetto al numero di pazienti in carico”;
la messa in atto di contenzioni fisiche e ambientali che “lasciano intravedere pratiche cliniche inadeguate e, in alcuni casi, lesive della dignità della dignità della persona”, e inoltre “la mancanza di puntuale documentazione degli atti contenitivi”.
Articolo consigliato: La chiusura dei manicomi criminali - OPG (Ospedale Psichiatrico Giudiziario)
Fra le varie misure proposte dalla Relazione, le più significative sono:
elaborare un’organizzazione dell’assistenza sanitaria “conforme ai Piani sanitari regionali della salute mentale delle regioni sede di Opg”, che possa ricondursi “alla legislazione nazionale e alle linee guida nazionali in materia di cura e riabilitazione della patologia mentale”;
attuare la normativa già esistente in merito alla creazione di “reparti specifici di osservazione psichiatrica e per minorati psichici […] nell’ambito degli istituti penitenziari ordinari”;
realizzare “un più stretto raccordo fra magistratura e servizi psichiatrici territoriali per dare seguito alla giurisprudenza della Corte Costituzionale”. Il rapporto Saccomanno-Bosone sottolinea che “in una psichiatria coerente con le proprie finalità istituzionali non dovrebbero ricercarsi recinzioni più forti nei luoghi di cura e di recupero psicosociale”.
L’indagine sugli Opg italiani ha dedicato estrema attenzione alla pratica delle contenzioni, presente in tutte le strutture esclusa quella di Aversa, ritenendola una misura di sicurezza illegittima, ingiustificata e antiterapeutica. Sono state inoltre delineate le “Linee per una riforma legislativa della psichiatria giudiziaria”, che propongono un “ripensamento complessivo dell’istituto della non imputabilità e di tutti i suoi perniciosi corollari”; Saccomanno e Bosone specificano che:
la prevenzione, cura e riabilitazione dei pazienti autori di reato devono essere competenza dei Centri di Salute Mentale;
la valutazione di pericolosità sociale non è diretta emanazione dell’accertamento di infermità mentale;
il proscioglimento penale per infermità psichica implica la nomina di un amministratore di sostegno “con specifico incarico di provvedere alle necessità di cura del paziente”.
La Relazione Saccomanno-Bosone, recepita dalla Commissione Marino e rafforzata da un sostegno bipartisan dei gruppi parlamentari, ha ispirato il provvedimento di chiusura degli Opg appena licenziato dal Senato. La nuova norma prevederà l’affidamento ai servizi del territorio per i pazienti giudicati socialmente non pericolosi, e la creazione di strutture alternative per gli altri soggetti. La responsabilità di questa riorganizzazione viene affidata alle singole Regioni, che saranno chiamate a coniugare il superamento degli Opg con il quadro specifico di problematiche e risorse di ciascun territorio. I timori manifestati anche da chi si è sempre schierato per questa conquista di civiltà riguardano il rischio che vengano semplicemente creati degli Opg più piccoli, all’interno dei quali verrebbero mantenute le stesse modalità di non cura e, sovente, di maltrattamento la cui individuazione ha generato il percorso riformista che stiamo descrivendo.
Sono perplessità legittime, peraltro giustificate dalle difficoltà con cui un altro storico provvedimento, la chiusura delle case manicomiali, venne attuato sul territorio. La chiusura degli Opg, che riguarderà circa 1400 pazienti, può avvalersi però di due fattori rilevanti: la definizione di una data precisa, l’1 marzo 2013, entro la quale le Regioni dovranno aver approntato e concretamente realizzato il progetto di riorganizzazione delle risorse sanitarie; il reperimento di fondi certi, già illustrato in Senato, per dare attuazione al provvedimento sia sul piano delle strutture da creare sia per quanto riguarda il coinvolgimento delle necessarie figure professionali. Superare gli Opg è un passo dovuto se vogliamo accedere ad una forma di convivenza civile più evoluta; non è pensabile che in un Paese dove spesso per i “sani” garantismo significa impunità, dove i “sani” possono eludere una pena adducendo malesseri fisici non meglio identificati, esista una categoria, quella dei “folli” – come l’immaginario umano li ha storicamente definiti per difendersi dalle ombre che possono appartenere a tutti -, di fronte alla quale valgono solo le regole del cinismo, di uno Stato che non perdona e non recupera. Superare gli Opg significa credere nella democrazia più difficile e più scomoda, che riconosce dignità umana anche a chi non ha il potere, la forza e il prestigio sociale necessari a far valere i propri bisogni.
La risposta fisiologica alla paura può essere incongruente con la valutazione del pericolo?
– Rassegna Stampa –
La nostra risposta fisiologica alla paura può essere in contraddizione con quella che è la valutazione conscia e consapevole del pericolo. Un nuovo studio della University of Exeter lo dimostra.
Ai soggetti sperimentali è stato chiesto di guardare uno schermo in cui di tanto in tanto appariva una forma colorata. Per la metà delle volte, la forma colorata era associata a un lieve shock elettrico: i soggetti quindi dovevano riportare se si aspettavano o meno lo shock elettrico durante la presentazione di queste forme, mentre veniva monitorata la loro conduttanza cutanea, uno tra gli indicatori dell’attivazione fisiologica –arousal- del sistema nervoso simpatico associato alle emozioni.
A seguito di una serie di immagine cui venivano effettivamente associati shock elettrici i soggetti erano più propensi a predire che non ne avrebbero ulteriormente ricevuti con le immagini successive; d’altro canto, si aspettavano uno shock elettrico quando non ne avevano ricevuti in associazione alle poche ultime immagini mostrate loro. Questo fenomeno tale per cui ci si aspetta una sorta di “buona fortuna” dopo una serie di eventi negativi e viceversa, viene definito “fallacia del giocatore d’azzardo”.
Ma ritorniamo alla nostra ricerca: oltre alla valutazione cosciente dei soggetti in termini di espressione esplicita di loro aspettative, vi è ancora una variabile in gioco, e cioè la conduttanza cutanea. Curiosamente, le misurazioni della conduttanza cutanea hanno rivelato un pattern di risposta opposto rispetto a quello delle valutazioni consapevoli dei partecipanti. Nello specifico, dopo una sequenza di shock elettrici correlati alle immagini, i livelli di conduttanza cutanea poco prima della presentazione dell’immagine non associata a shock elettrico erano simili a quelli rilevati durante le immagini con scarica elettrica, proprio come se a livello preconscio ci si aspettasse un ulteriore shock elettrico e in linea con i meccanismi dell’apprendimento associativo; viceversa l’attivazione fisiologica risultava nella norma dopo un trial che non prevedeva gli shock elettrici. Lo studio è un mattoncino empirico a ricordarci che negli individui, al di là delle sofisticate capacità cognitive superiori di valutazione e ragionamento consapevole con cui tanto i cognitivisti lavorano in terapia, quando sono in pericolo entrano altrettanto in gioco processi veloci, automatici e associativi.
Trattamento basato sul controllo nei disturbi dell’alimentazione (CFT-ED): un trial clinico randomizzato
Secondo il modello cognitivo e comportamentale il disturbo dell’alimentazione è mantenuto da un set tipico di convinzioni disfunzionali riguardo il significato personale attribuito al peso e alle forme corporee, che interagisce con un insieme di caratteristiche cognitive stabili, che fungono da processi di mantenimento della psicopatologia.
La chiusura dei manicomi criminali – OPG (Ospedale Psichiatrico Giudiziario)
Si respira aria di grandi cambiamenti in Italia, su tutti i fronti e, tra una manovra e l’altra, ecco pronto il decreto sulla chiusura dei manicomi criminali (OPG).
Si tratta di un passo storico, emblematico che sarà ricordato nel tempo, esattamente come è successo nel 1980 con la legge Basaglia che portò alla chiusura dei manicomi, posti in cui la gente perdeva ogni dignità.
Partiamo dalle origini. Alla fine dello scorso secolo la drammatica condizione delle carceri gravate da promiscuità e affollamento, aveva evidenziato l’urgenza di mettere mano, al più presto, a un progetto legislativo che autorizzasse l’apertura di manicomi criminali. Gli antropologi criminali individuarono in questi istituti la soluzione al problema della delinquenza e lo strumento per attuare la difesa sociale. L’istituzione dei manicomi criminali rappresentò l’affermazione del giudizio che la delinquenza è malattia e la pena sta nella cura. Il delinquente per definizione è quasi sempre un anomalo o un ammalato: un pazzo. Questo concetto era il principio guida degli antropologi, dei clinici, degli alienisti dello scorso millennio, infatti, il criminale era considerato oggetto di custodia e cura e non solo di semplice repressione. Qualche anno dopo i manicomi giudiziari furono denominati stabilimenti speciali per condannati incorreggibili. E così si diede inizio all’apertura di una serie di strutture mai riorganizzate o riesaminate e quindi, dimenticate.
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Il Senato, in questi giorni, ha dato il via libera al decreto cosiddetto “svuota carceri”, ampio provvedimento in cui ci si occupa anche delle condizioni dei manicomi criminali, posti in cui i pazienti sono lasciati a se stessi e versano in condizioni di totale squallore.
La legge, fatta e approvata al Senato, stabilisce tempi e regole ben precise che andrebbero a regolamentare l’individuazione di nuove strutture atte ad accogliere queste persone, reiette dalla società. Il termine temporale sancito è il 31 marzo del 2013.
Di conseguenza, si è pronti a mettere le mani in un ambito sociale dimenticato, proprio perché rappresenta l’ambiente in cui è presente del rifiuto umano e sociale. Infatti, ad oggi, la collettività si è relazionata a questa tipologia di malessere e di disagio attraverso l’abbandono.
Sono passati solo alcuni mesi da quando la Commissione d’inchiesta del Senato sull’efficacia ed efficienza del Servizio sanitario nazionale entrò nel manicomio criminale di Barcellona Pozzo di Gotto (Me). “Davanti a noi – racconta il senatore Ignazio Marino, presidente della commissione – uno spettacolo imbarazzante. Le lenzuola sporche, i muri scrostati dall’umidità, la muffa, i materassi accatastati, gli uomini lasciati senza cure e costretti in condizioni disumane. Il primo uomo che ho visto era nudo, legato con delle garze, sdraiato su un letto. Era in queste condizioni da cinque giorni”. Il presidente della repubblica, Napolitano, ha acconsentito a questo provvedimento, perché, sostiene, solo affrontando il problema potremmo non vergognarci più di questo squarcio di realtà.
“Nessuno, sia chiaro – ha risposto il ministro Severino – ha mai pensato di mettere in libertà potenziali serial killer o persone pericolose. I detenuti, se pericolosi, saranno custoditi in luoghi in cui ci sarà vigilanza ma, rispetto ad oggi, si privilegerà la cura. Non saranno certo liberi”. Poco più della metà dei pazienti rinchiusi nei manicomi criminali, sono internati perché ritenuti socialmente pericolosi. Tutti gli altri non sono stati liberati perché non avevano un progetto terapeutico, una famiglia che li accogliesse o una Asl che li potesse assistere. E’ come se fossero rifiutati dai “loro” territori perché mancano le risorse.
Qui nasce la domanda: dove andranno a finire? Ma non è l’unico interrogativo a cui sarà necessario dare delle risposte.
Nonostante i dubbi, le domande, la confusione e le esitazioni, il provvedimento ha già superato lo scoglio del Senato e, gli addetti ai lavori, sperano possa proceda senza intoppi. La soluzione sarà, dunque, costruire strutture sanitarie in ogni Regione, composte da team di psicologi, psichiatri e personale medico pronto ad affrontare le esigenze dei malati autori di reato.
“Non imparo perché sono pigro o per dire qualcosa a mamma e papà?” – Parte 2
Per quanto riguarda, invece, la letteratura scientifica, specifica su attaccamento e Disturbi Specifici dell’Apprendimento (DSA), non vi sono molti dati disponibili e il lavoro di approfondimento da fare sembra ancora molto.
Un tentativo significativo è stato fatto da Al-Yagon e Mikulincer (2004b) che si sono interessati al ruolo dei fattori attachment-based nei bambini con DSA. Il loro studio rileva che i bambini con DSA vivono le relazioni strette in modo meno sicuro e con livelli più alti di evitamento e ansia, rispetto ai compagni senza DSA. Inoltre, così come indicato in altri studi precedenti (Speltz et al., 1990; Lyons-Ruth et al., 1993; Moss et al., 1996), anche lo studio di Al-Yagon e Mikulincer (2004b) mostra che i ragazzi con DSA sono più vulnerabili a problemi di adattamento e provano più frequentemente alti livelli di solitudine.
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Questo studio conferma la scarsa tendenza a coinvolgere emotivamente l’insegnante, limitando al bambino l’opportunità di creare occasioni per esperire una relazione significativa con gli insegnanti. Lo stesso autore Al-Yagon (2007) rileva come il ruolo del caregiver (in particolare della madre) sia fondamentale nel fornire “frecce” di protezione nei confronti delle emozioni negative. Infatti, lo scarso uso, da parte della madre, di strategie di coping avoidant (di evitamento) nella relazione con il bambino svolge un ruolo di protezione rispetto ai sentimenti di solitudine provati dal bambino e speranza/sicurezza nelle relazioni. Esempi di queste strategie di coping avoidant? Non manifestare le proprie emozioni, evitare la compagnia di altre persone, “usare” il cibo e il sonno come strumenti di gestione per ansia e stress.
Altri studi (pochi), invece, indagano le comorbilità psichiatriche nei bambini con DSA (Hunt & Cohen,1984; Capozzi et al., 2008). Da questa ricerca si rileva come la presenza di stili di attaccamento insicuri nei genitori di bambini con DSA sono associati all’uso, da parte dei bambini, di strategie emotive e comportamentali disfunzionali. I bambini con genitori insicuri possono aver sviluppato un’immagine di sé e degli altri caratterizzata da fragilità e ciò può aver portato loro ad essere meno capaci di adattarsi alle situazioni stressanti come ad esempio i fallimenti scolastici (Wright-Strawderman & Watson, 1992).
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Questa breve rassegna sulla letteratura che indaga in modo approfondito il ruolo dello stile di attaccamento nello sviluppo dei DSA pone le basi per una considerazione: la letteratura su DSA e Attaccamento è ancora scarna, i dati presenti sono spesso contraddittori. Tale scarso interesse per questo interessante aspetto sembra essere in contrasto con l’esperienza clinica, in cui sembra si senta sempre più frequentemente la necessità di proporre alle famiglie di bambini con DSA un intervento multi-dimensionale che prenda in considerazione diversi aspetti del DSA, oltre alla riabilitazione psicomotoria.
BIBLIOGRAFIA:
Al-Yagon M. (2007). Socioemotional and behavioral adjustment among school-age children with learning disabilities. The moderating role of maternal personal resources. The Journal of Special Education. 40(4): 205-217.
Al-Yagon M., Mikulincer M. (2004a). Patterns of close relationships and socioemotional and academic adjustment among school-age children with learning disabilities. Learning Disabilities: Research and Practice. 19(11): 12-19.
Al-Yagon M., Mikulincer M. (2004b). Socioemotional and academic adjustment among children with learning disabilities. The mediational role of attachment-based factors. The Journal of Special Education. 38(2): 111-123.
Capozzi F., Casini M.P., Romani M., De Gennaro L., Nicolais G., Solano L. (2008). Psychiatric comorbidity in learning disorder: analysis of family variables. Child Psychiatry Hum Dev. 39: 101-110.
Givon S., Court D. (2010). Coping strategies of high school students with learning disabilities: a longitudinal qualitative study and grounded theory. International Journal of Qualitative Studies in Education. 23(3): 283-303.
Hunt R.D., Cohen D.J. (1984). Psychiatric aspects of learning disabilities. Ped Clin North Am. 31:471-497.
Lyons-Ruth K., Alpern L., Repacholi B. (1993). Disorganized infant attacchment classification and maternal psychosocial problems as predictors of hostile-aggressive behavior in the Preschool classroom. Child Development. 64: 572-585.
Moss E., Parent S., Gosselin C., Rousseau D. & St-Laurent D. (1996). Attachment and teacher-reported behavior problems during the preschool and early school-age period. Development and Psychopatology. 8:511-525.
Speltz M.L., Greenberg M.T. & DeKlyen M. (1990). Attachement in pre-schoolers with disruptive behavior: a comparison of clinic-referred and nonproblem children. Development and Psychopathology. 2:31-46.
Wright-Strawderman C., Watson B.L. (1992). The prevalence of depressive symptoms in children with learning disabilities. J Learn Disabil. 25:258-264.
The effectiveness of video feedback therapy – Part 4
This article is the fourth part of a series about video feedback therapy.
Training mothers to use more emotion rich, elaborative conversation styles is beneficial to the psychological development of children.
However, both previously reviewed studies instructed mothers to spend additional time with their children during training. Therefore, perhaps it was this additional time mothers were spending with their children that was responsible for the beneficial effects on the children and not the therapy.
In an effort to control for this possible confound, van Bergan et al. (2009) included an active control group of mothers. Forty-four mothers and their children (children’s average age 45 months) individually participated in seven training sessions and assessments over eight months, which included a six month follow-up. Both groups of parents and their children were given the same amount of time in training; however, experimental mothers were trained to frequently reminisce and use open-ended questions.
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Both groups were trained to be more positive and encouraging with their children. Additionally, both groups of mothers were shown training voice-over videos. The videos experimental mothers were shown highlighted the use of open-ended questions, detailed descriptions and emotion terms. The control videos focused on allowing the child to play at their own pace and attending to the child. The results demonstrated that, immediately after training and at the six month follow up, experimental mothers and their children made more elaborative and emotional utterances than mothers in the control condition. The children in the experimental group also showed better emotion-cause knowledge than control children.
Therefore, it appears that video feedback training helps mothers have emotion rich, elaborative conversations with their children. In turn, positive effects have been demonstrated following such training on children’s memory narratives, elaboration style, self-recognition and better understanding of emotion, even when controlling for the amount of time mothers spend with their children. Until recently, children who have difficulties in understanding emotion have not been examined in relation to the development and maintenance of psychopathology. In my next installment I will be discussing this relationship.
Correlazione tra il livello di testosterone prenatale e lo sviluppo del linguaggio.
– Rassegna Stampa –
Una nuova ricerca australiana dimostra che i maschi esposti a più elevati livelli di testosterone prima della nascita avrebbero un rischio doppio di sviluppare ritardi nello sviluppo linguistico rispetto alle femmine. La ricerca, pubblicata sul Journal of Child Psychology and Psychiatry, ha analizzato i livelli di testosterone prenatale durante il periodo di critico per la crescita e lo sviluppo delle regioni cerebrali deputate al linguaggio.
Gli autori dello studio sono partiti dal dato epidemiologico secondo cui il 12% dei bambini presenta un ritardo significativo nello sviluppo del linguaggio, e in particolare i maschi avrebbero tendenzialmente uno sviluppo linguistico più tardivo e più lento rispetto alle femmine. L’ipotesi quindi è che la diversa esposizione prenatale tra maschi e femmine al testosterone (dieci volte superiore nei maschi rispetto alle femmine), così come in modo differenziale tra i bambini di genere maschile, possa essere un fattore di rischio in questo senso.
I risultati dello studio – che ha coinvolto circa 700 bambini sottoposti a valutazione delle abilità linguistiche all’età di uno, due e tre anni- hanno dimostrato che i bambini di genere maschile che presentavano elevati livelli di testosterone prenatale avevano una probabilità di due volte maggiore di sviluppare un ritardo nel linguaggio. Viceversa, nella femmine è stata riscontrata l’associazione inversa: gli elevati livelli di testosterone nel cordone ombelicale sarebbero correlati a un minor rischio di rallentamento nello sviluppo linguistico.