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Pensiero matematico e linguaggi anumerici: la tribù Piraha in Amazzonia

– Rassegna Stampa – 

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze PsicologicheUn recentissimo studio pubblicato sulla rivista Journal of Cognitive Science dimostra che alcune lingue presenti sul nostro pianeta non dispongono di parole per esprimere i numeri, e cioè sarebbero linguaggi anumerici, e che gli individui di tali culture abbiano difficoltà nell’esecuzione di comuni compiti quantitativo-matematici.

Lo studio ha preso in considerazione la popolazione Piraha dell’Amazzonia, un gruppo di circa 700 individui semi-nomadi che vivono in piccoli villaggi lungo il fiume Maici, un affluente del Rio delle Amazzoni. Secondo l’antropologo Caleb Everett (University of Miami) i Piraha avrebbero difficoltà nel concettualizzare mentalmente specifiche quantità. Il loro linguaggio presenta solo 3 termini per indicare in modo aspecifico e generico le quantità senza alcun vocabolo che indichi dei numeri: “Hòi” significa “piccola quantità o dimensione”, “Hoì” “abbastanza grande”, mentre “baàgiso” vuol dire “molti o molto grande”.

Everett, sulla base di studi precedenti relativi a questa e ad altre popolazioni anumeriche, ha condotto una serie di esperimenti sul campo che hanno indicato come la popolazione dei Piraha non sarebbe in grado di eseguire semplici compiti matematici, come ad esempio accoppiare singoli elementi quando le quantità in gioco sono maggiori di tre. D’altro canto, quando sono stati introdotti nella loro lingua alcuni termini numerici (ad esempio la parola “tutti i figli della mano” per indicare il numero 4), è stato rilevato un miglioramento anche nelle prestazioni di tipo matematico.

Nell’affrontare l’intricato legame tra linguaggio e pensiero, l’antopologo sottolinea come il miglioramento delle prestazioni matematiche sia da associare a fattori linguistici e non a un più generico fattore culturale. “La preservazione delle lingue è fondamentale sia dal punto di vista scientifico perché ci dice molto riguardo la cognizione umana culturalmente radicata” sottolinea Everett ” sia dal punto di vista degli individui di quella cultura poiché mantenendo viva la loro lingua, mantengono viva anche la loro eredità culturale”.

 

 

BIBLIOGRAFIA:

Trauma e dissociazione: Riflessioni Teoriche e Cliniche verso il DSM-5

 

Trauma e dissociazione: riflessioni teoriche e cliniche verso il DSM-V - Immagine: © Redshinestudio - Fotolia.comLa convinzione che l’aver subito abitualmente, da parte delle figure di riferimento, maltrattamenti, abusi o grave trascuratezza durante l’infanzia rappresenti un importante fattore di vulnerabilità per un’ampia gamma di disturbi psichici è ormai in crescente diffusione fra i clinici. Negli ultimi due decenni numerose sono state le ricerche intorno al concetto di trauma ed alle sue ricadute psicopatologiche, e il dibattito che ne è derivato è sempre più intenso e foriero di nuove ed importanti scoperte, utili non solo alla ricerca di base ed alla pratica clinica, ma con rilevanti ricadute a livello sociale.

Ciò che ancora manca è un riconoscimento nosografico ufficiale che permetta di identificare una sindrome specifica che affondi le sue radici in uno sviluppo traumatico e che possa essere diagnosticata nell’adulto in comorbilità con altri disturbi di Asse I o II.

Le diagnosi di Disturbo da Stress Post-Traumatico (Post-Traumatic Stress Disorder – PTSD) e Disturbo Acuto da Stress (DAS), uniche a tenere in considerazione fra i criteri diagnostici l’aspetto eziologico, il trauma appunto (APA, 2000), non sono sufficienti a dare conto di una serie abbastanza specifica di sintomi che ritroviamo con una certa frequenza in pazienti affetti da disturbi differenti ma accomunati dall’aver vissuto storie di sviluppo costellate da traumi relazionali.

Violenza sulle donne e dinamiche di vittimizzazione - Immagine: © olly - Fotolia.com
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Diversi clinici e ricercatori esperti di patologie correlate ai traumi hanno proposto varie diagnosi, molto simili fra loro, che permetterebbero di identificare anche negli adulti gli esiti psicopatologici di traumi relazionali ripetuti e cumulativi subiti nell’infanzia: Disturbo Traumatico dello Sviluppo (Van der Kolk, 2005) e PTSD complesso (Herman, 1992), per citarne alcuni.

Sembra, infatti, esserci un buon accordo sul fatto che la vulnerabilità conseguente a simili itinerari di sviluppo riguardi principalmente funzioni integratrici di memoria e coscienza ed esiti pertanto in sintomi dissociativi, come mettono in evidenza anche Liotti e Farina nel loro ultimo libro “Sviluppi traumatici”, dedicato proprio a questo argomento (Liotti e Farina, 2011).

Il DSM-IV, tuttavia, non ha accolto queste proposte. Pare che si possa sperare nell’introduzione della diagnosi di “Developmental Traumatic Disorder” nel tanto atteso DSM-5 che renda finalmente conto di una realtà tanto vasta quanto scarsamente riconosciuta a livello diagnostico e di conseguenza anche terapeutico.

Otto Kernberg, Lectio Magistralis Milano-Bicocca, Narcissistic personality disorder, towards DSM-5 - Lectio Magistralis by Otto Kernberg and Frank Yeoman (2) - Immagine: © 2012 State of Mind - Anteprima
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Vorrei qui soffermarmi su alcuni aspetti che riguardano la dissociazione ed il suo legame con esperienze traumatiche ripetute nel corso dello sviluppo.

L’essere esposti ad un’esperienza traumatica, ovvero che comporti un pericolo di vita (da definizione del DSM), attiva in noi il sistema di difesa, un sistema molto arcaico incaricato di proteggerci dalle minacce ambientali che agisce con estrema rapidità ed al di fuori della consapevolezza. Quando scorgiamo un pericolo si attivano in noi in modo assolutamente automatico le 4 risposte fondamentali del sistema di difesa: freezing (congelamento), fight (attacco), flight (fuga), faint (svenimento/distacco).

Il freezing è un’immobilità tonica che permette di non farsi vedere dal “predatore” mentre si valuta quale strategia (attacco o fuga) sia la più adatta per la situazione specifica. Quando nessuna di queste strategie sembra avere qualche possibilità di riuscita l’unica ed estrema risposta possibile è il faint, la brusca ed estrema riduzione del tono muscolare accompagnata da una disconnessione fra i centri superiori e quelli inferiori. E’ una simulazione di morte, ovviamente automatica e non consapevole, perché in genere i predatori preferiscono prede vive. In questa situazione, per mezzo di attivazione del sistema dorso-vagale, vi è un distacco dall’esperienza e sono possibili sintomi dissociativi.

Se, come negli sviluppi traumatici, le condizioni di attivazione del sistema di difesa perdurano a lungo, questa attivazione si trasforma da risposta evolutivamente adattativa in disadattativa, perché impedisce un normale esercizio della metacognizione ed in generale delle funzioni superiori della coscienza, non permettendo l’integrazione di quella memoria traumatica che rimane, tuttavia, iscritta nel corpo (Tagliavini, 2011). Da questo processo deriva la frammentazione, la “molteplicità non integrata degli stati dell’Io” (Liotti e Farina, 2011, pg 37) .

Il termine francese “desaggregation”, disgregazione, utilizzato originariamente da Pierre Janet (Janet, 1898) (uno dei primi e più importanti autori ad occuparsi delle conseguenze psicopatologiche di esperienze traumatiche), ben evidenzia il processo di perdita di coerenza ed integrazione dovuta alla progressiva dissoluzione delle funzioni di coscienza: immaginate ad esempio un edificio, poi immaginate che si disgreghi, piano piano, immaginate che venga giù un pezzettino di intonaco, poi un pezzo di muro, poi un intero mattone, poi tutto il muro, poi la finestra attaccata al muro. Lo stesso avviene nella mente.

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Le esperienze traumatiche agiscono sulle funzioni integratrici superiori disgregandole, come l’edificio che abbiamo immaginato. In questo senso la disgregazione è un processo di cui fenomeni e sintomi dissociativi (distacco/alienazione e compartimentazione) sono il risultato. Per fenomeni si intendono quelle esperienze brevi e poco significative di alterazione della coscienza cui tutti noi andiamo incontro, per esempio nei momenti di transizione tra il sonno e la veglia, o come il dejà vù. Come sintomo, ossia come evento clinicamente significativo, la dissociazione e’ caratterizzata da due aspetti fondamentali: distacco / alienazione e compartimentazione.

I sintomi dissociativi di distacco (o meglio ancora alienazione) sono rappresentati da stati di coscienza di qualità abnorme: trance, stati ipnoidi, stati oniroidi, stati crepuscolari, stati di assorbimento, ottundimento della coscienza, senso di irrealtà. Tali stati esprimono l’allontanamento dall’usuale forma della coscienza e rimandano all’alterazione dell’esperienza di sé (depersonalizzazione) e del proprio mondo circostante (derealizzazione).

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Compartimentazione, invece, significa che la mente sembra funzionare a compartimenti stagni. Sintomi eclatanti di compartimentazione sono l’amnesia dissociativa, la fuga dissociativa fino al disturbo dissociativo dell’identità. Più frequentemente nella pratica clinica si riscontrano stati dell’Io poco o per nulla integrati caratterizzati da atteggiamenti e rappresentazioni di sé divergenti che mai hanno accesso simultaneamente alla coscienza. Non sono infrequenti in questi casi anche sintomi dissociativi somatoformi, come sintomi di conversione, sindromi dolorose psicogene e somatizzazioni.

Questo insieme di sintomi si ritrova con elevata frequenza in persone che hanno subito, nel corso dello sviluppo, ripetute esperienze traumatiche all’interno delle loro relazioni significative.

Un punto importante su cui si è discusso molto negli ultimi anni è se la dissociazione sia o meno una risposta adattativa al trauma, come estrema protezione dall’esperienza dolorosa (Steinberg e Schnall, 2001). Sebbene l’ipotesi più diffusa sia quella che concepisce i sintomi dissociativi come difesa, alcuni autori, fra cui Liotti, sostengono, in maniera piuttosto convincente, che la dissociazione sia “una disgregazione primaria del tessuto della coscienza e dell’intersoggettività, mentre la protezione dal dolore è un aspetto secondario e collaterale che fra l’altro spesso fallisce” (Liotti e Farina, 2011, pg. 85).

Istruzioni per creare uno psicopatico: recensione di "Io ti troverò" by Shane Stevens - Immagine: Copyright © 2010-2012 fazieditore.com
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Di più ancora: la dissociazione non solo non sarebbe una protezione dal dolore, ma un’esperienza al limite dell’annichilimento, dalla quale la mente deve difendersi per non sprofondare nell’abisso. Come un osso che si rompe in mille pezzi in seguito ad un trauma fisico non è il risultato di un meccanismo di difesa del nostro corpo, allo stesso modo la disgregazione delle funzioni integratrici della coscienza conseguente ad un trauma psicologico non sembra essere una difesa della nostra mente, ma un effetto collaterale devastante, con gravi ripercussioni sulla capacità di regolazione emotiva, sulle capacità metacognitive e sull’identità.

Certamente l’argomento è troppo vasto per essere esaurito in questa sede. Ciò che mi sembra importante mettere in evidenza è la necessità di dare maggiore spazio a riflessioni su questi temi che sempre di più sembrano riguardare non solo la ricerca ma anche e soprattutto la realtà clinica. Sempre più pazienti che varcano le soglie dei nostri studi (per non parlare degli ambulatori del servizio pubblico) provengono da storie traumatiche e sempre di più avvertiamo l’esigenza di modelli teorici e strumenti di intervento che tengano conto della complessità e della specificità della loro esperienza.  Anche l’esponenziale aumento di seminari, corsi ed interventi relativi al trauma ed alle sue connessioni con i disturbi dissociativi sembra una testimonianza importante del diffondersi dell’interesse e di nuove scoperte su questi temi.

 

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BIBLIOGRAFIA:

  • American Psychiatric Association (2000) Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorder. Fourth Edition. Text Revision. Washington D.C. Tr.it. Andreoli, V., Cassano, G.B., Rossi, R. (a cura di). DSM-IV-TR. Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali, Masson, Milano 2002.
  • Herman, J.L. (1992). Complex PTDS: a syndrome in survivors of prolonged and repeated trauma. Journal of Traumatic Stress, 5 (3), 377-391.
  • Janet, P. (1898) Névroses et Idées Fixes. Alcan, Paris, 1898. Reprint: Société Pierre Janet, 1990.
  • Liotti, G., Farina, B. (2011). Sviluppi traumatici. Eziopatogenesi, clinica e terapia della dimensione dissociativa. Raffaello Cortina, Milano.
  • Steinberg, M., Schnall, M. (2001). La dissociazione. I cinque sintomi fondamentali. Tr.it. Raffaello Cortina, Milano 2006.
  • Tagliavini, G. (2011). Modulazione dell’arousal, memoria procedurale ed elaborazione del trauma: il contributo clinico del modello polivagale e della psicoterapia sensomotoria. Cognitivismo Clinico, 8 (1), 60-72.
  • Van der Kolk, B.A. (2005). Il Disturbo Traumatico dello Sviluppo: verso una diagnosi razionale per i bambini cronicamente traumatizzati. Tr. it. in Caretti V., Craparo G. (a cura di) Trauma e Psicopatologia. Astrolabio: Roma 2009.

Il sessismo dell’ Ape Regina. Donne che perpetuano gli stereotipi di genere.

 

Il Sessismo dell'Ape Regina. - Immagine: © Anastasija Dracova - Fotolia.comSempre più donne, oggi, scelgono di lavorare, di realizzarsi e di portare avanti il loro progetto professionale, subordinando in alcuni casi il ruolo di madre e di moglie. Diventa obsoleto e chimerico il concetto di potersi dedicare in maniera esclusiva alla famiglia, anzi nell’immaginario collettivo colei che decide di darsi anima e corpo solo ai propri cari risulta poco integrata nella società, per questo sempre meno donne fanno solo le casalinghe.

Per contro, nell’ambito lavorativo si possono incontrare infinite difficoltà, soprattutto da parte dei colleghi, che non vorrebbero mai vedersi scavalcare, surclassare da una donna. Alla fine, nella cultura contemporanea lavorativa è molto diffuso lamentarsi del maschilismo e si è pronti ad additare gli uomini di negare potere, dignità e rispetto alle donne, proprio perché sono anche mamme e mogli.

In realtà si scopre che spesso sono le donne a perpetuare stereotipi sessisti.

Motherhood: il mito della madre. - Immagine: © Dmitry Ersler - Fotolia.com
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Col termine Ape regina la psicologia del lavoro indica una donna che occupa una posizione di potere, si riconosce una serie di attributi mascolini e deroga compiti di bassa lega alle sue subalterne, relazionandosi solo con colleghi dell’altro sesso, che stima e approva. Secondo i media è proprio la disuguaglianza di trattamento ricevuta dalle  donne a determinare la differenza di genere, non i tabù maschilisti quindi, ma i preconcetti esercitati e i comportamenti discriminanti dallo stesso sesso, una sorta di maschilismo al femminile. In uno studio recente si analizza quanto di vero esiste nella credenza: l’insediamento dell’ape regina è la conseguenza o la causa di un luogo di lavoro impregnato di sessismo? In base a questo studio, ambienti lavorativi in cui esiste l’ape regina sono caratterizzati da competitività e agonismo che portano alla lotta per poter raggiungere un ruolo di prestigio. Da questo comportamento deriverebbe, inoltre, invidia per le colleghe e il malcontento diffuso che si traduce in mancanza di mordente. Quindi, le persone oggetto di sessismo sono quotidianamente sul filo del rasoio, e anche le loro emozioni oscillano tra sentimenti discordanti, portando a casa, ineluttabilmente, un senso di rancore e rivalsa.

 

Da questo studio realizzato dal gruppo di Derks emerge che solo il 7% dei posti di potere nelle 100 più grandi compagnie è occupato dalle donne, che guadagnano stipendi più bassi del 6,5% rispetto agli uomini. E’ stato evidenziato anche come le donne che mostravano i tratti caratteristici dell’ ape regina confermavano, a loro volta, di aver sofferto molto a causa del sessismo e dei pregiudizi durante la loro carriera e si identificavano di meno con le altre donne, poichè riconoscevano a loro stesse delle capacità di dedizione, solerzia, audacia, determinazione e autoefficacia che non individuavano tra le colleghe, ma solo tra i colleghi.

Amica? Nemica! - Immagine: 2011-2012 © Costanza Prinetti.
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Le donne in un posto di lavoro potrebbero avere due chance: implementare e stabilire un legame con le altre donne per fare gruppo, per coalizzarsi e diventare “amiche”, o potrebbero distanziare le altre, perdendo la propria identità femminile. Le donne che per personalità tendono a non identificarsi con il sesso femminile ma si riconoscono caratteristiche maschili (non parliamo ovviamente di scelte sessuali, ma di tratti di personalità) scelgono più facilmente la seconda opzione. In questo caso la cultura sessista del lavoro le indurrebbe a lottare per diventare un’Ape regina. Un ambiente di lavoro sessista potrebbe essere la causa, o la conseguenza, del maschilismo al femminile e dare vita a lotte di potere a scapito di altre donne.

Potrebbe essere utile riflettere su questi temi per ridurre il gap esistente tra uomo e donna nei posti di lavoro. L’obiettivo potrebbe essere lavorare per ridurre i valori e le pratiche sessiste che si insidiano nei posti di lavoro, in cui si predica la parità, ma non la garantiscono sul piano sostanziale, dando vita a iniquità e malcontenti sessisti. Alla fine, lottare per ridurre le differenze tra i sessi potrebbe servire? O si finirebbe per aumentare il divario, attribuendo più potere a chi ne ha, portando se stessi in una spirale di autodistruzione?

Secondo me, è la profezia che si autoavvera e la parità non fa parte di questa realtà.

 

 

BIBLIOGRAFIA: 

La terapia come un romanzo: chiavi di lettura e interpretazione dei significati.

 

Terapia come un Romanzo: trovare un significato. - Immagine: © James Steidl - Fotolia.com Il tema di come il soggetto organizzi la propria esperienza, di come la psicoterapia possa fungere da prezioso organizzatore dell’esperienza, è presente con sfumature diverse all’interno di modelli sia psicoterapici sia afferenti ad altre scienze umane. La psicoterapia post-razionalista (Guidano, 1992; 2008; 2010) affronta le molteplici dimensioni del Sé proponendosi di individuare dei principi unificatori che l’individuo utilizza per conferire senso e forma alle percezioni, ai pensieri, ai vissuti emotivi.

Secondo questo approccio la psicoterapia non deve porsi come fonte di insegnamenti che il paziente riceve da una figura esterna più competente di lui, bensì come cammino condiviso nel quale il paziente e il clinico vanno alla ricerca e alla scoperta delle chiavi di lettura adatte a ricostruire un percorso esistenziale. La psicoterapia cognitiva, negli ultimi anni, si è molto interessata allo studio delle narrative personali (Lenzi e Bercelli, 2010), che si configurano anch’esse come un cammino di esplorazione che pone parzialmente in secondo piano l’intervento diretto sul sintomo, privilegiando invece il significato soggettivo che il paziente attribuisce alla propria esperienza. 

Il mio Psicoterapeuta suona il Rock! - Immagine: © Isaxar - Fotolia.com -
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Nella stessa direzione si colloca il pensiero filosofico (Demetrio, 1996), che riconosce nell’autobiografia un esercizio fondamentale a disposizione dell’individuo per comporre un quadro coerente ed esplicativo dei propri vissuti. Tale strumento è considerato utile non tanto al terapeuta impegnato a comprendere il funzionamento psicologico del paziente – l’approccio filosofico estende la propria teoria a qualunque contesto di analisi introspettiva – quanto al soggetto stesso che raccontandosi diventa autore e insieme fruitore di questo mezzo espressivo.

I temi di vita, i progetti esistenziali che condizionano l’esperienza secondo sfumature differenti, divengono più che mai centrali allorché la sofferenza dell’individuo risulta insopportabile e lo conduce ad intraprendere una psicoterapia; il lavoro del clinico sarà perciò orientato a comprendere quali aspettative, obblighi morali, desideri profondi abbiano fin lì determinato le scelte del paziente, la qualità delle sue relazioni interpersonali, le modalità di interpretazione del contesto ambientale, l’immagine di sé.

Ci facciamo una risata? Non saprei, è pur sempre una terapia. - Immagine: © Yuri Arcurs - Fotolia.com -
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E’ frequente in terapia incontrare delle resistenze al cambiamento che appaiono indecifrabili, sfuggenti; da clinici ci domandiamo cosa impedisca al paziente di elaborare alternative esistenziali che sarebbero per lui più utili, più strategiche e benefiche: la risposta è spesso contenuta nei temi di vita, nei progetti esistenziali, che possono proteggere l’individuo attraverso l’evitamento di quegli scenari sui quali egli percepisce di non avere un controllo sufficiente. Viene quindi privilegiato il mantenimento di una costellazione emotiva e cognitiva che pur riverberandosi in una serie di esperienze dalle quali il paziente afferma di ricavare sofferenza, rappresentano una sorta di male minore: dovesse abbandonare quegli automatismi, egli sarebbe costretto ad elaborare un’immagine di sé del tutto nuova, in conflitto col sistema di valori e percezioni che fino a quel momento hanno conferito un significato stabile e controllabile al suo vissuto.

La terapia può essere la riscrittura di un romanzo: il paziente porta una storia di vita che esattamente come le opere letterarie presenta un protagonista, uno o più antagonisti, uno o più ambienti esterni e molti personaggi che entrano in contatto con la trama.

Ciascuna di queste figure è portatrice di contenuti propri e peculiari, ciascuna di queste figure è animata da richieste, scopi, conflitti; le relazioni tra esse possono svilupparsi in modi coerenti o contraddittori, generare piacere o dolore, e in ogni interazione sono posti in gioco valori identitari, emozioni legate alle funzioni di ruolo, comportamenti evolutivi o di semplice autoconservazione. Nella nostra esperienza di lettori sappiamo che un romanzo può essere scritto perfettamente ma non trasmettere emozioni, o al contrario lasciarci perplessi sullo stile donandoci però un senso profondo di ciò che leggiamo; la prima esigenza che manifestiamo da lettori è quella di ricavare un significato, non importa se oggettivo o soggettivo, e a partire da questo bisogno ci poniamo delle domande cercando di collocare i vari elementi narrativi in una cornice che alla fine risulti esaustiva.

Il significato negativo degli eventi: introduzione al Laddering. - Immagine: © Slavomir Valigursky - Fotolia.com -
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Anche quando un romanzo ci racconta di eventi terribili, anche quando ci lascia nell’incertezza, è importante per noi comprendere cosa sia successo o avere almeno la possibilità di ricostruire con la nostra soggettività una o più ipotesi di significazione dell’intreccio letterario.

La psicoterapia può essere questo: il paziente giunge con un libro pieno di vuoti, con tante note a pie’ di pagina che non sa più come integrare, e tanti dubbi su quale sia stata la reale funzione degli eventi che hanno contraddistinto la sua vita. Man mano che la terapia colma queste lacune di senso, accrescendo non la felicità del paziente bensì la sua capacità di maneggiare le emozioni spiacevoli, prende corpo un romanzo rivisto e corretto, nel quale non si è modificata la cifra oggettiva dei fatti bensì la rappresentazione del significato globale. Il paziente attraversa spesso una fase depressiva quando realizza che né la terapia né il tempo sopprimono gli stati d’animo indesiderati, ma con l’aiuto discreto del terapeuta diventa più forte nell’accettare che ogni elemento abbia avuto una funzione all’interno del romanzo, che nulla, in altre parole, sia stato vissuto inutilmente.

 

 

BIBLIOGRAFIA:

  • Demetrio, D. (1996). Raccontarsi. L’autobiografia come cura di sé. Raffaello Cortina, Milano.
  • Guidano, V. (1992). Il Sé nel suo divenire. Verso una terapia cognitiva post-razionalista. Bollati Boringhieri, Torino.
  • Guidano, V. (a cura di Cutolo, G.) (2008). La psicoterapia fra arte e scienza. Franco Angeli, Milano.
  • Guidano, V. (a cura di Mannino, G.) (2010). Le dimensioni del Sé. Una lezione sugli ultimi sviluppi del modello post-razionalista. Alpes Italia, Roma.
  • Lenzi, S., Bercelli, F. (2010). Parlar di sé con un esperto dei Sé. L’elaborazione delle narrative personali: strategie avanzate di terapia cognitiva. Eclipsi, Firenze.

Ansia Sociale. Non ci siamo già visti da qualche parte?

– Rassegna Stampa – 

Studiati gli effetti di un breve contatto in chat sull’ansia sociale nelle successive interazioni faccia a faccia.

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze PsicologicheL’ansia sociale è un fenomeno diffuso in relazione a molteplici situazioni interpersonali. L’emergere della comunicazione mediata da computer (CMC) e l’esplosione dei social networks, sta modificando le modalità con cui le persone creano e mantengono le relazioni sociali.

In un recente studio sperimentale attualmente in press e disponibile on-line su Behaviour Research and Therapy i ricercatori hanno voluto verificare l’effetto di una breve e iniziale presentazione via chat sull’ansia sociale, ipotizzando un effetto positivo di riduzione di ansia ed evitamento negli individui fobici sociali. Nello studio 60 soggetti – con livelli alti e bassi di ansia sociale, sono stati assegnati in modo randomizzato a due condizioni: una condizione sperimentale in cui veniva loro chiesto di presentarsi e di conoscere brevemente in chat un interlocutore, e una condizione di controllo in cui dovevano semplicemente navigare in Internet. A seguito di tali condizioni, i partecipanti incontravano effettivamente faccia a faccia il loro interlocutore, già conosciuto in chat nella condizione sperimentale, mentre completamente estraneo nella condizione di controllo. I risultati confermano l’ipotesi dei ricercatori: quanto meno in semplici situazioni comuni in cui la presentazione in chat precede l’interazione faccia a faccia con la stessa persona, il contatto virtuale determinerebbe una riduzione dell’ansia sociale.

 

 

BIBLIOGRAFIA: 

I Volti della Menzogna, di Paul Ekman – L’arte di mentire senza farsi scoprire.

 

I Volti della Menzogna (Paul Ekman) l'arte di mentire senza farsi scoprire -A detta di Samuel Butler “Qualsiasi imbecille può dire la verità, ma è necessario un uomo di senno per saper mentire bene”. Raccontare una bugia e darla a bere a chi ci sta di fronte non è così semplice. Certo, il fattore sfortuna è sempre in agguato: avete appena terminato di raccontare ai vostri genitori della interessantissima giornata trascorsa a scuola ed eccovi immortalati in un servizio del tg serale mentre gozzovigliate alla Fiera del Fumetto. Ci sono però degli errori che commettete vostro malgrado: essere colti alla sprovvista con una domanda e non avere pronta una storia, non ricordare quanto raccontato in precedenza e cadere in contraddizione sono errori strategici che possono far nascere il sospetto che non la stiate contando giusta; dopo aver mentito occorre avere buona memoria e prontezza di spirito, e non è cosa da tutti!

Quando poi entrano in gioco le emozioni, queste creano dei problemi assolutamente particolari. “Le bugie fanno fiasco perché trapela qualche segno di un’emozione nascosta”, come per esempio la paura di essere scoperti, il senso di colpa perché si sta mentendo e in alcuni casi l’incontenibile piacere provato all’idea di beffare l’altro.

La situazione si fa ancora più complicata quando si tenta di celare un’emozione simulandone un’altra. Provate a mostrarvi arrabbiati quando invece avete paura: la vostra faccia si contorcerà facendovi somigliare ad un ritratto cubista perché gli impulsi suscitati dai due sentimenti tirano in direzioni opposte; per esempio le sopracciglia nella paura si sollevano involontariamente, ma nella rabbia bisogna aggrottarle!

Lie to me. - Immagine: © Fox Broadcasting Company -
Articolo consigliato:Psicologia delle emozioni: Lie to Me, Cal Lightman come Paul Ekman?

Ma quali sono gli indizi che svelano l’inganno? Ce li spiega Paul Ekman, uno dei più grandi studiosi di emozioni e comunicazione non verbale, alle cui ricerche si sono interessati persino il Dipartimento di Difesa americano e i servizi segreti per il controspionaggio. Nel suo libro I volti della menzogna (che ha ispirato la celebre serie tv Lie to me con Tim Roth), Ekman indica cosa cercare nella voce, nelle parole, nel volto e nella postura delle persone per capire se stanno mentendo o meno.

Il capitolo più affascinante descrive gli indizi di menzogna nel viso e spiega come sia possibile distinguere le espressioni autentiche di un’emozione, determinate dall’attivazione dei muscoli involontari, da quelle false, dovute all’azione intenzionale dei muscoli volontari del viso. Ekman ha dedicato allo studio delle espressioni facciali decenni e migliaia di ore di attenta osservazione di videoregistrazioni, ed è stato il primo a sviluppare un metodo esauriente e oggettivo per rilevarle e quantificarle; il risultato di questo imponente lavoro è The Facial Action Coding System (1978), un corso programmato, completo di manuale, software, fotografie e filmati illustrativi che insegna a descrivere e misurare qualsiasi espressione. Un vero e proprio corso per lie detector! Ekman sostiene che con un po’ di esercizio e dedicando tempo a guardare ed ascoltare con attenzione, osservando la comparsa degli indizi descritti nel libro, si può effettivamente migliorare nella stima della probabilità che l’interlocutore stia mentendo. Il programma di training è disponibile anche sul sito www.paulekman.com.

Se sperate invece che il libro vi sveli qualche trucco per mentire meglio, cascate male! A quanto pare saper mentire è un talento naturale, un’arte che non può essere appresa. A meno che non siate attori nati, ogni qual volta racconterete una bugia lascerete dietro di voi un’infinità di indizi inequivocabili! Fortunatamente per voi la gente di solito presta maggiormente attenzione proprio alle fonti meno degne di fede (es. le parole) anziché a quelle più affidabili (es. voce, corpo) lasciandosi trarre facilmente in inganno. Pertanto se ne avete appena raccontata una grossa, dormite pure sonni tranquilli! A meno che il vostro interlocutore non abbia seguito il training di Ekman, molto probabilmente la passerete liscia.

 

BIBLIOGRAFIA:

  • Ekman, P. (1989) I volti della menzogna (titolo originale: Telling Lies. Clues to deceit in the merketplace, politics, and marriage). Firenze. Giunti Editore spa
  • Ekman, P. & Friesen, W.V. (1978) The Facial Action Coding System. Palo Alto, Consulting Psychologists Press
  • Paul Ekman, sito ufficiale. www.paulekman.com

Psicologia delle emozioni: Lie to Me, Cal Lightman come Paul Ekman?

 

Lie to me. - Immagine: © Fox Broadcasting Company -Lie To Me è una serie televisiva statunitense ispirata alla vita e all’attività di Paul Ekman, psicologo studioso delle emozioni, e ne ripercorre il lavoro attraverso le riflessioni del protagonista, il Dr. Cal Lightman.

  •  1885: George Eastam inventa la pellicola cinematografica
  • 14 ottobre 1888: Louis Aimé Augustin Le Prince realizza la prima ripresa cinematografica, Roundhay Garden Scene, un cortometraggio di 2 secondi appena.
  • 28 dicembre 1895, Gran Cafè del Boulevard des Capucines, Parigi: grazie all’invenzione dei fratelli Louis e Auguste Lumière viene proiettata la prima pellicola stampata ad un pubblico pagante. Nasce la cinematografia.
  • 25 marzo 1925, Selfridges, Londra. L’ingegnere scozzese John Logie Baird presenta per la prima volta al mondo la Televisione. Circa un anno dopo il 27 gennaio 1926 riesce a mandare in onda la prima trasmissione televisiva in bianco e nero. Appena due anni dopo fu già in grado di creare la prima trasmissione a colori. Chissà se questi grandi uomini erano consapevoli dell’immenso cambiamento culturale al quale avevano dato origine?

Da allora sono stati prodotti circa 2.101.345 titoli: di cui 1.243.050 episodi di serie televisive, 268.752 film , 62.582 serie televisive e 62.512 film per la televisione (per ulteriori statistiche consultare il sito IMDB).  Da quando sono nate nei lontani anni trenta, le serie televisive sono state il prodotto mediatico per eccellenza nel piccolo schermo. Nella scalata al trono autori e produttori di serie tv e sit-com hanno spesso preso spunto dal mondo della psicologia per creare dei veri successi, ne sono un buon esempio serie come The Mentalist, Profliler, Dexter, e Lie to me.

Lie to me nasce dalla mente geniale di Samuel Baum, già autore di The Evidence, e dai produttori esecutivi di 24 e Arrested Development. Questa serie è ispirata alla vita e all’attività di Paul Ekman, psicologo studioso del comportamento e delle emozioni umane, e ne ripercorre le riflessioni attraverso il lavoro del Dr. Cal Lightman (Tim Roth), affiancato dalla sua preziosa assistente, la Dottoressa Gillian Foster (Kelli Williams).

I Volti della Menzogna (Paul Ekman) l'arte di mentire senza farsi scoprire -
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Lightman, analista delle espressioni facciali e del linguaggio del corpo e fondatore della Lightman Group, usa queste sue capacità per capire se la persona che ha di fronte sta dicendo o meno la verità. Capacità che risultano molto preziose per l’FBI, la polizia locale, gli studi legali, le grandi aziende o semplici privati, che richiedono il suo aiuto per risolvere casi complessi e pericolosi che possono coinvolgere omicidi, politici corrotti, truffatori e giornalisti senza scrupoli.

FoxTv riporta “Lie to Me vanta un’integrità realistica costruita sul bagaglio scientifico della criminologia e mescola sapientemente psicologia e attualità, con risultati assolutamente originali”. Sarà veramente possibile capire quando una persona mente e soprattutto riuscire a farlo così velocemente? Secondo il dott. Ekman la risposta è sì!.

Ekman studia le emozioni e come esse si esprimono attraverso il linguaggio non verbale da più di 15 anni, famose sono le “Espressioni Facciali di Ekman” che vengono ancora oggi utilizzate per condurre gli studi sulle emozioni. Anche le ricadute cliniche del suo lavoro sono state subito evidenti: i clinici si sono rivolti a lui per comprendere se i pazienti mentivano oppure no. Per rispondere a questa annosa domanda il dott. Ekman ha studiato accuratamente per ore ed ore in slow – motion, una moltitudine di video di pazienti e condotto diversi esperimenti analizzando ogni minima espressione facciale e gesto nel tentativo di identificare quelli associati alla bugia.

 

Dopo anni di studi quindi Ekman sostiene che il mentire sia preceduto da micro espressioni, spesso subito coperte con un sorriso, e micro gesti della durata di pochi decimi di secondo (Ekman, 2009). Un scrollata di spalle appena abbozzata, un gesto mancato, un espressione facciale mantenuta troppo a lungo, un repentino cambio del tono della voce o un rapido movimento degli occhi e molti altri sono tutti indizi che segnalano che si sta mentendo e che non sfuggono all’occhio dell’esperto.

Ecco quindi svelato un altro mistero che attanaglia tutti gli adolescenti del mondo: come fa la mamma a capire sempre quando dico una bugia? Semplice ha fatto il corso da Ekman!

 

 

BIBLIOGRAFIA:  

  • Ekman P. (2009) Telling Lies. New York: Times Books (US).

Musica & Terapia: “La prossima volta porti la chitarra” – Un caso Clinico.

 

Musica & Terapia: "La prossima volta porti la chitarra". - Immagine: © RA Studio - Fotolia.com La musica e le canzoni hanno fatto da sottofondo al lavoro psicoterapico settimanale della durata di un anno con J., uomo di mezza età sposato con due figlie maggiorenni, inviatomi in cura dopo un ricovero in ambiente psichiatrico per un grave tentativo autolesivo tramite abuso di psicofarmaci. Per J., a cui durante il ricovero era stato diagnosticato un disturbo di personalità narcisistico, era il secondo tentativo autolesivo.

Il primo era avvenuto due anni prima per svenamento. J. lavorava come paramedico, categoria professionale notoriamente ad alto rischio di suicidio sia per il possibile burnout, che per la disponibilità di mezzi autolesivi (Meltzer, 2008). Entrambi i tentativi avevano un forte carattere autolesivo, in quanto avvenuti in solitudine, senza preavviso e con mezzi potenzialmente letali.

Il mio Psicoterapeuta suona il Rock! - Immagine: © Isaxar - Fotolia.com -
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I problemi del paziente erano insorti tre anni prima quando aveva perso entrambi i genitori in pochi mesi e successivamente era entrato in una profonda crisi di coppia con la moglie, in seguito alla scoperta di un tradimento di lui avvenuto due anni prima. In realtà non era il solo tradimento. La coppia non aveva rapporti sessuali da quasi vent’anni ma aveva trovato una sorta di equilibrio in altri aspetti del rapporto: l’educazione delle figlie, i viaggi, la casa delle vacanze, le uscite con gli amici. Dopo la scoperta del tradimento, la moglie l’aveva cacciato di casa e lui era andato a stare nella casa vuota dei genitori, piena di ricordi, non solo piacevoli. Il clima famigliare veniva infatti descritto dal paziente come gelido da un punto di vista emotivo, caratterizzato da un grande contegno. Il paziente non ricordava che la madre gli avesse mai fatto una carezza o una coccola, ma sottolineava che i genitori fossero comunque stati attenti ad altri suoi bisogni più materiali.

La saggezza del Rock' n' roll. - Immagine: © Isaxar - Fotolia.com
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Il ritorno nella casa dei genitori era stato drammatico in quanto il paziente, terminato l’orario di lavoro si chiudeva dentro al buio, in un profondo stato depressivo. Mostrava una forte ambivalenza nei confronti della moglie e provava forti sentimenti di fallimento rispetto al “progetto famiglia”. C’erano momenti di avvicinamento tra i due, a cui seguivano improvvise rotture dovute a scoperte da parte della moglie di nuove frequentazioni del marito. Una di queste frequentazioni aveva una forte connotazione patologica in quanto era con una giovane paziente affetta da una malattia terminale che J. aveva conosciuto sul lavoro. Dietro alla sua giustificazione “E’ il solo tipo di relazione che potevo concepire perché sapevo che era a termine”, c’era un preoccupante bisogno di contatto con l’esperienza della morte, che poi si concretizzò nei due tentativi autolesivi. C’era anche una particolare spinta filantropica in J. in quel periodo, che si manifestava con continui gesti altruistici diretti verso gli sconosciuti, mentre emergeva fortissima la difficoltà a manifestare affetto verso i propri famigliari, figlie comprese. In quel periodo era anche arrivato a pensare di partire come volontario per una missione umanitaria, in una sorta di slancio di “narcisismo filantropico”.

 

J. era dotato di una personalità eclettica, suonava la chitarra e il pianoforte e cantava. In passato aveva allestito diversi spettacoli teatrali su tematiche sociali e aveva una grande passione per la musica d’autore italiana. I nostri primi incontri furono molto difficili in quanto J. mostrava una certa sfiducia nei confronti della terapia. Tra il primo e il secondo tentativo di suicidio aveva fatto un percorso psicoterapico di otto mesi con un collega che non aveva portato particolari benefici.

Sentivo da parte di J. un atteggiamento di distacco e di sufficienza rispetto ai nostri incontri che mi preoccupava, anche perché il fantasma del suicidio continuava ad aleggiare sulla terapia. Mi consultavo spesso con la collega del Centro di Salute Mentale che lo vedeva mensilmente per la terapia farmacologica (uno stabilizzatore dell’umore), che non sortiva particolari effetti.

J. rimaneva sospeso nel dubbio se tornare con la moglie e riparare il fallimento famigliare, ma ogni volta che provava a riavvicinarsi, in modo perverso, infieriva sadicamente su di lei. Viveva da solo, ma aveva lasciato tutti i vestiti e gli oggetti personali a casa della famiglia. Viveva da single, ma non pensava assolutamente a separarsi. In quel periodo era salvato dal lavoro che svolgeva sempre con passione, ma si sentiva talmente solo che mi chiese di trascorrere le due settimane di vacanza ricoverato nella clinica dove lavoro e io interpretai questa richiesta come un fatto positivo, preventivo rispetto ad ulteriori agiti.

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La situazione era decisamente bloccata e dopo il ricovero decisi di consigliare qualche seduta di terapia di coppia da una collega, con l’obiettivo di fare chiarezza sulla situazione. Alla seconda seduta la moglie quasi aggredì fisicamente il marito di fronte alla terapeuta e questa esplosione di rabbia servì ad allontanare definitivamente i due. Era evidente che non c’era spazio per un riavvicinamento. Dopo un ulteriore periodo di malessere, seguito alla presa di consapevolezza dell’allontanamento definitivo della moglie, cominciò la lenta risalita.

La fase successiva della terapia fu il recupero graduale del rapporto con le figlie, che si erano schierate con la mamma, e di fronte alle quali J. provava una grande vergogna e un’incapacità completa a manifestare il proprio affetto. Partendo da piccoli gesti di disponibilità materiale (commissioni, babysitting ai nipoti, riparazioni domestiche) riprese vita un rapporto che si era interrotto molto bruscamente.

Musica didattica metacognitiva - © Tommi - Fotolia.com
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In questa fase ricomparve anche la musica, che fino a quel momento era stata investita, come il resto della vita di J., da una deriva nichilistica. Si chiedeva “Che senso ha suonare, organizzare spettacoli in questa situazione?”. Era bloccato da una sorta di vergogna di fronte alle figlie che non aveva mai provato prima. Si era convinto che suonare in giro o organizzare un nuovo spettacolo sarebbe stato giudicato severamente dalle figlie, come se l’unico modo in cui avrebbe potuto presentarsi davanti a loro fosse come il padre colpevole che aveva abbandonato la casa e per quello meritava di soffrire per il resto dei sui giorni come Caino.

Mi aveva incuriosito che tra le poche cose che aveva portato con sé durante il trasloco nella casa dei genitori c’era la chitarra, e sapevo che ogni tanto suonava le canzoni dei cantautori per farsi un po’ compagnia. Mi aveva raccontato che in passato aveva scritto qualche canzone sua e i tempi mi sembravano maturi per un invito un po’ insolito in un contesto psicoterapeutico: “La prossima volta, porti la chitarra!”.

  J. non fece una piega alla mia richiesta e la settimana successiva me lo trovai in sala d’aspetto con la sua bella chitarra classica appoggiata sulle gambe. Mi suonò una sua vecchia canzone che aveva come argomento la felicità, che non era affatto male e glielo dissi. Mi rendevo conto del possibile pericolo di fornire un palcoscenico a una persona così fragile, ma ero convinto che trovare il modo di stimolare la parte artistica e creativa di J. l’avrebbe aiutato a comunicare meglio anche sul piano emotivo.

Poche settimane dopo mi raccontò che per il compleanno della moglie di un suo carissimo amico aveva regalato alla coppia un concerto privato a casa loro, allestendo tutto l’impianto audio e la scenografia. Si stava lentamente sbloccando!

Musica - © -Misha - Fotolia.com
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Gli ultimi mesi di terapia furono caratterizzati da un graduale miglioramento dell’umore e una maggiore apertura alla dimensione sociale, seppure in contesti abbastanza “protetti”. J. cominciò infatti a frequentare un gruppo di meditazione buddista, dove conobbe alcuni giovani attori che avevano appena restaurato e preso un gestione un piccolo teatro parrocchiale. Venne invitato all’inaugurazione del teatro e rimase letteralmente folgorato dalla magia del luogo.

Incoraggiato dagli attori, J. cominciò a maturare l’idea di tornare a esibirsi con uno spettacolo di canzoni che lo rappresentassero, che raccontassero la sua storia. Lo incoraggiai anche io, soprattutto rispetto alle paure del giudizio delle figlie, che comunque non invitò allo spettacolo.

Preparò e consegnò personalmente gli inviti alle persone che avrebbe voluto presenti, prevalentemente colleghi, musicisti che avevano suonato con lui, ammiratori di suoi spettacoli precedenti e iniziò a prepararsi in modo molto serio per il suo one-man show. Scelse come titolo “L’ultima canzone”, dove quell’ultima sinceramente un po’ mi inquietava, ma trovammo anche il modo di scherzarci sopra e comunque mi rassicurò che non era uno spettacolo di addio.

Invitò anche me e io chiaramente andai, uscendo (solo leggermente…) dal setting, godendomi due ore di canzoni d’autore intervallate da parti lette di un racconto che J. aveva scritto negli ultimi mesi sulla storia di un uomo che trovava in soffitta una vecchia cassetta piena di ricordi e da lì ricostruiva la propria storia. Quella sera fu un successo e J. venne ricoperto di applausi e di affetto per avere avuto il coraggio di tornare sul palco a raccontare sé e la sua sofferenza attraverso le canzoni.

Quest’anno mi ha invitato a un altro spettacolo che ha preparato insieme a una poetessa e a tre musicisti, ma purtroppo non sono riuscito ad andarci.

Quando l’ho chiamato il giorno dopo per sentire com’era andata, mi ha raccontato che si è trovato sua figlia in sala. Una bella sorpresa.

 

 

BIBLIOGRAFIA: 

Coppie cicliche e ambiguità del legame.

– Rassegna Stampa – 

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze PsicologicheSembra che ben il 40% delle coppie ciclicamente si lascino per poi tornare insieme. Questo comportamento altalenante è stato oggetto di studio da parte del prof. Amber Vennum della Kansas State University, che ha messo a confronto le informazioni raccolte da coppie “cicliche” e “non cicliche” sul loro rapporto e le sue caratteristiche.

Per fare questo ha utilizzato la Relationship Deciding Scale (RDS), che valuta le qualità relazionali e permette di fare previsioni accurate a 14 settimane di distanza. I risultati dello studio non sono così romantici come quelli suggeriti dalla letteratura o dai film; sembra infatti che le coppie cicliche, quando si tratta di transizioni importanti – come andare a coabitare, comprare un cane o fare un figlio – siano di gran lunga più impulsive di quelle non cicliche. Il risultato è che i partner di coppie cicliche sono meno soddisfatti della loro relazione di coppia, hanno una peggiore comunicazione, prendono più frequentemente decisioni che hanno conseguenze negative sulla relazione, hanno una bassa autostima e maggiore senso di incertezza sul loro futuro insieme.

Secondo Vennum ciò che manca in queste coppie è la capacità di esplicitare un ingaggio reciproco, rendendo così difficile impegnarsi in comportamenti a favore della relazione, come ad esempio discutere della coppia ed essere disposti a fare sacrifici in favore di questa. La ricerca ha anche messo in luce le strategie di rottura e riparazione del legame delle coppie cicliche: in questo tipo di coppie è l’idea che il partner sia cambiato in meglio o la comunicazione migliorata a spingere a riprovarci, anche se i dati di realtà indicano tutto il contrario. In alcuni casi il legame si ricostituisce perchè non è neanche chiaro cosa abbia provocato la rottura; come se il livello di ambiguità presente in queste coppie, non permettendo di definire chiaramente un ingaggio reciproco, rendesse impossibile anche sancire la fine della relazione e i motivi della rottura.

La ciclicità inoltre sembra essere una caratteristica che rimane stabile nel tempo, riproponendosi anche dopo il matrimonio.

 

 

BIBLIOGRAFIA: 

Storie di Terapie #2: Un pomeriggio con il demonio

STORIE DI TERAPIE

Nei casi clinici che seguono, l’arrosto sostanzioso dei vari pazienti è condito con il sugo della fantasia, per rendere non identificabili le persone e la lettura più avvincente. Spesso ho condensato in un solo paziente più persone e, quasi sempre ci sono scappati pezzetti di me stesso.   – Leggi l’introduzione –   

 

#2 Un pomeriggio con il demonio

Storie di terapie #2: Un Pomeriggio con il Demonio. - Immagine: © lineartestpilot - Fotolia.com - Dieci giorni prima

La signora Anna viene al mio studio certa di avermi già visto, cosa che non ricordo, lamentando una sintomatologia generica di preoccupazione diffusa per il futuro proprio e della figlia in quanto sole con un solo stipendio di assistente sociale e senza nessun contributo da parte del marito che tratteggia rapidamente come un debosciato, violento “senza arte ne parte”. Alla preoccupazione si è aggiunta da alcuni mesi la tristezza generata dalla scomparsa della anzianissima madre morta in clinica psichiatra dove era ricoverata per un delirio mistico che si è presentato nelle varie generazioni in più membri della sua famiglia. Prima di proseguire con il suo affannato resoconto Anna mi chiede se io ci creda o no. Le rispondo affermativamente sia in quanto sono abituato a non deludere l’interlocutore sia in quanto non ha precisato in cosa si aspettasse credessi e dunque non trattavasi di una vera e propria bugia.

Non sono certo che lei sappia che tra pochi giorni incontrerò la figlia e dunque lascio al margine tale argomento e mi concentrò su di lei. Oggi è il suo giorno. Nasce figlia unica 55 anni fa in un minuscolo paesino del Lazio da una famiglia di contadini onesti, lavoratori e timorati di Dio e vive fino ai diciotto anni nella stretta cerchia dei parenti serrata a proteggerla dalle insidie del mondo. Inesperta si invaghisce di un bell’imbusto di passaggio. Un peter pan di Firenze che orfano vive con una zia iperprotettiva con la quale ha un rapporto simbiotico e se la cava con espedienti post sessantottini (collanine e manufatti personalizzati) e non disdegna l’uso di sostanze diffuse tra i figli dei fiori. Forse fu proprio lo stordimento dovuto alle droghe unito alla baldanzosa euforia ormonale dei diciotto anni che consentirono a Marcello di superare il serio ostacolo posto dall’aspetto fisico di Anna (che si distingueva per sgradevolezza anche in un tempo in cui le donne brutte erano molto più diffuse e brutte di oggi) e portarono in un colpo solo alla perdita della verginità che Anna intendeva donare al signore considerato anche lo scarso valore di mercato che aveva tra gli umani e all’annidamento nel suo utero di un assembramento di cellule primo abbozzo della futura Luana.

Storie di Terapie - © Athanasia Nomikou - Fotolia.com
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Forse fu proprio l’innato atteggiamento oblativo da assistente sociale che spinse Anna a volersi dedicare a Marcello cercando di trasformarlo in un responsabile padre di famiglia. Ma lui e la sua forse incestuosa zietta non vedevano di buon occhio il progetto di redenzione dell’orfano dei fiori. Marcello tentò in tutti i modi possibili di far abortire Anna in primo luogo con una strategia fai da te consistente nel massacrarla di botte. Le botte rimasero da allora una costante della loro relazione e più volte la piccola Luana le salverà la vita chiamando i soccorsi dopo averla trovata riversa in un lago di sangue. In questo modo ricambiando il dono fattole dalla madre che la protesse dalla furia abortiva del padre. Ognuna salva e vigila sulla vita dell’altra costantemente minacciate da tutto ciò che è esterno alla loro diade simbiotica. Anna raggiunge Marcello a Firenze decisa a fargli accettare il suo ruolo di padre e durante la sua assenza suo padre si suicida con un colpo di pistola in bocca. Il gesto e la sua assenza in quel frangente saranno sempre vissute da Anna come una sua gravissima colpa per riparare la quale si dedica totalmente alla cura della madre vedova.

La vita di Anna è dedicata completamente al Signore anche senza potergli donare il fiore della sua verginità, alla cura della madre della figlia e del prossimo più sfortunato con il suo lavoro di assistente sociale. E’ un’esistenza di risarcimento ed espiazione. Marcello frequenta moltissime donne ma non abbandona mai la sua zietta fiorentina e continua a malmenare Anna ogni qual volta lei gli si fa sotto. Poi fa perdere le sue tracce in Australia non avendo trovato sul nostro pianeta una terra più lontana dall’Italia. Ad Anna prescrivo ansiolitici per lenire le preoccupazioni che la tengono sveglia la notte (il sonno si vedrà essere un tema drammaticamente ricorrente) e degli antidepressivi blandi per aiutarla nel superamento del recente lutto della madre verso la quale prova anche sensi di colpa per averla “rinchiusa in clinica” e per aver provato nascostamente sollievo alla notizia della sua scomparsa. Ci lasciamo sulle mie rassicurazioni circa la disponibilità ad occuparmi della figlia.

Un pomeriggio dalle suore

Marco, l'ultimo samurai. Immagine: © Diedie55 - Fotolia.com -
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Incontriamo Luana alle 15,00 di un soleggiato pomeriggio invernale in un convento di suore della consolata a due passi da Nepi dove Luana è giunta la mattina stessa in fuga da una cosiddetta comunità terapeutica. Mi accompagna Carlo, uno psicoterapeuta esperto in problemi giovanili, inizialmente smarrito tra gli odori di minestrina, formaggio insipido e verdure lesse che rendono riconoscibile un qualsiasi stabile come un convento di suore con la sua atmosfera rassicurante e laboriosa. Luana arriva accompagnata per mano dalla superiora Suor Simona. Appare come una ventiduenne tipica vestita semplicemente e con qualche chilo di troppo. Soprattutto è visibilmente spaventata e chiede continue rassicurazioni circa il fatto che non sarà più rimandata nella comunità di Perugia dove ha trascorso gli ultimi tre mesi da incubo. Suor Simona, bionda, magra e delicata ma di rocciosa solidità è la giovane superiora con una laurea in psicologia che si pone come figura protettiva e materna e la lascia solo dopo essersi assicurata che Luana sia tranquilla a restare con noi considerato l’aspetto da diavolo buono (Geppo) ma pur sempre diavolo di Carlo. L’arrivo del vescovo cui si affida totalmente la rassicura e la fiducia che lui mostra in noi accresce enormemente la nostra autorevolezza. Accetta di buon grado di rimanere sola con noi.

In un contesto clinico avremmo scritto in cartella “la paziente è orientata nel tempo e nello spazio, accede volentieri al colloquio e non presenta manifestazioni psicopatologiche di alcun genere”. Essendo invece nel salottino di un convento diremo che Luana è una ragazza estremamente lucida, consapevole e molto intelligente che ci racconta volentieri la sua storia ed ha con noi un ottimo rapporto empatico. Mentalmente escludiamo qualsiasi forma psicotica. I matti veri li riconosciamo ad occhio e lei non lo è. Allora però se non è matta come sembra sarà davvero indemoniata. Se non fossimo a conoscenza dei risvolti ultraterreni della vicenda e di tutte le figure che vi ruotano o svolazzano intorno dopo mezz’ora saremmo a chiudere il pomeriggio in un bar di Nepi con una birra. Ma l’attesa del manifestarsi del soprannaturale ci trattiene. Più passa il tempo ed il colloquio procede più iniziamo a temere di aver fatto il viaggio a vuoto e di poter chiedere a Satana il rimborso dei soldi per il mancato spettacolo. Ma la vicenda si fa umanamente interessante e la sua brillante e profonda narrazione ci avvince. Luana ricorda un’infanzia segnata dalla continua guerra tra il padre e la madre. La madre descriveva il padre come un demonio ma la spingeva ad andare da lui a Firenze perché questo spetta ad una brava figlia. Quando il padre era presente le liti tra i genitori esplodevano furibonde e ricorda spesso la madre a terra insanguinata e lei che chiama l’ambulanza. Quando il padre non c’era le liti erano tra la madre e la nonna descritta come una iperansiosa, controllante e fissata con la religione. Il padre non tollerava di stare con loro anche per questa presenza asfissiante per tutti.

Penso anche ad un abuso che giustificherebbe la dissociazione. Invece ricorda il padre stordito dalle sostanze e inaffidabile ma mai direttamente violento nei suoi confronti. La madre invece mai disponibile per lei presa dalle liti con il padre, le cure della vecchia madre e dei suoi utenti. Le chiedo di elencarci i suoi sintomi. Convinta della sua possessione o in alternativa minore della sua follia racconta di aver avuto tutti i possibili disturbi tra cui degli attacchi di panico che non risulteranno essere tali. Il primo infatti consiste in uno svenimento a seguito di una sigaretta fumata a digiuno.

Scivola a terra e la madre lascia perdere tutto per occuparsi di lei. A quel punto consapevolmente resta a terra e si lamenta eccessivamente beandosi dell’attenzione della madre finalmente richiamata. Luana dice di aver compreso allora che l’unico modo per avere l’attenzione della madre era star male.

Insomma “piccole isteriche crescono”. La scuola di perfezionamento la fa alle cosiddette “messe di liberazione” di per sé pratiche innocue in quanto preghiere a favore dei malati dove viene spinta dalla nonna con l’argomentazione che “non si sa mai” e poi “pregare certamente non fa male a nessuno” (stessi argomenti utilizzati in genere a difesa dell’omeopatia e dell’astrologia). L’ambiente però è mal frequentato e Luana assiste a clamorose crisi isteriche di fronte ad un pubblico che esalta entusiasticamente le più teatrali. Ne resta turbata e chiede di non andarci più in accordo con la ferma presa di posizione del padre. Ma agli occhi di chi ha una fede primitiva condita con tanta tanta ignoranza ed una spruzzatina di tendenza al delirio che tutto spiega autoconfermandosi cosa può significare questo rifiuto? Ovviamente che il demonio che si è introdotto nella ragazzina vuole fuggire dall’incontro con Dio che può batterlo.

In questo modo si entra in una terribile spirale autoconfermatoria tipica anche della malattia mentale. Una volta che intervengono gli psichiatri, qualsiasi tentativo di mostrare la propria sanità mentale e magari l’irritazione per essere considerati folli divengono ulteriori prove dello stato di follia (si legga in proposito “La beffa di Roshenam” sul volume La Realtà inventata di Watzlavich, Feltrinelli). Altrettanto con gli esorcisti. Non è forse la prima delle astuzie del demonio quella di far credere che non esiste! Tornando alla sua realtà di quattordicenne bruttina e timida racconta delle difficoltà ad inserirsi nel gruppo classe, dei primi turbamenti sessuali con relativi sensi di colpa. Poi finalmente una cotta per Marco di tre anni più grande e i sogni di normalità. Escono persino un paio di volte insieme e lui mostra un interesse per il suo fisico ma viene respinto fermamente. Mamma Anna, anche forte della sua esperienza con Marcello l’ha messa in guardia: il sesso è la via maestra per l’inferno su questa terra e soprattutto…  

…nella successiva vita eterna. Dopo mesi di inutile assedio alla virtù di Luana Marco durante una gita scolastica si mette con una ragazzetta più grande e disponibile. Per Luana è il dolore allo stato puro. Vede confermate le sue previsioni di solitudine, emarginazione e derisione. E’ diversa dalle altre. Si sveglia la notte e rimugina ossessivamente su quanto è successo, cercando le sue colpe e le sue mancanze. Si preoccupa del sonno disturbato che era una caratteristica del nonno nel periodo precedente al suicidio e lo dice alla mamma. Anna allarmatasi inizia a dormire nel letto con la figlia per controllarne il sonno e pensa ad interventi terapeutici più sostanziosi che non le messe di liberazione. Luana ha ottenuto la vicinanza della madre che le dorme accanto ma paga il prezzo di un escalation di esorcismi verrebbe da dire “privati” nel senso di professionisti scaccia diavoli non organici alla chiesa ma dotati di poteri particolari che utilizzano per sbarcare il lunario. Un po’ come gli psichiatri privati, fuoriclasse, rispetto alle truppe dei dipartimenti di salute mentale. Il problema del sonno resta immutato richiedendo interventi sempre più massicci. Attualmente Luana sostiene una cosa inverosimile perché incompatibile con la vita e cioè di non dormire da quattro anni. Leggende analoghe riguardano il nonno suicida. Ogni incontro con gli scaccia demoni se non risolve la sintomatologia aiuta però a confermare la diagnosi per il suo comportamento rifiutante. Luana è piena zeppa di demoni e di quelli importanti. La loro presenza si manifesta oltre che con l’ insonnia con vizi notoriamente ispirati dal maligno come il fumo e l’assunzione di caffè che lei ha infatti eliminato da quattro anni. Durante una pausa dopo due ore ininterrotte di colloquio io prendo un caffè e insisto che lo faccia anche lei. Difficilmente scorderò la sua faccia stupita avvicinarsi al bicchiere di carta fumante stretto con due mani mentre continuava a ripetere”ma davvero posso?” mentre noi ironizzavamo sulla probabile immediata comparsa di Belzebù stesso cui avremmo dovuto offrire un caffè ma pronti ad annientarlo con la bottiglia di acqua di Nepi che Carlo aveva preso (non dorme se prende il caffè il pomeriggio) come demonifugo e lenimento per la sua prostata. Il fatto di essere stata catalogata come indemoniata a motivo delle convinzioni della madre e del delirio della nonna non era la cosa peggiore che potesse capitare a Luana. Il peggio doveva succedere negli ultimi tre mesi quando la gestione è passata agli strizzacervelli. La madre abbattuta dal lutto della propria madre aveva gettato la spugna e Luana era stata inviata in una comunità terapeutica vicino Perugia. Questa comunità mette insieme matti, tossicodipendenti di tutti i tipi, internati sottoposti dal giudice a misure di sicurezza, barboni e ogni sorta di umanità sofferente e marginale. La gestione sotto la guida della chiesa locale è affidata ad ex ricoverati che si gettano con zelo e certezze assolute come solo gli ignoranti possono avere nel recupero delle anime in via di perdizione per ogni tipo di vizio. La filosofia di fondo è che tutto il male provenga dalla mancanza di regole, dal proprio egoismo e dall’orgoglio (lo stesso in definitiva che portò alla rivolta di Lucifero. Di conseguenza la terapia consiste essenzialmente nell’imposizione di regole e nella sistematica vessazione e umiliazione. Il paziente va domato, deve abbassare la cresta, riconoscere chi comanda. E’ chiaro che una tale impostazione si presta a tirare fuori il peggio da operatori già evidentemente disturbati per il loro passato se persino persone normali e oblative possono diventare aguzzini feroci come ha dimostrato l’esperimento di Zimbardo nel laboratorio di Stantford (riportato nel suo volume “the lucifer effect”). Se questo avviene spesso in queste sedicenti comunità terapeutiche riedizione privata e dunque meno controllata dei vecchi manicomi, la situazione di Perugia è particolarmente grave. Luana vive tre mesi di incubo. Maltrattamenti e umiliazioni di ogni genere, tanto chi crederebbe alle denunce di una povera matta? E’ costretta a riferire, sotto minaccia, al vescovo che si trova bene. Tutti gli ospiti non possono comunicare con l’esterno l’inferno, questo si, che stanno vivendo. Per la prima volta davvero Luana incontra il diavolo. La situazione se possibile peggiora ancora dopo una puntata delle iene che denuncia le violenze di cui è protagonista Don Lucio ora inquisito dalla magistratura. Lui viene immediatamente sostituito e i filmati delle iene scompaiono da internet. Ma il suo vice è un laico ex tossico che sentendosi accerchiato dalla magistratura si fa ancora più minaccioso. Questa mattina Luana lascia la comunità ma per avere la certezza che torni non le permettono di portar via le sue cose e non restituiscono i documenti. Mi impegno formalmente con lei che non tornerà mai più in quel luogo di sevizie. Si sta facendo tardi e l’ultima parte del colloquio è dedicata al futuro. Luana chiede solo di dormire e insieme concordiamo che i farmaci non basteranno. Sarà necessaria anche una vita migliore e lei esprime il desiderio di allontanarsi da Rieti e di studiare scienze infermieristiche o imparare un lavoro più pratico legato al mondo dell’estetica. Ricompare Suor Simona che ci racconta come avesse pensato di trovare una sistemazione per Luana e la madre a Passo Corese in modo che Anna potesse facilmente raggiungere il suo lavoro a Rieti e Luana con il treno rapidamente Roma che offre tutte le possibilità di studio e di lavoro per costruire la sua esistenza lontana da strizzacervelli e scaccia diavoli. Suor Simona riferisce che la madre è contraria a lasciare Rieti e concordiamo per una serie di incontri a tre in cui affrontare il problema. Luana aggiunge una richiesta che denota ulteriormente il suo buonsenso. Vorrebbe anche fare una psicoterapia per rimettersi in carreggiata. Se tutto finisse qui sarebbe stato un pomeriggio utile e perfetto ma c’è ancora una incombenza. La preghiera o il cosiddetto esorcismo che deve tenersi a Capena nella parrocchia di Don Gilberto, padre amoroso e comprensivo per i suoi fedeli di giorno e implacabile cacciatore di demoni dopo il crepuscolo. Luana esprime chiaramente il suo desiderio di soprassedere almeno per oggi. E’ stata una giornata impegnativa. Sveglia nella comunità, poi la fuga poi tre ore con gli strizzacervelli le sembra di aver dato abbastanza. Ma la macchina è già in moto. Noi non ci opponiamo decisamente per non entrare in conflitto con l’ambiente che per il momento accoglie Luana e che ci vedrebbe perdenti e bollati come presuntuosi materialisti e forse persino un tantino in odore di zolfo (meglio non rischiare). Forse anche perché siamo curiosi di vedere l’epifania del soprannaturale, non vogliamo perderci lo spettacolo e per questo ci sentiremo in colpa a non aver agito. 

Non avrei voluto vedere il medioevo contemporaneo 

Una lunga processione di auto si incammina verso Capena. In una Luana e Gilberto. In un’altra tre suore. Nell’ultima Carlo ed io finalmente liberi di confrontarci e concordare su un disturbo ossessivo come causa dell’insonnia su un disturbo istrionico di personalità. La strada è lunga e tutta curve ed io avverto nausea ma Carlo non vuole farmi scendere per farmi vomitare certo che sarebbe verde. Nei gelidi locali di Capena troviamo ad aspettarci altre quattro persone. Frate Gabrielle giovane esorcista che sembra uscito da un volume di Dan Brown con il suo saio elegante e severo e gi avambracci protetti da una guaina di pesante cuoio fermata con delle fibbie in metallo per proteggersi da morsi e graffi. Mario, un ex ammiraglio vedovo che porta il suo contributo immobilizzando con i suoi 90 kg. il corpo dove ha trovato dimora il maligno. Livio un sacrestano sessantenne con l’aria annoiata di chi è costretto agli straordinari rimandando la cena che prepara gli strumenti per il rito: un materassaccio a molle, gettato in terra, cuscini per la testa di Luana e cuscini per coloro che vi si getteranno addosso, l’aspersorio con l’acqua santa che inonderà Luana ma raggiungerà tutti per maggior sicurezza, il libro con il testo del rito, rotoli di scottex per pulire la bava e gli sputi che sono attesi. Luana si siede al centro del materasso con intorno nove persone adulte di cui 6 uomini , mi guarda e dice “ora sono davvero al centro dell’attenzione”. Nel frattempo è sopraggiunta la madre che non vede da tre mesi, si salutano ma la madre la sollecita a non perdere tempo. Si accovaccia al suo fianco e la avvolge in un abbraccio che mi mette i brividi. Mi ricorda quello di una madre in visita al figlio adolescente ricoverato. Ogni volta gli portava dei peluche e poi teneramente lo abbracciava nel letto e lo masturbava per soddisfare i suoi bisogni adolescenziali. Ho sempre pensato che fosse un abbraccio mortale come in effetti fu. Quel giovane si fracassò la testa contro il muro nonostante il caschetto che i medici gli avevano imposto. Dall’abbraccio con la madre Luana è riemersa diversa. Sguardo nel vuoto, inespressiva, direi rassegnata e pronta a recitare la sua parte. Poi è accaduto quanto tutti si aspettavano che accadesse. Uno spettacolo di estrema violenza ancor più inquietante in quanto fatto da soggetti certamente a fin di bene e volto esplicitamente al benessere della vittima. Del resto qualche secolo addietro ci sarebbe stato, sempre a fin di bene, il rogo. Tutti i maschi presenti, perfino Carlo viene precettato e mi guarda implorante perché impedisca il suo utilizzo nel ruolo di peso morto, si gettano su Luana per immobilizzarla. Se mi immobilizzano a me sta la parte di chi si divincola e Luana non delude le aspettative. Scalcia, urla con voce rauca. In perfetta sincronicità con Don Gilberto le sue imprecazioni diventano più forti quando lui affronta in passaggi più enfatici con voce più stentorea e mostra un accanimento maggiore con gli schizzi dell’aspersorio. Si vede che hanno provato altre volte. Comunque la qualità della rappresentazione resta dilettantesca e qualsiasi attore amatoriale farebbe di meglio. Le pie donne (madre e suore) si affaccendano in preghiere di sottofondo e asciugano il volto di Luana madido di sudore e di acqua santa. Il gelo dell’ambiente non si è ancora stemperato e mi accorgo di un clono spastico alla mia gamba sinistra (la guardo preoccupato e mi ricordo che se anche non lo controllo è solo una questione neurologica). Lo blocco immediatamente poggiandovi sopra la destra perché temo di finire anch’io sul materasso. Don Gilberto mi si avvicina e mi fa notare gli sputi di Luana come prova incontrovertibile della presenza del demonio, gli ribatto che se uno è immobilizzato quella è l’unica forma di reazione possibile ad un aggressione. Mi chiede se fermarsi con questa che è la forma breve o proseguire con l’esorcismo completo che durerebbe almeno altre due ore. I postumi della mia malattia e la famiglia in preoccupata attesa sono una scusa sufficiente per scegliere la versione breve e porre fine alla tortura. Appena data la benedizione finale tutti si abbracciano provati e soddisfatti del lavoro compiuto. Io mi rivolgo a Luana con voce normale e le dico “rimettiti i calzettoni che con tutto questo casino ti si sono sfilati e fa freddo”. Si tira su i calzettoni e infila le scarpe poi chiede di rivederci e ci scambiamo i cellulari per un futuro appuntamento anche con mamma Anna. Durante il parapiglia tra le forze del male e del bene non ho assistito a nessun fenomeno soprannaturale ( a meno che non si voglia considerare tale il fatto che Luana abbia un paio di volte mandato tutti a fare in culo e invocato Satana tre volte, due lucifero e abbia dichiarato di essere il diavolo) e nemmeno paranormale ma semplicemente ad una crisi isterica di entità e qualità piuttosto mediocre.

Insomma non posso escludere l’esistenza del demonio mentre sono certo di quella del male che ho visto spesso dentro di me e negli altri. Quello di cui sono certo è che se il maligno esiste l’altro giorno non si è scomodato a venirci a trovare 

P.S: La contraddizione tra l’osservazione di persone colte e non facilmente suggestionabili come il vescovo e suor Simona che accreditano la presenza del demonio e l’ipotesi esclusivamente psichiatrica sostenuta dagli psicologi potrebbe spiegarsi supponendo che lo stesso estensore della presente relazione sia proprio…….. 

Roberto lorenzini 29 gen 2012 

 

Infine riporto alcune note sul fenomeno dell’esorcismo scritte alcuni mesi fa in relazione alla richiesta del vescovo di ragionare su questo fenomeno: 

Esorcismo 
Scrivo alcune osservazioni sul fenomeno dell’esorcismo partendo però da cinque premesse indispensabili. 

Scrivo alcune osservazioni sul fenomeno dell’esorcismo partendo però da cinque premesse indispensabili. 
1. L’interesse per il fenomeno è dovuto semplicemente alla richiesta di Romano di darci un’occhiata e, conseguentemente, dall’aver incontrato in Don Gilberto e Don Gabriele due persone serie, intelligenti e disponibili al confronto. 
2. Se fossi uno studioso serio prima di dire una sola parola e ancor più di scriverla mi andrei a leggere tutta la bibliografia in proposito che credo copiosa. Ma non lo sono e comunque preferisco prima fermare le mie impressioni per evitare di farmi influenzare da quanto già detto da altri, salvo leggerli dopo. 
3. La mia esperienza è molto modesta perché ho letto un resoconto su una giovane e ne ho vista un’altra (ragazzina di 16 anni) parlandoci per poco tempo. 
4. Non è mio compito valutare l’effettiva presenza del Maligno. Mi limito a fare lo psichiatra ed a cercare spiegazioni in tal senso (potremmo dirle maligno free) di quello che ho visto o mi è stato raccontato. 
5. Concluderò dando una serie di suggerimenti banali . 

Si tratta di persone che per età e condizione hanno una spiccata tendenza alla suggestionabilità. 
Vivono in un contesto familiare conflittuale in cui si fronteggiano, nel presente ma anche attraverso le generazioni, due anime: una profondamente religiosa di una religiosità piuttosto magica che chiameremo A, e un’altra assolutamente atea e caricaturalmente avversa alla chiesa ( modello:mangiapreti) che chiameremo B. Il conflitto tra queste due anime ha probabilmente altre e più profonde radici che non la divisione sul problema della fede, ma su questo terreno si esplicita.. 
Il soggetto soffre di questa situazione conflittuale presentando sintomi più o meno intensi di ansia. 
Tali sintomi sono interpretati da A come segno di possessione e ne viene attribuita la colpa all’ateismo di B. B interpreta questi sintomi come prova dell’influenza negativa di A che ha suggestionato il soggetto. A e B possono continuare ad agire il loro conflitto attribuendosi reciprocamente la colpa della sofferenza del soggetto. 
Il soggetto nella sua posizione di posseduto mantiene appartenenza a entrambe le fazioni. Se è posseduto è ad un tempo di Dio e del diavolo. Tutto ciò che fa ed è contrario ad A non dipende da lui ma dal maligno. 
Si aggiunga che i sintomi d’ansia iniziali vengono moltiplicati enormemente dalla credenza di essere posseduti dal demonio e quindi si entra in un circolo vizioso di auto mantenimento: più pensi di essere indemoniato e più ti agiti…. e più ti agiti e più sei indemoniato. 
Al di là di questo schemino generale credo che in alcuni casi (come quello visto da me) ci sia una vera e propria “follia a due” in cui il soggetto veramente matto o posseduto (a piacere) non è il soggetto ma una sua figura parentale che ha forte influenza su di lui. 
Suggerimenti: 
prima di qualsiasi intervento che automaticamente innesca il circolo di mantenimento raccogliere una accurata anamnesi o storia di vita individuale e familiare. Conoscere a fondo prima di fare alcunché, perché il fare modifica definitivamente il quadro. 
Cercare di immaginare esperimenti cruciali che eliminano il fattore suggestione (ostia non consacrata, acqua non benedetta ecc.) 
Garantirsi da possibili reazioni di B che potrebbero agire legalmente per abuso di professione medica pur di continuare ad agire il conflitto con A 


Il significato negativo degli eventi: il laddering

 

Il significato negativo degli eventi: introduzione al Laddering. - Immagine: © Slavomir Valigursky - Fotolia.com -L’accertamento del significato negativo degli eventi temuti, di qualunque tipo essi siano, va sotto il nome di laddering. Occorre però ricordare che il termine laddering può essere confusivo. La tecnica del laddering nasce nell’ambito della teoria dei costrutti personali di George Kelly (1955). Per Kelly i contenuti cognitivi hanno un significato positivo o negativo in base a catene di implicazioni, i cosiddetti costrutti.

George Kelly è una figura parzialmente laterale nella storia del cognitivismo clinico. Particolarmente amato e studiato in Italia e in Inghilterra, egli è conosciuto anche nell’ambito del cognitivismo internazionale. Kelly si distingue da Beck perché definisce il pensiero negativo di vario tipo (ansioso o depressivo o rabbioso che si voglia) non tanto in termini di pericoli o minacce o disavventure (per non dire sciagure) percepite o temute, ma in termini di significato negativo attribuito agli accadimenti, esterni o interiori che siano. Un evento è negativo perché per me lo è, per i miei tic personali, o per la mia scala di valori, se volete. Una sorta di cognitivismo che spinge molto sugli aspetti soggettivi della persona.

Iniziare una Terapia Cognitiva: Concordare le Regole. - Immagine: © Bernard BAILLY - Fotolia.com
Articolo consigliato: Iniziare una Terapia Cognitiva: Concordare le Regole

Qualcosa che possiamo paragonare non a un’eruzione vulcanica o a una strage terroristica, ma piuttosto all’avvento di Facebook o, un tempo, dei telefonini. Comportamenti di massa che inizialmente generavano qualche difficoltà in molti. Difficoltà per un vago, ma negativo, significato sociale. Inizialmente iscriversi a Facebook o possedere un telefonino sembrarono atti bislacchi o ridicoli o perfino un’insostenibile resa alla volgarità di massa. Poi gradualmente sono diventati qualcosa di divertente, di brillante e seducente e perfino di utile. Si tratta di significati percepiti più che di eventi oggettivamente catastrofici.

Il principio del laddering è analizzare le implicazioni (negative, nel caso dei pazienti) degli eventi, delle situazioni o degli stati d’animo temuti. Per questo esso è utile come concetto introduttivo generale per comprendere cosa sia l’accertamento cognitivo della sofferenza psicologica. Insomma, la domanda che si fa per accertare un laddering é: cosa c’è che non le va in questo?

 

P.: Il mio problema è parlare in pubblico. Devo farlo, il mio lavoro lo richiede. Ma ogni volta è sempre difficile.

T.: Riflettiamo. Può darsi che lei percepisca nel parlare in pubblico qualche aspetto che lei disapprova. Che significa per lei questo? C’è qualche significato negativo nel parlare in pubblico?

P.: Talvolta mi sorprendo a pensare che chi sa parlare bene in pubblico è una persona falsa. Qualcuno che recita. Un politico. E forse anche un po’ arrogante, dietro il suo sorriso accattivante. Oggi ho letto sul giornale una vecchia dichiarazione del presidente Reagan. Diceva più o meno che ogni politico deve aver fatto l’attore.

 

Nella teoria di Kelly queste implicazioni negative si organizzano secondo coppie dicotomiche di opposti che si illuminano a vicenda. Per esempio, nel caso appena riportato della paziente parlare in pubblico implica anche falsità, inautenticità e perfino arroganza. Ne consegue che per lei il contrario di “timido” è “arrogante”. Tuttavia organizzare i significati per coppie dicotomiche in un colloquio clinico può essere farraginoso. In un buon laddering è sufficiente cercare le implicazioni di significato negative.

Occorre ancora sottolineare che per Kelly si tratta di significati e non di eventi oggettivamente catastrofici o comunque negativi nel senso che producono un danno materiale. È vero che, almeno in alcune forme di sofferenza ansiosa, ci sono vere e proprie catene di eventi negativi temuti. È la cosiddetta catastrofizzazione (catastrophizing). In questo caso, chiedendo cosa ci sia di male in una certa situazione, otteniamo effettivamente la descrizione di minacce o pericoli che possiamo definire oggettivi:

 

P.: Evito sistematicamente di entrare negli ascensori

T.: Perché non le piace?

P.: Temo che possa fermarsi.

T.: E una volta che l’ascensore si è fermato, perché non le piacerebbe?

P.: Beh, potrei rimanerci dentro per giorni.

O peggio:

P.: Potrei morire. Magari impazzisco.

 

Ma anche questi eventi esterni e concreti possono però avere una implicazione psicologica di significato personale.

 

T: E se ci rimanesse giorni, cosa non le piacerebbe?

P: Mi sentirei sola.

T: E se fosse solo perché non le piacerebbe?

P: Solo, per me fragile, vulnerabile, paura, angoscia.

 

Iniziare una terapia cognitiva: stabilire gli obiettivi. - Immagine: © Olivier Le Moal - Fotolia.com
Articolo consigliato: Iniziare una terapia cognitiva: stabilire gli obiettivi.

Il laddering ebbe grande fortuna nell’ambiente delle indagini di mercato e di publicizzazione dei prodotti commerciali (Gutman, 1982; Reynolds e Gutman, 1984; 1988; Reynolds e Whitlark, 1995). In ambito commerciale il laddering si sviluppa come una tecnica d’intervista per analizzare la catena mentale dei mezzi-fini che sottende la decisione del cliente di acquistare un certo prodotto, tentando di ricostruire gli attributi qualitativi che hanno determinato il gradimento del prodotto, in rapporto ai bisogni e ai valori del cliente stesso.

L’applicazione del laddering all’indagine clinica implica alcune modifiche. La prima è che, mentre il laddering delle indagini di mercato è positivo, quello clinico deve essere inevitabilmente negativo. Gli scopi e le credenze di un cliente che vuole comprare un prodotto sono credenze positive. Le domande che potremmo fargli sono domande tese a chiarire le ragioni di un acquisto: perché lei potrebbe comperare un certo prodotto? Perché potrebbe piacerle? A cose potrebbe servirle?

Non così condurremo l’intervista con un paziente affetto d’ansia. Il nostro paziente non vuole acquisire qualcosa. Egli teme e non desidera, i suoi scopi non sono acquisitivi ma di evitamento. Egli intende nascondersi, proteggersi, evitare un danno. Le domande saranno quindi negative: cosa teme? Perché teme questa situazione? Cosa non le piace in questo? E perché?

Storie di Terapie - © Athanasia Nomikou - Fotolia.com
Articolo consigliato: Storie di Terapie - Casi clinici di Psicoterapia

In seguito Hinkle (1965) classificò queste implicazioni in laddering up (verso l’alto) in cui convinzioni sopraordinate e più astratte giustificano secondo regole o concetti più generali e ampi una certa idea dell’individuo; e in laddering down (verso il basso), in cui le stesse convinzioni sono giustificate ricorrendo a esemplificazioni concrete o comunque concetti più ristretti. Possiamo osservare che il laddering down in fondo è molto simile al catastrophizing, al predire eventi negativi. E così si passa dal kelliano “cosa non le va in questo?” al più beckiano “cosa potrebbe capitarle di brutto in questa situazione?”

In questa maniera chiariamo la catena dei timori della persona che ha chiesto le nostre cure. Si tratta di un accertamento, ma anche di un primo abbozzo di cura. Il laddering permette al terapeuta di capire sempre meglio qual è esattamente l’oggetto dell’ansia del paziente, ma costringe al tempo stesso il paziente a giustificare secondo una logica più stringente i suoi timori. Non si tratta più di limitarsi a riconoscere una certa situazione come pericolosa e temibile, ma di fondare più razionalmente questo timore.

Per quale ragione tu temi questo? Il paziente è invitato a rispondere, e già così comincia ad esporre una primissima forma di distacco critico dalle sue emozioni. Emozioni che fino a un momento prima erano vissute con ingenua adesione e pienezza emozionale.

 

 

BIBLIOGRAFIA: 

  • Gutman, J. (1982). A means-end chain model based on consumer categorization processes. Journal of Marketing, 60, 60-72.
  • Hinkle, D.N. (1965). The change of personal constructs from the viewpoint of a thoery of implications. Unpublished Ph.D. thesis, Ohio State University. Reviewed by Bannister and Mair (1968).
  • Kelly, (1955). The psychology of personal constructs, vol. 1. New York: Academic Press.
  • Reynolds, T. J., & Gutman, J. (1984). Laddering: Extending the repertory grid methodology to construct attribute-consequence-value hierarchies. In R. Ritts & A. Woodside (eds.) Personal values and consumer Psychology, Vol. II, pp. 11-31.
  • Reynolds, T. J., & Gutman, J. (1988). Laddering theory, method, analysis and interpretation. Journal of advertising research, 28, 11-31.

Ricerca: Intolleranza alle emozioni e Pensiero Desiderante nei fumatori

 

Flaviano Canfora, Gabriele Caselli, Sandra Sassaroli.

PARTECIPA ALLA RICERCA!

Ricerca: Intolleranza alle emozioni e Pensiero Desiderante nei fumatori. - Immagine: © Jaroslaw Grudzinski - Fotolia.com La letteratura scientifica descrive il craving come un’esperienza soggettiva che motiva gli individui a cercare e raggiungere un oggetto o praticare un’attività (target) allo scopo di ottenere determinati effetti. Per diversi autori è considerato il cuore delle dipendenze patologiche, nonché il processo nucleare che guida verso la perdita di controllo del proprio comportamento ed è considerato un oggetto d’intervento chiave nel trattamento delle dipendenze patologiche (Frone et al., 1994; Marlatt, 1987).

Recentemente alcuni studi hanno cercato di indagare il possibile funzionamento cognitivo che alimenta o sostiene la sensazione di desiderio e l’impulso incontrollabile legato al craving (Kavanagh et al., 2004).

In particolar modo recenti ricerche hanno esplorato il modo in cui individui con disturbi da dipendenze patologiche e controllo degli impulsi pensano agli oggetti del proprio desiderio, individuando uno stile di pensiero con caratteristiche specifiche (Caselli & Spada, 2010). Il pensiero desiderante, questo è il suo nome tecnico, è una forma di elaborazione cognitiva volontaria di informazioni riguardanti oggetti e attività piacevoli e positive che avviene a due livelli interagenti:

  • Verbal Perseveration: pensieri ripetitivi e automotivanti circa il bisogno di ottenere l’oggetto o di svolgere l’attività.
  • Imaginal Prefiguration: immagini mentali multisensoriali dell’oggetto o attività desiderata e del contesto in cui l’individuo lo può realizzare o lo ha realizzato in passato.

Studi preliminari (Caselli & Spada, 2010) non solo mostrano che il pensiero desiderante risulta eccessivo in molti individui con problemi di controllo degli impulsi, ma sostengono che abbia caratteristiche trasversali e indipendenti dalla natura dell’oggetto del desiderio (cibo, alcool, fumo, gioco d’azzardo, attività sessuale ecc…). Questi risultati suggeriscono che alcune modalità di usare il pensiero rispetto ai nostri desideri (quelle appunto identificate dal pensiero desiderante) possono influire sull’intensità dei nostri impulsi e sulle nostre capacità di autocontrollo.

Diverse ricerche (Williams et al., 1997) inoltre associano l’intolleranza alle emozioni negative al discontrollo degli impulsi e la pongono come credenza centrale dei disturbi d’ansia. L’uso di sostanze potrebbe agire come strategia di gestione di emozioni intollerabili e attenuare i sintomi ansiogeni. Tuttavia resta ancora da definire la relazione tra pensiero desiderante, intolleranza delle emozioni e craving.

Lo studio che presentiamo ha lo scopo di valutare il meccanismo di interazione tra pensiero desiderante, intolleranza delle emozioni e la specifica influenza sull’insorgenza ed il mantenimento della dipendenza in soggetti consumatori di tabacco.

Se siete fumatori e volete collaborare alla nostra ricerca vi chiediamo solo 15 minuti del vostro tempo per completare una serie di questionari. Basta cliccare su questo link:

NOTA: TUTTI I DATI SONO TRATTATI IN FORMA RIGOROSAMENTE ANONIMA

 https://www.surveymonkey.com/s/CravingFumo

Grazie a tutti per la vostra collaborazione. Vedrete presto i risultati su State of Mind

 

 

BIBLIOGRAFIA: 

  • Caselli, G., & Spada, M.M. (2010). Metacognition in Desire Thinking: A Preliminary Investigation. Behavioural and Cognitive Psychotherapy, 38, 629-637.
  • Frone, M. R., Cooper, M. L. & Russell, M. (1994). Stressful life events, gender, and substance use: an application of tobit regression. Psychology of Addictive Behaviors, 8, 59-69.
  • Kavanagh, D.J., Andrade, J, & May, J. (2004). Beating the urge: Implications of research into substance-related desires. Addictive Behaviors, 29, 1399-1372.
  • Marlatt, G.A. (1987). Craving notes. British Journal of Addiction, 82, 42-43.
  • Williams, K.E., Chambless, D.L. & Ahrens, A. (1997). Are emotions frightening? An extension of the fear of fear construct. Behaviour Research and Therapy, 35(3), 239-248.

Emozioni positive e cattive scelte alimentari

– Rassegna Stampa – 

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze PsicologicheMolte ricerche associano stati mentali negativi a cattive scelte alimentari, ma secondo un recente studio, pubblicato sul Journal for Consumer Research, anche stati mentali positivi possono portare a scelte insalubri.

I ricercatori hanno messo a confronto gli effetti di sentimenti positivi di orgoglio e felicità, determinati dal pensare al passato o al presente, e di speranza, emozione orientata al futuro. I risultati, alquanto curiosi, indicano che è l’orientamento verso il futuro a spingere a scelte alimentari più sane (preferenza per la frutta); chi si concentra invece sul passato, anche in presenza di emozioni positive, indulgerà in scelte alimentari meno sane (dolciumi). Anche la speranza, emozione che proietta verso il futuro, è meno incisiva nel ridurre le cattive scelte alimentari quando lo stato mentale dei partecipanti è rimasto orientato al passato. Allo stesso modo il senso di orgoglio conduce a scelte alimentari più sane quando è il risultato di un’anticipazione piuttosto che quando è legato al presente.

Infine i ricercatori hanno confrontato gli effetti sulle scelte alimentari di emozioni positive e orientate al futuro di speranza e orgoglio con quelli di emozioni negative, ugualmente orientate al futuro, di paura e vergogna. I risultati, com’è facilmente prevedibile, indicano che le scelte più salubri sono legate a sentimenti positivi e orientati al futuro. Insomma, suggeriscono i ricercatori, la prossima volta che ti senti bene non concentrarti troppo sul passato, ma pensa al futuro, il tuo corpo ti ringrazierà!

 

 

BIBLIOGRAFIA: 

Studi Cognitivi: Presentazione della Scuola – Mercoledì 29 Febbraio – Milano

Mercoledì 29 febbraio si terrà una presentazione della scuola presso la sede di Foro Buonaparte, 57 alle ore 18.00.

E’ gradita la conferma di partecipazione.

Studi Cognitivi - Presentazione Scuola di Psicoterapia -

 

 

Corso quadriennale di specializzazione in Psicoterapia Cognitiva e Cognitivo-Comportamentale 

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Corso quadriennale di perfezionamento in Psicoterapia Cognitiva e Cognitivo-Comportamentale

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Behavioral Inhibition and Child Anxiety

 

In the next series of installments I will be discussing the concept, importance, course, prevalence and relation of behavioral inhibition (BI) to social phobia.

Behavioral Inhibition and Child Anxiety - Immagine: © dannywilde - Fotolia.com - Garcia-Coll, Kagan and Reznick (1984) define behavioral inhibition as a trait characterized by shy, withdrawn, uneasy, vigilant, and restrained behavior in the context of unfamiliar social or non social situations; in the same situations uninhibited children act spontaneously and confidently (Kagan, 1988). The prevalence rate of BI is estimated at 15% in two year old Caucasian children (Kagan, 1989). The link between BI and anxiety disorders has been a focus of much research. Many studies have examined the persistence of BI and, in particular, the link between it and the development of social phobia.

Research has examined the course and persistence of BI. Kagan, Reznick, Snidman, Gibbons and Johnson (1988) used a longitudinal design to assess the social development of behaviorally inhibited (n = 22) and uninhibited children (n = 19). At 21 months of age BI was assessed in a laboratory setting, and at seven and a half years the children’s behavioral profile was assessed. There was significant continuity from 21 months to seven and a half years of age. Thus, children who were labeled inhibited became more quiet and socially avoidant in unfamiliar situations than uninhibited children; uninhibited children became more talkative and interactive in these situations than inhibited children.

Parents' words and anxiety disorders
Related installment: Parents' words and Anxiety Disorders.

Asendorpf (1991) observed 87 children in free play sessions at four, six and eight years of age. The children’s main care giver completed questionnaires regarding their children’s behavior at each time point. The free play sessions were recorded and children’s behavior was later coded. The results showed that with an increase in age, early inhibited children spent longer periods in solitary-passive activity then uninhibited children. Children with an early uninhibited temperament spent more time engaged in social behavior than inhibited children as they became older.

From these two studies we have learned that behavioral inhibition is prevalent and common in children of younger ages, those children that shown inhibited behaviors in the early months of life also continue to demonstrate these behaviors into later childhood. In the installment I will examine the relationship between BI and social phobia.

 

 

BIBLIOGRAPHY: 

  • Asendorpf, J. B. (1991). Development of inhibited children‟s coping with unfamiliarity. Child Development, 62, 1460 – 1474.
  • Garcia-Coll, C., Kagan, J., & Reznick, J. S. (1984). Behavioral inhibition in young children. Child Development, 55, 1005 – 1019.
  • Kagan, J. (1989). Temperamental contributions to social behavior. American Psychologist, 44, 666 – 674.
  • Kagan, J., Reznick, J.S., Snidman, N., Gibbons, J., & Johnson, M.O. (1988). Childhood derivatives of inhibition lack of inhibition to the unfamiliar. Child Development, 59, 1580 – 1589.
  • Kagan, J., Snidman, N., Kahn, V., & Towsley, S. (2007). The preservation of two infant temperaments into adolescence. Monographs of the Society for Research in Child Development. No, 287. Blackwell. Boston.

SEMINARIO: Terapia Cognitivo-Comportamentale dell’Abuso di Alcool

AVVISO!! 

Ci dispiace comunicarvi che, per motivi di salute, il Professor Spada non può piu partecipare all’evento “Terapia Cognitivo-Comportamentale dell’Abuso di Alcool” che pertanto è stato annullato.

In questo momento non siamo in grado di stabilire se possiamo ricuperarlo in un’altra data e vi faremo sapere nei prossimi giorni.

 

Terapia Cognitivo-Comportamentale dell'Abuso di Alcool -

Programma dell’iniziativa

Nella maggior parte delle culture, l’alcool è il sedativo ad azione centrale più frequentemente usato e rappresenta una delle principali cause di mortalità e disabilità tra disturbi organici e psicologici nella regione europea (OMS, 2004). Per questa ragione il consumo di alcool e le sue conseguenze, specie tra gli adolescenti rappresenta un problema sociale di primo piano per il suo impatto negativo sia sul benessere che sui costi sociali. Questa esigenze ha portato allo sviluppo di protocolli sempre più strutturati e pratiche cliniche di eccellenza nel trattamento di individui con problemi di abuso di alcool. In particolare, l’approccio cognitivo-comportamentale in associazione a interventi di incremento della motivazione al cambiamento ha mostrato buoni risultati di efficacia nel trattamento del consumo problematico di alcool.

L’iniziativa si propone di divulgare in Italia le linee di ricerca e i modelli di intervento psicoterapeutico che stanno dando maggior prova di evidenza a livello scientifico internazionale. Il raggiungimento dell’obiettivo sarà sostenuto dal contributo scientifico del Prof. Marcantonio Spada dell’Università di London South Bank (UK), dirigente presso il North East London NHS Foundation Trust, autore di oltre 50 pubblicazioni internazionali sul trattamento delle dipendenze patologiche.

Il programma prevede una giornata seminariale tecnico-scientifica per psicologi, psicoterapeuti e psichiatri. La giornata condotta dal Prof. Marcantonio Spada illustrerà ed esplorerà l’applicazione della Terapia Cognitivo-Comportamentale (TCC) al trattamento del consumo di alcool problematico. Le aree di interesse trattate riguarderanno la valutazione psicodiagnostica, la concettualizzazione e formulazione del caso clinico e interventi terapeutici chiave. Eguale enfasi verrà data a sintetizzare le nuove linee di ricerca nel trattamento di questi problemi.

 SCARICA LA SCHEDA DI ISCRIZIONE

Obiettivi del corso:

  • Imparare a valutare rapidamente e con efficacia un paziente che presenta un problema alcool-correlati in termini di tipo del problema, grado di severità, modalità di funzionamento psico-sociale

  • Imparare a valutare rapidamente e con efficacia il miglior trattamento possible per quell paziente e in particolare se è adatto a un intervento cognitivo-comportamentale

  • Imparare a concettualizzare un problema alcool-correlato usando un modello cognitivo-comportamentale

  • Apprendere come integrare informazioni nella formulazione di casi complessi

  • Comprendere le tecniche di base di una Terapia Cognitivo-Comportamentale per problemi alcool-correlati con particolare attenzione alla strategia e sequenza degli interventi

 

Venerdì 13 Aprile 2012

 

Seminario Avanzato: Terapia Cognitivo-Comportamentale dell’Abuso di Alcool. Protocollo clinico e nuove linee di ricerca

 

Durata: 9:00 – 18:00

Sede: Aula Magna, Policlinico di Modena, Via del Pozzo, 71, Modena.

 

Docente: Prof. Marcantonio Spada (Professor of Psychological Therapies at London South Bank University in partnership with North East London NHS Foundation Trust)

 

Piano del giorno

 

09:00 – 09:10 Presentazione del seminario (Fabrizio Starace)

09:10 – 09:20 Introduzione ai lavori (Sandra Sassaroli)

09:20 – 11:00 Modello Cognitivo Comportamentale e Strumenti di Valutazione Psicodiagnostica

11:00 – 11:15 Pausa

11:15 – 13:00 Tecniche di Concettualizzazione clinica e Formulazione del Caso

13:00 – 14:00 Pausa Pranzo

14:00 – 15:45 Motivazione al cambiamento e Tecniche di Trattamento Cognitivo-Comportamentale

15:45 – 16:00 Pausa

16:00 – 17:15 Interventi chiave e nuove linee di ricerca nel trattamento dell’Abuso di Alcool

17:15 – 18:00 Discussione: prospettive future nel trattamento delle problematiche alcool-correlate (Marcantonio Spada, Giovanni Ruggiero, Claudio Ferretti, Sandra Sassaroli).

 

Materiali: pacchetto di strumenti di valutazione psicodiagnostica, schede di analisi funzionale e formulazione del caso, materiale con il contenuto del corso, articoli scientifici selezionati sulla base dei contenuti.

 

Lingua: Italiana

 

Accreditamento: In corso la richiesta di accreditamento ECM.

 

Iscrizioni e Costi:

Iscrizione workshop: 120€ (iva inclusa)

Iscrizione soci SITCC, AIAMC, SPR, dipendenti servizio pubblico settore sanitario: 100€

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Enti organizzatori

Associazione Cognitivismo Clinico Modena

L’Associazione Cognitivismo Clinico nasce nel 2008 a Modena allo scopo di diffondere l’approccio cognitivo-comportamentale, di stimolare la ricerca facendosi promotore a livello locale di un approccio scientifico e culturale che ha già un’importante risonanza a livello nazionale ed internazionale.

 

Studi Cognitivi

STUDI COGNITIVI – Scuola di Specializzazione in Psicoterapia Cognitivo-Comportamentale e Istituto di Ricerca sulla Sofferenza Mentale e Psicoterapia. STUDI COGNITIVI è una società di terapeuti di orientamento cognitivo il cui obiettivo è diffondere la formazione in terapia cognitiva e promuovere la ricerca empirica sui meccanismi che sostengono la sofferenza mentale e sull’efficacia della terapia cognitiva.

Terapia Cognitivo-Comportamentale per le Psicosi – Parte II

 

Parte II – TRATTAMENTO 

Terapia Cognitivo-Comportamentale per le Psicosi - Parte II TRATTAMENTO. - Immagine: © margouillat photo - Fotolia.com - Dalle prime proposte di Beck, fondatore della Terapia Cognitiva, ad oggi sono stati fatti numerosi passi avanti nella costruzione di protocolli efficaci per la cura delle psicosi. Le neuroscienze hanno contribuito enormemente alle conoscenza attualmente in possesso della medicina e della psicologia, e l’esperienza clinica ha favorito la messa a punto di tecniche psicoterapeutiche sempre più specifiche e mirate alla riduzione dei sintomi più critici. Uno dei protocolli più efficaci emersi negli ultimi anni è quello di Fowler (2000) e utilizzato in molte ricerche successive come quella citata nel precedente contributo sull’argomento (Terapia Cognitivo-Comportamentale per le Psicosi – Parte I – DATI DI EFFICACIA).

I principali obiettivi del Trattamento Cognitivo-Comportamentale per le psicosi sono:

  • Ridurre l’angoscia e le disabilità prodotte dai sintomi psicotici. 
  • Ridurre la disregolazione emotiva.
  • Accrescere la consapevolezza del paziente sul suo disturbo e promuovere una partecipazione attiva al percorso di cura, che possa prevenire il rischio di ricadute e di isolamento sociale e lavorativo.

Ecco come procedere:

Terapia Cognitivo-Comportamentale per le Psicosi. - Immagine: © svedoliver - Fotolia.com
Articolo consigliato: Terapia Cognitivo-Comportamentale per le Psicosi - PARTE I

1. Porre una diagnosi accurata: i sintomi psicotici sono comuni ad alcuni disturbi dell’umore, all’assunzione di sostanze, a fenomeni transitori e acuti generati da un forte stress, oltre che nella schizofrenia. Una buona diagnosi permette la scelta del trattamento farmacologico più indicato, e la scelta del trattamento psicoterapico più adatto alle caratteristiche del disturbo. Senza questa fase è impossibile strutturare un trattamento adeguato ed efficace.

2. Costruire una relazione terapeutica collaborativa e trasparente sin dai primi colloqui: i pazienti vivono spesso un costante stato di paura e minaccia, che li rende sospettosi rispetto alla possibilità di chiedere aiuto, sono spesso arrabbiati con i servizi di salute mentale e rifiutano l’importanza del trattamento psicoterapico nella cura della loro patologia; la trasparenza si declina nella condivisione esplicita degli obiettivi terapeutici possibili.

3. Elaborare nuove strategie di coping per i sintomi più invalidanti: utilizzare schede di monitoraggio sull’ansia, sull’angoscia, sulla frequenza e presenza delle voci o su episodi di paura/rabbia, strategie comportamentali “d’emergenza”; tutte le tecniche cognitive citate possono aiutare a costruire strumenti utili a ridurre stati di overwhelming e comportamenti auto o etero lesivi.

4. Sviluppare un nuovo modello di comprensione dei sintomi e della malattia: approfondire le credenze del paziente sulla propria malattia e sulle cause che l’hanno scatenata, capire cosa attiva stati mentali e comportamenti dannosi e fare psicoeducazione sugli aspetti strettamente medici del disturbo.

5. Lavorare sui sintomi deliranti e sulle allucinazioni: l’analisi giorno per giorno degli eventi più significativi della settimana, permette di capire molto gradualmente l’intensità, la frequenza e il significato degli aspetti allucinatori. Non si tratta di fare disputing sulle credenze deliranti, ma di lavorare “al fianco” di questi contenuti con l’obiettivo di individuare dapprima il contesto e le emozioni che li attivano, e di introdurre successivamente elementi di realtà che possano favorire un’interpretazione meno drammatica dei vissuti personali e degli eventi esterni.

6. Affrontare aspetti legati alla valutazione di sé, all’ansia e alla depressione: collocare il disturbo nella più ampia cornice della storia personale del paziente per capirne i significati specifici, costruire una nuova valutazione di sé (re-appraisal) e delle proprie esperienze di vita, con l’obiettivo di aumentare l’autostima e recuperare una valutazione globale di sé più razionale. Ansia e depressione tendono a ridursi quando alcune credenze centrali rispetto al “essere un fallimento totale”, all’“essere un peso per gli altri”, all’“essere incapaci di vivere e sopravvivere da soli”, etc..etc.., vengono modificate.

I Circuiti Neurali attivi nel Delirio di Riferimento. - Immagine: © Vibe Images - Fotolia.com
Articolo consigliato: I Circuiti Neurali attivi nel Delirio di Riferimento.

7. Gestire le ricadute e l’isolamento sociale: l’ultima fase della terapia si concentra sul consolidamento dei nuovi “appraisal” e delle nuove strategie comportamentali di gestione degli stati emotivi; prevede il miglioramento delle capacità di monitoraggio dei segnali di crisi, la strutturazione della futura terapia e delle eventuali strategia di emergenza da mettere in atto in caso in cui nuovi eventi di vita negativi mettano in scacco l’equilibrio guadagnato. In questa fase si colloca la vera sperimentazione di esperienze più legate alla sfera sociale e lavorativa, ora che il bagaglio di strumenti ed esperienze permette di affrontare con più sicurezza le disabilità imposte dalla malattia.

Le fasi descritte dagli autori (Garety, Fowler et al. 2000), costituiscono un’indicazione utile per orientare il clinico alla strutturazione di un percorso ma (inutile dirlo!) ogni fase va condivisa, personalizzata e affrontata tenendo conto delle condizioni cliniche e delle variabili ambientali e sociali (eventi di vita, lavoro, familiari,..), che possano influenzare negativamente il percorso di cura.

Come ogni altra terapia di ambito cognitivo ci si occupa insomma di accrescere la consapevolezza e le capacità di ragionamento su credenze relative alla propria malattia, a sé e agli altri. Le emozioni vengono cercate in modo meno diretto e puntuale, mentre l’accettazione degli stati mentali dolorosi – ben nota alle terapie cognitive più recenti – può contribuire enormemente a ridurre l’irritabilità e la rabbia sempre associate al proprio stato di malato cronico.

 

 

BIBLIOGRAFIA: 

Il rapporto tra Creatività ed Emozioni

 

“Sentimento e desiderio sono le forze motrici dietro a ogni impresa e creazione umana, per quanto esaltata possa manifestarsi la forma di quest’ultima”
Albert Einstein 

 

Creatività ed Emozioni. - Immagine: © designer_things - Fotolia.com - Osservando un quadro o ascoltando un brano musicale vi siete mai domandati cosa può aver ispirato l’autore? Oppure vi siete mai sorpresi a chiedervi come sarà nata l’idea di inventare un particolare oggetto? Da quando l’uomo ha fatto la sua comparsa sulla terra per poter sopravvivere e adattarsi all’ambiente che lo circondava ha dovuto risolvere problemi, creare nuovi oggetti e utensili, trovare soluzioni. Base fondamentale di questo processo è la creatività.

Data la grande importanza, questa caratteristica (la creatività)  non poteva salvarsi dalle grinfie degli “psicologi ricercatori” che a partire dalle ricerche di Giulford del 1950 hanno condotto studi sistematici per comprendere più a fondo la creatività e come essa influenzi e sia influenzata dalla personalità, dalle relazioni sociali, dagli aspetti cognitivi ed emotivi.

Arteterapia: teoria e prassi di un nuovo approccio psicoterapeutico integrato – parte I - Immagine: © oscurecido - Fotolia.com
Articolo consigliato: Arteterapia: teoria e prassi di un nuovo approccio psicoterapeutico integrato – parte I

Fra tutti gli studi su questi fattori uno dei più indagati è stato sicuramente il rapporto fra stato emotivo, umore e creatività: dal momento che le emozioni sono noti intermediari tra la personalità e la performance, possono essere anche predittori di creatività? E tutti gli stati emotivi favoriscono la creatività nello stesso modo? Data l’ingente quantità di lavori sul tema una meta-analisi ha recentemente combinato i risultati di 102 articoli scientifici che hanno indagato la relazione fra creatività ed emozioni (Baas, M., De Dreu, C. K. W., Nijstad B. A., , 2008).

Quando si parla di emozioni la prima cosa che si nota è la loro valenza edonica o tono affettivo. Infatti alcune emozioni, come gioia, entusiasmo e tranquillità, hanno un tono positivo, mentre altre, come rabbia, ansia, tristezza, hanno un tono negativo. Attraverso evidenze neuropsicologiche si è scoperto inoltre che lo stato emotivo può essere attivante (ad alto arousal) o de-attivante (a basso arousal) (Posner, J., Russell, J. A., & Peterson, B. S., 2005). Combinando le due classificazioni si avranno stati emotivi positivi a basso arousal, come calma e tranquillità, e ad alto arousal, come felicità e euforia, così come stati emotivi negativi a basso arousal, come tristezza e depressione, e ad alto arousal, come rabbia e paura. La questione però si complica ulteriormente.

I risultati della meta-analisi hanno permesso di comprendere che il legame fra creatività e stato emotivo è molto più complesso di quanto sembrasse in partenza poiché sembra essere regolato dall’interazione fra valenza edonica, attivazione emotiva e motivazione. Dall’analisi di queste complesse interazioni emerge che in generale gli stati emotivi positivi sono la fonte migliore per la creatività rispetto a quelli negativi. Tuttavia non bisogna dimenticare il ruolo che il livello di attivazione o arousal ha in questa equazione: se si introduce questa variabile, infatti, si scopre che solo gli stati positivi attivanti sono veramente in grado di favorire la creatività. Quindi solo emozioni come la felicità possono favorire la flessibilità e la velocità di processamento cognitivo, che a loro volta favoriscono alti livelli di creatività e originalità. Come abbiamo detto ulteriori mediatori sono gli stati emotivi in grado di promuovere la motivazione. E le emozioni negative? Dalla ricerca è emerso che le emozioni negative a basso arousal non sono correlate con un aumento della creatività e addirittura quelle negative ad alto arousal sono negativamente correlate con essa soprattutto perché riducono drasticamente la flessibilità cognitiva impedendo così di trovare nuove soluzioni.

Quindi ricapitolando: se siete in cerca di un’idea geniale non dovete far altro che mettervi in uno stato emotivo positivo, ma che sia anche attivante (attenzione però, non troppo attivante!) e che sostenga e stimoli la motivazione ad agire. Facile no? Forse la prima fase della genialità sta proprio nel riuscire a entrare in questa chimera emotiva. Non trovate?

 

 

BIBLIOGRAFIA: 

  • Albert Einstein, (1999) “Il mondo come lo vedo io”, Secaucus, The Citadel Press, New Jersey.
  • Guilford, J. P. (1950). Creativity. American Psychologist, 5, 444 – 454.
  • Baas, M., De Dreu, C. K. W., Nijstad B. A., (2008). A Meta-Analysis of 25 Years of Mood–Creativity Research: Hedonic Tone, Activation, or Regulatory Focus?. Psychological Bulletin, Vol. 134, No. 6, 779 – 806
  • Posner, J., Russell, J. A., & Peterson, B. S., (2005). The circumplex model of affect: An integrative approach to affective neuroscience, cognitive development, and psychopathology. Development and Psychopathology,17, 715–73
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