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Psilocibina e funghi allucinogeni: bad trip? Good trip!

Psilocibina e funghi allucinogeni: bad trip? Good trip! - Immagine: © 2012 Costanza Prinetti -

Oggi parleremo di una vecchia diatriba nata tra coloro che ben pensano e chi, invece, sceglie di ‘pensare bene’. Assumere droghe produce serenità o crea danni cerebrali irrimediabili? A quanto pare, prendere alcune sostanze psichedeliche produce effetti sorprendenti!

Recentemente, è stato scoperto che le droghe, come i funghetti allucinogeni, migliorano la rievocazione di ricordi personali e di emozioni positive. Un gruppo di scienziati, autori di due lavori pubblicati rispettivamente su Proceedings of the National Academy of Sciences e sul British Journal of Psychiatry, ha dimostrato quali sono gli effetti della psilocibina, il principio attivo dei funghi allucinogeni, ovvero diminuire l’attività cerebrale e aiutare le persone a mantenere i ricordi più vividi. Questa sostanza è stata ampiamente utilizzata nella psicoterapia degli anni ’50, ma, fino ad ora, il razionale biologico non è mai stato adeguatamente indagato.

La nicotina migliora la memoria ed aiuta a combattere i Deterioramenti Cognitivi. Immagine: © dalaprod - Fotolia.com -
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Un gruppo di volontari, inseriti in uno scanner di risonanza magnetica funzionale, è stato spinto a pensare a dei ricordi associati a forti emozioni positive. Coloro che avevano assunto psilocibina valutavano i loro ricordi come più vividi rispetto a coloro che avevano ingerito un placebo. Infatti, la psilocibina produceva una maggiore attività in aree del cervello che processano informazione visiva e sensoriale. L’intensità degli effetti riportati dai partecipanti, visioni di motivi geometrici, insolite sensazioni corporee e senso alterato di spazio e tempo, è correlata ad una diminuzione dell’attivazione della corteccia prefrontale mediale, area coinvolta nel processamento delle emozioni, dell’apprendimento, della memoria e delle funzioni esecutive; e in quella cingolata posteriore, avente un ruolo nella coscienza e nell’ auto-identità

Il team ha poi utilizzato i dati per valutare come la connettività funzionale tra queste due regioni cerebrali vari nel corso del tempo, e ha scoperto che la loro contemporanea deattivazione avviene attraverso una rete che le collega le due aree, chiamata Default-Mode Network (DMN), che integra funzioni cerebrali come sensazioni e ambizioni e stabilisce chi si è e come si percepisce il mondo. Quindi nel momento in cui le aree implicate non si attivano, i significati che ciascuno attribuisce agli eventi che si presentano quotidianamente sono automaticamente eliminati.

Ma nel momento in cui un comportamento è depauperato dalla valutazione attribuitagli, cosa resta? Naturalmente, solo la situazione ricordata come una immagine, un frame. Detto in termini cognitivisti, sono eliminati i Belief, ma restano gli Activating event e le Consequences. Proprio queste immagini situazionali sono esaltate dalla droga, ottenendo, di conseguenza, una “conoscenza priva di vincoli”, tipo quella sperimentata nel 1960 da Leary, acerrimo e famigerato sostenitore dell’uso di sostanze psicotrope, durante una vacanza in Messico, grazie ai “funghetti magici”.

Ora sappiamo che la deattivazione di queste regioni porta ad uno stato in cui il mondo è vissuto come strano, estraneo, nuovo, inaspettato, quindi emotivamente positivo. Si creano i così detti “trip”, in cui la realtà diventa un sogno, l’immaginazione si mostra come straordinaria realtà, e lo stupore, misto alla felicità del nuovo, si impossessa della mente.

La psilocibina, inoltre, potrebbe fungere da antidepressivo, poiché esercita una riduzione dell’attività della mPFC, che risulta eccessiva in coloro che sono affetti da depressione, e da ansiolitico poiché i partecipanti che mostravano ansia, dopo la sostanza, stavano meglio. Inoltre, ha un effetto a lungo termine, nel senso che a distanza di settimane i partecipanti all’esperimento sostenevano di esperire ancora emozioni positive.

Per concludere, potrebbe essere un buon adiuvante alla psicoterapia, come si faceva nello scorso secolo, naturalmente utilizzando il principio attivo a scopo terapeutico.

Cosa ne dite?

 

 

BIBLIOGRAFIA: 

La percezione di controllo e padronanza: effetti sulle capacità cognitive.

– Rassegna Stampa – 

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze PsicologicheIl nostro senso di padronanza e controllo varia continuamente e questo può influenzare le nostre capacità cognitive.

Lo sostiene un gruppo di ricercatori della North Carolina State University che ha osservato le variazioni nella sensazione soggettiva di controllo in un gruppo di anziani con un età media di 74 anni. 

I partecipanti all’esperimento sono stati testati ogni 12 ore per due mesi consecutivi con domande sul loro senso di padronanza e competenza nel raggiungere obiettivi prefissati; contemporaneamente venivano anche misurate le loro capacità cognitive di memoria e ragionamento induttivo.

I risultati indicano che il senso di padronanza può variare molto rapidamente, anche nell’arco della stessa giornata e queste variazioni corrispondono a fluttuazioni nelle prestazioni cognitive. Sembra in particolare che sia l’incremento del senso di padronanza e controllo a provocare il miglioramento di alcune funzioni cognitive, e non viceversa.

Più precisamente, in chi ha riferito di avere normalmente uno scarso senso di padronanza, un aumento ha facilitato il problem solving; mentre in chi ha riferito di avere normalmente un buon senso di controllo un ulteriore incremento ha migliorato le prestazioni nei compiti di memoria. Questi risultati, dicono i ricercatori, sono importanti nello studio dei processi dinamici di invecchiamento cognitivo.

 

 

BIBLIOGRAFIA: 

Co-Rumination: un passatempo da ragazze…

 

Ragazze, cosa facciamo oggi pomeriggio dopo la scuola? Co-ruminiamo insieme!

Co-Rumination: un passatempo da ragazze... - Immagine: © Arto - Fotolia.com Chiunque sia stato adolescente sa benissimo come, durante quest’età, i compagni e il gruppo dei pari superi l’ambiente familiare nell’essere il primo “fornitore” di supporto sociale. I ragazzi stanno con i ragazzi, si riconoscono in un gruppo di appartenenza molto forte, tanto coeso all’interno e tanto “discriminante” nei confronti degli altri gruppi.

La letteratura è concorde nel considerare il gruppo dei pari in adolescenza come uno dei motori più consistenti di supporto (e talvolta di ostacolo) per la costruzione dell’identità individuale dei ragazzi.

 

Rumination - Immagine: © Johan van Beilen - Fotolia.com
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Uno dei fenomeni recentemente studiati in letteratura è la cosiddetta co-rumination. Termine coniato da Rose (2002) viene definito come “eccessiva discussione di un problema all’interno di relazioni strette, caratterizzato da un mutuo incoraggiamento a speculare sul problema in questione in termini di cause e conseguenze e a “fare i conti” con le emozioni negative”.

Sembra che le ragazze siano più inclini a co-ruminare tutte insieme, vista la loro maggiore tendenza alla self-disclosure (parlare di sé e dei propri sentimenti) con le amiche dello stesso sesso (McNells & Connolly, 1999) e perseguono relazioni amicali strette e profonde (Camarena, Sarigiani & Peterson, 1990).

Fusione Pensiero Azione - Immagine: © ktsdesign - Fotolia.com
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Sebbene questi ultimi due aspetti siano considerati come fattori di protezione allo sviluppo di disturbi psicopatologici (in particolare di tipo internalizzante, ansia, depressione e psicosomatici su tutti), sembra che il co-ruminare mantenga le ragazze maggiormente vulnerabili a sviluppare ansia e depressione, rispetto ai ragazzi.

Vediamo le caratteristiche salienti della co-rumination:

  • È simile alla self-disclosure, in quanto implica autoapertura, condivisione e intimità;
  • È anche simile alla rumination (di cui abbiamo già parlato qui su State of Mind);
  • È focalizzata sugli aspetti negativi dell’esperienza (“il ragazzo mi ha lasciato”, “i miei non mi lasciano fare niente”, “i miei non mi fanno usare facebook”, la mia amica mi ha tradito”, “lei è invidiosa” etc…);
  • È eccessiva, nel senso che prosegue molto più del necessario e non si concentra sugli aspetti che permetterebbero alle ragazze di trovare una soluzione (assume, pertanto, la forma WHY,);
  • A differenza della rumination, però, è un fenomeno sociale, stringe e annoda il gruppo, è condiviso e questo è rinforzato dal feedback sociale che riceve. Pensiamo alla reazione delle amiche quando una ragazza chiede loro di uscire e di parlare di un problema o di una situazione che la fa sentire a disagio o triste…

Pochissimi dati in letteratura, tanto che per ora tale dato assume la forma speculativa, la considerano una strategia di coping, di fronteggiamento dei problemi, in particolare per le esperienze stressanti.

Ma quali sono gli effetti del co-ruminare in compagnia? Le ragazze sembrano più vulnerabili a sviluppare sintomi di tipo ansioso-depressivo. La co-ruminazione potrebbe contribuire a spiegare perché le giovani ragazze/donne siano più a rischio di sviluppare questo tipo di problematiche.

Quindi, care giovani ragazze, lamentatevi, esprimetevi, condividete, confidatevi, insomma, co-ruminate… ma non esagerate!

 

 

BIBLIOGRAFIA: 

  • Camarena P.M., Sarigiani P.A. & Peterson A.C. (1990). Gender-specific pathways to intimacy in early adolescence. Journal of Youth and Adolescence. 19: 19-32.
  • McNells L.R. & Connolly J.A. (1999). Intimacy between adolescent friends: age and gender differences in intimate affect and intimate behaviors. Journal of Research on Adolescence. 9: 143-159.
  • Rose A.J. (2002). Co-rumination in friendships of girls and boys. Child Development. 73: 1830-1843.
  • Tompkins T.L., Hockett A.R., Abraibesh N. & Witt J.L. (2011). A closer look at co-rumination: gender, coping, peer functioning and internalizing/externalizing problems. Journal of Adolescence. 34: 801-811.

Un Matrimonio Perfetto? addestrare il partner come fosse un delfino.

 

Il segreto per una relazione perfetta? Addestrare il proprio partner…come un delfino.

Un Matrimonio perfetto? Addestrare il partner come fosse un delfino. - Immagine: © Lorelyn Medina - Fotolia.com - Siete stufe di sbraitare per la tavoletta alzata? Non c’è verso di convincere vostro marito a chiudere il tubetto del dentifricio? In “Un matrimonio perfetto”, pubblicato negli USA nel lontano 1961, Winifred Wolfe con uno stile civettuolo, frizzante e molto divertente ci rivela il segreto per plasmare il partner ideale. Il libro si legge d’un fiato e regala non poche risate.

La giovane Chantal, trasferitasi a New York, si innamora di uno scapolo impenitente e riesce a farsi sposare. Dopo un primo periodo idilliaco iniziano però i primi screzi: possibile che suo marito non abbia mai voglia di accompagnarla a scegliere le tende per il salotto?! Ma per fortuna che c’è Maman, pronta a svelare alla figlia il trucco per ottenere un matrimonio perfetto: addestrare il proprio partner…come un cane! Sebbene il consiglio appaia bizzarro, funziona! Fino a quando il marito non scopre l’inghippo, e allora cominciano i guai.

L’idea vi pare assurda? Provare per credere! La giornalista Amy Sutherland in un celebre articolo pubblicato sul The New York Times (2006) racconta di come, stanca dei calzini disseminati per casa dal marito, abbia deciso di applicare nei suoi confronti, con grande successo, una tecnica utilizzata per addestrare i delfini, la L.R.S (Least Reinforcing Scenario).

I nostri nonni si amavano di più? Evoluzione o declino del matrimonio? - Immagine: © alexcoolok - Fotolia.com -
Articolo consigliato: I nostri nonni si amavano di più? Evoluzione o declino del matrimonio?

L.R.S. consiste nel premiare (rinforzare) un comportamento desiderato ed ignorare un comportamento irritante, basandosi sul principio che se un comportamento non provoca alcuna risposta, si estingue perché risulta essere un inutile dispendio di energia.

Pertanto se il vostro obiettivo è rendere il vostro partner più ordinato, non dovete fare altro che ignorare la sua biancheria gettata a terra (sottoponendovi ad una grande prova di pazienza) e rinforzarlo prima ogni qual volta si avvicinerà al cesto della biancheria sporca, successivamente solo quando getterà i boxer nel cesto, fino al gran finale: premiarlo esclusivamente quando i suoi boxer verranno lanciati direttamente in lavatrice. Questa tecnica di condizionamento si chiama modellaggio per approssimazioni successive e oltre ad essere alla base di qualsiasi programma di addestramento animale viene utilizzata anche, per esempio, per educare i bambini.

L’alternativa spesso messa in atto, cioè strillare come un’isterica “Te l’ho detto mille volte di non lasciarmi in giro per casa la tua roba!”, risulta invece meno efficace poiché è vero che la punizione (cioè uno stimolo avversivo) riduce la probabilità che l’altro metta in atto il comportamento tanto odiato, ma ha effetto temporaneo e soprattutto non gli fornisce indicazioni su quale sia il comportamento corretto; in pratica gli si dice cosa non deve fare, ma non quello che dovrebbe fare. Quindi il modo migliore per plasmare il comportamento di qualcuno è rinforzarne le azioni desiderate. I rinforzi da utilizzare, cioè quegli stimoli che aumentano la probabilità che venga messa in atto una certa risposta, possono essere molteplici: dai cosiddetti rinforzi primari (es. cibo, contatto sessuale) a quelli generalizzati (es. manifestazione d’affetto) a quelli simbolici (es. denaro). Il più adatto? A voi la scelta!

E la prossima volta che la vostra ragazza esclamerà “bravo il mio cucciolone!” grattandovi amorevolmente sotto il mento…drizzate le orecchie!

 

 

BIBLIOGRAFIA:  

Schema Therapy: dal Training Internazionale di Roma – (#2 Terapia)

Di Silvia Taddei.

Schema Therapy: dal Training Internazionale di Roma (#2 Terapia). - Immagine: © smilewithjul - Fotolia.com -Dopo aver parlato nella prima parte dell’articolo della fase di Assessment (valutazione), parliamo adesso della seconda fase: quella di cambiamento ovvero la Terapia.

Definendo obiettivi, modalità e tempi.

Oltre alle tecniche tratte dalla Terapia Cognitiva Standard, utili per costruire un dialogo interno che favorisca la motivazione per il successivo lavoro esperienziale, sono state presentate le numerose tecniche per lavorare sul problema emotivo mentre viene attivato in seduta. Tutte le tecniche e strategie terapeutiche oltre che attraverso esempi clinici e la visione di video, sono state apprese attraverso un lavoro di role play svolto fra i partecipanti al training.

Le tecniche sicuramente più interessanti e che attraverso la pratica si comprende siano l’aspetto più pratico e utile della schema therapy sono quelle esperienziali. Ovvero le tecniche immaginative e di role play (Dialoghi con gli schemi, i mode e tecnica delle sedie vuote); la relazione terapeutica che diventa principio cardine della terapia e che spesso guida il lavoro del terapeuta. Il reparenting, in cui il terapeuta aiuta il paziente a soddisfare ed esprimere i bisogni che non sono mai stati soddisfatti nel rispetto dei confini della relazione terapeutica e che è forse l’aspetto più peculiare e più dibattuto della Schema Therapy.

Schema Therapy: dal Training Internazionale di Roma. - Immagine: © puckillustrations - Fotolia.com -
Articolo consigliato: Schema Therapy: dal Training Internazionale di Roma (#1 Assessment)

Tuttavia durante lo studio di Arnoud Arntz con pazienti Borderline citato sopra, l’aspetto definito dai pazienti più utile è risultato essere proprio questo;

Utilizzando tecniche immaginative, il Terapeuta chiede di entrare nell’immagine e parla con le persone che hanno fatto del male o che non hanno accudito il paziente quando era piccolo e che hanno favorito l’insorgere degli schemi, sia con quelle che continuano a rinforzarli nella vita quotidiana e aiuta il paziente a fare lo stesso nell’arco della terapia. Attraverso questi numerosi esercizi immaginativi il paziente può spesso per la prima volta iniziare a sentire di avere dei diritti e che i propri bisogni hanno valore.

Infatti uno degli aspetti spesso più problematici per i pazienti è che il messaggio che essi hanno ricevuto da sempre è che i loro bisogni, diritti o emozioni non hanno valore e spesso essi sono stati puniti nel momento in cui provavano ad esprimerli. Se tutto ciò è capitato da quando essi erano molto piccoli spesso la persona può avere sviluppato schemi quali: deprivazione emotiva, inadeguatezza, fallimento, sfiducia e abuso, sottomissione, vulnerabilità. Tutti schemi molto importanti nei pazienti che soffrono di disturbo borderline ma non solo. Comprendere quindi che i propri bisogni, diritti e le proprie emozioni sono importanti e che essi meritano di ricevere quello che non hanno mai ricevuto è un passo fondamentale verso l’inizio del cambiamento.

Durante gli esercizi immaginativi che richiamano ricordi negativi dell’infanzia, spesso traumatici, quindi non è insolito che il terapeuta chieda al paziente di poter entrare nell’immagine che sta esperendo, apportando quindi delle modifiche al ricordo stesso. Alleandosi con il paziente, proteggendolo e insegnandogli ad ottenere almeno una parte di ciò di cui è stato privato emotivamente. Tali esercizi sembra che permettano di richiamare ricordi immagazzinati nella memoria episodica a cui sono collegati vissuti emotivi molto intensi. Apportando delle modifiche alle immagini e determinando una modificazione delle emozioni, la nuova esperienza sembra possa integrarsi con il ricordo originariamente archiviato, modificando il ricordo stesso e il vissuto emotivo ad esso collegato.

Tale vissuto emotivo, risperimentato solitamente nel presente, da adulti, in situazioni anche vagamente simili a quelle che hanno originariamente dato vita agli schemi maladattivi, una volta modificato tenderà ad essere diverso anche nel presente in quelle situazioni in cui il paziente solitamente soffriva, permettendogli la messa in atto di comportamenti adattivi e più funzionali. Questo risultato non è immediato ma avviene nel tempo. Questa tecnica viene chiamata tecnica del Rescripting. Sembra che il paziente possa lentamente interiorizzare la figura di un adulto sano (il Terapeuta) che sia in contatto con le proprie emozioni e bisogni e che sia anche in grado di soddisfarli in modo adattivo. Tale processo di interiorizzazione quando i bisogni vengono soddisfatti adeguatamente nell’infanzia e nell’adolescenza avviene in maniera naturale per il bambino. Quando invece essi non vengono soddisfatti l’adulto interiorizzato invece che sano è spesso punitivo, critico, esigente o addirittura abusante. Negli esercizi immaginativi una volta individuata la parte definita Genitore Punitivo (o critico, o esigente, etc.) il Terapeuta può dialogare in maniera decisa e spesso contrastarlo prendendo le difese del bambino.

Analisi Critica della Schema Therapy - Immagine: © robodread - Fotolia.com
Leggi l’articolo: “Un’analisi critica della Schema Therapy”

La Schema Therapy cerca attraverso il lavoro terapeutico di fare in modo che sia il paziente stesso a poter contrastare questa parte critica e a prendersi cura del mode di quella parte di se che viene definita il Bambino Vulnerabile.

Assumendo il ruolo di “adulto funzionale”, il terapeuta fornisce quindi al paziente un esempio per costruire un “Adulto Funzionale” che si prenda cura del bambino che è in lui nella vita quotidiana. L’aspetto centrale del reparenting è il fatto che i pazienti iniziano ad ascoltarsi, a concentrarsi sui propri bisogni, bisogni che da sempre sono stati criticati, e iniziano soprattutto a desiderare la felicità per sé .

Tutto questo è chiaramente contornato dall’altro aspetto peculiare della schema therapy: la relazione terapeutica, all’interno della quale con il confronto empatico il terapeuta mostra comprensione per le motivazioni che spingono il paziente a perseverare nel mantenimento dello schema. Il terapeuta si sforza di comunicare empatia, calore, genuinità, fattori definiti da Rogers (1951) elementi aspecifici di una terapia efficace. Lo scopo è creare una atmosfera nella quale il paziente, sentendosi accettato e al sicuro, possa instaurare un legame significativo con il terapeuta. Il terapeuta si relaziona al paziente assumendo un’ atteggiamento di apertura e confidenza. Questo tipo di relazione terapeutica sembra essere molto vicino al concetto di “sintonizzazione affettiva” tra madre e bambino di Stern: consiste nell’esecuzione di comportamenti che esprimono la qualità di un sentimento condiviso senza tuttavia imitarne l’esatta espressione comportamentale.

Vorrei concludere con una frase di Young che a mio avviso sintetizza il processo di cambiamento che avviene durante la schema therapy:

“il compito più importante che possiamo assumerci nella nostra vita è scoprire le nostre naturali attitudini e inclinazioni. Rispetto a tale obiettivo, la guida migliore è rappresentata dalle emozioni e dalle sensazioni corporee. Quando ci impegniamo in attività o in relazioni che soddisfano le nostre inclinazioni naturali ci sentiamo bene: il nostro corpo è appagato e proviamo piacere e gioia”.

 

 

BIBLIOGRAFIA:

  • Jeffrey E.Young ; Janet S.Klosko Schema Therapy
  • Jeffrey E.Young; Janet S.Klosko Reinventa la tua vita.

Apprendimento del linguaggio nei bambini: una fase pre-linguistica tra i 6 e i 9 mesi.

– Rassegna Stampa – 

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze PsicologicheUn nuovo studio apparso su Proceedings of the National Academy of Sciences disconferma l’idea che i bambini incomincino a comprendere il significato di comuni vocaboli solo verso il primo anno di vita.

Si pensa infatti che i bambini tra i 6 e 9 mesi attraversino una fase “pre-linguistica” durante la quale, anche se in grado di percepire e comprendere gli elementi dei suoni della loro lingua nativa, non possiedono ancora la capacità di cogliere i significati trasmessi dal discorso. Secondo Elika Bergelson e Daniel Swingley, due ricercatori dell’ University of Pennsylvania, i tentativi fatti fino ad ora per determinare l’età in cui i bambini escono dalla fase pre linguistica non sono stati esaustivi. I ricercatori hanno osservato il comportamento di due diversi gruppi di bambini, di 6 / 9 mesi e 10 /20 mesi, mentre osservavano su uno schermo immagini di oggetti comuni e familiari, che venivano in alcuni momenti nominati dal genitore presente all’esperimento; nel frattempo gli sguardi dei bambini venivano monitorati con un dispositivo di eye-tracking.

Secondo i ricercatori la comprensione di un vocabolo avrebbe portato i bambini a guardare più a lungo sullo schermo l’oggetto a cui si riferiva. Alla quantità di tempo passata ad osservare ciascun oggetto nominato durante l’esperimento è stata sottratta la quantità di tempo normalmente impiegata da ciascun bambino a osservare lo stesso oggetto, in questo modo si è pensato di eliminare l’errore derivante dall’attrattiva suscitata da alcuni oggetti, preferiti rispetto ad altri. Secondo i ricercatori il fatto che i bambini tra i 6 e i 9 mesi comprendano il significato di alcuni oggetti è stato dimostrato dal posarsi del loro sguardo proprio sull’oggetto nominato rispetto agli altri presenti sullo schermo ma che non venivano nominati. Questo studio dimostra inoltre che la comprensione si riferisce a vocaboli che definiscono categorie di oggetti, come “le mele” o “i nasi”, e non a oggetti specifici, e questo è proprio l’aspetto che la rende il processo di apprendimento più complicato.

I risultati di questo esperimento mostrano inoltre che le capacità di apprendimento rimangono costanti tra i 6 e i 9 mesi, non sembra quindi esserci un evoluzione in questo arco temporale; un lento incremento delle prestazioni si verifica invece nel gruppo dei bambini più grandi con un picco a 14 mesi, età in cui i bambini probabilmente comprendono la natura del compito sperimentale e lo trattano come un gioco; inoltre a questa età probabilmente intervengono variabili non direttamente misurate dall’esperimento, come una migliore capacità di categorizzazione dei vocaboli e maggiore comprensione della sintassi.

 

 

BIBLIOGRAFIA: 

La Vergogna e la Colpa nei Disturbi del Comportamento Alimentare (DCA). Cicli Emotivi e Patologia.

Dott.ssa Alessia Zoppi, Dott.ssa Chiara Spinaci.
Università di Urbino “Carlo Bo”, Dipartimento di Scienze dell’Uomo.

 

La Vergogna e la Colpa nei Disturbi del Comportamento Alimentare (DCA). Cicli Emotivi e Patologia. - Immagine: © bobyramone - Fotolia.com Le emozioni più spesso trattate nella clinica dei DCA sono la vergogna e la colpa, stati emotivi autocoscienti che affliggono l’Io.

La vergogna è un’emozione che determina reazioni psico-fisiche specifiche: non si ha più controllo del proprio corpo e della propria mente, ci si sente smascherati, spogliati e inermi davanti all’altro che ci ha “scoperti”. Questa emozione favorisce comportamenti di rispetto verso se stesso e gli altri e protegge dalla costruzione di una identità grandiosa e megalomanica; se eccessiva può bloccare il soggetto e spingerlo al ritiro sociale, scatenando senso di inadeguatezza, inferiorità, inamabilità auto-attribuita, bassa autostima. Questa emozione può essere il risultato di una valutazione percepita come interna o esterna: quando è interna il Sé giudica se stesso, con connotazioni fortemente negative e invalidanti; quando è esterna il Sé si sente giudicato dagli altri, teme lo sguardo altrui, soprattutto quando si esperisce come portatore di aspetti negativi e umilianti.

No recipes for treating eating disorders. Image: © kikkerdirk #27366320 -
Articolo consigliato: Science does not offer recipes for treating eating disorders.

La colpa è un’emozione legata a qualcosa che si è compiuto a danno di terzi o che può essere giudicato negativamente. Questa emozione è legata a giudizi, valori e morale socialmente condivisi. Mentre nella vergogna il giudizio negativo è attribuito al Sé nella sua interezza, nella colpa si assiste ad una risposta emotiva evento-specifica: l’attribuzione negativa è legata allo specifico comportamento attuato.

La letteratura sulle emozioni nei DCA è ampia ed è possibile parlare di “circoli emotivi” di mantenimento della sintomatologia.

Da una ricerca di Skarderud (2007), attuata con un intervista semistrutturata che indaga il costrutto di vergogna nell’Anoressia Nervosa (AN), è emersa una classificazione delle tipologie di vergogna esperite da soggetti anoressici. Questa emozione è sia “vissuta” come interna (auto-valutazione negativa) che come esterna (sensazione che gli altri li giudichino negativamente).

I pazienti esprimono una sensazione generale di vergogna, ma a un livello più profondo sembra che essi vivano specifiche tematiche di vergogna:

  • vergogna di alcune emozioni: dell’avidità personale, dell’invidia, della tristezza, della sensazione di grandiosità, della rabbia;
  • vergogna del fallimento;
  • vergogna del corpo: della propria apparenza e della funzione del corpo;
  • vergogna rispetto all’autocontrollo e ai comportamenti auto-distruttivi;
  • vergogna degli abusi sessuali: sensazione di inferiorità, sensazione di non aver resistito;
  • vergogna di avere un disturbo alimentare: per il problema legato al mangiare, per auto-accuse di vanità, per timore dello stigma sociale.

Nell’AN i soggetti sospendono volontariamente e forzatamente l’alimentazione, in linea con un comportamento controllante e rigido più che punitivo. Essi spostano sul corpo l’espressione di un disagio psicologico legato alla propria valutazione personale: si sentono sbagliati, inamabili, inadeguati (emozione di vergogna) ma non provano colpa, rispetto al proprio comportamento patologico. Infatti nei pazienti emergono anche degli indici elevati legati al sentimento di orgoglio (Skarderud, 2007). Per orgoglio si intende uno stato emotivo opposto alla vergogna, autoconsapevole, associato al successo sociale e ad approvazione o ammirazione da parte degli altri. Le tematiche di orgoglio nella AN sono:

  • Orgoglio generato dall’auto-controllo rispetto alla gestione e assunzione del cibo, alle diete ferree, all’attività fisica compensatoria;
  • Orgoglio generato dalla sensazione di essere straordinario, manifestato attraverso una narrativa di eccezionalità, anche grazie alla patologia;
  • Orgoglio generato dall’apparenza fisica, espresso nell’attrazione per la magrezza;
  • Orgoglio generato dalla ribellione e protesta, manifestato con difese ripetute e irremovibili della sindrome.
I Disturbi dell'alimentazione: resoconto di un convegno - SISDCA 2011 - Immagine: © DURIS Guillaume - Fotolia.com
Articolo consigliato: “I Disturbi dell’alimentazione: resoconto di un convegno – SISDCA 2011”

La tenacia e l’orgoglio verso il comportamento patologico avrebbero lo scopo di compensare la propria inadeguatezza; ma i soggetti con AN continuano a esperire le diverse tematiche di vergogna a causa dell’impossibilità di raggiungere il perfezionismo auspicato.

Sarebbero dunque contemporaneamente attivi il circolo “vergogna-orgoglio” e il circolo preferenziale “vergogna-vergogna”.

Nel circolo “vergogna-vergogna” questa emozione, come causa dell’innesco di sintomi, è legata a: fattori svalutativi personali, gestione inadeguata delle emozioni, spostamento sul corpo delle emozioni negative. La vergogna come effetto è invece collegata a tutte le tematiche di vergogna sopracitate.

Nel circolo “vergogna-orgoglio” i sentimenti di vergogna iniziali sono i medesimi del circolo precedente ma la risposta da parte del soggetto ha lo scopo di garantire elevati livelli di orgoglio. Questo secondo circolo è interessante poiché può spiegare alcuni comportamenti tipici dei soggetti con AN in trattamento, come ridotta motivazione alla terapia e la difesa del sintomo.

Rifacendosi allo studio di Hayaki et al., (2002) nella Bulimia Nervosa (BN) i soggetti esperiscono emozioni fortemente destabilizzanti di colpa, oltre che vergogna, legate al meccanismo patogeno “abbuffata- eliminazione”. Si può dire che in questi pazienti il circolo emotivo sia caratterizzato da sentimenti di “vergogna-colpa”.

Disturbi Alimentari - Alpbach Bologna 2011 - Immagine: © waterlilly - Fotolia.com -
Articolo consigliato: “Alpbach e Bologna: due congressi non anglofoni sui disturbi alimentari”

La compulsività e la perdita di controllo nell’orgia bulimica alimenta emozioni negative. La colpa si manifesta come effetto del comportamento “abbuffata-eliminazione”, ma è anche un fattore eziologico poiché si riscontra nei pazienti con BN una vulnerabilità personale a sperimentare emozioni di colpa.

Colpa e vergogna possono inoltre spiegare la comorbilità esistente tra DCA e altre sindromi (Grabharn et al., 2006; Hayaki, et al., 2002): depressione, ansia e DCA sono i quadri più spesso associati all’emozione di vergogna globale interiorizzata.

In presenza di comorbilità tra DCA e Fobia Sociale è possibile pensare che l’emozione di vergogna legata al corpo e al Sé sia associata al timore di essere osservati, giudicati negativamente e “scoperti” dagli altri. Il soggetto vive la vergogna rispetto al Sé negativo e teme di essere giudicato dall’esterno.

Nel caso di comorbiltà tra quadri depressivi e DCA è possibile pensare che il soggetto giudichi in modo assolutamente negativo il Sé e perda qualsiasi aspettativa e speranza. La vergogna si esperisce a causa di fattori interni costituzionali sentiti come negativi.

Edimburgh - Immagine: Creative Commons - Attribution: By Yo (foto hecha por mí) [GFDL (www.gnu.org/copyleft/fdl.html) or CC-BY-SA-3.0-2.5-2.0-1.0 (www.creativecommons.org/licenses/by-sa/3.0)], via Wikimedia Commons
Articolo consigliato: EDRS 2011: le neuroscienze all’assalto dei disturbi alimentari.

La comorbilità dei DCA con il Disturbo Borderline di Personalità e del Controllo degli Impulsi potrebbe essere spiegata dal circolo emotivo “vergogna/colpa-rabbia” presente nei soggetti Shame-Prone. Essi non sono consapevoli dell’emozione esperita e tendono a esternalizzarla per evitare il contatto con la negatività del Sé: all’emergere di elevati livelli di vergogna e colpa il soggetto reagisce con comportamenti rabbiosi e attribuendo la causa dell’emozione a eventi o persone esterne, con esiti catastrofici sulle relazioni interpersonali (Meneghini, 2008).

Concludendo, le emozioni sono sia “attivatori” che “meccanismi di mantenimento” della sintomatologia. Colpa e vergogna sembrano avere un ruolo specifico come attivatori, in quanto nei DCA sembra esserci una vulnerabilità a sperimentare tali emozioni e difficoltà nella gestione e riconoscimento delle stesse; ma si dimostra anche come le stesse emozioni possano essere fattori di mantenimento ed effetti del comportamento patologico, paradossalmente attuato nel tentativo di allontanarle.

 

 

BIBLIOGRAFIA: 

  • GRABHORN et al., (2006). Social Anxiety in Anorexia Nervosa and Bulimia Nervosa: the mediating role of shame. Clin. Psychol. Psychother., 13, pp.12–19.
  • HAYAKI, J., FRIEDMAN, M.A., BROWNELL, K.D. (2002). Shame and severity of bulimic symptoms. Eating Behaviors, 3, pp. 73–83.
  • MENEGHINI, A.M., (2008). Quando la colpa è costruttiva. DIPAV, 23, pp. 103-120.
  • SKARDERUD, F. (2007). Shame and pride in anorexia nervosa: a qualitative descriptive study. European Eating Disorders Review, 15, pp. 81-97.

Iniziare una terapia cognitiva #1: Concordare le regole

 

Iniziare una Terapia Cognitiva: Concordare le Regole. - Immagine: © Bernard BAILLY - Fotolia.com Il punto di partenza della terapia cognitiva, la prima regola del gioco da stabilire tra paziente e terapeuta, è chiarire le regole. Il terapeuta cognitivo fin dall’inizio agisce in piena trasparenza e comunica al paziente come funziona la terapia cognitiva e come agisce sulla sofferenza emotiva. Proprio perché la terapia cognitiva privilegia l’aspetto esplicito e cosciente dell’attività mentale, è giusto che le regole del gioco siano condivise esplicitamente.

Si tratta di comunicare al paziente l’ipotesi del primato cognitivo, per la quale l’elaborazione consapevole degli stati mentali in forma di informazione esplicita, verbalizzabile e comunicabile è in grado di spiegare e guidare gli stati emotivi e pianificare il comportamento in vista di scopi (Clark e coll., 1999). Una formulazione leggermente differente sostiene che ogni stato mentale, anche il più spontaneo e immediato, corrisponde in realtà a una valutazione cognitiva della realtà esterna e degli stati interni, ovvero è informazione. È il caso delle emozioni, stati interiori spontanei che però sono anche informazione: così la paura è una valutazione di pericolo, la vergogna di un imbarazzo sociale, la colpa di violazione di una regola (Castelfranchi, 1988).

Naturalmente tutto questo va comunicato al paziente non usando questa pedante terminologia tecnica, ma con parole semplici e facilmente comprensibili. La spiegazione avviene partendo proprio dal problema presentato dal paziente stesso. A volte questa operazione è – almeno apparentemente- non troppo difficile. Ad esempio:

P.: Vengo da lei perché ho timore di prendere l’ascensore.

Storie di Terapie - © Athanasia Nomikou - Fotolia.com
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In questo caso lo stato emotivo di timore è già ben collegato a un pensiero: la valutazione di un pericolo abbastanza ben definito, che è naturalmente rimanere bloccati in ascensore (anche se poi il terapeuta cognitivo metterà in discussione questo pericolo; ma questa è già terapia e quindi lo vedremo in seguito).

Altre volte l’intervento può essere più complesso. Lo stato emotivo di sofferenza è percepito come stato mentale, ma il paziente sembra concepire questo stato mentale come una sorta di fatto oggettivo dotato di vita propria e non come prodotto di operazioni mentali, sia pure in parte automatiche e non ponderate. Leggiamo un altro esempio.

P.: Il mio problema è l’ansia.

T.: Capisco. Poniamoci insieme una domanda: perché proviamo ansia?

Annotazione tecnica: il rischio della sfida razionalistica è sempre dietro l’angolo. Il paziente potrebbe sentirsi sottoposto a un interrogatorio, o peggio trattato da idiota. Il “noi” terapeutico evita questo rischio. Noi soffriamo insieme al paziente e condividiamo il suo problema.

P.: Non so. Perché proviamo ansia?

T.: Intendo dire: questo stato d’animo, l’ansia, come mai lo proviamo? Quando e perché siamo in ansia? Perché lo si prova?

P.: Non c’è un perché. Io ho l’ansia. L’ansia c’è, arriva. Vorrei liberarmene.

Qui è evidente che per questo paziente l’ansia è un fatto negativo che capita, una sorta di disgrazia o di sciagura, sia pure mentale, che va eliminata.

Marco, l'ultimo samurai. Immagine: © Diedie55 - Fotolia.com -
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Non a caso, questa concezione oggettiva degli stati mentali può portare il paziente a cercare spiegazioni in cause non coscienti. La concezione popolare della genetica o dell’inconscio freudiano sono particolarmente adatte a fornire questo tipo di giustificazioni.

P.: La mia ansia potrebbe avere della cause inconsce. Non saprei. Forse c’è un significato che non conosco?

Oppure

P.: Dipenderà dalla mia genetica?

Le ipotesi psicodinamiche o genetiche sono naturalmente rispettabili, ma non sono compatibili con la fiducia della terapia cognitiva nell’elaborazione volontaria e consapevole. 

La terapia cognitiva invece mantiene il presupposto che gli stati emotivi di sofferenza sono spiegabili con cose che il paziente pensa o ha pensato consapevolmente e non inconsciamente. Questi pensieri collegati alla sofferenza sono però percepiti come confusi e incontrollabili. In ogni caso, a un certo punto la condivisione esplicita delle regole diventa necessaria:

T.: Ora le spiego. In terapia cognitiva si dà importanza a quel che lei pensa consapevolemente.

P.: E quindi?

T.: Quindi, ogni emozione, ogni stato d’animo è anche un pensiero. Per “pensiero” intendo quelle piccole frasi che tutti noi diciamo a noi stessi mentalmente, e con le quali valutiamo una situazione, pensiamo cosa fare, come comportarci. Queste frasi interiori sono quello che pensiamo. O meglio, sono il modo con il quale chiariamo a noi stessi quel che sentiamo e pensiamo. Per esempio, la gioia si accompagna alla constatazione che è accaduto qualcosa che ci rende felici, o che almeno ci soddisfa. Per l’ansia è lo stesso. Cosa si pensa quando si ha l’ansia?

Vado in terapia: aspettative e timori - Immagine: © andrewgenn - Fotolia.com -
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A questo punto dovrebbe essere più facile per il pensiero collegare l’ansia a una preoccupazione cosciente per qualcosa: una valutazione consapevole della presenza di un pericolo.

P.: Beh, l’ansia è timore, timore di qualcosa.

T.: Esatto: per essere precisi l’ansia si unisce a una valutazione di pericolo. Lei teme qualcosa. E che cosa?

Naturalmente non sempre va così liscia.

P.: Le assicuro che non ho pensato a nulla. Ho l’ansia, e nient’altro.

T.: Capisco. Tuttavia vorrei che fossimo d’accordo su questo punto: ogni emozione corrisponde a un pensiero. Magari un pensiero confuso, un pensiero in cui davvero lei non ha pronunciato nessuna particolare “piccola frase” dentro la sua testa. Un pensiero che somiglia più a una sensazione che a qualcosa che possa essere detto in parole. Ma comunque un pensiero.

P.: (cenni o mormorii di assenso)

T.: Quindi le direi che comunque l’ansia corrisponde a un pensiero. Pensiamoci: a quale pensiero?

P.: Evidentemente c’è qualcosa che mi preoccupa. Che mi mette in ansia. Ho paura di qualcosa? Ma di cosa?

T.: Cercheremo di capirlo.

E qui finisce bene. Ma se ancora il nostro paziente non afferra il concetto?

P.: Dottore, continuo a non capire. So solo che io ho l’ansia, punto. Non so come dirglielo: non penso a nulla.

T.: D’accordo, la aiuto. Facciamo l’esempio inverso. Lei dice che quando ha questa ansia che la tormenta non pensa a niente. D’accordo. Ci credo. Però è vero che esistono pensieri che ci fanno venire l’ansia.

P.: Per esempio?

T.: Mah, per esempio, il timore di arrivare in ritardo. Il timore di non poter stare più bene

P.: (cenni o mormorii di assenso) e quindi?

T.: E quindi l’ansia può essere generata da un pensiero.

P.: D’accordo, ma nel mio caso? Continuo a non avere idea di quale pensiero può avermi generato ansia.

T.: Lo troveremo. Per ora l’importante è che lei convenga su questo punto: può esserci un pensiero. Un pensiero che possiamo chiarire e poi perfino modificare. E modificandolo, agire sulla sua sofferenza. Questa è la terapia cognitiva. Vediamo ora come e quando si presenta questa ansia. In quali momenti della sua giornata. Ora le farò delle domande precise.

 

E così siamo passati alla fase successiva: dal concordare le regole al grande tema dell’accertamento cognitivo. Che approfondiremo nei prossimi capitoli. Ora concludiamo con qualche altra annotazione teorica e pratica su come concordare regole.

Insomma, la terapia cognitiva si gioca tutta su questo rapporto tra pensiero verbale interno e altri stati d’animo non verbali. Al paziente il terapeuta cognitivo chiede sempre di effettuare il passaggio dal “sentire” e “provare” al “pensare frasi”. Passaggio a volte forse difficile, ma mai ritenuto impossibile. Non si deve andare alla ricerca di significati profondi, ma valutare le ragioni dei propri stati d’animo del presente con buon senso e semplicità.

Come già scritto, chi ideò questo principio terapeutico fu Albert Ellis. Ellis riteneva che gli stati mentali non solo fossero agevolmente traducibili in parole, ma che essi fossero sempre determinati da pensieri coscienti espressi in forma verbale, o almeno verbalizzabile, che precedevano gli stati emotivi “sentiti”. Questa posizione era ingenua, ma di grande efficacia pratica nello stabilire i principi della tecnica cognitiva.

La formulazione ingenua non impedì a Ellis di cogliere con grande chiarezza e precisione il nuovo principio terapeutico: la sofferenza mentale non dipende da stati mentali inconsci e pregressi, ma da elaborazioni mentali consapevoli che il soggetto si auto-infligge nel presente con un certo automatismo ma in fondo volontariamente, dandone per scontato il valore di verità e la fondatezza razionale. Ellis svalutava quindi tutta la porzione non esplicita e non verbalizzabile dell’elaborazione mentale, sostenendo che invece è la componente esplicita l’elemento responsabile della sofferenza emotiva.

Una spietata e instancabile amorevolezza: Otto Kernberg e John Clarkin a Padova. 21-23 settembre 2011
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Naturalmente Ellis non arrivava a sostenere che i pensieri si presentino alla mente sempre e comunque in forma perfettamente articolata e sviluppata. Per Ellis si tratta, piuttosto, di piccole e rapide frasi, apparentemente innocue ma in grado di generare sofferenza.

La formulazione con la quale questi pensieri si presentano alla mente è spesso semplicistica e definitiva: etichettature, indottrinamenti, auto-istruzioni, per lo più poco argomentate e ancor meno articolate ma auto-inflitte in forma di verità apodittiche e auto-evidenti con un gusto che parrebbe masochistico, dato il loro contenuto negativo. Ellis le chiamava “sciocche frasi” che usiamo dire a noi stessi.

La componente effettivamente terapeutica del trattamento diventava quindi la ricerca e l’esplorazione di queste “sciocche frasi” (Ellis, 1962). Così si esprime una paziente descritta da Ellis: “Ogni qual volta mi scopro ad avere dei sensi di colpa o un turbamento, penso immediatamente che la causa di questo turbamento debba essere una sciocca frase che sto dicendo a me stessa…” Non si tratta più di andare a cercare le cause lontane della sofferenza, ma le cause mentali immediate, presenti ed agenti qui ed ora, in questo momento.

Per il terapeuta cognitivo ogni stato mentale è verbalizzabile come informazione, valutazione di una situazione più o meno problematica ed è padroneggiabile e modificabile attraverso la rielaborazione critica razionale e consapevole. Questo vale per qualunque stato mentale, dalle emozioni alle immagini mentali, dagli stati affettivi alle fantasticherie, dalle meditazioni più ponderate agli impulsi improvvisi. Ognuno di questi stati è traducibile in parole, in pensieri verbali comunicabili. E questo è valido anche per gli stati di sofferenza emotiva che sono alla base delle richieste di trattamento terapeutico.

La condivisione esplicita di questo principio con il paziente è una regola molto caratteristica della terapia cognitiva. Essa invece non è sempre presente in altri orientamenti terapeutici, nei quali si ritiene che queste spiegazioni esplicite delle regole del gioco possano o addirittura debbano essere almeno in parte evitate. Il che non vuole dire che esse siano intenzionalmente nascoste al paziente. Semmai si preferisce che esse emergano da sole dallo spontaneo articolarsi dell’interazione tra paziente e terapeuta. Si tratta di una concezione diversa, nella quale si prova diffidenza per l’esplicito, elemento ritenuto potenzialmente sospetto e in grado di falsare l’emergere dei contenuti psichici più profondi e inconsci. Non è invece così nella terapia cognitiva, la quale fin dall’inizio invece segnala la sua fiducia nella gestione esplicita e consapevole del gioco terapeutico e degli stati mentali.

 

 

BIBLIOGRAFIA: 

  • Castelfranchi, C (ed.) (1988). Che figura. Emozioni e immagine sociale. Bologna: Il Mulino, 1988.
  • Clark, D. A., Beck, A. T., Alford, B. A. (1999). Scientific foundations of cognitive therapy and therapy of depression. New York: John Wiley & Sons.
  • Ellis, A. (1962). Ragione ed Emozione in Psicoterapia. Tr. it. 1989. Roma, Astrolabio.

Il mio psicoterapeuta suona il rock

Di Gaspare Palmieri. 

 

La canzone è una penna e un foglio così fragili fra queste dita, è quel che non è, è l’erba voglio ma può essere complessa come la vita.

Una canzone, Francesco Guccini, 2004,

 

Il mio Psicoterapeuta suona il Rock! - Immagine: © Isaxar - Fotolia.com - Il lavoro psicoterapico può avvalersi di una serie di strumenti non propriamente nati all’interno delle teorie psicologiche, ma che possono essere utilizzati strategicamente dal terapeuta con diverse finalità come quella di:

  • migliorare l’alleanza terapeutica,
  • allenare il paziente al riconoscimento delle proprie emozioni,
  • evocare stati emotivi piacevoli o spiacevoli ed aiutarlo a riflettere sugli stessi,
  • condividere nuove idee e scenari rispetto al raggiungimento del benessere psichico,
  • dare speranza in situazioni fortemente problematiche.

La canzone d’autore italiana, ha una serie di caratteristiche importanti che la rendono uno strumento utile all’interno di un contesto psicoterapico. I testi dei cantautori sono caratterizzati dalla ricchezza e dalla profondità dei contenuti, trattando argomenti legati alle difficoltà esistenziali, al rapporto tra individuo e società, ai legami coppia e alla loro rottura, al dilemma tra ricerca di libertà e amore romantico, al sogno. Questi temi si presentano molto frequentemente all’interno di un percorso psicoterapico e il testo della canzone può così integrarsi molto facilmente.

Ma cosa si intende esattamente per canzone?

Psicantria - Copertina disco -
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Gli studiosi di musicologia fanno risalire la nascita della canzone italiana moderna al 1958, quando Domenico Modugno, dal palco dell’Ariston di Sanremo regalò al mondo la sua celeberrima Volare, e le sue braccia spalancate nel ritornello hanno assunto il significato storico di una piccola rivoluzione. Non solo la gestualità di Modugno, così lontana dalla compostezza controllatissima dei cantanti del tempo, lasciò un paese intero a bocca aperta, ma la canzone in sé rappresentava un’evidente evoluzione a livello di contenuti rispetto ai brani di quel periodo. Fino ad allora la canzone italiana aveva avuto come tema prevalente l’amore idealizzato e romantico, spesso cantato in modo melodrammatico, o ancora prima tematiche patriottiche derivanti dalla canzone popolare. Volare apriva la strada a un modo di scrivere canzoni più libero, che lasciva spazio alla metafora, alla fantasia, al sogno, e paradossalmente alla realtà più autentica.

Da quel momento la canzone italiana ha assunto le caratteristiche di un’entità più complessa costituita da un testo, una melodia, un’armonia e un arrangiamento che integrandosi costituiscono qualcosa di unico. Alcuni produttori definiscono la canzone come un piccolo film, che deve essere equilibrato in tutte le sue parti per essere un buon film.

 

Oltre al contenuto della canzone, ci sono altri due elementi da considerare per definire meglio la potenza dello strumento canzone.

Il primo è l’adattamento del testo su una musica (che distingue la canzone dalla poesia), capace di penetrare letteralmente nell’ascoltatore con effetti evocativi ed emotivamente stimolanti. Questi effetti sono legati alla musica, ma anche all’interpretazione vocale del cantante. L’interpretazione e la voce del cantante sono fondamentali. Sono ciò che rende immediatamente riconoscibile ed unico un brano a partire dalla voce narrante.

Potremmo definire la voce del cantante come una trasmissione di “umanità” da un individuo all’altro. In un gioco simbolico la voce narrante nella canzone può diventare la voce di tua madre che ti canta la ninna nanna, la voce di tuo padre che ti incoraggia ad andare avanti o che canta con te l’Inno di Mameli di fronte alla TV durante i Mondiali, la voce del tuo partner che ti sussurra all’orecchio qualche frase nell’intimità o addirittura la voce dello psicoterapeuta, che solitamente non canta (ma ci possono essere eccezioni…), ma che ti ascolta e che può pronunciare frasi chiave, che possono rappresentare una guida per la vita intera (o quasi). Francesco Guccini, nel suo sforzo metacognitivo intitolato appunto “Una canzone”, parla di “…una voce che non è voce, ma con carambola lessicale, può essere un prisma di rifrazione, cristallo e pietra filosofale”.

Musica didattica metacognitiva - © Tommi - Fotolia.com
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Il secondo elemento è l’incredibile capacità delle canzoni di penetrare nella vita delle persone, consciamente o inconsciamente. L’anno scorso è uscito un bel libro di Vincenzo Incenzo (2011), musicista e parolierie di Renato Zero, La canzone in cui viviamo, un viaggio in cento canzoni importanti per la musica italiana. L’autore sottolinea come le canzoni, proprio perché brevi e memorizzabili, possono rappresentare dei cips cibernetici che vanno a costituire la nostra memoria di vita, dei markers delle nostre emozioni e dei nostri ricordi, un concime ricchissimo per la nostra crescita maturativa.

Risultano addirittura fondamentali in quel bisogno di appartenenza che caratterizza ad esempio gli adolescenti, soprattutto nel mondo di oggi. Secondo la psicosociologa Marylin Brewer (1991) gli individui oscillano tra due bisogni fondamentali: quello di appartenenza ad un gruppo e quello di differenziazione. Certe canzoni riescono a rispondere ad entrambi i bisogni allo stesso tempo. Da una parte il brano ci dice “Sei uno di noi”, fai parte del nostro gruppo, non sei solo, ma dall’altra ci dice anche “Sei unico” o “Siamo unici”. L’inno generazionale di Vasco Rossi Siamo solo noi (1981) è un esempio perfetto di appartenenza (Siamo…noi) e differenziazione (solo) dal resto del mondo piccolo borghese e perbenista. Visto che di questi tempi non si può citare Vasco Rossi senza fare dedicare un pensiero al grande “rivale”, non possiamo dimenticare Luciano Ligabue che canta Non è tempo per noi (1990), un manifesto degli abitanti della “provincia” del mondo, un po’ delusi, un po’ disillusi, in cui migliaia di fans del cantautore di Correggio si identificano da oltre due decenni. Vasco Rossi e Luciano Ligabue, sicuramente i due cantautori italiani viventi con più vasto seguito, gli unici oggi a riuscire a celebrare quelle incredibili cerimonie laiche che sono i concerti negli stadi, devono il loro meritato successo alla capacità di scrivere canzoni in cui risulta molto semplice riconoscersi e identificarsi.

Musicoterapia_© puckillustrations - Fotolia.com
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Vasco Rossi ci riesce scrivendo testi dai confini concettuali spesso un po’ labili e indefiniti, con tanti puntini di sospensione, che vengono riempiti dall’esperienza stessa dell’ascoltatore. Frasi come “ti piace vivere come vuoi”, “siamo i difficili, fatti così”, “liberi, liberi siamo noi” nella loro spontanea genericità, sono un invito immediato all’identificazione.

Luciano Ligabue usa un linguaggio più preciso e circostanziato, che ha però la stessa capacità di favorire il processo di immedesimazione dell’ascoltatore, cercando un equilibrio tra il racconto di un’esperienza personale e la voglia di condividere in un sentimento collettivo, come in “A parte che i tempi stringono e tu li vorresti allargare e intanto si allarga la nebbia e avresti voluto vivere al mare” (Niente paura, 2007), o in “E ora che ci sei, fammi fare un giro su chi non son stato mai” (Questa è la mia vita, 2002) “L’amore conta, conosci un altro modo per fregar la morte?” (L’amore conta, 2005).

Spesso è proprio quando riascoltiamo una canzone dopo tanti anni che ci rendiamo conto quanto quella canzone ha significato per noi, a quali ricordi è collegata, in una sorta di intricato percorso mentale fatto di associazioni che spesso ci lascia a bocca aperta.

Mi capita di notare costantemente questo fenomeno durante il gruppo di ascolto che tengo settimanalmente all’Ospedale Privato Villa Igea di Modena con gruppi di pazienti ricoverati affetti da depressioni gravi, disturbi della personalità e alcolismo. Anche i pazienti più gravi pare che abbiano conservato questo sistema evocativo e sono in grado di ricordare in modo preciso luoghi, circostanze e persone collegate alla canzone. Gli stessi pazienti che faticano invece moltissimo nelle ricostruzioni narrative dei propri disturbi nelle sedute psicoterapiche, come se ci fosse una vera e propria via preferenziale per le canzoni. Questa cosa mi ha sempre colpito.

Le canzoni possono rappresentare le tappe che aiutano l’autonarrazione della propria storia personale.

 

 

BIBLIOGRAFIA:  

  • Brewer, M. B., (1991). The social self: On being the same and different at the same time. Personality and Social Psychology Bulletin, 17, 475-482.
  • Incenzo V. La canzone in cui viviamo. No reply, 2011.

Stili educativi genitoriali e delinquenza adolescenziale.

– Rassegna Stampa – 

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze PsicologicheOgni genitore è costretto a confrontarsi con il tema dell’autorità genitoriale e a chiedersi quale si il modo migliore per trasmettere regole e valori ai propri figli.

Una ricerca pubblicata sul Journal of Adolescence ha indagato la relazione tra stile educativo genitoriale e percezione di autorevolezza da parte dei figli, allo scopo di vedere come questa è in grado di mediare nella messa in atto di comportamenti delinquenziali. 

Lo studio ha utilizzato i dati di una ricerca longitudinale, condotta su ragazzi delle scuole medie e superiori, nel corso della quale sono stati analizzati i fattori psicologici, sociologici, legali e di sviluppo che influenzano la delinquenza negli adolescenti. I ricercatori hanno valutato gli effetti di tre diversi stili educativi genitoriali: autorevole, autoritario e permissivo.

  • I Comportamenti aggressivi dei bambini - Immagine: © Pixlmaker - Fotolia.com
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    I genitori autorevoli sono esigenti e controllanti ma sanno anche essere accoglienti e attenti alle esigenze dei figli. La comunicazione su regole e ruoli è bidirezionale e condivisa. I figli di genitori autorevoli tendono ad avere fiducia in sé stessi, autocontrollo e ad essere soddisfatti.
  • I genitori autoritari sono anch’essi controllanti ed esigenti, ma sordi alle esigenze dei figli. La comunicazione è quindi unilaterale e i ruoli e le regole sono stabiliti rigidamente e imposti dall’alto, senza condivisione dei significati. I figli di genitori autoritari sono scontenti, chiusi e sospettosi.
  • In ultimo i genitori permissivi sono poco esigenti e per nulla controllanti, accoglienti e sensibili alle esigenze dei figli; se stabiliscono delle regole raramente queste vengono rinforzate e fatte rispettare. I loro figli sono i meno autosufficienti, aperti all’esplorazione, e con minor autocontrollo delle tre categorie considerate.

L’elemento che lega lo stile genitoriale ai comportamenti delinquenziali è la percezione di legittimità dell’autorità genitoriale: lo stile autorevole rende gli adolescenti più propensi ad accettare i tentativi di socializzazione dei genitori e rende più facile che rispettino e facciano proprie le regole stabilite in famiglia; lo stile autoritario invece ha l’effetto opposto sulla legittimazione dell’autorità genitoriale e spinge gli adolescenti a respingere i tentativi di socializzazione dei genitori e di conseguenza anche le regole proposte; in ultimo lo stile permissivo rende difficile che i figli riconoscano e rispettino l’autorità genitoriale; sembra che questo stile educativo non favorisca né impedisca il verificarsi di comportamenti delinquenziali.

E tu che genitore sei?

 

 

 BIBLIOGRAFIA: 

Intervista al Dott. Paolo Rigliano

Paolo Rigliano, psichiatra e psicoterapeuta. Il suo nuovo libro , edito da Cortina, esce in questi giorni e propone un’analisi e una disanima scientifica delle pseudoterapie e delle ideologie riparative dell’omosessualità, considerata come una “malattia”, e in quanto tale, curabile.

Gentilissimo, il Dott. Rigliano ha accettato di fare due chiacchiere con la redazione di State of Mind:

 

 

BIBLIOGRAFIA: 

  • Rigliano, P. Ciliberto, J. Ferrari, F.  (2012). Curare i gay? Oltre l’ideologia riparativa dell’omosessualità. Raffaello Cortina Editore
  • Stacey, J., Biblarz, T.J. How does the sexual orientation of parents matter? In «American Sociological Review», 66, 2001, pp. 159-183.
  • Biblarz, T.J., Stacey, J. How does the gender of parents matter? In «Journal of Marriage and Family», 72, 2010, pp. 3-22.
  • Committee on Lesbian, Gay, and Bisexual Concerns (CLGBC), Committee on Children, Youth, and Families (CYF), Committee on Women in Psychology (CWP). Lesbian and Gay Parenting. American Psychological Association, Washington, DC, 2005.

E ora dove andiamo? Il conflitto libanese e la folle impulsività dei maschi.

 

E ora dove andiamo? Il conflitto libanese e la folle impulsività dei maschi. -  Immagine:  © Les Films des TournellesIeri sono capitata in un film di cui mi si parlava bene: “E ora dove andiamo?” (Et maintenant, on va où?), della regista libanese Nadine Labaki.

La trama è presto detta: in uno sperduto villaggio al centro di un conflitto che rievoca metaforicamente le guerre in Libano, un gruppo di cristiani e un gruppo di islamici (aventi come riferimento un sacerdote cristiano-orientale e un imam dalla lunga barba) si muovono ai confini dell’esplosione della violenza. Si comprende che all’inizio del film tutti in qualche modo sono riusciti ad evitare che lo scontro tra le due comunità religiose,ma la rabbia, l’intolleranza, la reciproca diffidenza premono alle porte. Il film però in fondo non è su questo, ma preferisce raccontare l’incredibile ostinata battaglia di un gruppo misto di donne cristiane e arabe (intelligenti, ironiche e allegre) per evitare che il conflitto esploda o torni a esplodere anche tra le poche case del paese.

Le donne sono belle, simpatiche, di buon senso, capaci di strategie e di solidarietà. Quello che stupisce sono gli uomini. Maschi senza apparente cervello, ammassi di muscoli pronti a esplodere. Stupidi e irragionevoli, incapaci di mettere un pensiero tra una notizia, una frustrazione, un problema e uno scatto di rabbia. Gli unici uomini che si salvano sono gli adolescenti che vivono e muoiono, ma almeno tentano di dare senso alla vita, costruire strategie di sopravvivenza, portare provviste e tutto il resto.

La cosa che mi ha colpito è che le donne per tenere sotto controllo questi maschioni impulsivi e senza cervello le tentano tutte.

(SPOILER!! chi non ha visto il film si fermi qui, verranno svelate parti della trama)

La prima strategia è il miracolo della Madonna che suggerisce pace ai paesani (discussione e costruzione di un altro punto di vista, come direbbero i cognitivisti di vecchia generazione).

La seconda tattica è l’arrivo di un gruppo di donne che lavorano in un night club, belle, sensuali, attaccate al denaro e piene di buonsenso. Lo scopo è distrarre gli uomini che ci fanno una figura barbina (tecnica della distrazione per scacciare i cattivi pensieri). Distratti, ma goffi, inconcludenti e velleitari.

Psicologia di Guerre Stellari 2: Mindful Yoda - Immagine: © 2012 Costanza Prinetti
Articolo consigliato: Psicologia di Guerre Stellari 2: Mindful Yoda

L’ultima tecnica: riempirli di droghe e hashish (psicofarmaci per attutire l’effetto delle emozioni dolorose e della sofferenza psicologica) mettendoli in un umore allegro e amichevole che nella realtà funziona per portarci alla conclusione del film.

Che dire. Confesso che mi sono divertita a contemplare questi maschi testosteronici e senza cervello. Ma mi è mancata nel film la speranza che con questi energumeni disregolati e impulsivi si potesse parlare, ci si potesse spiegare, si potesse discutere di problemi e costruire le ragioni dell’altro, rispettarle e a considerarle (intervento sulla mentalizzazione, cioè della capacità di riconoscere e gestire i propri e altrui stati mentali). 

Alla fine è un film con scene visionarie (soprattutto quella iniziale), che mescola comico e tragico, ora pessimista e dolente ora allegro e ottimista, in cui però le donne sono troppo fragili anche nelle loro strategie e furbizie per salvare la terra. Ma anche un film unilaterale che getta sugli uomini un discredito e un segno negativo che non vorremmo allargare a tutto il genere maschile, altrimenti siamo rovinate. Uomini ribellatevi all’imperativo stereotipante dell’impulsività!

 

Da Freud ai Neuroni Specchio: Schizofrenia e social perception.

 

Cervello, Neuroni Specchio. - Immagine: © V. Yakobchuk - Fotolia.com - P. G. Northoff, dell’Istitute of Mental Health Research dell’Università di Ottawa, sottolinea l’importanza, sia per la pratica clinica e l’impostazione del progetto terapeutico dei pazienti schizofrenici sia per la comprensione sempre più accurata del funzionamento del cervello umano, di una recente ricerca italiana:

“Questa ricerca mostra come i pazienti schizofrenici perdano il contatto con la realtà in quanto incapaci di integrare il loro sé con quello degli altri e quindi con l’ambiente sociale”, e ancora “ Questo lavoro studia una dimensione di base della nostra esperienza e della nostra coscienza, cioè l’abilità preverbale di integrare vari stimoli sensoriali al proprio sé e dimostra che i pazienti schizofrenici presentano attivazioni alterate della corteccia premotoria.”

Punto centrale dello studio è stato, dunque, l’evidenziare le basi neurali dell’incapacità di stabilire un confine tra sé e l’altro, tratto, per altro, peculiare nei pazienti schizofrenici.

Scendendo nei particolari dello studio, i ricercatori guidati da Vittorio Gallese, professore di fisiologia al Dipartimento di Neuroscienze all’Università di Parma, hanno utilizzato la tecnica del fMRI per osservare nei pazienti schizofrenici le risposte cerebrali a situazioni sociali, in particolare relative all’osservazione di sensazioni corporee esperite da altri. Il campione di questo primo studio era formato da un gruppo di 22 soggetti di controllo e 24 pazienti in una fase di esordio psicotico. Ai soggetti veniva fatto vedere un video dove una mano veniva a volte toccata, altre accarezzata, altre ancora schiaffeggiata da un’altra. Dalla risonanza si è potuto vedere che l’area della corteccia premotoria si attivava molto meno nei pazienti schizofrenici che nei controlli, e che l’attivazione era inversamente proporzionale alla gravità dei sintomi della schizofrenia, in particolare rispetto alla percezione del sé. Inoltre, l’insula posteriore che nei soggetti di controllo si “spegne” davanti all’esperienza tattile altrui, nei soggetti schizofrenici rimane attiva.

Gallese sottolinea come i risultati di questo studio abbiano per base il modello dei neuroni specchio (cellule nervose che si attivano sia quando si osserva una persona fare una azione, sia facendola in prima persona); infatti, traslando il concetto, possiamo pensare che basti vedere un’emozione su un viso o osservare la mano di un altro essere sfiorata per attivare nel nostro cervello una sensazione – e relativa attivazione- corrispondente. Detto questo, risulta evidente come questo modello debba essere preso in considerazione come ingrediente aggiuntivo per lo studio di tutte quelle patologie che hanno nell’intersoggettività un nodo cruciale.

Merito di questo studio è l’avere dato una chiave di lettura, mettendo in evidenza le basi neurali, di uno dei problemi nucleari della patologia schizofrenica: il non essere capaci di definire dei confini netti tra il sé e l’altro. D’altronde è forse vero che ogni nuova scoperta prende linfa dall’origine: infatti, già Freud aveva supposto che alla base del pensiero psicotico ci fosse un’alterazione nella distinzione tra me e un altro-da-me. Questa ricerca, di fatto, fornisce una nuova base scientifica a questa teoria, identificando i meccanismi cerebrali implicati.

Chissà che cosa avrebbe fatto Freud se avesse avuto a disposizione la risonanza magnetica funzionale…

 

 

BIBLIOGRAFIA:

ProYouth: un Progetto per la Prevenzione dei Disturbi Alimentari online

 

NASCE IL PROGETTO PROYOUTH: per la promozione della salute mentale in ragazzi e ragazze con un’età compresa tra i 15 e i 25 anni, incentrata soprattutto su un sano regime alimentare, sulla soddisfazione corporea e sui sintomi che caratterizzano i disturbi alimentari. Una piattaforma online per offrire ai giovani informazioni e diversi moduli di supporto.

 

ProYouth LogoSono gli alti standard suggeriti prima e successivamente pretesi dalla società? È la necessità di gestire e controllare tutto, anche i bisogni fisiologici più elementari come la fame? È il rifiuto di crescere, di vedere il proprio corpo bambino trasformarsi in un corpo adulto? Forse sono tutti questi aspetti, forse solo alcuni. Quello che ci interessa è l’esito che fattori non del tutto determinati possono avere sul benessere fisico e psicologico di ragazzi che transitano in una fascia di età che è per sua natura estremamente fragile e troppo influenzabile da principi e valori ammalianti e caduchi come l’importanza di un aspetto fisico che rientri in determinati standard.

A prescindere dai nessi causali o dai tentativi esplicativi, quello che abbiamo oggi è una serie di consapevolezze: quanto l’età adolescenziale sia un periodo difficile e delicato per il benessere psicologico e per una gestione efficace dell’emotività; quanto sia difficile rivolgersi ai servizi di cura senza sentirsi “diversi” e allo stesso tempo senza aspettare che il disagio vada oltre e sfoci in un comportamento alimentare problematico; quanto troppo spesso ci sia da parte dei genitori la voglia di raccontarsi che tutti gli adolescenti sono problematici, che alla fine rimane solo da aspettare che crescano.

Per tutte queste ragioni, la Scuola di Specializzazione in Psicoterapia Cognitiva e Cognitivo-Comportamentale Studi Cognitivi sta promuovendo in Italia un progetto per la prevenzione dei Disturbi Alimentari indirizzato alla giovane popolazione, che cerca di abbattere le difficoltà descritte utilizzando una modalità telematica, attraverso una piattaforma web, mirando a ridurre ai minimi termini le problematiche di stigmatizzazione e identificazione troppo tardiva del disagio.

DEFINIZIONE DI STIGMA SU PSICOPEDIA 

Il ProYouth nasce da una collaborazione internazionale che vede l’Italia schierata con Irlanda, Germania, Romania, Repubblica Ceca, Ungheria e Paesi Bassi nella prevenzione dei Disturbi Alimentari tra gli adolescenti, progetto ambizioso che può contare sul co-finanziamento della Executive Agency for Health and Consumers, Health Programme della Commissione Europea.

A partire dal 1 aprile 2011 questi sette Paesi hanno collaborato per costruire una piattaforma web attiva in Italia dall’inizio del 2012, che garantisce un sostegno anonimo e del tutto gratuito ai giovani utenti che vorranno registrarsi al programma e usufruire senza nessun costo di tutti i servizi offerti:

  • una sezione psicoeducativa contenente diversi consigli e le informazioni più rilevanti sui disturbi alimentari;
  • un blog che permetterà a tutti gli utenti di accedere in forma anonima e scambiarsi suggerimenti, consigli, rassicurazioni, incoraggiamenti, sempre sotto l’occhio vigile dei componenti dello staff che garantiranno sì la libertà di parola, ma nel rispetto delle norme di educazione e “convivenza”;
  • chat individuali, in cui un singolo adolescente potrà comunicare con uno psicologo gratuitamente e in forma anonima;
  • chat di gruppo in cui i ragazzi sotto la garanzia dell’anonimato potranno confrontarsi tra loro e con lo psicologo moderatore circa tematiche che li preoccupano;
  • un forum, moderato dallo staff ProYouth, in cui postare commenti, suggerimenti, informazioni e dubbi e commentare i post degli altri utenti;
  • una serie di questionari di monitoraggio, compilati regolarmente, che consentiranno di osservare l’andamento del disagio psicologico degli utenti.

Grazie a tutti questi strumenti e alla garanzia di anonimato e gratuità, il ProYouth vuole affiancarsi al sistema di cura convenzionale, non sostituirsi a esso, ma limitarsi alla fase di prevenzione e a tempestive indicazioni di accesso al sistema di cura stesso nel caso in cui un semplice malessere assumesse le sembianze di una problematica più seria.

L’efficacia di interventi di prevenzione e promozione della salute attraverso l’utilizzo di piattaforme online simili a quella proposta è già stata toccata con mano da alcuni precedenti progetti implementati dai partner tedeschi del ProYouth, per utenti universitari (Bauer et al., 2009) e adolescenti (Lindenberg et al. 2011).

Alla luce di queste considerazioni, diamo il benvenuto a uno strumento che, ci auguriamo, potrà facilitare la diffusione di informazioni corrette sull’alimentazione e fornire un primo sostegno alla difficile gestione delle emozioni in adolescenza.

 

RIFERIMENTI:
www.proyouth.eu
www.facebook.com/proyouth.italia

 

 

BIBLIOGRAFIA:

  • Bauer, S., Moessner, M., Wolf, M., Haug, S. and Kordy, H. (2009). ES[S]PRIT – an Internet-based programme for the prevention and early intervention of eating disorders in college students. British Journal of Guidance & Counselling, 37 (3), 327-336.
  • Lindenberg, K., Moessner, M., Harney, J., McLaughlin, O. and Bauer, S. (2011). E-Health for Individualized Prevention of Eating Disorders. Clinical Practice & Epidemiology in Mental Health, 7, 74-83.

Punizioni corporali sui bambini ed effetti negativi a lungo termine.

– Rassegna Stampa – 

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze PsicologichePer chi avesse ancora dei dubbi in merito: le punizioni corporali sui bambini hanno effetti negativi a lungo termine sul loro sviluppo.

Due ricercatori canadesi, Joan Durrant del Department of Family Social Sciences, dell’università di Manitoba, and Ron Ensom del Children’s Hospital of Eastern, Ontario, hanno analizzato la letteratura sull’argomento degli ultimi 20 anni, evidenziando come i bambini che hanno subito punizioni corporali siano più aggressivi verso i genitori, i fratelli, i compagni e, da adulti, anche verso il/la partner; sono inoltre più inclini a sviluppare comportamenti antisociali.

Una delle ricerche prese in esame suggerisce un effetto causale diretto delle punizioni corporali sul comportamento dei bambini, sia come risposta al dolore che come effetto del modellamento familiare, infatti in un campione di ben 500 famiglie in cui i genitori sono stati addestrati a ridurre le punizioni corporali con i figli si è registrato un corrispondente declino delle difficoltà comportamentali nei bambini.

Le punizioni fisiche sono anche risultate associate a disturbi emotivi come ansia e depressione e all’uso di droga e alcol; addirittura, come suggeriscono recenti studi di neuroimaging, queste provocherebbero alterazioni in alcune aree cerebrali in grado di aumentare la vulnerabilità alla dipendenza dall’alcol e alle droghe.

 

 

BIBLIOGRAFIA: 

Children’s understanding of emotion and behavior problems

 

The effectiveness of video feedback therapy. Part 5

Children’s understanding of emotion and behavior problems. - Immagine: © Marcel Mooij - Fotolia.com Until recently, children who have difficulties in understanding emotion have not been examined in relation to the development and maintenance of psychopathology. In recent years however, some research has been conducted which has demonstrated that children who have limited understanding of emotion are more likely to demonstrate behaviour problems and lack social competence (Izard, 2002; Denham, Blair, DeMulder, Levitas, Sawyer, Auerbach-Major & Queenan 2003).

Since the literature has shown that children who struggle to understand emotion are likely to develop behavior problems, recent research has investigated if mothers can be successfully trained to use more emotional and elaborative conversations with their children. This has recently been tested in the context of child oppositional behavior problems. Salmon, Dadds, Allen and Hawes (2009) provided 14 mothers of children (age three to eight) with oppositional behavior problems with Parent Management Training (PMT), which trained mothers to use reinforcement and teaching social learning strategies, and also trained them to be more elaborative and use a more emotion-rich style during conversations as well. These mothers were compared to 12 mothers provided with PMT only. Both groups of mothers received six sessions of training, which included watching videos of mother-child interactions. The videos watched by the experimental group encouraged mothers to use open-ended questions and emotion talk with their children while the video watched by the control group encouraged mothers to observe and encourage their children while they played.

The Effectiveness of video feedback therapy - Part 4 - Immagine: © Vanessa - Fotolia.com
Suggested articles: The effectiveness of video feedback therapy.

The results demonstrated that across both types of training, experimental and PMT, children’s oppositional behaviour problems decreased over the course of the training. The children of mothers who were provided with training which focused on emotional language and elaborative styles, showed increased elaborative style and emotional references in conversations compared to the comparison group. The experimental group did not, however, alter children’s behaviour significantly more than the PMT only group.

These findings are particularly important as, in the context of psychopathology, the children of mothers who were trained to use more emotion words and be more elaborative demonstrated an increase in understanding of emotion themselves. Additionally, this increase was only shown in children of mothers trained in this style of discourse, not in the children of mothers trained in PMT only. Further research would benefit from additional investigation of the effect increased emotional understanding has on children with clinical psychopathology. Based on the literature, it could be argued that this increase of understanding could lead to less behavior and social problems.

 

 

BIBLIOGRAFIA: 

  • Izard, C.E. (2002). Translating emotion theory and research into preventive interventions. Psychological Bulletin, 128, 796 – 824.
  • Denham, S, A., Blair, K. A., DeMulder., Levitas. J., Sawyer, K., Auerbach-Major, S., & Queenan, P. (2003). Preschool emotional competence: pathway to social competence? Child Development, 74, 238 – 256.
  • Salmon, K., Dadds, M. R., Allen, J., & Hawes, D. J. (2009). Can emotional language skills be taught during parent training for conduct problem children? Child Psychiatry and Human Development, 40, 485 – 498.   

“Ricomporre il puzzle. Quando il trauma interferisce nel percorso di crescita”

 

– Milano, 9 febbraio 2012.  Reportage dal convegno: RICOMPORRE IL PUZZLE – Quando il trauma interferisce nel percorso di crescita. GIOVEDI’ 9 FEBBRAIO 2012 ORE 9.00 – 14.30 Sala delle Colonne della BPM Via S.Paolo 12 – Milano – Organizzato dalla SOCIETA’ ITALIANA di PSICOLOGIA CLINICA e PSICOTERAPIA.

RICOMPORRE IL PUZZLE  Quando il trauma interferisce  nel percorso di crescita -  SOCIETA’ ITALIANA di PSICOLOGIA CLINICA e PSICOTERAPIA - Immagine:  Pablo Picasso, Girl with a boat. Nell’accogliente cornice di un palazzo nel centro di Milano si sono incontrati il 9 febbraio alcuni tra gli esponenti di rilievo italiani nell’ambito del trauma e sviluppo. Infatti, tra i relatori di oggi, ci sono Benedetto Farina e Isabel Fernandez. Il buon numero di partecipanti -circa 60- conferma quanto i temi affrontati sono di grande attualità, rilievo e interesse.

Come è noto, negli ultimi anni, l’interesse della scienza psicologica sulle conseguenze degli eventi traumatici nei bambini continua a crescere. La diffusione di interventi (EMDR su tutti) dimostra questo aspetto. E, come previsto, la presenza di Fernandez e colleghi copre circa la metà delle relazioni odierne.

Una breve apertura dei lavori di Marisa Zipoli (Presidente della Società Italiana di Psicologia Clinica e Psicoterapia SPCP, organizzatore del convegno), oltre ad introdurre l’evento, descrive la cornice teorica di riferimento dell’intero convegno.

Violenza sulle donne e dinamiche di vittimizzazione - Immagine: © olly - Fotolia.com
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In una delle relazioni più attese della giornata, quella di Benedetto Farina su sviluppo traumatico e trauma dello sviluppo, viene descritto il legame tra trauma e esperienza dissociativa (“il trauma disintegra, continuamente”), legame ormai dimostrato in moltissima letteratura. Le esperienze dissociative possono essere considerate come una sorta di “strategia salvavita” di fronte ad esperienze eccessivamente traumatizzanti per noi (aspetto peraltro sostenuto anche da Elena Simonetta nella sua stimolante relazione su Trauma e DSA). Il tema centrale però è il trauma dello sviluppo, esperienza continuativa dello sviluppo dei bambini in cui è prevalente una valenza relazionale; circa il 60% delle situazioni a rischio sono rappresentate dalla presenza di genitori neglecting. Tale sviluppo traumatico interferisce drammaticamente con i processi integrativi che avvengono durante lo sviluppo, contribuendo alla strutturazione di uno stile di Attaccamento di tipo Disorganizzato.
Piccola nota per gli addetti ai lavori: nel futuro DSM V dovrebbe (con discreta certezza) comparire una nuova categoria nosografica, il Developmental Traumatic Disorder; questo potrebbe diventare un terreno fertile (anche in termini di linguaggio comune per tutti) per ricerche scientifiche e per la strutturazione di interventi sempre più efficaci specifici sul trauma dello sviluppo.

Psicopatia - Immagine: © Gina Sanders - Fotolia.com -
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Alla brillante relazione di Farina segue un altro intervento molto atteso, quello di Isabel Fernandez, da pochi mesi Vice-Presidente della EMDR Europe, già Presidente EMDR Italia. Il tema trattato riguarda EMDR e reazioni da stress post-traumatico nei bambini vittime di grandi disastri e/o gravi incidenti. La proposta della Fernandez è quella di trattare tutti i bambini e non solo quelli che manifestano sintomi PTSD sopra la soglia clinica. Questo perché l’esperienza traumatica permane nella memoria implicita (e/o esplicita) dei bambini e, anche se non si struttura in un PTSD conclamato, può mantenere la sua funzione di fattore di rischio e riattivarsi successivamente in presenza di eventuali altre situazioni stressanti che richiamano l’esperienza traumatica fatta. Il dato riportato, che sicuramente fa riflettere, è che i bambini vittime di disastri che non presentano alcun sintomo PTSD sembrano essere meno del 30%, mentre dopo l’intervento EMDR, tale dato sale a iperbole verso il 93%.

Senza molte novità o spunti innovativi, l’interessante relazione rappresenta in larga parte una panoramica degli interventi svolti (e dei risultati dell’ormai molto nota efficacia…) negli ultimi anni durante alcuni tra i più rilevanti disastri o grandi incidenti avvenuti in Italia negli ultimi 10 anni (Alluvione di Capoterra, il terremoto dell’Aquila, l’incidente del Pirellone – in particolare i bambini della scuola Galvani sotto al Palazzo – a Milano etc…).

 

Dopo un breve e polare coffe break, è la volta di Elena Simonetta. Il suo intervento su DSA e Trauma conferma l’interesse emergente in letteratura su un approccio multifattoriale ai DSA (come ho già scritto nella serie di State of Mind su Attaccamento e DSA). In discordanza con gli approcci più diffusi, che vedono i DSA come problematiche legate a questioni “genetiche” , nell’intervento di Simonetta emergono diversi fattori che correlano con la strutturazione di un DSA, in particolare. Tali fattori sono: Sviluppo Psicomotorio, Sviluppo Psicolinguistico, Sviluppo Cognitivo, Attaccamento e Trauma. La teoria esposta sulla Disgnosia, ritenuto da Simonetta come un disturbo legato alla comprensione/apprendimento e non solo all’esecuzione di compiti richiesti ai bambini nelle prestazioni scolastiche, distingue in modo chiaro un problema “esecutivo” (ad esempio dislessia e discalculia) da un problema anche “funzionale” (la disgnosia appunto). L’intervento sui DSA proposto da Simonetta prevede quindi un intervento con focus doppio: uno specifico e centrato sui DSA e un secondo, non meno importante, su Attaccamento ed eventuale presenza di traumi nella storia evolutiva del bambino.

Istruzioni per creare uno psicopatico: recensione di "Io ti troverò" by Shane Stevens - Immagine: Copyright © 2010-2012 fazieditore.com
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Gli ultimi due interventi della giornata riguardano due applicazioni cliniche con pazienti con situazioni traumatiche. In particolare, Anna Rita Verardo riporta la sua esperienza con la nota e quasi onnipresente EMDR con i genitori. Il focus è centrato sugli aspetti che dovrebbero rappresentare i target degli interventi con i genitori: lutti, traumi, paure, convinzioni legate al sé e “riattivatori traumatici”, cioè quegli elementi che elicitano le esperienze legate al trauma (individuate tramite le narrazioni della AAI, Adult Attachment Interview, strumento principe per valutare lo stile di attaccamento adulto). Un’ipotesi di ricerca portata all’attenzione riguarda le modificazioni che le narrazioni all’AAI ottengono a seguito di un intervento EMDR sugli eventi traumatici.

In ultimo, Cecilia Ragaini, seguendo un altro approccio, maggiormente psicodinamico e altrettanto stimolante, relaziona sull’uso della Terapia con la Sabbia (Sand Play Therapy, nata in ambito jungiano) con i bambini che attraversano un percorso adottivo. L’ipotesi di base consiste nella considerazione che, per alcuni bambini, l’evento stesso dell’arrivo nel paese di destinazione si configuri come situazione traumatica e che l’uso della Sand Play Therapy possa aiutare il bambino ad esprimere immagini del proprio mondo interno in un modo diverso e più accessibile rispetto al piano “superiore” della verbalizzazione. Ciò permetterebbe un percorso di elaborazione del trauma, attraverso l’accesso a contenuti emotivi arcaici e primari.

Il titolo del convegno si pone come obiettivo quello di “ricomporre il puzzle” degli sviluppi traumatici nei percorsi di crescita e sembra che i relatori oggi siano riusciti nell’intento. Inoltre, credo abbiano sollevato alcune questioni cruciali e brillanti, che continuano a rappresentare terreno di discussioni, riflessioni e ricerche.

I Circuiti Neurali attivi nel Delirio di Riferimento

 

I Circuiti Neurali attivi nel Delirio di Riferimento. - Immagine: © Vibe Images - Fotolia.com In un recente studio condotto dal Centre for Addiction and Mental Health (CAMH), è stata dimostrata una maggiore attivazione neurale, in pazienti affetti da schizofrenia, durante alcuni test in grado di indurre un lieve forma di delirio di riferimento.

La ricerca è stata pubblicata in Dicembre sulla rivista Biological Psychiatry e costituisce un importante punto di partenza per le future ricerche sul trattamento delle psicosi, di cui ancora poco si conosce sia sul piano dell’eziopatogenesi che della cura.

I ricercatori si sono occupati di approfondire una particolare forma di delirio, chiamato appunto delirio di riferimento: si tratta di una forma di delirio caratterizzato dalla tendenza dei pazienti a considerare stimoli esterni quali giornali, articoli, conversazioni di estranei, come riferite a loro. Anticamera del vero e proprio delirio paranoide, il delirio di riferimento costituisce una forma difficile da trattare e soggetta a continuo rischio di “ri-attivazione” proprio perché legata a stimoli esterni “reali”.

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A differenza delle voci o di altri fenomeni allucinatori, il delirio di riferimento parte da una percezione corretta della realtà, che viene però letta in modo rigido e “autoriferito”, tale da rendere il disputing sulle credenze praticamente impossibile. 2/3 dei pazienti affetti da schizofrenia presenta questa forma di delirio e il meccanismo neurale coinvolto sembra essere un’eccessiva attivazione dei recettori della dopamina in specifiche aree cerebrali deputate ad identificare nell’ambiente informazioni rilevanti per se stessi e la propria sopravvivenza.

I ricercatori del CAMH, guidati dal Dr. Mahesh Menon, hanno cercato di individuare tramite risonanza magnetica funzionale (fMRI), i pattern di attivazione specifici del delirio di riferimento, con l’obiettivo di somministrare terapie e farmacoterapie più mirate a ridurre questo sintomo, spesso presente anche nei periodi intercritici e capace di condizionare negativamente un buon funzionamento sociale e lavorativo. 

La Psicosi e Roman Polanski: formazione per terapeuti. - Immagine: Immagine: The poster art copyright is believed to belong to the distributor of the film, the publisher of the film or the graphic artist - Retrievable from: : http://www.affichescinema.com
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A tutti i partecipanti all’esperimento, pazienti affetti da schizofrenia e soggetti di controllo, era richiesto di valutare se 60 frasi sottoposte loro durante la risonanza, fossero riferite o meno a loro: 20 frasi erano in effetti riferite a loro poiché includevano dettagli raccolti durante lo screening iniziale, 40 erano generiche (20 neutre “Lui colleziona CD”, 20 a valenza emotiva “tutti la odiano”).

I risultati hanno evidenziato la tendenza dei pazienti a riferire a loro stessi anche le frasi generiche, mostrando un maggior tempo di risposta nel decidere se queste fossero o meno riferite a loro; l’fMRI ha mostrato un’attivazione delle specifiche aree cerebrali (corteccia mediale pre-frontale e corteccia cingolata anteriore) in tutti i partecipanti quando riconoscevano le frasi realmente riferite a loro, mentre solo i pazienti affetti da schizofrenia hanno mostrato lo stesso pattern di attivazione anche quando rispondevano “no” alle frasi generiche. I ricercatori hanno attribuito questo pattern di attivazione, assente nei controlli, ad una difficoltà specifica per i pazienti schizofrenici nel differenziare tra stimoli rilevanti o non-rilevanti per loro stessi.

Una volta replicati e confermati, questi risultati possono portare alla messa a punto di terapie mirate ad intervenire su queste aree cerebrali in modo indiretto attraverso l’Attentional Retraining Therapy, una terapia mirata alla riabilitazione di funzioni cognitive legate all’attenzione, in grado di migliorare le capacità di intercettare e comprendere gli stimoli esterni, o in modo diretto attraverso la somministrazione di cicli ripetuti di Stimolazione Magnetica Transcranica (TMS), una forma non invasiva di stimolazione cerebrale, in grado di inibire o aumentare l’attivazione di specifici circuiti neurali.

Siamo in un ambito “futuristico” (almeno per l’Italia!) ma di enorme rilevanza se si pensa alla possibilità di ridurre le terapie farmacologiche e migliorare il generale funzionamento sociale e lavorativo, che rischia di essere gravemente compromesso dalla lettura frettolosa di una notizia di cronaca sul quotidiano locale, che improvvisamente appare allarmante per una casuale e improbabile attinenza con la propria vita!

 

 

BIBLIOGRAFIA:  

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