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Le donne, l’ansia e la bicicletta. (Lettera alla donna milanese che va in bicicletta)

Una donna va in bicicletta, subisce un tentativo di scippo (che non riesce), cade, ora è in coma al policlinico.

Le donne, l'ansia e la bicicletta. Immagine: © Ksym - Fotolia.com - Isabella Bossi Fedrigotti questa mattina scrive sul Corriere un intervento sulla necessità che ci sia sicurezza a protezione delle donne in bicicletta, o almeno, in situazione di vulnerabilità, nel momento in cui si chiede di disincentivare l’auto in città. Osservazione condivisibile. Le donne, sostiene la Fedrigotti, devono poter stare tranquille. Anche la sera in metropolitana,  o per le strade, o la notte quando passeggiano. Si, sono sicura che la tranquillità sarebbe una gran cosa.

E’ il minimo che dobbiamo chiedere a chi ci governa, ma dobbiamo chiederlo consapevoli che la tranquillità perfetta, omogenea, senza smagliature è impossibile.

Sarà sempre difficile stare tranquille, e occorre anche sapere sopportare la paura. Donne, amiche, colleghe, non smettete di andare in bicicletta, avrete anche un po’ paura, vi sentirete che può affiancarvi qualcuno, che potete scivolare, essere aggredite, ma non mollate. La via della forza e della libertà passa non solo attraverso un desiderio di tranquillità, ma attraverso l’accettazione consapevole della paura, dell’ansia, della titubanza che ci vorrebbe magari più bisognose di protezione. Brava signora Galdabini. Brava questa donna che oggi è in coma ma che non ha avuto paura di avere paura. Non è la prima donna a essere scippata, né la prima a essere falciata da una macchina, Ha preso la sua bici, era notte e ha affrontato l’ignoto. Certo, di fronte a una persona in coma si prova sgomento, angoscia e rispetto per il dolore umano che vanno al di là di questa mia raccomandazione a non aver paura.

E’ fondamentale che in un momento di crisi in cui aumenta la criminalità, la piccola criminalità che sforna spesso grandi tragedie, non si smetta di esplorare il mondo, non si lasci la bici a casa, non si cada in una visione catastrofica, ansiosa, dolente, che ci vuole tremanti a chiedere protezione. L’emancipazione passa attraverso la consapevole costante dura accettazione della paura e dei pericoli del mondo.

E le donne ne sono capaci.

 

 

RIFERIMENTI:

Berticelli, Santucci. Scippata mentre va in bici, cade: in coma. Il Corriere della Sera (edizione online) , 26-01-2012

L’ Orgasmo Femminile: ma le Donne come Funzionano?

 ORGASMO FEMMINILE: MA LE DONNE COME FUNZIONANO?

L'orgasmo femminile: ma le donne come funzionano? - Immagine: © mademoh - Fotolia.com - L’orgasmo femminile è da sempre circondato da un alone di mistero dovuto in parte al fatto di non essere testimoniato, come invece accade per quello maschile, da alcun segno esteriore e visibile. Come recitava Giorgio Gaber: “Per l’uomo è chiaro, è evidente: quando arriva al massimo c’è la prova, ma le donne come funzionano? Maledizione! Non c’è la prova!”.

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Molti miti aleggiano ancora intorno a questo momento, come quello di derivazione freudiana che contrappone un orgasmo femminile “maturo” vaginale ad uno “infantile” clitorideo nonostante la scienza ne abbia da tempo ampiamente dimostrato l’infondatezza. Già negli anni ’60, infatti, le ricerche di Master e Johnson hanno evidenziato come non ci sia alcuna differenza fra orgasmo clitorideo e vaginale (Masters e Johnson, 1966).

Quali che siano le fibre nervose interessate in partenza, il meccanismo di innesco è lo stesso: la stimolazione diretta, manuale, o indiretta, durante il coito, del clitoride è probabilmente sempre essenziale per il raggiungimento dell’orgasmo femminile.

Oltretutto sembra che circa il 65-70% delle donne, in assenza di qualunque patologia, possa raggiungere l’orgasmo solamente mediante la stimolazione diretta del clitoride, pur provando un piacere anche molto intenso durante il coito.

In ogni caso, per poter raggiungere l’orgasmo, è necessario che che la donna riceva una stimolazione sufficientemente prolungata e adeguata, ovvero personalizzata: non esiste un modo standard di accarezzare una donna e per questo è necessaria una buona comunicazione all’interno della coppia.

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Ma che cosa accade esattamente in una donna durante l’orgasmo?

La risposta orgasmica segue la fase di eccitazione e rappresenta una discontinuità rispetto ad essa. Ha un inizio preciso nel tempo e, dal punto di vista della fisiologia, è caratterizzata da 3-12 contrazioni ritmiche e involontarie che si susseguono a intervalli di 0,8 secondi e interessano i muscoli perivaginali, perineali e talvolta anche l’utero. Durante questa fase, della durata di 3-15 secondi, aumentano la pressione sanguigna ed il battito cardiaco e vi è un leggero obnubilamento della coscienza (Fenelli e Lorenzini, 1999).

 

Mentre negli uomini questa fase è seguita da un periodo refrattario, ovvero un variabile lasso di tempo in cui non è possibile riprendere la sequenza eccitazione-orgasmo, nelle donne è a volte possibile che la curva dell’eccitazione risalga e che si inneschi nuovamente la risposta orgasmica.

Certamente questo è un modo molto distaccato di descrivere un’esperienza estremamente complessa e personale che non può essere ridotta ad un mero meccanismo fisiologico. L’orgasmo femminile, come tutto ciò che concerne il piacere sessuale, è, infatti, un fenomeno essenzialmente psicosomatico (Kaplan, 1974) ed è regolato non solo a livello genitale ma anche a livello centrale e pertanto condizionato da pensieri, emozioni, convinzioni, vissuti e significati.

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Anche definire l’orgasmo come il momento di massimo piacere può non essere del tutto esatto: il piacere infatti è una costruzione assolutamente soggettiva e dipende da molti fattori. Certo, l’orgasmo è un’esperienza solitamente molto piacevole, ma non necessariamente di massimo piacere possibile. Ci sono baci molto più intensi, coinvolgenti, di alcuni orgasmi.

 

Il fatto che la risposta sessuale sia regolata anche a livello emotivo e corticale comporta non poche complicazioni: molti disturbi sessuali sono conseguenza di paure, idee, convinzioni che influiscono negativamente sul normale andamento delle diverse fasi.

Ad esempio, ci sono persone molto allarmate dall’idea di manifestare di fronte al partner un’emozione così intensa, che fa sentire vulnerabili. Altri possono non accettare di dipendere da qualcun altro per ottenere sensazioni così intense e ne fanno una lotta di potere. Altri ancora sono ostacolati dall’ansia da prestazione.

Abbiamo detto, inoltre, che durante l’orgasmo c’è un leggero obnubilamento della coscienza: molte persone hanno paura di perdere il controllo e questo può causare anorgasmia, ovvero l’impossibilità di raggiungere l’orgasmo dopo una fase di adeguata eccitazione. In realtà quello che accade è un restringimento del campo di coscienza, come quando si va al cinema o si legge un libro molto intensamente e ci si immerge in quel mondo per goderselo appieno. Durante questa fase la coscienza si ottunde, ma non c’è assenza di coscienza di sé. Ci si lascia andare attivamente, orientando la coscienza verso l’esperienza sessuale, ed è possibile riprendere il controllo della situazione in qualunque momento.

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Questa paura è un problema prevalentemente femminile, perché generalmente gli uomini hanno un’esperienza più frequente ed immediata dell’orgasmo, fin dalla pubertà, sperimentandone così la non pericolosità e rassicurandosi più facilmente.

 

Il restringimento del campo di coscienza porta alla riflessione su di un altro mito relativo all’orgasmo, quello della simultaneità: l’orgasmo, proprio per questa lieve alterazione della coscienza, è il momento in cui si è maggiormente concentrati su se stessi e quanto più è intenso quanto più si sta da soli.

Al massimo è un fenomeno contemporaneo, ma di scarsa condivisione. Forse la sincronia fa sentire un po’ meno colpevoli, un po’ meno egoisti, ma essere molto attenti all’altro non aumenta il piacere, distrae, invece, dall’esperienza fisica, facendone perdere una parte.

 

Sotto le lenzuola: Uomini troppo “golosi” e troppo “ruminatori”? Cause o correlazioni nella Disfunzione Erettile - Immagine: Costanza Prinetti © 2012
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Questo non significa che l’esperienza dell’orgasmo vada sempre giocata sulla sequenzialità, ma nemmeno che ci si debba vincolare all’idea, sbagliata, che l’unico modo di fare l’amore, sia ottenere la simultaneità dell’orgasmo. Queste due modalità possono declinarsi entrambe nella vita di una coppia e permettere un’esperienza più ampia ed allargata del piacere.

La sessualità in generale ed il momento dell’orgasmo in particolare è, come dicevo, un’esperienza personale e complessa e l’unico principio che dovrebbe regolarla è la ricerca del piacere condiviso col partner: tutto ciò che pone limitazioni, che sancisce che cosa è giusto, maturo, meglio, ecc., andrebbe preso come uno dei modi possibili di stare in quella situazione e non come un vincolo assoluto.

 

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BIBLIOGRAFIA:

  • Fenelli, A., Lorenzini, R. (1999). Clinica delle disfunzioni sessuali. Carocci: Roma.
  • Kaplan, H.S. (1974) The New Sex Therapy. Brunner Mazel: New York (tr.it. Le nuove terapie sessuali. Mondadori: Milano, 1976).
  • Masters, W.H., Johnson, V.E. (1966) Human Sexual Response. Little, Brown & Co.: Boston (tr.it. L’atto sessuale nell’uomo e nella donna. Feltrinelli: Milano, 1967).

No alle lacrime, provocano effetti collaterali gravissimi!

 

 Lacrime -  Immagine: © Gina Sanders - Fotolia.comChi pensa che piangere possa essere un comportamento che potrebbe portare la persona amata a diminuire la distanza fisica, si sbaglia di grosso.

Attenzione, il pianto induce effetti collaterali inaspettati, assolutamente contrari alle aspettative!

Questa affermazione è il risultato di una ricerca pubblicata su Science, messa a punto da un gruppo di ricercatori israeliani. Il team di Noam Sobel, neuroscienziato del Weizmann Institute of Science di Rehovot, ha chiesto ad alcune donne di vedere un film triste e di raccogliere le loro lacrime in una fialetta. Subito dopo, dei volontari di sesso maschile hanno annusato le lacrime e una soluzione salina. Successivamente, venivano mostrate loro delle foto di visi femminili.

Volete sapere qual è stato il risultato? Beh, chi annusava le lacrime vere giudicava le foto di visi femminili meno sexy e meno eccitanti. Una vera tragedia!

Pianto_© Alena Ozerova - Fotolia.com
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Gli uomini mostravano, dunque una ridotta eccitazione sessuale, una minore risposta fisiologica, e ridotti livelli di testosterone. Infine, la risonanza magnetica funzionale ha rivelato anche ridotta attività cerebrale delle aree associate con l’eccitazione sessuale maschile.

 

Ma tutto questo a cosa è dovuto?

I ricercatori ipotizzano che ci sia una sostanza chimica nelle lacrime che porti a questo vertiginoso calo della libido. Pare che le lacrime contengano un feromone che è un segnale “socio-sessuale”, che permetterebbe alle donne di allontanare volontariamente le attenzioni “indesiderate” da parte degli uomini. Infatti, le lacrime dovute alla tristezza sono diverse da quelle generate dal pulviscolo atmosferico. Quindi, è come se avessero una funzione riflessiva di protezione. Non a caso quando qualcuno piange l’altro è pronto a prendersi cura, tranquillizzare e accudire.

Ma gli uomini, si infastidiscono, anzi si ritraggono alla vista delle lacrime, soprattutto se emesse da una donna.

Come mai? Potremmo azzardare delle ipotesi. L’uomo per natura è cacciatore, non di lacrime ma di facili prede. Quindi, alla vista di una donna che piange dovrebbe fare i conti, e combattere, con la sua vera natura per far spazio a un animo accudente che non immediatamente gli si addice. Tutto ciò induce ad avere una iniziale repulsione, con relativo calo della libido, che prontamente cede il posto ad un gesto di stizza e poi, forse, ad amorevolezza.

Ma sbaglio o gli uomini non piangono mai? Effettivamente, il vero uomo, quello tutto d’un pezzo, non cede mai a delle emozioni da “femminuccia”. Perché? Beh, verrebbe meno l’assunto di base: l’uomo deve essere UOMO!

Ma le donne, vorrebbero veramente un uomo che piange?

 

 

BIBLIOGRAFIA:

Inclusione ed Esclusione: l’importanza del contatto visivo.

– Rassegna Stampa –

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze PsicologicheSentirsi in connessione con gli altri, sentirsi parte di un gruppo, non sentirsi esclusi è un aspetto cruciale dell’esperienza umana. Uno studio condotto da ricercatori della Purdue University ha messo a punto una curiosa situazione sperimentale sul campo che ha dimostrato come la sensazione di inclusione o esclusione possa essere influenzata dal semplice contatto visivo perfino con un estraneo.

Uno sperimentatore se ne va in giro camminando per il campus, sceglie a caso alcune persone, e si comporta, alternativamente con le diverse persone scelte, in tre modi: guarda negli occhi, guarda negli occhi e sorride, oppure guarda nella direzione della persona scelta ma senza contatto visivo “come se la persona fosse trasparente”. Un secondo sperimentatore complice, su rapido indizio del collega, immediatamente ferma il soggetto scelto e chiede quanto, nell’ultimo minuto, si sia sentito disconnesso dagli altri.

Le persone che nel minuto precedente avevano avuto un contatto visivo (con o senza sorriso) si sentivano meno disconnesse rispetto a coloro che lo sperimentatore non aveva guardato negli occhi. “Anche perfetti estranei, che semplicemente camminando accanto a noi, non stabiliscono un contatto visivo hanno un effetto – seppur momentaneo- nel farci sentire esclusi e disconnessi dagli altri” dice Wesselmann. Di nuovo un’ evidenza empirica che mette in luce la forza del contatto visivo come modalità di connessione con l’altro anche se sono in gioco interazioni con un perfetti estranei.

 

BIBLIOGRAFIA:

E. D. Wesselmann, F. D. Cardoso, S. Slater, K. D. Williams. To Be Looked at as Though Air: Civil Attention Matters. Psychological Science, 2012; DOI: 10.1177/0956797611427921

L’importanza sociale dei pettegolezzi

 

“Lucilla hai sentito la novità? Pare che Cesare, in Egitto, abbia tradito Calpurnia con Cleopatra!” “Ma cosa dici Augusta! Quella Cleopatra!! Che poi pare faccia gli occhi dolci anche ad Antonio!!”.

L'importanza sociale dei pettegolezzi. Immagine: © iQoncept - Fotolia.com - Sicuramente chiacchiere e pettegolezzi sono parte della storia dell’uomo, ma oggi sappiamo anche che fanno bene! Scopriamo perché.

Non sapere cosa dire e restare in silenzio all’interno di un gruppo può creare moltissimo imbarazzo. Cerchiamo disperatamente qualcosa da dire, anche se priva di significato o funzionale al raggiungimento dello scopo relazione. È così che Dunbar introduce il settimo capitolo del suo libro dal titolo “Perché il gossip fa bene”.

Il pettegolezzo è una manifestazione di coinvolgimento, di contatto reciproco, così come per le scimmie lo è il cosiddetto grooming, in parole più semplici, una sorta di spulciamento reciproco. È una caratteristica essenziale di tutte le relazioni in tutte le culture. Come accennato in precedenza, il contatto fisico è essenziale per la vita sociale, ugualmente il pettegolezzo assolve alcune funzioni importanti tra cui aiutare a definire il modo di comportarsi nei riguardi degli altri, rendere più interessanti le nostre interazioni, comunicare un’immagine di sé anche attraverso la condivisione e l’affermazione di valori.

Il segreto per avere 150 amici. - Immagine: © hinnamsaisuy - Fotolia.com -
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La maggior parte dei pettegolezzi riguarda le questioni sociali, ma ci sono delle differenze nelle conversazioni fatte tra uomini e donne. È la sindrome di Harry-incontra-Sally-incontra-Susan. Mentre a Harry piace parlare di Harry, a Sally piace parlare di Susan. Ma perché? Nel primo caso, gossip al maschile, è mirato a fare pubblicità a sé stessi, una versione vocale della coda del pavone, come descritto in un altro articolo. Gli uomini, secondo Dunbar, passano alla modalità “pubblicità” in presenza di un pubblico femminile. È competitivo ed è un manifesto. Il gossip declinato al femminile, invece, è rivolto a soddisfare le necessità della propria rete sociale, a costruire e mantenere una complessa rete di relazioni, in una realtà dove è importante essere aggiornati sui fatti di tutti, in quanto membri di un gruppo.

 

Spettegolando con qualcuno possiamo capire il modo in cui altri potrebbero comportarsi, il modo in cui dovremmo reagire nell’incontrarli e il tipo di relazione che essi hanno con terzi. I pettegolezzi sulle relazioni rappresentano quindi una parte consistente delle conversazioni umane, ci permettono di scambiare informazioni su persone che non sono presenti, di insegnare agli altri come comportarsi con persone che non hanno mai incontrato prima, o come gestire situazioni difficili prima che queste si presentino.

Questa teoria di Dunbar potrebbe in definitiva fornire una giustificazione ad una pratica “frivola”, ma nondimeno intrigante e ampiamente diffusa! Siete d’accordo?

 

 

BIBLIOGRAFIA:

  • Dunbar. R (2011) Di quanti amici abbiamo bisogno? Frivolezze e curiosità evoluzionistiche. Milano, Raffaello Cortina
  • Feinberg, Matthew;Willer, Robb;Stellar, Jennifer;Keltner, (2012), The virtues of gossip: Reputational information sharing as prosocial behavior., DacherJournal of Personality and Social Psychology, Jan 9 , 2012, No Pagination Specified. doi: 10.1037/a0026650

Lo stress può determinare l’insorgenza di un disturbo dell’alimentazione?

 

Lo stress può determinare l'insorgere di un disturbo dell'alimentazione? - Immagine: © Alexandra Gl - Fotolia.comE’ ampiamente noto che situazioni di stress ed eventi importanti di vita possano influenzare negativamente le abitudini alimentari sia negli umani sia negli animali.

Una reazione di stress si verifica quando vi è un divario tra domanda e risposte di coping, messe in atto per riuscire a fronteggiare la situazione rischiosa (Steptoe, 1991). La letteratura suggerisce i diversi effetti esercitati dallo stress sul cibo. Per esempio, livelli bassi di stress possono indurre iperfagia, mentre alti livelli di stress potrebbero portare ad una diminuzione dell’ assunzione di cibo (Greeno & Wing, 1994). Alcune ricerche hanno evidenziato che nei pazienti sottoposti a stress acuto vi è un aumento di appetito, in risposta a situazioni stressanti e tendono ad assumere cibi più grassi durante i periodi difficili della vita. Invece, altri lavori hanno sottolineato che i fattori di stress più gravi o cronici di solito riducono l’assunzione di cibo, compresi gli alimenti grassi (Wallis, & Hetherington, 2004). Pertanto, gli individui dopo situazioni stressanti cambiano i loro comportamenti alimentari.

Ruggiero et al. (2003) hanno scoperto che lo stress determina un’associazione tra variabili cognitive e sintomatologia alimentare, associazione assente in situazioni di non stress. Inoltre, le dimensioni di impulso alla magrezza e di bulimia correlano con il perfezionismo in situazioni di stress, mentre la stessa relazione non si ha per l’insoddisfazione corporea. Quindi, lo stress può essere un fattore centrale nella genesi dei disturbi dell’alimentazione.

 

ESPERIMENTO:

Lo scopo di questo studio è di verificare se una situazione di stress indotto sperimentalmente possa indurre in soggetti non clinici una variazione di assunzione o riduzione di cibo subito dopo aver eseguito il compito. Mentre in studi precedenti abbiamo utilizzato una vera e propria situazione di stress reale, in questo caso è stata adottata una situazione stressante riprodotta in laboratorio, che ci ha permesso un controllo più rigoroso e la manipolazione della variabile sperimentale.

Aspetti metodologici:

Allo studio hanno partecipato 80 soggetti sani bilanciati per sesso e per età. Inizialmente, tutti hanno compilato una batteria di questionari per valutare il loro stato cognitivo e la presenza di eventuali disturbi alimentari. ciascuno dei partecipanti, successivamente, è stato stressato attraverso la realizzazione di un computo cognitivo di Working Memory visuo-spaziale, mutuato da un paradigma di n-back, eseguito al computer. Ed infine hanno compilato nuovamente la batteria di questionari.

I dati sono stati analizzati attraverso una serie di statistiche multivariate che hanno evidenziato un aumento sia dell’impulso alla magrezza sia della bulimia nel campione dei maschi e delle femmine. Per valutare il reale effetto dello stress sul sintomo alimentare sono stati realizzati dei modelli di equazione strutturale da cui si evince che il perfezionismo e controllo influenzano lo stress determinando impulso alla magrezza. Mentre, la bulimia è generata dallo stress che a sua volta è influenzato dalle variabili cognitive di perfezionismo e controllo.

Il principale risultato del presente studio è che la situazione stressante è un fattore determinante la genesi del disturbo alimentare. Quindi, lo stress ed altre variabili cognitive intervenienti determinano l’insorgenza di un disturbo alimentare.

 

 

BIBLIOGRAFIA:

  • Greeno C G, Wing R R. Stress-induced eating (2004). Psychological Bulletin 115, 444–464.
  • Ruggiero GM, Levi D, Ciuna A, Sassaroli S (2003). Stress situation reveals an association between perfectionism and drive for thinness. International Journal of Eating Disorder 34, 220–226.
  • Steptoe A. (1991). Invited review. The links between stress and illness. Journal of Psychosomatic Research 35, 633–644.
  • Wallis DJ, Hetherington MM (2004). Stress and eating: the effects of ego-threat and cognitive demand on food 43, 39-46

Il dolore in terapia: sofferenza da dimenticare o necessità evolutiva?

PSICOTERAPIA: UN DOLORE NECESSARIO

Il dolore in terapia: sofferenza da dimenticare o necessità evolutiva? - Immagine: © Dawn Hudson - Fotolia.com - Di recente mi sono piacevolmente imbattuto in un testo dal titolo “Manuale di psicoterapia ad uso del paziente (ovvero: come scegliersi l’analista). Dialoghi con Cristina” (Quattrini, 1991), del quale mi ha colpito un passaggio iniziale estremamente significativo:

“L’oggetto principale dell’interesse della psicoterapia è il dramma dell’essere umano: essendo evidentemente un fenomeno molto complesso, questo richiede almeno un tentativo di collocazione sul piano teorico. A un esame attento risulta evidente che il dramma non può essere valutato con un metro filosofico ab-soluto: chiunque converrà che il suo nucleo è il dolore, e le domande sul dolore sono di quelle che hanno una precisa risposta in ambito tecnico, essendo esso il prodotto di una τεχνη ancorché naturale, trattandosi cioè di un espediente biologico la cui funzione consiste nell’aumentare le chance di sopravvivenza. Sgravato il dramma di pesi metafisici, si apre allora il problema di come gestirlo, perché è ovvio che qualcosa da fare ci sia, dal momento che il dolore è lì programmaticamente perché qualcosa sia fatto: e se ci sono limiti alla possibilità di sopprimerne le cause, non ce ne sono alla possibilità di inventare reazioni, e qui il dramma ritorna ad essere δραμα, azione, e esistenzialmente l’antinomia tragica dolore-amore si risolve in una interazione funzionale, i cui elementi non sono più antinomici fra loro di una ruota che gira rispetto al motore che la spinge. Solo introducendo questo limite che necessariamente sposta per un tratto il ragionamento su un grado più basso di astrazione, si può accedere filosoficamente al dramma senza indurre nell’interlocutore considerazioni esistenzialmente fuorvianti: a meno che non si consideri la speculazione filosofica come non inerente all’esistenziale, nel qual caso viene da chiedersi di quale σοφια si sia in definitiva φιλοι” (pp.6-7).

Prima di addentrarsi in una trattazione sulle principali psicoterapie ad indirizzo psicodinamico, il testo affronta la tematica che accompagna l’attività di ogni clinico, di qualunque orientamento egli faccia parte: qual è il senso evolutivamente più profondo della psicoterapia? Che genere di vissuto rappresenta per il paziente e come collocarla nell’ambito della più universale esperienza umana che nasce con la vita stessa?

Lo sguardo del dolore - © Kelly Young - Fotolia.com
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Una prima e fondamentale risposta a queste domande è contenuta nel concetto di dolore, che costituisce un elemento ineludibile del cammino psicoterapico e il cui attraversamento risulta improcrastinabile se lo scopo del soggetto è giungere ad un’esaustiva conoscenza di sé. Ogni paziente si trova dinanzi ad una scelta che spesso, a causa di emozioni particolarmente intense, concede un ridotto grado di libertà: risolvere solo la problematica del sintomo o accedere ad una dimensione più profonda, più spirituale? In base alla risposta, talvolta inconsapevole, che viene fornita a questa domanda, il percorso clinico che ci proponiamo di impostare può subire delle variazioni significative: è il caso ad esempio di quei pazienti che dopo aver estinto i sintomi del panico si sentono molto bene e ci comunicano di voler interrompere la cura, nonostante sia a noi evidente che il loro modo di funzionare non è affatto mutato e rappresenta un equilibrio precario, pronto a crollare nuovamente alla prima invalidazione importante.

 

Oppure, al contrario, di quei soggetti che pur non presentando più un quadro sintomatico difficile si rivelano sempre più motivati alla terapia, e trasformano il percorso di cura in un prezioso viaggio di autoconoscenza durante il quale emergono elementi rimasti nascosti negli angoli più oscuri della storia di vita. Il dolore, ci spiega il “Manuale di psicoterapia ad uso del paziente (ovvero: come scegliersi l’analista)” può essere affrontato in due modi: attraverso la speculazione esistenziale, che introduce dall’alto concetti teorici esplicativi del senso dell’esperienza umana, oppure su un piano tecnico, laddove per tecnica si intende l’intervento di processi umani, innati o appresi, che organizzano i significati, conferiscono funzioni specifiche alle emozioni, predispongono l’individuo all’adattamento.

Il dolore non può essere evitato, né le sue cause più remote prevenute; è un principio unificatore dell’esistenza umana e tuttavia può mostrarsi ai nostri occhi con le sembianze di una necessità evolutiva, un’urgenza di cambiamento. Il tentativo di attribuire al dolore una definizione teorica assume una funzione difensiva che ci protegge dall’eventualità di doverlo affrontare veramente; elaborare speculazioni esistenziali sul significato neutro della sofferenza ci separa dal suo reale contenuto emotivo e la rende controllabile attraverso l’applicazione di sistemi di pensiero aprioristici. In terapia accompagniamo il paziente nella realizzazione di un’operazione differente, che da un lato lo espone ad un sacrificio più impegnativo poiché il contatto col dolore ha un carattere diretto e concreto, ma dall’altro gli consente un’esplorazione di risorse evolutive fondamentali.

Vado in terapia: aspettative e timori - Immagine: © andrewgenn - Fotolia.com -
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La sofferenza è davanti all’uomo e il suo manifesto programmatico è elicitare la rappresentazione di soluzioni alternative, modi diversi di costruire la propria identità, sistemi più flessibili coi quali integrare la novità dell’esperienza nello schema adattativo presente. Quando l’individuo si incunea nel dolore, o il dolore nelle pieghe dell’individuo, l’emozione può sembrare ingestibile, essere percepita come soverchiante. Ogni risorsa personale appare insufficiente ma da questo scenario può prendere forma, ed è il senso profondo della psicoterapia, una possibilità di evoluzione nella quale inserire nuove tecniche. Tecnica, appunto: funzione e strumento per compierla, comparsa genetica del dolore all’interno di un ambiente complesso e sviluppo di strategie che attorno al dolore, attivamente e creativamente, organizzano risposte.

 

In conclusione: può la psicoterapia essere una terapia del dolore col dolore?

 

BIBLIOGRAFIA:

  • Quattrini, G. P. (1991), Manuale di psicoterapia ad uso del paziente (ovvero come scegliersi l’analista). Dialoghi con Cristina. Qui ed Ora rivista di Gestalt, registrazione del Tribunale di Cagliari 6/91 del 22/02/1991.

Contesti Sociali Competitivi sul quoziente intellettivo.

– Rassegna Stampa –

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze PsicologicheUn interessante ricerca condotta da un gruppo di scienziati del Virginia Tech Carilion Research Institute ha messo in luce come l’esercizio di alcune funzioni cognitive possa venire compromesso in alcune situazioni sociali. In particolare sembra che l’espressione del QI possa, in alcuni individui, subire un temporaneo declino in contesti sociali competitivi.

Dopo avere misurato con uno strumento standard il QI dei partecipanti allo studio, i ricercatori hanno chiesto loro di svolgere una serie di compiti in piccoli gruppi per i quali ricevevano un feedback in cui le loro prestazioni venivano paragonate a quelle degli altri membri del gruppo. Gli scienziati hanno usato la risonanza magnetica funzionale (fMRI) per studiare come il cervello elabora le informazioni sullo status sociale in piccoli gruppi e come la percezione di questo status influenzi l’espressione di capacità cognitive.

Ecco alcuni dei dati raccolti:

1. Sono state registrate attività in diverse regioni cerebrali, in particolare l’amigdala, la corteccia prefrontale e il nucleo accumbens – regioni che si pensa siano coinvolte rispettivamente nei processi emotivi, nel problem solving, e nella ricompensa e piacere.

2. Tutti i soggetti hanno avuto inizialmente un aumento dell’attivazione dell’amigdala e una diminuita attività nella corteccia prefrontale; in entrambi i casi si è registrata minore capacità di problem-solving.

3. A fine compito, alte prestazioni di gruppo hanno coinciso con una ridotta attivazione dell’amigdala e una maggiore attivazione della corteccia prefrontale, entrambe associate ad una maggiore capacità di risolvere i problemi più difficili.

4. Variazioni di status in positivo erano associate ad una maggiore attività nel nucleus accumbens bilaterale, che è sempre stato legato all’apprendimento e ha dimostrato di rispondere alle ricompense e piacere.

Variazioni negative nello stauts corrispondevano a una maggiore attività nella corteccia cingolata anteriore dorsale, coerente con la risposta a informazioni contrastanti.

Età ed etnia non sono risultate variabili rilevanti

I risultati indicano quindi che l’espressione del QI in alcuni individui ha risentito dei segnali sullo status all’interno del gruppo e questo dato indica che non è appropriato considerare il QI come misura attendibile dell’intelligenza di una persona, senza considerare come questa funzione interagisce con il contesto sociale. Inoltre, data la profonda interazione tra elaborazione sociale e cognitiva, sembra proprio che l’idea di una divisione tra queste due funzioni cerebrali sia piuttosto artificiale.

“Gran parte della nostra società è organizzata intorno a piccole interazioni di gruppo”, sottolinea Kishida, principale autore dello studio, “capire come il nostro cervello risponde a dinamiche sociali è un’importante area di ricerca futura e ulteriori ricerche di brain imaging possono aiutare nello sviluppo di strategie efficaci a minimizzare l’effetto della pressione sociale in chi risulta più sensibile”.

 

BIBLIOGRAFIA:

I valori sacri: il prezzo della moralità alla luce della risonanza magnetica.

 

I valori sacri: il prezzo della moralità  - Immagine: © Szabolcs Szekeres - Fotolia.com - Quando si parla di valori sacri si è soliti fare riferimento alle credenze religiose, alle identità etniche e alle norme morali. Generalmente, questi valori guidano una serie di scelte effettuate nel quotidiano, dalle più comuni, cosa comprare al supermercato, a quelle più importanti, chi sposare. È possibile che la mancanza di condivisione di questi valori sacri porti al verificarsi di conflitti di varia natura.

Secondo la teoria deontologica i valori sacri sono elaborati sulla base di ciò che è giusto o sbagliato a prescindere dei risultati, mentre la teoria utilitaristica suggerisce che essi sono processati sulla base di costi e di benefici derivanti da una valutazione dei risultati ottenuti.

Ma come sono rappresentati nella mente questi concetti?

Giudizio morale: una questione di stomaco. Immagine: © Andy Dean - Fotolia.com -
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A tal proposito, in un recentissimo studio, realizzato dal gruppo di ricerca di Gregory Berns (2012), si valuta se è possibile violare questi valori sacri. Per realizzare ciò, in laboratorio era stimata l’integrità morale dei partecipanti all’esperimento. In questo caso il concetto di integrità si riferisce alla coerenza che un individuo mostra rispetto ai propri valori e alle proprie azioni. Per esempio, anche se non è possibile verificare se un individuo è disposto ad uccidere un essere umano innocente, si può testare la disponibilità potenziale di poterlo fare. In che modo? Firmando un documento contenente una serie di informazioni, anche se la firma non vincola la persona alla messa in atto dell’azione, ma crea una contraddizione tra ciò in cui si crede e quanto realmente si è portati a fare, avente, come conseguenza, una perdita di integrità.

 

E’ stato quindi messo a punto un compito sperimentale diviso in quattro fasi, inizialmente i partecipanti all’esperimento dovevano scegliere attivamente delle affermazioni in base ai loro valori sacri (es. Credi in Dio?), e alla fine dell’esperimento, avevano la possibilità di mettere all’asta quanto scelto. In questo caso coloro che decidevano di vendere andavano contro le loro regole morali. Così facendo, potevano guadagnare fino a 100 dollari per dichiarazione, semplicemente accettando di firmare un documento in cui si chiedeva di affermare il contrario di quello in cui credevano.

E’ ragionevole supporre che se qualcosa è giudicata veramente sacra, importante, preziosa, allora l’individuo dovrebbe mantenere integrità per quel valore e ci si aspetta che non possa firmare il documento finale. In questo caso firmando si crea un trade-off tra il guadagno monetario e il costo dell’integrità personale. Quindi, la quantità di denaro guadagnato rappresenta la misura dell’integrità della propria moralità.

Lavati e non ci pensi più. Ma i processi mentali restano. Immagine: Lady Macbeth by George Cattermole - Wikimedia Commons Public Domain Art -
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I dati raccolti in Risonanza Magnetica Funzionale indicano che i valori sacri che la gente ha rifiutato di vendere sono associati all’area imputata a valutare i torti subiti (la giunzione temporale sinistra) e all’area del recupero dell’informazione semantica (corteccia prefrontale ventro-laterale sinistra), ma non c’era nessuna attivazione del sistema di ricompensa.

Questo suggerisce che i valori sacri influenzino il comportamento attraverso il richiamo e l’elaborazione di regole deontologiche e non attraverso una valutazione utilitaristica dei costi e dei benefici. Infatti, quando i valori sacri hanno basi più solide, ad esempio si appartiene ad un particolare gruppo religioso o sociale,  si ottengono attivazioni più forti della prima area, e se si utilizzano parole come Dio vs parole comuni, si ottengono maggiori attivazioni della corteccia prefrontale dorsolaterale. Ciò suggerisce che gli individui che hanno forti rappresentazioni semantiche di valori sacri sono più propensi ad agire rispettando il loro credo.

Questi dati attestano che, quando gli individui possiedono valori sacri, non riescono a scendere a compromessi, rendendo qualsiasi ricompensa, anche se cospicua, inefficacie. A conferma di ciò, quando i valori sacri sono stati confutati, e i soggetti hanno scelto di percepire denaro, si è osservato un significativo aumento della attivazione dell’amigdala, il che suggerisce la presenza di una risposta emotiva negativa, è come se ci fosse dissenso nei confronti di noi stessi, quindi la scelta fatta non è giusta e genera un confitto.

Concludendo, i valori sacri sono regole deontologiche imprescindibili, che regolano la nostra esistenza e ci guidano nelle azioni, fino a farci sentire delle persone moralmente correte, impedendoci di effettuare scelte utilitaristiche.

 

BIBLIOGRAFIA:

L’approccio allo stress in psicologia cognitiva

Segnaliamo l’evento di lunedì 30 gennaio 2012 a Modena:

L’Approccio allo Stress in Psicologia Cognitiva.

Conduce l’incontro: Dott. Gabriele Caselli

Parte del ciclo di conferenze Ridurre lo StressScarica la locandina con il calendario delle conferenze (PDF).

Organizzatori:

  • Cognitivismo Clinico Modena
  • Associazione per la promozione della Psicoterapia Cognitiva e Cognitivismo Comportamentale — Circoscrizione 3

 

La gelosia: patologia o amore vero?

 

"Gelosi tecno-patologici" - Immagine: © 2012 Costanza Prinetti -
Immagine: Gelosi tecno-patologici. – Credits: © 2012 Costanza Prinetti –

 

“Come geloso, io soffro quattro volte: perché sono geloso, perché mi rimprovero di esserlo, perché temo che la mia gelosia finisca col ferire l’altro, perché mi lascio soggiogare da una banalità: soffro di essere escluso, di essere aggressivo, di essere pazzo e di essere come tutti gli altri”
– Roland Barthes (1977) –

Quanti di noi si identificano in queste parole? Quanti sono stati male per gelosia? A quanti ha rovinato la vita? A giudicare dalle infinite canzoni e numerosi versi di prosa esistenti, si è in tanti ad essere gelosi o ad esserlo stati. Vasco Rossi sosteneva, in una celebre canzone ormai datata, che la gelosia è come una malattia incomprensibile.

L'insostenibile leggerezza del Bugiardo Patologico - © SCPixBit - Fotolia.com -
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Ma, cos’è la gelosia? Si tratta di un sentimento generante dall’idea che si potrebbe perdere da un momento all’altro la cosa più cara che si possiede. Quindi, quell’animi motus che si sperimenta, intrisa di un po’ di follia, porta a compiere gesti eccessivi e disperati sulla scia di una emotività che, spesse volte, porta a percepire l’abbandono di chi si ama. Essa è intimamente legata alla possessività, ovvero alla possibile perdita di ciò che si ritiene proprio, ineluttabilmente di nessun altro. Entrambi gli stati pretendono di avere, in maniera esclusiva e assoluta, l’altro, inteso come oggetto del desiderio che soddisfa, in questo caso, un bisogno atavico: voglio te e solo te. Spesso chi ne è affetto manifesta la sua gelosia in assenza di qualunque evento reale, di qualunque circostanza che possa giustificare un vissuto del genere.

 

La persona gelosa presenta le seguenti caratteristiche:

  • paura della perdita, della separazione, di ciò che si ritiene proprio e necessario al proprio benessere;
  • paura dell’abbandono, di essere lasciato solo senza nessuno che possa prendersi cura di se stessi;
  • gelosia dell’altro che potrebbe condividere qualcosa che non gli appartiene, ma è di nostra proprietà;
  • invidia di alcune caratteristiche fisiche e caratteriali di una papabile altra persona. In questo caso la gelosia non è rivolta tanto al proprio partner ma è gelosia del terzo e quindi si muove ai confini.

Esistono diversi livelli di gelosia, si parla di gelosia normale quando è inseparabile dall’amore per il partner e mostra livelli di attivazione fisiologica accettabili. E’ funzionale a far sentire l’altro veramente amato, nel dimostrargli che è la persona con cui si vuole condividere la propria vita. Credo, possa essere capitato a tutti di pensare che se la persona amata non mostrasse un minimo di gelosia potrebbe non essere innamorato. Quindi, se è poca potrebbe, paradossalmente, giovare alla relazione, poiché mette un po’ di brio nel rapporto.

Invece, la gelosia patologica si genera da comportamenti che non trovano riscontro nella realtà, da azioni infondate, e deriva, sostanzialmente, da un’angoscia che prende forma nella mente senza nessun riscontro oggettivo. Quest’angoscia produce delle vere e proprie rappresentazioni mentali in cui si costruiscono ad hoc lo scenario, il rivale e, più di tutto, le prove dell’infedeltà. Quindi, la realtà viene erroneamente interpretata e tutto può essere frainteso. Questo, può portare a dei veri e propri deliri di gelosia che in alcuni casi sono all’origine di delitti passionali. Si tratta, dunque, di autentico delirio florido, esattamente come affermava Freud anni or sono, e rappresenta la parte più patologica della gelosia. Questa forma di gelosia si manifesta con le seguenti caratteristiche:

  • paura irrazionale dell’abbandono e tristezza per la possibile perdita;
  • sospettosità per ogni comportamento relazionale del partner verso persone dell’altro sesso;
  • controllo di ogni comportamento dell’ altro;
  • invidia ed aggressività verso i possibili rivali;
  • aggressività persecutoria verso il partner;
  • sensazione d’ inadeguatezza e scarsa autostima di noi stessi.
Conflitti, Devitalizzazioni e Tempeste: tracce di una coppia in crisi. - Immagine: © laurent hamels - Fotolia.com -
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Sostanzialmente, è una sintomatologia affine a quella della dipendenza affettiva. La gelosia, dunque, potrebbe essere la manifestazione di una patologia latente, la dipendenza affettiva, concedetemi il termine psicoanalitico visto che la prima nosografia scritta in merito a tale argomento risale a Freud (1922).

 

Da questo breve excursus si può affermare che la gelosia e la dipendenza affettiva sono due facce di una stessa medaglia. Se è presente l’una è molto probabile sia presente anche l’altra. Forse, potremmo azzardare, la gelosia costituisce il campanello d’allarme della dipenda affettiva, ovvero quando la avvertiamo in maniera prepotente è probabile ci possa esser qualcosa di importante che non funziona come dovrebbe. Infatti, il dipendente affettivo agisce sulla scia di un bisogno: non voglio rimanere solo. Di conseguenza, nel momento in cui si assume che l’oggetto d’amore, senza un dato di realtà, possa venir meno, si manifesta questa strana sensazione di estrema vulnerabilità in cui inizia la caccia all’untore, e anche la più piccola percezione può destabilizzare il geloso. Da qui partono gesti disperati nel tentativo di tenere legato a sé l’oggetto d’amore! E’ come una crisi d’astinenza: la sostanza sta per finire e io mi aggrappo alla più flebile speranza per averne ancora, e per sempre.

Come scriveva Marcel Proust (1923),” la gelosia è sovente solo un inquieto bisogno di tirannide applicato alle cose dell’amore. Dal momento in cui la gelosia è scoperta, essa è considerata da chi ne è oggetto come una diffidenza che legittima l’inganno“. E’ vero, è un arma a doppio taglio, più si è gelosi, più si soffoca l’altro, più l’altro si sente in dovere di scappare per trovare una boccata di freschezza, quindi tradisce. Tutto si conclude con un circolo vizioso che si autoperpetua.

 

BIBLIOGRAFIA:

  • Freud, S. (1922), Alcuni meccanismi nevrotici nella gelosia, paranoia e omosessualità. A cura di C. Musatti, Opere di Sgmund Freud, Boringhieri, Torino (2002).
  • Marazziti, D., Di Nasso, E., Masala, I., et al (2003) Normal and obsessional jealousy: a study of a population of young adults. European Psychiatry, 18, 106–111.
  • Proust, M. (1923), La prigioniera. In A. B. Anguissola, D. Galateria, G. Raboni (Eds.) Alla ricerca del tempo perduto, Oscar – Mondadori, Milano, 2001.
  • Barthes, R. (1977), Frammenti di un discorso amoroso, A cura di R. Guidieri, Einaudi tascabili, (2008).

Omofobia: paura del diverso o paura di se stessi?

 

Omofobia - Immagine: © jjayo - Fotolia.com - L’ostilità e la discriminazione nei confronti degli omosessuali sono ben note. A volte questi atteggiamenti negativi possono portare ad atti ostili sia verbali che fisici nei loro confronti. Anche se in generale si assume che gli atteggiamenti e i comportamenti negativi verso gli omosessuali siano associati a rigide credenze moraliste, ad ignoranza sessuale e alla paura dell’omosessualità, l’eziologia di questi atteggiamenti e comportamenti di discriminazione rimane ancora un mistero.

Weinberg (1972) ha etichettato questi atteggiamenti e comportamenti nei confronti dell’omosessualità come omofobia, che ha definito come la paura di essere in stretto contatto con omosessuali uomini e donne così come la paura irrazionale, l’odio e l’intolleranza da parte di individui eterosessuali nei confronti di uomini e donne omosessuali.

Secondo Hudson e Ricketts (1980) il significato del termine “omofobia” è stato generalizzato a causa della sua espansione in letteratura, per includere ogni atteggiamento negativo, credo, o azione negativa nei confronti dell’omosessualità. Per chiarire questo problema, Hudson e Ricketts hanno definito come “omonegativismo” un costrutto multidimensionale che include il giudizio sulla moralità dell’omosessualità, sulle decisioni circa i rapporti personali o sociali, e qualsiasi risposta cognitiva negativa relativa a credenze, preferenze, legalità e desiderabilità sociale. L’omofobia, d’altra parte, è stata anche definita come una risposta affettiva che comprende emozioni di paura, ansia, rabbia, disagio e avversione suscitate dall’interazione con persone omosessuali, senza che vi sia necessariamente una componente cognitiva consapevole di questa discriminazione.

LGBT - Lesbian Gay Bisexual Transgender - State of Mind - Rassegna Stampa
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Per capire cosa si nasconde dietro al profondo rancore nei confronti dell’omosessualità, Adams, Wright e Lohr (1996) hanno indagato il ruolo della risposta sessuale in uomini eterosessuali alla presentazione di stimoli omosessuali.

I partecipanti all’esperimento sono stati suddivisi in due gruppi (omofobi e non-omofobi) sulla base di un questionario costruito per indagare l’atteggiamento nei riguardi dell’omosessualità. Gli stessi sono stati poi esposti ad immagini erotiche sessualmente esplicite eterosessuali e omosessuali. Durante l’esperimento sono state misurate le variazioni della circonferenza del pene, tenute in considerazione come indice della relativa risposta di eccitazione sessuale in risposta agli stimoli. Entrambi i gruppi hanno mostrato un aumento della circonferenza del pene in risposta a video con scene a carattere eterosessuale e a donne omosessuali. Solo gli uomini “omofobi” hanno mostrato un aumento dell’erezione del pene in risposta alla presentazione di immagini a carattere omosessuale fra uomini.

Secondo questo studio, troverebbero una spiegazione empirica le numerose teorie psicoanalitiche secondo le quali l’omofobia sarebbe il risultato di un’omosessualità repressa o latente, definita come l’eccitazione omosessuale che l’individuo nega o di cui non è consapevole (West, 1977).

Per quanto dopo la pubblicazione di questo studio siano apparsi sul web una lunga serie di articoli che titolavano a gran voce “Uno studio scientifico conferma: Freud aveva ragione, l’omofobo è un gay represso!”, in realtà siamo ancora ben lontani da una conclusione sull’argomento.

Un’altra spiegazione di questi dati si trova infatti in Barlow, Sakheim, e Beck (1983), secondo cui è possibile che la visione di stimoli omosessuali provochi forti emozioni negative negli uomini omofobi ma non negli uomini non-omofobi. Poiché è stato dimostrato che l’ansia aumenta l’eccitazione e di conseguenza l’erezione (Barlow, 1986), questa teoria prevedrebbe che l’aumento dell’erezione negli uomini omofobi di fronte alla presentazione di stimoli omosessuali sia una funzione della condizione di minaccia percepita piuttosto che di un’eccitazione sessuale vera e propria.

Rimane allora ancora da chiedersi quale sia la ragione alla base della discriminazione sessuale nei confronti degli omosessuali, dato che l’emarginazione e il pregiudizio portano con sé la sofferenza dell’individuo che li subisce. È proprio questa sofferenza che dovrebbe spingerci a trovare delle risposte come professionisti della salute mentale, ma ancor prima come esseri umani portatori di sani valori di uguaglianza.

Potremmo ipotizzare, come Giovanni Ruggiero nel suo articolo, che alla base di questa discriminazione vi sia fondamentalmente l’ignoranza sessuale, intesa come “non conoscenza” dei meccanismi alla base del processo di differenziazione sessuale. Se adottassimo questa spiegazione potremmo supporre che l’individuo non a conoscenza di questi fondamenti abbia in sé la credenza irrazionale che l’omosessualità possa essere trasmessa magicamente attraverso la vicinanza o il semplice sguardo.

Sarebbe da chiedersi in questo caso se sia più appropriato utilizzare il termine xenofobia (inteso non come paura dello straniero o della persona lontana dalla nostra abitazione, ma come paura del diverso da noi, di ciò che non comprendiamo e di coloro che non hanno le nostre stesse abitudini), piuttosto che omofobia (termine che avrebbe in sé la contraddizione del sottolineare il timore per ciò che è uguale a sé anziché per ciò che è diverso). Se adottassimo invece la spiegazione delle credenze morali, il discorso si farebbe ancora più ampio e delicato, rischiando di toccare punti di difficile esplorazione.

La domanda che ci dovremmo porre è se si è fermamente ed intimamente convinti della propria eterosessualità, senza che si abbia il dubbio che gli omosessuali possano convincerci delle loro ragioni, perché allontanarli da noi? E ancora, visto che l’omosessualità non può essere considerata scientificamente come una semplice scelta o addirittura come una moda, cosa porta alcuni individui a considerarla una colpa o ad attribuirvi un’intenzione malevola?

 

 

BIBLIOGRAFIA:

  • Adams H. E, Wright L. W. Jr, Lohr B. A. (1996). Is Homophobia Associated With Homosexual Arousal? Journal of Abnormal Psychology, 105, 3, 440-445.
  • Barlow, D. H. (1986). Causes of sexual dysfunction: The role of anxiety and cognitive interference. Journal of Consulting and Clinical Psychology, 54, 140-148.
  • Barlow, D. H., Sakheim, D. K., & Beck, J. G. (1983). Anxiety increases sexual arousal. Journal of Abnormal Psychology, 92, 49-54.
  • Hudson, W. W., & Ricketts, W. A. (1980). A strategy for the measurement of homophobia. Journal of Homosexuality, 5, 356-371.
  • Weinberg, G. (1972). Society and the healthy homosexual. New York: St. Martin’s Press.
  • West, D. J. ( 1977 ). Homosexuality re-examined. Minneapolis: University of Minnesota Press.

Potenziamento cognitivo: allenarsi nel problem solving apre al cambiamento.

 

 

 

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze PsicologicheUno studio pubblicato sulla rivista Psychology and Aging ha dimostrato che un intervento di potenziamento cognitivo su adulti anziani è stato in grado di modificarne la personalità. È l’apertura al cambiamento – cioè l’essere flessibili e creativi, abbracciare nuove idee e portare avanti sfide intellettuali o culturali – il tratto della personalità che sembra essere correlato con le capacità cognitive e con il loro andamento.

I partecipanti allo studio, tutti tutti di età compresa tra i 60 e i 94 anni, si sono impegnati per 16 settimane consecutive in compiti di problem solving, parole crociate e sudoku; l’allenamento, in accordo con il miglioramento delle prestazioni dei partecipanti, diventava ogni settimana più impegnativo. Un secondo gruppo di controllo non ha partecipato all’allenamento cognitivo; le capacità cognitive e i tratti di personalità dei partecipanti di entrambi i gruppi venivano testati prima e dopo l’esperimento. I risultati dell’esperimento indicano non solo che l’allenamento cognitivo ha notevolmente incrementato le abilità legate al pensiero induttivo del gruppo sottoposto ad allenamento, ma anche che questo andava di pari passo con un aumento, moderato ma significativo, dell’apertura al cambiamento. Entrambe le variabili sono invece rimaste inalterate nel gruppo di controllo.

Secondo i ricercatori un elemento fondamentale nel determinare i risultati è stato proprio l’incremento progressivo delle difficoltà dei compiti proposti in sincronia con i traguardi raggiunti dai partecipanti; questo avrebbe permesso ai partecipanti di acquisire fiducia nelle proprie abilità, a sostegno dell’impegno intellettuale e dello sforzo creativo.

 

BIBLIOGRAFIA:

Psicologia: le ricerche più interessanti del 2011

– Rassegna Stampa – Questa è la seconda parte di un articolo unico sugli studi più interessanti del 2011 nel campo della Psicologia.

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze PsicologicheBuon lunedì! Come anticipato la settimana scorsa, ecco le altre cinque ricerche del 2011 che potrebbero offrire interessanti spunti di riflessione in questo 2012! La classifica è redatta da David di Salvo e pubblicata originariamente sul sito Psychology Today.

 

6) Meglio un uovo oggi… in quest’epoca di crisi mondiale, i ricercatori della Columbia University di New York si sono chiesti che cosa caratterizzi gli individui che, come la cavalletta nella favola di Esopo, vivono nel presente, spendendo più di quanto possono permettersi, accumulando così debiti futuri. Una scelta considerata vantaggiosa a breve termine, mentre il pagamento degli interessi viene collocato in un futuro troppo lontano per preoccuparsene, specie, se il vantaggio economico è disponibile fin da subito. A pesare su questa linea di condotta, che in America non ha solo inciso sulle finanze degli statunitensi, ma ha contribuito a far crollare tutto il sistema economico, sarebbe l’associazione con componenti psicologiche legate al processo decisionale, al bias dell’immediatezza e alla sfera dell’impulsività.

Nell’esperimento era chiesto ai soggetti di compilare un questionario riguardante la capacità di dilazionare i piaceri nel tempo; dopo, i partecipanti, potevano scegliere un piccolo omaggio, da ritirare subito o una ricompensa più grande, ma elargita in un secondo tempo. I risultati dello studio, in accordo con le ipotesi iniziali mostravano che i soggetti che si definivano più impazienti, sceglievano la ricompensa più piccola. A sorprendere la correlazione tra la tendenza a concedersi piccole gratifiche giornaliere e un peggiore stato finanziario. Ciò potrebbe suggerire che la tendenza a contrarre debiti potrebbe derivare sia da processi consapevoli sia dall’impulsività individuale.

 

 

7) Personalità e Creatività, il luogo comune vuole l’artista come un inguaribile narcisista, ma sarà vero? Secondo gli studiosi della Cornell University di New York, non esattamente. I narcisisti sarebbero però convinti di essere creativi e più bravi nel persuadere l’altro a crederlo!

Nell’esperimento, ai 244 partecipanti, precedentemente testati per individuare il grado di narcisismo individuale, veniva richiesto di convincere un altro in merito a idee relative ad un film. I narcisisti tendevano a giudicare le proprie idee come più creative e similmente faceva l’altro. Un risultato differente, però si otteneva se il valutatore si limitava a leggere le stesse idee. Ciò sembrerebbe dovuto al fatto che i narcisisti si mostrano più entusiasti delle loro idee, influenzando il modo in cui vengono accolte, ma l’idea in sè non sarebbe effettivamente più creativa di quelle degli altri. In un setting di gruppo i narcisisti invece sembrerebbero aumentare la creatività altrui: in un secondo studio, a 292 partecipanti divisi in piccoli gruppi, veniva richiesto di proporre soluzioni creative per aumentare la produttività aziendale. Gli esaminatori hanno scoperto che la presenza di due narcisisti in un gruppo produrrebbe idee migliori, perché aumenterebbe la competitività. I risultati mostrano anche che se i narcisisti sono più di due la produttività ne viene inficiata per un eccesso di competitività.

 

 

8) Felici tutta la vita? C’è una connessione tra le esperienze infantili e la felicità da adulti?

Un gruppo di ricercatori dell’Università di Cambridge ha provato a rispondere a questa domanda, analizzando fonti derivanti da test di personalità e giudizi scolastici di maestri e professori durante la carriera scolastica di un campione di 2.776 soggetti a partire dal 1946; questi dati sono stati incrociati con il livello scolastico raggiunto da adulti, lo stato civile, il reddito, il tipo di occupazione, la salute mentale, il coinvolgimento sociale e la capacità di leadership. Comparando i dati relativi all’infanzia, chi era stato un bambino felice, da adulto aveva una probabilità minore del 21% di sviluppare problemi emotivi, chi otteneva un punteggio positivo da adulto era in misura minore soggetto a tali problemi nel 61% dei casi. Un dato sorprendente, di cui rimandiamo la discussione in un altro momento, è stato scoprire che chi era stato più felice da bambino era maggiormente soggetto a un matrimonio infelice da adulto e più a rischio di divorziare.

 

 

9) Scegliere il meglio, come? Molte delle ricerche che si focalizzano sulle modalità che ha il consumatore di scegliere si occupano del “blocco” derivante dall’avere troppe opzioni. Vi è mai capitato al ristorante di non sapervi decidere tra un cibo e l’altro, per la presenza sul menu troppo ricchi di piatti prelibati? Ecco qualcosa del genere! Uno studio della Columbia University suggerisce invece che avere molte opzioni tra le quali scegliere orienti la nostra decisione verso una maggiore qualità.

 

Nell’esperimento, condotto da Sheena Iyengar, autrice del libro “The Art of Choosing”, i partecipanti si trovavano a scegliere tra più di venti marche di vino o cioccolato. Invece di prendere il primo a portata di mano, i soggetti sceglievano il tipo di più alta  qualità, anche se era quello che costava di più. I ricercatori hanno analizzato anche il comportamento dei partecipanti a 63 aste di vino a Londra per un periodo di tre anni, ottenendo risultati simili. In quelle che offrivano un’ampia scelta di vini, i consumatori erano portati a spendere di più, viceversa, in quelle con una scelta scarsa ad offrire di meno. Un’utile lezione per i nostri acquisti: nel dubbio, la qualità!

 

 

10) Arrabbiati ed eviterai gli errori… cognitivi! In particolare la rabbia eviterebbe la tendenza al bias confermativo, una distorsione del pensiero che porta l’individuo a scegliere le informazioni che supportano quello che già conosce, un pregiudizio che rende il nostro pensiero coerente a se stesso.

I ricercatori della UCLA hanno chiesto a 97 studenti, divisi per gruppi, di scrivere del giorno in cui sono stati più arrabbiati (per richiamare alla mente e quindi indurre uno stato emotivo specifico), del giorno in cui erano stati più tristi o quello che consideravano più banale. In un secondo momento a tutti i partecipanti veniva richiesto di leggere una discussione sulla sicurezza e sul parlare al telefono con l’auricolare mentre si guida (i partecipanti erano stati preselezionati e tutti concordavano sul fatto che fosse più sicuro l’auricolare, che tenere in mano il cellulare). In seguito, venivano presentati alcuni articoli a favore e altri contro l’argomento ed era chiesto loro di sceglierne cinque da leggere. I partecipanti “arrabbiati” sceglievano in misura maggiore gli articoli critici sull’uso dell’auricolare, rispetto a quelli “tristi” o con uno stato emotivo neutro. Lo studio suggerirebbe che essere arrabbiati, porterebbe l’individuo a disconfermare la sua esperienza, rendendo di fatto il proprio pensiero “più critico”.

Dall’innamoramento alla costruzione di una relazione stabile

La scelta del Partner – Parte 2

La Scelta del Partner: dall'innamoramento alla costruzione di una relazione stabile. Immagine: © Artistan - Fotolia.com - La caratteristica saliente della “fase” di innamoramento è una particolare “permeabilità del sé” che mette a rischio i confini soggettivi, fa sentire fragili e bisognosi dell’altro; la sensazione è quella di non bastare più a sé stessi, di avere continuamente bisogno che l’altro, con la sua presenza, ci completi: abbiamo scelto il partner adatto a contenere alcune parti di noi, ne abbiamo fatto il nostro complemento e la sua assenza ci fa subito sentire la mancanza di qualcosa di vitale e insostituibile. In realtà quel senso di vuoto preesisteva, ma è solo con la presenza dell’altro che riusciamo a entrarvi in contatto: due mondi si incontrano a due diversi livelli, quello del quotidiano e quello interno. (Menghi, 1999).

La scelta del partner avviene anche grazie alla possibilità di riconoscere nella neo relazione, qualcosa di “familiare” che garantisca un senso di continuità dell’esperienza interna. L’idealizzazione, tipica di questa fase, si esprime infatti nell’illusione di far combaciare il compagno di interazione interno (Norsa e Zavattini, 1977), con la persona reale: tanto più l’altro corrisponde a tale illusione tanto maggiore sarà il sentimento di unità e coesione del sé .

La Scelta del Partner. Immagine: © Christian Maurer - Fotolia.com -
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La tendenza all’idealizzazione ha quindi due componenti psichiche: la coazione a ripetere, che porta a riconoscere nel presente ciò che è già stato sperimentato affettivamente nel passato, e una spinta al cambiamento, cioè la possibilità di proiettarsi nel futuro; la coppia appena formata condivide l’illusione di poter costruire insieme qualcosa di nuovo e diverso dalla condizione iniziale, superando limiti e confini precedenti. Questo avviene attraverso un processo che passa continuamente da momenti di coinvolgimento nella relazione a momenti di svincolo da essa, durante i quali ciascuno torna a una propria dimensione intrapsichica modificato dall’incontro con il partner.

 

Il passaggio dalla fase di innamoramento alla scelta di un rapporto più duraturo e stabile comporta il superamento di momenti di crisi: scegliere un partner comporta inevitabilmente la separazione da alcune parti di noi. L’incontro con quell’altra parte del nostro mondo interno, che prima ignoravamo, e la progressiva attenzione del partner ad alcune parti di noi che inaspettatamente vengono valorizzate o attaccate e criticate, ci spingono inevitabilmente, pena la fine della relazione e la perdita di un’occasione importante per imparare qualcosa su di noi, a riorganizzare e ricostruire l’immagine che abbiamo di noi stessi.

La coppia: chi si somiglia si piglia? - Immagine: © Jan Will - Fotolia.com -
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Riorganizzare il proprio mondo interno è un processo spesso doloroso e difficile perché  costringe a separarsi da quelle parti di noi alle quali siamo “attaccati con la colla” per dare spazio ad un unione ad un altro livello (Menghi, 1999).

 

Superata la fase di innamoramento il rapporto subisce, nei migliore dei casi, una trasformazione, ricomponendosi in modo tale che ciascuno abbia una visione più integrata di sé, separato dall’altro (Freud, 1921). La consuetudine alla vita in comune porta infatti alla costruzione di un clima di intimità che permette di tollerare sia la fine dell’idealizzazione sia la fine delle dinamiche di coinvolgimento e separazione. Il sentimento di intimità, che è la consapevolezza della disponibilità affettiva reciproca all’interno della relazione, è infatti fortemente ancorato al senso di appartenenza reciproco e si esprime in regole condivise che tengono conto di compiti reali e ruoli derivanti anche dal contesto sociale e culturale di appartenenza.

L’intimità si costruisce e viene mantenuta attraverso un monitoraggio affettivo reciproco (Norsa e Zavattini, 1997), cioè grazie a un continuo processo di “scannerizzazione” dei propri stati interni e di quelli del partner; questo continuo processo di verifica e ricerca di sintonizzazione  lascia spazio a conferme, ma anche a revisioni e riparazioni delle proprie aspettative. Da questo punto di vista tutti quei micro-agiti (regole, abitudini, routine, modalità tipiche di comunicazione) che caratterizzano l’assetto stabile della relazione di coppia, veicolano comunicazioni significative leggibili all’interno della storia di coppia e dei significati condivisi; questi piccoli eventi quotidiani hanno il potere di risvegliare rappresentazioni interne individuali di eventi con un particolare scenario affettivo e permettono a ciascun partner di rielaborare, attraverso la relazione, le varie rappresentazioni di “sé con l’altro” che alimentano il senso di identità soggettiva. La complicità che si stabilisce tra i partner inoltre offre l’opportunità di usare l’altro come estensione del sé, nel senso che stare in coppia permette di continuare quel processo di svincolo da certi aspetti di sé identificati con alcuni modelli familiari criticati o rifiutati, e allo stesso tempo permette di definire meglio altri aspetti di sé collegati ai modelli della famiglia di origine che invece si vuole conservare e approfondire in accordo con la scelta del partner.

 

BIBLIOGRAFIA:

  • Freud S, Alcuni meccanismi nevrotici nella gelosia, paranoia, omosessualità (1921, in Opere, vol.IX, Boringhieri, Torino)
  • Menghi P (1999) “La coppia utile”, in “La crisi della coppia”, Raffaello Cortina, Milano
  • Norsa D, Zavattini G C (1997) “Intimità e collusione. Teoria e tecnica della psicoterapia psicoanalitica di coppia”, Ragffaello Cortina Editore, Milano
  • Sandler, J. (1993) Note psicoanalitiche sull’amore In D.N. Stern e M. Ammaniti (A cura di) Psicoanalisi dell’amore. Bari: Laterza, .46-57.
  • Zavattini G.C. (1999 a) Identificazioni genitoriali e trasmissione transgenerazionale delle relazioni rappresentate, in Loriedo C., Solfaroli Camillocci D., Micheli M. (a cura di) Genitori. Individui e relazioni intergenerazionali nella famiglia, Milano, Angeli, pp. 50-58).

La chimica dell’innamoramento: Ebbrezza d’amore VS Sobrietà di coppia

DOPAMINA, NORADRENALINA e FENILETILAMINA: molecole da innamorati.

La chimica dell'innamoramento. Immagine: © yaskii - Fotolia.com - Ognuno di noi quando s’innamora dice di provare delle sensazioni: c’è chi alla vista dell’amato “sente le farfalle nello stomaco”, chi riferisce di “avere la testa fra le nuvole”,e  chi, già di primo mattino, quando ancora tutti dormono in piedi, è esaltato “all’ennesima potenza”. Pare proprio che quest’euforia da innamoramento sia legata alla mediazione di “sostanze stimolanti” quali dopamina, norandrenalina ed in particolar modo dalla feniletilamina (PEA) che, a differenza delle precedenti, è un ormone appartenente alla classe delle anfetamine.

La mancanza di appetito e l’iperattività dell’innamorato/a pare dipendano dagli alti livelli di PEA. A tal proposito Liebowitz (1983) condusse una ricerca sui cosiddetti “malati d’amore”, persone che hanno come unico obiettivo quello di avere una relazione, incappando il più delle volte nella scelta di persone non adatte a loro. Sottopose il campione ad un trattamento con farmaci IMAO (Inibitori delle Mono Amino Ossidasi) i quali fanno aumentare i livelli di PEA (ed in realtà anche di altri neurotrasmettitori, quali i precedenti). Ciò che si è osservato è che tale ricerca “dell’amore a tutti i costi” cessava.  Il farmaco IMAO porta ad un aumento dei livelli di PEA e questo ha reso inutile per “gli appassionati dell’ebbrezza d’amore” perpetrare la loro ricerca di stimoli euforici indotti dal suddetto ormone. Queste le conclusioni di Liebowitz sostenute anche da Sabelli (Sabelli e coll. , 1990; Sabelli, 1991) il quale rilevò che nelle urine di persone “felicemente accoppiate” vi erano alti livelli di metaboliti della PEA mentre questo non si è verificato nelle persone “tristemente accoppiate”.

A questo punto qualcuno di voi potrebbe pensare: “Bene procuriamoci questa benedetta PEA (che tra l’altro è contenuta anche nel cioccolato) e viviamo per sempre “euforici e contenti” . SBAGLIATO!!!

Costruttori d'amore - Autore dell'immagine: Costanza Prinetti
Articolo consigliato: "I Costruttori d'amore e l'irrinunciabile bisogno di cambiamento."

Col tempo diventiamo tolleranti e dovremmo assumere sempre più PEA per sentirne gli effetti esaltanti. E nonostante ciò dobbiamo arrenderci all’evidenza “scientifica” che dopo due o tre anni il nostro corpo non può più produrne la quantità necessaria, nonostante la carriera di mangiatori di cioccolato sia già avviata.

 

Alla luce di quanto detto la faccenda Amore potrebbe apparire molto triste, ma è ancora presto per disperarsi.

In base a quanto teorizzato da Liebowitz per “gli appassionati dell’ebbrezza d’amore” il calo degli effetti della PEA significherebbe la fine della storia, mentre, per coloro che vivono nella “sobrietà” la loro relazione amorosa, il perdurare dell’amore pare essere mediato dall’aumento della liberazione di endorfine, sostanze chimiche di natura proteica prodotte dal nostro organismo, che hanno la proprietà di essere un antidolirifico naturale e per tanto hanno l’effetto di portare pace, calma e tranquillità.

E sulla scia di queste emozioni s’instaurerebbe un legame affettivo duraturo che nulla ha a che vedere con lo sconvolgente effetto dell’innamoramento ma che consente di godersi serenamente il presente, senza la vana e continua ricerca di qualcosa o qualcuno.

Questa è solo un piccola curiosità su ciò che sta alla base del grande fenomeno Amore, tuttavia per chi di voi lettori si sentisse “appasionato dell’ebrezza d’amore” , nonché collezionista d’innumerevoli “relazioni toccata e fuga”, in questo estratto potrebbe trovare una delle tante spiegazioni possibili.

Sui piatti delle bilancia “Ebbrezza d’amore” e “sobrietà di coppia” quale andrà per la maggiore?

 

BIBLIOGRAFIA:

  • Liebowitz, M. R. (1983). The chemistry of love. Boston: Little Brown. Trad. it: La Chimica dell’amore. Milano: Rizzoli, 1984
  • Sabelli, H. C. (1991). Rapid treatment of depression with selegiline-phenylalanine combination. Journal of Clinical Psychology, 24 63-64
  • Sabelli, H. C., Carlson-Sabelli, L., Javaid, J. L. (1990). The thermodynamics of bipolarity. A bifurcation model of bipolar illness and bipolar character and its psychoterapeutic applications. Psychiatry, 53, 346-368.
  • Dèttore, D. (2001). Psicologia e psicopatologia del comportamento sessuale. Milano: Mc Graw-Hill

Inciviltà tra colleghi: Emozioni a confronto tra uomini e donne.

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze PsicologicheSecondo un recente studio, quando nell’ambiente di lavoro assistiamo a comportamenti ingiusti e poco civili nei confronti dei colleghi, reagiamo con un ampia gamma di emozioni negative, soprattutto quando si tratta di colleghi dello stesso sesso.

L’inciviltà sul luogo di lavoro è pratica comune e la mancanza di rispetto verso i colleghi colpisce emotivamente non solo le vittime ma anche gli osservatori. Un campione di 453 uomini e donne, dipendenti nel campo della ristorazione, sono stati interrogati circa le emozioni di rabbia, demoralizzazione, la paura e l’ansia, provate nell’assistere a comportamenti incivili nei confronti dei colleghi.

I risultati mostrano che le donne sperimentano livelli significativamente più alti di rabbia, demoralizzazione, paura e ansia quando la mancanza di rispetto è diretta ad altre donne, rispetto a quando colpisce gli uomini. La demoralizzazione inoltre è l’emozione negativa più intensa nel caso in cui le vittime siano altre donne. Gli osservatori di sesso maschile invece sono risultati significativamente più arrabbiati, impauriti e preoccupati, nel caso in cui osservavano dipendenti dello stesso sesso rispetto a quelli dell’altro sesso. È interessante notare che demoralizzazione non è stata un’emozione negativa vissuta dagli osservatori maschi.

Questi risultati sottolineano il ruolo delle differenze di genere nella percezione dei maltrattamenti e nelle risonanze emotive nei contesti organizzativi.

 

BIBLIOGRAFIA:

Il Segreto per avere 150 amici

 

La ricetta è un mix di contatto fisico, fiducia, risate e buona musica.

Il segreto per avere 150 amici. - Immagine: © hinnamsaisuy - Fotolia.com -Robin Dunbar dopo aver indagato sul numero di amicizie che un individuo può tenere a mente, 150 amici appunto, continua chiedendosi in che modo sia possibile raggiungere questo scopo. Il primo aspetto preso in considerazione dall’antropologo è il tatto, il senso che più ci lega agli altri ed esprime meglio ciò che proviamo per loro. Anche nel mondo animale le effusioni tattili sono importanti, ad esempio tra le scimmie esiste la pratica del grooming una sorta di spulciamento, che oltre a togliere pulci o sporcizia, serve da vero e proprio massaggio.

Tutte le stimolazioni fisiche inducono la produzione di endorfine, sostanze che regolano il senso di benessere e di rilassatezza nell’organismo, agendo anche sul circuito del dolore con un’azione naturale, simile a quella provocata da oppio e morfina.

Il contatto corporeo con gli altri regola le nostre vite in modi di cui non siamo completamente consapevoli; trattandosi di un canale non-verbale, che per i linguisti consiste nel 90% della comunicazione, verrebbe percepito solo a livello profondo, preverbale, dall’emisfero destro: il cervello delle emozioni, quello evoluzionisticamente più antico. Mentre i centri del linguaggio, più recenti, si trovano nell’emisfero sinistro.

 

150 amici in cerchie - Immagine: © alma_sacra - Fotolia.com -
Articolo consigliato: 150 amici da contare di tre in tre!

Un altro aspetto fondante il sistema sociale è la fiducia, caratterizzata dalla reciprocità: “io gratto la schiena a te, tu la gratti a me”. La sua base chimica sarebbe l’ossitocina, una sostanza che contribuisce a generare una sensazione di attaccamento e la cui presenza sembrerebbe differenziare le specie monogame dalle altre: viene prodotta infatti in grandi quantità durante l’allattamento, i rapporti sessuali e appunto quando si sperimenta fiducia.

 

Quello che Dunbar suggerisce non è che la nostra vita sia interamente regolata da processi chimici, ma che particolari molecole ci renderebbero sensibili a certi segnali inviati dall’ambiente. Un esempio dal mondo animale, è la reazione chiamata “attacco/fuga” in situazioni di pericolo, innescata dall’adrenalina. Nell’uomo il rilascio di questo ormone predispone il corpo all’azione, ma come si comporterà l’individuo dipende in larga parte dalla lettura che darà della situazione. Dunbar riflette sul fatto che nelle situazioni a carattere sociale ciò che predispone ad “attaccar bottone” è ridere insieme, perchè ciò crea un senso di coesione e cameratismo, sia che si tratti di un noioso meeting di affari o di uno spettacolo comico in teatro. La risata non solo ha il potere di far sentire rilassati e carichi di energia allo stesso tempo, ma anche in pace col mondo e più propensi ad aprirci all’altro.

L’ultima caratteristica sociale trattata dallo studioso è la musica, considerata per molto tempo un “di più” evolutivo dalla scienza, qualcosa di non strettamente necessario per la sopravvivenza della nostra specie. La spiegazione per un fenomeno a cui la nostra specie assegna tanta importanza per Darwin sarebbe che la musica ha la stessa funzione della coda nel pavone: una forma di pubblicità sessuale. In altre parole la destrezza in quest’arte mostrerebbe la qualità dei geni di chi la esegue, rendendo il soggetto più appetibile durante il corteggiamento. Lo psicologo Geoffrey Miller (2) studiando le vite di alcuni compositori, ha effettivamente notato che la fase più creativa corrispondeva a quella sessualmente più attiva e la fase meno produttiva si verificava in coincidenza delle unioni amorose. Questo senza dubbio spiegherebbe il fascino che le pop star hanno sempre avuto sui fan nel corso del tempo!

 

BIBLIOGRAFIA:

  • Dunbar R. (2010). “How Many Friends Does One Person Need? Dunbar’s Number and Other Evolutionary Quirks” London (UK) Farber and Farber Limited
  • Miller G. (2000). The mating mind: How sexual choice shaped the evolution of human nature New York, Doubleday
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