Che l’attività fisica faccia bene anche all’umore lo raccontano le linee guida NICE nel delineare il trattamento e prevenzione delle ricadute dei sintomi depressivi, lo racconta spesso chi ci vuole smuovere dalla pigrizia per motivarci a fare un po’ di sport. Alcuni ricercatori della Penn State University però hanno deciso di spacchettare queste ampie associazioni tra attività fisica e positività e si sono chiesti:“Quale tipo di emozioni si riscontrano nei giorni in cui facciamo un po’ di attività fisica e in coloro che sono generalmente più attivi?”.
I ricercatori hanno chiesto a 190 studenti universitari di tenere un diario quotidiano per 8 giorni in cui registrare la quantità e intensità di attività sportiva (lieve, moderata, o intensa) nel tempo libero, la quantità e qualità del sonno, i livelli di stress percepito e gli stati emotivi esperiti durante la giornata. In particolare i partecipanti dovevano segnalare attività fisico-sportive della durata di almeno 15 minuti. Gli stati emotivi riportati nei diari quotidiani sono poi stati categorizzati in quattro gruppi: stati emotivi a valenza positiva e attivazione medio-alta (entusiasmo), stati emotivi piacevoli a bassa attivazione (tranquillità, soddisfazione), stati emotivi negativi e attivanti (ansia, rabbia) e infine stati emotivi negativi a bassa attivazione (tristezza).
Dai diari è emerso che le persone che sono fisicamente attive riportano un maggior livello di entusiasmo (stato emotivo piacevole e a medio-alta attivazione) rispetto a coloro che sono fisicamente più passive; inoltre nei giorni in cui i partecipanti si dimostravano più sportivi riferivano maggior livello di entusiasmo rispetto al solito. Mentre precedenti studi si sono focalizzati principalmente sulla valenza edonica questo studio allarga l’interesse di analisi anche al livello di attivazione dello stato emotivo: non solo lo sport si associa a stati emotivi positivi ma a stati emotivi attivanti, energizzanti ed entusiasmanti.
Nel panorama scientifico numerose sono le ricerche che tentano di dimostrare l’efficacia degli antidepressivi di ultima generazione (SSRI) nel trattamento di diversi disturbi psicologici. I ricercatori impegnati in tale ambito giungono a conclusioni ben diverse, c’è chi li giudica meno efficaci di un placebo e chi ne sostiene l’utilizzo evidenziando i successi dell’intervento farmacologico.
La questione sembrerebbe dunque essere tutt’altro che chiusa, anche se sembra esserci un consenso diffuso rispetto all’idea che psicoterapia e antidepressivi conducano a migliori risultati se impiegati insieme nel trattamento di pazienti con disturbi d’ansia o dell’umore, piuttosto che se scelti come unica modalità di intervento.
In che modo però il trattamento farmacologico è in grado di supportare “la terapia della parola“?
Secondo Nina Karpova, Eero Castrèn e illustri colleghi del Centro di Neuroscienze dell’Università di Helsinki, gli antidepressivi, come il Prozac, sono in grado di preparare il cervello, attraverso una riprogrammazione dei circuiti difettosi, ad accogliere con maggior permeabilità gli esiti del lavoro psicoterapeutico.
Anche in questo caso un ringraziamento particolare va al topo di laboratorio, che per esigenze di protocollo si è visto ripetutamente friggere i piedi subito dopo la comparsa di uno stimolo sonoro. Una volta consolidato l’apprendimento, accertato dal fatto che il povero animaletto mostrasse segni di terrore al solo udire il suono, i ricercatori hanno dato il via al training di estinzione: da quel momento al rumore temuto non seguiva alcuna scossa elettrica. I ricercatori avevano già notato in precedenza una differente reazione a seconda dell’età del roditore: i topi più giovani imparavano velocemente che il segnale sonoro non era più prodromo di pericolo, mentre i più anziani mostravano maggior resistenza ad interrompere l’associazione.
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In quest’ultimo studio i topi adulti, trattati con fluoxetina (Prozac) durante il training di estinzione, hanno dimostrato un comportamento simile ai giovani spavaldi. La paura del suono si è estinta in tempi più brevi rispetto al campione di topi non trattato farmacologicamente e soprattutto l’ansia non è ricomparsa a distanza di tempo.
Doveroso sottolineare che l’antidepressivo, in assenza di un programma di estinzione, non ha prodotto gli stessi incoraggianti esiti, condannando le cavie a permanere nello stato ansioso.
Già altri ricercatori avevano ipotizzato che la depressione fosse responsabile della morte dei neuroni mentre gli antidepressivi promuovessero la crescita di nuove cellule nel cervello. La ricerca di Castren approfondisce questa evidenza, riconoscendo al Prozac il merito di far regredire alcune aree del cervello ad uno stato di immaturità in cui i neuroni sono in grado di creare o interrompere più connessioni tra loro di quanto non sia in grado di fare il cervello adulto. In altre parole, l’antidepressivo favorisce la plasticità neuronale che a suo volta renderebbe il cervello in grado di riorganizzarsi nei termini della maggiore funzionalità psicologica promossa dal lavoro psicoterapeutico.
Tuttavia ancora una volta mi tocca chiudere l’argomento con parole non certo nuove, questa volta pronunciate dallo stesso Castrèn:
“We know that a combination of antidepressant treatment and cognitive behavioral therapy has better effects than either of these treatments alone, but the neurobiological basis is not known”.
Come è stato detto nei post precedenti, la scelta del partner può essere intesa come la ricerca della persona con cui realizzare un’aspettativa soggettiva: da una parte questa è legata alla necessità di sperimentare nuovamente un senso di condivisione già vissuto in passato, rendendo attuale un particolare contesto di attaccamento e senso di appartenenza, e dall’altra è determinata dal desiderio di esplorazione e ricerca, attraverso l’altro, di stimoli nuovi che permettano di modificare, il proprio scenario interno.
In alcune relazioni di coppia, però, utilizzare la relazione per riconfigurare il proprio scenario interno (Norsa e Zavattini, 1997) risulta essere un impresa impossibile. Sono le coppie che si costituiscono su un modello di relazione negativo: una sorta di “prototipo” relazionale che nega qualunque possibilità di cambiamento e che ciascun partner ripropone nella relazione attuale nel tentativo di anticipare le aspettative negative e assicurarsi un controllo e una prevedibilità sull’andamento della relazione.
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Questa costante relazionale negativa (Seganti, 1995) è l’espressione di una difesa dell’individuo rispetto a situazioni relazionali che sono state estremamente frustranti; relazioni in cui realizzare un cambiamento in senso creativo ed evolutivo è stato impossibile, una lotta vana condannata al fallimento. Attraverso la ripetizione di uno schema frustrante, ma “familiare” e quindi prevedibile, viene preservato il senso di coesione e integrità del sé. In questo tipo di relazioni, le relazioni interne, deludenti e frustranti, si impongono sulle esperienze reali, negando la possibilità di una disconferma e revisione dei modelli interni e neutralizzando l’aspetto riparativo delle relazioni umane.
Nelle situazioni più gravi la sensazione soggettiva è quella di inglobare l’altro nei propri schemi o di esservi inglobato, perdendo di vista più o meno totalmente il partner reale: il costo di questa operazione infatti è quello di percepire l’altro solo per quegli aspetti che si teme di incontrare e dai quali ci si difende. La relazione è caratterizzata dalla paura e dalla diffidenza; a seconda del modello internalizzato si può temere e anticipare l’abbandono, il tradimento, la superiorità o la prevaricazione da parte del partner.
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Quando entrambi i partner condividono un modello di relazione interno carico di aspetti “negativi” si parla di collusione di coppia (Diks, 1967). La relazione di coppia in questi casi diventa un luogo nel quale ci si sente imprigionati in dinamiche ripetitive e condannati all’infelicità, incapaci di utilizzare la dimensione naturalmente terapeutica dei rapporti umani. La collusione garantisce a entrambi di non avere accesso o modificare alcune aree della propria vita emotiva, mantenendo intatti i propri oggetti interni danneggiati (Monguzzi, 2003).
Per Freud (1914) la collusione di coppia si verifica quando uno dei due partner assume il ruolo infantile di colui che deve essere protetto e salvato in una “scelta per appoggio”, e l’altro quello complementare di onnipotente salvatore in una scelta complementare “di tipo narcisistico”, collusione che può arrivare fino al sadomasochismo. Nella scelta per appoggio si va quindi alla ricerca di un partner che rappresenti un sostituto genitoriale, protettivo e normativo, che si ponga come guida nel lavoro, nella vita e negli studi; la posizione in cui si mette chi sceglie questo tipo di partner è quella del bambino. Nella scelta di tipo narcisistico invece ad agire è il meccanismo di identificazione proiettiva per cui i propri bisogni infantili frustrati vengono proiettati sul partner, per poi identificarsi con lui; l’altro quindi rappresenta una parte del proprio sé, quella negata e rimossa, il sé stesso bambino a cui è stato negato l’amore materno.
Un altro tipo di scelta narcisistica è quella di chi proietta sul partner scelto gli aspetti idealizzati di sé che non riescono a esprimersi, l’ideale dell’Io che non è stato raggiunto. Chi compie questa scelta sceglie un ruolo infantile, ma il partner non sarà un genitore accudente, bensì un “dio” adorato e idealizzato. L’impossibilità di raggiungere le mete ideali che ci si pone è anche legata a una difficoltà nell’espressione e nell’uso dell’aggressività in modo costruttivo, questa infatti viene negata e rimossa, a favore di un’ eccessiva tenerezza che viene usata in maniera seduttiva e manipolatoria; l’aggressività tuttavia non è scomparsa e finisce per rivolgersi a livello inconscio verso chi ha raggiunto ciò che il soggetto avrebbe voluto per sé: i sentimenti verso il partner saranno allora ambivalenti, carichi di ammirazione e invidia. Relazioni di questo tipo possono condurre alla formazione di coppie dove la disparità tra i partner favorisce una totale identificazione con la coppia genitore/figlio.
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Le due scelte sopra descritte comportano relazioni complementari: uno dei due partner invierà segnali per ottenere appoggio, cercando nel partner una figura genitoriale o un dio da adorare, e l’altro sarà lieto di avere per compagno un bambino a cui dare quella felicità che egli stesso non ha avuto; in entrambi i casi uno dei due avrà una posizione di potere, anche se non sempre sarà quello ad apparire più forte.
Per Baldaro Verde (1990) è una scelta di scelta di ripiego quella di chi pensa di non avere scelta, per problemi reali legati all’aspetto fisico o a condizioni sociali estreme. Questo tipo di rapporto provoca spesso una svalutazione del partner; su di lui/lei vengono proiettati i propri sentimenti di inferiorità, per questo motivo chi accetta un rapporto di questo tipo si sente a sua volta una persona di poco valore.
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A proposito di coppie imprigionate in un meccanismo relazionale che non lascia spazio al cambiamento Mony Elkaim (1990) spiega come in alcune coppie entrambi i partner si rivolgano, a livello esplicito, delle richieste che però sono impossibili da soddisfare perché in contraddizione a un livello più profondo con la propria “mappa del mondo”, cioè con il proprio bagaglio interno di rappresentazioni e aspettative su di sé, sull’altro e sulla relazione. L’idea è quella che ciascuno sia diviso tra due livelli di aspettative contrastanti, preesistenti all’incontro con il partner e che la relazione permette di esteriorizzare. È un po’ come se grazie alla relazione ciascuno spostasse sull’altro il “carceriere” che è in lui, garantendosi una protezione rispetto alle possibilità di modificare il suo mondo interno: se si riescono a portare in superficie entrambe le aspettative, quella esplicita e quella implicita contraria, emerge come la richiesta fatta al partner sia in realtà una richiesta impossibile da soddisfare, perché tale soddisfazione è in realtà inaccettabile a livello delle proprie rappresentazioni interne.
Nei prossimi articoli di questa serie verranno analizzate in maniera più specifica alcuni tipi di scelte relazionali.
BIBLIOGRAFIA:
Baldaro Verde, J. (1990). Lo spazio dell’illusione. Viaggio attorno alla coppia. Milano: Raffaello Cortina.
Dicks, H. V. (1967). Marital Tensions. Trad. it. Tensioni coniugali. Studi clinici per una teoria psicologica dell’interazione. Roma: Borla 1992.
Elkaim M. (1990). Se mi ami, non amarmi. Orientamento sistemico e psicoterapia. Torino: Boringhieri
Freud S. (1914). Introduzione al narcisismo. Freud Opere, 7: 441-472. Torino: Boringhieri, 1975
Monguzzi F. (2003), La coppia: analisi della domanda di psicoterapia congiunta, Psychomedia.it, consultato il 20 dicembre 2011 su http://www.psychomedia.it/pm/grpind/family/monguzzi1.htm
Norsa D, Zavattini G, C. (1997). Intimità e collusione. Teoria e tecnica della psicoterapia psicoanalitica di coppia. Milano: Ragffaello Cortina Editore.
Seganti, A. (1995). La memoria sensoriale delle relazioni. Ipotesi verificabili di psicoterapia psicoanalitica. Torino: Bollati-Boringhieri.
Motherhood: Il mito della Madre
Motherhood, o la mammitudine, come potrebbe essere tradotto, è un concetto sfaccettato di cui è assai difficile cogliere ogni ramificazione, che tocca la sfera della cultura, della biologia, della psicologia, le soggettivissime preferenze umane, la politica. Senza tentare di cogliere qui la mammitudine nella sua complessità, mi vorrei soffermare su alcuni dati interessanti riguardanti un suo aspetto specifico: quello dell’esclusività del rapporto madre-figlio e delle sue conseguenze sulla nostra vita quotidiana.
In un recente articolo sul New York Review of Books, MelvinKonner riporta il lavoro dell’antropologa e primatologa Sarah Blaffer Hrdy, soffermandosi in particolare sulla sua ultima opera, Mothers and Others: The EvolutionaryOrigins of Mutual Understanding. La tesi di Hrdy è in larga parte tesa a sostenere l’importanza di quello che viene chiamato cooperative breeding, cioè la crescita dei bambini all’interno di un contesto sociale più ampio di quello della famiglia nucleare (o della sola mamma), per la nostra evoluzione come specie. Qui vorrei concentrarmi su alcuni dati discussi nell’articolo che mi sembrano non solo i più interessanti, ma anche più ‘solidi’ da un punto di vista scientifico.
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Prima di tutto, mentre le madri sembrano avere un ruolo centrale nella crescita dei bambini in quasi tutte le culture, studi etnografici dimostrano che ad occuparsi della crescita dei bambini sono molto spesso altre persone all’interno della comunità, e che di norma il rapporto della madre con i propri figli non esiste in un vacuum, ma è strettamente integrato nel suo contesto sociale più ampio. Per la maggior parte della loro storia, ed in larga misura ancora in molte culture non occidentali, le donne si sono occupate di ogni sorta di attività – dalla raccolta di piante all’agricoltura, alla pesca, alla costruzione di case, alla produzione di tessuti ed altri manufatti eccetera – attività che non avrebbero mai potuto condurre se la cura dei figli non fosse stata almeno in parte condivisa, sia all’interno di famiglie allargate, che all’interno della comunità più in generale.
Non solo le famiglie nucleari che conosciamo non sono dunque la norma, ma il rapporto ‘esclusivo’ tra madre e bambino che è diventato uno degli assunti culturali della società occidentale è in larga misura un incidente storico, nient’affatto ‘naturale’. Dove nasca il mito della madre-chioccia la cui principale e (talvolta assoluta) funzione è quella di riprodursi e prendersi cura dei figli è un altro problema – un inglese risponderebbe citando l’età vittoriana, un italiano potrebbe pensare all’atteggiamento della chiesa, un americano al boom degli anni ’50 – ma è importante riconoscerlo per quello che è: un mito, appunto. Come scrive Konner:
‘the working mother has always been a central part of the human scene, and the classic stay-at-home mom of 1950s television may have been limited to Western cultures in that era’.
Un approccio più integrato alla mammitudine è inoltre supportato da una serie di dati emergenti. Uno studio condotto dalla Columbia University School of Social Work, pubblicato nel Luglio del 2010, ha seguito più di 1000 bambini in 10 aree geografiche differenti, fino all’età di sette anni, analizzando il loro contesto familiare e il loro sviluppo. La conclusione di questo studio è stata che nel complesso, gli svantaggi causati dall’allontanamento della madre per motivi lavorativi nel primo anno di vita del bambino sono bilanciati dai vantaggi che questo genera (un aumento dell’income della madre e una maggiore probabilità che i bambini ricevano cure migliori). Le madri lavoratrici non danneggiano, dunque, lo sviluppo dei propri figli.
Segnali incoraggianti, anche se oh, così timidi e lenti!, vengono anche dai padri, che vengono ancora considerati troppo poco e in modo troppo marginale quando si parla della cura dei figli. Eppure, sta diventato sempre più evidente che un cambiamento culturale è in atto anche dal lato della paternità, perlomeno a livello Europeo. La direttiva (n.9285 20/10/2010) approvata dal parlamento Europeo è senz’altro un passo importante. Diversi paesi del nord Europa sono, in questo senso, ancora più avanzati. Mentre in Inghilterra, uno studio del 2009 della Equality and Human Rights Commission ha rilevato come un desiderio di impiegare maggior tempo nella cura dei propri figli sia ormai diffuso nella maggior parte degli uomini (62%).
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Ci sono, naturalmente, una miriade di problemi aperti sia dal punto di vista lavorativo, che legislativo, che del welfare, che al momento ostacolano lo sviluppo lavorativo di molte donne quanto la serenità della loro gravidanza. Qui, mi premeva mettere a fuoco un pregiudizio di ordine prettamente culturale, quello che vede la madre come unica protagonista della cura dei propri figli e la cura dei figli come suo destino ineluttabile e assoluto. Pregiudizio appunto, che però è strettamente legato, se non la prima causa, degli ostacoli materiali, lavorativi e legislativi cui alludevo sopra. È importante, invece, trovare un equilibrio sensato tra le reali necessità biologiche legate alla mammitudine e le inclinazioni personali e le ambizioni lavorative di ogni mamma (ed ogni padre), senza farsi travolgere da teorie evoluzionistiche che più che scientifiche, sembrano ideologici dictat culturali volti a riaffermare l’ineluttabile destino delle donne occidentali. È rassicurante sapere che siamo invece libere di scegliere, e che questo delicato percorso culturale può, al contrario, essere portato avanti con serenità e senza temere che la nostra biologia ci si ritorca contro.
BIBLIOGRAFIA:
Sarah Blaffer Hrdy. (2009). Mothers and Others: The Evolutionary Origins of Mutual Understanding. Belknap Press/ Harvard University Press.
Melvin Konner. (2011). It Does Take a Village. The New York Review of Books. (8th December 2011)
Ci facciamo una risata? Non saprei, è pur sempre una terapia
O forse ridere è già una terapia?
Nel riprendere un filone di articoli che affronta piccole scene da terapia, passando per la tecnica della bacchetta magica e arrivando fino alla monetina e al suo “testa o croce?”, vorrei introdurre una riflessione sull’uso dell’ironia con i nostri pazienti.
Spesso ci interroghiamo su quale sia l’atteggiamento più opportuno da tenere nel setting clinico, in particolare quando consideriamo il tema della giusta distanza da adottare nei confronti del paziente. Da un lato infatti esiste un ruolo, il nostro ruolo di terapeuti che deve nutrirsi di credibilità, autorevolezza e competenza professionale, dall’altro è indubbio che la relazione terapeutica sia in primo luogo una relazione umana e come tale si componga di molteplici elementi, fra i quali la condivisione di momenti più leggeri.
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Il paziente non arriva da noi solo per ottenere un miglioramento sintomatico oppure, nel caso di soggetti dotati di maggiori risorse, una più profonda conoscenza di sé. Egli si rappresenta la terapia come uno spazio e un tempo nei quali essere accolto, riconosciuto: questa almeno è la nostra speranza nonché l’obiettivo al quale rivolgiamo parte del nostro lavoro. Uno dei nostri talenti deve essere la capacità di trasmettere a chi chiede il nostro aiuto il senso di un’esperienza in parte comune: se non manifestiamo mai un’emozione di fronte alle emozioni del paziente, se non sappiamo mai nulla degli interessi di cui ci parla, se rimaniamo seriosi anche di fronte al suo tentativo di sdrammatizzare alcuni passaggi della terapia, finiamo inevitabilmente per apparire ed essere lontani da lui.
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Ciò non significa seguire gli stati emotivi del paziente come uno specchio piatto, né guardare tutte le sere il suo programma preferito se non riusciamo a digerirlo in alcun modo; può accadere però che una battuta del paziente, ad esempio una frase autoironica, ci dica molto del suo bisogno di condividere il contenuto di quell’istante. E mi sento di aggiungere che in queste parole riecheggia sia l’anima del terapeuta al lavoro sia quella del clinico in terapia personale; l’autoironia del paziente può comunicarci che è riuscito a mentalizzare uno stato emotivo problematico, a trasformarlo in un vissuto più tollerabile, mentre una frase che dileggia qualcuno che appartiene al suo contesto di vita attuale o alla sua storia non necessariamente corrisponde ad una svalutazione narcisistica. In alcuni casi avviene un depotenziamento delle tematiche fonte di sofferenza e noi possiamo avvertirlo anche grazie all’ironia; se il paziente ci racconta un episodio che ha visto protagonista il suo capo e la narrazione si arricchisce di commenti ironici, diversi dai toni cupi o dal sarcasmo rabbioso del passato, possiamo intuire che sta avvenendo una trasformazione nella quale ciò che prima era considerato ingestibile viene ora accompagnato da uno sguardo più consapevole.
Il capo del nostro paziente non è più il suo tiranno, colui che con i propri sbalzi d’umore definisce la scarsa amabilità della vittima ansiosa, bensì una figura che è possibile accettare nella bizzarria che la contraddistingue. Ironia come capacità di coping. E noi possiamo ascoltare le venature di tale umorismo, sentire se è un riso amaro col quale il paziente colpisce duramente la propria autostima oppure si sta verificando una catartica decatastrofizzazione; nel secondo caso, ritengo assai opportuno che sciogliamo per qualche istante la nostra ricerca di credibilità professionale per accedere ad una dimensione solo apparentemente diversa, nella quale l’intento terapeutico di creare una relazione col paziente e di fargli percepire che siamo dalla sua parte passa attraverso la condivisione dell’ironia. In altre situazioni possiamo invece essere noi a spostare il registro della comunicazione verso un piano più divertente, qualora la conoscenza del paziente ci suggerisca che si tratta di un’operazione realizzabile ed efficace. Possiamo prendere in giro noi il suo capo, essere noi a mostrare che esiste la via alternativa della presa di coscienza dei limiti altrui. Nulla di meglio dell’ironia, con alcuni pazienti ai quali lo spostamento del focus può solo giovare.
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Come nel caso della bacchetta magica, anche questa strategia apre scenari più flessibili in cui riflettere insieme sulla reale utilità del dare sempre un significato assoluto ed autoriferito agli eventi. Naturalmente l’ironia non è la stessa con tutti i pazienti né si rivela con tutti praticabile, non solo per ragioni legate alle loro problematiche ma anche per fattori più semplici: soggetti diversi hanno un umorismo differente, alcuni possono esserne palesemente sprovvisti e, mai dimenticarlo, ognuno di loro ci ispira un livello peculiare di empatia, di simpatia e di partecipazione ironica. Un paziente con cui fatichiamo a relazionarci in modo spontaneo è certamente una montagna da scalare per il nostro intento di utilizzare l’ironia, ma anche quando ci sentiamo vicini possono presentarsi difficoltà da gestire con cura: un paziente che ci piace, con cui sentiamo un ottimo feeling rappresenta una situazione clinica nella quale la distanza potrebbe ridursi troppo, fino al generarsi di interazioni più simili ad uno scambio dialettico tra amici che ad una psicoterapia. La consapevolezza delle nostre reazioni presenti e di quelle potenziali può di conseguenza indurci a contenere l’ironia: torniamo così ad occuparci dell’interrogativo iniziale, come comportarci col paziente. E attenzione agli errori, c’è poco da ridere!
Mamma triste in gravidanza e dopo il parto: una concordanza vantaggiosa?
– Rassegna Stampa –
Sorprendenti gli esiti di un nuovo studio su maternità e depressione pubblicato da Psychological Science: la condizione prenatale negativa che consiste nell’avere una madre in gravidanza depressa può di fatto persino essere vantaggiosa se la medesima condizione viene mantenuta anche dopo la nascita. Il risultato è in linea con il modello “risposta predittiva-adattiva” secondo cui le avversità in-utero possono avere vantaggi adattivi se le medesime difficoltà si presentano dopo la nascita.
I ricercatori hanno misurato il livello di sintomi depressivi in 221 donne in stato di gravidanza e per dodici mesi a seguito della nascita del figlio. I bambini sono stati quindi categorizzati in quattro gruppi: due gruppi “concordanti” in cui la condizione depressiva della madre era la stessa pre e post-parto (madri che erano depresse o madri senza alcun sintomo depressivo sia prima che dopo il parto) e due gruppi “discrepanti” in cui la condizione materna era differente in gravidanza rispetto alla fase successiva al parto (la madre aveva sintomi depressivi in una fase ma non nell’altra).
I risultati dimostrano che i bambini dei gruppi “concordanti” presentano punteggi maggiori nello sviluppo mentale a 3 e 6 mesi e un miglior sviluppo psicomotorio a 6 mesi rispetto ai bambini facenti parte dei gruppi “discordanti”. In altre parole, tra i figli di madri con depressione post-natale coloro che avevano un miglior sviluppo mentale e psicomotorio erano proprio i bambini la cui mamma era depressa anche durante la gravidanza. Questa evidenza controintuitiva si differenzia dalla mole di studi che sostengono un inflessibile associazione tra avversità durante la gravidanza ed esiti negativi per il bambino, e sicuramente va a considerare in qualche modo la regolarità dei contesti come aspetto rilevante per favorire vantaggi adattivi nello sviluppo ontogenetico.
Nel passaggio dalla ricerca alla clinica però non è accettabile la cinica ipotesi di non trattare una madre depressa per assicurare una concordanza di condizione che favorirebbe lo sviluppo psicomotorio e cognitivo del figlio: primo, anche la madre ha chiaramente diritto di alleviare i propri sintomi depressivi; secondo, avere una madre depressa può rappresentare una variabile implicata in difficoltà psicopatologiche a lungo termine nel bambino e nel futuro adulto.
BIBLIOGRAFIA:
Sandman, C., Davis, E., and Glynn, L. (2012). Prescient Human Fetuses Thrive. Psychological Science, 23 (1), 93-100 DOI: 10.1177/0956797611422073
Working Memory & la Percezione del Tempo che Scorre.
– Rassegna Stampa –
Il tempo non passa mai oppure sentite che scorre troppo velocemente? Accanto a fattori emotivi che possono influenzare tale percezione soggettiva, anche la memoria di lavoro, o working memory, può giocare un ruolo importante. Un nuovo studio pubblicato in questi giorni su Acta Psicologica suggerisce che via sia un legame tra la capacità della memoria di lavoro e la percezione del tempo.
I ricercatori hanno coinvolto un campione di 99 studenti dividendoli in funzione della loro capacità di memoria di lavoro in due gruppi: soggetti con elevata e bassa capacità di working memory. Ai partecipanti è stato richiesto di impegnarsi nella risoluzione di problemi matematici, chiedendo loro contemporaneamente di valutare soggettivamente il tempo trascorso in tale attività.
I risultati hanno evidenziato come i soggetti con maggiori capacità di memoria di lavoro tendano a valutare soggettivamente inferiore il tempo impiegato nella risoluzione del compito rispetto ai soggetti con bassa capacità di memoria di lavoro.
Ma perché una elevata capacità di memoria di lavoro fa sì che via sia uno scorrere del tempo soggettivamente più veloce? Secondo gli autori gli individui con migliori capacità di working memory sarebbero in grado di focalizzare la loro attenzione quasi interamente sullo svolgimento del problema matematico (task primario), portando benefici alla performance matematica e prestando meno attenzione al trascorrere del tempo; viceversa, i partecipanti con scarsa capacità di memoria di lavoro allocano una parte della loro attenzione sulla valutazione soggettiva dello scorrere del tempo risultando quindi più accurati nella percezione di tale variabile, a scapito però della performance matemantica.
Quante implicazioni può avere questo studio pensando alle performance accademiche in cui studenti con minore memoria di lavoro potrebbero focalizzare maggiormente la loro attenzione sul tempo che trascorre mentre svolgono un esame scritto a scapito della prestazione. Un limite dello studio è riscontrabile nella scelta di non indagare lo stato emotivo dei soggetti alle prese con problemi matematici e di non considerare possibili mediazioni di questa variabile sulla funzionalità della memoria di lavoro.
Schema Therapy: dal Training Internazionale di Roma (#1 Assessment)
Silvia Taddei.
In questi mesi si sta svolgendo a Roma il training internazionale per diventare terapeuta certificato per la schema therapy dalla Società Internazionale della Schema Therapy ISST e organizzato dalla Società Italiana per la Schema Therapy. Alcune ricerche mostrano come la Schema Therapy sia molto efficace con pazienti che presentano un disturbo di personalità (Arntz A.,et al.2006).
Durante i primi giorni è stato illustrato il modello teorico sviluppato daJeffrey Young. Esso è un approccio che integra elementi derivanti dalla terapia cognitivo- comportamentale, dalla teoria dell’attaccamento, dal modello psicodinamico, da quello costruttivista a quello della Gestalt.
Articolo Consigliato: Habemus Schema Therapy.
Si è appreso come in realtà le problematiche del paziente siano il risultato di una interazione tra temperamento ed esperienze di vita negative vissute nella prima infanzia e nell’adolescenza. Uno dei concetti fondamentali su cui si basa la Schema Therapy è infatti quello dei “bisogni emotivi primari” che ogni essere vivente, chi più chi meno, presenta fin dalla nascita e per tutta la vita (alcuni sarebbero più importanti in alcune fasi, altri in altre). Il soddisfacimento adeguato di questi bisogni nell’infanzia favorisce un equilibrio psicologico interno sano rendendo l’individuo capace nell’arco della sua vita di imparare a soddisfare lui stesso tali bisogni in modo funzionale al suo benessere psicofisico. Laddove essi non vengano soddisfatti in maniera adeguata invece si formerebbero quelli che vengono definiti Schemi “maladattivi precoci”. Uno schema mal adattivo precoce viene definito da Jeffrey Young come: “Un tema o un aspetto generale e pervasivo, Comprende ricordi, emozioni e cognizioni, è relativo a sé e alle proprie relazioni con gli altri, Insorto durante l’infanzia o l’adolescenza e elaborato nel corso della vita, Disfunzionale ad un livello significativo.
Leggi l'articolo: "Un'analisi critica della Schema Therapy"
Obiettivo della Schema Therapy è quindi quello di aiutare i pazienti a riconoscere i loro schemi e i loro bisogni non soddisfatti e soddisfare i propri bisogni primari in modo adattivo, modificando i loro schemi, i mode e i comportamenti di coping. I mode possono essere definiti come “qualsiasi schema, o comportamento che si esprima nel momento presente”. Il concetto di mode viene introdotto e risulta molto utile quando si lavora con pazienti con disturbi di personalità gravi e che presentino numerosi schemi dei 18 individuati da J.Y. Questo perché esso permette di non perdersi durante la seduta dietro l’attivazione di ogni singolo schema.
Gli stili di coping sono le modalità attraverso cui la persona cerca di gestire l’attivazione degli schemi. Fondamentalmente sono tre: resa (il paziente ritiene assolutamente vero lo schema) evitamento (il paziente evita le circostanze in cui uno schema si può attivare o evita di sentire sensazioni fisiche o emozioni) ipercompensazione (il paziente agisce così da sentirsi all’opposto rispetto a quello che lo schema vorrebbe fargli sentire); Es: per uno schema di inadeguatezza, Resa: “Io sono inadeguato” e quindi agisco in modo inadeguato; Evitamento: evito di trovarmi in una situazione in cui possa sperimentare la mia inadeguatezza; Ipercompensazione: mi comporto facendo sentire gli altri inadeguati. I comportamenti di coping in realtà per numerosi motivi tendono a rafforzare gli schemi stessi, nel tempo.
L’Assessment viene svolto su tre livelli: un livello cognitivo, attraverso i colloqui mirati, partendo dai problemi individuati nel presente e tornando indietro fino all’infanzia per individuare i pattern o “costanti di vita”. Il livello testistico con l’utilizzo dello Young Schema Questionnaire e dello Young Parenting Inventory o dello Schema Mode Inventory. Utili per avere una valutazione più “oggettiva”degli schemi, o dei mode e delle origini degli stessi, e anche per raccogliere altro materiale per approfondire la conoscenza delle problematiche del paziente. Interessante è spesso mettere in luce quelle che possono essere le discrepanze tra i punteggi nei vari item delle diverse scale.
Leggi l'articolo: I “Mode” della Schema Therapy e la Terapia Cognitiva.
Il terzo livello di assessment è quello emotivo fatto attraverso le tecniche immaginative. Esse sono utilizzate per aiutare il paziente ad individuare a livello non solo cognitivo quali sono i suoi problemi e da dove essi derivino. Le tecniche immaginative diventano fondamentali nella prima fase per riuscire a cogliere quali siano stati i bisogni emotivi primari che non sono stati soddisfatti in modo adeguato e che hanno portato alla formazione degli schemi maladattivi con tutte le conseguenze, spesso disastrose, per la vita della persona. Si inizia con questa tecnica immaginativa: si fa chiudere gli occhi al paziente, si chiede di pensare all’ immagine di un luogo sicuro, si chiedono dettagli visivi, emozioni, pensieri, e sensazioni fisiche; si chiede al paziente di far sfumare via l’immagine del luogo sicuro, e di individuare un’immagine di sè da bambino con un genitore o figura di riferimento che lo ha turbato, e a questo punto gli si chiede cosa vorrebbe dire a questa persona e come vorrebbe che questa cambiasse; poi si chiede di individuare un’immagine nella vita attuale, da adulto, in cui sia presente la stessa emozione; infine piano piano si fanno riaprire gli occhi.
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L’aspetto peculiare di questa tecnica è il forte impatto emotivo che provoca, inoltre consentendo al paziente di ampliare la comprensione dei suoi schemi, favorendo il passaggio da un piano puramente razionale ad uno emotivo. Contrariamente ad altri esercizi immaginativi, che mirano a suscitare emozioni negative, lo scopo di questa tecnica è di permettere al paziente di esprimere i propri bisogni.
Tutte le informazioni ottenute nelle tre fasi di assessment vengono messe in relazione tra di loro, evidenziando eventualmente le discrepanze tra di esse, per arrivare veramente a definire in profondità i problemi psicologici della persona. Il tutto viene restituito al paziente in accordo al modello della Schema Therapy ricollegando quindi i problemi del presente a tutte le informazioni raccolte sulla vita della persona e cercando di favorire l’apprendimento di un linguaggio comune tra Terapeuta e paziente.
I nostri nonni si amavano di più? Evoluzione o declino del matrimonio?
Si sente spesso dire che non esistono più le coppie di una volta o che le generazioni passate si amavano di più. Il dato oggettivo è che i matrimoni sono in calo e che i divorzi, al contrario, sono sempre più numerosi. Spesso i giovani d’oggi sono stati accusati di non essere capaci di amare, di avere paura degli impegni e ancor più, del matrimonio. Il paradosso è che la crisi del matrimonio è iniziata proprio con l’ideologia dell’amore romantico, la quale ha contribuito a rendere l’unione matrimoniale più fragile e instabile. Cosa significa questo? Che più ci si ama e più si è fragili?
Si può affermare che una coppia prende vita a partire dal momento in cui due individui, uniti da un reciproco sentimento, iniziano ad avere dei progetti comuni per l’avvenire. La coppia, così come il singolo individuo ha un’identità intima e una sociale e quest’ultima, non può essere definita senza considerare il contesto nella quale è inserita.
Fino a non molto tempo fa, ma in realtà ancora oggi per qualcuno è così, il matrimonio, più di qualsiasi altra cosa, determinava il cambiamento nell’identità delle persone. Il matrimonio era l’unica legittima occasione per modificare e rompere i legami con la famiglia d’origine; l’unica occasione di sancire la legittimità della coppia e cambiare l’identità sociale dei membri. Uomini e donne erano tacitamente costretti a sposarsi per conquistare lo status di marito e moglie, unico ruolo attraverso il quale potevano mostrarsi come adulti indipendenti. Eppure queste coppie, spesso hanno vissuto insieme una vita intera. Si amavano di più? Forse non è così!
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A partire dalla metà degli anni settanta, dopo l’ entrata in vigore della legge sul divorzio, si è osservato un progressivo declino del matrimonio e conseguentemente, una graduale diffusione di una pluralità di tipologie di famiglie: famiglie ricomposte, monogenitoriali, di fatto e così via. Oggi l’uscita dalla famiglia di origine può coincidere, con svariati eventi, quali una convivenza con la persona amata, una coabitazione con amici, un soggiorno fuori porta per motivi di studio.
Le nozze pertanto, non sono più l’unico atto in grado di modificare l’identità sociale degli individui e di realizzare strategie familiari. Il matrimonio attualmente si può definire una vera e propria istituzione della felicità, la coppia oggi ha l’importante responsabilità di assicurare la crescita e la felicità di ciascuno dei suoi membri, tutelandone il benessere totale e dato che il matrimonio è un contratto, di fatto può essere recesso. Il divorzio non necessariamente significa che non ci si interessi all’altro, al contrario, secondo un recente punto di vista, esso prova che si attribuisce alla coppia una tale importanza che conduce gli individui a non rassegnarsi più a vivere sotto lo stesso tetto se non ci si sente gratificati abbastanza. Si può dunque affermare che la legittimità affettiva risulta più potente e rimpiazza quella legale, perché alle coppie non rimane che contare sui propri sentimenti e su quelli dell’altro. Questa può essere una delle possibili spiegazioni della sempre più frequente rottura delle relazioni, tuttavia, tale chiarimento non è esaustivo e la questione non sembra essere risolta.
Perché la maggior parte dei nostri nonni ha condiviso una vita insieme e oggi è così raro che questo accada? Si può pensare a una questione di pazienza e di compromessi. La vita di coppia molte volte viene descritta come un’esistenza di compromessi, ma di fatto, anche un single è soggetto a compromessi, tuttavia nella maggior parte dei casi crede di avere il libero arbitrio su qualunque scelta che possa minare la propria libertà, così come le tanto citate abitudini. La vita di coppia per qualcuno sfocia irrimediabilmente in noiose abitudini, tuttavia non esiste persona che non abbia abitudini quotidiane, la difficoltà talvolta sta nel trovare un equilibrio fra le proprie e quelle altrui creando consuetudini condivise senza annullare la propria personalità o quella del partner.
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Un’ulteriore spiegazione di questo fenomeno, può ruotare intorno all’emancipazione femminile: negli ultimi decenni, infatti, il ruolo della donna all’interno della società è profondamente cambiato. Oggi non è più solo l’uomo a poter decidere del destino della famiglia, anche le donne hanno la legittima ragione di voler rompere relazioni poco soddisfacenti e di cercare la propria felicità indipendentemente dalla posizione sociale che loro riserva tale scelta.
Questo breve articolo non ha la pretesa di trovare una risposta, la questione è piuttosto complicata e lascia liberi a diverse interpretazioni. Sarà realmente vero che i nostri nonni si amavano di più? Una cosa è certa: le loro relazioni erano più durature, tuttavia questo non necessariamente coincide con un amore perpetuato nel tempo. Oggigiorno semplicemente non si ha più voglia di impegnarsi o non si è più disposti a rinunciare al proprio benessere? Ma poi, sarà vero che una cosa esclude l’altra?
BIBLIOGRAFIA:
Chantal Van Cutsem (1999). Famiglie ricomposte. Presa in carico e consulenza. Cortina Editore, 1999.
Maria Mancarella (2001). Nuove famiglie nuove relazioni. Pensa Multimedia Edizioni, 2001.
Gran Torino: la Conversione di Clint Eastwood
Gran Torino (2008) – Pochi artisti hanno lasciato con la propria opera un segno altrettanto indelebile: il regista Clint Eastwood è la testimonianza vivente di quanto un essere umano possa modificare nel corso della propria esistenza le convinzioni più radicate, gli atteggiamenti apparentemente più inestinguibili.
Eastwood è stato attore di western, polizieschi, pellicole con un buono e un cattivo, una verità e una menzogna. E’ stato l’espressione dell’identità americana più tradizionale, il ritratto del modo di pensare più comune fra quelli che il Nuovo Continente ha trasmesso al resto del mondo: la fiducia nell’affidabilità di un sistema che protegge la patria e guarda con diffidenza lo straniero, la sicurezza riposta nelle mani di uno sceriffo che incarna la stabilità della legge.
Ebbene, come ribaltando un tavolo da gioco per vedere l’effetto che fa negli astanti, questo grande narratore della nostra epoca si è messo dietro la macchina da presa e ha scavato dentro sé stesso. Ha radunato le esperienze della propria vita, le osservazioni che gli derivavano dalla saggezza e dall’accesso ad un’età più anziana; ha intravisto la possibilità di un’alternativa cognitiva, emotiva, esistenziale e sono così nati straordinari capolavori, culminati nell’opera che gran parte dei critici ha considerato il suo prodigio: Gran Torino.
Gran Torino: il film
Con questo film Eastwood si addentra in un territorio che tempo addietro sarebbe stato folle accostare al suo nome: il contatto con la multietnicità / razzialità, con esseri umani che al vecchio ispettore Callaghan sarebbero sembrati “musi gialli”, e la scoperta della propria imperfezione, della propria timidezza di fronte a loro, la scoperta tentennante di un desiderio di conoscenza e conciliazione. Il vecchio Clint, il vecchio duro della frontiera, d’improvviso preda di una tentazione, di un dubbio: saranno tutti cattivi quelli là, saranno davvero meritevoli del mio sguardo di pietra? Non è difficile scorgere l’attualità di questa lezione e credere che sarà ancora più preziosa negli anni a venire; il regista Eastwood ci conduce a minare le fondamenta delle nostre certezze e lo fa nella sua patria, anche contro la sua patria allorché questa si dimostri restia ad abbandonare pregiudizi delegittimati dal tempo.
Attraverso un’altra operazione di destrutturazione e ricomposizione, lontana dalle pistole fumanti dell’attore Eastwood che cantano l’inno a stelle e strisce, il vecchio Clint ci propone “J. Edgar” e con esso un’altra disincantata lezione sul mondo cui siamo chiamati a dare significato. In questo caso, ad essere preso di mira è il potere e anche in questo caso siamo in America, distanti dalla tentazione di proiettare sul nemico, sul diverso da noi, le nostre debolezze, le contraddizioni che segnano il nostro esistere, le ingiustizie di cui siamo spettatori. “J. Edgar” è la biografia dello storico capo dell’Fbi: come a dire, Eastwood mira al cuore dell’autorità americana. Il film ci svela gradualmente un personaggio che vive il potere con risolutezza e talvolta malcelata sofferenza, oscillando tra la responsabilità di dirigere un apparato dal quale dipende la stabilità del Paese in una fase storica assai delicata, e le fragilità che emergono quando lo sguardo introspettivo diventa più intimo. J. Edgar possiede una cultura di integrità che poco alla volta si modula attorno a fattori più complessi: l’ambizione di reggere il potere senza incertezze, il peso di un ruolo che egli vuole proteggere ma anche estendere, l’importanza politica delle scelte assunte in materia di sicurezza nazionale. Sullo sfondo, un itinerario personale segnato dalla convivenza con aspetti di sé che non sono accettabili né semplici da condividere; J. Edgar si interroga sulla propria capacità di entrare in relazione, sulla propria identità sessuale e lo fa con la fatica di una piega del viso, chiuso nei vincoli di un potere senza il quale non può pensarsi. Egli affronta i limiti di un’organizzazione che piega i principi morali a logiche di prevaricazione, ed è parte attiva di questi meccanismi.
Il film non lascia una risposta allo spettatore, non lo conduce ad un’idea nitida su come definire J.Edgar, descrivendone invece con maestria la complessità esistenziale. Ciò che sorprende, ancora una volta, osservando l’opera di Eastwood è la sua capacità di elevare l’animo umano al di sopra delle bandiere di parte; come per “Gran Torino” e per molte altre storie da lui raccontate, possiamo dire che il nuovo West è la scoperta di dimensioni umane che si nutrano di un significato pieno, il nuovo sogno americano è il superamento della corruzione morale di alcuni e del conflitto sofferente di molti, di chi è escluso dai giochi del potere e del gloria oppure ne sembra partecipe ma ascolta dentro di sé le vibrazioni dolenti che giungono da quelle stanze. Il nemico non è più il fuorilegge ma a volte fa la legge, le armi non sparano e si limitano a colpire chi le usa, nella forma di riflessioni che non si intimidiscono di fronte a luoghi inesplorati. La ridefinizione dei confini, delle attribuzioni e delle relazioni tra i soggetti narrativi appare in ogni film di Eastwood sempre più sofisticata, con un denominatore comune: squarciare il velo conservatore della tradizione, degli stereotipi, delle rassicurazioni da difendere. Lunga vita al grande Clint!
Gran Torino (2008) di Clint Eastwood – TRAILER:
10 Tecniche per aumentare la Motivazione e la Forza di volontà
Per molti di noi l’inizio del nuovo anno rappresenta un momento per riflettere sul passato e per decidere di adottare cambiamenti o nuovi comportamenti. Ad esempio, in quanti hanno detto di volersi mettere a dieta? “Dal 2 di gennaio inizierò a mangiare meno!” Inizialmente, è abbastanza facile progettare un’alimentazione più controllata. Si inizia col comprare più ortaggi, a bollire i cibi, a evitare carboidrati e zuccheri in eccesso, e così via. Al principio, la motivazione e la forza di volontà sono molto alte, anche le palestre in questo periodo sono sovraccariche di gente. Ma dopo poche settimane, la motivazione tende ad essere più flebile e la forza di volontà si esaurisce, si è portati a tornare alle vecchie abitudini alimentari, meno sane di quelle nuove.
Per la maggior parte delle persone, non è intuitivamente ovvio che cosa fare per preservare lo scopo prefissato e per raggiungere gli obiettivi prestabiliti, ma la terapia cognitivo-comportamentale può aiutare nel migliorare le capacità di perseguire lo scopo, o quando si avverte una estinzione anticipata del bisogno di raggiungerlo, e quindi sopraggiungono i pensieri sabotanti. In questo caso, processi specifici di pensiero e alcune abilità comportamentali potrebbero aiutare a incrementare la motivazione e la forza di volontà, che cominciano a scarseggiare. Farò riferimento alla perdita di peso in generale come esempio principale, ma le tecniche che descriverò possono essere applicate anche ad altri obiettivi: attenersi a un budget, smettere di fumare, ridurre il consumo di alcol, citando alcuni fra i desideri più comuni. Di seguito troverete un elenco di competenze essenziali da mettere in pratica.
Tecniche per aumentare la motivazione:
1. Sviluppare un obiettivo ragionevole e un piano di lavoro che permetta di perseguire lo scopo. Quindi, niente obiettivi irrealistici, ma iniziare con cose molto semplici e concrete.
2. Creare un elenco di motivazioni molto forti che portino a raggiungere l’obiettivo prefissato. E’ necessario leggere questa lista ogni mattina e ogni volta in cui si è tentati di abbandonare l’obiettivo, anche, e soprattutto, quando non si ha voglia di farlo.
3. Darsi credito ogni volta che ci si impegna in comportamenti progettati per raggiungere l’obiettivo prestabilito ed evitare comportamenti che, al contrario, tengono lontani dal perseguimento dello scopo.
4. Impostare una lista di cose giornaliere da realizzare, alla quale rendere conto nel caso in cui non si riuscisse a portarla a termine.
5. Non assecondare il pensiero sabotante, ovvero lasciarlo scorrere nella propria mente tenendo fermo il proprio obiettivo.
6. Identificare gli ostacoli e risolvere i problemi in anticipo, sapendo che uscendo fuori dal piano di lavoro prefissato è facile incappare in infinite tentazioni.
7. Preparasi ad affrontare i sentimenti di scoraggiamento, di delusione e di privazioni che scaturiscono nel momento in cui non si dovessero raggiungere gli obiettivi stabiliti.
8. Decidere su come ricompensare se stessi quando si raggiungono gli obiettivi e i sotto-obiettivi.
9. Focalizzarsi sulle esperienze che vale la pena di fare per facilitare il raggiungimento dell’obiettivo.
10. Tornare al punto numero 1 quando si va “fuori pista”.
Queste strategie sono molto importanti per riuscire a tenere alta ed amplificare la motivazione e la forza di volontà, quando, inevitabilmente, tenderanno a diminuire. Quando il gioco si fa duro, la motivazione e la forza di volontà cominciano a giocare.
BIBLIOGRAFIA:
Beck., J. The Beck Diet Solution: Train Your Brain to Think Like a Thin Person. Birmingham, AL: Oxmoor House (2007).
Beck., J. The Complete Beck Diet for Life. Birmingham, AL: Oxmoor House (2008).
Amarezza cronica post-traumatica: una diagnosi per i precari.
Navigando tra riviste scientifiche mi sono “imbattuta” in un articolo che trattava di una nuova diagnosi che mi è parsa interessante ed emblematica rispetto al periodo storico ed economico in cui ci troviamo: il “disturbo da amarezza cronica post-traumatica” (Post-Traumatic Embitterment Disorder, PTED).
Descritto come una particolare forma di disturbo dell’adattamento, il PTED è stato per la prima volta proposto nel 2003, dallo psichiatra tedesco Michael Linden come nuovo disturbo mentale. Le prime ricerche su questa sindrome risalgono al 1999 e si sono occupate di approfondire lo stato di malessere psicologico diffuso tra gli immigrati tedeschi provenienti dalla Germania dell’Est a seguito della caduta del muro di Berlino.
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Attualmente i sintomi che caratterizzano questa diagnosi sono considerati una reazione psicopatologica ad eventi di vita particolari che possono essere classificabili come normali eventi di vita negativi, se non tendono però a ripetersi tutti i giorni (ad esempio i conflitti a lavoro, perdita di lavoro, essere vittima di discriminazioni,…).
Ecco che la ciclica perdita di lavoro cui i precari sono soggetti, potrebbe spingerli verso questo stato di cronica sofferenza psicologica.
L’elemento cruciale perché si manifesti questo cronico sentimento di amarezza è, secondo i ricercatori, che l’evento sia vissuto come ingiusto e come una grave violazione delle proprie credenze e valori di riferimento. La differenza principale tra i disturbo da stress post-traumatico (PTSD) e il disturbo da amarezza cronica post-traumatica (PTED) sta nel fatto che il primo riguarda una reazione psicopatologica ad eventi che per la maggior parte delle persone sono considerati traumatici (violenze fisiche, guerre, disastri naturali,..), mentre il secondo riguarda eventi non classificabili come traumatici, ma che per la frequenza o per la loro capacità di colpire valori centrali per la persona, possono provocare sintomi quali amarezza, sentimenti di ingiustizia, ricordi ripetitivi ed intrusivi degli eventi critici, sintomi fobici, abbassamento del tono dell’umore, ritiro dalle relazioni sociali e comportamenti di evitamento.
I principali criteri indicati da Linden (2007) sono:
A – Sviluppo di sintomi emotivi e comportamentali clinicamente significativi a seguito di un unico, sebbene normale, evento di vita negativo.
B – L’evento traumatico viene vissuto nei seguenti modi:
la persona riconosce l’evento come causa del suo problema emotivo;
l’evento è percepito come ingiusto, come un insulto o un’umiliazione;
la reazione della persona all’evento implica sentimenti di amarezza, rabbia e impotenza;
la persona reagisce con un arousal emotivo significativo quando ripensa all’evento.
C – Presenza di ricordi intrusivi e ripetitivi e uno stabile e significativo cambiamento in senso negativo nel benessere psicologico.
D – Assenza di altri disturbi mentali precedenti all’evento, che possano spiegare tale reazione.
E – Ridotto funzionamento sociale e lavorativo.
F – I sintomi durano da più di 6 mesi.
I disturbi psicopatologici con più alta comorbidità con la diagnosi di PTED sono i Disturbi dell’Adattamento (66%), la Depressione Maggiore (50%) e la Distimia (40%).
Gli studi di Linden hanno evidenziato come nel 73% dei casi gli eventi considerati come scatenanti il malessere riguardassero problemi sul posto di lavoro; tutti i pazienti intervistati dai ricercatori hanno riferito inoltre di avere pensieri intrusivi improvvisi, il 98% lamentava un umore persistente negativo e il 92% una cronica irrequietezza dal manifestarsi degli eventi critici in poi. Tuttavia, in contrasto con i pazienti depressi, il 92% dei pazienti affetti da PTED mostra un umore normale ed una buona capacità di modulare le emozioni quando distratti dalle loro preoccupazioni.
Linden e il suo gruppo di ricerca stanno validando una psicoterapia studiata ad hoc per la cura di questo disturbo: la “Wisdom Therapy” (Terapia della saggezza) da lui ideata qualche anno fa. Si tratta di una combinazione di Terapia Cognitivo-Comportamentale, e pratiche mindfulness. Ad una prima occhiata nulla di nuovo rispetto alle ormai classiche terapie cognitive di terza generazione!
La brutta notizia per i precari è che questa diagnosi ad oggi non è stata inserita ufficialmente nel Manuale Diagnostico dei Disturbi mentali (DSM IV-TR) e questo stato di “cronica amarezza” difficilmente potrà essere oggetto di risarcimento …. almeno per ora!
Le metafore attivano le regioni cerebrali coinvolte nell’esperienza sensoriale
– Rassegna Stampa –
Bruciare di passione, sentire gelarsi il sangue…attenzione il nostro cervello riattiva le esperienze sensoriali e motorie per comprendere le espressioni metaforiche. E’ evidente anche alla psicologia ingenua che le nostre conversazioni quotidiane sono immancabilmente ricche di metafore. Linguisti e psicologi da tempo sono alle prese con il rapporto tra le metafore, il linguaggio e la nostra esperienza sensoriale e già George Lakoff lo diceva: la comprensione delle metafore è radicata nelle nostre esperienze senso-motorie. Ma in pratica che significa? E chi lo ha dimostrato empiricamente?
Un nuovo studio pubblicato questa settimana su Brain & Language dimostra a livello empirico che l’ascolto di una frase contenente una metafora tattile (implicante cioè una qualità tattile, ad esempio vino vellutato oppure rough day in lingua inglese) attiva una specifica regione cerebrale sensomotoria, l’opercolo parietale, deputata non tanto alla comprensione linguistica ma proprio all’elaborazione delle sensazioni tattili: in altre parole, sembra che si verifichi una simulazione mentale interna, con tanto di correlati cerebrali, delle sensazioni tattili legate a una certa qualità tattile espressa nella metafora. La stessa regione non si attiva quando invece ascoltiamo una frase che spiega esplicitamente a livello linguistico il significato della stessa metafora.
“Anche quando lo stimolo è rappresentato da una metafora nota e di uso comune è stato dimostrato che la comprensione delle metafore attiva le aree sensoriali del nostro cervello, appunto implicate nell’elaborazione degli stimoli sensoriali” dice Krish Sathian professore di neurologia, riabilitazione e psicologia presso Emory University di Atlanta.
Come da attese in linea con l’approccio della grounded cognition, effettivamente non è stata riscontrata l’attivazione delle regioni corticali visive durante la comprensione delle metafore tattili: una sorta di coerenza tra tipologia di aree sensoriali riattivate e comprensione linguistica di metafore basate su specifiche modalità sensoriali (metafore visive, cinestesiche, tattili, uditive, etc). Non stupisce che la ricerca sia stata condotta da un gruppo di ricercatori della Emory University di Atlanta, patria di Lawrence Barsalou uno dei principali sostenitori dell’approccio della grounded cognition nell’ambito delle scienze cognitive.
Il Potere della Timidezza. Introversione, estroversione e stili di pensiero.
L’autorevole periodico americano Time ha recentemente dedicato una copertina al “potere della timidezza” nel tentativo di sfidare uno dei più consolidati luoghi comuni, ovvero: essere estroversi migliora la propria leadership.
Pensare alla timidezza necessariamente come un difetto o, ancor peggio una malattia, è profondamente errato. Il messaggio che riceviamo dai media, tuttavia, è proprio questo: le persone timide hanno una scarsa autostima, soffrono spesso di disturbi d’ansia e necessitano di cure.
Il luogo comune non distingue infatti la timidezza dalla fobia sociale, disturbo ansioso caratterizzato da una costante e sproporzionata paura nelle relazioni sociali, uno stato di intenso malessere psicofisico che costringe l’individuo a evitare situazioni sociali per il timore di essere giudicato inadeguato dagli altri. Il più delle volte questo timore si autoalimenta dando vita a una sorta di circolo vizioso, in cui il soggetto fobico, per paura che gli altri scoprano le sue preoccupazioni, arriva al punto di avere paura della paura stessa, sviluppando un’ansia anticipatoria che lo costringe di conseguenza a perpetuare i suoi comportamenti di evitamento.
La fobia sociale, tuttavia, non corrisponde alla timidezza, la quale non è solo sinonimo di difficoltà e disagi, ma racchiude anche una serie di qualità e abilità che, se efficacemente utilizzate, possono diventare un punto di forza, come per esempio, la maggiore e più prolungata capacità di attenzione. Sembrerebbe che nei soggetti introversi, l’attività cerebrale sia concentrata nella corteccia cingolata anteriore, ovvero la regione legata ai processi emozionali, al contrario negli estroversi, tale attività interessa prevalentemente le aree del linguaggio e del pensiero razionale della corteccia frontale sinistra (Mobbs, 2005).
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Per comprendere la natura dell’introversione e dell’estroversione occorre, però, fare riferimento alle numerose interazioni tra fattori genetico-biologici ed ambientali. Come è vero infatti che i fattori genetici esercitano un ruolo primario nello stabilire gli aspetti costitutivi della personalità, è altrettanto vero che tali predisposizioni ereditarie si struttureranno o meno nel soggetto a seconda del ruolo, ugualmente fondamentale, giocato dall’ambiente nel corso dello sviluppo. Oggi però, nella società sempre più efficientista, dinamica e competitiva in cui viviamo, poco importa “come si è”, l’importante è “come si appare”.
In letteratura introversi e non, vengono comunemente definiti “Sitters” e “Rovers” (Cain, 2012): i primi sono coloro che si imbattono nelle situazioni senza pensarci due volte e godono all’idea di stare al centro dell’attenzione; mentre la seconda definizione descrive figure più attente, che spesso rimangono ai margini in una fase di osservazione e valutazione e che agiscono solo in un secondo momento.
Il continuum introversione-estroversione non deve essere considerato un’evoluzione da una disposizione caratteriale negativa vs positiva, queste due polarità sono semplicemente due modi differenti di essere: sitters e rovers metteno in atto strategie di sopravvivenza diverse e ognuna porta ad ottenere diverse ricompense. L’estroverso risulta essere più sicuro, ed ha abilità maggiori nella gestione delle critiche e dello stress rispetto al timido, il quale è sicuramente più sensibile e vulnerabile, ma anche più riflessivo e con maggiori capacità di concentrazione (Jagiellowicz, 2010).
Sarà dunque vero che l’estroversione è il segreto per avere successo nella vita? Forse non è sempre così, come dimostrano alcune strepitose carriere, come quella dell’introverso regista Woody Allen, del celeberrimo maestro Vladimir Horowiz, il quale interruppe le sue esibizioni per 15 lunghi anni a causa della paura di fallire di fronte al suo pubblico, o quella della timida scrittrice britannica Joanne Kathleen Rowling. Ci sono poi personalità pubbliche che sulla propria timidezza costruiscono i loro personaggi e spesso la loro fortuna, ad esempio il sopracitato Woody Allen o la nostrana Margherita Buy, come osserva lo psichiatra Fausto Manara.
Concludo osservando che gli individui schivi alla mondanità, non avvezzi a futili chiacchiere o serate di circostanza vengono spesso etichettati come chiusi o, nella peggiore delle ipotesi, asociali. La tendenza a categorizzare, tuttavia, sembra essere un bisogno intrinseco all’esperienza umana, ma non presenziare ad ogni evento o non avere sempre qualcosa da dire, non sono necessariamente manifestazioni di timidezza, né tantomeno di introversione. In un periodo storico come quello odierno dei reality show, in cui i panni sporchi vengono lavati di fronte a milioni di telespettatori, si può solo pensare che il peggior difetto di un introverso sia quello di non essere “alla moda”.
Cain S. (2012). Quiet: The Power of Introverts in a World That Can’t Stop Talking . Crown Publishing Group (NY) 2012.
Jagiellowicz J., et al. (2010) “The trait of sensory processing sensitivity and neural responses to changes in visual scenes”. Social Cognitive Affective Neuroscience 2010.
Mobbs D., et al., (2005). Personality predicts activity in reward and emotional regions associated with humor. Pnas 2005; 102:16502-1656.
Manara F. (1997). Timidezza. Sperling & Kupfer Editori, Milano, 1997.
Storie di Terapie – Introduzione
Introduzione
Questi casi reali li ho raccontati per descrivere la psicoterapia cognitiva in azione, evidenziandone alcuni meccanismi tipici che il terapeuta porta con sé nella borsa degli attrezzi e utilizza al momento giusto, diverso in ogni percorso terapeutico. La teoria ci dice che la terapia cognitiva consiste in un cambiamento di credenze e scopi della persona sofferente e che i passi da percorrere sono sostanzialmente due:
1 – In primo luogo si tratta di comprendere noi e rendere consapevole il paziente del suo modo di funzionare: si chiede al paziente di essere psicologo di se stesso.
2 – Una volta evidenziate le credenze che guidano la sua vita dolorosa si tratta di modificarle attraverso alcuni passaggi chiave:
analizzare il contesto di apprendimento dove si sono strutturate, essendo ad esso adattive e accorgersi di quanto quel contesto sia cambiato rendendole attualmente patogene.
valutarne la falsità e la dannosità.
trovare delle credenze alternative con cui sostituirle
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Sempre la teoria ci ricorda che lo scopo generale della terapia è riattivare un processo di cambiamento /crescita/adattamento del sistema nel cui blocco consiste la patologia e che per ottenere questo è necessario perseguire un duplice ampliamento dei gradi di libertà del sistema:
Sollecitando l’ampliamento degli scopi su cui investire in modo da ridurre il rischio di fallimenti catastrofici se un settore va male
Aumentando il numero di strategie di perseguimento utilizzate per ciascuno scopo terminale: un sistema con più scopi e con più strategie di perseguimento per ciascuno di essi è più al sicuro
A questo seguono i due grandi movimenti della terapia che possiamo chiamare quello della rassicurazione e quello dell’accettazione.
La rassicurazione tende a mostrare al paziente che sovrastima erroneamente la probabilità dell’evento temuto. E’ quello che anche i laici vicini alla persona sofferente tentano di fare: “stai esagerando, vedrai che non succederà!” Il terapeuta tuttavia lo articola in maniera più sofisticata, evidenziando gli errori di ragionamento che tendono a confermare i modi di vedere disfunzionali: il messaggio comunque resta “non succederà!”
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L’accettazione invece tende, da un lato, a far considerare l’evento temuto meno terribile di quanto il soggetto lo valuti per la serie “il diavolo non è così brutto come lo si dipinge” e dall’altro a convincere il paziente che, rispetto ad un evento immodificabile, investirvi risorse è solo un ulteriore danno.
La psicoterapia cognitiva deve, persino troppo, la sua notorietà ed il suo successo al ricco strumentario di tecniche codificate di cui si avvale ma a cui assolutamente non si riduce. Infatti la riattivazione del cambiamento attraverso l’aumento dei gradi di libertà del sistema, la rivalutazione corretta della probabilità dell’evento temuto e la sua decatastrofizzazione si ottengono attraverso interventi molto concreti (tecniche specifiche) scelti nell’itinerario terapeutico definito al momento del contratto e modificati via via dall’evolversi della relazione terapeutica o cogliendo al volo le opportunità fortuite offerte dagli accadimenti della vita quotidiana, oltre a quelle predisposte con gli home work per falsificare le vecchie modalità.
Alcuni di questi interventi sono:
La psicoeducazione e la trasmissione di informazioni che il paziente ignora, nonché la sollecitazione a guardarsi intorno per escogitare soluzioni nuove ai vecchi problemi abbandonando quelle dimostratesi inefficaci.
L’evidenziazione di possibili conflitti tra scopi e l’assunzione della responsabilità di una scelta che restituisca agentività a quei pazienti che arrivano dichiarando la loro impotenza con frasi del tipo “è più forte di me” cui in genere rispondo “allora mi mandi lui che tratto direttamente con il capo”.
Lo svelamento degli schemi interpersonali disfunzionali all’interno della relazione terapeutica, l’esame dei circoli di rinforzo che creano e la sperimentazione di modalità nuove.
L’interruzione degli automatismi sintomatici anche attraverso manovre comportamentali, contemporaneamente al recupero del loro significato originale modificato o perso nel corso del tempo.
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Ho pensato utile raccontare un po’ di casi clinici sparsi lungo tutto l’arco delle diagnosi categoriali e soprattutto di situazioni miste, perchè i pazienti si ostinano a non studiare il DSM IV per collocarsi correttamente nelle sue categorie e insistono a presentarsi come persone reali, sofferenti e multisfaccettate: con mille acciacchi diversi e sovrapposti.
In queste situazioni ci sono di scarso aiuto i protocolli, si tratta per ciascun caso di identificare con quali meccanismi nel paziente si genera sofferenza e dopo averli smascherati provare a modificarli costruendo alternative. Ho cercato di raccontare il paziente, quello che è avvenuto tra noi in terapia e come sono andate le cose, insuccessi ed errori compresi, transfert e controtransfert o come si chiama nella nostra parrocchia quel miscuglio di sentimenti che avviluppa paziente e terapeuta.
Nei casi che seguono, l’arrosto sostanzioso dei vari pazienti è condito con il sugo della fantasia, per rendere non identificabili le persone e la lettura più avvincente. Spesso ho condensato in un solo paziente più persone e, quasi sempre ci sono scappati pezzetti di me stesso.
Nei casi clinici che seguono, l’arrosto sostanzioso dei vari pazienti è condito con il sugo della fantasia, per rendere non identificabili le persone e la lettura più avvincente. Spesso ho condensato in un solo paziente più persone e, quasi sempre ci sono scappati pezzetti di me stesso. – Leggi l’introduzione –
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Marco, l’ultimo Samurai.
Marco arriva su invio dei colleghi dell’ospedale dove è stato ricoverato, volontariamente, qualche giorno in osservazione.
Sono allarmati perché la giovane età di Marco, 24 anni, fa temere un esordio psicotico. Ciò che indirizza verso una prognosi negativa è il forte ritiro sociale, l’atteggiamento sospettoso e ostile nei confronti degli altri e una serie di sintomi molteplici e bizzarri difficilmente riconducibili ad un unico disturbo.
Il trattamento praticato fino a quel momento, da circa cinque anni, consiste in farmaci ansiolitici e serotoninergici per controllare la sintomatologia ansiosa molto pervasiva e multiforme; di recente, sono stati associati neurolettici atipici, proprio per il timore di un esordio psicotico.
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Marco ha anche seguito per un paio di anni una psicoterapia che riferisce essere stata utile, così come i farmaci, nel ridurre la sintomatologia che tuttavia si ripresenta con la sospensione delle terapie dell’uno o dell’altro tipo; ciò gli ha procurato l’ulteriore paura di non guarire più e di essere per sempre un malato mentale.
Il timore per qualsiasi malattia fisica è invece patrimonio antico e consolidato. Mi aspetto un giovane psicotico, ostile, rifiutante e da convincere a farsi curare, inconsapevole e non molto sveglio: non è così.
Marco è un giovane di 24 anni che frequenta con straordinario profitto l’ultimo anno di Ingegneria all’Università. E’ alto, bello, curato nel vestire, seppure senza ostentazione ed in stile casual. Ha i capelli completamente rasati e presenta una balbuzie vistosa che, tuttavia, non ostacola la comunicazione e si attenua dopo il primo impatto.
Marco arriva allo studio accompagnato dal padre di 56 anni, che è lì con lui sia per definire le questioni economiche relative ad una assicurazione di cui gode e che necessita di una particolare procedura per il rimborso, sia perché Marco non ama andare in giro da solo, soprattutto in zone poco conosciute.
Al padre, da cinque anni, è stato diagnosticato un mieloma ed avendo subito già due trapianti non potrà eseguirne altri; della stessa malattia è morto anche il nonno paterno di Marco. Inutile dire che l’eventualità di potersi ammalare è una delle preoccupazioni di Marco che, invece, non ne mostra alcuna verso il padre, non nel senso che è ottimista ma in quello più radicale del menefreghismo. L’aggravamento e l’eventuale morte del padre sembrano riguardarlo solo in quanto riduzione delle risorse a sua disposizione. Quanto ciò sia importante lo scoprirò solo al termine della terapia. Un tale struggente e disinteressato amore filiale mi mette in una negativa disposizione d’animo verso il giovane, ma l’autocontrollo è adamantino e nulla filtra all’esterno. Lo farò a pezzi nei miei sogni notturni.
Rimasto solo con Marco ho l’impressione di trovarmi di fronte ad un pugile con la guardia ben alzata ed allo stesso tempo ad un bambino spaventato, pronto ad aggrapparsi a quella mano che, d’altro canto, teme lo colpisca. Il mio confermazionismo esulta allo scoprire ogni volta, dietro un’immagine da bullo o da macho, uno smarrito “piscialletto”, ma è solo una consolazione fondata sulla speranza che si dia anche la relazione opposta: fragilità esterna uguale a forza interiore.
Parliamo volentieri, il confronto razionale, analitico, scientifico e a carattere psicoeducativo costituiscono subito un facile terreno d’intesa. Marco, da buon ingegnere e ubbidiente scolaro, vuole capire cosa gli stia succedendo e sapere cosa fare; l’ approccio cognitivo-comportamentale gli si addice perfettamente. Il suo primo interesse è sapere quale malattia abbia, gli sono state fatte numerose e diverse diagnosi e ciò lo disorienta e lo spaventa. Un problema, a suo avviso, lo si può risolvere solo se ha un nome e dei connotati precisi, la vaghezza non fa per lui…
…Colludiamo come due matematici in esilio nelle scienze umane. Naturalmente, l’opinione che lui ha è che la sua malattia sia organica come quella del padre e che occorra trovare il nome e la medicina giusta. L’esistenza stessa di una vita psichica è qualcosa che riesce solo vagamente ad intuire, la realtà è costituita di cose concrete, manipolabili. Il fatto però che io riesca, con assoluta precisione, a descrivergli cosa sente quando sta male e cosa abbia pensato subito prima e immediatamente dopo, sollecita la sua vivace curiosità. Si interessa a concetti come “emozioni”, “pensieri”, “stati d’animo”, è molto intelligente e le spiegazioni circa i complessi legami tra gli stati interni e il loro rapporto con il mondo esterno, quello degli ingegneri, lo attraggono da un punto di vista teorico ancor prima che personale.
Durante la terza seduta si informa sul motivo della mia condizione (emiparesi sinistra) ed ho la netta impressione che abbia deciso che, grazie a ciò, io non possa essere pericoloso. A quel punto, inizia a narrare tutti i disturbi insensati per cui si considera matto e inizia a sudare copiosamente… il primo, in ordine di gravità , è l’ “affaire capelli”.
Mi racconta che passa almeno due ore al giorno di fronte allo specchio a controllare il cuoio capelluto, per vedere se non ci sia un diradamento dei capelli che lo terrorizza. Assume un farmaco costosissimo contro la caduta dei capelli, con il rischio di ipertrofia prostatica e altri importanti effetti collaterali, li taglia a zero sia per rinforzarli che per rendere meno visibili le eventuali aree di diradamento della chioma.
Quando è fuori casa osserva, da vicino e con insistenza, le capigliature di tutti gli uomini al punto di aver provocato litigi con alcuni che, immagino, si saranno sentiti oggetto di non richieste attenzioni omosessuali. Ha elaborato una teoria per prevedere con esattezza a che età un uomo diventerà calvo, la sola parola “pelato” lo getta in uno stato di agitazione. Secondo questa teoria esistono dei segni premonitori che riguardano la stempiatura, la densità di capelli per unità di superficie, lo spessore del capello e il suo stato di secchezza, l’averli lisci o ricci e la presenza di vertigini. Dal combinarsi di queste dimensioni si può, a suo parere, prevedere l’epoca della calvizie. Quando osserva gli altri maschi il suo unico intento è stabilire se diventeranno calvi prima o dopo di lui; se i loro capelli sopravviveranno ai suoi si sentirà canzonato, deriso e immagina di non poter sopravvivere a tale umiliazione.
L’inizio di questo tormento lo ricorda esattamente, come se fosse un disturbo post traumatico da stress e lo fa risalire ai sedici anni: è il primo pomeriggio di una domenica primaverile come tante altre e Marco ignora che, proprio quel giorno, la sua vita cambierà e che lui varcherà, a grandi falcate, il portone della malattia mentale.
La domenica pomeriggio, che vede da sempre bandito ogni studio, è dedicata al calcio dalle 14.00 alle 20.00. Marco sta seduto sul divano, con il padre, a guardare in televisione “Quelli che il calcio” e la madre sta finendo di sparecchiare. Egli ricorda con esattezza, come in un fermo immagine, l’intervista a Cassano fatta da una Simona Ventura in un corto abito arancione.La madre passando dietro al divano gli carezza la nuca dicendo “qui ti verrà la chierica”.
Marco non ricorda il prosieguo della conversazione, se mai ci fu, in proposito ha la stessa amnesia lacunare di chi è coinvolto in un grave incidente stradale. Sente una vampata di calore avvolgerlo, le tempie scoppiargli, la testa confondersi e girare, il sudore inumidirgli la fronte e la vista annebbiarsi. Quando la trama del ricordo riprende, dopo il temporaneo sfilacciamento, non sta più a guardare Cassano conversare con la Ventura, ma è in bagno e, con uno specchio portatile tenuto dietro il suo cranio, cerca di proiettare sullo specchio grande di fronte a sé l’area dove si era poggiata la carezza della madre.
Marco descrive quell’istante come un passaggio, un momento cruciale e irreversibile della sua esistenza, la fine dell’età dell’innocenza, l’inizio della sofferenza e l’avvento della follia. Da quel momento nulla sarà più come prima, non sa il perché, ma è consapevole che qualcosa si sia rotto per sempre. Inizia il pellegrinaggio che, a partire dai dermatologi, conduce agli psichiatri.
Il primo da cui lo portarono gli diagnosticò quel disturbo noto come “dismorfofobia”: trattasi di una delirante percezione di un intollerabile difetto corporeo assolutamente inesistente. Altri, successivamente, dissero trattarsi di disturbo ossessivo compulsivo, perché Marco doveva fare tutte le cose secondo rigidi e immutabili protocolli. Più probabilmente, poteva avere entrambi i disturbi che sembrano andare d’accordo come il formaggio con le pere. Entrambi poi potevano essere i vessilli di disturbi ben più gravi meritori, un tempo, di una carriera manicomiale.
Del resto, Marco, ossessivo lo era innegabilmente. Studiava sei ore al giorno, dalle 14.00 alle 20.30, con una pausa alle 17 di trenta minuti per la merenda, con tre fette di pane e nutella. Studiava esclusivamente nella sua cameretta, con accese due delle quattro lampadine del lume. Seppure aveva tempo libero in università, non apriva libro perché non era nell’orario e nella sede destinati allo studio. Se, stando a casa faceva, per errore, oltrepassare le 14.00, rinunciava completamente allo studio. Questa meticolosità, che Marco stesso riteneva eccessiva, diceva di averla imparata dal padre.
Ossessionato dall’ ordine, il padre cataloga e conserva tutti gli scontrini e tiene un’agenda in cui segna tutte le attività che compie, dalla mattina alla sera, con intervalli di 10 minuti. In ogni giornata ci sono, dunque, 144 annotazioni che alla sera conta per verificarne la correttezza.
Si è fatto stampare, da un amico tipografo, dei moduli appositi con i 144 spazi. Insomma il padre non scherza; è del tutto egosintonico e sostiene che questo rigore sia la chiave per avere successo nella vita ed il motivo per cui, nonostante il suo semplice diploma di ragioniere, è un apprezzato dirigente. Del resto, a conferma di ciò, anche la carriera scolastica di Marco è stata assolutamente brillante, se si escludono i primi due anni delle medie.
E’ sempre stato il primo della classe e all’università non è mai sceso sotto il 29. Avrebbe voluto fare Medicina, ma le prospettive di lavoro sono state giudicate dal padre meno promettenti rispetto ad Ingegneria e non c’è stata discussione. Discussioni in famiglia non ci sono mai, non perché tema i genitori, ma perché è sempre totalmente d’accordo con loro. Lo sviluppo di un pensiero divergente da quello dei genitori è stato molto più avanti uno degli indicatori più attendibili del buon esito della terapia.
Secondo Marco il successo scolastico è ascrivibile all’importanza assoluta che gli attribuiva la madre e al metodo rigoroso del padre. La signora Gina era maestra elementare ed ha insegnato a leggere e scrivere a tutto il paese. Sin dal primo giorno di scuola chiarì al figlio che avrebbe dovuto fare bella figura ed essere sempre il primo della classe, altrimenti il paese avrebbe riso di lei come nella storiella del calzolaio che va in giro con le scarpe sfondate. Non gli chiedeva poi molto: doveva semplicemente fare il suo dovere.
Marco sentiva la responsabilità di non inciampare neppure una volta, perché ciò avrebbe ricoperto l’intera famiglia di vergogna ed umiliazione. L’umiliazione è per Marco in costante agguato dietro ad ogni angolo. Al ragazzo venne chiesto molto ma in cambio avrebbe avuto affetto smisurato ed una protezione assoluta: doveva solo renderli orgogliosi e non avrebbe dovuto preoccuparsi di altro.
Tuttora Marco non deve occuparsi di niente tranne che studiare. Non si occupa della manutenzione della sua auto, cui non mette neppure la benzina. Non ha mai fatto un bollettino postale e non ricorda di essere mai entrato in una banca. Non acquista nessun capo di abbigliamento per proprio conto. Provvede da solo all’igiene intima (la qual cosa non mi sembrò affatto scontata tant’è che sentii il bisogno di sincerarmene).
Non sa cucinare nulla, neppure il proverbiale uovo al tegamino o la pasta. Ignora le misteriose procedure che permettono di ottenere il caffè, bevanda di cui è ghiotto. Al mattino trova la colazione già preparata sul tavolo e la madre si premura anche di spezzargli i biscotti dentro il latte. Durante un incontro con la famiglia, alla mia domanda sulle motivazioni dell’operazione biscotti tutti mi guardano come un marziano o un pericoloso sovversivo che si lasci esplodere durante una colazione nella casa del Mulino Bianco. Perché? Lui è più contento, non perde tempo, non sbaglia la quantità e non sbriciola dappertutto.
Tornando alla carriera scolastica, dopo delle elementari strepitose con sua madre nella classe accanto, Marco approda alle medie. E’ malvisto, giudicato secchione e raccomandato e diventa oggetto di pesante bullismo. E qui c’è un altro “undici settembre” precedente a quello della “chierica”: alla festa patronale di San Venceslao, uno dei ragazzi più aggressivi con un complice guardiaspalle lo colpisce al naso e, al tentativo di reazione di Marco, gli sputa in faccia di fronte ad un folto pubblico. Quando ricorda il suo sangue sulla terra e lo sputo colargli lungo la faccia prova, ancora oggi, una rabbia omicida. Marco dice di aver tenuto sottocchio i due in tutti questi dieci anni e di stare aspettando il tempo giusto per una vendetta e cita, in proposito, la nota affermazione sulla vendetta come piatto freddo, che consola quanti sono stati incapaci di consumarla a caldo nutrendosi delle viscere fumanti del nemico, vero inconfessato desiderio. Ha pensato che quando, passato tanto tempo, nessuno potrà più collegare i due eventi, investirà e ucciderà uno dopo l’altro i due.
Anche se non sapranno mai di dovermi ringraziare, credo che quei due siano fortemente debitori alla psicoterapia di Marco.
Nei primi due anni delle scuole medie il rendimento scolastico scende intorno alla sufficienza: impensabile e drammatico ad un tempo. Marco ricorda che la madre non gli rivolse la parola, dalla pagella del primo trimestre fino alla successiva, dove aveva recuperato in tre materie.
In quel periodo iniziò a balbettare, tirandosi addosso altre prese in giro. Le frustrazioni non vengono mai da sole e, nella sua mente, rimane impresso un momento preciso. L’allenatore lo ha appena sostituito perché sta giocando malissimo. Si siede sulla panchina a bordo campo e pensa, con queste precise parole: “a scuola sto diventando un somaro, sono goffo e balbuziente, nello sport sono un perdente, ma in compenso sono proprio un bel ragazzo”. Poi, sotto la doccia negli spogliatoi, decide che nessuno ha dei capelli belli e lunghi come i suoi, cosa che gli riconoscono tutti, anche gli altri maschi.
Lui non capiva cosa fosse questa “dismorfofobia” che gli attribuivano. Sapeva però che, quando la madre gli aveva parlato della chierica, gli era crollato letteralmente il mondo addosso e, se non fosse stato sul divano, le gambe non lo avrebbero retto. Quello che riteneva essere rimasto il suo unico punto di forza nella competizione senza esclusione di colpi per sopravvivere, veniva abbattuto da sua madre con una carezza e una parola.
Una sensazione analoga l’aveva provata quando, nella sua vita, debuttarono quei devastanti improvvisi malesseri che avrebbe imparato a chiamare “attacchi di panico” e che aggiungevano un altro tassello alla sua follia. Quando arrivò in terapia gli attacchi di panico erano il disturbo in primo piano, per il quale prendeva le medicine e che gli impediva di fare tutte quelle cose che lo avrebbero portato lontano da casa o in luoghi dove non fosse possibile ricevere immediate cure. Non andava in treno, nè in aereo, nè in macchina se non con la sua, per essere certo di potersi allontanare a suo piacimento.
Il primo attacco di panico lo ebbe durante una vacanza in un villaggio turistico in Spagna, la prima volta da solo lontano da casa. Era stremato per una interminabile partita di volley e si sdraiò all’ombra di un eucalipto a riprendere fiato. Dopo cinque minuti si sentiva ancora debole e barcollante e allora controllò la frequenza cardiaca. Il cuore batteva velocemente, ma un attimo dopo accelerò ancora di più. Sembrava schizzargli fuori dal petto e Marco fu certo che di lì a pochi istanti sarebbe morto, non fu un dubbio ma una certezza assoluta. Mentalmente accennò persino ad un “pater noster”, quantunque non più credente.
Era talmente agitato che fu un amico a digitare sul suo cellulare il numero della madre che, con poche parole, lo rassicurò “stai tranquillo che appena arrivi ti prenoto un controllo dal cardiologo, che un check up al cuore è ora di farlo per quel soffiettino che ti ha trovato già il pediatra” (l’utilizzo da parte della famiglia delle prestazioni del S.S.N. era tale che una loro morte avrebbe ripianato il bilancio della regione Lazio).
Il volo di ritorno dalla Spagna fu l’ultimo aereo che Marco prese e smise anche di allontanarsi da casa.
Decise fermamente che non avrebbe più fatto vacanze, se non con due amici che sentiva assolutamente rassicuranti poichè li giudicava molto più sfigati e deboli di lui. Quelli spagnoli erano invece amici, ma in gamba e brillanti, decisamente vincenti nel confronto con lui. Quando mi raccontò quanto si trovasse a suo agio con gli sfigati pensai con una certa quota di irritazione che qualcosa del genere dovesse esserci alla base della nostra buona relazione terapeutica. Molti anni dopo, tornare a prendere gli aerei fu uno degli indicatori del buon esito della psicoterapia.
Le relazioni affettive di Marco erano state numerose e si erano tutte interrotte per colpa sua. La sua gelosia era incontenibile, ingiustificata a suo stesso dire e spesso violenta. Era certo che la partner gli avrebbe preferito qualsiasi altro e, dunque, non poteva uscire se non con lui e non poteva usare il computer in sua assenza. Immaginava vividamente la scena in cui un altro uomo possedeva la sua donna facendosi beffe di lui. Col tempo, questo controllo esasperato sulla partner e la disperazione che causava, aveva iniziato a procurargli piacere ed era diventato un motivo in sé del suo comportamento prepotente.
In famiglia avevano iniziato a dirgli che era cattivo perché godeva nel maltrattare il suo cagnolino. Marco ribatteva che il suo scopo non era quello di procurare dolore, ma semplicemente di avere il potere assoluto, anche di vita e di morte, su quanto era suo. Solo quando si sentiva il padrone assoluto con il controllo totale sugli altri e sulla situazione si sentiva, (attenzione!) non bene, ma tranquillo, la minaccia di una improvvisa e umiliante sconfitta si chetava momentaneamente.
L’ipocondria di Marco meriterebbe un capitolo a parte, non c’era malattia di cui non temesse di essere affetto. I genitori lo assecondavano con ripetuti esami clinici e visite mediche che, rimandando alla necessità di futuri ulteriori controlli, non facevano che moltiplicare i timori e l’autosservazione corporea alla ricerca dei prodromi di malattie gravissime.
Essendo incuriosito dalla discrepanza tra un così grande timore ipocondriaco e un comportamento privo di ogni precauzione, da eroe senza paura, verso incidenti mortali (guida veloce, sport rischiosi, ecc.) chiesi a Marco cosa temesse effettivamente: non era affatto la morte che considerava ineluttabile e naturale, quanto piuttosto lo stato di malattia. Non per le possibili sofferenze ad esso connesse, ma perché lo status di malato era, ai suoi occhi, una condizione di inferiorità che lo avrebbe esposto alla sopraffazione e all’umiliazione dei sani. In parte, anche la condizione di morto lo rendeva inferiore agli altri e in loro balia, ma era consapevole che quando ciò si fosse realizzato non ne avrebbe avuto coscienza e dunque fastidio. Tuttavia, sarebbe stato molto contento di una fine del mondo apocalittica, di una morte collettiva contemporanea senza nessuno che gli sopravvivesse. Alla richiesta di immaginare la sua morte e perché gli apparisse così orribile descriveva il suo funerale lungo le vie del paese, con gli amici ai bordi della strada a godersi beffardi la sua sconfitta definitiva. Immaginava anche che sarebbero andati al cimitero a farsi beffe della sua condizione e mi disse che avrebbe voluto sulla lapide la scritta “fatevi i cazzi vostri”.
Impegnato com’era in una costante competizione con gli altri sperimentava un’ intensa ansia di prestazione e paura del giudizio in tutte le situazioni scolastiche. Nel suo corso universitario era tranquillo perché riconosciuto da tutti come indiscutibilmente il più bravo, la gerarchia all’interno del gruppo classe era stata definita una volta per sempre e lui era il vincitore. Ma bastava che si trovasse in una situazione nuova (concorso, esame per uno stage) o che alla sua classe ne venisse associata un’altra con colleghi che non lo conoscevano e subito l’ansia saliva e la balbuzie peggiorava. Quest’ansia, che a lui appariva inspiegabile, “all’Università ormai non sono più angosciato”, innescava immediatamente due problemi ulteriori.
Non riconoscendoli come ansia, interpretava i segni fisici come un malessere organico incipiente, che lo avrebbe fatto morire o impazzire. Si incamminava così nella strada del panico che, tuttavia, l’assimilata psicoeducazione gli impediva di percorrere fino in fondo. Inoltre, avvertendo nella presenza dei nuovi colleghi la causa del suo malessere, diventava ostile nei loro confronti. Marco era consapevole che appariva agli altri, amici, conoscenti e colleghi, come una persona scontrosa e gonfia di rabbia. Lo riconosceva nell’immagine riflessa nello specchio, che era diventata ancora più convincentemente minacciosa con i capelli a zero, ma lui sentiva che dentro c’era solo paura. Il suo atteggiamento, nella migliore ipotesi, veniva preso come sprezzante e altezzosa superiorità oppure come vera e propria aggressività. Ciò, naturalmente, suscitava reazioni interpersonali simmetriche che gli confermavano, in un circolo vizioso confirmatorio, la minacciosità degli altri.
Andava in giro sempre con una macchina al di sopra delle possibilità familiari perché qualsiasi altra più modesta lo faceva immaginare oggetto di derisione. Diceva a se stesso che fosse la pigrizia ad impedirgli di portare avanti le consuete incombenze della vita quotidiana che delegava ai genitori, ma sapeva che non era per questo: in verità pensava di mostrarsi incapace agli occhi di tutti nel compiere quelle azioni così semplici che tutti sanno fare.
Dovettero passare tredici mesi dall’inizio della terapia perché Marco potesse rievocare un periodo della sua infanzia in cui i nonni paterni vivevano con loro. Genesio, il nonno mitico che era stato podestà del paese, sebbene ospite del figlio gestiva con pugno di ferro tutta la vita familiare, in particolare l’educazione dei nipoti, che vedeva in pericolo nelle mani del proprio figlio giudicato un uomo debole e incapace.
I compiti scolastici del piccolo Marco venivano verificati sia dal padre che dal nonno. Alla verifica degli scritti seguiva normalmente una sgridata del nonno al padre per non essersi accorto degli errori che, invece, lui aveva rilevato e punizioni severe per i nipoti, a volte qualche ceffone ma, soprattutto, privazioni di giochi con gli amici o della televisione pomeridiana.
Negli ultimi tempi della sua vita l’anziano podestà si era dedicato alla ristrutturazione di un suo vecchio cappello, applicandovi due grosse orecchie d’asino. Aveva intenzione di costringere i nipoti ad andare in giro così addobbati per ogni insufficienza presa. La vista di quel cappello nell’armadio del nonno, misto all’odore di urina stantia che sprigionava dai pantaloni del vecchio, è tuttora una delle esperienze sensoriali più spaventose e disgustose che Marco ricordi. Si sentì fortemente in colpa per l’incontenibile gioia provata quando il carcinoma della prostata ebbe ragione sulla resistenza del vecchio.
La salvezza del fratello Bruno di due anni più piccolo, che ora convive con una ex collega di studi e insegna all’Università, fu dovuta a due eventi accidentali che segnarono decisivi punti di svolta: a otto anni disse al nonno che puzzava di vecchio schifoso e il patriarca lo disconobbe come nipote e non volle più alcun rapporto con lui, a diciotto anni mise incinta la figlia del vicesindaco e, dopo l’aborto, si ritenne opportuno che cambiasse paese, gli fu affittato un appartamento a Pisa dove andò a studiare.
La chiave del successo della terapia con Marco va ricercata nella positiva relazione terapeutica. Credo che, a motivo della mia disabilità, non mi abbia mai percepito come un possibile competitor e una potenziale minaccia.
Questa è stata una coincidenza fortuita favorente: in ogni cosa ci sono almeno due aspetti positivi, basta saperli vedere. Inoltre sin da subito ho percepito, dietro l’aspetto ostentato da naziskin e il digrignare metaforico dei denti, un ragazzino spaventato e insicuro che andava rassicurato sulle sue capacità di tenuta. L’ atteggiamento interiore su cui mi sono modellato è stato quello di un padre accogliente e protettivo ma soprattutto incoraggiante, che promuove l’esplorazione, non chiede né tantomeno pretende nulla, con in testa la parola d’ordine “sono certo che ce la puoi fare!”.
Con l’annuncio della opportunità di iniziare a programmare la conclusione della terapia, essendo i sintomi praticamente scomparsi, ci fu un importante e inaspettato balzo avanti della consapevolezza. All’idea di interrompere il rapporto con me Marco mostrava sentimenti di preoccupazione rispetto a ciò che sarebbe potuto succedere e di dispiacere. Alla mia richiesta se mai si fosse sentito in questo modo, durante la sua vita, rispose con un pianto inizialmente sommesso e imbarazzato e poi sempre più incontenibile.
Era stato all’inizio di quello che definiva il suo “annus orribilis”, in cui erano comparsi gli attacchi di panico, l’ossessione dei capelli e l’ipocondria. Per la prima volta, a terapia conclusa, riusciva a mettere in successione cronologica e causale gli eventi di quell’anno e persino guardare il buchino nella diga che aveva fatto crollare tutto, poteva sperimentare le emozioni connesse e decidere di mostrarle.
L’incipit di tutto era stata la notizia del tumore al midollo osseo del padre, stessa malattia di cui era morto il nonno. Marco, sin da piccolo, si era ritenuto un buono a nulla destinato ad essere sopraffatto e umiliato dai compagni, ma aveva la certezza dell’intervento pronto e deciso del padre che, giovane e forte, scendeva decisamente in campo nelle liti del ragazzo con gli altri e non li ammoniva a parole ma usava le maniere forti per far rispettare il figlio.
La notizia della malattia, il lungo ricovero e poi la prospettiva di un trapianto trasformavano il padre in un malato cronico che non poteva più essere il supereroe pronto a intervenire e lui sentì vacillare le fondamenta del suo mondo. Le parole che meglio esprimevano il suo stato d’animo era “impossibile”, “non può essere e non ci credo”, tuttavia non pianse mai. In famiglia non si parlava di questa faccenda per il timore delle emozioni negative che generava e non se ne parlava all’esterno, nessuno lo sapeva, perché se gli altri avessero saputo di questa debolezza familiare avrebbero potuto attaccare.
Cessato il pianto, in seduta Marco mi chiese cosa potesse entrarci questa vicenda con le sue stranezze, fissazioni e paure. Provammo insieme a ridare un senso storico alla sua vicenda: sin da piccolo si era sentito debole, goffo e inadeguato e temeva di essere oggetto di umiliazione. I suoi punti di forza erano tre: lo studio, la bellezza e la forza del padre, sempre pronto a intervenire.
Venuto a mancare quest’ultimo sperimentò un vissuto di debolezza assoluto, di fragilità da cui sarebbe originato il filone dei sintomi ipocondriaci e quello del panico. Gli restava solo la carta della bellezza, che diede a sua volta origine ai sintomi ossessivi inerenti la capigliatura. Per la prima volta Marco poteva piangere il dolore per questa perdita di sicurezza e farlo con un estraneo percepito come accudente.
Indubbiamente l’intelligenza e le capacità razionali di Marco sono state un ulteriore fattore favorente: capiva con facilità i bias cognitivi confirmatori e i circoli viziosi nei quali si cacciava e accettava di buon grado di metterli in discussione e fare esperienze alternative. Ciò che, senza dubbio, lo ha affascinato di più, per la sua tendenza ossessiva all’unitarietà, è stato il ricondurre tutti i suoi diversi e molteplici sintomi ad un unico tema centrale. Era davvero soddisfatto quando poteva dirsi “non sono dismorfobico, ipocondriaco, ossessivo, panicoso, paranoide, geloso patologico e forse non sono neppure un malato mentale, sono solo come un samurai impegnato in una guerra continua per salvare la dignità e il dottore mi ha semplicemente detto che la guerra è finita.”
L’obbedienza all’autorità che, per altri versi, abbiamo messo in discussione è stata utilissima nello svolgimento degli home-work che Marco eseguiva con la determinazione di un attentatore suicida alla conquista del paradiso traboccante di vergini. Nella terapia Marco ha sperimentato una situazione nuova: potersi mostrare debole, senza essere attaccato e criticato da un lato, o immediatamente sostituito dall’altro.
Naturalmente accettare il rischio di sperimentare questa nuova condizione è stata la conseguenza diretta di una lucida consapevolezza del suo modo di funzionare e della fatica e dei costi che esso comportava.
Mi piacerebbe concludere dicendo che lavora nella cooperazione internazionale e dedica la sua vita ad aiutare gli altri. Ci siamo andati vicini ma non è successo. Lavora in un’azienda e fa una vita normale, come tutti. Non è il primo della classe ma è felice e io mi dico “cosa vuoi di più dalla vita? Eccetto ovviamente un amaro di marca”.
Linee guida per identificare abusi e maltrattamenti in pazienti neurologici
– Rassegna Stampa –
L’American Academy of Neurology ha definito la necessità da parte di tutti i neurologi di inserire nello screening diagnostico dei pazienti neurologici una serie di domande volte a identificare l’esistenza di abusi e violenze, attuali o passate, da parte di familiari o più in generale dei caregivers; la rosa di comportamenti indagati è ampia: abusi sugli anziani, sui bambini, abusi sessuali, finanziari, emotivi, bullismo, cyberbullismo e neglect.
Più del 90% degli atti di violenza interpersonale all’interno di relazioni significative sono diretti alla testa, al viso, al collo e per questo possono provocare lesioni cerebrali, sopratutto se perpetuati in modo continuativo nel tempo. Pazienti neurologici con il Parkinson e l’Alzheimer, ma anche chi ha avuto infarti, è maggiormente esposto ad abusi o a neglect. I dati relativi ad abusi fisici e sessuali sono impressionanti: il 20-30% delle donne e il 7,5% degli uomini è stato fisicamente o sessualmente abusato da una persona a lui vicina nel corso della sua vita adulta.
I neurologi, dice il Dr. Schulman, autore principale dell’articolo, vedono continuamente nella loro pratica clinica pazienti che sono a rischio di abuso o che sono più o meno direttamente esposti al maltrattamento, per questo non indagare l’eventuale esistenza di abusi e violenze, oltre a impedire la messa in protezione del paziente, può significare il fallimento del trattamento. L’AAN stila un elenco di 10 interventi che permettono di orientare il medico nell’indagine; lo scopo è quello di raccogliere i dati relativi a eventuali abusi o violenze subiti e permetterne l’integrazione nella storia medica del paziente. A chi fosse interessato l’AAN offre anche training gratuiti per imparare a riconoscere la violenza domestica all’interno della propria comunità.
Che sia effetto della crisi o del naturale sviluppo delle professioni, che sia una reazione allo stereotipo che vede lo psicologo affiancato al lettino o che sia semplicemente un riflesso della voglia di dare voce a una professione che non ha vita facile, in un recente articolo su Psychcentral vengono pubblicati sei lavori correlati alla psicologia davvero inusuali. Se bisogna inventarsi il lavoro, insomma, questi psicologi non mancano certo di iniziativa.
Psicologia al circo
La psicologa Madeleine Hallè lavora per il Cirque du Soleil aiutando i circensi ad adattarsi al loro lavoro, superare le paure e i timori da palcoscenico e offrendo sostegno per favorire il recupero fisico e mentale. Ha iniziato nel 1998 come consulente per poi passare come psicologa a tempo pieno quando il Cirque du Soleil ha deciso di inserire la figura dello psicologo come parte fissa del team. Madeleine Hallè ha un master in scienze dello sport e un Ph.D in psicologia dello sport ottenuto all’Università di Montreal.
La psicologia aerospaziale
Ebbene sì: psicologo aerospaziale. Lo psicologo Paul Eckert lavora come stratega internazionale e commerciale per la società Boeing, aiutando gli esperti a tradurre le loro idee in realtà. Per esempio, lavora come consulente in un team di ingegneri ed esperti commerciali per risolvere i problemi tecnici ed economici di creare capsule a misura d’uomo per portare sia gli astronauti della NASA che passeggeri civili nello spazio.
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La psicologia & Google
Sottolineando che il motore di ricerca Google è basato su un funzionamento messo a punto da psicologi, nel team vi lavora anche la psicologa Dawn Shaikh, la quale conduce studi per aiutare gli utenti a selezionare i font (caratteri) migliori per le loro pagine web. Partecipa a un progetto simile per sviluppare font pensati per l’industria dei paesi emergenti.
La psicologa regista
Chi dice che sogni diversi non si possano realizzare? La psicologa clinica Nadine Vaughan vede pazienti durante il giorno e scrive film, sceneggiature e romanzi la sera. Nadine ha una laurea in criminologia, un master in salute mentale e un dottorato in psicologia.
Psicologia del traffico
Campo che da diversi anni sta prendendo piede anche in Italia, la psicologia del traffico è un campo emergente che studia il comportamento delle persone al volante. Dwight Hennessy, professore associato al Buffalo State College ha pubblicato diversi lavori che spaziano dalla rabbia al volante all’impatto dello stress dei pendolari sul lavoro passando dal fenomeno del bere e poi mettersi alla guida. Ha conseguito il dottorato all’Università di York in psicologia sociale e della personalità.
La para-psicologia
Dean Radin, originariamente violinista, si è laureato in ingegneria elettronica per poi conseguire un Ph.D in psicologia. Dopo gli studi ha lavorato come ricercatore ai laboratori del AT&T Bell nel settore delle telecomunicazioni, iniziandosi a interessare dei fenomeni della mente. Attualmente si occupa degli studi controversi della lettura della mente e dello spostamento degli oggetti con la pura forza mentale.