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Non imparo perché… sono pigro e incapace. O per dire qualcosa a mamma e papà? #1

Andrea Bassanini, Barbara Stefania Comerci.

Disturbi Specifici dell’Apprendimento e Attaccamento (Parte 1)

Disturbo Specifico dell'Apprendimento. Immagine:  © Leah-Anne Thompson - Fotolia.com - Quella di Disturbo Specifico dell’Apprendimento (DSA) è una diagnosi che sempre più si sta affermando nelle realtà scolastiche, forse grazie anche alla crescente attenzione che si sta sviluppando, vista l’incidenza stimata intorno al 3-4% della popolazione scolastica. Anche il gossip e i media ultimamente hanno dato importanza al tema DSA grazie ai “famosi” che hanno sofferto di DSA in età scolare, come Napoleone, Galileo Galilei, Isaac Newton, Pablo Picasso ma anche Tom Cruise, Cher, Quentin Tarantino, Muhammed Ali.

Allo stato dell’arte, le teorie più diffuse fanno riferimento ai DSA come a problematiche legate a malfunzionamenti neurobiologici e genetici che compromettono alcune funzioni di base dell’apprendimento. Esistono, però, altri modelli che considerano i DSA come una problematica multi-fattoriale, in cui anche gli aspetti relazionali hanno un peso consistente. Nonostante non siano molti, alcuni studi presenti in letteratura si sono interessati agli stili di attaccamento dei bambini dislessici, disgrafici, disortografici o discalculici.

Cerchiamo di fare una fotografia sui dati disponibili in letteratura.

Less than perfect: il rapporto tra perfezionismo e stile genitoriale. Immagine: © olly - Fotolia.com -
Articolo consigliato: "Less than perfect: il rapporto tra perfezionismo e stile genitoriale".

Come è noto, nel caso in cui il bambino sviluppi schemi cognitivi interpersonali di sé, dell’altro e di sé con l’altro (i famosi internal working models; Aisworth et al., 1978) riconducibili a pattern di attaccamento di tipo insicuro, frequentemente il bambino sperimenta fragilità emotiva e mancanza di condizioni ambientali capaci di favorire lo sviluppo delle funzioni cognitive di base. Tale funzioni, in breve, comprendono quelle percettive, legate alla motricità e che permettono la realizzazione di una rappresentazione interna del mondo esterno, il linguaggio, che consente di descrivere tale rappresentazione e di operare su di essa, la funzione simbolica, che permette di evocare la rappresentazione mentale di un oggetto in assenza dello stesso e logica, che permette di operare con la funzione simbolica.

 

Tali funzioni vengono considerate prerequisiti della competenza umana ad apprendere. Un ambiente sfavorevole allo sviluppo di queste funzioni porta spesso a un disinvestimento intellettivo da parte del bambino che rinuncia a usare le proprie competenze cognitive per imparare, e che viene, a un primo sguardo, letto dagli adulti come “pigrizia” o “lentezza”. Ciò può manifestarsi, a livello sintomatologico, con rallentamento psicomotorio e con problematiche di apprendimento.

Alcuni modelli teorici, infatti, considerano il ritardo dello sviluppo psicomotorio e il DSA come manifestazione comportamentale di problematiche legate all’attaccamento, considerate concausa del carente o inadeguato sviluppo psicomotorio e psicolinguistico (Simonetta, 2007).

Come ricordano le teorie del cognitivismo evoluzionista, il sintomo assume significato in funzione del pattern di attaccamento di cui è espressione. Il sintomo entra, così, a far parte della relazione con lo scopo di “curare la relazione ferita” (Lambruschi, 2004). I significati legati al sintomo nel bambino sono di frequente di tipo emotivo/affettivo e sono alimentati dai bisogni di “cura” e di protezione, presenti nella relazione di attaccamento con i genitori, negli equilibri del loro rapporto di coppia e negli schemi interpersonali disfunzionali dei genitori.

Sulla scia di queste riflessioni, potremmo pensare ai DSA come ad un disagio multi-fattoriale, che non coinvolge solo elementi legati allo studio (focus di riabilitazioni e trattamenti logopedici) o al contesto scolastico in generale, in quanto luogo principe dell’apprendere; forse questi bambini non imparano non perché pigri, lenti o incapaci ma perché troppo impegnati dal bisogno di dire qualcosa a mamma e papà…

 – LEGGI LA PARTE 2 DELL’ARTICOLO – 

BIBLIOGRAFIA:

  • Ainsworth M., Blehar M., Waters E., & Wall S. (1978). Patterns of Attachment. Hillsdale, NJ: Erlbaum.
  • Lambruschi F. (a cura di) (2004). Psicoterapia cognitiva dell’età evolutiva. Bollati Boringhieri: Torino.
  • Simonetta E. (2005). La dislessia. Un nuovo approccio per la diagnosi e il trattamento. Carlo Editore Editore: Milano.
  • Simonetta E. (2007). Io non imparo perché sto male. Disagio infantile e disgnosia. Carlo Amore Editore: Milano.

The therapeutic effectiveness of video feedback – Part 3

Previous installments: Part 1 – Part 2

The therapeutic effectiveness of video feedback© mamahoohooba - Fotolia.comThis series has highlighted that video feedback training successfully increases the sensitivity of mothers with psychopathology and in the context of child adoption.  From my previous series, Your first day of school will be scary, we know that anxiety disorders affect the way that mothers’ converse with their children.  The literature also shows that mothers’ conversations with their young children tend to be characterized by emotion rich language that is linked to children’s understanding of self and emotions (Fivush, 2007). Since video feedback training has been shown to improve mothers’ sensitivity towards their children, research has examined the effect of training mothers to use emotion-rich conversation style with their children.

Parents' words and  anxiety disorders
Related series: Parents' words and Anxiety Disorders.

Few studies have examined the benefits of training mothers to use emotion rich language in conversations with their children. Peterson, Jesso and McCabe (1999) longitudinally assessed the benefit of training 10 mothers to have more emotion-based, open-ended and longer conversations with their 43 month old children. Children’s discussions and verbal ability were assessed before and after the intervention. One year later, compared to the 10 mothers who did not receive training, trained mothers showed an increase in open-ended prompts, ‘wh’ context questions and verbal and non-verbal responses to their children. In turn, the children of trained mothers had conversations that were richer in context-setting description.

 

In a more recent study, Reese and Newcombie (2007) trained 100 mothers to speak to their 19-month old infants using open-ended questions, and, where infants provided a verbal or non-verbal response, to confirm their contribution to the conversation. During reassessments when the infants were 34 months of age, compared to waitlist control mothers, trained mothers asked more open-ended questions, responded to their children’s contributions to the conversations more, and had more elaborative conversations overall. The discourse of the children of trained mothers was also characterized by more memory elaborations, and higher self recognition than the discourse of children of untrained mothers.

These two studies provided insight into the benefits of training mothers to use more emotion rich, elaborative conversation styles.  However, as part of the training in both studies, mothers were also instructed to spend additional time with their children.  In the next installment of this series will cover a study which attempted to control for this factor.  Additionally, I will be discussing the possible effect of more emotionally balanced discourse on children’s behavior.

 

BIBLIOGRAPHY:

Ansia e paura a confronto: espressioni diverse per diverse funzioni.

 

– Rassegna Stampa –

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze PsicologicheLe emozioni di ansia e paura sono spesso confuse, tuttavia, gli studi sulle reazioni difensive nei roditori, in condizioni naturali, suggeriscono che l’ansia sia funzionalmente distinta dalla paura. Un gruppo di ricercatori dell’Institute of Psychiatry (IOP) al King’s College di Londra hanno, per la prima volta nell’uomo, identificato l’espressione facciale dell’ansia, distinguendola da quella di paura.

L’espressione di un volto ansioso comprenderebbe una “scansione” visiva dell’ambiente circostante per la valutazione del rischio imminente, e sembra essere associata a situazioni minacciose in cui il rischio è ambiguo e poco chiaro. Contrariamente la paura, e la relativa espressione facciale, compaiono in situazioni in cui il pericolo è chiaramente definito.

Questi risultati suggeriscono che l’espressione del viso ansioso nell’uomo – guizzo degli occhi e rotazione della testa, come nei roditori – serve ad aumentare la raccolta di informazioni e conoscenza dell’ambiente potenzialmente pericoloso attraverso l’espansione del campo visivo e di quello uditivo. Questa reazione sembra avere una componente sia funzionale che sociale, infatti oltre a facilitare una rapida valutazione dell’ambiente circostante, permette di comunicare agli altri il nostro stato emotivo.

La ricerca è stata pubblicata questa settimana sul Journal of Personality and Social Psychology.

 

 

BIBLIOGRAFIA:

  • Perkins, Adam M.;Inchley-Mort, Sophie L.;Pickering, Alan D.;Corr, Philip J.;Burgess, Adrian P.; (2012); A facial expression for anxiety.Journal of Personality and Social Psychology, Jan 9 , 2012, No Pagination Specified. doi: 10.1037/a0026825

L’impotenza (o Disturbo dell’Erezione)

 

L'impotenza (o Disturbo dell'Erezione) - Immagine: © goccedicolore - Fotolia.com - Il termine impotenza da sempre genera equivoci ed evoca fantasmi nel nostro immaginario culturale, rimandando ad un’idea di generale inadeguatezza della persona, ed è pertanto connotato in senso fortemente negativo.

Attualmente si parla preferibilmente di “disturbo dell’erezione” o “disturbo dell’eccitazione maschile”, inteso come incapacità persistente o ricorrente di raggiungere o mantenere, fino al completamento dell’attività sessuale, un’adeguata erezione, incapacità che causa notevole disagio o difficoltà interpersonali. Talvolta è associato ad un disturbo del desiderio e/o a difficoltà eiaculatorie (APA, 1994).

Negli ultimi anni si è assistito ad un considerevole incremento delle richieste di trattamento per questo problema, probabilmente anche come conseguenza di un cambiamento culturale che ha visto  il maschio uscire progressivamente dal cliché dell’ “uomo che non deve chiedere mai” e più attento e rispettoso anche delle proprie difficoltà. Tuttavia, la vergogna di fronte a questo argomento è ancora un ostacolo forte ad un’efficace presa in carico, senza contare il disorientamento dovuto a tanta (cattiva) informazione che, anche grazie a internet, spinge sempre di più le persone a farsi diagnosi da sé ed a tentare trattamenti senza un’adeguata indicazione medica e/o psicologica, col rischio di cronicizzare il disturbo e peggiorare la situazione.

Sotto le lenzuola: Uomini troppo “golosi” e troppo “ruminatori”? - Immagine: © Costanza Prinetti 2012 -
Articolo consigliato: Sotto le lenzuola: Uomini troppo “golosi” e troppo “ruminatori”?

Sebbene la percentuale aumenti con l’avanzare dell’età, inoltre, non è affatto vero che il disturbo dell’erezione sia una prerogativa di uomini maturi o anziani, anzi: negli ultimi tempi si è assistito ad un considerevole aumento anche nella popolazione più giovane.

 

Ma quali sono i meccanismi coinvolti nella genesi e nel mantenimento di questo disturbo?

I fattori di rischio sono diversi e comprendono disturbi vascolari, traumi spinali o pelvici, neuropatie, disfunzioni ormonali, fumo, alcol, farmaci, ansia, depressione, problemi di coppia ed elementi di contesto (Simonelli, 1997).

Vorrei qui soffermarmi su un meccanismo molto importante non solo nell’eziologia del disturbo ma anche e soprattutto nel suo mantenimento: la reazione di allarme.

La reazione di allarme, infatti, attivando il sistema nervoso ortosimpatico, antagonista del sistema parasimpatico che sostiene l’erezione, funziona da “estintore” per l’eccitazione, facendo defluire il sangue dalla zona genitale verso i muscoli di gambe e braccia, preparando così il corpo per la reazione di attacco/fuga.

La paura di fronte al pericolo è un’emozione fondamentale che ci ha permesso di sopravvivere come specie: sarebbe molto svantaggioso essere sessualmente eccitati invece che pronti alla fuga nel momento in cui ci troviamo di fronte ad un predatore! Noi esseri umani, tuttavia, abbiamo teorie molto personali sulla pericolosità degli eventi: l’erezione può mancare proprio perché è “pericoloso” non averla in quel momento!

Erezioni virtuali - Immagine: © Blanca - Fotolia.com -
Articolo consigliato: "Erezioni Virtuali: Porno Online e Impotenza"

A volte questo circuito di allarme è innescato da piccoli incidenti che fanno arrivare la persona spaventata al rapporto successivo, come una profezia che si autodetermina.

 

A volte gli uomini vengono colti impreparati da un ritardo dell’erezione psicogena, ovvero quella quota di eccitazione regolata da un centro, situato in sede toraco-lombare del midollo spinale, che  riceve segnali dal cervello e produce eccitazione come risposta a ciò che abbiamo pensato, desiderato, visto, udito o toccato. Questo centro funziona in sinergia con un altro centro, situato nella regione sacrale, che genera l‘eccitazione riflessa, dovuta alla stimolazione diretta dell’area genitale. Questi meccanismi funzionano in modi diversi nell’arco della nostra vita: mentre in giovane età l’eccitazione psicogena è assolutamente predominante, col passare degli anni diventa necessario aggiungere una quota sempre maggiore di stimolazione diretta.

Lo stesso dicasi per la fisiologica oscillazione che interessa l’erezione: come tutte le funzioni fisiologiche, infatti, l’eccitazione non è in continua e stabile crescita, ma aumenta e diminuisce. L’entità di tali oscillazioni è minima in giovanissima età, quasi impercettibile, per diventare più marcata col passare del tempo.

Se la coppia non trova il modo per integrare questi cambiamenti in un modo diverso di fare l’amore possono insorgere numerose difficoltà della gestione dell’eccitazione (Fenelli, Lorenzini, 1999; Simonelli, 1997).

Altre volte l’allarme è collegato a meccanismi più complessi: la paura di non essere all’altezza, del rifiuto, di perdere l’amore o la stima della propria compagna; il bisogno di tenere sotto controllo ogni evento somatico; il sentirsi vulnerabili; la tendenza ad attribuire a se stessi la responsabilità di ogni insuccesso; la paura di abbandonarsi; ecc.

Il modo di risolvere questo problema, non è  essere eccitati mentre si ha paura,  ma non avere paura, cioè risolvere la questione che crea l’allarme e concentrarsi unicamente sul piacere, avendo fiducia nel fatto che, cercando solo piacere condiviso, l’erezione comparirà come “regalo”.

In questo senso molto importante è il ruolo delle donne nella prevenzione del disturbo dell’erezione: un atteggiamento di squalifica e l’incapacità di affrontare un momento di difficoltà in modo cooperativo e complice è spesso all’origine di una cronicizzazione del disturbo che, invece di restare un episodio o essere occasione per esplorare nuovi modi di stare nella sessualità, può diventare un ostacolo insormontabile.

In generale la prevenzione, e dunque la buona informazione, sono di fondamentale importanza, soprattutto data la crescente diffusione del disturbo dell’erezione anche fra i giovani, ma sarebbe ingenuo credere che un intervento psico-educativo, di per sé, sia sufficiente per far fronte al problema e risolvere il disturbo ove già presente: in questi casi una diagnosi precoce ed un tempestivo intervento terapeutico rappresentano il migliore strumento per evitare la cronicizzazione  e garantire una prognosi più favorevole.

 

BIBLIOGRAFIA:

  • American Psychiatric Association (1944). Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders , Fourth Edition.
  • American Psychiatric Association: Washington D.C. (tr.it. Andreoli, V., Cassano, G.B., Rossi, R. (a cura di) (1996). DSM-IV. Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali, Masson: Milano).
  • Fenelli, A., Lorenzini, R. (1999). Clinica delle disfunzioni sessuali. Carocci: Roma.
  • Simonelli, C. (a cura di) (1997). Diagnosi e trattamento delle disfunzioni sessuali. FrancoAngeli: Milano.

Sotto le lenzuola: Uomini troppo “golosi” e troppo “ruminatori”? Cause o correlazioni nella Disfunzione Erettile

S. Giuri, D. Rebecchi.

Allarme virilità per i maschi emiliani. I disturbi sessuali, infatti, colpiscono oltre 120.000 uomini in regione. Le cause? Il 50% indica lo stress e i ritmi frenetici, che hanno effetti negativi sull’erezione, mentre il 20% lamenta insicurezza e inadeguatezza di fronte a donne sempre più esigenti.

 

Sotto le lenzuola: Uomini troppo “golosi” e troppo “ruminatori”? - Immagine: © Costanza Prinetti 2012 -  
Illustrazione di Costanza Prinetti © 2012

Questo è quanto riportato in un articolo del Resto del Carlino e che emerge da dati di un’indagine nazionale, da cui prende spunto l’evento “Benessere sessuale. Libertà di amare sempre”, che ha visto Bologna in primo piano con un incontro di approfondimento rivolto ai medici di medicina generale.

Ma non allarmatevi emiliani! Basta fare un giro sul web e ce n’è  per ogni Regione, dalla Sicilia, passando per le Marche fino al Veneto, un problema Nazionale insomma che vede gli italiani primi, nella classifica europea,  fruitori della “mentina dell’amore”.

Gli studi sulla sessualità hanno mostrato significativi progressi negli ultimi 30 anni,  in campo sia medico che psicologico:  ad oggi si colloca al crocevia di scienze diverse e molto lontane tra loro e comunque c’è poco accordo circa le cause, eccetto il fatto che siano multiple (Wincze & Carey, 2001), e che la relazione tra le disfunzioni sessuali e l’umore sia “complessa e multidirezionale” (Weiner & Rosen, 1999, p. 412).

Erezioni virtuali - Immagine: © Blanca - Fotolia.com -
Articolo consigliato: "Erezioni Virtuali: Porno Online e Impotenza"

Nello specifico, la Disfunzione Erettile (DE) è definita dalla Consensus Conference dei National Institutes of Health del 1993 come “l’incapacità persistente a raggiungere e/o mantenere un erezione sufficiente per avere un rapporto sessuale soddisfacente”.

 

Dalla recente letteratura emerge come tradizionalmente si possano identificare tre tipi di cause: organica, psichica o mista, mettendo così in luce come i fattori biologici o intrapsichici, indipendentemente o in maniera congiunta, possano esitare in un tale sintomo (E.A. Jannini, A. Lenzi, M.A. Maggi, 2007).

In ambito psicologico, vi è una ricca tradizione di teorizzazioni sulle probabili cause dei problemi sessuali, e c’è una singolare somiglianza tra la maggior parte di queste teorie e le teorie che sono state proposte per spiegare lo sviluppo e il mantenimento della depressione e dell’ansia. Esaminando una recente Review (Laurent e Simons, 2009) sulle disfunzioni sessuali, ansia e  depressione, emergono diverse ricerche che considerano la disfunzione erettile, nello specifico, come un condizione comune negli uomini depressi.

Nell’insieme, questi studi mostrano che fino al 50% degli uomini con disfunzione erettile sono depressi o mostrano sintomi depressivi, e che la depressione è 2-3 volte più probabile in uomini con disfunzione erettile, che in uomini senza alcun disturbo dell’eccitazione sessuale.

Ovvio, viene da pensare, che un uomo in tale condizione si deprima un po’, infatti la maggior parte degli studi forniscono informazioni utili circa la relazione tra depressione e problemi dell’eccitazione sessuale negli uomini ma,  essendo descrittivi e correlazionali, non  fanno riferimento direttamente a una direzione causale tra disfunzione erettile e depressione.

Poche sono le ricerche che hanno cercato di capire i legami causali tra depressione e DE utilizzando disegni sperimentali; nessuno degli studi ha stabilito chiaramente se le disfunzioni sessuali siano causate dalla depressione o se la depressione sia causata dalle disfunzioni sessuali.

Alti livelli di comorbidità, insieme alla mancanza di una chiara relazione causale tra le disfunzioni sessuali in generale e la depressione (Balon, 2006), suggeriscono che ognuna possa essere sintomo dell’altra, avendo rilevato come i sintomi depressivi siano uno dei maggiori problemi nei pazienti con disfunzioni sessuali, e come le disfunzioni sessuali siano riscontrate in pazienti depressi.

In conclusione, un’implicazione diretta o indiretta della depressione o dell’ansia come causa o conseguenza delle disfunzioni sessuali è comune a tutte le teorie.

Partendo da questi dati, con alcuni colleghi stiamo lavorando per comprendere se, e in che modo, alcuni stili di pensiero disfunzionali come ruminazione e rimuginio (per cui la letteratura ha già ampiamente dimostrato il ruolo predittivo, rispettivamente in Depressione e Ansia) possano avere anche un ruolo nella DE.

Ancora agli albori, questo lavoro, ha confermato la presenza di un pensiero perseverativo ricorrente nei soggetti con disfunzioni sessuali, e il ruolo di questo nel determinare peggiori performance e uno stato emotivo più negativo. In particolare, abbiamo ipotizzato una strategia di funzionamento, che abbiamo chiamato “strategia di ragionamento verbale”, utilizzata prevalentemente da soggetti con diagnosi di DE. Questi soggetti tenderebbero a mettere in atto un pensiero verbale perseverativo e ricorrente: ruminazione (“perché sta succedendo a me?”, “perché capita sempre così?”) e rimuginio (“andrà malissimo”, “non ce la farò anche questa volta”).

Come o Perché? E le conseguenze per il pensiero.
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L’utilizzo di queste strategie di ragionamento verbale, caratterizzate dalla rigidità e dalla ripetitività del pensiero negativo, comporta l’attivazione di stati emotivi negativi e facilita la continua produzione di stimoli attivatori interni  nella forma di pensieri negativi automatici,  causando il perdurare dello stato emotivo negativo.

 

Confrontando poi un campione clinico con un campione di controllo, i soggetti clinici hanno riportato livelli significativamente più alti di sintomi depressivi e ruminazione; emerge inoltre una significativa correlazione tra la disfunzione erettile, sintomi depressivi e ruminazione, la quale fungerebbe da fattore predittivo nella DE, al di là della sintomatologia depressiva.

La ricerca ovviamente ha ancora molta strada da percorrere in tal senso, ad esempio come reagiscono soggetti senza disfunzioni sessuali di fronte a sporadici episodi di DE?

Fiduciosi che non tutti ricorrano golosamente alla caramella dell’amore, fondamentale sembra essere l’intervento di prevenzione rispetto a queste tematiche, come l’importante  campagna internazionale “Basta Scuse”, che ha visto lo scorso anno le tre più grandi società scientifiche italiane coinvolte nella promozione della salute maschile: SIA (Società Italiana di Andrologia), SIAMS (Società Italiana di Andrologia e Medicina della Sessualità) e SIU (Società Italiana di Urologia), da sempre impegnate nella diffusione di una sempre più ampia cultura della prevenzione della DE, con lo scopo di sensibilizzare gli uomini alle problematiche sessuali.

La campagna ha avuto un grosso successo e non è un caso, a parer mio, che lo spot pubblicitario della campagna citi “forse non ci sono riuscito perché sono stanco, forse non ci sono riuscito perché il cane ci guardava, forse perché il film faceva paura, forse perché avevo mangiato troppo, o forse perché è qualcos’altro?”

In un ottica ovviamente psicologica, ma anche squisitamente olistica, e diversamente non potrebbe essere in questo caso, credo che in tutte le “impotenze”, anche le più puramente organiche, la componente psicologica non possa mancare. Chissà però, quanti “maschi” emiliani e non, sarebbero disposti, ad essere meno “golosi” di caramelle, disposti a chiedersi meno “perché” e più “come”?

 

BIBLIOGRAFIA:

  • Balon, R. (2006). Mood, anxiety, and physical illness: Body and mind, or mind and body? Depression and Anxiety, 23, 377−387.
  • Jannini, E.A., Lenzi, A. & Maggi, M.A., (2007) Sessuologia medica. Trattato di psicosessuologia e medicina della sessualità. Elsevier.
  • Laurent, S. M. & Simons, A.D. (2009) Sexual dysfunction in depression and anxiety: conceptualizing sexual dysfunction as part of an internalizing dimension. Clinical Psychology Review, 29, 573-585.
  • Weiner, D. N., & Rosen, R. C. (1999). Sexual dysfunctions and disorders. In T. Millon, P. H.
  • Blaney, & R. D. Davis (Eds.), Oxford textbook of psychopathology (pp. 410−443). New York: Oxford University Press.
  • Wincze, J. P., & Carey, M. P. (2001). Sexual dysfunction: A guide for assessment and treatment (2nd ed.). New York: The Guilford Press.

 

Il punto sull’intelligenza: la review “Intelligence: New Findings and Theoretical Developments”

– Rassegna Stampa –

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze PsicologicheUn grande classico sull’intelligenza dal titolo Knowns and Unknowns of Intelligence fu pubblicato sulla rivista American Psychologist nel 1996. Sedici anni dopo, un gruppo di autori tra cui Richard Nisbett, Joshua Aronson e Diane Halpern, pubblicano un fondamentale contributo di review in cui discutono gli sviluppi empirici e teorici occorsi dal 1996 ad oggi in relazione alla tematica dell’intelligenza.

Il titolo pretenzioso recita non di meno che “Intelligence: New Findings and Theoretical Developments”: facendo il punto sulle più recenti evidenze empiriche si affrontano tematiche cruciali quali (solo per citarne alcune) la relazione tra intelligenza e memoria di lavoro, l’ereditabilità del QI, le caratteristiche dell’ intelligenza fluida e cristallizzata a livello comportamentale e biologico, la modificabilità e persistenza del cambiamento del QI a seguito di interventi riabilitativi infantili così come l’effetto dello stress sull’intelligenza.

E’ nostro piacere segnalarvi che l’articolo è gratuitamente scaricabile da questo link.

 

BIBLIOGRAFIA:

  • Nisbett, R. E., Aronson, J., Blair, C., Dickens, W., Flynn, J., Halpern, D. F., & Turkheimer, E.(2012, January 2). Intelligence: New Findings and Theoretical Developments. AmericanPsychologist. Advance online publication. doi: 10.1037/a0026699
  • Neisser, Ulrich; Boodoo, Gwyneth; Bouchard, Thomas J.; Boykin, A. Wade; Brody, Nathan; Ceci, Stephen J.; Halpern, Diane F.; Loehlin, John C.; Perloff, Robert; Sternberg, Robert J.; Urbina, Susana (1996). “Intelligence: Knowns and Unknowns“. American Psychologist. 51:77–101.

Medicina, Psicologia e Fisica Quantistica: intervista al Prof. Pagliaro – AIREMP

Grazie al prezioso lavoro di studio e di ricerca svolto dall’AIREMP (Associazione Italiana di Ricerca sull’Entanglement in Medicina e in Psicologia) il 19-20 Novembre 2011 si è tenuto a Bologna il Congresso Nazionale:

Medicina, Psicologia e Fisica Quantistica: Intervista al Prof. Pagliaro - Medicina, Psicologia e Fisica Quantistica: la crisi delle certezze e l’umanizzazione della cura.

Vi ho partecipato affascinata dal vedere tanti professionisti di diversi orientamenti e con diverse specialità: fisici, medici, biologi, psicologi, sociologi dialogare insieme utilizzando un linguaggio comune e volto ad un progetto integrato di cura e presa in carico della persona-paziente.

Ho avuto la possibilità di parlare con il Prof. Gioacchino Pagliaro, Vice Presidente dell’AIREMP, per approfondire alcune tematiche trattate nel convegno.

 

Al convegno si è parlato molto di PNEI, quali sono le peculiarità di questo approccio?

Innanzitutto premetto che è necessario specificare che la PNEI di cui si occupa l’AIREMP si riferisce ad un nuovo ambito di ricerca e di applicazione clinica che sta evidenziando il profondo collegamento esistente tra processi quantistici e  processi bio-chimici del nostro organismo, che denominiamo PNEI Quantistica. Questo collegamento cambia strutturalmente la visione dogmatica, basata sulla convinzione  che i geni  condizionano il nostro funzionamento, e le conseguenti concezioni della cura e della salute. La PNEI Quantistica sostiene che  la mente non è un epifenomeno del cervello, ma preesiste al cervello stesso, come dimostrato dalle teorie di molti scienziati di fama mondiale, (tra cui spiccano i nomi di Penrose, Libet, Hameroff, che parlano di processi mentali in termini di Neurodinamica Quantistica e di Neuro Quantologia), e come sostenuto dal buddhismo, che concepisce la mente come non localizzata in un punto del corpo, ma come eterna ed infinita, che si manifesta temporaneamente anche nel corpo umano.

 

Ci può dare una definizione di Entanglement, concetto chiave del Convegno?

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Articolo consigliato: "Convegno internazionale di Psiconeuroendocrinoimmunologia: Intervista al Prof. Bottaccioli"

L’Entanglement rappresenta l’evoluzione ulteriore che è avvenuta nella fisica quantistica. E’ la struttura teorico-scientifica di questa nuova visione della realtà e dell’uomo, non più legata alla fisica classica e alle sue teorie deterministiche e riduzioniste. Determinismo e riduzionismo hanno prodotto in medicina, in biologia e in psicologia il modello bio-medico, caratterizzato dal sapere disciplinare e frammentato, rigidamente centrato su una concezione meccanica della cura, intesa come riparazione e/o sostituzione della parte malata. Se la PNEI tradizionale considera l’organismo umano come un network dotato di relazioni bidirezionali tra psiche e sistemi biologici, la PNEI Quantistica attraverso l’Entanglement considera l’uomo come una unità processuale, dove la mente biografica  e il  corpo sono invece un tutt’uno, quindi l’espressione della Mente, intendendo con questo termine, ciò che sottende ogni forma  ed ogni entità che percepiamo intorno a noi. L’uomo come entità processuale è pervaso dall’energia/informazione della Mente, ed è caratterizzato dalla interconnessione e dalla dall’interdipendenza in una condizione di inseparabilità. E’ Entangled con le dimensioni energetiche e spirituali della Mente.

 

 

Nella sua relazione al Convegno ha parlato di Entanglement e Compassione ci può spiegare come portare operativamente questi concetti in terapia e nella presa in carico del paziente?

La terapia per noi psicologi, medici, biologi e fisici (ricercatori e clinici) dell’ AIREMP, va oltre la “riparazione di una parte malata”. Curare vuol dire prendersi cura  e quindi interagire con la persona malata per aiutarla ad attivare il processo di guarigione che è dentro di lei e intorno a lei. La Compassione, intesa in termini buddhisti come profondo desiderio di aiutare l’altro a liberarsi dalla sofferenza , indica per i terapeuti un nuovo bagaglio teorico e di competenze legato ai processi energetici, quantistici e spirituali della mente biografica e della Mente. Tutto questo rappresenta il superamento della visione  bio-psico-sociale dell’uomo, delle etichette diagnostiche, delle teorie intracraniche della mente e della terminologia che ne è derivata (psiche, psico-somatica, bio-psichico ecc. ecc.), che sopravvivendo generano solo pasticci semantici e linguistici.

 

La giornata di sabato si è conclusa con una sessione pratica di meditazione guidata dalla Ven.le S. Khadro, quali sono secondo la sua esperienza clinica gli effetti benefici della meditazione?

Gli effetti benefici della meditazione oggi sono ampiamente dimostrati e verificati sia a livello fisiologico, che bio-chimico, che psicopatologico. La letteratura scientifica è vastissima e dimostra che la meditazione è  particolarmente indicata nella gestione dello stress, nel trattamento dell’ansia, dell’attacco di panico, nelle depressioni, nel trattamento dell’insonnia, del colon irritabile e come regolatore della pressione. Nella mia UOC di Psicologia Ospedaliera, all’Ospedale Bellaria dell’AUSL di Bologna, la utilizziamo con pazienti oncologici, cardiologici e neurologici. Ma la meditazione è e resta innanzitutto una pratica di liberazione dalla sofferenza dell’esistenza, e quindi è un cammino di elevazione spirituale . Sarebbe un errore ridurla ad una forma di terapia. Continuiamo a chiamarla meditazione, non americanizziamola con il termine  mindfulness pensando di  attribuirle un maggiore alone di scientificità.

 

Ripenso ai giorni del Convegno agli spunti e alle riflessioni da portare quotidianamente nell’attività clinica, e mantengo in sottofondo il piacevole ricordo del concerto di canto armonico a conclusione della prima giornata di lavoro.

Magrezza non è bellezza. L’ansia di perfezione e il ruolo dei genitori nei disturbi alimentari

Magrezza non è bellezza. L’ansia di perfezione e il ruolo dei genitori nei disturbi alimentari

Nell’ambito della serie di incontri “agoràscuolaaperta” su iniziativa di Editori Laterza, si terrà a Milano il 18 aprile 2012

l’incontro: Magrezza non è bellezza. L’ansia di perfezione e il ruolo dei genitori nei disturbi alimentari.

Condotto da Sandra Sassaroli.

Less than perfect: il rapporto tra perfezionismo e stile genitoriale. Immagine: © olly - Fotolia.com -
Articolo consigliato: "Less than perfect: il rapporto tra perfezionismo e stile genitoriale".

Psichiatra e psicoterapeuta, ha insegnato psicoterapia Cognitiva all’Università Cattolica di roma. È stata tra i promotori della conoscenza e della diffusione della terapia cognitiva in Italia e ha fondato «Studi Cognitivi», la scuola di specializzazione in terapia cognitiva che dirige. Tra le sue pubblicazioni: Paure e fobie,con R. Lorenzini, Il Saggiatore 2000; La mente prigioniera con R. Lorenzini, raffaello Cortina 2000; Psicoterapia cognitiva dell’ansia, con r. Lorenzini e g.m ruggiero, raffaello Cortina 2006;I disturbi alimentari, con g.m. ruggiero, Laterza 2010.

Less than Perfect: Il rapporto tra Perfezionismo e lo Stile Genitoriale

Cerchi di essere un genitore perfetto? Meglio sbagliare! – Parte 3

Less than perfect: il rapporto tra perfezionismo e stile genitoriale. Immagine: © olly - Fotolia.com - Dopo l’approfondimento discusso nella seconda parte di questa serie su che cosa si intende per perfezionismo, andremo ora a vedere la connessione tra questo costrutto e lo stile genitoriale. Come abbiamo sottolineato nella prima parte, cercare di essere un perfetto genitore, così come ricercare la perfezione nei figli si rivela spesso un’arma a doppio taglio, portando più spesso un carico di conseguenze ben lontane dalla tanto ambita perfezione.

La letteratura scientifica sull’argomento è concorde nel ritenere che l’interazione con i genitori sia il fattore principale responsabile dello sviluppo del perfezionismo nei figli come caratteristica di personalità (Barrow & Moore, 1983; Pacht,1984). Non è difficile capire, infatti, che crescere con dei genitori che richiedono costantemente prestazioni perfette porti il bambino a pensare continuamente al “dovere essere perfetto” a tutti i costi, nella scuola, con i genitori, nello sport e così via.

Perfezionismo e la chimera del Genitore Perfetto - Immagine: © falcorpic - Fotolia.com -
Articolo consigliato: "Perfezionismo e la chimera del Genitore Perfetto"

Questa modalità di rapportarsi agli altri e alla realtà assolutamente irrealistica e irraggiungibile (chi di noi, infatti, ha sempre ottenuto il massimo dei voti in tutte le prove dell’intera carriera scolastica? Chi di noi ha sempre battuto ogni record al proprio sport preferito?) porterà questo bambino a diventare un adulto “perfezionista”, e un adulto perfezionista ha molte più probabilità di essere anche una persona con un disturbo d’ansia, un disturbo ossessivo-compulsivo, un disturbo alimentare (Blatt, 1995; Sassaroli & Ruggiero, 2005).

 

Ma torniamo allo stile genitoriale con cui avevamo iniziato questa terza parte. Le relazioni con i nostri genitori rappresentano la base per le nostre future relazioni, ci forniscono dei modelli e ci insegnano come comportarci e che cosa aspettarci dagli altri e dalla realtà. Da questa prospettiva, un bambino con dei genitori perfezionisti crescerà in un ambiente familiare dove, molto probabilmente, verrà costantemente criticato  per essere “meno di perfetto” o, con il termine inglese, “less than perfect”; di conseguenza, questo bambino imparerà che tutto ciò che è less than perfect non è accettabile (Patch, 1984).

Molti studi in questo ambito hanno concluso che in generale il perfezionismo è associato a bambini che percepiscono i loro genitori come iper-critici (Frost et al., 1991) e con uno stile educativo autoritario (Robin, Koepke, and Moye, 1990, Kawamura et al., 2002). Sembra verosimile, infatti, che i bambini di genitori autoritari sviluppino caratteristiche perfezioniste dovute alla natura iper-controllante dei loro genitori; in altre parole, è come se questi bambini internalizzassero il criticismo dei genitori per poi sviluppare un criticismo auto-riferito.

Ancora una volta, insomma, i genitori vengono additati come principali responsabili dei futuri problemi dei loro figli. Anche se indubbiamente allo sviluppo di un disagio concorrono molti fattori, la relazione con il genitore costituisce la base di quello che tutti noi poi impariamo a fare e a riutilizzare nelle relazioni future con gli altri.

Essere genitore comporta molte responsabilità, è vero, eppure a volte, basterebbe solo un po’ di buon senso: se prendi un 4 a scuola recuperi la prossima volta!

 

BIBLIOGRAFIA:

  • Barrow, J. C., & Moore, C. A. (1983). Group interventions with perfectinist thinking. Personnel and Guidance Journal, 61, 612,615.
  • Blatt, S. J. (1995). The destructiveness of perfectionism: Implications for the treatmetn of depression. American Psychologist, 50, 1003-1020.
  • Frost, R. O., Lahart, C. M., & Rosenblate, R. (1991). The development of perfectionism: A study of daughters and their parents. Cognitive Therapy and Research,13(6), 469-489.
  • Kawamura, K. Y., Frost, R. O., & Harmatz, M. G. (2002). The relationship of perceived parenting styles to perfectionism. Personality and Individual Differences, 32, 317-327.
  • Pacht, A. R. (1984). Reflections on perfection. American Psychologist, 39, 386-390.
  • Sassaroli, S., & Ruggiero, GM. (2005). The role of stress in the association between low self-esteem, perfectionism, and worry and eating disorders. Int J Eat Disord, 37: 135-141.

 

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Le reazioni psicologiche dei pazienti con scompenso cardiaco

 

Le reazioni psicologiche dei pazienti con scompenso cardiaco - Immagine: © Petr Vaclavek - Fotolia.com - Quando svolgo interventi psicologici con i pazienti con scompenso cardiaco, mi trovo spesso a riflettere come i tempi della malattia cardiaca e i tempi personali di accettazione e adattamento alla stessa siano davvero differenti.

Nei casi più fortunati, queste due linee procedono più o meno parallelamente. Invece, nei casi in cui questi pazienti strutturano una cinta muraria di strategie disfunzionali di contrattacco e di non accettazione della malattia cronica, l’aderenza e la compliance alle prescrizione mediche e infermieristiche vengono meno, causando talvolta effetti distruttivi, per sé e per il proprio ambiente relazionale.

Lo scompenso cardiaco è una malattia cronica che necessita di cure stabili e continuative per ridurne gli effetti negativi. Dal momento in cui viene fatta la diagnosi, si innesca un processo psicologico di adattamento a questa nuova condizione medica, che di fatto è anche una condizione psicologica (“il malato cronico”) che richiede il passaggio attraverso alcune fasi “naturali”.

La fase iniziale, solitamente della prima crisi cardiaca, arriva spesso dal nulla, inaspettata, improvvisa e acuta. In questa fase, la strategia più funzionale è quella di accettare le terapie prescritte in attesa di effettuare gli approfondimenti necessari.

Conclusa questa prima fase di crisi, si entra nel periodo di cronicizzazione, quello del “vivere giorno per giorno con la malattia”. Le necessità cognitive ed emotive in questa fase mettono i pazienti in una condizione, talvolta dolorosa e faticosa, di ridefinire l’immagine di sé e creare una nuova quotidianità, appagante quanto (o quasi) quella precedente. Frustrante e faticosa perché lo scompenso cardiaco, come tutte le malattie croniche, comporta il dover fare i conti con la debolezza del proprio corpo, che facilmente si trasforma in “io sono debole”, e con una limitazione delle proprie possibilità.

Quindi, potremmo “smontare” il percorso di malattia in 3 fasi: Esordio-Cronicizzazione-Accettazione.

Ora vediamo come la persona con scompenso cardiaco potrebbe imboccare la “strada verso l’accettazione”.

L’avere ricevuto una diagnosi di scompenso cardiaco, innesca spesso una fase di rifiuto. Le prime reazioni alla diagnosi possono essere un vero e proprio shock, del quale possono rimanere anche solo pochi ricordi frammentati e confusi. La persona sperimenta forti sensazioni di confusione che la disorientano momentaneamente e la rendono incapace di gestire la situazione.

Superato lo scossone iniziale, il paziente può cercare di negare il problema, affermando che il problema non esiste o che è facilmente risolvibile: ciò gli impedisce di concedersi di vivere tutte le emozioni negative che in quel momento sta provando, di riconoscere i propri bisogni, anche di “persona malata”, e di aderire alle richieste dei medici.

Superata questa fase di rifiuto/negazione (che non tutti riescono ad attraversare facilmente), si innesca un processo, per così dire, di proto-accettazione della malattia, in cui si avvertono ancora sentimenti di rifiuto e di ostilità che vengono però riversati sull’esterno (i medici, gli infermieri, gli psicologi, l’ospedale o i familiari).

Una volta che questi pazienti attraversano e guadano il fiume del rifiuto e della negazione, cominciano a affrontare realisticamente la propria condizione e qui inizia la vera e propria accettazione della realtà. Attenzione, l’accettazione non è rassegnazione, remissività e passività. L’accettazione, per dirla in ottica ACT (Acceptance and Commitment Therapy, Harris, 2011), è un atteggiamento che ci aiuta a “gestire efficacemente il dolore e lo stress che la vita inevitabilmente porta a tutti”, che rende l’individuo capace di “gestire i pensieri e le emozioni dolorose in modo efficace; in questo modo, sia i pensieri sia le emozioni hanno un impatto minore sulla propria vita e sul proprio benessere”.

Alla conclusione di questo tortuoso percorso di accettazione, la persona può entrare nel ruolo di “paziente” che accetta di essere curato e di porsi in modo pro-attivo nel suo processo di cura, diventandone protagonista e adattandosi alle varie fasi della malattia cronica.

Visto l’impatto che una malattia cronica ha sull’immagine di sé, in termini di percezione di controllo sul proprio corpo e sulla propria vita, occorre crearsi nuovi obiettivi a partire dai limiti imposti dalla malattia e dalle risorse ancora presenti.

Un piccolo homework per gli interessati all’ascolto, o meglio alla lettura, può essere di aiuto.

1 – Individuare progetti di vita che sono ancora aperti, “quelle cose che ho sempre voluto fare e non ho mai fatto”.

2 – Ridefinire il progetto scelto, considerandone i limiti: “di quel progetto, cosa rimane di fattibile?” (può anche essere completamente fattibile, se si tratta ad esempio, di un corso di fotografia).

3- Pensare a come poterlo realizzare, farsi un piano di attuazione.

4- Passare all’azione attivando le risorse necessarie.

5- Valutare l’esito ed eventualmente aggiustare il tiro (“come è andato?”, “in cosa è stato utile per me”, “mi ha aiutato a stare meglio?”).

Sarebbe davvero molto interessante se qualcuno dei lettori volesse condividere (si può fare anche in modo anonimo su State of Mind!) la propria esperienza…

 

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Stress sul lavoro e craving alimentare: camminare 15 minuti dimezza la fame nervosa

– Rassegna Stampa –

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze PsicologicheCaramelle e cioccolatini: una camminata di 15 minuti riduce il craving.

Quando arriva il crollo pomeridiano in qualsiasi ufficio anche le più indesiderabili merendine, snacks, caramelle e cioccolatini possono diventare irresistibili! Un nuovo studio pubblicato su Appetite presenta una nuova strategia per coloro che faticano a resistere a merendine e caramelle durante il lavoro d’ufficio.

I ricercatori hanno chiesto ai partecipanti di completare una serie di noiosi compiti attentivi al computer; ad alcuni veniva indicato di prendersi una pausa di 15 minuti rimanendo seduti alla loro scrivania, mentre altri venivano esortati a fare una camminata di 15 minuti. Una volta ripresi i noiosi compiti al pc, i partecipanti si ritrovavano una ciotola di cioccolatini sulla scrivania con tanto di invito a mangiarne liberamente quanti ne volessero.

I risultati dello studio indicano che coloro che avevano impiegato la pausa di 15 minuti camminando di fatto assumevano la metà dei cioccolatini rispetto a coloro che semplicemente si erano rilassati rimanendo seduti alla scrivania. Quindi, in condizioni di prolungati compiti cognitivi e attentivi complessi un minimo esercizio fisico riduce il craving alimentare, e una breve camminata può energizzare molto di più rispetto a una manciata di zuccherose caramelle.

E per gli scettici ecco il riferimento accademico…a scanso di scuse!

BIBLIOGRAFIA:

 

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La nicotina migliora la memoria ed aiuta a combattere i Deterioramenti Cognitivi.

La terapia che non ti aspetti: cerotti alla nicotina per la memoria.

Nicotina e memoria. Immagine: © dalaprod - Fotolia.com - Da qualche giorno sui quotidiani nazionali ed internazionali, rimbalza una notizia che ha del paradossale e starà facendo gongolare molti fumatori: la nicotina migliora la memoria. Ad una prima lettura la notizia potrebbe sembrare dar ragione a i tabagisti incalliti che, anche a fronte di evidenze sulla pericolosità del fumo, hanno sempre ‘fatto spallucce’.

Ad una lettura più approfondita emerge una sostanziale differenza, infatti non è il fumo in sé ad essere un fattore protettivo per la memoria ma sembra che lo siano i cerotti alla nicotina utilizzati per smettere di fumare. A sostenerlo è uno studio pubblicato su Neurology da un gruppo di ricercatori statunitensi guidati dal Dr. Paul Newhouse, professore di psichiatria alla Vanderbilt University School of Medicine a Nashville.

Lo studio è stato condotto su un campione di 69 soggetti formato da persone anziane non fumatrici, con un’età media di circa 74 anni e diagnosi di Mild Cognitive Impairment (MCI), ovvero un deterioramento cognitivo lieve. La condizione definita come MCI sembra essere un precursore della Malattia di Alzheimer (o di altre demenze, a seconda del dominio cognitivo in cui appaiono i primi sintomi) in cui si evidenziano le prime difficoltà di memoria accompagnate solitamente da deficit attentivi e rallentamento nei processi mentali.

Per sei mesi è stato somministrato a metà dei partecipanti, un cerotto alla nicotina (15 mg al giorno), mentre all’altra metà un placebo. Dai primi risultati ottenuti è emerso che coloro ai quali era stato somministrato il cerotto alla nicotina mostravano un miglioramento dell’attenzione, dell’elaborazione mentale e della memoria.

Gli autori hanno concluso che persone con lieve perdita di memoria possono trarre beneficio da questa fonte inaspettata e cioè i cerotti alla nicotina, aggiungendo che questo effetto positivo sulla memoria sembra possa crescere nel tempo, l’unico limite riguarda l’età, il trattamento con i cerotti alla nicotina non può essere somministrato a soggetti con più di 75 anni. Il gruppo di ricerca sottolinea anche che i risultati si possono raggiungere solo attraverso l’applicazione dei cerotti e non attraverso il fumo che invece resta un fattore di rischio per i deficit mnesici… nessuno scampo per i fumatori incalliti, anche in questo caso si ricorda che il fumo nuoce gravemente alla salute.

 

BIBLIOGRAFIA:

Lo strano caso della Coscienza nella guerra tra Cognizioni ed Emozioni

 

Lostrano caso della coscienza. Immagine: © puckillustrations - Fotolia.comMi interrogo da molto tempo, per la precisione da quando ho iniziato questo mestiere, su due temi affascinanti: il rapporto tra cognizione ed emozione e il ruolo della coscienza. Si tratta di dibattiti teorici che hanno contraddistinto la psicoterapia cognitiva (forse l’intera psicologia) sin dal giorno della sua nascita.

Penso ai padri fondatori della Psicoterapia Cognitiva: Aaron Beck e Albert Ellis (Beck et al., 1987; Ellis, 1989). Uno degli elementi che i due teorici condividevano era l’idea che le emozioni fossero il prodotto di diverse valutazioni del mondo (cognizioni).

Ecco che allora anche eventi stressanti come la fine di una relazione sentimentale possono essere letti come “finalmente riprendo in mano la mia vita” o come “resterò solo”. Due valutazioni cognitive differenti che danno adito a due emozioni differenti. La teorizzazione di Beck ed Ellis non poteva che essere condizionata dal contesto storico-scientifico in cui si stava sviluppando. Un nuovo pargolo, il cognitivismo, aveva bisogno di sgomitare in mezzo ai due colossi allora imperanti: la psicoanalisi e il comportamentismo. Quest’azione di sgomitamento portò inevitabilmente queste prime teorie cognitive a estremizzarsi su alcuni punti. Quali? Beh, quelli che maggiormente marcavano il confine con i due oppositori. Ecco che:

1.Primo punto (anticomportamentista): della mente si può parlare, non siamo davanti a una scatola nera anzi è proprio nella mente dell’individuo che si riscontra quel mediatore che produce differenti emozioni soggettive a fronte delle stesse esperienze.

2.Secondo punto (antipsicoanalista): tutto questo processo è totalmente cosciente, i processi impliciti inconsapevoli non vengono (inizialmente) tradotti all’interno di queste nuove cornici teoriche, figuriamoci il concetto di inconscio.

Psicoterapia nucleare e psicoterapia esistenziale
Articolo consigliato: “Psicoterapia nucleare e psicoterapia esistenziale”

A onor del vero questa spinta estremista iniziale si è decisamente moderata negli anni, anche da parte degli stessi autori. Tuttavia ha marchiato la nascita del cognitivismo e ha fatto in tempo a generare qualche confusione nelle generazioni successive. Questa confusione, chiamiamolo pure limite, può essere identificata nella sovrapposizione quasi totale tra cognizione e coscienza (“le cognizioni sono solo coscienti”).

 

Teniamo questa piccola deformazione nel cassetto del corredo genetico del cognitivismo e vediamo il suo impatto lungo la sua storia evolutiva. Dopo una prima età dell’oro in cui il cognitivismo cresceva con grandi successi, vincendo numerose sfide cliniche, eccolo incocciare nei primi intoppi: i cosiddetti “pazienti difficili” (Roth & Fonagy, 2004). Tra i vari punti critici che sollevava l’incontro con simili pazienti, uno di quelli che faceva storcere il naso ai cognitivisti era proprio lo strano rapporto tra pensieri ed emozioni. In particolare la legge del paradigma cognitivo sembrava non reggere, le emozioni apparivano indipendenti dalle valutazioni coscienti. Non solo, ma non si riusciva nemmeno a identificare la presenza di un pensiero o di una valutazione, ma l’emozione poteva giungere in modo inspiegabile alla mente dell’individuo.

Immagino la brama di alcuni e l’entusiasmo di alti nell’aver colto la falla nel sistema dei grandi padri fondatori. E la conseguente aspirazione a fondare un nuovo movimento, l’alzata degli stendardi dell’emozione e il radunarsi di aspiranti teorici, talvolta passionali talvolta semplicemente individualisti. Nacque il tempo della rivoluzione teorica e del ribaltamento emotivo. Da troppo tempo nelle mani di freddi e biechi sostenitori del razionalismo, si doveva finalmente riconoscere la vena romantica e sentimentale dell’essere umano e recuperare il ruolo principe delle emozioni come nucleo, unico e solo, della lettura e del trattamento dei disturbi psicologici!

Ed ecco, com’è affascinante il comportamento umano, che quella necessità di mettersi totalmente dalla parte della coscienza ha generato negli anni la frattura su cui si è instaurata la rivoluzione emotiva. Ma guardiamola bene questa rivoluzione emotiva. Vedete, tutti i rivoluzionari emotivi hanno avuto bisogno di sgomitare oltre il padrone e gigante cognitivo-comportamentale. E ancora una volta, questo sgomitare per raggiungere certi riflettori porta a essere un po’ troppo estremisti e a dimenticar dei pezzi. I rivoluzionari emotivi avevano quindi bisogno di prendere le distanze dal cognitivismo e lo fecero lungo due assi:

  • Le emozioni possono essere precognitive, la valutazione cognitiva è solo una valutazione a posteriori.
  • Alcune emozioni nascono da vulnerabilità sviluppatesi durante la storia evolutiva dell’individuo (sotto forma di stili genitoriali dannosi o esperienze traumatiche), fuori cioè dalla sua coscienza.

Due cardini del cognitivismo messi sotto attacco: (1) il ruolo delle cognizioni sulle emozioni, (2) l’importanza del funzionamento attuale su quello storico-evolutivo.

Ma a guardar bene, cosa è rimasto inalterato in questa terza ondata? L’efficacia non mostra differenze sostanziali, anche se qualche innovativo spunto è stato raggiunto (Ost, 2008). Ma soprattutto non cambia la sovrapposizione tra cognizione e coscienza. Nonostante la percezione del malessere si inserisce nella coscienza e talvolta nemmeno in modo chiaro, ciò non significa che non siano stati precedentemente attivati processi cognitivi. Come può non esserci un diverso processo percettivo, attentivo, valutativo anche se non necessariamente cosciente, precursore dell’attivazione fisiologica di varia natura? Ma il fatto che non siano coscienti, significa che non sussistono?

Forse la strada della futura integrazione passa attraverso uno studio scientifico più approfondito su come cambia l’espressione fenotipica del rapporto tra cognizioni ed emozioni lungo il continuum di diversi gradi di coscienza, piuttosto che una lotta per focalizzare l’intervento su uno dei due aspetti. L’inserimento della variabile “coscienza”nel rapporto tra cognizioni ed emozioni potrebbe aprire uno spiraglio di alleanza tra le parti di questa diatriba e forse fittizio dilemma. Forse così potremmo smettere di assistere al proliferare costante di nuove teorie della mente (talvolta più filosofiche che scientifiche) che funzionano solo per una porzione di individui e che appaiono soddisfare soprattutto i bisogni di chi le promuove.

Ovvio che da ricercatore la domanda malinconica è: ma la scienza può muoversi secondo questi circuiti distorti e parziali fatti del bisogno umano di contrapporsi e rifondarsi? Beh, siamo uomini quindi evidentemente può, ma anche qui introdurre la nostra coscienza può aiutarci nel buon discernimento.

 

BIBLIOGRAFIA:

  • Beck, A.T.; Rush, J.A., Shaw, B.F. & Emery, G. (1987) Terapia Cognitiva della Depressione. Torino: Bollati Boringhieri
  • Ellis, A. (1989). Ragione ed emozione in psicoterapia. Roma: Astrolabio
  • Ost. L.G. (2008). Efficacy of the third wave of behavioral terapie: A systematic review and meta-analysis. Behavior Research and Therapy, 46(3), 296-321. (http://www.sciencedirect.com/science/article/pii/S000579670700246X)
  • Roth, A. & FonagyP. (2004). What Works for Whom?. Guildford Publisher

 

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La felicità? E’ un piacere semplice. – parte 2

Simona Meroni.

La felicità? E' una cosa semplice. Parte 2 - Immagine: © Kudryashka - Fotolia.comUn approccio differente, rispetto alla visione di Seligman (esposta nella parte 1 dell’articolo), ma altrettanto solido, nella ricerca della felicità è quello di Daniel Kahneman, psicologo premio Nobel per l’Economia nel 2002.

Kahneman, attraverso uno studio rigoroso e scientifico, dimostra che i giudizi alla base delle decisioni e del comportamento umano non sono guidati da processi razionali né dall’applicazione di norme statistiche, ma piuttosto sono il frutto di ragionamenti intuitivi, guidati da “scorciatoie cognitive” (euristiche) che spesso facilitano le scelte più appropriate, ma possono anche condurre ad errori sistematici. Secondo Kahneman i requisiti di coerenza della così detta razionalità economica non possono essere soddisfatti dalla mente umana. Ciò non significa un rifiuto radicale della razionalità umana, bensì una razionalità limitata, che combina elementi intuitivi e riflessivi.

Gli studi di Kahneman procedono in due direzioni precise; la prima si concentra su come le persone formulano decisioni in caso di eventi incerti. I giudizi umani si basano su un numero limitato di euristiche che riducono la complessità dei compiti ad operazioni semplici (ad esempio, l’euristica della disponibilità si riferisce alla tendenza a giudicare la probabilità di eventi sulla base degli esempi che sono presenti nella memoria. Poiché il ricordo è influenzato da fattori diversi, non sempre ci fornisce un campione rappresentativo).

La Felicità? E' una cosa semplice - Immagine: © chesterF - Fotolia.com
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Il secondo filone di ricerca prende in esame l’attitudine a rischiare, o meno, in determinate situazioni. Gli individui mostrano sperimentalmente una sensibilità più spiccata per le perdite che per i guadagni; ciò significa che una formulazione che pone l’accento sulle perdite derivanti da un’opzione, rende quell’opzione meno attraente per l’essere umano.
L’evidenza empirica di Kahneman suggerisce dunque che la razionalità umana non è governata dalla massimizzazione dei benefici e minimizzazione dei rischi, bensì dall’impatto di fattori affettivo-emotivi sul sistema cognitivo.

Questi due filoni di ricerca e di riflessione convergono nella definizione di Kahneman di benessere e felicità.

Lo psicologo israeliano riprende le ricerche di Easterlin, che indagava il costrutto di felicità ponendo ai soggetti intervistati una semplice domanda: «Presa la tua vita nel suo insieme, come stanno andando le cose? Ti consideri molto felice, abbastanza felice o poco felice?». Dai risultati di Kahneman sappiamo però che la mente umana può incappare in diversi errori di giudizio e valutazione: la memoria può essere tratta in inganno da processi mentali fallaci, influenzata da manipolazioni dello stato d’animo, da elementi contestuali, dalla cultura, etc.

Kahneman, nelle sue ricerche, quindi, richiede alle persone un resoconto momento-per-momento e non globale della propria esperienza, evitando così una ricostruzione a posteriori e utilizzando gli elementi forniti “in diretta”: «La tua esperienza è positiva o no in questo momento?».

«Per neutralizzare l’effetto delle distorsioni cognitive presenti nell’autovalutazione delle persone, dobbiamo disporre di misure che offrano le seguenti caratteristiche: a) devono corrispondere il più direttamente possibile alle reali esperienze edoniche ed emozionali; b) devono attribuire peso appropriato alla durata di varie porzioni di vita (come lavoro, divertimenti, ecc.); c) devono essere influenzati soltanto in misura minima da contesto e pietre di paragone».

La percezione della felicità, dunque, è determinata da un insieme di fattori, tra cui:

  • Il contesto: è in grado di influenzare le nostre decisioni, allontanandoci da ciò che sceglieremmo in completa autonomia. Alzi la mano chi, dopo un bombardamento incessante di spot pubblicitari, non ha mai ceduto all’acquisto.
  • Novità e imprevisti: una piacevole cena con gli amici può essere guastata da un conto inaspettatamente salato, oppure – viceversa – la temuta visita dal dentista può essere rallegrata da una telefonata che ci annuncia la vincita di un viaggio.
  • Attenzione: dona rilievo e importanza a qualcosa, che sia un oggetto o una circostanza. Ecco perché molte persone desiderano ardentemente qualcosa e poi, una volta ottenuta, scoprono di non essere più felici di prima;
  • Loss aversion: gli individui hanno paura di perdere qualcosa in loro possesso, più di quanto gioiscano a guadagnare qualcosa.

Si deduce, dunque, che esistono limiti cognitivi nel pensare e rappresentare la propria felicità e che la nostra stessa mente ci indirizza alla ricerca di una felicità ingannevole.

Tra gli “errori mentali” più comuni, troviamo la difficoltà dell’essere umano a concepire la misura del tempo e la rapidità con cui ci abituiamo alle nuove situazioni (o ai nuovi oggetti). Fare grandi sacrifici ed enormi sforzi per aumentare il proprio reddito o per acquistare un bene materiale, nel tempo, aumenta poco o nulla la nostra felicità.

La felicità, come premesso, è composta da dimensioni elementari (la qualità dell’esperienza che si sta vivendo, positiva o negativa che sia), aspettative future e ricordi. Molto spesso siamo vittime di un “ingolosimento” momentaneo, che ci porta ad inseguire paradisi di breve durata (ad esempio: l’ultimo gadget tecnologico, un’automobile nuova).

Le ricerche di Kahneman dimostrano che lo stato affettivo esperito nei resoconti dei soggetti intervistati, dipende dalle attività in cui sono coinvolti.

In generale, il lavoro ottiene l’indice di gradimento più basso, così come i lavori domestici e lo shopping (!). Le attività relazionali e il tempo libero sono invece in testa alla classifica: socializzare con gli amici, rilassarsi, cenare e pranzare, fare attività fisica ma anche spirituale come il pregare.

Il tempo con gli amici è quello che offre un maggiore contributo in termini di felicità, seguito da quello passato in solitudine. Si nota anche che alcune circostanze di vita e di lavoro hanno differenti effetti sulla valutazione; ad esempio, donne divorziate hanno segnalato un livello di soddisfazione generale inferiore a quello segnalato dalla donne sposate. Grazie al metodo della ricostruzione giornaliera, gli effetti di alcune condizioni (matrimonio, divorzio, ma anche la qualità del governo), risultano incidere sulla valutazione della propria felicità, portandoci dunque una volta di più a riflettere sugli indicatori del benessere.

E’ importante tenere presente che i risultati sono frutto di una media, e ciò non significa che non esistano persone infelici del proprio matrimonio oppure altre che non traggono soddisfazione dalla propria carriera.

Un altro strumento utile e diffuso, purtroppo o per fortuna, per raggiungere livelli soddisfacenti di felicità, sono i così detti manuali di auto-aiuto. Insomma ognuno sembra avere una (o più) risposte alla spinosa questione.

I proverbi, del resto, confermano i risultati della ricerca da cui siamo partiti e che sembra confermata anche dagli studi di Seligman e Kahneman: “La felicità non si può comperare”; “I soldi non danno la felicità”; “Anche i ricchi piangono” etc.

Riassumendo, per essere felici, secondo Howell e il suo team di ricerca, quello che conta sembrano essere le nostre esperienze personali, i nostri vissuti, più che gli oggetti in sé.
Potremmo allora azzardarci a sostenere che Il discorso del Capitalista di Jacques Lacan declinato ai giorni nostri possa essere valido in parte, o in toto?

Ossia: nonostante la nostra società ci riempia di oggetti (anche non richiesti), ci bombardi di messaggi pubblicitari, di slogan, di imperativi, la nostra felicità (e da qui, il nostro benessere) possono derivare non dagli oggetti onnipresenti, ma dalla nostra capacità di rimanere Soggetti con la S maiuscola?
E ancora: possiamo forse affermare che alcuni disagi contemporanei (penso ai Disturbi Alimentari, alle Dipendenze, agli Attacchi di Panico) derivino proprio da questo “ingozzamento”, che ci fa soffocare, che fa smarrire la strada, che riempie un vuoto che in realtà dovremmo sentire, senza “tappare” con cibo, alcol, o paura? Un vuoto che ci consenta di percepire l’altro, ma anche noi stessi?

Un invito, forse, a riscoprire le nostre passioni, senza vergognarci della nostra felicità, per quanto semplice e disarmante possa essere.

 

BIBLIOGRAFIA:

  • Gray R., Jamieson A., Happiness? It’s just a simple pleasure, The Telegraph Group Limited, London, 2009.
  • Howell R., Rodzon K., How happy can you be? The Journal of Positive Psichology, 2009 (in press). Available at: http://bss.sfsu.edu/rhowell/Publications.htm.
  • Kahneman D., Economia della felicità, Il Sole 24 Ore Libri, 2007.
  • Kahneman D., Diener E., Diener E., Well-being: the Foundations of Hedonic Psychology. Russell Sage Foundation Publications, 1999.
  • Seligman, M., Imparare L’Ottimismo, Free Press, New York, 1998.

 

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Memory week: partecipa all’esperimento on-line di Cambridge

– Rassegna Stampa –

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze PsicologicheCuriosità e opportunità dalla Memory Week lanciata dal Guardian: i ricercatori Yasemin Yazar and Jon Simonsare dell’Università di Cambridge offrono ai lettori la possibilità di partecipare a un esperimento on-line, finalizzato ad indagare le caratteristiche della memoria a lungo termine e in particolare della memoria episodica – la memoria di eventi ed episodi del nostro passato che sono parte della nostra autobiografia.Viene richiesto di completare due parti dello studio e di fornire alcune informazioni anonime.

Al termine, i soggetti sperimentali che si saranno auto-reclutati riceveranno un punteggio indicatore delle proprie abilità mnestiche e una sorta di classifica rispetto agli altri partecipanti. Andate tranquilli, la ricerca è stata approvata da University of Cambridge Psychology Research Ethics Committee.

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L’estetica della crudeltà in Out di Roee Rosen

Giuseppe Civitarese, Sara Boffito.

“Out” (Tse). Mediometraggio dell’artista israeliano Roee Rosen, presso la Galleria Riccardo Crespi di Milano.

L’estetica della crudeltà in Out di Roee RosenDue donne commentano la loro esperienza (vissuta realmente) di aderenti a gruppi dediti a pratiche di BDSM (Bondage-Domination-Sadism-Masochism) in Israele. Entrambe rievocano aspetti dolorosi della loro storia di vita, passano poi, quasi inavvertitamente, a temi di politica e illustrano il proprio credo ideologico: l’una di femminista e pacifista (Yoana, 32 anni), l’altra militante di destra cresciuta in una famiglia razzista (Ela, 25 anni).

La società è costruita sull’oppressione e sul potere, spiega Yoana. Sono questi i mattoni anche delle nostre fantasie, tutti posti in cui regna il Super-Io. Non esistono legami affettivi o di sesso senza giochi di potere. La trasgressione del BDSM li fa emergere. La perdita di controllo è liberatoria. La donna aggiunge poi che l’esercizio controllato e condiviso di una violenza erotizzata, oltre che rappresentare per entrambe la via per raggiungere un senso di autenticità e per stanare i demoni che ciascuno ha in corpo, può essere usato ritualmente anche per esorcizzarli. C’è però una cautela da rispettare. Non puoi avvicinarti a un esorcismo solo con sentimenti negativi. Devi identificarti col demone, provare simpatia per lui. Solo così puoi capire i trucchi che usa e sedurlo ad abbandonare il corpo.

Nella scena successiva assistiamo al rituale esorcistico. Yoana, dall’aria androgina e in abiti maschili, ha il ruolo della dominatrice, Ela della sottomessa. La vediamo infatti in piedi, nuda, le mani fissate a manette ancorate in alto al soffitto. Il demone che abita nel suo corpo è la violenza ideologica nella figura di Avigdor Lieberman, attuale ministro israeliano alla Difesa, un politico di destra che vorrebbe cacciare tutti i palestinesi da Isralele. Yoana prova per lui una certa ‘simpatia’ perché almeno è uno che, per terribile che sia, osa dire quello che pensa. Non si nasconde, come fanno invece ‘altri assassini e razzisti’.

Per estrarlo dal corpo di Ela, Yoana le assesta dei colpi sulle natiche incrementando gradualmente la forza. La ragazza non geme, la sua voce assume invece le tonalità gutturali del demone Lieberman e le frasi che pronuncia sono citazioni da suoi discorsi pubblici.

Nella terza e ultima scena un attore suona la fisarmonica traendone sonorità klezmer e un altro canta in russo con grande bravura una struggente canzone il cui testo è la Lettera alla madre di Esenin.

Autore del video, intitolato Out (Tse) è l’israeliano Roee Rosen. Nel 2010 l’opera è stata premiata alla 67esima Mostra del festival del cinema a Venezia, nella sezione dei mediometraggi. Che abbia riscosso successo, non stupisce. Aspro e duro, il video di Rosen non punta certo a suscitare superficiali emozioni estetiche basate su facili effetti, ma produce una forte impressione.

Con Out abbiamo il problema di come sottrarci a trovare immediatamente dei significati a quello che vediamo. Infatti siamo sedotti tanto a prendere posizioni “corrette” di fronte alla violenza, alla perversione, all’ideologia, quanto soprattutto a disfare il complesso intreccio di temi messo a punto astutamente da Rosen. Da questo punto di vista il video è una trappola perfetta. Siamo ammaliati, insomma, e sospinti a esercitare virtualmente una speculare violenza, che sarà ovviamente una violenza dell’interpretazione; a rispondere per esempio a domande come: chi dirige il gioco nelle relazioni perverse? chi opprime chi? qual è il nesso tra le politiche familiari e quelle dei partiti e degli Stati? qual è il ruolo della pulsione di morte in tutto ciò? quando l’aggressività diventa odio? È ovvio infatti che come spettatori è difficile provare simpatia per le pratiche BDSM, o per Lieberman, o in generale per i demoni. Questa stessa ovvietà però ci insospettisce e ci induce a essere più perspicaci.

Rosen gioca abilmente con l’ambiguità per farci scoprire che ospitiamo in noi stessi il demone di un giudizio virtualmente violento e ideologico, in qualsivoglia direzione lo rivolgiamo. Raggiunge lo scopo sfumando la linea che separa maschile e femminile, vittima e carnefice, autore e spettatore, piacere e dolore, verità e menzogna. Mostrarci Out è il suo modo di esorcizzarci. A quel punto, se l’esorcismo riesce, una volta liberati del mostro in cui abbiamo accettato di farci trasformare per il solo fatto di esserci seduti a guardare il video, non ci resta che fare il lutto della perdita della grazia che – scopriamo – non abbiamo mai posseduto.

Com’è ovvio, ciò non vuol dire certo che dobbiamo rinunciare a giudicare, ma che semmai il nostro giudizio deve essere più maturo e che non possiamo pensarci mai come puri e purificati dall’odio. Vuol dire anche che la cosa più difficile da fare è sopportare la persecutorietà del non sapere. Solo se passiamo per questa crisi emotiva possiamo sperare di vedere le cose in modo più nitido. Per la prova cui ci sottopone, l’estetica di Roseen si può definire pertanto un’estetica della crudeltà, rivolta a educarci a una certa capacità negativa. È la capacità, che in una lettera del 1817 Keats riconosce ai poeti, di accogliere in sé più cose possibili: il saper «stare nelle incertezze, nei misteri, nei dubbi, senza essere impazienti di pervenire a fatti e a ragioni».

Di fronte a un’opera del genere la critica psicoanalitica potrebbe prendere due strade. La prima rimanderebbe al concetto di sublimazione: un impulso proibito è sperimentato dallo spettatore voyeur in un contesto permesso e approvato e in una forma trasformata; la seconda metterebbe in evidenza la funzione di contenimento psichico dell’orrore cui l’arte assolve grazie alle sue qualità formali. A nostro avviso i due punti di vista non si escludono, ma il secondo contiene il primo, e pertanto è da ritenersi primario. Forse non è tanto importante gratificare la pulsione di per sé (placare l’Es) – l’aspetto che di solito è stato enfatizzato – quanto piuttosto rinsaldare la cornice di sicurezza in cui ciò può realizzarsi (rafforzare l’Io). In entrambi i casi è l’ordine simbolico come espressione dei legami intersoggettivi ciò che permette di assegnare un significato personale all’esperienza.

Rosen ci dà un’indicazione precisa in tal senso. Sul finale di Out arriva la musica. Dai livelli più differenziati e astratti della mente, riflessi nei discorsi della psicologia, della sociologia e della politica (simbolici), arretriamo verso quelli più musicali, corporei, affettivi (semiotici); ai livelli che sono in gioco alla nascita, quando il bambino non ha ancora né linguaggio né un Io. La lettera alla madre è lo strazio per la sua ineliminabile ambiguità e insieme, come forma poetica, l’illusione del recupero del suo corpo; con le parole di Freud: della nostra prima patria e dimora.

C’è un ambito particolare dove questa capacità di contenimento ‘sensoriale’ e una certa rinuncia all’interpretazione si fanno più pregnanti: nelle relazioni di cura. È lì che la violenza dell’interpretazione è ancora più insidiosa. Rosen suggerisce l’analogia in modo palese. In Out mette a tema, in modo sottile e coinvolgente, la questione del rapporto tra la Storia e gli aspetti più personali e intimi della nostra vita. Ci mostra con che brutalità i personaggi della Storia possono entrare nel mondo interno e lì giocare ruoli estremamente violenti. I frammenti dei discorsi di Lieberman, che Rosen fa uscire dalla bocca di Yoana, sono pronunciati in parte con la voce roboante e distorta del demone, e in parte con la voce della ragazza, una voce quasi di bambina, più autentica, che sembra esprimere, attraverso le parole del ministro della difesa, anche il proprio dramma personale: “Nessuno mi ama”, “Nessuno mi ringrazia, nessuno mi apprezza”.

Ela e Yoana vivono dunque la scena di BDSM letteralmente come un setting. Yoana spiega che quel che prova è “un senso di grande libertà e piacere nel rinunciare al controllo in un posto sicuro e protetto”. Il fotogramma in cui Ela racconta la propria storia sembra – per un attimo – l’inizio di una prima seduta di analisi. La donna ci parla della propria perversione, di come è nata e di come domini ormai la sua vita. È sempre stato così per lei. Ci dice di volersene liberare ma al riguardo è ambivalente: “Credo che persone che dicono che Lieberman parli attraverso di me esagerino” ma poi continua “sento che è una parte di me, le sue opinioni sono maturate dentro di me, come un bambino che cresce nella pancia della mamma […] Sarebbe come un aborto, raschiare via delle parti di me”. E Yoana, nella veste dell’esorcista, capisce che, per vincere il demone, è necessario provare anche a guardarlo con uno sguardo benevolo, capire le sue ragioni, per quanto le possano sembrare estranee. Può farlo perché anche lei ha avuto una storia difficile – lo ha raccontato all’inizio – che l’ha portata a scegliere quel genere di pratiche sessuali; con Frost potremmo dire che “ha conosciuto la notte”.

Non vogliamo naturalmente paragonare l’analisi a una scena di BDSM, ma riflettere sul fatto che da un lato una certa ‘violenza’ dell’interpretazione è inevitabile e che dall’altro il problema è come esserne consapevoli per non trasformarla in violenza pura e semplice. È questo che dovremmo tenere a mente anche in analisi quando personaggi che compaiono nel discorso del paziente e che si riferiscono a fatti di cronaca, della politica o della Storia, ci risultano particolarmente odiosi, magari perché appartenenti a una posizione sociale o politica diversa dalla nostra. Oppure quando essi stessi hanno commesso atti che sfidano le nostre capacità di immedesimazione perché ripugnanti. Dovremmo restare aperti al discorso dell’inconscio e chiederci chi sta davvero parlando e di cosa.

Non a caso James Grotstein, il famoso psicoanalista americano, descrive il modello del “divenire” – secondo Bion, l’unica trasformazione autenticamente analitica – come un esorcismo tramite il quale i demoni dell’analizzando si trasferiscono all’analista. Il processo si può tradurre benissimo nel linguaggio della psicologia. Secondo lui, il termine esorcismo è il più adeguato a rendere conto dell’importanza centrale dell’identificazione proiettiva (o transidentificazione proiettiva, se vogliamo accentuarne l’aspetto intersoggettivo) nella psicoanalisi kleiniano-bioniana: il meccanismo che descrive come avviene la comunicazione da inconscio a inconscio. L’analista si libera dei demoni che ha assorbito dal paziente, dopo essere riuscito a contenerli dentro di sé e a trasformarli.

Ultimato il rito sado-masochistico, Ela è sdraiata sul letto, stremata; Yoana si ritira autisticamente a guardare uno schermo – se mai rimanessero dei dubbi sull’identificazione in cui lo spettatore è risucchiato -, ma entrambe sono immerse in una musica commovente. L’efficacia dell’esorcismo, come in generale nella cura e nell’arte, dipende da questo, dalla capacità di commuovere, di far sentire all’unisono. La struggente nostalgia che pervade la canzone segna il momento dell’integrazione dell’odio con l’amore che subentra al sentimento di essere perseguitati.

Perché una mente possa crescere e svilupparsi, ci ha insegnato Winnicott, l’amore spietato, istintuale, del bambino deve incontrare una madre capace di provare odio e di contenerlo, per evitare così di agirlo. Si potrebbe dire che stia in questo il senso ultimo dell’esorcismo. L’artista creativo, annota in una delle sue fulminanti intuizioni, è spietato allo stesso modo del bambino. Solo così può permetterci di legare l’odio con l’amore e di espandere la nostra umanità. La crudeltà nell’arte è necessaria perché per sentirci toccati dall’amore dobbiamo sentirci toccati anche dall’odio.

La scelta del partner

 

La Scelta del Partner. Immagine: © Christian Maurer - Fotolia.com - Quando due persone si incontrano ognuna porta con sé un bagaglio di modelli e abitudini relazionali, di “teorie” e aspettative, di bisogni da soddisfare, di domande alle quali rispondere per trovare una via d’uscita a difficoltà sentimentali precedenti,  fantasie e bisogni evolutivi, o regressivi, spesso legati a ruoli e funzioni assunte all’interno della famiglia di origine o a precedenti rapporti di coppia.

Le persone quindi vivono le relazioni sentimentali non solo sulla base degli aspetti “pragmatici” e coscienti della relazione con l’altro, ma anche in funzione delle rappresentazioni interne, i modelli, che hanno costruito nel corso dell’esistenza all’interno dei rapporti più significativi.

Ma qual è il meccanismo attraverso il quale avviene la scelta di una persona piuttosto che di un’altra? Cosa del proprio bagaglio personale peserà maggiormente nell’effettuare la scelta?

Gli aspetti implicati nel meccanismo di scelta sono molteplici:

L’altro, il partner, l’amato, è sempre, in parte, usato narcisisticamente come un contenitore per alcune parti di noi, cioè in lui proiettiamo uno o più aspetti complementari di noi. Questo meccanismo può investire parti idealizzate del sé, come per esempio nell’innamoramento, o parti  indesiderabili, angoscianti e difficili da gestire.

Questo processo può dimostrarsi evolutivo, e favorire l’integrazione, quando il rapporto con il partner permette di riconoscere e bonificare le parti di noi che abbiamo fino a quel momento respinto, diminuendo anche la proiezione di aspetti scissi; o, al contrario, questo meccanismo può andare nella direzione di un uso difensivo dell’altro, per cui la relazione con lui diventa il mezzo per negare la propria realtà psichica, ignorando e misconoscendo le parti del sé che sono state risposte nel partner, e mantenendo allo stesso tempo anche un controllo sugli aspetti angoscianti e ingestibili del sé.

La scelta del partner, da questo punto di vista, è tutt’altro che casuale, infatti il prescelto deve rappresentare il contenitore “adatto” alle proiezioni e questo deve avvenire per entrambi i membri della coppia: si creano così contesti interattivi circolari all’interno dei quali entrambi i coniugi si trovano ad agire e pensare inconsapevolmente secondo modalità analoghe o contrarie a quelle indotte nell’altro dalle proprie proiezioni. Nel corso di relazioni di coppia significative è possibile osservare questo adattamento reciproco che può, come già detto, essere dinamico, cioè evolutivo e facilitante l’integrazione, o rigido e difensivo. Integrare significa poter riprendere su di sé tanto le parti buone quanto quelle inaccessibili, ma anche saper riconoscere la separatezza e la diversità dell’altro rispetto a noi. In questo senso diversi autori, primo tra tutti Dicks, si riferiscono al matrimonio come a una relazione terapeutica naturale, cioè a un terreno comune di scambio all’interno del quale è possibile trovare un contenitore idoneo all’elaborazione ed integrazione dei nuclei non risolti di ognuno di noi. In quest’ottica i lutti e le separazioni sono esperienze molto difficili da affrontare perchè comportano la perdita, oltre che della persona reale, anche di aspetti del proprio sé, del senso di identità ed equilibrio interno che è stato affidato all’essere in coppia.

– un altro aspetto coinvolto nella scelta del partner ha a che fare con come ci rappresentiamo il “noi”: questa rappresentazione interna della relazione con l’altro permette di discriminare affettivamente ciò che può essere condiviso da ciò che non lo è. Il tema della condivisione rimanda automaticamente anche al suo contrario, cioè al senso di esclusione, e a come sono stati affrontati non solo i momenti di non incontro con le figure significative, ma anche quelli di esclusione all’interno di dinamiche triangolari, quelle edipiche innanzi tutto, ma anche quelle che coinvolgono i fratelli in alleanze e coalizioni, sia orizzontali, che verticali.

Ultimo elemento, ma non meno importante degli altri, è il modello di coppia che ci portiamo dentro, così come l’abbiamo interiorizzato sulla base della nostra esperienza con i  genitori. Il progressivo sovrapporsi di configurazioni di coppia nei vari periodi evolutivi (dall’idealizzazione dei genitori nella prima infanzia, alla coppia che proibisce del periodo edipico, fino alla coppia “smembrata” dallo spirito critico e dalla contestazione adolescenziale e “ricomposta” con l’apporto di altri modelli anche esterni alla famiglia) subisce una progressiva integrazione che nell’adulto raggiunge la rappresentazione interiorizzata di coppia. Questo schema definisce ciò che ci aspettiamo dall’ “essere insieme” e influenza una porzione rilevante della vita affettiva perchè può o meno favorire la capacità di instaurare rapporti di coppia nella vita adulta, nel senso che questi saranno “usati” per confermare o smentire le attese sulla relazione di coppia. Se da un lato infatti questo schema orienta la qualità delle relazioni interpersonali e con il tempo subisce un progressivo accomodamento alla realtà, dall’altro è possibile che permangano aspetti irrisolti che non si piegano all’esame di realtà.

– Un altro fattore importante che influenza la scelta del partner è il mito, e il relativo mandato, familiare.

Il mito familiare è un insieme di rappresentazioni, valori e credenze condivise concernenti l’immagine che i membri di una famiglia hanno di sé stessi e dei ruoli reciproci all’interno della famiglia stessa. Per comprenderlo bisogna quindi concentrarsi sui contenuti simbolici e ideativo-affettivi che appartengono a più generazioni di individui. Ogni individuo infatti trova nell’universo di valori familiari e nei suoi miti una peculiare collocazione, funzionale alla soddisfazione dei suoi bisogni primari e al suo equilibrio psico-affettivo. Il mito familiare da un lato ha una funzione omeostatica perché, assicurando continuità all’identità dei suoi membri e alle relazioni reciproche, funziona come mezzo di resistenza al cambiamento; d’altro canto con il tempo può subire delle modificazioni importanti e questo spesso avviene in corrispondenza delle tappe evolutive, in cui è richiesta una modificazione funzionale dei rapporti all’interno del sistema. È’ intuitivo quindi come anche il mito familiare, e il mandato che lo veicola, abbiano una funzione importante nel determinare la scelta del partner. Quando il mito familiare prevale sui bisogni individuali, la spinta a realizzarlo è tale da sostenere la convinzione che esso esprima il tipo di legame più idoneo a soddisfare le esigenze individuali; in altri casi si può invece assistere a una ribellione, più o meno cosciente, al mandato e a una conseguente scelta del partner con caratteristiche opposte a quelle previste. In entrambi i casi è comune che le aspettative sul piano affettivo rimangano insoddisfatte. Comunque quanto più il mito sarà ricco e articolato tanto maggiori saranno le possibilità di scelta e sviluppo individuale, al contrario tanto più una componente prevarrà sulle altre quanto minori saranno le possibilità che un’ampia gamma di bisogni venga considerata e soddisfatta all’interno della relazione di coppia.

Insomma la scelta del partner, anche quella apparentemente più spontanea, acquista un senso solo alla luce di una più attenta analisi degli elementi che l’hanno determinata. In particolare il mito, in virtù della sua matrice prettamente relazionale, sembra fare da cornice alla costruzione delle rappresentazioni interne individuali.

 

BIBLIOGRAFIA:

  • Angelo C (1999) “La scelta del partner”, in “La crisi della coppia”, Raffaello Cortina, Milano.
  • Dicks, H. V. (1967) Marital Tensions. Trad. it. Tensioni coniugali. Studi clinici per una teoria psicologica dell’interazione. Roma: Borla 1992.
  • Norsa D, Zavattini G C (1997) “Intimità e collusione. Teoria e tecnica della psicoterapia psicoanalitica di coppia”, Ragffaello Cortina Editore, Milano

 

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Dio e Monsieur Divan (2011) di Stefano Jacini

Il 2011, ci ha regalato un bel libro. È uscito per i tipi di Bompiani “Dio e Monsieur Divan” di Stefano Jacini, intrigante giallo teologico che per una buona metà oscilla sapientemente indeciso tra le cospirazioni intellettuali di Umberto Eco e i complotti d’azione di Dan Brown e che infine inclina per il primo, tradendo la sua preferenza per il colto stile europeo.

Il romanzo scorre bene come un vino novello e lascia in gola un piacevole gusto. Il suo maggiore punto di forza è il dialogo spiritoso e brillante, scritto bene, ricco di faccette e di emoticon quasi fosse un social network ambientato nel passato.

Naturalmente non rivelo nulla della trama, che lascio alla scoperta del lettore. Accennerò solo che in essa si incrociano e talvolta si combattono sacerdoti inclini al diabolismo illuminista, demi-mondaine dedite alla caccia di amanti facoltosi da mungere, credenti desiderosi di edificare santuari ai loro santi patroni e naturalmente Dio e la Chiesa cattolica, che -come in ogni trama che si rispetti- ha tradito il suo divino mandato e ha sposato il fascino del potere.

Insomma, Dio e Monsieur Divan è un racconto filosofico che vuole riflettere sul bene e sul male, che mescola sottilmente toni alti e bassi e che segue una sua brillantezza di stile tutta post-moderna.

Ma è anche una riflessione critica su come il pensiero laico non riesca sempre a liberarsi di una sua curiosa ossessione per Dio e per il cattolicesimo, irrinunciabile termine di confronto malefico. Tanto da far sospettare che oggi, per riuscire a produrre dei personaggi interessanti e sottratti al perbenismo moralistico di una laicità paradossalmente sempre più sessuofobica, occorra ricorrere a promiscui cardinali e teologi dalla doppia vita carnale e spirituale e dalla tripla morale. Se proprio occorre trovare un difetto in questa piacevolissima lettura, notiamo che forse i personaggi laici avrebbero tratto giovamento da una maggiore ambiguità e ricchezza di sfaccettature. Ma per fortuna ci pensano i preti del romanzo a spargere sale sulle ferite della modernità, scacciando gli eccessi zuccherini dei personaggi laici.

Dio e Monsieur Divan - Stefano Jacini - Bompiani 2011 -

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