Che sia effetto della crisi o del naturale sviluppo delle professioni, che sia una reazione allo stereotipo che vede lo psicologo affiancato al lettino o che sia semplicemente un riflesso della voglia di dare voce a una professione che non ha vita facile, in un recente articolo su Psychcentral vengono pubblicati sei lavori correlati alla psicologia davvero inusuali. Se bisogna inventarsi il lavoro, insomma, questi psicologi non mancano certo di iniziativa.
Psicologia al circo
La psicologa Madeleine Hallè lavora per il Cirque du Soleil aiutando i circensi ad adattarsi al loro lavoro, superare le paure e i timori da palcoscenico e offrendo sostegno per favorire il recupero fisico e mentale. Ha iniziato nel 1998 come consulente per poi passare come psicologa a tempo pieno quando il Cirque du Soleil ha deciso di inserire la figura dello psicologo come parte fissa del team. Madeleine Hallè ha un master in scienze dello sport e un Ph.D in psicologia dello sport ottenuto all’Università di Montreal.
La psicologia aerospaziale
Ebbene sì: psicologo aerospaziale. Lo psicologo Paul Eckert lavora come stratega internazionale e commerciale per la società Boeing, aiutando gli esperti a tradurre le loro idee in realtà. Per esempio, lavora come consulente in un team di ingegneri ed esperti commerciali per risolvere i problemi tecnici ed economici di creare capsule a misura d’uomo per portare sia gli astronauti della NASA che passeggeri civili nello spazio.
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La psicologia & Google
Sottolineando che il motore di ricerca Google è basato su un funzionamento messo a punto da psicologi, nel team vi lavora anche la psicologa Dawn Shaikh, la quale conduce studi per aiutare gli utenti a selezionare i font (caratteri) migliori per le loro pagine web. Partecipa a un progetto simile per sviluppare font pensati per l’industria dei paesi emergenti.
La psicologa regista
Chi dice che sogni diversi non si possano realizzare? La psicologa clinica Nadine Vaughan vede pazienti durante il giorno e scrive film, sceneggiature e romanzi la sera. Nadine ha una laurea in criminologia, un master in salute mentale e un dottorato in psicologia.
Psicologia del traffico
Campo che da diversi anni sta prendendo piede anche in Italia, la psicologia del traffico è un campo emergente che studia il comportamento delle persone al volante. Dwight Hennessy, professore associato al Buffalo State College ha pubblicato diversi lavori che spaziano dalla rabbia al volante all’impatto dello stress dei pendolari sul lavoro passando dal fenomeno del bere e poi mettersi alla guida. Ha conseguito il dottorato all’Università di York in psicologia sociale e della personalità.
La para-psicologia
Dean Radin, originariamente violinista, si è laureato in ingegneria elettronica per poi conseguire un Ph.D in psicologia. Dopo gli studi ha lavorato come ricercatore ai laboratori del AT&T Bell nel settore delle telecomunicazioni, iniziandosi a interessare dei fenomeni della mente. Attualmente si occupa degli studi controversi della lettura della mente e dello spostamento degli oggetti con la pura forza mentale.
I Social Network e le modificazioni indotte nel cervello. Pericolo o Evoluzione?
Recentemente, mi è capitato sottomano questo articolo in cui si lancia un allarme relativo al pericolo dell’utilizzo eccessivo di social network, quali Facebook (750 milioni di utenti in tutto il mondo) e Twitter da parte degli adolescenti. Secondo la Greenfield, autrice dell’articolo, i nuovi media sarebbero in grado di produrre profondi cambiamenti nel cervello dei giovani, riducendone l’attenzione, incoraggiando la gratificazione istantanea, rendendoli sempre più individualisti, azzerandone le relazioni umane reali, riducendo la loro empatia verso gli altri, facendoli regredire, in sostanza, a uno “stadio infantile”.
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Questa notizia incontra la preoccupazione dei genitori e degli insegnanti, che si lamentano del fatto che gli adolescenti di oggi non sono più capaci di comunicare né di concentrarsi, se deprivati dei dispositivi a cui tanto sono affezionati. Una schiera di persone competenti, tra cui neuroscienziati, psicologi, psichiatri, sono sempre più convinti che questi strumenti facciano più male che bene a chi li utilizza.
Infatti, la ripetuta esposizione ai nuovi media porterebbe un vero e proprio “ricablaggio” (rewiring) delle connessioni cerebrali, dando vita a nuove connessioni tra aree cerebrali diverse.
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Queste tecnologie è come se portassero ad una regressione a uno stadio infantile. Infatti, queste persone si comporterebbero come dei bambini piccoli, che sono attratti da rumori e luci brillanti, poiché dotati di scarse capacità attentive e intellettive (Greenfield, 2009). In questo caso, gli adulti/bambini sono attratti dalle medesime cose, alle quali, però, si aggiunge una forma più complessa di conoscenza: curiosità o esibizionismo, nel caso dei social network; agonismo virtuale, nel caso dei video games.
La Greenfield sottolinea che le persone malate di autismo, si trovano a loro agio utilizzando il computer.
Non è noto se l’aumento della prevalenza di autismo fra i giovani sia dovuta a una maggiore accortezza diagnostica da parte dei clinici o se tale fenomeno possa correlarsi in qualche modo all’incremento del tempo speso nelle relazioni virtuali tramite computer, ma indubbiamente è un’ipotesi da tenere in debita considerazione.
Gli psicologi, a loro volta, confermano che la tecnologia digitale sta cambiando il modo in cui ragioniamo. Emerge che i teenagers starebbero al computer per più di 7 ore e mezzo al giorno, ovvero più di quanto dura una giornata di scuola.
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La psicologa dell’educazione Jane Healy (2010), ad esempio, sostiene che i bambini minori di 7 anni non dovrebbero fare giochi al computer, in quanto stimolerebbero prevalentemente le regioni del cervello alla base della risposta di “attacco e fuga”, e non quelle del ragionamento, ottenendo in questo caso una forma di apprendimenti più primordiale e non sofisticata. Le conseguenze: una minore capacità di riflettere sui propri stati interni, meno o scarsa metacognizione, che induce a relazionarsi alla vita di tutti i giorni in maniera semplicistica, e nel momento in cui sopraggiunge una emozione non sanno esattamente dove collocarla e come gestirla.
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Ancora più drastica Sue Palmer (2006), autrice di un libro dal titolo molto evocativo, Toxic Childhood, in cui scrive: “Lo sviluppo del cervello dei nostri figli è danneggiato, perché non si impegna più in attività nelle quali i cervelli umani si sono impegnati per millenni”. E’ vero, non si impegna più nella conoscenza attiva di qualcosa, tutto è mediato da internet basta cliccare su un tasti e ogni cosa trova risposta.
Malgrado i contro derivanti da questo comportamento, è possibile ne derivino anche effetti positivi, come essere più veloci, avere più capacità di fronteggiare gli stimoli, essere più abili e concreti, etc. Tutto questo cambiamento, naturalmente anche in ambito cerebrale, potrebbe essere semplicemente il risultato di cambiamenti culturali , per questo non è detto si peggiori per forza, magari in questo modo è possibile ottenere dei miglioramenti in ambito cognitivo.
Greenfield, S. The Quest for Identity in the 21st Century: The Quest for Meaning in the 21st Century. Hodder & Stoughton, Canada (2009).
Palmer, S. Toxic Childhood: how modern life is damaging our children… and what we can do about it. Orion (2006)
Healy, J. M. Different Learners Identifying, Preventing, and Treating Your Child’s Learning Problems Hardcover (2010).
Bullismo virtuale (o cyber-bullismo): una violenza inaspettata.
“Nel pollaio si accese una discussione se fosse più bella l’alba o il tramonto. Si formò il partito delle galline tramontiste e quello delle galline albiste. Con il passare del tempo le une si dimenticarono dell’alba e le altre dimenticarono il tramonto, rimase solo l’odio delle une contro le altre.” (Luigi Malerba, Le galline pensierose)
Per violenza, nella sua accezione globale, l’OMS (2002) intende “l’uso intenzionale della forza fisica o del potere, minacciato o reale, contro se stessi, altre persone o contro un gruppo o una comunità, da cui conseguono, o da cui hanno una alta probabilità di conseguire, lesioni, morte, danni psicologici, compromissioni nello sviluppo o deprivazioni”.
Numerosi sono gli episodi di cronaca che giorno dopo giorno ci raccontano di scenari di violenza nelle scuole e tra i ragazzi. Una ricerca condotta negli Stati Uniti allarga il nostro punto di vista facendoci spostare l’attenzione sul fenomeno del cyber-bullismo, che sembra avere negli adolescenti effetti ancora più importanti e gravi di quello reale. Tra l’altro, anche una recente ricerca italiana conferma questo dato: circa il 33% dei ragazzi si dichiara vittima di cyber-bullismo.
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Ma perché gli effetti sono così “gravi”? Dai dati delle ricerche fatte sembra emergere che nodo cruciale è “l’essere inaspettato”. Infatti, quando si apre la posta elettronica o si risponde al cellulare anche solo leggendo gli sms si è in un certo senso colti di sorpresa: non è cioè stato possibile attivare delle strategie di coping efficaci per difendersi dalle aggressioni, cosa che invece più facilmente avviene nella vita reale.
Ciò che aggrava ancora di più il quadro è la percezione di non avere una via di fuga, la sensazione di persecuzione. Nella realtà, la vittima di bullismo può trovare un proprio luogo sicuro, magari anche ricercando la presenza di un insegnate o di un adulto di riferimento; quando invece le minacce arrivano direttamente sul cellulare la vittima sente di non aver scelta e di non potersi proteggere in alcun modo.
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Lo studio dell’Education Development Center dell’Università di Boston è stato condotto su ventimila studenti, a cui è stato chiesto di rispondere a due domande:
Quante volte qualcuno ti ha insultato, minacciato, deriso usando internet, il cellulare o altri mezzi di comunicazione elettronica?
Quante volte ti sei sentito frustrato al punto da sentirti una completa nullità e volerti addirittura punire per non saper reagire?
Dai dati si evince che tra le vittime di bullismo reale e cyber, il 47% soffre di depressione e, in particolare, scomponendo il campione nei due sottogruppi vittima di cyber-bullismo e vittima di bullismo “reale”, nei primi ben il 33,9% sviluppa un disturbo depressivo.
Ulteriore conferma di questo dato viene da una ricerca dell’università di Helsinki e di New York su 2215 ragazzi tra i 13 e 16 anni, pubblicato sugli Archives of General Psichiatry, in cui le vittime colpite da cyber-bullismo, oltre ai sintomi che più spesso riporta chi è vittima di bullismo (depressione, insonnia, difficoltà di relazione con i compagni, disregolazione emotiva, cefalea, ricorrenti dolori addominali), mostrano anche iperattività, abuso di alcool e fumo e ridotta socialità.
BIBLIOGRAFIA:
Schneider,S.,O’Donnell, L., Stueve, A., & Robert W. S, (2012). Coulter Cyberbullying, School Bullying, and Psychological Distress: A Regional Census of High School Students. American Journal of Public Health, January, 102, 70-77.
Età del divorzio e variazione delle condizioni di salute.
– Rassegna Stampa –
Secondo uno studio condotto alla Michigan State University divorziare in giovane età ha conseguenze peggiori sulla salute che quando questo avviene più avanti negli anni. La sociologa Hui Liu ha analizzato i dati di quasi 1300 questionari self-report compilati dai partecipanti a una ricerca a lungo termine, la Americans’ Changing Lives. Ha misurato il divario tra le condizioni di salute dei partecipanti che nell’arco di 15 anni erano rimasti sposati e quelle di chi invece era andato incontro a un divorzio, e ha scoperto che questo era maggiore nei giovani. Chi aveva divorziato in un età compresa tra i 35 e i 41 anni infatti riferiva maggiori problemi di salute di chi continuava sposato, il divario nelle condizioni di salute tra sposati e divorziati si riduceva però con l’aumento dell’età di divorzio.
Liu spiega questi dati con il fatto che la pressione sociale in favore della conservazione del matrimonio, tipica delle vecchie generazioni, può avere costretto molti in una situazione di grande infelicità e il divorzio deve essere stato, per quelli che se lo sono infine concesso, un sollievo.
Un dato interessante riguarda il fatto che le condizioni di salute di chi non è andato incontro a una variazione del suo stato civile durante l’intero arco temporale dello studio, sposato o divorziato che fosse, rimanevano costanti. Questo suggerisce che il fattore di stress in grado di influenzare lo stati di salute non è una o l’altra condizione, sposato o divorziato, ma il passaggio da una condizione all’altra.
Una branca della psicologia ambientale si occupa da diversi anni del rapporto uomo-natura, per scoprirne effetti e caratteristiche.
Da un punto di vista razionale, i contesti naturali non sono sempre luoghi in cui è piacevole soggiornare (foreste buie e tempeste in mare aperto sono un buon esempio) ma è stata registrata, a livello globale, la tendenza a preferire ambienti naturali, verdi, possibilmente con piante e fonti d’acqua, a quelli costruiti, indipendentemente dall’età e dalla cultura di provenienza. Per queste preferenze sono state elaborate due principali spiegazioni.
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La prima, di carattere evoluzionistico, basata su una risposta affettiva immediata e non necessariamente consapevole, sostiene che questa predilezione per la natura dipenda dalle nostre origini animali e primitive, quando i paesaggi verdi e rigogliosi potevano assicurare un sostentamento prolungato e un riparo dai possibili predatori. Al contrario, la seconda ipotesi, di matrice costruzionista, ritiene che gli atteggiamenti positivi verso gli ambienti naturali dipendano da valutazioni cognitive, culturalmente mediate, nelle quali spiccano ricordi d’infanzia legati ad attività all’aperto, nei luoghi esterni alla casa.
Gli ambienti naturali non sono solo una delizia per gli occhi ma sono un aiuto per il benessere psicologico degli individui, spesso afflitto dalle forme più comuni di stress urbano, come il rumore, il traffico o l’affollamento. Essi possono alleggerire menti sovraccariche di pensieri, offrire momenti di crescita personale o di fuga dal quotidiano, nonché migliorare l’umore e aumentare le sensazioni positive, come l’essere parte integrante dell’ecosistema.
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Alcune ricerche in ambito ospedaliero hanno evidenziato il ruolo rigenerate dei paesaggi verdi nel favorire i decorsi post-operatori e i processi fisici di guarigione. Ovviamente, non basta trascorre un po’ di tempo a contatto con la natura per recuperare la salute ma è stato dimostrato che la vista su un ambiente naturale velocizza e migliora la qualità del tempo trascorso in ospedale in coloro che non sono affetti da gravi patologie, diminuendo sistematicamente il numero delle complicazioni e la quantità di antidolorifici assunti.
Infine, è stato dimostrato che anche una semplice e breve (non più di dieci minuti) visione di film o di diapositive di ambienti naturali, particolarmente attraenti, può avere un effetto positivo sul recupero delle capacità attentive. Le possibili implicazioni per questo tipo di ricerche sono evidenti, soprattutto se si pensa che l’attenzione è coinvolta nella maggior parte dei nostri processi vitali e che un abuso di risorse può avere anche conseguenze mortali, come nei casi di incidenti alla guida o sul lavoro.
E' stato dimostrato che anche una semplice e breve (non più di dieci minuti) visione di film o di diapositive di ambienti naturali, particolarmente attraenti, può avere un effetto positivo sul recupero delle capacità attentive.
BIBLIOGRAFIA:
Baroni, M. R. (2008). Psicologia ambientale. Il Mulino, Itinerari, Bologna.
Berto, R. (2005). Exposure to restorative environments helps restore attentional capacity. In Journal of Environmental Psychology 25, pp. 249–259.
Gifford, R. (2002). Environmental psychology: Principles and practice (third edition). Optimal Books, Colville, Wash.
Kaplan, S. (1987). Aesthetics, affect, and cognition. Environmental preference from an evolutionary perspective. In Environment and Behavior, 19, 1, pp. 3-32.
Lyons, E. (1983). Demographic correlates of landscape preference. In Environment and Behavior, 15, pp. 487-511.
Ulrich, R. S., Simons, R. F., Losito, B. D., Fiorito, E., Miles, M. A. and M. Zelson (1991). Stress recovery during exposure to natural and urban environments. In Journal of Environmental Psychology, 11, pp. 201-230.
Istruzioni per creare uno psicopatico: recensione di “Io ti troverò” di Shane Stevens
Io ti troverò (Titolo originale: By Reason of Insanity, 1979) ha ispirato i grandi maestri, da James Ellroy a Stephen King. Ritmo serrato ed incalzante, ottimo intreccio, nulla ha da invidiare ai thriller moderni che, anzi, hanno attinto a piene mani da questo capolavoro, diventato leggenda anche grazie all’alone di mistero che avvolge il suo autore: la vera identità di Shane Stevens rimane tutt’oggi sconosciuta; sparito dopo la pubblicazione del libro, si sa solo che è morto nel 2007.
Thomas Bishop, 3 anni, viene ricoverato in ospedale con ustioni di secondo grado, esito dell’ennesima sevizia a cui la madre lo ha sottoposto. In mancanza di prove certe, però, l’ospedale non può rivolgersi alle autorità. Il destino del piccolo pare segnato: “una cosa è dannatamente certa”. La voce [del medico] tremava di rabbia. “Quel bambino lì dentro è condannato. Qualunque cosa accada è condannato”. A 10 anni Thomas Bishop viene internato per aver ucciso sua madre, a 20 anni evade dall’ospedale psichiatrico organizzando una fuga rocambolesca, iniziando un lungo viaggio attraverso gli Stati Uniti, seminando terrore e lasciando dietro di sé una lunga scia di sangue.
Immediatamente si scatena un’imponente caccia all’uomo che vede coinvolta non solo la polizia, ma anche l’FBI, la stampa, la mafia, giudici e politici senza scrupoli, esperti criminologi, tutti beffati dall’astuzia di questo inafferrabile assassino che ha un solo obiettivo: eliminare tutte le donne dalla faccia della Terra.
L’autore dipinge in maniera agghiacciante l’infanzia e la psiche del protagonista, e la storia è un ottimo esempio di come bambini che sperimentano la figura di accudimento come fonte di minaccia e pericolo, anziché di protezione e affidabilità, sviluppino un grave attaccamento disorganizzato e rischino di essere violenti psicopatici in training (Levy & Orlans, 2000).
Cresciuto in una famiglia ad alto rischio, con un padre antisociale e violento e una madre alcolizzata, bugiarda, abusata, maltrattata e maltrattante, istituzionalizzato all’età di 10 anni, il piccolo Thomas sembra essere destinato a sviluppare un’assoluta mancanza di empatia e morale e comportamenti aggressivi e violenti: divenuto un predatore senza rimorso, estremamente intelligente, utilizza il proprio fascino, l’intimidazione e la violenza a sangue freddo per sfruttare gli altri e raggiungere i propri scopi, incarnando quella che viene definita una personalità psicopatica (Hare, 1996).
Thomas non ha memoria delle torture subite né di aver ucciso sua madre; la sua mente si è protetta dai numerosi traumi subiti attraverso meccanismi dissociativi, cosicché della madre ha solo ricordi dolcissimi. In momenti di forte tensione emotiva, però, rivive terrorizzato inspiegabili flashback che la sua mente dissociata non è in grado di integrare: l’immagine dolorosa della frusta che schiocca sulla sua testa e la sua vocina implorante “Mi dispiace mamma. Mi dispiace. Non volevo! Ti prego, non picchiarmi!” si stampano indelebili nel lettore che si ritrova, suo malgrado, a condividerne il dolore e a provare compassione per lui.
Ma Thomas Bishop era davvero certamente condannato a diventare il mostro che è diventato? E se non ha avuto scelta, allora quanto è responsabile dei crimini commessi e quanto siamo disposti ad assolverlo?
Attaccamento disorganizzato.
Definizione di Attaccamento Disorganizzato.
Bowlby definisce attaccamento la tendenza innata a cercare la vicinanza protettiva di un membro della propria specie quando si percepisce un pericolo.
Quando la figura che dovrebbe fornire protezione in caso di pericolo è essa stessa la fonte di pericolo e di minaccia, si sviluppa quello che viene definito attaccamento disorganizzato.
Il bambino si trova nella situazione paradossale di dover chiedere protezione proprio a chi lo sta minacciando, di doversi allontanare dalla fonte minacciosa e al contempo avvicinarvisi alla ricerca di rassicurazione. Ciò non permette al bambino di sviluppare una rappresentazione coerente di Sé, dell’Altro e della Relazione con l’altro. Inoltre contribuisce allo sviluppo di un deficit nella capacità di regolazione delle emozioni nonché di un deficit delle funzioni metacognitive, cioè della capacità di attribuire agli altri intenzioni, pensieri, emozioni, desideri in modo da attribuire un significato al loro comportamento.
BIBLIOGRAFIA:
Bowlby J (1999) [1982]. Attachment. Attachment and Loss Vol. I (2nd ed.). New York: Basic Books.
Il Disturbo Narcisistico di Personalità secondo la Teoria di Kernberg
L’Università Bicocca di Milano ha ospitato sabato scorso la Lectio Magistralis del prof. Kernberg sulla personalità narcisista. Ma cosa propone la sua teoria?
È innegabile come il lavoro del prof. Kernberg abbia rivoluzionato il mondo della psicologia, ma per poter comprendere come e quanto è necessario fare un salto nella “storia della psicologia dinamica”.
Verso la fine degli anni ’30 gli psicoanalisti americani iniziarono a incontrare nei loro ambulatori dei pazienti “strani” che non rientravano in nessuna delle due principali categorie diagnostiche individuate da Freud. Ebbe così inizio la diatriba sui “pazienti borderline”, ovvero al confine fra nevrosi e psicosi. Uno dei primi studiosi a cercare di risolvere quest’enigma fu Stern (1938) che ipotizzò l’esistenza di “borderline group of neuroses” (gruppo borderline delle nevrosi). Tuttavia questa definizione non convinceva, così negli anni furono avanzate differenti ipotesi, per esempio Knight (Knight, R. 1953) ipotizzò che questi pazienti sperimentavano stati borderline dell’Io, Hoch e Polatin (Hoch, P. & Polatin, P. 1949) parlarono invece di Schizofrenia Pseudonevrotica. Così il termine borderline iniziò ad essere associato a stati, sindromi e personalità, insomma c’era un po’ il rischio che a disorganizzarsi, ancor prima dei pazienti, fosse il sistema di classificazione.
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La rivoluzione kernberghiana ebbe inizio negli anni ’60 quando la diatriba sui “pazienti borderline” era all’apice. Kernberg fu il primo ad avere il coraggio di avanzare l’ipotesi che Freud probabilmente si fosse sbagliato nel postulare l’esistenza di due classi diagnostiche, poiché in realtà queste erano tre: Organizzazione Nevrotica, Psicotica e Borderline di Personalità (Kernberg, O. F., 1967).
L’ Organizzazione di Personalità si articola intorno a tre criteri strutturali:
Esame di realtà, cioè la capacità di distinguere fra ciò che è vero e ciò che è frutto della nostra interpretazione.
Integrazione della personalità, ovvero la capacità di tenere nell’Io le rappresentazioni di Sé e dell’Oggetto.
Difese utilizzate, ovvero le strategie utilizzate per difendersi.
Senza nessuna pretesa di esaustività diremo solo che nei soggetti con Organizzazione di Personalità Borderline l’esame di realtà rimane intatto, mentre l’Io risulta non integrato e quindi deficitario nella capacità di integrare gli aspetti positivi e negativi dell’Oggetto che vengono costantemente idealizzati o svalutati, attraverso l’uso di difese primitive come la scissione.
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Secondo Kernberg è all’interno di questo tipo di Organizzazione di Personalità che si inseriscono tutti i Disturbi di Personalità, compreso quello Narcisistico.
Il professore distingue fra tre differenti tipi di narcisismo (Kernberg, O.; 1987 e 1975).
Il narcisismo sano, che tutti condividiamo, in cui l’investimento libidico su un sé integrato porta a essere ambiziosi, ad avere delle relazioni interpersonali e a essere in accordo con i propri valori morali.
Nel narcisismo infantile, basato sulla gratificazione/soddisfazione di bisogni, incluso il bisogno di entrare in connessione con l’altro, il soggetto, come un bambino, è insaziabilmente richiedente, incessantemente esigente e gli altri esistono solo in funzione della soddisfazione dei suoi bisogni.
Infine, il narcisismo patologico, che si configura come uno specifico disturbo di personalità, origina da un iperinvestimento della libido sul sé. Un sé non integrato, che mantiene scisse le rappresentazioni idealizzate del sé e degli altri, dando così origine ad un sé grandioso.
Kernberg spiega che il paziente narcisista apparentemente sembra funzionare bene poiché a uno sguardo superficiale il suo comportamento può apparire poco disturbato. Tuttavia indagando più a fondo si scopre che l’Io, composto solo da aspetti idealizzati del Sé e dell’Oggetto (gli altri), è diventato “grandioso”.
Così il paziente narcisista si muove in una realtà pericolosa, perchè in ogni momento l’immagine grandiosa che ha di se stesso può venire invalidata. Per tentare di difendersi da questo rischio il narcisista è costretto a tenere lontani gli altri, che diventano automaticamente oggetto di rabbia e svalutazione. Questa forte svalutazione dell’altro però non basta a metterlo al riparo dalle emozioni negative. Purtroppo infatti il narcisista deve anche fare i conti con sentimenti di estrema inferiorità, generati da un Super Io sadico, che prescrive solo i “don’t”, che innescano sia un eccessivo bisogno di essere rassicurato che un profondo sentimento di invidia verso gli altri. L’altro è così sia un amato salvatore che un odiato rivale! Il rapporto con gli altri diventa frequentemente parassitario e improntato sullo sfruttamento per alimentare la propria autostima. Tutti questi vissuti sono inscritti in un profondo senso di solitudine, che Kernberg chiama magnificent loneliness, nel quale sono immersi questi pazienti.
Articoloconsigliato: Intervista a Frank Yeomans.
Lo sviluppo più drammatico del disturbo si osserva quando la grandiosità del paziente si combina con una forte quota di aggressività. Si sviluppa così il “narcisismo maligno”. Questa particolare forma di narcisismo porta il paziente ad aggiungere al suo sé grandioso anche un aspetto di onnipotenza “Posso fare quello che voglio. Per me le regole non valgono!”. In questa categoria si trovano pazienti la cui grandiosità è rafforzata dal senso di trionfo provato infliggendo dolore e paura agli altri.
Spiegare in così poche righe la complessa teoria del prof. Kernberg costringe a trascurare molti interessanti dettagli. Forse è un teoria un po’ aliena agli psicologi cognitivi che a concetti come pulsione, investimento libidico e relazioni oggettuali sono un po’ allergici, ma che sicuramente è interessante e prolifico approfondire.
BIBLIOGRAFIA:
Knight, R. (1953). Borderline states. In Bullettin of the Menninger Clinic, 17, pp 1-24
Hoch, P. & Polatin, P (1949) Pseudoneurotic form of schizophrenia. In Psychiatric Quarterly, 38, pp 248-276
Kernbert, O. F.. (1967). Borderline personality organization. Journal of the American Psychoanalytic Association, 15, pp.236-253
Kernberg, O.F. (1975) Sndromi marginali e narcisismo patologico. Trad. it Bollati Boringhieri, Torino
Kernberg, O. F. (1987) Disturbi gravi della personalità. Trad. it Bollati e Boringhieri, Torino
I precedenti psichiatrici in famiglia e interessi intellettuali.
– Rassegna Stampa –
Uno studio condotto da un gruppo di ricercatori della Princeton University suggerisce che la storia psichiatrica della propria famiglia, specialmente quella legata ad autismo e depressione, possa influenzare gli interessi di una persona, cioè quello che questa giudicherà interessante e degno di particolare attenzione nel corso della sua vita.
I campi di interesse privilegiati sarebbero quelli delle arti e delle scienze, che già in precedenti studi sperimentali sono stati associati ad alcuni disturbi psichiatrici. Lo studio è stato fatto su un campione di 1100 studenti ai quali è stato chiesto quali fossero i loro interessi intellettuali e quale l’incidenza familiare nelle due generazioni precedenti di disturbi dell’umore, l’abuso di sostanze e disturbi dello spettro autistico.
Dai risultati è emerso che gli studenti interessati a un percorso in materie umanistiche o sociali avevano il doppio delle probabilità di riferire che un membro della loro famiglia avesse un disturbo dell’umore o un problema di abuso di sostanze; gli studenti con un interesse per la scienza e la tecnica, invece, avevano tre volte più probabilità di avere un fratello con un disturbo dello spettro autistico. La novità dello studio sta nel fatto che la correlazione tra familiarità psichiatrica e interessi è indipendente dal talento e dalla carriera delle persone in esame, cioè questo studio prende in considerazione la semplice predilezione per un argomento, un interesse che non necessariamente si manifesta con capacità eccellenti o che sfocia in una carriera lavorativa.
Mentre gli interessi di una persona e le sue scelte professionali sono presumibilmente correlati, gli interessi intellettuali potrebbero modellarsi indipendentemente, sulla base delle condizioni psichiatriche, a loro volta influenzate dal contesto genetico familiare. L’idea di fondo dei ricercatori infatti è che la correlazione tra interessi intellettuali e malattia psichiatrica derivi da un percorso genetico comune che potrebbe portare gli individui di una stessa famiglia in direzioni simili, ma mentre alcuni svilupperebbero disturbi psichiatrici, altri possiederebbero solo alcuni tratti, e questi stessi tratti potrebbero manifestarsi con specifiche preferenze e interessi intellettuali.
In occasione della Lectio Magistralis di Otto Kernberg e Frank Yeomans di sabato 28 gennaio 2012 tenutasi a Milano, La redazione di State of Mind ha posto una domanda al gentilissimo Prof. Frank Yeomans:
INTERVISTATRICE: Dunque, la nostra domanda è: “Cosa può imparare un terapeuta cognitivo dal vostro approccio?”
PROF. YEOMANS: Questa è una bella domanda!
INTERVISTATRICE: Certo che sì!
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PROF. YEOMANS: Cosa può imparare un terapeuta cognitivo… non sono un terapeuta cognitivo, ma la mia prima impressione è che mi aiuterebbe ad apprezzare semplicemente il potere delle cose di cui non siamo consapevoli, non semplicemente perché non le conosciamo – perché capisco che nella terapia cognitiva si aiutino le persone a conoscere cose che non conoscono – ma la differenza è…
INTERVISTATRICE: Più o meno…
PROF. YEOMAS: Li aiuti a comprenderle meglio e può essere…può essere molto utile. Ma penso che quello che un terapeuta cognitivo possa apprezzare meglio è ciò che nella nostra mente ci impedisce di conoscere le cose, le ragioni per cui non conosciamo le cose. Perché la mia conoscenza, che è limitata, della terapia cognitiva…la mia impressione è che si focalizzi un po’ troppo semplicemente sui processi razionali piuttosto che sui nostri processi primitivi dove i livelli più profondi della nostra mente, neurobiologicamente parlando il sistema limbico, creano intensi affetti con cui la mente cognitiva cosciente non sa cosa fare.
Articolo consigliato: DSM-V: Quando l’ideologia sconfigge la scienza: sulla Lectio Magistralis di Kernberg a Milano
E la terapia cognitiva può aiutare a gestire in termini di ordine ciò che è nella nostra mente, ma, per quel poco che ne so, mi pare che non aiuti molto con i conflitti primari tra intensi impulsi aggressivi e di amore e non ci aiuta a capire la resistenza a conoscerli, il perché non vogliamo sapere alcune cose di noi stessi. Penso che l’approccio psicodinamico renda più il senso di conflitto che c’è nella nostra mente che non dovremmo conoscere. E si dovrebbe ricordare la definizione di psicodinamica: significa la mente in movimento. Non solo la mente dei nostri pazienti è in movimento, ma anche la nostra mente è in movimento perché ogni essere umano ha sempre un equilibrio difensivo tra intense urgenze biologiche, proibizioni sociali e valori morali. Quindi il nostro obiettivo è trovare un equilibrio. Credo che il terapeuta cognitivo dovrebbe essere più consapevole della sua natura primitiva.
INTERVISTATRICE: Grazie mille per tutto!
PROF. YEOMANS: prego!
(NDR: Traduzione dell’intervista a cura di Valentina Davi).
Verso il DSM-5: Il Disturbo dello Spettro Autistico
Ottenere una diagnosi di autismo pare diventi più difficile con l’uscita del DSM-5 nel 2013. Questo è quanto ci dicono i dati preliminari raccolti dai ricercatori dell’Università di Yale, negli Stati Uniti.
Seguendo i nuovi criteri, infatti, parrebbe che quasi la metà delle persone classificate sotto lo spettro autistico secondo il DSM-IV potrebbero non raggiungere i criteri per la stessa diagnosi nel nuovo manuale diagnostico. Questi primi studi sono stati condotti da Fred Volkmar e colleghi della facoltà di Medicina della prestigiosa università statunitense e saranno pubblicati tra la fine di Febbraio e l’inizio di Marzo 2012. Se questi risultati verranno confermati da studi successivi e più approfonditi, si avranno certamente notevoli implicazioni dal punto di vista clinico e dei servizi offerti a queste persone, soprattutto in età evolutiva.
Per ora possiamo presentare i nuovi criteri proposti per la nuova diagnosi di Disturbo dello Spettro Autistico (DSM-V):
Criteri Diagnostici:
Deve soddisfare i criteri A, B, C e D:
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A. Deficit persistente nella comunicazione sociale e nell’interazione sociale in diversi contesti, non spiegabile attraverso un ritardo generalizzato dello sviluppo, e manifestato da tutti e 3 i seguenti punti:
1. Deficit nella reciprocità socio-emotiva: un’approccio sociale anormale e fallimento nella normale conversazione (in avanti ed indietro) e/o un ridotto interesse nella condivisione degli interessi, emozioni, affetto e risposta e/o una mancanza di iniziativa nell’interazione sociale.
2. Deficit nei comportamenti comunicativi non verbali usati per l’interazione sociale: che vanno da una povera integrazione della comunicazione verbale e non verbale, attraverso anormalità nel contatto oculare e nel linguaggio del corpo, o deficit nella comprensione e nell’uso della comunicazione non verbale, fino alla totale mancanza di espressività facciale e gestualità.
3. Deficit nello sviluppo e mantenimento di relazioni, appropriate al livello di sviluppo (non comprese quelle con i genitori e caregiver): difficoltà nel regolare il comportamento rispetto ai diversi contesti sociali e/o difficoltà nella condivisione del gioco immaginativo e nel fare amicizie e/o apparente mancanza di interesse nelle persone.
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B. Comportamenti e/o interessi e/o attività ristrette e ripetitive come manifestato da almeno 2 dei seguenti punti:
1. Linguaggio e/o movimenti motori e/o uso di oggetti, stereotipato e/o ripetitivo: come semplici stereotipie motorie, ecolalia, uso ripetitivo di oggetti, frasi idiosincratiche.
2. Eccessiva aderenza alla routine, comportamenti verbali o non verbali riutilizzati e/o eccessiva resistenza ai cambiamenti: rituali motori, insistenza nel fare la stessa strada o mangiare lo stesso cibo, domande o discussioni incessanti o estremo stress a seguito di piccoli cambiamenti.
3. Fissazione in interessi altamente ristretti con intensità o attenzione anormale: forte attaccamento o preoccupazione per oggetti inusuali, interessi eccessivamente perseveranti o circostanziati.
4. Iper-reattività e/o Ipo-reattività agli stimoli sensoriali o interessi inusuali rispetto a certi aspetti dell’ambiente: apparente indifferenza al caldo/freddo/dolore, risposta avversa a suoni o tessuti specifici, eccessivo odorare o toccare gli oggetti, fascinazione verso luci o oggetti roteanti.
C. I sintomi devono essere presenti nella prima infanzia (ma possono non diventare completamente manifesti finché la domanda sociale non eccede il limite delle capacità).
D. L’insieme dei sintomi deve compromettere il funzionamento quotidiano.
Razionale.
Un unico spettro
E’ stato dato un nuovo nome alla categoria, Disturbi dello Spettro Autistico, che include il Disturbo Autistico (autismo), Sindrome di Asperger, Disturbo disintegrativo dell’infanzia, e disturbi pervasivi dello sviluppo non altrimenti specificati.
La differenziazione dello spettro autistico rispetto allo sviluppo tipico e ad altri disturbi non nello spettro è fatta con validità ed efficacia; mentre la distinzione tra i diversi disturbi è stata trovata inconsistente nel tempo, variabile tra i diversi luoghi in cui è stata effettuata la diagnosi, e spesso associata alla severità, livello linguistico o intelligenza invece che alle caratteristiche specifiche dei diversi disturbi.
Poiché l’autismo è definito come un insieme comune di comportamenti, è meglio rappresentato da una singola categoria diagnostica che si possa adattare alle presentazioni cliniche individuali (es. severità, abilità verbale e altre) e alle condizioni associate (es. disordini genetici conosciuti, epilessia, disabilità intellettuale e altre). Un singolo spettro riflette meglio lo stato attuale delle conoscenza riguardo la patologia e la presentazione clinica; i criteri clinici precedenti erano equivalenti a voler spaccare il capello con un’accetta (“cleave meatloaf at the joints” in inglese n.d.r.)
Tre domini diventano due:
Deficit Socio-Comunicativi / Interessi fissati e comportamenti ripetitivi
I deficit nella comunicazione e nel comportamento sociale sono inseparabili e più accuratamente considerati come un singolo insieme di sintomi con specificità rispetto all’ambiente e al contesto.
I ritardi nel linguaggio non sono ne unici ne universali rispetto allo spettro autistico e sono più accuratamente considerati come un fattore che influenza la presentazione clinica della sintomatologia autistica piuttosto che come definitori della diagnosi.
Richiedere che entrambi i criteri (1 e 2)i siano raggiunti aumenta la specificità della diagnosi senza intaccarne la sensibilità rispetto ai diversi livelli, dal moderato fino al più severo, mentre si mantiene la specificità con solo due domini.
Le decisioni sono state basate sulla letteratura, la consultazione di esperti e le discussioni nei gruppi di lavoro; i dati sono stati in un secondo momento confermati dalle analisi della CPEA e STAART, Università del Michigan, e i database del Simons Simplex Collection.
Diversi criteri socio-comunicativi sono stati uniti e specificati in modo da chiarire i requisiti diagnostici.
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Nel DSM-IV criteri multipli riguardavano in realtà lo stesso sintomo e quindi pesavano troppo nella decisione della diagnosi. L’unione delle aree comunicative e sociali richiedeva un nuovo approccio ai criteri. Una secondaria analisi dei dati è stata condotta sui sintomi socio-comunicativi per determinare l’insieme di sintomi più sensibili e specifici per ogni gruppo di età e capacità linguistica.
Interessi fissi e movimenti ripetitivi
Richiedere che si manifestino almeno due sintomi aumenta la specificità del criterio senza diminuirne significativamente la sensibilità. La necessità di molteplici fonti di informazione include la capacità nell’osservazione clinica, il racconto di genitori/custodi/insegnanti ed è sottolineata dalla necessità di validare un’alta proporzione di criteri.
La presenza, attraverso l’osservazione clinica o il racconto dei genitori, di una storia di interessi fissi, routine, rituali o movimenti stereotipati aumenta sensibilmente la stabilità di una diagnosi di spettro autistico nel tempo e la differenzia da altri tipi di disturbi.
La riorganizzazione dei sottodomini aumenta la chiarezza e continua a permettere un’adeguata sensibilità e nel mentre aumenta la specificità attraverso esempi adatti a differenti età e livelli linguistici.
Comportamenti sensoriali inusuali sono stati esplicitamente inclusi in un sottodominio, espandendo la specificazione di differenti comportamenti che possono essere codificati in questo dominio, con esempi particolarmente rilevanti per i bambini più piccoli.
I disturbi dello spettro autistico sono disturbi dello sviluppo neurologico che possono essere presenti dall’infanzia o dalla prima giovinezza, ma possono non essere rilevanti fino a più tardi a causa della minima richiesta sociale o della presenza di supporto da parte dei genitori nei primi anni.
Severità
Livello 3: Richiede supporto rilevante
Comunicazione sociale: I severi deficit nella comunicazione sociale, verbale e non verbale, causano un impedimento severo nel funzionamento; iniziativa molto limitata nell’interazione sociale e minima risposta all’iniziativa altrui.
Interessi ristretti e comportamenti ripetitivi: Preoccupazioni, rituali fissi e/o comportamenti ripetitivi che interferiscono marcatamente con il funzionamento in tutte le sfere. Stress marcato quando i rituali o le routine sono interrotte; è molto difficile ridirigere dall’interesse fissativo o ritorna rapidamente ad esso.
Livello 2: Richiede supporto moderato
Comunicazione sociale: Deficit marcati nella comunicazione sociale, verbale e non verbale, l’impedimento sociale appare evidente anche quando è presente supporto; iniziativa limitata nell’interazione sociale e ridotta o anormale risposta all’iniziativa degli altri.
Interessi ristretti e comportamenti ripetitivi: Preoccupazioni, rituali fissi e/o comportamenti ripetitivi appaiono abbastanza di frequente da essere ovvi all’osservatore casuale ed interferiscono con il funzionamento in diversi contesti. Stress o frustrazione appaiono quando sono interrotti ed è difficile ridirigere l’attenzione.
Livello 1: Richiede supporto lieve
Comunicazione sociale: senza supporto i deficit nella comunicazione sociale causano impedimenti che possono essere notati. Ha difficoltà ad iniziare le interazioni sociali e mostra chiari esempi di atipicità o insuccesso nella risposta alle iniziative altrui. Può sembrare che abbia un ridotto interesse nell’interazione sociale.
Interessi ristretti e comportamenti ripetitivi: Rituali e comportamenti ripetitivi causano un’interferenza significativa in uno o più contesti. Resiste ai tentativi da parte degli altri di interromperli.
Nel romanzo “Il Piccolo Principe” di Antoine de Saint-Exupéry c’è un celebre dialogo in cui la volpe ammonisce il protagonista con una frase destinata a diventare un aforisma senza tempo: “Non si vede bene che con il cuore, l’essenziale è invisibile agli occhi.”
Riflessione semplice e profonda allo stesso tempo, che rinnova in chiave poetica un concetto abbastanza ovvio: sul piano delle relazioni interpersonali c’è una bella differenza tra la semplice dimensione visiva e quella affettiva ed emozionale. Se poi tra i due livelli si percepisce addirittura un’incongruenza, le cose si complicano notevolmente.
La Sindrome di Capgras è un esempio clinico di come possa manifestarsi un conflitto tra queste due dimensioni: chi soffre di questa patologia neurologica sa infatti riconoscere perfettamente le fattezze e il volto dei propri cari ma, nonostante la familiarità, viene a mancare completamente l’aspetto dell’attivazione affettiva ed emotiva nei loro confronti. Per esempio un uomo può continuare a riconoscere correttamente la propria moglie, ma allo stesso tempo non provare più alcun sentimento per lei: una simile dissonanza cognitiva viene “risolta” dal paziente con un delirio, ossia con la ferma convinzione che il proprio caro sia stato sostituito da un impostore, un robot o un alieno che si limita ad assomigliare in tutto e per tutto alla persona amata.
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Al delirio si accompagna spesso un comportamento aggressivo e violento nei confronti di quello che si considera un sosia, soprattutto in risposta ai tentativi di mettere in discussione la convinzione delirante. Questa condizione clinica di scissione tra identificazione visiva ed emozioni, generalmente correlata a quadri psicotici o a lesioni cerebrali, incoraggia una riflessione generale su quale sia il processo cognitivo attraverso il quale riconosciamo come autentica l’identità altrui.
Uno studio di Ellis e Young, basato sulla misurazione dei parametri di conduttanza cutanea, ha confermato che i pazienti affetti da sindrome di Capgras mantengono intatta l’abilità conscia di discriminare i volti familiari, ma che a questa capacità non corrisponde un’adeguata risposta di attivazione automatica e inconscia delle emozioni congruenti, quasi ci fosse una compromissione nello scambio di informazioni tra corteccia visiva e sistema limbico.
Le ipotesi formulate a partire da questa premessa sono molteplici: esistono forse due sistemi anatomicamente distinti coinvolti nel processo di riconoscimento dei volti amati, uno deputato ad elaborare le informazioni visive e uno a riconoscerne la risonanza emotiva? In quale sede cerebrale (o a che livello cognitivo) potrebbe collocarsi la connessione tra le due strutture? Perché una compromessa integrazione fra questi due sistemi dovrebbe spingere il paziente a delirare su sosia e duplicanti? E che cos’è che fa sì che di fronte ad una fisionomia razionalmente riconosciuta come familiare il paziente percepisca che a livello viscerale c’è qualcosa che non quadra?
In attesa di ulteriori studi in ambito neuropsicologico, un’interpretazione alternativa e sicuramente intrigante è quella psicoanalitica, secondo la quale la genesi e il mantenimento del delirio di Capgras garantirebbe una sorta di “tornaconto” al paziente, nel senso che servirebbe a risolvere una preesistente ambivalenza nel rapporto tra il paziente e la persona oggetto del delirio.
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Proviamo a tornare all’esempio del marito: dopo anni di malumori, insofferenze taciute e rabbia soffocata nei confronti della moglie, interviene la sindrome a slatentizzare il tutto e ad appagare finalmente l’aggressività repressa. Il sosia è l’espediente geniale: ci si può accanire quanto si vuole senza per questo sentirsi minimamente in colpa (che male c’è a incattivirsi contro un alieno bugiardo?) e allo stesso tempo continuare a nutrire profondi sentimenti di affetto e amore per il proprio coniuge, inspiegabilmente sostituito e perduto.
Se non si trattasse di una psicosi su base organica, potrebbe quindi sembrare una strategia cognitiva straordinariamente elegante per risolvere un problema complesso: dopotutto l’autostima è salva, l’incolumità del proprio caro pure, e l’ostilità ha finalmente libero sfogo.
Insomma, che dire? Chapeau!
BIBLIOGRAFIA:
Hadyn D. Ellis, Michael B. Lewis. (2001). Capgras delusion: a window on face recognition TRENDS in Cognitive Sciences 5 (4): 149-156
McKay R., Langdon R., Coltheart M. (2005) “Sleights of mind”: Delusions, defences and self-deception Cognitive Neuropsychiatry 10 (4): 305-326
Mindfulness in rosa: ridurre lo stress nelle diagnosi di cancro al seno.
La diagnosi di cancro al seno porta con sé numerosi cambiamenti nella vita delle donne e delle loro famiglie: vengono compromesse la sfera sociale, fisica, funzionale ed emotiva. Anche quando le terapie si dimostrano efficaci e la situazione sembra rientrare, per alcune donne non è facile recuperare un equilibrio psicofisiologico.
Le tecniche mente-corpo possono, in questo delicato momento, supportare le donne operate al seno. I dati di uno studio pubblicato sul Wester Journal of Nursing Research, condotto da un team di ricercatori della Sinclair School of Nursing dell’università del Missouri (USA), sottolineano l’efficacia del protocollo Mindfulness Based Stress Reduction per migliorare la qualità della vita e la gestione dello stress nelle donne operate al seno. La ricerca prevedeva un ciclo di otto sedute di gruppo, una parte del campione oltre al trattamento standard seguiva il protocollo MBSR.
I benefici maggiori dopo il trattamento MBSR sono stati:
abbassamento della pressione sanguigna;
rallentamento della frequenza respiratoria;
rallentamento del battito cardiaco;
miglioramento del tono dell’umore.
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Conferma di questo dato la troviamo sulla rivista Integrative Cancer Therapie: una pratica meditativa aiuterebbe, dunque, a ridurre lo stress e a migliorare il benessere emotivo. A questo studio hanno partecipato 130 donne affette da tumore al seno in cura presso un reparto oncologico. L’intero campione è stato diviso in due gruppi: una seguiva una terapia combinata di cure tradizionali + meditazione, e un secondo gruppo che seguiva solamente le cure “tradizionalmente” prescritte. In particolare i soggetti della ricerca hanno trovato nella meditazione un ottimo strumento per la riduzione dello stress, e riportano i benefici maggiori dopo gli incontri di gruppo.
La meditazione come trattamento aggiuntivo per le donne operate al seno viene utilizzata anche presso l’Ospedale Bellaria di Bologna dove il Dott. Gioacchino Pagliaro porta avanti dal 2003 il progetto “ Armoniosamente”. (Scarica il pdf della presentazione)
Questo protocollo prevede due parti: una prima fase di psico-educazione i cui obiettivi principali sono:
accrescere la speranza nei confronti della guarigione;
aumentare la fiducia nella cura radio e chemio terapica;
aiutare a migliorare il rapporto con il corpo ”malato”.
In una seconda fase vengono insegnate tecniche di meditazione e visualizzazione. In questo caso gli obiettivi principali sono:
ridurre lo stress;
far sentire le donne protagoniste della cura e dei processi di guarigione;
aumentare l’autostima;
ridurre gli effetti collaterali della chemioterapia;
aiutare a fronteggiare la paura.
A breve un‘intervista con il Dott. Pagliaro per racconti più dettagliati su questo interessante progetto.
Pregiudizi sociali e senso di appartenenza nei bambini.
– Rassegna Stampa –
Tra i tre e i quattro anni i bambini incominciano a preferire la compagnia di altri bambini dello stesso sesso, poco più grandi la preferenza per le somiglianze si estende anche all’etnia e alla nazionalità. Sovrastimare la positività del proprio gruppo sociale è un processo del tutto normale e funzionale alla costruzione dell’identità e allo sviluppo del senso di appartenenza alla comunità.
In alcun casi però c’è il rischio che questo atteggiamento si estremizzi a sostegno di pregiudizi sociali e discriminazioni nei confronti di coloro che sono percepiti come diversi da sé. Per far fronte a questa eventualità Prof. Dr. Andreas Beelmann e il suo team della Friedrich Schiller University Jena in Germania hanno messo a punto un programma di prevenzione disegnato per ridurre il pregiudizio e incoraggiare la tolleranza verso gli altri. Il momento adatto per intervenire in questo senso è tra i 5 e i 7 anni, età in cui i pregiudizi, derivanti dall’assumere acriticamente la categorizzazione sociale del proprio ambiente, specialmente quello familiare, raggiungono l’apice, per poi lasciare spazio alla formulazione di giudizi più personali in grado di imporsi sugli stereotipi.
Alcuni elementi facilitano o ostacolano il processo di integrazione delle differenze culturali: innanzi tutto la possibilità di entrare in contatto personalmente con altri bambini di etnia o nazionalità diversa, invece che costruire un idea della loro diversità solo sui libri o attraverso i racconti; addirittura secondo i ricercatori la xenofobia tipicamente diffusa in alcune aree geografiche si spiegherebbe proprio con la scarsa presenza di stranieri ed immigrati e quindi con la limitata possibilità di entrare in contatto con la variabilità culturale ed etnica. I bambini che appartengono a minoranze sociali sono invece inizialmente soggetti alla costruzione di un pregiudizio positivo verso la comunità sociale dominate, che è percepita come un modello verso cui tendere; solo in un secondo momento, come reazione alla discriminazione subita, si costruiscono uno stereotipo negativo e fortemente persistente, difficile da modificare.
I ricercatori concludono ricordandoci che i pregiudizi possono comunque essere cambiati a qualunque età e che le persone che possono identificarsi in più gruppi sociali saranno meno inclini a dare giudizi generici e discriminatori nei confronti di chi appartiene a gruppi sociali diversi dal proprio.
DSM-5: Quando l’ideologia sconfigge la scienza: sulla Lectio Magistralis di Kernberg a Milano
Otto Kernberg a Milano-Bicocca per la Lectio Magistralis su Narcisismo e il nuovo DSM-V
“Lasciatemi dire che il sistema di classificazione americano finge di essere un sistema scientifico, ma in realtà non lo è, è un sistema politico e riflette l’impegno ideologico dell’American Psychiatric Association.”
Con queste parole si apre l’intervento del Prof. Kernberg sul DSM-5, secondo il quale all’interno dell’APA si evidenziano principalmente due aree di conflitto che inevitabilmente hanno influenzato la stesura del nuovo manuale di classificazione dei disturbi mentali (la cui pubblicazione è prevista per il 2013).
La prima riguarda la descrizione dei disturbi. L’intento dell’APA era creare un sistema diagnostico ufficiale che fosse descrittivo, fenomenologico, ateoretico e quindi scientifico. Ma come classificare e descrivere i Disturbi di Personalità? Il tentativo di rispondere a tale domanda ha visto esplodere l’annosa diatriba tra la psicologia clinica, sostenitrice dell’approccio categoriale, e la psicologia sperimentale, che utilizza invece criteri dimensionali. Nel corso degli anni abbiamo visto la prima salire sul carro dei vincitori nella stesura del DSM III e IV e la seconda nella stesura del DSM 5.
Articolo consigliato: “Il disturbo narcisistico di personalità, verso il DSM-5″ – Lectio Magistralis di Otto Kernberg e Frank Yeomans
Secondo Kernberg, poiché i Disturbi di Personalità hanno differenti livelli di gravità e appaiono tra loro differenti (“lo schizotipico è una forma più grave di schizoide, il borderline è una forma più grave di istrionico, l’istrionico è una forma più grave dell’isterico, etc.”), appare chiaro come dal punto di vista clinico si abbia bisogno sia dell’approccio categoriale che dimensionale.
L’altra area di conflitto riguarda invece la concettualizzazione dei Disturbi di Personalità. Nell’APA vi è una tendenza sempre più forte, afferma Kernberg, a concettualizzare i Disturbi di Personalità come entità neurobiologiche all’interno di un approccio secondo cui è possibile tradurre alcuni sistemi neurobiologici in sintomi psichici che riflettono cosa sta succedendo nel funzionamento della corteccia orbitale o prefrontale, nell’amigdala, etc. Tale tendenza a sposare una visione neurobiologica radicale, denuncia il professore, è fortemente influenzata dall’industria farmacologica, alla ricerca di caratteristiche che permettano il trattamento dei sintomi con psicofarmaci, ed è sostenuta dalla necessità di individuare trattamenti alternativi a terapie psicologiche a lungo termine, dispendiose sia dal punto di vista economico che di tempo.
In che modo questa competizione professionale si riflette all’interno del nuovo DSM?
Articolo Consigliato: Una spietata e instancabile amorevolezza: Otto Kernberg e John Clarkin a Padova. 21-23 settembre 2011
Dei 10 Disturbi di Personalità presenti nel DSM IV la commissione ha risparmiato solo i 5 che sono stati oggetto di ricerca empirica in tempi recenti. Non essendoci, per esempio, ricerche significative sul disturbo paranoide, esso è stato eliminato dal manuale diagnostico pur essendo un’importante sindrome clinica. È stato mantenuto il disturbo schizotipico, ma non il disturbo schizoide; si è tenuto il disturbo borderline, ma non l’istrionico. E allora come mai inizialmente era stato eliminato anche il Disturbo Narcisistico di Personalità per il quale vi è invece una vasta ricerca in letteratura? La scelta è stata frutto della spinosa battaglia tra la neurobiologia radicale e la psicodinamica, sostiene Kernberg, e quale bersaglio migliore se non proprio il Disturbo Narcisistico di Personalità, per la cui concettualizzazione il contributo della psicodinamica è innegabile?
“Il Disturbo Narcisistico di Personalità è stato eliminato per le stesse ragioni politiche che già in passato hanno portato all’eliminazione della personalità depressivo masochista, della personalità isterica, etc.”
Sotto la pressione della psichiatria clinica, alla fine, il Disturbo Narcisistico è stato reintrodotto nell’Olimpo dei Disturbi di Personalità, anche se non per motivi scientifici, bensì politici.
Si osserva però un impoverimento dei criteri diagnostici rispetto al DSM IV: nel DSM 5 il disturbo è infatti caratterizzato da deficit nel funzionamento del Sé, da problemi nell’identità, nell’autodirezionalità, nell’empatia e nell’intimità, in aggiunta alla grandiosità e al bisogno di attenzione. Tra le caratteristiche rilevanti del disturbo scompare la psicopatologia dell’invidia, e il criterio della mancanza di intimità non rende conto della grave incapacità di dipendere e di stabilire relazioni interpersonali di questi pazienti. Pertanto, afferma Kernberg, la descrizione di questo disturbo non è per nulla soddisfacente.
Ma si può salvare qualcosa della nuova concettualizzazione dei Disturbi di Personalità del DSM 5? A quanto pare sì! “Hanno finalmente compreso quello che il nostro istituto (NDR: Personality Disorders Institute, New York Presbyterian Hospital) sostiene da 30 anni, cioè che l’aspetto principale dei Disturbi di Personalità è il livello di gravità determinato dalla mancata integrazione del sé e delle rappresentazioni degli altri significativi. Sotto questo punto di vista il DSM 5 rappresenta sicuramente un miglioramento rispetto ai precedenti perché ora ci sarà un sistema dimensionale in cui la dimensione principale è la gravità del disturbo data dalla normalità o patologia del Sé e, se non del mondo interiore degli altri significativi, delle relazioni con gli altri significativi.”
Che si sia raggiunto un timido compromesso? Se sì, meglio tardi che mai, no?!
“Il disturbo narcisistico di personalità, verso il DSM-5” – Lectio Magistralis di Otto Kernberg e Frank Yeomans
Otto Kernberg all’Università Milano-Bicocca, sabato 28 gennaio 2012
Ore 9:00 del mattino. La sala è gremita. Tutti sono in attesa. Finalmente fa il suo ingresso Otto Kernberg: un uomo piccolino, composto, che con le sue teorie ha letteralmente rivoluzionato il mondo della psicodinamica e non solo.
L’arduo compito di presentare la Lectio Magistralis del Professor Kernberg spetta al dott. Mauro Grimoldi, presidente dell’OPL, che dopo aver simpaticamente scherzato sull’ampia coorte di sintomi ansiosi e disturbi del sonno che lo ha colpito nei giorni precedenti all’idea di dover introdurre un personaggio del calibro di Otto Kernberg, illustra in maniera breve e concisa perché la psicologia è debitrice nei confronti di questo professore, il cui contributo alla disciplina psicologica è innegabile; basti pensare che qualsiasi manuale di psicologia riporta almeno un capitolo inerente la sua teoria. Il presidente dell’OPL non si dilunga troppo, ridendo ci svela che sa che, come nei concerti pop a cui partecipava da ragazzo, nessuno è lì per ascoltare il gruppo di supporto, sono tutti in trepidazione per l’headliner.
Il prof. esordisce nel più inaspettato dei modi, scusandosi, con un sorriso, di non parlare italiano. Conquistata così tutta la platea, inizia ad esporre la sua teoria del Disturbo Narcisistico Di Personalità all’interno della concezione psicoanalitica, con una chiarezza espositiva che ne ha permesso la comprensione anche a chi non è avvezzo alla terminologia psicodinamica.
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Il narcisismo patologico, che si configura come uno specifico disturbo di personalità, rientra all’interno dell’organizzazione borderline di personalità, caratterizzata da un deficit nell’integrazione delle rappresentazioni positive e negative di Sé e degli altri. A differenza del Disturbo Borderline di Personalità in cui il soggetto continua ad oscillare tra idealizzazione e svalutazione, il Disturbo narcisistico rimane ancorato alla parte idealizzata. A difesa del caos interiore determinato dalla mancanza di integrazione si sviluppa un Sé grandioso patologico che include le rappresentazioni idealizzate e le fantasie grandiose sul Sé e sugli altri; le rappresentazioni negative vengono invece proiettate all’esterno. Ciò rende impossibile un coinvolgimento profondo nelle relazioni interpersonali poiché l’altro viene continuamente svalutato: “Non ho bisogno di nessuno. Ho tutto ciò di cui ho bisogno” è il motto del narcisista, che nega la dipendenza dagli altri e si rifugia nella sua onnipotenza. In realtà il narcisista è una persona profondamente sola, che allontana tutto e tutti per difendersi da una realtà pericolosa che in ogni momento potrebbe invalidare la sua rappresentazione idealizzata di sé. La sua condizione è talmente drammatica che paradossalmente ha un estremo bisogno dell’ammirazione dell’altro per poter mantenere intatta la propria immagine grandiosa: ovviamente la critica da parte dell’altro non è concessa!
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Chissà invece se la commissione che segue la stesura del DSM V, la cui pubblicazione è prevista per il 2013, accetterà di buon grado le critiche mosse nei suoi confronti da Kernberg.
“Lasciatemi dire che il sistema di classificazione americano finge di essere un sistema scientifico, ma in realtà non lo è, è un sistema politico e riflette l’impegno ideologico dell’American Psychiatric Association.”
Secondo il professore all’interno dell’APA si evidenziano principalmente due aree di conflitto: la prima riguarda la descrizione delle patologie, che deve fare i conti con la diatriba tra la psicologia clinica, sostenitrice dell’approccio categoriale, e la psicologia sperimentale, che utilizza invece criteri dimensionali; la seconda, invece, riguarda la concettualizzazione dei Disturbi di Personalità, dove oggi emerge forte una tendenza a riconcettualizzare tali disturbi in un’ottica neurobiologica radicale, sotto la spinta dell’industria farmaceutica. Per quanto riguarda il destino dei Disturbi di Personalità presenti nel DSM IV, Kernberg illustra come la commissione abbia risparmiato solo i 5 che sono stati oggetto di ricerca empirica in tempi recenti. Fra gli esclusi inizialmente c’era anche il Disturbo Narcisistico di Personalità, scelta che è stata frutto della spinosa battaglia tra la neurobiologia radicale e la psicodinamica. Tuttavia, sotto la pressione della psichiatria clinica, alla fine, il Disturbo Narcisistico è stato reintrodotto tra i Disturbi di Personalità, anche se con un impoverimento dei criteri diagnostici rispetto al DSM IV che certamente non soddisfa i clinici.
Una sola cosa è certa: il DSM V sarà una vera gatta da pelare per tutti i clinici, cognitivi o psicodinamici.
Dopo una breve pausa è il turno del Prof. Yeomans che inizia la sua brillante relazione dal tema “The TFP approach to the Narcissistic patient”. La psicoterapia focalizzata sul transfert (TFP), applicata per molti disturbi di personalità, si pone come obiettivo centrale il cambiamento strutturale della personalità. È un intervento centrato sull’individuo, che tiene conto degli aspetti del Sé e degli altri significativi interiorizzati dal soggetto e sui quali investe emotivamente.
Articolo consigliato: Intervista a Frank Yeomans.
Nello specifico quando si applica il TFP a pazienti con un disturbo narcisistico di personalità l’obiettivo è neutralizzare il Sé grandioso patologico attraverso l’integrazione delle parti scisse del Sé. Ciò è reso complesso dalla tenacia dei processi difensivi che rinforzano il Sé Grandioso Patologico e la straordinaria sensibilità all’umiliazione, alla vergogna, al senso di inferiorità e alla sottomissione. Come suggerisce il nome TFP, si tratta di una terapia focalizzata sulla costante interpretazione del transfert, ovvero i sentimenti che il paziente prova verso il terapeuta che tipicamente è considerato come un individuo da svalutare e da sconfiggere, e del controtrasfert, ovvero ciò che il terapeuta percepisce nella relazione (che il più delle volte è noia, preoccupazione e voglia di contrattaccare).
Articolo consigliato: Il Disturbo Narcisistico di Personalità secondo la Teoria di Kernberg
La TFP inizia con la formulazione di un contratto terapeutico, tuttavia gli interventi non si susseguono secondo un percorso prestabilito, un protocollo diremmo noi, ma sono frutto della valutazione del tema affettivo dominante che il paziente mostra: più il narcisismo è patologico, più rigida sarà la cornice terapeutica all’interno della quale verrà indagata la natura più primitiva dell’aggressività del paziente. Nel corso delle sedute il terapeuta impone al paziente narcisista di vivere un confronto con la realtà e di andare incontro gradualmente a momenti di consapevolezza che entrano inevitabilmente in conflitto con il suo abituale modo di rifugiarsi all’interno di un falso Sé. Il terapeuta diviene così l’unica congiunzione tra realtà e realtà immaginata ed è solo in questo momento che può tentare di incrementare la funzione riflessiva del paziente.
Ore 13:00 si conclude quest’interessante e affascinante Lectio.
Al termine dell’evento una folla di studenti (e non) si è messa in coda per autografi e foto, le reporter di State of Mind prime tra tutti!! Perché, come ha esclamato emozionata una ragazza: “un’occasione così non capita tutti i giorni!”
Lavorare per più di 11 ore al giorno predispone a un episodio di depressione maggiore
– Rassegna Stampa –
Lavorare per 11 ore o più al giorno non solo affatica l’individuo ma lo espone a un maggior rischio di sviluppare episodi di depressione maggiore.
Lo studio pubblicato questa settimana sul giornale scientifico PLoS One ha coinvolto 2,123 impiegati statali seguiti mediamente per circa 5 anni e sottoposti regolarmente alla valutazione di sintomi depressivi. In termini di ritmi lavorativi, è emerso che la maggior parte degli individui (52%) lavoravano sette-otto ore al giorno, il 37% trascorreva al lavoro 9-10 ore al giorno, mentre l’11% lavorava per 11 ore o più al giorno. I ricercatori hanno rilevato che lavorare per 11 o più ore al giorno sarebbe associato a un rischio di 2.3-2.5 volte maggiore di sviluppare un episodio depressivo maggiore rispetto a coloro che trascorrono la giornata lavorativa standard da 8 ore.
Tale associazione si mantiene significativa anche considerando nelle analisi variabili sociodemografiche e altri fattori quali l’uso di alcool, fumo, etc. E’interessante sottolineare il risultato della ricerca secondo cui sarebbero gli impiegati iperlavoratori junior e di medio livello ad essere maggiormente a rischio rispetto ai loro superiori: la lunghezza della giornata lavorativa infatti non avrebbe un impatto egualmente significativo sulla salute mentale di dirigenti, team leaders, direttori e managers che occupano posizioni superiori e con elevate retribuzioni. Tra i limiti dello studio, al di à del comprendere al generalizzabilità dei risultati ad altre categorie di lavoratori, vi è anche la questione legata alla latenza ed esordio dell’episodio depressivo maggiore: quante giornate da 11 ore lavorative devono trascorre prima che insorgano i sintomi depressivi? E tutto sommato, ricordiamolo vale la pena al di là dell’esito interrogarsi sul processo e su relativi mediatori e moderatori: in termini di esordio è ragionevole ipotizzare che costrutti quali perfezionismo patologico e controllo, pressando l’individuo verso un comportamento di iperlavoro, medino o moderino verso lo sviluppo di una franca sintomatologia depressiva.
Venerdì 27 gennaio è stato celebrato il Giorno della Memoria, commemorazione che ogni anno rinnova il cordoglio per la shoah, una delle massime espressioni della distruttività umana.
Primo Levi sosteneva che conoscere l’Olocausto è necessario, ma comprenderlo è impossibile; lo psicoanalista austriaco Bruno Bettelheim, anch’egli deportato nei campi di concentramento di Dachau e Buchenwald, tenta quantomeno, nella sua opera “Sopravvivere”, di comprendere la psicologia dei prigionieri dei campi di sterminio, analizzando la disintegrazione e l’alienazione psichica che derivavano da quell’esperienza.
L’analisi riguarda da una parte l’adattamento, individuale e di massa, alla vita nel lager, caratterizzato da diversi fenomeni psicologici comuni alla gran parte dei detenuti: tra le altre cose, vissuti ambivalenti nei confronti dei famigliari scampati all’arresto, la tendenza ad indulgere in fantasie irreali sulla vita dopo la liberazione, la regressione a comportamenti infantili nel tentativo di ingraziarsi gli ufficiali ed evitare le punizioni, l’aggressività dei detenuti più anziani nei confronti dei nuovi arrivati, che a volte finiva addirittura per tradursi in un’identificazione con le SS e con i loro valori.
Bettelheim non si limita alla descrizione della vita nel campo, ma si sofferma anche sulla sindrome del sopravvissuto al campo di concentramento, che vede emergere l’impossibilità di reintegrare la propria personalità a seguito di quell’esperienza atroce, il senso di colpa e il rimorso per ciò che si era fatto o non fatto, la necessità di mettere in atto potenti meccanismi di rimozione e negazione per non impazzire.
Il Corriere della Sera online propone in questi giorni un toccante documentario interattivo proprio con le testimonianze di alcuni sopravvissuti ai campi di sterminio; tra queste la storia di Liliana Segre, ebrea di origini milanesi deportata al campo di concentramento di Auschwitz, che ha il merito di rivendicare il suo statuto di vittima di un crimine orrendo senza però cedere mai all’autocommiserazione.
Sono infatti tanti gli episodi che racconta e in cui confessa con rimpianto la sua personale “psicopatologia da campo di concentramento”, analizzando come le condizioni di gravissima degradazione fisica e morale l’abbiano ad esempio portata ad essere egoista e indifferente al destino di una compagna più sfortunata, a passare le giornate tesa al solo e unico scopo animale di procurarsi il cibo, e a dormire “con le dita dentro le orecchie” per non sentire le urla dei bambini che venivano strappati alle loro madri.
Uno degli aspetti più toccanti della sua testimonianza è il fatto che non vuole limitarsi ad essere una condanna nei confronti della ferocia dei propri aguzzini, bensì vuole essere anche un messaggio di profonda speranza e di incoraggiamento a non arrendersi mai.
Parlando della disastrosa “marcia della morte” verso la Germania nel gelo dell’inverno polacco alla vigilia della liberazione, in cui i prigionieri stremati che cadevano a terra venivano fucilati sul posto, la Segre riferisce di come continuasse a ripetersi “voglio vivere, voglio vivere, voglio vivere” e in una disperata quanto lucida forma di analisi del compito, dato che il compito di dover camminare le appariva impensabile in quelle condizioni, avesse mentalmente ridotto la marcia al “mettere una gamba davanti all’altra” per non cadere, mentre i cadaveri cadevano dietro e davanti a lei ai bordi della strada.
Un messaggio audace a chi sta soffrendo, un’esortazione a cercare dentro di sé la forza anche nelle situazioni più drammatiche, spesso rivolto alle giovani generazioni che vivono un periodo storico di oggettiva e scoraggiante incertezza affinché affrontino la complessità e non accettino di subirla.
Una gamba davanti all’altra.
BIBLIOGRAFIA:
Bettelheim B. (2005) Sopravvivere. Milano: SE Edizioni
Il Corriere della Sera (Edizione Online), 2012, Salvi per Caso. Documentario interattivo. http://video.corriere.it/salvi-per-caso/index.shtml