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Cosa non farei per la danza!

 

Il mondo segreto delle ballerine, dove per diventare una “stella” si è disposte a tutto, anche a morire di anoressia.

Cosa non farei per la danza! - Immagine: © olly - Fotolia.com Il 7 dicembre, come da tradizione, c’è stata la serata inaugurale della stagione teatrale alla Scala con le note del Don Giovanni di Mozart. Qualche giorno prima, però un altro sipario si era alzato sul “tempio della lirica” milanese, con la denuncia al Guardian e subito ripresa dalle maggiori testate giornalistiche in tutto il mondo, da parte della Ballerina Mariafrancesca Garritano, una delle 14 soliste della Scala, che sembra aver scioccato i più, sui problemi di anoressia e bulimia tra le ballerine del corpo di danza del teatro La Scala di Milano. Corpo di ballo che ha prontamente replicato negando tutto e attaccando la ballerina.

La ballerina racconta la sua storia nel libro “La verità vi prego sulla danza”. È una storia fatta di solitudine, quella di una ragazza che a soli sedici anni lascia la Calabria e la casa non sentendosi voluta dal padre e dalla nuova famiglia. Una storia di sacrifici e rinunce, quelli che la danza impone e di problemi alimentari. Nel libro Mariafrancesca racconta di un mondo difficile, a tratti spietato, pieno di personaggi che per un posto sul palco farebbero di tutto.

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Racconta che una ballerina su cinque soffre di un disturbo alimentare, prevalentemente bulimia nervosa e anoressia nervosa, e, triste a dirsi, il dato non la sorprende dal momento che i primi a spingere per raggiungere il “corpo perfetto” sono proprio gli insegnanti dell’accademia. Mariafrancesca dice: “Quando, appena sedicenne, sono entrata nell’accademia gli istruttori mi chiamavano “mozzarella” di fronte a tutti. Così ho ridotto il cibo così tanto – mangiavo un mela e uno yogurt al giorno – che per un anno e mezzo il mio ciclo mestruale si è interrotto e sono arrivata a pesare 43 kg”. La ballerina racconta di un mondo dove questa è la dieta della maggior parte delle ballerine e dove molte di esse vengono ricoverate in ospedale e sottoposte all’alimentazione forzata per cercare di salvare loro la vita.

Una storia che ricorda a tratti quella di Nina-Odette, interpretata da Natalie Portman nel Cigno Nero di Darren Aronofsky, senz’altro un dei film più belli dello scorso anno, è una ballerina del New York City Ballet che per ottenere il ruolo della vita arriverà all’estremo sacrificio. Per fortuna la storia di Odette non è certo quella una ballerina tipo, poiché accanto agli allenamenti massacranti, alla bulimia e a un mondo pronto a tutto, racconta anche la storia di ossessioni, di allucinazione, di cosa accade quando il lato oscuro ha la meglio su quello luminoso, di una mente che con la danza invece di ritrovarsi arriva a perdersi.

Le parole di Mariafrancesca trovano tristemente conferma anche nei recenti studi di Herbrich e colleghi (Herbrich, L., Pfeiffer, E., Lehmkuhl, U. & Schneider, N.) del “Dipartimento per i bambini e gli adolescenti” di Berlino”, che hanno messo a confronto un campione di studenti del liceo con un campione di giovani ballerini. Ad entrambi i gruppi hanno somministrato delle batterie specifiche di test per indagare l’area dei disturbi alimentari e l’anoressia nervosa è stata diagnosticata nel 5,8% dei ballerini contro il 2,9% degli studenti.

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Questo episodio apre un dibattito che si estende anche ad altri sport. Alcuni si sorprenderanno nel leggere che in ambito clinico è purtroppo risaputo che certi sport non si limitano a trasformare il corpo in opere d’arte, ma lo espongono anche al rischio di sviluppare un disturbo alimentare. Nel 2005 Reinking e colleghi (Reinking, M. F & Alexander, L. E.), allarmati dall’aumento dei casi di amenorrea, osteoporosi e disturbi alimentari nel mondo dell’atletica, hanno condotto uno studio monitorando dal 2002 al 2003 la presenza di questi sintomi i un campione di 84 adolescenti che praticano sport, dividendo fra quelli che praticano sport nei quali aspetto fisico e peso sono molto importanti, come per esempio nell’atletica leggera, e quelli che praticano sport dove invece aspetto fisico e peso non sono fondamentali, come per esempio nel basket, con uno di 62 adolescenti che non la praticano. I risultati di questa ricerca hanno mostrato che gli atleti che praticavano la prima categoria di sport, avevano maggiori livelli di insoddisfazione, una minore obbiettività e un maggiore desiderio di perdere peso, rispetto agli atleti che praticavano sport della seconda categoria. Inoltre nel 25% degli atleti che pratica questi sport ha un rischio maggiore di sviluppare un disturbo alimentare. Attenzione quindi lo sport fa bene, ma se fatto con moderazione!! 

 

 

BIBLIOGRAFIA: 

  • Herbrich, L., Pfeiffer, E., Lehmkuhl, U. & Schneider, N. (2011). Anorexia athletica in pre-professional ballet dancers. Journal of Sports Science, 29 (11):1115-23.
  • Reinking, M.F. & Alexander L.E. (2005). Prevalence of Disordered-Eating Behaviors in Undergraduate Female Collegiate Athletes and Nonathletes. J Athl Train, 40(1):47-51.

Una scelta razionale. Davvero? (Psicologia dei Consumi)

 

Una scelta razionale. Davvero? (Psicologia dei Consumi) - Immagine: © M.Gove - Fotolia.com Provate a rispondere alle seguenti domande:

1. A Mr. A vengono dati due biglietti per delle lotterie del World Series. Mr A vince $50 in una lotteria e $25 nell’altra. Mr.B invece prende un solo biglietto per un’unica grande lotteria sempre del World Series. Mr B vince $75. Chi dei due è più soddisfatto?

2. Oggi il signor Bianchi ha vinto un regalo del valore di 20 euro a una tombola organizzata dai colleghi di lavoro e poi 80 euro a una tombola organizzata dagli abitanti del suo quartiere. Dal canto suo il signor Rossi ha vinto un regalo del valore di 100 euro a una tombola municipale. Quale dei due personaggi è più soddisfatto?

 

Se avete risposto Mr A nel primo caso e il signor Bianchi nel secondo avrete seguito un ragionamento tipico della maggior parte delle persone e che farà felici gli esperti di marketing. Secondo le principali teorie sulla presa di decisione, infatti, le persone tendono a considerare separatamente gli eventi che riguardano le vincite e a integrare come evento unico le perdite; tendono anche a considerare come evento minore una perdita se accompagnata da una vincita più consistente (Thaler, 1985).

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Il motivo per cui ci lasciamo tentare da un prodotto nuovo che in realtà a poco ci serve o la ragione per cui siamo più infelici anche di fronte a una perdita economica non così importante sta nel fatto che tutti noi abbiamo un modo più o meno esplicito di valutare gli eventi e che influenza tutte le decisioni che prendiamo, talvolta in maniera inaspettata. Se queste affermazioni possono sembrare scontate a una prima lettura, pensiamo a quante volte pensiamo di avere preso una decisione in maniera ponderata e razionale, soprattutto in situazioni importanti. Certo, non si può affermare che la gente sia irrazionale, ma gli studi della psicologia cognitiva ci dicono in realtà che i criteri di razionalità tanto proclamati dagli economisti non sempre funzionano. Anzi: nel momento in cui prendiamo una decisione è il valore percepito dal soggetto, in termini di guadagni o perdite, ad avere la meglio. Ovvero, le persone tendono a rispondere in base ai cambiamenti percepiti piuttosto che in base a valori assoluti di vantaggio o svantaggio (Thaler, 1985).

Tornando al nostro quesito iniziale possiamo dire che le persone tenderanno a interpretare gli eventi nel modo che li renda maggiormente felici; non solo, le persone sceglieranno anche in base a come un problema è organizzato, supponendo che ognuno abbia un proprio modo di organizzarsi la vita e categorizzare il mondo. Nella pratica, ciò che risulterà fondamentale a un venditore è sapere quali aspetti del prodotto integrare o separare al fine di attirare l’attenzione della gente. Ad esempio, il fatto di separare le vincite ci dice che per vendere un prodotto è molto meglio che esso abbia diverse dimensioni su cui il consumatore può effettuare la scelta (che porteranno la persona a valutare i diversi aspetti come separati). Allo stesso modo, i consumatori tenderanno a integrare le perdite: questo significa che i venditori hanno il vantaggio di potere vendere qualcosa se il suo costo può essere aggiunto a un’altra spesa.

Insomma, la prossima volta che andiamo al supermercato stiamo bene attenti alle promozioni: il pacco doppio sarà davvero più conveniente?

 

 

BIBLIOGRAFIA: 

  • Thaler, R.H. (1985). Mental accounting and consumer choice, Marketing Science, 4, 199-214.

Terapia Cognitivo-Comportamentale per le Psicosi.

 

Parte I – DATI DI EFFICACIA 

Terapia Cognitivo-Comportamentale per le Psicosi. - Immagine: © svedoliver - Fotolia.com Un crescente numero di ricerche ha ormai dimostrato che la persistenza di sintomi psicotici positivi, quali voci allucinazioni deliri, può essere alleviata da trattamenti psicoterapici specifici per le psicosi. Alterata percezione e distorta elaborazione degli stimoli minacciosi sembrano essere alla base dello sviluppo dei contenuti deliranti, aspetti che costituiscono dunque il target di intervento di un percorso psicoterapico che favorisca processi di recovery sulla base delle risorse residue e non ancora colpite dalla patologica psichiatrica.

Uno studio condotto presso il Dipartimento di Psicologia del London King’s College e pubblicato sulla rivista Brain nel 2011, si è occupato di esaminare tramite neuroimaging la presenza di cambiamenti significativi nella reattività neuronale a stimoli minacciosi, a seguito di un trattamento cognitivo-comportamentale in pazienti affetti da psicosi.

I Sintomi Psicotici delle persone sane. - © rolffimages - Fotolia.com
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Dei 56 pazienti affetti da schizofrenia con sintomi positivi residui e persistenti, 28 hanno ricevuto un trattamento cognitivo-comportamentale specifico per le psicosi (CBTp) di 6-8 mesi oltre alla regolare somministrazione di farmaci antipsicotici (TAU), mentre gli altri 28 è stato somministrato il solo trattamento farmacologico (TAU). I due gruppi sono risultati omogenei nel corso della valutazione iniziale, relativamente ai parametri clinici e demografici e alle risposte neurali e comportamentali agli stimoli emotigeni (espressioni facciali neutre o minacciose) somministrati durante lo scanning in risonanza magnetica funzionale. I risultati finali hanno mostrato significative differenze tra i due gruppi sperimentali: a) miglioramento clinico nel gruppo sottoposto a trattamento CBTp + farmaci antipsicotici (TAU), con un mantenimento dei cambiamenti al follow-up (6-8 mesi dopo la fine del trattamento); b) il solo gruppo sottoposto a CBTp ha mostrato una ridotta attivazione della corteccia frontale, dell’insula, del talamo e della corteccia occipitale, in risposta agli stimoli percepiti come minacciosi e questa ipo-reattività si è mantenuta stabile anche al follow-up dopo 6-8 mesi; c) la riduzione di reattività corticale in queste aree alla presentazione di volti arrabbiati è risultata altamente correlata al miglioramento sintomatico riferito dai pazienti.

I Circuiti Neurali attivi nel Delirio di Riferimento. - Immagine: © Vibe Images - Fotolia.com
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Si tratta del primo studio pubblicato in ambito neuro scientifico che ha dimostrato gli effetti prodotti dalla terapia cognitivo-comportamentale per le psicosi (CBTp) sull’attività corticale: la CBTp abbinata ad una regolare terapia con antipsicotici sembra dunque in grado di attenuare la reattività corticale a stimoli emotigeni e costituisce un trattamento efficace nella riduzione dei sintomi perché promuove una migliore capacità di elaborare e interpretare gli stimoli minacciosi, facendo loro perdere il potenziale stressante.

Il dato clinico interessante è che il protocollo utilizzato dai ricercatori del King’s College London e validato in alcuni precedenti studi degli stessi autori (Kumari et al., 2010), costituisce uno dei pochi strumenti a disposizione di noi clinici per accostarsi alla cura delle psicosi, tutt’oggi considerate patologie destinate alla cronicizzazione e al progressivo isolamento. Lo stesso stigma che colpisce i pazienti affetti da psicosi, coinvolge spesso anche i clinici, le terapie e i protocolli ideati per la cura e il trattamento di queste patologie. Potrebbe essere proprio questo uno dei motivi della loro scarsa presenza nella letteratura scientifica e nei nostri ambulatori.

 LEGGI LA PARTE II – Trattamento

 

 

BIBLIOGRAFIA:

  • Kumari, V., Fannon, D., Peters, E.R., Ffytche, D.H., Sumich, A.L., Premkumar, P., Anilkumar, A.P., Andrew, C., Phillips, M.L., Williams, S.C.R., Kuipers, E. (2011). Neural changes following cognitive behaviour therapy for psychosis: a longitudinal study. Frontiers in Behavioural Neuroscience 4:4, 1-15.
  • Kumari, V., Antonova, E., Fannon, D., Peters, E.R., Ffytche, D.H., Premkumar, P., Raveendran, V., Andrew, C., Johns, L.C., McGuire, P.A., Williams, S.C.R., Kuipers, E. (2010). Beyond dopamine: functional MRI predictors of responsiveness to cognitive behaviour therapy for psychosis. Brain, 134, 2396–2407.

Bilinguismo e funzione esecutiva

– Rassegna Stampa –

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze PsicologicheBambini bilingui figli di coppie biculturali. Un fenomeno sempre più frequente, che le scienze psicologiche sono chiamate ad indagare sotto diversi aspetti dallo sviluppo cognitivo e linguistico ai processi di appropriazione di modelli culturali differenti.

Uno studio condotto presso la York University of Toronto e in fase di pubblicazione sulla rivista Child Development si è occupato di determinare quali effetti cognitivi possano essere associati al bilinguismo. A tale scopo i ricercatori hanno coinvolto nello studio 100 bambini di 6 anni di pari livello socioeconomico, monolingui (inglesi) e bilingui (cino-inglesi, franco-inglesi e ispano-inglesi) utilizzando tre compiti per misurare lo sviluppo linguistico e un compito non verbale per valutare la funzione esecutiva.

Il gruppo dei bambini bilingue differiva al suo interno per similarità tra le due lingue apprese, background culturale, storia di immigrazione e lingua utilizzata a scuola; nonostante tale eterogeneità, il gruppo dei bambini bilingue presentava prestazioni simili al suo interno e significativamente superiori rispetto al gruppo dei monolingui nel compito non verbale di funzione esecutiva in cui si doveva alternare flessibilmente l’utilizzo di due regole di categorizzazione per classificare un insieme di figure. Invece per quanto riguarda le performance nei compiti di linguaggio verbale si avevano prestazioni migliori da parte dei bambini bilingui che presentavano più similarità tra le due lingue acquisite e una coerenza tra la lingua che utilizzavano a scuola e la lingua del task.

Pensando alla migliore funzione esecutiva dei bilingui rispetto ai monolingui bisogna però chiedersi se e come tale effetto sia da attribuire solo al bilinguismo oppure anche allo sviluppo di una mente biculturale che si appropria di modelli culturali differenti per cosi dire su un “doppio binario”. Lo studio non ha considerato questa variabile e in altre parole così facendo si rischia di sovrapporre teoricamente lingua e cultura. Chi ci dice che l’essere più flessibili e veloci in un compito di funzione esecutiva non sia in realtà da attribuire all’appropriazione mentale di più registri culturali– e non solo linguistici- e quindi di una mente più flessibile da parte dei bambini bilingui che sono il più delle volte inevitabilmente anche biculturali?

 

 

BIBLIOGRAFIA:

Tipi di coppie #1 – I Simbiotici (o gemelli paradisiaci di Jackson)

 

Introduzione 

Tipi di coppie #1 - I Simbiotici (o gemelli paradisiaci di Jackson) - Immagine: © kanate - Fotolia.com Nel guardare alle coppie e alla varietà delle configurazioni possibili, la classificazione proposta da Berrini e Cambiaso (2001), tiene particolarmente in considerazione tre dimensioni molto importanti:

1- Un tema considerato è quello della distanza interpersonale tra i partners: su questo piano della relazione si gioca la possibilità di riconoscersi come individui separati, di condividere nel rispetto delle reciproche differenze e di tollerare l’ambivalenza all’interno della relazione. Saranno possibili, a seconda dei casi, modalità di interazione più o meno cooperative e possibilità di scambio più o meno ampie.

2- Un altro tema è quello dell’uso della relazione di coppia allo scopo di colmare “vuoti” emotivi e bisogni non appagati nel rapporto con le figure significative dell’infanzia; un tentativo, che come abbiamo visto, spesso fallisce, esprimendosi con la cristallizzazione di modalità relazionali e l’assunzione di ruoli rigidi, disadattivi ai fini della crescita individuale e di coppia.

3- Ultimo, ma non meno importante, è il tema dello svincolo dalle rispettive famiglie di origine.

 

 

#1 – I simbiotici (o gemelli paradisiaci di Jackson)

La coppia imprigionata. - Immagine: © michaltutko - Fotolia.com -
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La caratteristica principale di una coppia di “simbiotici” è la reciproca dipendenza tra i partner e la scarsa definizione dei confini interpersonali, al punto che più che un incontro tra due individui si realizza la costruzione di un unico corpo psichico. Queste coppie non conoscono il litigio, la diversità e la contrapposizione di opinioni e desideri individuali. I due infatti, si comportano come se a prendere decisioni fosse sempre una persona sola; lo scambio è estremamente ridotto e così come le possibilità di dialogo, anche il potenziale di cambiamento e la creatività sono atrofizzati.

In queste coppie il meccanismo di reciproca proiezione di parti del sé si focalizza sugli aspetti di fragilità e inadeguatezza: ciò che viene proiettato sull’altro, infatti, è la possibilità di essere rassicurati e protetti, allo stesso tempo ciascuno riconosce nell’altro la propria insicurezza e inadeguatezza nei confronti del mondo esterno. I due partner sono come due bambini impauriti dal buio, si tranquillizzano a vicenda e, paradossalmente, l’insicurezza dell’uno è fonte di sicurezza per l’altro. Ognuno si sente sicuro di muoversi solo se accanto a sé cammina l’altro e se il ritmo e la velocità dei loro passi è uguale, nel percorrere un cammino comune e nella medesima direzione.

La Scelta del Partner: dall'innamoramento alla costruzione di una relazione stabile. Immagine: © Artistan - Fotolia.com -
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Un’esasperazione della chiusura della coppia nei confronti di un mondo pauroso e pericoloso è colta da Jackson con la definizione di “predatori paranoici”, in cui l’intimità è appunto mantenuta a fronte di un mondo ostile.

L’assenza di diversità e confronto conduce anche all’appiattimento emotivo e a un impoverimento dell’intimità, anche sessuale: i simbiotici infatti hanno bisogno di non perdersi d’occhio ma allo stesso tempo non tollerano un eccessiva intimità. I bisogni infantili e fusionali di rassicurazione e protezione costante dal pericolo non permettono di accedere ad una dimensione relazionale più matura, nella quale è necessario saper reggere l’impatto emozionale di un’unione appassionata tra due individui separati: la vicinanza è avvertita con pericolo, come un’invasione, e non come una benefica regressione a cui abbandonarsi.

Questo tipo di coppie sono metodiche e ripetitive, non amano le sorprese, i viaggi, le distanze; di solito sono molto attaccati alla famiglia di origine e confinano la vita di coppia entro percorsi prevedibili. Ai figli trasmettono la fobia dell’intimità e dell’autonomia e questi ultimi possono sviluppare difficoltà al momento dello svincolo: unioni di questo tipo difficilmente vanno incontro a una crisi, che può però esprimersi nella generazione successiva.

Un buon esempio di questo tipo (esacerbato) di coppie è raccontato nel film “Il marito della parrucchiera” di Patrice Leconte. Anna Galiena e Jean Rochefort si costruiscono un mondo a parte, fatto di abitudini rassicuranti e privo di divergenze individuali, la minaccia di un’evoluzione del rapporto e di cambiamenti porta a un tragico epilogo con il suicidio della Galiena e l’impossibilità di Rochefort di accettarne l’evidenza.

La prossima settimana: i combattenti cronici, gli ambivalenti e i fratellini.

 

 

BIBLIOGRAFIA:

  • Berrini R, Cambiaso G, (2001) Illusioni di coppia. Sto con te perché posso stare senza di te, Franco Angeli, Milano
  • Jackson, D. (1968). Mirages of Marriage. NY: W.W. Norton & Co.

Arteterapia: teoria e prassi di un nuovo approccio psicoterapeutico integrato – parte I

Di Roberto Pasanisi.

Accademia di Belle Arti “Fidia”; CISAT, Centro Italiano Studi Arte-Terapia

 

Teoria dell’Arteterapia

Arteterapia: teoria e prassi di un nuovo approccio psicoterapeutico integrato – parte I  - Immagine:  © oscurecido - Fotolia.com L’Arteterapia si è finora sviluppata sulla base di tre modelli incompiuti: come una tecnica essenzialmente riabilitativa o di sostegno rivolta principalmente agli psicotici o ai minorati per migliorare le capacità relazionali e di socializzazione dell’individuo affetto da patologie psichiatriche; come una sorta di laboratorio di pittura e scultura, attento a cogliere (ed eventualmente ad esprimere) le emozioni connesse alla pratica artistica; e infine come una psicoterapia che si avvaleva delle arti figurative a livello essenzialmente strumentale e secondario nell’àmbito di una tecnica più vasta ed articolata, con un approccio psichiatrico-farmacologico.

Essa è stata praticata non soltanto da psicoterapeuti, ma da esperti dei più svariati campi — musicisti, artisti, scrittori, drammaturghi, maestri di scuola — restando al di qua o andando al di là della psicoterapia stricto sensu — l’unica che qui ci interessi — praticata da uno psicoterapeuta, o meglio ancóra se specialista in Arteterapia. Essa è stata sostanzialmente priva sia di un impianto teorico compiutamente definito che la legittimasse scientificamente, sia di una qualsivoglia istituzionalizzazione che ne precisasse i cómpiti e gli obiettivi, ne chiarisse le caratteristiche precipue (anche rispetto alle altre scuole psicoterapeutiche) e ne stabilisse i limiti, fissando nel contempo una deontologia professionale.

Molti oggi sono infatti le scuole ed i corsi di scrittura creativa, i laboratori di pittura e scultura a fini terapeutici o riabilitativi, ed altre iniziative simili; come pure gli psicologi, gli psicoterapeuti e gli psichiatri che adoperano l’arte in forma per così dire ‘ancillare’, idest come una tecnica fra le altre nell’àmbito di una teoria e di una prassi diverse, che nulla hanno a che vedere con l’Arteterapia.

Qui invece si intende l’Arteterapia come una ‘teoria ed una prassi psicoterapeutica’ a tutti gli effetti ed autonoma, sviluppando questa disciplina come una scuola di psicoterapia tout court, curata non da scrittori o pittori o scultori o da psicologi di altre scuole, ma da specialisti in questo particolare tipo di psicoterapia: e se ne pongono i ‘fondamenti’ teoretici e pratici.

Il mio Psicoterapeuta suona il Rock! - Immagine: © Isaxar - Fotolia.com -
Articolo consigliato: Il mio Psicoterapeuta suona il Rock!

Fissiamo in ‘ART’ la sigla abbreviativa della disciplina che qui vogliamo proporre sotto il nome di ‘Arteterapia’, intesa come una nuova scuola psicoterapeutica contrassegnata da tre caratteristiche fondamentali e sue specifiche: l’uso dell’arte e delle sue tecniche come ‘strumento terapeutico’; l’approccio integrato, ove opportuno, con il training autogeno (TA) nella sua formulazione classica; la costituzione eclettica, che le permetta di attingere, sia sul piano teorico che su quello propriamente terapeutico, a diverse altre scuole, segnatamente alla Psicoanalisi, alla Psicologia analitica, alla Psicologia della Gestalt ed all’Analisi Transazionale (AT). Ne consegue come rilevante corollario che l’Arteterapia così intesa si configura fra le cosiddette ‘psicologie del profondo’ e che integra ‘tecniche analitiche’ con ‘tecniche esperienziali’.

Il presupposto principale dal quale partiamo per considerare l’ART non come una ‘psicoterapia rieducativa’, con una valenza essenzialmente sociale e di recupero, ma come una ‘psicoterapia ricostruttiva di tipo psicodinamico’ è, in primis, la teoria elaborata da Freud riguardo alla funzione dell’artista: per il neurologo viennese la funzione fondamentale dell’artista è quella di mettere l’individuo in comunicazione con il suo Inconscio e di consentirgli di gustarne le fantasie «senza rimprovero e senza vergogna», liberando profonde tensioni della psiche.

 L’arte quindi per Freud rappresenta uno dei mezzi più adeguati per tollerare l’esistenza; come una sfera posta tra Eros e Thanatos, rappresentante una soddisfazione del desiderio sostitutiva, non ossessiva né nevrotica: una sorta di passaggio, di via regia verso l’inconscio, come il sogno. Oltre al contributo di Freud, ci sembra opportuno, per attribuire all’arte una valenza terapeutica, far riferimento all’operazione, considerata da taluni scandalosa, di desacralizzazione dell’artista in quanto tale effettuata dalla Chasseguet-Smirgel: operando infatti una smitizzazione dell’artista, la studiosa contribuisce non poco a ravvicinarcelo, a stabilire un contatto, a riprendere un colloquio interrotto, o forse a iniziarlo in quanto miticamente fantasticato e mai realmente esistito. Ricordandoci che tutti condividiamo gli stessi meccanismi psichici, sia conflitti che angosce, è possibile stabilire una continuità tra il fruitore e l’artista, rendendo così reale la comunicazione, anche se difficile e fluttuante nelle sue misteriose e fantasmagoriche valenze simboliche e sovratemporali.

In questo senso si comprende come l’approccio psicoterapeutico ricostruttivo, e in particolare quello psicoanalitico, rappresenti uno degli strumenti più validi per ritrovare l’artista che è in noi, ovvero la nostra parte creativa, che è in grado di metterci in contatto con il nostro inconscio e che attraverso la produzione di opere creative lato sensu ci permette di analizzare le nostre angosce e i nostri conflitti interiori. Infatti ponendo l’artista, idest il creatore, in una posizione di pseudo-privilegio, in realtà lo chiudiamo in un’inaccessibile turris eburnea, e così facendo lo emarginiamo e lo alieniamo; ma al prezzo di emarginare e alienare da noi quella parte di noi stessi che è la dimensione estetica e creativa nella sua valenza catartica e sublimativa. La possibilità di dare all’altro una valenza terapeutica e di considerarci artisti potenziali — lato sensu, obviously: idest nel senso di ‘creatività’ — ci è offerta anche dal fatto che nell’arte contemporanea è l’artista stesso che infrange il proprio ruolo, smitizzando la propria persona e il proprio fare artistico, parzialmente annullando, in questo modo, la distanza dal fruitore d’arte e contravvenendo così a quell’immagine che noi gli attribuiamo.

È grazie proprio a questi presupposti teorici che è possibile costituire dei gruppi terapeutici in cui ognuno esprima la personale creatività per conoscere meglio il proprio mondo inconscio e per cercare, conoscere ed interpretare, con l’aiuto del terapeuta, le proprie problematiche.

 Leggi la seconda parte dell’articolo: Prassi dell’Arteterapia.

 

BIBLIOGRAFIA: 

  • Caterina Camporesi, Psicoanalisi, Creatività, Interpretazione, intervento al Convegno Psiche e Scrittura, a cura dell’associazione culturale “Sguardo e Sogno” e del Comune di Firenze, Firenze, 14/II/1998
  • Jeanine Chasseguet-Smirgel, Creatività e perversione, Milano, Raffaello Cortina Editore, 1987
  • Jeanine Chasseguet-Smirgel, Per una psicoanalisi dell’arte e della creatività, Milano, Raffaello Cortina Editore, 1989
  • Max Lüscher, La terapia di alleggerimento, in “Babele”, II, 7, 1997, pp. 9-10
  • Flavio Manieri, Psicoanalisi e arte, Introduzione a S. Freud, Psicoanalisi del genio, Roma, Newton Compton Editori, 1977
  • Marco Manzoni (a cura di), Creazione e mal-essere, Milano, Guerini e Associati, 1989
  • Joyce McDougall, Eros. Le deviazioni del desiderio, Milano, Raffaello Cortina Editore, 1997
  • Marc Muret, Arte-terapia, Como, RED Edizioni, 1991
  • Roberto Pasanisi, Recensione a Ivan Fónagy, La ripetizione creativa. Ridondanze espressive nell’opera poetica, Dedalo, Bari, 1982, in “Annali dell’Istituto Universitario Orientale” Sezione Romanza, XXVIII, 1, 1986, pp. 407-410
  • Roberto Pasanisi, La forma della bellezza. Intorno alla genesi della lirica moderna: uno studio psicoanalitico, in “Gradiva” (New York, U.S.A.), VI, 2, 1996, pp. 97-105
  • Roberto Pasanisi, Arteterapia e Training autogeno: un approccio psicoterapeutico integrato, in “SIPE (Societé Internationale di Psychopathologie de l’Expression) Newsletter” (Paris, France), 21, 2000, p. 4
  • Roberto Pasanisi, Training in Artherapy with Autogenic Training, in “International Networking Group of Art Therapists” (Los Angeles, USA), XIII, 1, 2000, p. 14
  • Roberto Pasanisi, Recensione a Marco Manzoni (a cura di), Creazione e mal-essere, Milano, Guerini e Associati, 1989, in “Psiconline” (www.psiconline.it), 7/X/2000, www.psiconline.it/comunicati_stampa/libreria.htm
  • Roberto Pasanisi, Le «muse bendate»: la poesia del Novecento contro la modernità, Pisa – Roma, Istituti Editoriali e Poligrafici Internazionali, 2000 (Prefazione di Constantin Frosin; Postfazione di Carmine Di Biase)
  • Roberto Pasanisi, Una nuova scuola psicoterapeutica in Italia: l’Arteterapia, in “Ecomind” (www.ecomind.it), 7/X/2000, www.ecomind.it/Sezioni/Articoli/Articoli.html
  • Roberto Pasanisi, O noua scoala psihoterapeutica in Italia: Arte-Terapia [Una nuova scuola psicoterapeutica in Italia: l’Arteterapia], in “Akademia” (revista de cultura), Galati (Romania), II, 7-8, 2001, p. 37 (traduzione in Rumeno di Constantin Frosin)
  • Roberto Pasanisi, Una nuova scuola psicoterapeutica in Italia: l’Arteterapia, in “Psychomedia” (www.psychomedia.it), 12/VII/2001, www.psychomedia.it/pm/arther/art-ther/scuola.htm
  • Roberto Pasanisi, L’Arteterapia in Italia, in “Attiva Mente” (www.attivamente.net), agosto 2001, www.attivamente.nett/Am-Relazioni.htm#P1199_162768
  • Robin Philipp, Metred Healthcare, in “Poetry Review”, 85, 1, 1995, pp. 58-59
  • Robin Philipp, The links between poetry and healing, in “The Therapist”,, III, 4, 1996, p. 15
  • Robin Philipp, Poetry helps healing, in “The Lancet”, 347, 1996, pp. 332-333
  • Robin Philipp, Evaluating the Effectiveness of the Arts in Healthcare, in Charles Kaye – Tony Blee (a cura di), The Arts in Health Care. A Palette of Possibilities, London and Bristol (Pennsylvania), Jessica Kingsley Publishers, 1997, pp. 250-261
  • Platone, Politeía, 376e-417b (Platonis Opera, recognovit brevique adnotatione critica instruxit Ioannes Burnet, tomus IV, Oxford, Oxford University Press, 197821)
  • Jean-Luc Sudres, L’Art-Thérapie: actualités d’un concept et d’une pratique,  www.centrostudiarteterapia.org/products.htm, 1/V/2001
  • Bianca Tosatti (a cura di), Figure dell’anima. Arte irregolare in Europa, Milano, Mazzotta, 1998
  • Diane Waller, Towards a European art therapy. Creating a profession, Buckingam – Philadelphia, Open University Press, 1998
  • Diane Waller – Jacky Mahony (a cura di), Treatment of Addiction. Current issues for arts therapies, London – New York, Routledge, 1999

 

SITOGRAFIA: 

  • www.arttherapy.org (A.A.T.A., American Art Therapy Association)
  • www.atcb.org (A.T.C.B., Art Therapy Credentials Board)
  • www.centrostudiarteterapia.org (C.I.S.A.T., Centro Italiano Studî Arte-Terapia)
  • http://forums.behavior.net/forums/jnjbbs.cgi?config=artstherapy&uid=nC1M8.user
  • http://guide.supereva.it/scrittura_creativa/ (“Supereva” – guide)
  • www.iamaonline.org (I.A.M.A., International Arts-Medicine Association)
  • http://mageos.ifrance.com/art-therapy/art-therapy/sipe.htm (S.I.P.E., Societé Internationale de Psychopathologie de l’Expression et d’Arthérapie)
  • http://www.societyartshealthcare.org/ (Society for the Arts in Healthcare)
  • http://www.users.dircon.co.uk/~poets/ecarte.html (ECArTE)
  • http://www.u-a-f.org/sipe_gb.php/ (Universal Art Forum)

 

Liste di Discussione: 

  • http://lists.centrostudiarteterapia.org/mailman/listinfo/cisat-arteterapia
  • www.centrostudiarteterapia.org (C.I.S.A.T., Centro Italiano Studî Arte-Terapia)

 

Riviste:

  • “American Art Therapy Association Newsletter” (Mundelein, Illinois, USA)
  • “Artherapy (Journal of the American Art Therapy Association)” (Mundelein, Illinois, USA)
  • “International Arts-Medicine Association Newsletter” (Bryn Mawr, Pennsylvania, USA)
  • “Newsletter de la SIPE (Societé Internationale di Psychopathologie de l’Expression)” (Pau, France)

 

Psilocibina e funghi allucinogeni: bad trip? Good trip!

Psilocibina e funghi allucinogeni: bad trip? Good trip! - Immagine: © 2012 Costanza Prinetti -

Oggi parleremo di una vecchia diatriba nata tra coloro che ben pensano e chi, invece, sceglie di ‘pensare bene’. Assumere droghe produce serenità o crea danni cerebrali irrimediabili? A quanto pare, prendere alcune sostanze psichedeliche produce effetti sorprendenti!

Recentemente, è stato scoperto che le droghe, come i funghetti allucinogeni, migliorano la rievocazione di ricordi personali e di emozioni positive. Un gruppo di scienziati, autori di due lavori pubblicati rispettivamente su Proceedings of the National Academy of Sciences e sul British Journal of Psychiatry, ha dimostrato quali sono gli effetti della psilocibina, il principio attivo dei funghi allucinogeni, ovvero diminuire l’attività cerebrale e aiutare le persone a mantenere i ricordi più vividi. Questa sostanza è stata ampiamente utilizzata nella psicoterapia degli anni ’50, ma, fino ad ora, il razionale biologico non è mai stato adeguatamente indagato.

La nicotina migliora la memoria ed aiuta a combattere i Deterioramenti Cognitivi. Immagine: © dalaprod - Fotolia.com -
Articolo consigliato: La nicotina migliora la memoria ed aiuta a combattere i Deterioramenti Cognitivi.
Un gruppo di volontari, inseriti in uno scanner di risonanza magnetica funzionale, è stato spinto a pensare a dei ricordi associati a forti emozioni positive. Coloro che avevano assunto psilocibina valutavano i loro ricordi come più vividi rispetto a coloro che avevano ingerito un placebo. Infatti, la psilocibina produceva una maggiore attività in aree del cervello che processano informazione visiva e sensoriale. L’intensità degli effetti riportati dai partecipanti, visioni di motivi geometrici, insolite sensazioni corporee e senso alterato di spazio e tempo, è correlata ad una diminuzione dell’attivazione della corteccia prefrontale mediale, area coinvolta nel processamento delle emozioni, dell’apprendimento, della memoria e delle funzioni esecutive; e in quella cingolata posteriore, avente un ruolo nella coscienza e nell’ auto-identità

Il team ha poi utilizzato i dati per valutare come la connettività funzionale tra queste due regioni cerebrali vari nel corso del tempo, e ha scoperto che la loro contemporanea deattivazione avviene attraverso una rete che le collega le due aree, chiamata Default-Mode Network (DMN), che integra funzioni cerebrali come sensazioni e ambizioni e stabilisce chi si è e come si percepisce il mondo. Quindi nel momento in cui le aree implicate non si attivano, i significati che ciascuno attribuisce agli eventi che si presentano quotidianamente sono automaticamente eliminati.

Ma nel momento in cui un comportamento è depauperato dalla valutazione attribuitagli, cosa resta? Naturalmente, solo la situazione ricordata come una immagine, un frame. Detto in termini cognitivisti, sono eliminati i Belief, ma restano gli Activating event e le Consequences. Proprio queste immagini situazionali sono esaltate dalla droga, ottenendo, di conseguenza, una “conoscenza priva di vincoli”, tipo quella sperimentata nel 1960 da Leary, acerrimo e famigerato sostenitore dell’uso di sostanze psicotrope, durante una vacanza in Messico, grazie ai “funghetti magici”.

Ora sappiamo che la deattivazione di queste regioni porta ad uno stato in cui il mondo è vissuto come strano, estraneo, nuovo, inaspettato, quindi emotivamente positivo. Si creano i così detti “trip”, in cui la realtà diventa un sogno, l’immaginazione si mostra come straordinaria realtà, e lo stupore, misto alla felicità del nuovo, si impossessa della mente.

La psilocibina, inoltre, potrebbe fungere da antidepressivo, poiché esercita una riduzione dell’attività della mPFC, che risulta eccessiva in coloro che sono affetti da depressione, e da ansiolitico poiché i partecipanti che mostravano ansia, dopo la sostanza, stavano meglio. Inoltre, ha un effetto a lungo termine, nel senso che a distanza di settimane i partecipanti all’esperimento sostenevano di esperire ancora emozioni positive.

Per concludere, potrebbe essere un buon adiuvante alla psicoterapia, come si faceva nello scorso secolo, naturalmente utilizzando il principio attivo a scopo terapeutico.

Cosa ne dite?

 

 

BIBLIOGRAFIA: 

La percezione di controllo e padronanza: effetti sulle capacità cognitive.

– Rassegna Stampa – 

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze PsicologicheIl nostro senso di padronanza e controllo varia continuamente e questo può influenzare le nostre capacità cognitive.

Lo sostiene un gruppo di ricercatori della North Carolina State University che ha osservato le variazioni nella sensazione soggettiva di controllo in un gruppo di anziani con un età media di 74 anni. 

I partecipanti all’esperimento sono stati testati ogni 12 ore per due mesi consecutivi con domande sul loro senso di padronanza e competenza nel raggiungere obiettivi prefissati; contemporaneamente venivano anche misurate le loro capacità cognitive di memoria e ragionamento induttivo.

I risultati indicano che il senso di padronanza può variare molto rapidamente, anche nell’arco della stessa giornata e queste variazioni corrispondono a fluttuazioni nelle prestazioni cognitive. Sembra in particolare che sia l’incremento del senso di padronanza e controllo a provocare il miglioramento di alcune funzioni cognitive, e non viceversa.

Più precisamente, in chi ha riferito di avere normalmente uno scarso senso di padronanza, un aumento ha facilitato il problem solving; mentre in chi ha riferito di avere normalmente un buon senso di controllo un ulteriore incremento ha migliorato le prestazioni nei compiti di memoria. Questi risultati, dicono i ricercatori, sono importanti nello studio dei processi dinamici di invecchiamento cognitivo.

 

 

BIBLIOGRAFIA: 

Co-Rumination: un passatempo da ragazze…

 

Ragazze, cosa facciamo oggi pomeriggio dopo la scuola? Co-ruminiamo insieme!

Co-Rumination: un passatempo da ragazze... - Immagine: © Arto - Fotolia.com Chiunque sia stato adolescente sa benissimo come, durante quest’età, i compagni e il gruppo dei pari superi l’ambiente familiare nell’essere il primo “fornitore” di supporto sociale. I ragazzi stanno con i ragazzi, si riconoscono in un gruppo di appartenenza molto forte, tanto coeso all’interno e tanto “discriminante” nei confronti degli altri gruppi.

La letteratura è concorde nel considerare il gruppo dei pari in adolescenza come uno dei motori più consistenti di supporto (e talvolta di ostacolo) per la costruzione dell’identità individuale dei ragazzi.

 

Rumination - Immagine: © Johan van Beilen - Fotolia.com
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Uno dei fenomeni recentemente studiati in letteratura è la cosiddetta co-rumination. Termine coniato da Rose (2002) viene definito come “eccessiva discussione di un problema all’interno di relazioni strette, caratterizzato da un mutuo incoraggiamento a speculare sul problema in questione in termini di cause e conseguenze e a “fare i conti” con le emozioni negative”.

Sembra che le ragazze siano più inclini a co-ruminare tutte insieme, vista la loro maggiore tendenza alla self-disclosure (parlare di sé e dei propri sentimenti) con le amiche dello stesso sesso (McNells & Connolly, 1999) e perseguono relazioni amicali strette e profonde (Camarena, Sarigiani & Peterson, 1990).

Fusione Pensiero Azione - Immagine: © ktsdesign - Fotolia.com
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Sebbene questi ultimi due aspetti siano considerati come fattori di protezione allo sviluppo di disturbi psicopatologici (in particolare di tipo internalizzante, ansia, depressione e psicosomatici su tutti), sembra che il co-ruminare mantenga le ragazze maggiormente vulnerabili a sviluppare ansia e depressione, rispetto ai ragazzi.

Vediamo le caratteristiche salienti della co-rumination:

  • È simile alla self-disclosure, in quanto implica autoapertura, condivisione e intimità;
  • È anche simile alla rumination (di cui abbiamo già parlato qui su State of Mind);
  • È focalizzata sugli aspetti negativi dell’esperienza (“il ragazzo mi ha lasciato”, “i miei non mi lasciano fare niente”, “i miei non mi fanno usare facebook”, la mia amica mi ha tradito”, “lei è invidiosa” etc…);
  • È eccessiva, nel senso che prosegue molto più del necessario e non si concentra sugli aspetti che permetterebbero alle ragazze di trovare una soluzione (assume, pertanto, la forma WHY,);
  • A differenza della rumination, però, è un fenomeno sociale, stringe e annoda il gruppo, è condiviso e questo è rinforzato dal feedback sociale che riceve. Pensiamo alla reazione delle amiche quando una ragazza chiede loro di uscire e di parlare di un problema o di una situazione che la fa sentire a disagio o triste…

Pochissimi dati in letteratura, tanto che per ora tale dato assume la forma speculativa, la considerano una strategia di coping, di fronteggiamento dei problemi, in particolare per le esperienze stressanti.

Ma quali sono gli effetti del co-ruminare in compagnia? Le ragazze sembrano più vulnerabili a sviluppare sintomi di tipo ansioso-depressivo. La co-ruminazione potrebbe contribuire a spiegare perché le giovani ragazze/donne siano più a rischio di sviluppare questo tipo di problematiche.

Quindi, care giovani ragazze, lamentatevi, esprimetevi, condividete, confidatevi, insomma, co-ruminate… ma non esagerate!

 

 

BIBLIOGRAFIA: 

  • Camarena P.M., Sarigiani P.A. & Peterson A.C. (1990). Gender-specific pathways to intimacy in early adolescence. Journal of Youth and Adolescence. 19: 19-32.
  • McNells L.R. & Connolly J.A. (1999). Intimacy between adolescent friends: age and gender differences in intimate affect and intimate behaviors. Journal of Research on Adolescence. 9: 143-159.
  • Rose A.J. (2002). Co-rumination in friendships of girls and boys. Child Development. 73: 1830-1843.
  • Tompkins T.L., Hockett A.R., Abraibesh N. & Witt J.L. (2011). A closer look at co-rumination: gender, coping, peer functioning and internalizing/externalizing problems. Journal of Adolescence. 34: 801-811.

Un Matrimonio Perfetto? addestrare il partner come fosse un delfino.

 

Il segreto per una relazione perfetta? Addestrare il proprio partner…come un delfino.

Un Matrimonio perfetto? Addestrare il partner come fosse un delfino. - Immagine: © Lorelyn Medina - Fotolia.com - Siete stufe di sbraitare per la tavoletta alzata? Non c’è verso di convincere vostro marito a chiudere il tubetto del dentifricio? In “Un matrimonio perfetto”, pubblicato negli USA nel lontano 1961, Winifred Wolfe con uno stile civettuolo, frizzante e molto divertente ci rivela il segreto per plasmare il partner ideale. Il libro si legge d’un fiato e regala non poche risate.

La giovane Chantal, trasferitasi a New York, si innamora di uno scapolo impenitente e riesce a farsi sposare. Dopo un primo periodo idilliaco iniziano però i primi screzi: possibile che suo marito non abbia mai voglia di accompagnarla a scegliere le tende per il salotto?! Ma per fortuna che c’è Maman, pronta a svelare alla figlia il trucco per ottenere un matrimonio perfetto: addestrare il proprio partner…come un cane! Sebbene il consiglio appaia bizzarro, funziona! Fino a quando il marito non scopre l’inghippo, e allora cominciano i guai.

L’idea vi pare assurda? Provare per credere! La giornalista Amy Sutherland in un celebre articolo pubblicato sul The New York Times (2006) racconta di come, stanca dei calzini disseminati per casa dal marito, abbia deciso di applicare nei suoi confronti, con grande successo, una tecnica utilizzata per addestrare i delfini, la L.R.S (Least Reinforcing Scenario).

I nostri nonni si amavano di più? Evoluzione o declino del matrimonio? - Immagine: © alexcoolok - Fotolia.com -
Articolo consigliato: I nostri nonni si amavano di più? Evoluzione o declino del matrimonio?

L.R.S. consiste nel premiare (rinforzare) un comportamento desiderato ed ignorare un comportamento irritante, basandosi sul principio che se un comportamento non provoca alcuna risposta, si estingue perché risulta essere un inutile dispendio di energia.

Pertanto se il vostro obiettivo è rendere il vostro partner più ordinato, non dovete fare altro che ignorare la sua biancheria gettata a terra (sottoponendovi ad una grande prova di pazienza) e rinforzarlo prima ogni qual volta si avvicinerà al cesto della biancheria sporca, successivamente solo quando getterà i boxer nel cesto, fino al gran finale: premiarlo esclusivamente quando i suoi boxer verranno lanciati direttamente in lavatrice. Questa tecnica di condizionamento si chiama modellaggio per approssimazioni successive e oltre ad essere alla base di qualsiasi programma di addestramento animale viene utilizzata anche, per esempio, per educare i bambini.

L’alternativa spesso messa in atto, cioè strillare come un’isterica “Te l’ho detto mille volte di non lasciarmi in giro per casa la tua roba!”, risulta invece meno efficace poiché è vero che la punizione (cioè uno stimolo avversivo) riduce la probabilità che l’altro metta in atto il comportamento tanto odiato, ma ha effetto temporaneo e soprattutto non gli fornisce indicazioni su quale sia il comportamento corretto; in pratica gli si dice cosa non deve fare, ma non quello che dovrebbe fare. Quindi il modo migliore per plasmare il comportamento di qualcuno è rinforzarne le azioni desiderate. I rinforzi da utilizzare, cioè quegli stimoli che aumentano la probabilità che venga messa in atto una certa risposta, possono essere molteplici: dai cosiddetti rinforzi primari (es. cibo, contatto sessuale) a quelli generalizzati (es. manifestazione d’affetto) a quelli simbolici (es. denaro). Il più adatto? A voi la scelta!

E la prossima volta che la vostra ragazza esclamerà “bravo il mio cucciolone!” grattandovi amorevolmente sotto il mento…drizzate le orecchie!

 

 

BIBLIOGRAFIA:  

Schema Therapy: dal Training Internazionale di Roma – (#2 Terapia)

Di Silvia Taddei.

Schema Therapy: dal Training Internazionale di Roma (#2 Terapia). - Immagine: © smilewithjul - Fotolia.com -Dopo aver parlato nella prima parte dell’articolo della fase di Assessment (valutazione), parliamo adesso della seconda fase: quella di cambiamento ovvero la Terapia.

Definendo obiettivi, modalità e tempi.

Oltre alle tecniche tratte dalla Terapia Cognitiva Standard, utili per costruire un dialogo interno che favorisca la motivazione per il successivo lavoro esperienziale, sono state presentate le numerose tecniche per lavorare sul problema emotivo mentre viene attivato in seduta. Tutte le tecniche e strategie terapeutiche oltre che attraverso esempi clinici e la visione di video, sono state apprese attraverso un lavoro di role play svolto fra i partecipanti al training.

Le tecniche sicuramente più interessanti e che attraverso la pratica si comprende siano l’aspetto più pratico e utile della schema therapy sono quelle esperienziali. Ovvero le tecniche immaginative e di role play (Dialoghi con gli schemi, i mode e tecnica delle sedie vuote); la relazione terapeutica che diventa principio cardine della terapia e che spesso guida il lavoro del terapeuta. Il reparenting, in cui il terapeuta aiuta il paziente a soddisfare ed esprimere i bisogni che non sono mai stati soddisfatti nel rispetto dei confini della relazione terapeutica e che è forse l’aspetto più peculiare e più dibattuto della Schema Therapy.

Schema Therapy: dal Training Internazionale di Roma. - Immagine: © puckillustrations - Fotolia.com -
Articolo consigliato: Schema Therapy: dal Training Internazionale di Roma (#1 Assessment)

Tuttavia durante lo studio di Arnoud Arntz con pazienti Borderline citato sopra, l’aspetto definito dai pazienti più utile è risultato essere proprio questo;

Utilizzando tecniche immaginative, il Terapeuta chiede di entrare nell’immagine e parla con le persone che hanno fatto del male o che non hanno accudito il paziente quando era piccolo e che hanno favorito l’insorgere degli schemi, sia con quelle che continuano a rinforzarli nella vita quotidiana e aiuta il paziente a fare lo stesso nell’arco della terapia. Attraverso questi numerosi esercizi immaginativi il paziente può spesso per la prima volta iniziare a sentire di avere dei diritti e che i propri bisogni hanno valore.

Infatti uno degli aspetti spesso più problematici per i pazienti è che il messaggio che essi hanno ricevuto da sempre è che i loro bisogni, diritti o emozioni non hanno valore e spesso essi sono stati puniti nel momento in cui provavano ad esprimerli. Se tutto ciò è capitato da quando essi erano molto piccoli spesso la persona può avere sviluppato schemi quali: deprivazione emotiva, inadeguatezza, fallimento, sfiducia e abuso, sottomissione, vulnerabilità. Tutti schemi molto importanti nei pazienti che soffrono di disturbo borderline ma non solo. Comprendere quindi che i propri bisogni, diritti e le proprie emozioni sono importanti e che essi meritano di ricevere quello che non hanno mai ricevuto è un passo fondamentale verso l’inizio del cambiamento.

Durante gli esercizi immaginativi che richiamano ricordi negativi dell’infanzia, spesso traumatici, quindi non è insolito che il terapeuta chieda al paziente di poter entrare nell’immagine che sta esperendo, apportando quindi delle modifiche al ricordo stesso. Alleandosi con il paziente, proteggendolo e insegnandogli ad ottenere almeno una parte di ciò di cui è stato privato emotivamente. Tali esercizi sembra che permettano di richiamare ricordi immagazzinati nella memoria episodica a cui sono collegati vissuti emotivi molto intensi. Apportando delle modifiche alle immagini e determinando una modificazione delle emozioni, la nuova esperienza sembra possa integrarsi con il ricordo originariamente archiviato, modificando il ricordo stesso e il vissuto emotivo ad esso collegato.

Tale vissuto emotivo, risperimentato solitamente nel presente, da adulti, in situazioni anche vagamente simili a quelle che hanno originariamente dato vita agli schemi maladattivi, una volta modificato tenderà ad essere diverso anche nel presente in quelle situazioni in cui il paziente solitamente soffriva, permettendogli la messa in atto di comportamenti adattivi e più funzionali. Questo risultato non è immediato ma avviene nel tempo. Questa tecnica viene chiamata tecnica del Rescripting. Sembra che il paziente possa lentamente interiorizzare la figura di un adulto sano (il Terapeuta) che sia in contatto con le proprie emozioni e bisogni e che sia anche in grado di soddisfarli in modo adattivo. Tale processo di interiorizzazione quando i bisogni vengono soddisfatti adeguatamente nell’infanzia e nell’adolescenza avviene in maniera naturale per il bambino. Quando invece essi non vengono soddisfatti l’adulto interiorizzato invece che sano è spesso punitivo, critico, esigente o addirittura abusante. Negli esercizi immaginativi una volta individuata la parte definita Genitore Punitivo (o critico, o esigente, etc.) il Terapeuta può dialogare in maniera decisa e spesso contrastarlo prendendo le difese del bambino.

Analisi Critica della Schema Therapy - Immagine: © robodread - Fotolia.com
Leggi l’articolo: “Un’analisi critica della Schema Therapy”

La Schema Therapy cerca attraverso il lavoro terapeutico di fare in modo che sia il paziente stesso a poter contrastare questa parte critica e a prendersi cura del mode di quella parte di se che viene definita il Bambino Vulnerabile.

Assumendo il ruolo di “adulto funzionale”, il terapeuta fornisce quindi al paziente un esempio per costruire un “Adulto Funzionale” che si prenda cura del bambino che è in lui nella vita quotidiana. L’aspetto centrale del reparenting è il fatto che i pazienti iniziano ad ascoltarsi, a concentrarsi sui propri bisogni, bisogni che da sempre sono stati criticati, e iniziano soprattutto a desiderare la felicità per sé .

Tutto questo è chiaramente contornato dall’altro aspetto peculiare della schema therapy: la relazione terapeutica, all’interno della quale con il confronto empatico il terapeuta mostra comprensione per le motivazioni che spingono il paziente a perseverare nel mantenimento dello schema. Il terapeuta si sforza di comunicare empatia, calore, genuinità, fattori definiti da Rogers (1951) elementi aspecifici di una terapia efficace. Lo scopo è creare una atmosfera nella quale il paziente, sentendosi accettato e al sicuro, possa instaurare un legame significativo con il terapeuta. Il terapeuta si relaziona al paziente assumendo un’ atteggiamento di apertura e confidenza. Questo tipo di relazione terapeutica sembra essere molto vicino al concetto di “sintonizzazione affettiva” tra madre e bambino di Stern: consiste nell’esecuzione di comportamenti che esprimono la qualità di un sentimento condiviso senza tuttavia imitarne l’esatta espressione comportamentale.

Vorrei concludere con una frase di Young che a mio avviso sintetizza il processo di cambiamento che avviene durante la schema therapy:

“il compito più importante che possiamo assumerci nella nostra vita è scoprire le nostre naturali attitudini e inclinazioni. Rispetto a tale obiettivo, la guida migliore è rappresentata dalle emozioni e dalle sensazioni corporee. Quando ci impegniamo in attività o in relazioni che soddisfano le nostre inclinazioni naturali ci sentiamo bene: il nostro corpo è appagato e proviamo piacere e gioia”.

 

 

BIBLIOGRAFIA:

  • Jeffrey E.Young ; Janet S.Klosko Schema Therapy
  • Jeffrey E.Young; Janet S.Klosko Reinventa la tua vita.

Apprendimento del linguaggio nei bambini: una fase pre-linguistica tra i 6 e i 9 mesi.

– Rassegna Stampa – 

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze PsicologicheUn nuovo studio apparso su Proceedings of the National Academy of Sciences disconferma l’idea che i bambini incomincino a comprendere il significato di comuni vocaboli solo verso il primo anno di vita.

Si pensa infatti che i bambini tra i 6 e 9 mesi attraversino una fase “pre-linguistica” durante la quale, anche se in grado di percepire e comprendere gli elementi dei suoni della loro lingua nativa, non possiedono ancora la capacità di cogliere i significati trasmessi dal discorso. Secondo Elika Bergelson e Daniel Swingley, due ricercatori dell’ University of Pennsylvania, i tentativi fatti fino ad ora per determinare l’età in cui i bambini escono dalla fase pre linguistica non sono stati esaustivi. I ricercatori hanno osservato il comportamento di due diversi gruppi di bambini, di 6 / 9 mesi e 10 /20 mesi, mentre osservavano su uno schermo immagini di oggetti comuni e familiari, che venivano in alcuni momenti nominati dal genitore presente all’esperimento; nel frattempo gli sguardi dei bambini venivano monitorati con un dispositivo di eye-tracking.

Secondo i ricercatori la comprensione di un vocabolo avrebbe portato i bambini a guardare più a lungo sullo schermo l’oggetto a cui si riferiva. Alla quantità di tempo passata ad osservare ciascun oggetto nominato durante l’esperimento è stata sottratta la quantità di tempo normalmente impiegata da ciascun bambino a osservare lo stesso oggetto, in questo modo si è pensato di eliminare l’errore derivante dall’attrattiva suscitata da alcuni oggetti, preferiti rispetto ad altri. Secondo i ricercatori il fatto che i bambini tra i 6 e i 9 mesi comprendano il significato di alcuni oggetti è stato dimostrato dal posarsi del loro sguardo proprio sull’oggetto nominato rispetto agli altri presenti sullo schermo ma che non venivano nominati. Questo studio dimostra inoltre che la comprensione si riferisce a vocaboli che definiscono categorie di oggetti, come “le mele” o “i nasi”, e non a oggetti specifici, e questo è proprio l’aspetto che la rende il processo di apprendimento più complicato.

I risultati di questo esperimento mostrano inoltre che le capacità di apprendimento rimangono costanti tra i 6 e i 9 mesi, non sembra quindi esserci un evoluzione in questo arco temporale; un lento incremento delle prestazioni si verifica invece nel gruppo dei bambini più grandi con un picco a 14 mesi, età in cui i bambini probabilmente comprendono la natura del compito sperimentale e lo trattano come un gioco; inoltre a questa età probabilmente intervengono variabili non direttamente misurate dall’esperimento, come una migliore capacità di categorizzazione dei vocaboli e maggiore comprensione della sintassi.

 

 

BIBLIOGRAFIA: 

La Vergogna e la Colpa nei Disturbi del Comportamento Alimentare (DCA). Cicli Emotivi e Patologia.

Dott.ssa Alessia Zoppi, Dott.ssa Chiara Spinaci.
Università di Urbino “Carlo Bo”, Dipartimento di Scienze dell’Uomo.

 

La Vergogna e la Colpa nei Disturbi del Comportamento Alimentare (DCA). Cicli Emotivi e Patologia. - Immagine: © bobyramone - Fotolia.com Le emozioni più spesso trattate nella clinica dei DCA sono la vergogna e la colpa, stati emotivi autocoscienti che affliggono l’Io.

La vergogna è un’emozione che determina reazioni psico-fisiche specifiche: non si ha più controllo del proprio corpo e della propria mente, ci si sente smascherati, spogliati e inermi davanti all’altro che ci ha “scoperti”. Questa emozione favorisce comportamenti di rispetto verso se stesso e gli altri e protegge dalla costruzione di una identità grandiosa e megalomanica; se eccessiva può bloccare il soggetto e spingerlo al ritiro sociale, scatenando senso di inadeguatezza, inferiorità, inamabilità auto-attribuita, bassa autostima. Questa emozione può essere il risultato di una valutazione percepita come interna o esterna: quando è interna il Sé giudica se stesso, con connotazioni fortemente negative e invalidanti; quando è esterna il Sé si sente giudicato dagli altri, teme lo sguardo altrui, soprattutto quando si esperisce come portatore di aspetti negativi e umilianti.

No recipes for treating eating disorders. Image: © kikkerdirk #27366320 -
Articolo consigliato: Science does not offer recipes for treating eating disorders.

La colpa è un’emozione legata a qualcosa che si è compiuto a danno di terzi o che può essere giudicato negativamente. Questa emozione è legata a giudizi, valori e morale socialmente condivisi. Mentre nella vergogna il giudizio negativo è attribuito al Sé nella sua interezza, nella colpa si assiste ad una risposta emotiva evento-specifica: l’attribuzione negativa è legata allo specifico comportamento attuato.

La letteratura sulle emozioni nei DCA è ampia ed è possibile parlare di “circoli emotivi” di mantenimento della sintomatologia.

Da una ricerca di Skarderud (2007), attuata con un intervista semistrutturata che indaga il costrutto di vergogna nell’Anoressia Nervosa (AN), è emersa una classificazione delle tipologie di vergogna esperite da soggetti anoressici. Questa emozione è sia “vissuta” come interna (auto-valutazione negativa) che come esterna (sensazione che gli altri li giudichino negativamente).

I pazienti esprimono una sensazione generale di vergogna, ma a un livello più profondo sembra che essi vivano specifiche tematiche di vergogna:

  • vergogna di alcune emozioni: dell’avidità personale, dell’invidia, della tristezza, della sensazione di grandiosità, della rabbia;
  • vergogna del fallimento;
  • vergogna del corpo: della propria apparenza e della funzione del corpo;
  • vergogna rispetto all’autocontrollo e ai comportamenti auto-distruttivi;
  • vergogna degli abusi sessuali: sensazione di inferiorità, sensazione di non aver resistito;
  • vergogna di avere un disturbo alimentare: per il problema legato al mangiare, per auto-accuse di vanità, per timore dello stigma sociale.

Nell’AN i soggetti sospendono volontariamente e forzatamente l’alimentazione, in linea con un comportamento controllante e rigido più che punitivo. Essi spostano sul corpo l’espressione di un disagio psicologico legato alla propria valutazione personale: si sentono sbagliati, inamabili, inadeguati (emozione di vergogna) ma non provano colpa, rispetto al proprio comportamento patologico. Infatti nei pazienti emergono anche degli indici elevati legati al sentimento di orgoglio (Skarderud, 2007). Per orgoglio si intende uno stato emotivo opposto alla vergogna, autoconsapevole, associato al successo sociale e ad approvazione o ammirazione da parte degli altri. Le tematiche di orgoglio nella AN sono:

  • Orgoglio generato dall’auto-controllo rispetto alla gestione e assunzione del cibo, alle diete ferree, all’attività fisica compensatoria;
  • Orgoglio generato dalla sensazione di essere straordinario, manifestato attraverso una narrativa di eccezionalità, anche grazie alla patologia;
  • Orgoglio generato dall’apparenza fisica, espresso nell’attrazione per la magrezza;
  • Orgoglio generato dalla ribellione e protesta, manifestato con difese ripetute e irremovibili della sindrome.
I Disturbi dell'alimentazione: resoconto di un convegno - SISDCA 2011 - Immagine: © DURIS Guillaume - Fotolia.com
Articolo consigliato: “I Disturbi dell’alimentazione: resoconto di un convegno – SISDCA 2011”

La tenacia e l’orgoglio verso il comportamento patologico avrebbero lo scopo di compensare la propria inadeguatezza; ma i soggetti con AN continuano a esperire le diverse tematiche di vergogna a causa dell’impossibilità di raggiungere il perfezionismo auspicato.

Sarebbero dunque contemporaneamente attivi il circolo “vergogna-orgoglio” e il circolo preferenziale “vergogna-vergogna”.

Nel circolo “vergogna-vergogna” questa emozione, come causa dell’innesco di sintomi, è legata a: fattori svalutativi personali, gestione inadeguata delle emozioni, spostamento sul corpo delle emozioni negative. La vergogna come effetto è invece collegata a tutte le tematiche di vergogna sopracitate.

Nel circolo “vergogna-orgoglio” i sentimenti di vergogna iniziali sono i medesimi del circolo precedente ma la risposta da parte del soggetto ha lo scopo di garantire elevati livelli di orgoglio. Questo secondo circolo è interessante poiché può spiegare alcuni comportamenti tipici dei soggetti con AN in trattamento, come ridotta motivazione alla terapia e la difesa del sintomo.

Rifacendosi allo studio di Hayaki et al., (2002) nella Bulimia Nervosa (BN) i soggetti esperiscono emozioni fortemente destabilizzanti di colpa, oltre che vergogna, legate al meccanismo patogeno “abbuffata- eliminazione”. Si può dire che in questi pazienti il circolo emotivo sia caratterizzato da sentimenti di “vergogna-colpa”.

Disturbi Alimentari - Alpbach Bologna 2011 - Immagine: © waterlilly - Fotolia.com -
Articolo consigliato: “Alpbach e Bologna: due congressi non anglofoni sui disturbi alimentari”

La compulsività e la perdita di controllo nell’orgia bulimica alimenta emozioni negative. La colpa si manifesta come effetto del comportamento “abbuffata-eliminazione”, ma è anche un fattore eziologico poiché si riscontra nei pazienti con BN una vulnerabilità personale a sperimentare emozioni di colpa.

Colpa e vergogna possono inoltre spiegare la comorbilità esistente tra DCA e altre sindromi (Grabharn et al., 2006; Hayaki, et al., 2002): depressione, ansia e DCA sono i quadri più spesso associati all’emozione di vergogna globale interiorizzata.

In presenza di comorbilità tra DCA e Fobia Sociale è possibile pensare che l’emozione di vergogna legata al corpo e al Sé sia associata al timore di essere osservati, giudicati negativamente e “scoperti” dagli altri. Il soggetto vive la vergogna rispetto al Sé negativo e teme di essere giudicato dall’esterno.

Nel caso di comorbiltà tra quadri depressivi e DCA è possibile pensare che il soggetto giudichi in modo assolutamente negativo il Sé e perda qualsiasi aspettativa e speranza. La vergogna si esperisce a causa di fattori interni costituzionali sentiti come negativi.

Edimburgh - Immagine: Creative Commons - Attribution: By Yo (foto hecha por mí) [GFDL (www.gnu.org/copyleft/fdl.html) or CC-BY-SA-3.0-2.5-2.0-1.0 (www.creativecommons.org/licenses/by-sa/3.0)], via Wikimedia Commons
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La comorbilità dei DCA con il Disturbo Borderline di Personalità e del Controllo degli Impulsi potrebbe essere spiegata dal circolo emotivo “vergogna/colpa-rabbia” presente nei soggetti Shame-Prone. Essi non sono consapevoli dell’emozione esperita e tendono a esternalizzarla per evitare il contatto con la negatività del Sé: all’emergere di elevati livelli di vergogna e colpa il soggetto reagisce con comportamenti rabbiosi e attribuendo la causa dell’emozione a eventi o persone esterne, con esiti catastrofici sulle relazioni interpersonali (Meneghini, 2008).

Concludendo, le emozioni sono sia “attivatori” che “meccanismi di mantenimento” della sintomatologia. Colpa e vergogna sembrano avere un ruolo specifico come attivatori, in quanto nei DCA sembra esserci una vulnerabilità a sperimentare tali emozioni e difficoltà nella gestione e riconoscimento delle stesse; ma si dimostra anche come le stesse emozioni possano essere fattori di mantenimento ed effetti del comportamento patologico, paradossalmente attuato nel tentativo di allontanarle.

 

 

BIBLIOGRAFIA: 

  • GRABHORN et al., (2006). Social Anxiety in Anorexia Nervosa and Bulimia Nervosa: the mediating role of shame. Clin. Psychol. Psychother., 13, pp.12–19.
  • HAYAKI, J., FRIEDMAN, M.A., BROWNELL, K.D. (2002). Shame and severity of bulimic symptoms. Eating Behaviors, 3, pp. 73–83.
  • MENEGHINI, A.M., (2008). Quando la colpa è costruttiva. DIPAV, 23, pp. 103-120.
  • SKARDERUD, F. (2007). Shame and pride in anorexia nervosa: a qualitative descriptive study. European Eating Disorders Review, 15, pp. 81-97.

Iniziare una terapia cognitiva #1: Concordare le regole

 

Iniziare una Terapia Cognitiva: Concordare le Regole. - Immagine: © Bernard BAILLY - Fotolia.com Il punto di partenza della terapia cognitiva, la prima regola del gioco da stabilire tra paziente e terapeuta, è chiarire le regole. Il terapeuta cognitivo fin dall’inizio agisce in piena trasparenza e comunica al paziente come funziona la terapia cognitiva e come agisce sulla sofferenza emotiva. Proprio perché la terapia cognitiva privilegia l’aspetto esplicito e cosciente dell’attività mentale, è giusto che le regole del gioco siano condivise esplicitamente.

Si tratta di comunicare al paziente l’ipotesi del primato cognitivo, per la quale l’elaborazione consapevole degli stati mentali in forma di informazione esplicita, verbalizzabile e comunicabile è in grado di spiegare e guidare gli stati emotivi e pianificare il comportamento in vista di scopi (Clark e coll., 1999). Una formulazione leggermente differente sostiene che ogni stato mentale, anche il più spontaneo e immediato, corrisponde in realtà a una valutazione cognitiva della realtà esterna e degli stati interni, ovvero è informazione. È il caso delle emozioni, stati interiori spontanei che però sono anche informazione: così la paura è una valutazione di pericolo, la vergogna di un imbarazzo sociale, la colpa di violazione di una regola (Castelfranchi, 1988).

Naturalmente tutto questo va comunicato al paziente non usando questa pedante terminologia tecnica, ma con parole semplici e facilmente comprensibili. La spiegazione avviene partendo proprio dal problema presentato dal paziente stesso. A volte questa operazione è – almeno apparentemente- non troppo difficile. Ad esempio:

P.: Vengo da lei perché ho timore di prendere l’ascensore.

Storie di Terapie - © Athanasia Nomikou - Fotolia.com
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In questo caso lo stato emotivo di timore è già ben collegato a un pensiero: la valutazione di un pericolo abbastanza ben definito, che è naturalmente rimanere bloccati in ascensore (anche se poi il terapeuta cognitivo metterà in discussione questo pericolo; ma questa è già terapia e quindi lo vedremo in seguito).

Altre volte l’intervento può essere più complesso. Lo stato emotivo di sofferenza è percepito come stato mentale, ma il paziente sembra concepire questo stato mentale come una sorta di fatto oggettivo dotato di vita propria e non come prodotto di operazioni mentali, sia pure in parte automatiche e non ponderate. Leggiamo un altro esempio.

P.: Il mio problema è l’ansia.

T.: Capisco. Poniamoci insieme una domanda: perché proviamo ansia?

Annotazione tecnica: il rischio della sfida razionalistica è sempre dietro l’angolo. Il paziente potrebbe sentirsi sottoposto a un interrogatorio, o peggio trattato da idiota. Il “noi” terapeutico evita questo rischio. Noi soffriamo insieme al paziente e condividiamo il suo problema.

P.: Non so. Perché proviamo ansia?

T.: Intendo dire: questo stato d’animo, l’ansia, come mai lo proviamo? Quando e perché siamo in ansia? Perché lo si prova?

P.: Non c’è un perché. Io ho l’ansia. L’ansia c’è, arriva. Vorrei liberarmene.

Qui è evidente che per questo paziente l’ansia è un fatto negativo che capita, una sorta di disgrazia o di sciagura, sia pure mentale, che va eliminata.

Marco, l'ultimo samurai. Immagine: © Diedie55 - Fotolia.com -
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Non a caso, questa concezione oggettiva degli stati mentali può portare il paziente a cercare spiegazioni in cause non coscienti. La concezione popolare della genetica o dell’inconscio freudiano sono particolarmente adatte a fornire questo tipo di giustificazioni.

P.: La mia ansia potrebbe avere della cause inconsce. Non saprei. Forse c’è un significato che non conosco?

Oppure

P.: Dipenderà dalla mia genetica?

Le ipotesi psicodinamiche o genetiche sono naturalmente rispettabili, ma non sono compatibili con la fiducia della terapia cognitiva nell’elaborazione volontaria e consapevole. 

La terapia cognitiva invece mantiene il presupposto che gli stati emotivi di sofferenza sono spiegabili con cose che il paziente pensa o ha pensato consapevolmente e non inconsciamente. Questi pensieri collegati alla sofferenza sono però percepiti come confusi e incontrollabili. In ogni caso, a un certo punto la condivisione esplicita delle regole diventa necessaria:

T.: Ora le spiego. In terapia cognitiva si dà importanza a quel che lei pensa consapevolemente.

P.: E quindi?

T.: Quindi, ogni emozione, ogni stato d’animo è anche un pensiero. Per “pensiero” intendo quelle piccole frasi che tutti noi diciamo a noi stessi mentalmente, e con le quali valutiamo una situazione, pensiamo cosa fare, come comportarci. Queste frasi interiori sono quello che pensiamo. O meglio, sono il modo con il quale chiariamo a noi stessi quel che sentiamo e pensiamo. Per esempio, la gioia si accompagna alla constatazione che è accaduto qualcosa che ci rende felici, o che almeno ci soddisfa. Per l’ansia è lo stesso. Cosa si pensa quando si ha l’ansia?

Vado in terapia: aspettative e timori - Immagine: © andrewgenn - Fotolia.com -
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A questo punto dovrebbe essere più facile per il pensiero collegare l’ansia a una preoccupazione cosciente per qualcosa: una valutazione consapevole della presenza di un pericolo.

P.: Beh, l’ansia è timore, timore di qualcosa.

T.: Esatto: per essere precisi l’ansia si unisce a una valutazione di pericolo. Lei teme qualcosa. E che cosa?

Naturalmente non sempre va così liscia.

P.: Le assicuro che non ho pensato a nulla. Ho l’ansia, e nient’altro.

T.: Capisco. Tuttavia vorrei che fossimo d’accordo su questo punto: ogni emozione corrisponde a un pensiero. Magari un pensiero confuso, un pensiero in cui davvero lei non ha pronunciato nessuna particolare “piccola frase” dentro la sua testa. Un pensiero che somiglia più a una sensazione che a qualcosa che possa essere detto in parole. Ma comunque un pensiero.

P.: (cenni o mormorii di assenso)

T.: Quindi le direi che comunque l’ansia corrisponde a un pensiero. Pensiamoci: a quale pensiero?

P.: Evidentemente c’è qualcosa che mi preoccupa. Che mi mette in ansia. Ho paura di qualcosa? Ma di cosa?

T.: Cercheremo di capirlo.

E qui finisce bene. Ma se ancora il nostro paziente non afferra il concetto?

P.: Dottore, continuo a non capire. So solo che io ho l’ansia, punto. Non so come dirglielo: non penso a nulla.

T.: D’accordo, la aiuto. Facciamo l’esempio inverso. Lei dice che quando ha questa ansia che la tormenta non pensa a niente. D’accordo. Ci credo. Però è vero che esistono pensieri che ci fanno venire l’ansia.

P.: Per esempio?

T.: Mah, per esempio, il timore di arrivare in ritardo. Il timore di non poter stare più bene

P.: (cenni o mormorii di assenso) e quindi?

T.: E quindi l’ansia può essere generata da un pensiero.

P.: D’accordo, ma nel mio caso? Continuo a non avere idea di quale pensiero può avermi generato ansia.

T.: Lo troveremo. Per ora l’importante è che lei convenga su questo punto: può esserci un pensiero. Un pensiero che possiamo chiarire e poi perfino modificare. E modificandolo, agire sulla sua sofferenza. Questa è la terapia cognitiva. Vediamo ora come e quando si presenta questa ansia. In quali momenti della sua giornata. Ora le farò delle domande precise.

 

E così siamo passati alla fase successiva: dal concordare le regole al grande tema dell’accertamento cognitivo. Che approfondiremo nei prossimi capitoli. Ora concludiamo con qualche altra annotazione teorica e pratica su come concordare regole.

Insomma, la terapia cognitiva si gioca tutta su questo rapporto tra pensiero verbale interno e altri stati d’animo non verbali. Al paziente il terapeuta cognitivo chiede sempre di effettuare il passaggio dal “sentire” e “provare” al “pensare frasi”. Passaggio a volte forse difficile, ma mai ritenuto impossibile. Non si deve andare alla ricerca di significati profondi, ma valutare le ragioni dei propri stati d’animo del presente con buon senso e semplicità.

Come già scritto, chi ideò questo principio terapeutico fu Albert Ellis. Ellis riteneva che gli stati mentali non solo fossero agevolmente traducibili in parole, ma che essi fossero sempre determinati da pensieri coscienti espressi in forma verbale, o almeno verbalizzabile, che precedevano gli stati emotivi “sentiti”. Questa posizione era ingenua, ma di grande efficacia pratica nello stabilire i principi della tecnica cognitiva.

La formulazione ingenua non impedì a Ellis di cogliere con grande chiarezza e precisione il nuovo principio terapeutico: la sofferenza mentale non dipende da stati mentali inconsci e pregressi, ma da elaborazioni mentali consapevoli che il soggetto si auto-infligge nel presente con un certo automatismo ma in fondo volontariamente, dandone per scontato il valore di verità e la fondatezza razionale. Ellis svalutava quindi tutta la porzione non esplicita e non verbalizzabile dell’elaborazione mentale, sostenendo che invece è la componente esplicita l’elemento responsabile della sofferenza emotiva.

Una spietata e instancabile amorevolezza: Otto Kernberg e John Clarkin a Padova. 21-23 settembre 2011
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Naturalmente Ellis non arrivava a sostenere che i pensieri si presentino alla mente sempre e comunque in forma perfettamente articolata e sviluppata. Per Ellis si tratta, piuttosto, di piccole e rapide frasi, apparentemente innocue ma in grado di generare sofferenza.

La formulazione con la quale questi pensieri si presentano alla mente è spesso semplicistica e definitiva: etichettature, indottrinamenti, auto-istruzioni, per lo più poco argomentate e ancor meno articolate ma auto-inflitte in forma di verità apodittiche e auto-evidenti con un gusto che parrebbe masochistico, dato il loro contenuto negativo. Ellis le chiamava “sciocche frasi” che usiamo dire a noi stessi.

La componente effettivamente terapeutica del trattamento diventava quindi la ricerca e l’esplorazione di queste “sciocche frasi” (Ellis, 1962). Così si esprime una paziente descritta da Ellis: “Ogni qual volta mi scopro ad avere dei sensi di colpa o un turbamento, penso immediatamente che la causa di questo turbamento debba essere una sciocca frase che sto dicendo a me stessa…” Non si tratta più di andare a cercare le cause lontane della sofferenza, ma le cause mentali immediate, presenti ed agenti qui ed ora, in questo momento.

Per il terapeuta cognitivo ogni stato mentale è verbalizzabile come informazione, valutazione di una situazione più o meno problematica ed è padroneggiabile e modificabile attraverso la rielaborazione critica razionale e consapevole. Questo vale per qualunque stato mentale, dalle emozioni alle immagini mentali, dagli stati affettivi alle fantasticherie, dalle meditazioni più ponderate agli impulsi improvvisi. Ognuno di questi stati è traducibile in parole, in pensieri verbali comunicabili. E questo è valido anche per gli stati di sofferenza emotiva che sono alla base delle richieste di trattamento terapeutico.

La condivisione esplicita di questo principio con il paziente è una regola molto caratteristica della terapia cognitiva. Essa invece non è sempre presente in altri orientamenti terapeutici, nei quali si ritiene che queste spiegazioni esplicite delle regole del gioco possano o addirittura debbano essere almeno in parte evitate. Il che non vuole dire che esse siano intenzionalmente nascoste al paziente. Semmai si preferisce che esse emergano da sole dallo spontaneo articolarsi dell’interazione tra paziente e terapeuta. Si tratta di una concezione diversa, nella quale si prova diffidenza per l’esplicito, elemento ritenuto potenzialmente sospetto e in grado di falsare l’emergere dei contenuti psichici più profondi e inconsci. Non è invece così nella terapia cognitiva, la quale fin dall’inizio invece segnala la sua fiducia nella gestione esplicita e consapevole del gioco terapeutico e degli stati mentali.

 

 

BIBLIOGRAFIA: 

  • Castelfranchi, C (ed.) (1988). Che figura. Emozioni e immagine sociale. Bologna: Il Mulino, 1988.
  • Clark, D. A., Beck, A. T., Alford, B. A. (1999). Scientific foundations of cognitive therapy and therapy of depression. New York: John Wiley & Sons.
  • Ellis, A. (1962). Ragione ed Emozione in Psicoterapia. Tr. it. 1989. Roma, Astrolabio.

Il mio psicoterapeuta suona il rock

Di Gaspare Palmieri. 

 

La canzone è una penna e un foglio così fragili fra queste dita, è quel che non è, è l’erba voglio ma può essere complessa come la vita.

Una canzone, Francesco Guccini, 2004,

 

Il mio Psicoterapeuta suona il Rock! - Immagine: © Isaxar - Fotolia.com - Il lavoro psicoterapico può avvalersi di una serie di strumenti non propriamente nati all’interno delle teorie psicologiche, ma che possono essere utilizzati strategicamente dal terapeuta con diverse finalità come quella di:

  • migliorare l’alleanza terapeutica,
  • allenare il paziente al riconoscimento delle proprie emozioni,
  • evocare stati emotivi piacevoli o spiacevoli ed aiutarlo a riflettere sugli stessi,
  • condividere nuove idee e scenari rispetto al raggiungimento del benessere psichico,
  • dare speranza in situazioni fortemente problematiche.

La canzone d’autore italiana, ha una serie di caratteristiche importanti che la rendono uno strumento utile all’interno di un contesto psicoterapico. I testi dei cantautori sono caratterizzati dalla ricchezza e dalla profondità dei contenuti, trattando argomenti legati alle difficoltà esistenziali, al rapporto tra individuo e società, ai legami coppia e alla loro rottura, al dilemma tra ricerca di libertà e amore romantico, al sogno. Questi temi si presentano molto frequentemente all’interno di un percorso psicoterapico e il testo della canzone può così integrarsi molto facilmente.

Ma cosa si intende esattamente per canzone?

Psicantria - Copertina disco -
Articolo consigliato: La Psicantria: manuale di psicopatologia cantata.

Gli studiosi di musicologia fanno risalire la nascita della canzone italiana moderna al 1958, quando Domenico Modugno, dal palco dell’Ariston di Sanremo regalò al mondo la sua celeberrima Volare, e le sue braccia spalancate nel ritornello hanno assunto il significato storico di una piccola rivoluzione. Non solo la gestualità di Modugno, così lontana dalla compostezza controllatissima dei cantanti del tempo, lasciò un paese intero a bocca aperta, ma la canzone in sé rappresentava un’evidente evoluzione a livello di contenuti rispetto ai brani di quel periodo. Fino ad allora la canzone italiana aveva avuto come tema prevalente l’amore idealizzato e romantico, spesso cantato in modo melodrammatico, o ancora prima tematiche patriottiche derivanti dalla canzone popolare. Volare apriva la strada a un modo di scrivere canzoni più libero, che lasciva spazio alla metafora, alla fantasia, al sogno, e paradossalmente alla realtà più autentica.

Da quel momento la canzone italiana ha assunto le caratteristiche di un’entità più complessa costituita da un testo, una melodia, un’armonia e un arrangiamento che integrandosi costituiscono qualcosa di unico. Alcuni produttori definiscono la canzone come un piccolo film, che deve essere equilibrato in tutte le sue parti per essere un buon film.

 

Oltre al contenuto della canzone, ci sono altri due elementi da considerare per definire meglio la potenza dello strumento canzone.

Il primo è l’adattamento del testo su una musica (che distingue la canzone dalla poesia), capace di penetrare letteralmente nell’ascoltatore con effetti evocativi ed emotivamente stimolanti. Questi effetti sono legati alla musica, ma anche all’interpretazione vocale del cantante. L’interpretazione e la voce del cantante sono fondamentali. Sono ciò che rende immediatamente riconoscibile ed unico un brano a partire dalla voce narrante.

Potremmo definire la voce del cantante come una trasmissione di “umanità” da un individuo all’altro. In un gioco simbolico la voce narrante nella canzone può diventare la voce di tua madre che ti canta la ninna nanna, la voce di tuo padre che ti incoraggia ad andare avanti o che canta con te l’Inno di Mameli di fronte alla TV durante i Mondiali, la voce del tuo partner che ti sussurra all’orecchio qualche frase nell’intimità o addirittura la voce dello psicoterapeuta, che solitamente non canta (ma ci possono essere eccezioni…), ma che ti ascolta e che può pronunciare frasi chiave, che possono rappresentare una guida per la vita intera (o quasi). Francesco Guccini, nel suo sforzo metacognitivo intitolato appunto “Una canzone”, parla di “…una voce che non è voce, ma con carambola lessicale, può essere un prisma di rifrazione, cristallo e pietra filosofale”.

Musica didattica metacognitiva - © Tommi - Fotolia.com
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Il secondo elemento è l’incredibile capacità delle canzoni di penetrare nella vita delle persone, consciamente o inconsciamente. L’anno scorso è uscito un bel libro di Vincenzo Incenzo (2011), musicista e parolierie di Renato Zero, La canzone in cui viviamo, un viaggio in cento canzoni importanti per la musica italiana. L’autore sottolinea come le canzoni, proprio perché brevi e memorizzabili, possono rappresentare dei cips cibernetici che vanno a costituire la nostra memoria di vita, dei markers delle nostre emozioni e dei nostri ricordi, un concime ricchissimo per la nostra crescita maturativa.

Risultano addirittura fondamentali in quel bisogno di appartenenza che caratterizza ad esempio gli adolescenti, soprattutto nel mondo di oggi. Secondo la psicosociologa Marylin Brewer (1991) gli individui oscillano tra due bisogni fondamentali: quello di appartenenza ad un gruppo e quello di differenziazione. Certe canzoni riescono a rispondere ad entrambi i bisogni allo stesso tempo. Da una parte il brano ci dice “Sei uno di noi”, fai parte del nostro gruppo, non sei solo, ma dall’altra ci dice anche “Sei unico” o “Siamo unici”. L’inno generazionale di Vasco Rossi Siamo solo noi (1981) è un esempio perfetto di appartenenza (Siamo…noi) e differenziazione (solo) dal resto del mondo piccolo borghese e perbenista. Visto che di questi tempi non si può citare Vasco Rossi senza fare dedicare un pensiero al grande “rivale”, non possiamo dimenticare Luciano Ligabue che canta Non è tempo per noi (1990), un manifesto degli abitanti della “provincia” del mondo, un po’ delusi, un po’ disillusi, in cui migliaia di fans del cantautore di Correggio si identificano da oltre due decenni. Vasco Rossi e Luciano Ligabue, sicuramente i due cantautori italiani viventi con più vasto seguito, gli unici oggi a riuscire a celebrare quelle incredibili cerimonie laiche che sono i concerti negli stadi, devono il loro meritato successo alla capacità di scrivere canzoni in cui risulta molto semplice riconoscersi e identificarsi.

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Vasco Rossi ci riesce scrivendo testi dai confini concettuali spesso un po’ labili e indefiniti, con tanti puntini di sospensione, che vengono riempiti dall’esperienza stessa dell’ascoltatore. Frasi come “ti piace vivere come vuoi”, “siamo i difficili, fatti così”, “liberi, liberi siamo noi” nella loro spontanea genericità, sono un invito immediato all’identificazione.

Luciano Ligabue usa un linguaggio più preciso e circostanziato, che ha però la stessa capacità di favorire il processo di immedesimazione dell’ascoltatore, cercando un equilibrio tra il racconto di un’esperienza personale e la voglia di condividere in un sentimento collettivo, come in “A parte che i tempi stringono e tu li vorresti allargare e intanto si allarga la nebbia e avresti voluto vivere al mare” (Niente paura, 2007), o in “E ora che ci sei, fammi fare un giro su chi non son stato mai” (Questa è la mia vita, 2002) “L’amore conta, conosci un altro modo per fregar la morte?” (L’amore conta, 2005).

Spesso è proprio quando riascoltiamo una canzone dopo tanti anni che ci rendiamo conto quanto quella canzone ha significato per noi, a quali ricordi è collegata, in una sorta di intricato percorso mentale fatto di associazioni che spesso ci lascia a bocca aperta.

Mi capita di notare costantemente questo fenomeno durante il gruppo di ascolto che tengo settimanalmente all’Ospedale Privato Villa Igea di Modena con gruppi di pazienti ricoverati affetti da depressioni gravi, disturbi della personalità e alcolismo. Anche i pazienti più gravi pare che abbiano conservato questo sistema evocativo e sono in grado di ricordare in modo preciso luoghi, circostanze e persone collegate alla canzone. Gli stessi pazienti che faticano invece moltissimo nelle ricostruzioni narrative dei propri disturbi nelle sedute psicoterapiche, come se ci fosse una vera e propria via preferenziale per le canzoni. Questa cosa mi ha sempre colpito.

Le canzoni possono rappresentare le tappe che aiutano l’autonarrazione della propria storia personale.

 

 

BIBLIOGRAFIA:  

  • Brewer, M. B., (1991). The social self: On being the same and different at the same time. Personality and Social Psychology Bulletin, 17, 475-482.
  • Incenzo V. La canzone in cui viviamo. No reply, 2011.

Stili educativi genitoriali e delinquenza adolescenziale.

– Rassegna Stampa – 

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze PsicologicheOgni genitore è costretto a confrontarsi con il tema dell’autorità genitoriale e a chiedersi quale si il modo migliore per trasmettere regole e valori ai propri figli.

Una ricerca pubblicata sul Journal of Adolescence ha indagato la relazione tra stile educativo genitoriale e percezione di autorevolezza da parte dei figli, allo scopo di vedere come questa è in grado di mediare nella messa in atto di comportamenti delinquenziali. 

Lo studio ha utilizzato i dati di una ricerca longitudinale, condotta su ragazzi delle scuole medie e superiori, nel corso della quale sono stati analizzati i fattori psicologici, sociologici, legali e di sviluppo che influenzano la delinquenza negli adolescenti. I ricercatori hanno valutato gli effetti di tre diversi stili educativi genitoriali: autorevole, autoritario e permissivo.

  • I Comportamenti aggressivi dei bambini - Immagine: © Pixlmaker - Fotolia.com
    Articolo consigliato: "I comportamenti aggressivi dei bambini - PARTE 1"
    I genitori autorevoli sono esigenti e controllanti ma sanno anche essere accoglienti e attenti alle esigenze dei figli. La comunicazione su regole e ruoli è bidirezionale e condivisa. I figli di genitori autorevoli tendono ad avere fiducia in sé stessi, autocontrollo e ad essere soddisfatti.
  • I genitori autoritari sono anch’essi controllanti ed esigenti, ma sordi alle esigenze dei figli. La comunicazione è quindi unilaterale e i ruoli e le regole sono stabiliti rigidamente e imposti dall’alto, senza condivisione dei significati. I figli di genitori autoritari sono scontenti, chiusi e sospettosi.
  • In ultimo i genitori permissivi sono poco esigenti e per nulla controllanti, accoglienti e sensibili alle esigenze dei figli; se stabiliscono delle regole raramente queste vengono rinforzate e fatte rispettare. I loro figli sono i meno autosufficienti, aperti all’esplorazione, e con minor autocontrollo delle tre categorie considerate.

L’elemento che lega lo stile genitoriale ai comportamenti delinquenziali è la percezione di legittimità dell’autorità genitoriale: lo stile autorevole rende gli adolescenti più propensi ad accettare i tentativi di socializzazione dei genitori e rende più facile che rispettino e facciano proprie le regole stabilite in famiglia; lo stile autoritario invece ha l’effetto opposto sulla legittimazione dell’autorità genitoriale e spinge gli adolescenti a respingere i tentativi di socializzazione dei genitori e di conseguenza anche le regole proposte; in ultimo lo stile permissivo rende difficile che i figli riconoscano e rispettino l’autorità genitoriale; sembra che questo stile educativo non favorisca né impedisca il verificarsi di comportamenti delinquenziali.

E tu che genitore sei?

 

 

 BIBLIOGRAFIA: 

Intervista al Dott. Paolo Rigliano

Paolo Rigliano, psichiatra e psicoterapeuta. Il suo nuovo libro , edito da Cortina, esce in questi giorni e propone un’analisi e una disanima scientifica delle pseudoterapie e delle ideologie riparative dell’omosessualità, considerata come una “malattia”, e in quanto tale, curabile.

Gentilissimo, il Dott. Rigliano ha accettato di fare due chiacchiere con la redazione di State of Mind:

 

 

BIBLIOGRAFIA: 

  • Rigliano, P. Ciliberto, J. Ferrari, F.  (2012). Curare i gay? Oltre l’ideologia riparativa dell’omosessualità. Raffaello Cortina Editore
  • Stacey, J., Biblarz, T.J. How does the sexual orientation of parents matter? In «American Sociological Review», 66, 2001, pp. 159-183.
  • Biblarz, T.J., Stacey, J. How does the gender of parents matter? In «Journal of Marriage and Family», 72, 2010, pp. 3-22.
  • Committee on Lesbian, Gay, and Bisexual Concerns (CLGBC), Committee on Children, Youth, and Families (CYF), Committee on Women in Psychology (CWP). Lesbian and Gay Parenting. American Psychological Association, Washington, DC, 2005.

E ora dove andiamo? Il conflitto libanese e la folle impulsività dei maschi.

 

E ora dove andiamo? Il conflitto libanese e la folle impulsività dei maschi. -  Immagine:  © Les Films des TournellesIeri sono capitata in un film di cui mi si parlava bene: “E ora dove andiamo?” (Et maintenant, on va où?), della regista libanese Nadine Labaki.

La trama è presto detta: in uno sperduto villaggio al centro di un conflitto che rievoca metaforicamente le guerre in Libano, un gruppo di cristiani e un gruppo di islamici (aventi come riferimento un sacerdote cristiano-orientale e un imam dalla lunga barba) si muovono ai confini dell’esplosione della violenza. Si comprende che all’inizio del film tutti in qualche modo sono riusciti ad evitare che lo scontro tra le due comunità religiose,ma la rabbia, l’intolleranza, la reciproca diffidenza premono alle porte. Il film però in fondo non è su questo, ma preferisce raccontare l’incredibile ostinata battaglia di un gruppo misto di donne cristiane e arabe (intelligenti, ironiche e allegre) per evitare che il conflitto esploda o torni a esplodere anche tra le poche case del paese.

Le donne sono belle, simpatiche, di buon senso, capaci di strategie e di solidarietà. Quello che stupisce sono gli uomini. Maschi senza apparente cervello, ammassi di muscoli pronti a esplodere. Stupidi e irragionevoli, incapaci di mettere un pensiero tra una notizia, una frustrazione, un problema e uno scatto di rabbia. Gli unici uomini che si salvano sono gli adolescenti che vivono e muoiono, ma almeno tentano di dare senso alla vita, costruire strategie di sopravvivenza, portare provviste e tutto il resto.

La cosa che mi ha colpito è che le donne per tenere sotto controllo questi maschioni impulsivi e senza cervello le tentano tutte.

(SPOILER!! chi non ha visto il film si fermi qui, verranno svelate parti della trama)

La prima strategia è il miracolo della Madonna che suggerisce pace ai paesani (discussione e costruzione di un altro punto di vista, come direbbero i cognitivisti di vecchia generazione).

La seconda tattica è l’arrivo di un gruppo di donne che lavorano in un night club, belle, sensuali, attaccate al denaro e piene di buonsenso. Lo scopo è distrarre gli uomini che ci fanno una figura barbina (tecnica della distrazione per scacciare i cattivi pensieri). Distratti, ma goffi, inconcludenti e velleitari.

Psicologia di Guerre Stellari 2: Mindful Yoda - Immagine: © 2012 Costanza Prinetti
Articolo consigliato: Psicologia di Guerre Stellari 2: Mindful Yoda

L’ultima tecnica: riempirli di droghe e hashish (psicofarmaci per attutire l’effetto delle emozioni dolorose e della sofferenza psicologica) mettendoli in un umore allegro e amichevole che nella realtà funziona per portarci alla conclusione del film.

Che dire. Confesso che mi sono divertita a contemplare questi maschi testosteronici e senza cervello. Ma mi è mancata nel film la speranza che con questi energumeni disregolati e impulsivi si potesse parlare, ci si potesse spiegare, si potesse discutere di problemi e costruire le ragioni dell’altro, rispettarle e a considerarle (intervento sulla mentalizzazione, cioè della capacità di riconoscere e gestire i propri e altrui stati mentali). 

Alla fine è un film con scene visionarie (soprattutto quella iniziale), che mescola comico e tragico, ora pessimista e dolente ora allegro e ottimista, in cui però le donne sono troppo fragili anche nelle loro strategie e furbizie per salvare la terra. Ma anche un film unilaterale che getta sugli uomini un discredito e un segno negativo che non vorremmo allargare a tutto il genere maschile, altrimenti siamo rovinate. Uomini ribellatevi all’imperativo stereotipante dell’impulsività!

 

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