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Psicologia di Guerre Stellari 2: “mindful” Yoda

Psicologia di Guerre Stellari 2: Mindful Yoda - Immagine: © 2012 Costanza Prinetti

La lettura dell’articolo di Gabriele Caselli sul Maestro del Dark Side, Darth Vader , mi ha fatto riflettere sull’altro grande personaggio della saga di Lucas: il Maestro Indiscusso della Forza, Yoda (Sansweet et al., 2008). Master Yoda rappresenta in Star Wars il Gran Maestro del Consiglio e dell’Ordine Jedi, uno dei membri più saggi e anziani dell’Ordine, e probabilmente il più potente tra tutti i cavalieri Jedi.

Non sembra che Yoda viva in un costante atteggiamento mindful? Sembra che lui non conosca il doing mode, la “modalità del fare” in automatico, è sempre attento e consapevole di ciò che sta facendo. Che stia masticando il bastoncino di gimer (ve lo ricordate?), o suonando il suo flauto donatogli dagli Wookie di Kashyyyk, appare consapevole e attento a ciò che gli accade, momento per momento… per momento. E allo stesso tempo, come i migliori esseri (non necessariamente umani…), esprime la sua rabbia, lasciandola scorrere e fluire, come nel tragico duello contro l’Oscuro Lord Sidious, portando con sé tutto il dolore della strage dei Cavalieri Jedi.

Psicologia di Guerre Stellari: Una diagnosi per Darth Vader. - Immagine: © 2011-2012 Costanza Prinetti
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Appena ho avuto in mente quel piccolo mostriciattolo verde, basso (66 cm per l’esattezza) e simpaticamente brutto, mi sono venuti in mente i sette principi della mindfulness indicati da Jon Kabat Zinn (2005) e ripresi dai recenti approcci ACT (Harris, 2011):

1) Atteggiamento non giudicante e 2) accettazione: lui per primo è consapevole e accetta anche la presenza del Lato Oscuro nel mondo, ma soprattutto dentro le anime. Venne tentato dal Lato Oscuro, tanto tempo fa… in una galassia lontana (“Dentro di me, una oscurità io porto). Chissà quante volte, durante le sue pratiche di meditazione, ha lasciato scorrere le emozioni legate a quella tentazione.

3) Pazienza: come raccontano su Jawapedia, Nel 200 BBY, Yoda, insieme ad altri grandi Maestri, scoprì che la forma della Forza era diventata strana e incerta. Studiando il mistero in meditazione, il Consiglio aveva accettato la sua interpretazione – la potenza del Lato Oscuro stava crescendo. Alcuni pensavano a un imminente ritorno dei Sith, ma siccome nessun Signore Oscuro si era rivelato, Yoda propose una altra teoria: l’arrivo del Prescelto della Forza, che avrebbe distrutto i Sith e il Lato Oscuro una volta per sempre. Questa consapevolezza probabilmente Yoda l’ha raggiunta solo con un grande sforzo di meditazione, che l’ha “risvegliato” e gli ha permesso di guardare oltre ciò che la maggior parte dei suoi colleghi Anziani Maestri stava professando.

La “mente del principiante”: pensate a quanto possa essere curioso un vecchietto di 900 anni… invece no, Yoda, durante la Guerra dei Cloni, “trasmigra” brevemente nel Lato Oscuro per comprendere le ragioni profonde per le quali il Conte Dooku gli propose di passare al Lato Oscuro. Ricordiamo che, proprio l’aver affrontato questa prova, in modo autentico e curioso, gli ha permesso di diventare definitivamente “intoccabile” dal Lato Oscuro.

5) Fiducia: “Difficile da vedere, il Lato Oscuro è”; questa considerazione non ha mai fatto desistere Yoda dal continuare a meditare, aspettandosi fiducioso che il mondo non sarebbe caduto nelle mani del lato oscuro (cosa che, peraltro, avviene, con grandi festeggiamenti delle truppe dei ribelli, usciti definitivamente vittoriosi dalla lotta contro l’Impero, a Endor). Tutto lo sforzo compiuto da Yoda negli anni è ripagato e lui, ormai diventato Luce, festeggia con tutti i ribelli.

6) Non cercare risultati: Questa potremmo tradurla con “non cercare i risultati subito… riflettere, affrontare le proprie paure e impegnarsi per i tuoi valori si deve”

7) Lasciare andare: Mentre addestra Luke Skywalker, Yoda cerca di insegnare al giovane futuro Jedi di far scorrere la Forza dentro di sé, “devi sentire la Forza”. “lasciare andare” chiede uno sforzo preliminare: di non voler controllare sempre che le cose siano come la nostra mente ci dice che sono. Questo atteggiamento, su cui le terapie ACT insistono molto (Harris, 2011) è ciò che ci fa convincere delle nostre convinzioni e non ci fa esplorare scenari alternativi (per dirla con le parole di Star Wars: Luke: non ci posso credere, Yoda: …ecco perché hai fallito).

Infine, 8 ) Impegno nella pratica… Non mi permetto di commentare l’esperienza di un Maestro che ha meditato per la maggior parte della sua vita… Considerando per di più che ha vissuto poco meno di 900 anni…

 

BIBLIOGRAFIA: 

  • Harris R. (2011). Fare ACT. Milano: Franco Angeli
  • Kabt-Zinn J. (2005). Vivere momento per momento. Milano: Tea Editore.
  • Sansweet S., Hidalgo P., Vitas B., Wallace D., Franklin M., Kushins J. & Cassidy C. (2008). The Complete Star Wars Encyclopedia. Del Ray Publishers.   
  • Jawapedia, Yoda (definizione) http://it.starwars.wikia.com/wiki/Yoda 

La chiusura degli Opg: una speranza di civiltà

 

La chiusura degli OPG: una speranza di civiltà. - Immagine: © tribalium81 - Fotolia.com - Nella discussione del decreto-legge sul sovraffollamento delle carceri, il Senato ha approvato un emendamento che dispone la chiusura degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari entro il marzo 2013. L’iter parlamentare prevede ora il passaggio alla Camera per il via libera definitivo ad un provvedimento che ha già suscitato numerose reazioni, sia per la delicatezza dell’argomento trattato sia per il carattere innovativo di un’azione politica che, nell’epoca intollerabile della casta, si è distinta per competenza, efficacia e chiarezza. La Commissione di inchiesta sull’efficacia e l’efficienza del Servizio Sanitario Nazionale, presieduta dal Senatore democratico Ignazio Marino, ha preso in esame la “Relazione sulle condizioni di vita e di cura all’interno degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari”, presentata dai Senatori Michele Saccomanno e Daniele Bosone. Tale rapporto ha evidenziato, negli istituti di detenzione psichiatrica italiani:

  • gravi carenze strutturali e igienico-sanitarie ad eccezione dell’Opg di Castiglione delle Stiviere e -in parte- Napoli;
  • un assetto strutturale “totalmente diverso da quello riscontrabile nei servizi psichiatrici italiani”;
  • una presenza di professionalità mediche specialistiche “globalmente insufficienti in tutti gli Opg rispetto al numero di pazienti in carico”;
  • la messa in atto di contenzioni fisiche e ambientali che “lasciano intravedere pratiche cliniche inadeguate e, in alcuni casi, lesive della dignità della dignità della persona”, e inoltre “la mancanza di puntuale documentazione degli atti contenitivi”.

 

La chiusura dei manicomi criminali - OPG (Ospedale Psichiatrico Giudiziario) - Immagine: © victor zastol'skiy - Fotolia.com -
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Fra le varie misure proposte dalla Relazione, le più significative sono:

  • elaborare un’organizzazione dell’assistenza sanitaria “conforme ai Piani sanitari regionali della salute mentale delle regioni sede di Opg”, che possa ricondursi “alla legislazione nazionale e alle linee guida nazionali in materia di cura e riabilitazione della patologia mentale”;
  • attuare la normativa già esistente in merito alla creazione di “reparti specifici di osservazione psichiatrica e per minorati psichici […] nell’ambito degli istituti penitenziari ordinari”;
  • realizzare “un più stretto raccordo fra magistratura e servizi psichiatrici territoriali per dare seguito alla giurisprudenza della Corte Costituzionale”. Il rapporto Saccomanno-Bosone sottolinea che “in una psichiatria coerente con le proprie finalità istituzionali non dovrebbero ricercarsi recinzioni più forti nei luoghi di cura e di recupero psicosociale”.

 

L’indagine sugli Opg italiani ha dedicato estrema attenzione alla pratica delle contenzioni, presente in tutte le strutture esclusa quella di Aversa, ritenendola una misura di sicurezza illegittima, ingiustificata e antiterapeutica. Sono state inoltre delineate le “Linee per una riforma legislativa della psichiatria giudiziaria”, che propongono un “ripensamento complessivo dell’istituto della non imputabilità e di tutti i suoi perniciosi corollari”; Saccomanno e Bosone specificano che:

  • la prevenzione, cura e riabilitazione dei pazienti autori di reato devono essere competenza dei Centri di Salute Mentale;
  • la valutazione di pericolosità sociale non è diretta emanazione dell’accertamento di infermità mentale;
  • il proscioglimento penale per infermità psichica implica la nomina di un amministratore di sostegno “con specifico incarico di provvedere alle necessità di cura del paziente”.

 

La Relazione Saccomanno-Bosone, recepita dalla Commissione Marino e rafforzata da un sostegno bipartisan dei gruppi parlamentari, ha ispirato il provvedimento di chiusura degli Opg appena licenziato dal Senato. La nuova norma prevederà l’affidamento ai servizi del territorio per i pazienti giudicati socialmente non pericolosi, e la creazione di strutture alternative per gli altri soggetti. La responsabilità di questa riorganizzazione viene affidata alle singole Regioni, che saranno chiamate a coniugare il superamento degli Opg con il quadro specifico di problematiche e risorse di ciascun territorio. I timori manifestati anche da chi si è sempre schierato per questa conquista di civiltà riguardano il rischio che vengano semplicemente creati degli Opg più piccoli, all’interno dei quali verrebbero mantenute le stesse modalità di non cura e, sovente, di maltrattamento la cui individuazione ha generato il percorso riformista che stiamo descrivendo.

Sono perplessità legittime, peraltro giustificate dalle difficoltà con cui un altro storico provvedimento, la chiusura delle case manicomiali, venne attuato sul territorio. La chiusura degli Opg, che riguarderà circa 1400 pazienti, può avvalersi però di due fattori rilevanti: la definizione di una data precisa, l’1 marzo 2013, entro la quale le Regioni dovranno aver approntato e concretamente realizzato il progetto di riorganizzazione delle risorse sanitarie; il reperimento di fondi certi, già illustrato in Senato, per dare attuazione al provvedimento sia sul piano delle strutture da creare sia per quanto riguarda il coinvolgimento delle necessarie figure professionali. Superare gli Opg è un passo dovuto se vogliamo accedere ad una forma di convivenza civile più evoluta; non è pensabile che in un Paese dove spesso per i “sani” garantismo significa impunità, dove i “sani” possono eludere una pena adducendo malesseri fisici non meglio identificati, esista una categoria, quella dei “folli” – come l’immaginario umano li ha storicamente definiti per difendersi dalle ombre che possono appartenere a tutti -, di fronte alla quale valgono solo le regole del cinismo, di uno Stato che non perdona e non recupera. Superare gli Opg significa credere nella democrazia più difficile e più scomoda, che riconosce dignità umana anche a chi non ha il potere, la forza e il prestigio sociale necessari a far valere i propri bisogni.

 

La risposta fisiologica alla paura può essere incongruente con la valutazione del pericolo?

– Rassegna Stampa – 

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze PsicologicheLa nostra risposta fisiologica alla paura può essere in contraddizione con quella che è la valutazione conscia e consapevole del pericolo. Un nuovo studio della University of Exeter lo dimostra.

Ai soggetti sperimentali è stato chiesto di guardare uno schermo in cui di tanto in tanto appariva una forma colorata. Per la metà delle volte, la forma colorata era associata a un lieve shock elettrico: i soggetti quindi dovevano riportare se si aspettavano o meno lo shock elettrico durante la presentazione di queste forme, mentre veniva monitorata la loro conduttanza cutanea, uno tra gli indicatori dell’attivazione fisiologica –arousal- del sistema nervoso simpatico associato alle emozioni.

A seguito di una serie di immagine cui venivano effettivamente associati shock elettrici i soggetti erano più propensi a predire che non ne avrebbero ulteriormente ricevuti con le immagini successive; d’altro canto, si aspettavano uno shock elettrico quando non ne avevano ricevuti in associazione alle poche ultime immagini mostrate loro. Questo fenomeno tale per cui ci si aspetta una sorta di “buona fortuna” dopo una serie di eventi negativi e viceversa, viene definito “fallacia del giocatore d’azzardo”.

Ma ritorniamo alla nostra ricerca: oltre alla valutazione cosciente dei soggetti in termini di espressione esplicita di loro aspettative, vi è ancora una variabile in gioco, e cioè la conduttanza cutanea. Curiosamente, le misurazioni della conduttanza cutanea hanno rivelato un pattern di risposta opposto rispetto a quello delle valutazioni consapevoli dei partecipanti. Nello specifico, dopo una sequenza di shock elettrici correlati alle immagini, i livelli di conduttanza cutanea poco prima della presentazione dell’immagine non associata a shock elettrico erano simili a quelli rilevati durante le immagini con scarica elettrica, proprio come se a livello preconscio ci si aspettasse un ulteriore shock elettrico e in linea con i meccanismi dell’apprendimento associativo; viceversa l’attivazione fisiologica risultava nella norma dopo un trial che non prevedeva gli shock elettrici. Lo studio è un mattoncino empirico a ricordarci che negli individui, al di là delle sofisticate capacità cognitive superiori di valutazione e ragionamento consapevole con cui tanto i cognitivisti lavorano in terapia, quando sono in pericolo entrano altrettanto in gioco processi veloci, automatici e associativi.

 
BIBLIOGRAFIA: 

Trattamento basato sul controllo nei disturbi dell’alimentazione (CFT-ED): un trial clinico randomizzato

Secondo il modello cognitivo e comportamentale  il disturbo dell’alimentazione è mantenuto da un set tipico di convinzioni disfunzionali riguardo il significato personale attribuito al peso e alle forme corporee, che interagisce con un insieme di caratteristiche cognitive stabili, che fungono da processi di mantenimento della psicopatologia.


La chiusura dei manicomi criminali – OPG (Ospedale Psichiatrico Giudiziario)

 

Lachiusura dei manicomi criminali - OPG (Ospedale Psichiatrico Giudiziario) - Immagine: © victor zastol'skiy - Fotolia.com - Si respira aria di grandi cambiamenti in Italia, su tutti i fronti e, tra una manovra e l’altra, ecco pronto il decreto sulla chiusura dei manicomi criminali (OPG).

Si tratta di un passo storico, emblematico che sarà ricordato nel tempo, esattamente come è successo nel 1980 con la legge Basaglia che portò alla chiusura dei manicomi, posti in cui la gente perdeva ogni dignità.

Partiamo dalle origini. Alla fine dello scorso secolo la drammatica condizione delle carceri gravate da promiscuità e affollamento, aveva evidenziato l’urgenza di mettere mano, al più presto, a un progetto legislativo che autorizzasse l’apertura di manicomi criminali. Gli antropologi criminali individuarono in questi istituti la soluzione al problema della delinquenza e lo strumento per attuare la difesa sociale. L’istituzione dei manicomi criminali rappresentò l’affermazione del giudizio che la delinquenza è malattia e la pena sta nella cura. Il delinquente per definizione è quasi sempre un anomalo o un ammalato: un pazzo. Questo concetto era il principio guida degli antropologi, dei clinici, degli alienisti dello scorso millennio, infatti, il criminale era considerato oggetto di custodia e cura e non solo di semplice repressione. Qualche anno dopo i manicomi giudiziari furono denominati stabilimenti speciali per condannati incorreggibili. E così si diede inizio all’apertura di una serie di strutture mai riorganizzate o riesaminate e quindi, dimenticate.

Psicopatia - Immagine: © Gina Sanders - Fotolia.com -
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Il Senato, in questi giorni, ha dato il via libera al decreto cosiddetto “svuota carceri”, ampio provvedimento in cui ci si occupa anche delle condizioni dei manicomi criminali, posti in cui i pazienti sono lasciati a se stessi e versano in condizioni di totale squallore.

 

La legge, fatta e approvata al Senato, stabilisce tempi e regole ben precise che andrebbero a regolamentare l’individuazione di nuove strutture atte ad accogliere queste persone, reiette dalla società. Il termine temporale sancito è il 31 marzo del 2013.

Di conseguenza, si è pronti a mettere le mani in un ambito sociale dimenticato, proprio perché rappresenta l’ambiente in cui è presente del rifiuto umano e sociale. Infatti, ad oggi, la collettività si è relazionata a questa tipologia di malessere e di disagio attraverso l’abbandono.

Sono passati solo alcuni mesi da quando la Commissione d’inchiesta del Senato sull’efficacia ed efficienza del Servizio sanitario nazionale entrò nel manicomio criminale di Barcellona Pozzo di Gotto (Me). “Davanti a noi – racconta il senatore Ignazio Marino, presidente della commissione – uno spettacolo imbarazzante. Le lenzuola sporche, i muri scrostati dall’umidità, la muffa, i materassi accatastati, gli uomini lasciati senza cure e costretti in condizioni disumane. Il primo uomo che ho visto era nudo, legato con delle garze, sdraiato su un letto. Era in queste condizioni da cinque giorni”. Il presidente della repubblica,  Napolitano, ha acconsentito a questo provvedimento, perché, sostiene, solo affrontando il problema potremmo non vergognarci più di questo squarcio di realtà.

“Nessuno, sia chiaro – ha risposto il ministro Severino – ha mai pensato di mettere in libertà potenziali serial killer o persone pericolose. I detenuti, se pericolosi, saranno custoditi in luoghi in cui ci sarà vigilanza ma, rispetto ad oggi, si privilegerà la cura. Non saranno certo liberi”. Poco più della metà dei pazienti rinchiusi nei manicomi criminali, sono internati perché ritenuti socialmente pericolosi. Tutti gli altri non sono stati liberati perché non avevano un progetto terapeutico, una famiglia che li accogliesse o una Asl che li potesse assistere. E’ come se fossero rifiutati dai “loro” territori perché mancano le risorse.

Qui nasce la domanda: dove andranno a finire? Ma non è l’unico interrogativo a cui sarà necessario dare delle risposte.

Nonostante i dubbi, le domande, la confusione e le esitazioni, il provvedimento ha già superato lo scoglio del Senato e, gli addetti ai lavori, sperano possa proceda senza intoppi. La soluzione sarà, dunque, costruire strutture sanitarie in ogni Regione, composte da team di psicologi, psichiatri e personale medico pronto ad affrontare le esigenze dei malati autori di reato.

“Non imparo perché sono pigro o per dire qualcosa a mamma e papà?” – Parte 2

Andrea Bassanini, Barbara Stefania Comerci.

Disturbi Specifici dell’Apprendimento e Attaccamento (Parte 2)

Non imparo perché sono pigro o per dire qualcosa a mamma e papà? - Immagine: © olly - Fotolia.com - VAI ALLA PRIMA PARTE DELL’ARTICOLO

Per quanto riguarda, invece, la letteratura scientifica, specifica su attaccamento e Disturbi Specifici dell’Apprendimento (DSA), non vi sono molti dati disponibili e il lavoro di approfondimento da fare sembra ancora molto.

Un tentativo significativo è stato fatto da Al-Yagon e Mikulincer (2004b) che si sono interessati al ruolo dei fattori attachment-based nei bambini con DSA. Il loro studio rileva che i bambini con DSA vivono le relazioni strette in modo meno sicuro e con livelli più alti di evitamento e ansia, rispetto ai compagni senza DSA. Inoltre, così come indicato in altri studi precedenti (Speltz et al., 1990; Lyons-Ruth et al., 1993; Moss et al., 1996), anche lo studio di Al-Yagon e Mikulincer (2004b) mostra che i ragazzi con DSA sono più vulnerabili a problemi di adattamento e provano più frequentemente alti livelli di solitudine.

Disturbo Specifico dell'Apprendimento. Immagine: © Leah-Anne Thompson - Fotolia.com -
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Questo studio conferma la scarsa tendenza a coinvolgere emotivamente l’insegnante, limitando al bambino l’opportunità di creare occasioni per esperire una relazione significativa con gli insegnanti. Lo stesso autore Al-Yagon (2007) rileva come il ruolo del caregiver (in particolare della madre) sia fondamentale nel fornire “frecce” di protezione nei confronti delle emozioni negative. Infatti, lo scarso uso, da parte della madre, di strategie di coping avoidant (di evitamento) nella relazione con il bambino svolge un ruolo di protezione rispetto ai sentimenti di solitudine provati dal bambino e speranza/sicurezza nelle relazioni. Esempi di queste strategie di coping avoidant? Non manifestare le proprie emozioni, evitare la compagnia di altre persone, “usare” il cibo e il sonno come strumenti di gestione per ansia e stress.

Altri studi (pochi), invece, indagano le comorbilità psichiatriche nei bambini con DSA (Hunt & Cohen,1984; Capozzi et al., 2008). Da questa ricerca si rileva come la presenza di stili di attaccamento insicuri nei genitori di bambini con DSA sono associati all’uso, da parte dei bambini, di strategie emotive e comportamentali disfunzionali. I bambini con genitori insicuri possono aver sviluppato un’immagine di sé e degli altri caratterizzata da fragilità e ciò può aver portato loro ad essere meno capaci di adattarsi alle situazioni stressanti come ad esempio i fallimenti scolastici (Wright-Strawderman & Watson, 1992).

Less than perfect: il rapporto tra perfezionismo e stile genitoriale. Immagine: © olly - Fotolia.com -
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Questa breve rassegna sulla letteratura che indaga in modo approfondito il ruolo dello stile di attaccamento nello sviluppo dei DSA pone le basi per una considerazione: la letteratura su DSA e Attaccamento è ancora scarna, i dati presenti sono spesso contraddittori. Tale scarso interesse per questo interessante aspetto sembra essere in contrasto con l’esperienza clinica, in cui sembra si senta sempre più frequentemente la necessità di proporre alle famiglie di bambini con DSA un intervento multi-dimensionale che prenda in considerazione diversi aspetti del DSA, oltre alla riabilitazione psicomotoria.

 

 

 

BIBLIOGRAFIA:

  • Al-Yagon M. (2007). Socioemotional and behavioral adjustment among school-age children with learning disabilities. The moderating role of maternal personal resources. The Journal of Special Education. 40(4): 205-217.
  • Al-Yagon M., Mikulincer M. (2004a). Patterns of close relationships and socioemotional and academic adjustment among school-age children with learning disabilities. Learning Disabilities: Research and Practice. 19(11): 12-19.
  • Al-Yagon M., Mikulincer M. (2004b). Socioemotional and academic adjustment among children with learning disabilities. The mediational role of attachment-based factors. The Journal of Special Education. 38(2): 111-123.
  • Capozzi F., Casini M.P., Romani M., De Gennaro L., Nicolais G., Solano L. (2008). Psychiatric comorbidity in learning disorder: analysis of family variables. Child Psychiatry Hum Dev. 39: 101-110.
  • Givon S., Court D. (2010). Coping strategies of high school students with learning disabilities: a longitudinal qualitative study and grounded theory. International Journal of Qualitative Studies in Education. 23(3): 283-303.
  • Hunt R.D., Cohen D.J. (1984). Psychiatric aspects of learning disabilities. Ped Clin North Am. 31:471-497.
  • Lyons-Ruth K., Alpern L., Repacholi B. (1993). Disorganized infant attacchment classification and maternal psychosocial problems as predictors of hostile-aggressive behavior in the Preschool classroom. Child Development. 64: 572-585.
  • Moss E., Parent S., Gosselin C., Rousseau D. & St-Laurent D. (1996). Attachment and teacher-reported behavior problems during the preschool and early school-age period. Development and Psychopatology. 8:511-525.
  • Speltz M.L., Greenberg M.T. & DeKlyen M. (1990). Attachement in pre-schoolers with disruptive behavior: a comparison of clinic-referred and nonproblem children. Development and Psychopathology. 2:31-46.
  • Wright-Strawderman C., Watson B.L. (1992). The prevalence of depressive symptoms in children with learning disabilities. J Learn Disabil. 25:258-264.

The effectiveness of video feedback therapy – Part 4

This article is the fourth part of a series about video feedback therapy.

The Effectiveness of video feedback therapy - Part 4 - Immagine: © Vanessa - Fotolia.com

Training mothers to use more emotion rich, elaborative conversation styles is beneficial to the psychological development of children.

However, both previously reviewed studies instructed mothers to spend additional time with their children during training. Therefore, perhaps it was this additional time mothers were spending with their children that was responsible for the beneficial effects on the children and not the therapy.

In an effort to control for this possible confound, van Bergan et al. (2009) included an active control group of mothers. Forty-four mothers and their children (children’s average age 45 months) individually participated in seven training sessions and assessments over eight months, which included a six month follow-up. Both groups of parents and their children were given the same amount of time in training; however, experimental mothers were trained to frequently reminisce and use open-ended questions.

Child & dog - © iofoto - Fotolia.com
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Both groups were trained to be more positive and encouraging with their children. Additionally, both groups of mothers were shown training voice-over videos. The videos experimental mothers were shown highlighted the use of open-ended questions, detailed descriptions and emotion terms. The control videos focused on allowing the child to play at their own pace and attending to the child. The results demonstrated that, immediately after training and at the six month follow up, experimental mothers and their children made more elaborative and emotional utterances than mothers in the control condition. The children in the experimental group also showed better emotion-cause knowledge than control children.

 

Therefore, it appears that video feedback training helps mothers have emotion rich, elaborative conversations with their children. In turn, positive effects have been demonstrated following such training on children’s memory narratives, elaboration style, self-recognition and better understanding of emotion, even when controlling for the amount of time mothers spend with their children. Until recently, children who have difficulties in understanding emotion have not been examined in relation to the development and maintenance of psychopathology. In my next installment I will be discussing this relationship.

 

 

BIBLIOGRAPHY:

Correlazione tra il livello di testosterone prenatale e lo sviluppo del linguaggio.

– Rassegna Stampa –

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze PsicologicheUna nuova ricerca australiana dimostra che i maschi esposti a più elevati livelli di testosterone prima della nascita avrebbero un rischio doppio di sviluppare ritardi nello sviluppo linguistico rispetto alle femmine. La ricerca, pubblicata sul Journal of Child Psychology and Psychiatry, ha analizzato i livelli di testosterone prenatale durante il periodo di critico per la crescita e lo sviluppo delle regioni cerebrali deputate al linguaggio.

Gli autori dello studio sono partiti dal dato epidemiologico secondo cui il 12% dei bambini presenta un ritardo significativo nello sviluppo del linguaggio, e in particolare i maschi avrebbero tendenzialmente uno sviluppo linguistico più tardivo e più lento rispetto alle femmine. L’ipotesi quindi è che la diversa esposizione prenatale tra maschi e femmine al testosterone (dieci volte superiore nei maschi rispetto alle femmine), così come in modo differenziale tra i bambini di genere maschile, possa essere un fattore di rischio in questo senso.

I risultati dello studio – che ha coinvolto circa 700 bambini sottoposti a valutazione delle abilità linguistiche all’età di uno, due e tre anni- hanno dimostrato che i bambini di genere maschile che presentavano elevati livelli di testosterone prenatale avevano una probabilità di due volte maggiore di sviluppare un ritardo nel linguaggio. Viceversa, nella femmine è stata riscontrata l’associazione inversa: gli elevati livelli di testosterone nel cordone ombelicale sarebbero correlati a un minor rischio di rallentamento nello sviluppo linguistico.

 

 

BIBLIOGRAFIA:

Le donne, l’ansia e la bicicletta. (Lettera alla donna milanese che va in bicicletta)

Una donna va in bicicletta, subisce un tentativo di scippo (che non riesce), cade, ora è in coma al policlinico.

Le donne, l'ansia e la bicicletta. Immagine: © Ksym - Fotolia.com - Isabella Bossi Fedrigotti questa mattina scrive sul Corriere un intervento sulla necessità che ci sia sicurezza a protezione delle donne in bicicletta, o almeno, in situazione di vulnerabilità, nel momento in cui si chiede di disincentivare l’auto in città. Osservazione condivisibile. Le donne, sostiene la Fedrigotti, devono poter stare tranquille. Anche la sera in metropolitana,  o per le strade, o la notte quando passeggiano. Si, sono sicura che la tranquillità sarebbe una gran cosa.

E’ il minimo che dobbiamo chiedere a chi ci governa, ma dobbiamo chiederlo consapevoli che la tranquillità perfetta, omogenea, senza smagliature è impossibile.

Sarà sempre difficile stare tranquille, e occorre anche sapere sopportare la paura. Donne, amiche, colleghe, non smettete di andare in bicicletta, avrete anche un po’ paura, vi sentirete che può affiancarvi qualcuno, che potete scivolare, essere aggredite, ma non mollate. La via della forza e della libertà passa non solo attraverso un desiderio di tranquillità, ma attraverso l’accettazione consapevole della paura, dell’ansia, della titubanza che ci vorrebbe magari più bisognose di protezione. Brava signora Galdabini. Brava questa donna che oggi è in coma ma che non ha avuto paura di avere paura. Non è la prima donna a essere scippata, né la prima a essere falciata da una macchina, Ha preso la sua bici, era notte e ha affrontato l’ignoto. Certo, di fronte a una persona in coma si prova sgomento, angoscia e rispetto per il dolore umano che vanno al di là di questa mia raccomandazione a non aver paura.

E’ fondamentale che in un momento di crisi in cui aumenta la criminalità, la piccola criminalità che sforna spesso grandi tragedie, non si smetta di esplorare il mondo, non si lasci la bici a casa, non si cada in una visione catastrofica, ansiosa, dolente, che ci vuole tremanti a chiedere protezione. L’emancipazione passa attraverso la consapevole costante dura accettazione della paura e dei pericoli del mondo.

E le donne ne sono capaci.

 

 

RIFERIMENTI:

Berticelli, Santucci. Scippata mentre va in bici, cade: in coma. Il Corriere della Sera (edizione online) , 26-01-2012

L’ Orgasmo Femminile: ma le Donne come Funzionano?

 ORGASMO FEMMINILE: MA LE DONNE COME FUNZIONANO?

L'orgasmo femminile: ma le donne come funzionano? - Immagine: © mademoh - Fotolia.com - L’orgasmo femminile è da sempre circondato da un alone di mistero dovuto in parte al fatto di non essere testimoniato, come invece accade per quello maschile, da alcun segno esteriore e visibile. Come recitava Giorgio Gaber: “Per l’uomo è chiaro, è evidente: quando arriva al massimo c’è la prova, ma le donne come funzionano? Maledizione! Non c’è la prova!”.

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Molti miti aleggiano ancora intorno a questo momento, come quello di derivazione freudiana che contrappone un orgasmo femminile “maturo” vaginale ad uno “infantile” clitorideo nonostante la scienza ne abbia da tempo ampiamente dimostrato l’infondatezza. Già negli anni ’60, infatti, le ricerche di Master e Johnson hanno evidenziato come non ci sia alcuna differenza fra orgasmo clitorideo e vaginale (Masters e Johnson, 1966).

Quali che siano le fibre nervose interessate in partenza, il meccanismo di innesco è lo stesso: la stimolazione diretta, manuale, o indiretta, durante il coito, del clitoride è probabilmente sempre essenziale per il raggiungimento dell’orgasmo femminile.

Oltretutto sembra che circa il 65-70% delle donne, in assenza di qualunque patologia, possa raggiungere l’orgasmo solamente mediante la stimolazione diretta del clitoride, pur provando un piacere anche molto intenso durante il coito.

In ogni caso, per poter raggiungere l’orgasmo, è necessario che che la donna riceva una stimolazione sufficientemente prolungata e adeguata, ovvero personalizzata: non esiste un modo standard di accarezzare una donna e per questo è necessaria una buona comunicazione all’interno della coppia.

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Ma che cosa accade esattamente in una donna durante l’orgasmo?

La risposta orgasmica segue la fase di eccitazione e rappresenta una discontinuità rispetto ad essa. Ha un inizio preciso nel tempo e, dal punto di vista della fisiologia, è caratterizzata da 3-12 contrazioni ritmiche e involontarie che si susseguono a intervalli di 0,8 secondi e interessano i muscoli perivaginali, perineali e talvolta anche l’utero. Durante questa fase, della durata di 3-15 secondi, aumentano la pressione sanguigna ed il battito cardiaco e vi è un leggero obnubilamento della coscienza (Fenelli e Lorenzini, 1999).

 

Mentre negli uomini questa fase è seguita da un periodo refrattario, ovvero un variabile lasso di tempo in cui non è possibile riprendere la sequenza eccitazione-orgasmo, nelle donne è a volte possibile che la curva dell’eccitazione risalga e che si inneschi nuovamente la risposta orgasmica.

Certamente questo è un modo molto distaccato di descrivere un’esperienza estremamente complessa e personale che non può essere ridotta ad un mero meccanismo fisiologico. L’orgasmo femminile, come tutto ciò che concerne il piacere sessuale, è, infatti, un fenomeno essenzialmente psicosomatico (Kaplan, 1974) ed è regolato non solo a livello genitale ma anche a livello centrale e pertanto condizionato da pensieri, emozioni, convinzioni, vissuti e significati.

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Anche definire l’orgasmo come il momento di massimo piacere può non essere del tutto esatto: il piacere infatti è una costruzione assolutamente soggettiva e dipende da molti fattori. Certo, l’orgasmo è un’esperienza solitamente molto piacevole, ma non necessariamente di massimo piacere possibile. Ci sono baci molto più intensi, coinvolgenti, di alcuni orgasmi.

 

Il fatto che la risposta sessuale sia regolata anche a livello emotivo e corticale comporta non poche complicazioni: molti disturbi sessuali sono conseguenza di paure, idee, convinzioni che influiscono negativamente sul normale andamento delle diverse fasi.

Ad esempio, ci sono persone molto allarmate dall’idea di manifestare di fronte al partner un’emozione così intensa, che fa sentire vulnerabili. Altri possono non accettare di dipendere da qualcun altro per ottenere sensazioni così intense e ne fanno una lotta di potere. Altri ancora sono ostacolati dall’ansia da prestazione.

Abbiamo detto, inoltre, che durante l’orgasmo c’è un leggero obnubilamento della coscienza: molte persone hanno paura di perdere il controllo e questo può causare anorgasmia, ovvero l’impossibilità di raggiungere l’orgasmo dopo una fase di adeguata eccitazione. In realtà quello che accade è un restringimento del campo di coscienza, come quando si va al cinema o si legge un libro molto intensamente e ci si immerge in quel mondo per goderselo appieno. Durante questa fase la coscienza si ottunde, ma non c’è assenza di coscienza di sé. Ci si lascia andare attivamente, orientando la coscienza verso l’esperienza sessuale, ed è possibile riprendere il controllo della situazione in qualunque momento.

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Questa paura è un problema prevalentemente femminile, perché generalmente gli uomini hanno un’esperienza più frequente ed immediata dell’orgasmo, fin dalla pubertà, sperimentandone così la non pericolosità e rassicurandosi più facilmente.

 

Il restringimento del campo di coscienza porta alla riflessione su di un altro mito relativo all’orgasmo, quello della simultaneità: l’orgasmo, proprio per questa lieve alterazione della coscienza, è il momento in cui si è maggiormente concentrati su se stessi e quanto più è intenso quanto più si sta da soli.

Al massimo è un fenomeno contemporaneo, ma di scarsa condivisione. Forse la sincronia fa sentire un po’ meno colpevoli, un po’ meno egoisti, ma essere molto attenti all’altro non aumenta il piacere, distrae, invece, dall’esperienza fisica, facendone perdere una parte.

 

Sotto le lenzuola: Uomini troppo “golosi” e troppo “ruminatori”? Cause o correlazioni nella Disfunzione Erettile - Immagine: Costanza Prinetti © 2012
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Questo non significa che l’esperienza dell’orgasmo vada sempre giocata sulla sequenzialità, ma nemmeno che ci si debba vincolare all’idea, sbagliata, che l’unico modo di fare l’amore, sia ottenere la simultaneità dell’orgasmo. Queste due modalità possono declinarsi entrambe nella vita di una coppia e permettere un’esperienza più ampia ed allargata del piacere.

La sessualità in generale ed il momento dell’orgasmo in particolare è, come dicevo, un’esperienza personale e complessa e l’unico principio che dovrebbe regolarla è la ricerca del piacere condiviso col partner: tutto ciò che pone limitazioni, che sancisce che cosa è giusto, maturo, meglio, ecc., andrebbe preso come uno dei modi possibili di stare in quella situazione e non come un vincolo assoluto.

 

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BIBLIOGRAFIA:

  • Fenelli, A., Lorenzini, R. (1999). Clinica delle disfunzioni sessuali. Carocci: Roma.
  • Kaplan, H.S. (1974) The New Sex Therapy. Brunner Mazel: New York (tr.it. Le nuove terapie sessuali. Mondadori: Milano, 1976).
  • Masters, W.H., Johnson, V.E. (1966) Human Sexual Response. Little, Brown & Co.: Boston (tr.it. L’atto sessuale nell’uomo e nella donna. Feltrinelli: Milano, 1967).

No alle lacrime, provocano effetti collaterali gravissimi!

 

 Lacrime -  Immagine: © Gina Sanders - Fotolia.comChi pensa che piangere possa essere un comportamento che potrebbe portare la persona amata a diminuire la distanza fisica, si sbaglia di grosso.

Attenzione, il pianto induce effetti collaterali inaspettati, assolutamente contrari alle aspettative!

Questa affermazione è il risultato di una ricerca pubblicata su Science, messa a punto da un gruppo di ricercatori israeliani. Il team di Noam Sobel, neuroscienziato del Weizmann Institute of Science di Rehovot, ha chiesto ad alcune donne di vedere un film triste e di raccogliere le loro lacrime in una fialetta. Subito dopo, dei volontari di sesso maschile hanno annusato le lacrime e una soluzione salina. Successivamente, venivano mostrate loro delle foto di visi femminili.

Volete sapere qual è stato il risultato? Beh, chi annusava le lacrime vere giudicava le foto di visi femminili meno sexy e meno eccitanti. Una vera tragedia!

Pianto_© Alena Ozerova - Fotolia.com
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Gli uomini mostravano, dunque una ridotta eccitazione sessuale, una minore risposta fisiologica, e ridotti livelli di testosterone. Infine, la risonanza magnetica funzionale ha rivelato anche ridotta attività cerebrale delle aree associate con l’eccitazione sessuale maschile.

 

Ma tutto questo a cosa è dovuto?

I ricercatori ipotizzano che ci sia una sostanza chimica nelle lacrime che porti a questo vertiginoso calo della libido. Pare che le lacrime contengano un feromone che è un segnale “socio-sessuale”, che permetterebbe alle donne di allontanare volontariamente le attenzioni “indesiderate” da parte degli uomini. Infatti, le lacrime dovute alla tristezza sono diverse da quelle generate dal pulviscolo atmosferico. Quindi, è come se avessero una funzione riflessiva di protezione. Non a caso quando qualcuno piange l’altro è pronto a prendersi cura, tranquillizzare e accudire.

Ma gli uomini, si infastidiscono, anzi si ritraggono alla vista delle lacrime, soprattutto se emesse da una donna.

Come mai? Potremmo azzardare delle ipotesi. L’uomo per natura è cacciatore, non di lacrime ma di facili prede. Quindi, alla vista di una donna che piange dovrebbe fare i conti, e combattere, con la sua vera natura per far spazio a un animo accudente che non immediatamente gli si addice. Tutto ciò induce ad avere una iniziale repulsione, con relativo calo della libido, che prontamente cede il posto ad un gesto di stizza e poi, forse, ad amorevolezza.

Ma sbaglio o gli uomini non piangono mai? Effettivamente, il vero uomo, quello tutto d’un pezzo, non cede mai a delle emozioni da “femminuccia”. Perché? Beh, verrebbe meno l’assunto di base: l’uomo deve essere UOMO!

Ma le donne, vorrebbero veramente un uomo che piange?

 

 

BIBLIOGRAFIA:

Inclusione ed Esclusione: l’importanza del contatto visivo.

– Rassegna Stampa –

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze PsicologicheSentirsi in connessione con gli altri, sentirsi parte di un gruppo, non sentirsi esclusi è un aspetto cruciale dell’esperienza umana. Uno studio condotto da ricercatori della Purdue University ha messo a punto una curiosa situazione sperimentale sul campo che ha dimostrato come la sensazione di inclusione o esclusione possa essere influenzata dal semplice contatto visivo perfino con un estraneo.

Uno sperimentatore se ne va in giro camminando per il campus, sceglie a caso alcune persone, e si comporta, alternativamente con le diverse persone scelte, in tre modi: guarda negli occhi, guarda negli occhi e sorride, oppure guarda nella direzione della persona scelta ma senza contatto visivo “come se la persona fosse trasparente”. Un secondo sperimentatore complice, su rapido indizio del collega, immediatamente ferma il soggetto scelto e chiede quanto, nell’ultimo minuto, si sia sentito disconnesso dagli altri.

Le persone che nel minuto precedente avevano avuto un contatto visivo (con o senza sorriso) si sentivano meno disconnesse rispetto a coloro che lo sperimentatore non aveva guardato negli occhi. “Anche perfetti estranei, che semplicemente camminando accanto a noi, non stabiliscono un contatto visivo hanno un effetto – seppur momentaneo- nel farci sentire esclusi e disconnessi dagli altri” dice Wesselmann. Di nuovo un’ evidenza empirica che mette in luce la forza del contatto visivo come modalità di connessione con l’altro anche se sono in gioco interazioni con un perfetti estranei.

 

BIBLIOGRAFIA:

E. D. Wesselmann, F. D. Cardoso, S. Slater, K. D. Williams. To Be Looked at as Though Air: Civil Attention Matters. Psychological Science, 2012; DOI: 10.1177/0956797611427921

L’importanza sociale dei pettegolezzi

 

“Lucilla hai sentito la novità? Pare che Cesare, in Egitto, abbia tradito Calpurnia con Cleopatra!” “Ma cosa dici Augusta! Quella Cleopatra!! Che poi pare faccia gli occhi dolci anche ad Antonio!!”.

L'importanza sociale dei pettegolezzi. Immagine: © iQoncept - Fotolia.com - Sicuramente chiacchiere e pettegolezzi sono parte della storia dell’uomo, ma oggi sappiamo anche che fanno bene! Scopriamo perché.

Non sapere cosa dire e restare in silenzio all’interno di un gruppo può creare moltissimo imbarazzo. Cerchiamo disperatamente qualcosa da dire, anche se priva di significato o funzionale al raggiungimento dello scopo relazione. È così che Dunbar introduce il settimo capitolo del suo libro dal titolo “Perché il gossip fa bene”.

Il pettegolezzo è una manifestazione di coinvolgimento, di contatto reciproco, così come per le scimmie lo è il cosiddetto grooming, in parole più semplici, una sorta di spulciamento reciproco. È una caratteristica essenziale di tutte le relazioni in tutte le culture. Come accennato in precedenza, il contatto fisico è essenziale per la vita sociale, ugualmente il pettegolezzo assolve alcune funzioni importanti tra cui aiutare a definire il modo di comportarsi nei riguardi degli altri, rendere più interessanti le nostre interazioni, comunicare un’immagine di sé anche attraverso la condivisione e l’affermazione di valori.

Il segreto per avere 150 amici. - Immagine: © hinnamsaisuy - Fotolia.com -
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La maggior parte dei pettegolezzi riguarda le questioni sociali, ma ci sono delle differenze nelle conversazioni fatte tra uomini e donne. È la sindrome di Harry-incontra-Sally-incontra-Susan. Mentre a Harry piace parlare di Harry, a Sally piace parlare di Susan. Ma perché? Nel primo caso, gossip al maschile, è mirato a fare pubblicità a sé stessi, una versione vocale della coda del pavone, come descritto in un altro articolo. Gli uomini, secondo Dunbar, passano alla modalità “pubblicità” in presenza di un pubblico femminile. È competitivo ed è un manifesto. Il gossip declinato al femminile, invece, è rivolto a soddisfare le necessità della propria rete sociale, a costruire e mantenere una complessa rete di relazioni, in una realtà dove è importante essere aggiornati sui fatti di tutti, in quanto membri di un gruppo.

 

Spettegolando con qualcuno possiamo capire il modo in cui altri potrebbero comportarsi, il modo in cui dovremmo reagire nell’incontrarli e il tipo di relazione che essi hanno con terzi. I pettegolezzi sulle relazioni rappresentano quindi una parte consistente delle conversazioni umane, ci permettono di scambiare informazioni su persone che non sono presenti, di insegnare agli altri come comportarsi con persone che non hanno mai incontrato prima, o come gestire situazioni difficili prima che queste si presentino.

Questa teoria di Dunbar potrebbe in definitiva fornire una giustificazione ad una pratica “frivola”, ma nondimeno intrigante e ampiamente diffusa! Siete d’accordo?

 

 

BIBLIOGRAFIA:

  • Dunbar. R (2011) Di quanti amici abbiamo bisogno? Frivolezze e curiosità evoluzionistiche. Milano, Raffaello Cortina
  • Feinberg, Matthew;Willer, Robb;Stellar, Jennifer;Keltner, (2012), The virtues of gossip: Reputational information sharing as prosocial behavior., DacherJournal of Personality and Social Psychology, Jan 9 , 2012, No Pagination Specified. doi: 10.1037/a0026650

Lo stress può determinare l’insorgenza di un disturbo dell’alimentazione?

 

Lo stress può determinare l'insorgere di un disturbo dell'alimentazione? - Immagine: © Alexandra Gl - Fotolia.comE’ ampiamente noto che situazioni di stress ed eventi importanti di vita possano influenzare negativamente le abitudini alimentari sia negli umani sia negli animali.

Una reazione di stress si verifica quando vi è un divario tra domanda e risposte di coping, messe in atto per riuscire a fronteggiare la situazione rischiosa (Steptoe, 1991). La letteratura suggerisce i diversi effetti esercitati dallo stress sul cibo. Per esempio, livelli bassi di stress possono indurre iperfagia, mentre alti livelli di stress potrebbero portare ad una diminuzione dell’ assunzione di cibo (Greeno & Wing, 1994). Alcune ricerche hanno evidenziato che nei pazienti sottoposti a stress acuto vi è un aumento di appetito, in risposta a situazioni stressanti e tendono ad assumere cibi più grassi durante i periodi difficili della vita. Invece, altri lavori hanno sottolineato che i fattori di stress più gravi o cronici di solito riducono l’assunzione di cibo, compresi gli alimenti grassi (Wallis, & Hetherington, 2004). Pertanto, gli individui dopo situazioni stressanti cambiano i loro comportamenti alimentari.

Ruggiero et al. (2003) hanno scoperto che lo stress determina un’associazione tra variabili cognitive e sintomatologia alimentare, associazione assente in situazioni di non stress. Inoltre, le dimensioni di impulso alla magrezza e di bulimia correlano con il perfezionismo in situazioni di stress, mentre la stessa relazione non si ha per l’insoddisfazione corporea. Quindi, lo stress può essere un fattore centrale nella genesi dei disturbi dell’alimentazione.

 

ESPERIMENTO:

Lo scopo di questo studio è di verificare se una situazione di stress indotto sperimentalmente possa indurre in soggetti non clinici una variazione di assunzione o riduzione di cibo subito dopo aver eseguito il compito. Mentre in studi precedenti abbiamo utilizzato una vera e propria situazione di stress reale, in questo caso è stata adottata una situazione stressante riprodotta in laboratorio, che ci ha permesso un controllo più rigoroso e la manipolazione della variabile sperimentale.

Aspetti metodologici:

Allo studio hanno partecipato 80 soggetti sani bilanciati per sesso e per età. Inizialmente, tutti hanno compilato una batteria di questionari per valutare il loro stato cognitivo e la presenza di eventuali disturbi alimentari. ciascuno dei partecipanti, successivamente, è stato stressato attraverso la realizzazione di un computo cognitivo di Working Memory visuo-spaziale, mutuato da un paradigma di n-back, eseguito al computer. Ed infine hanno compilato nuovamente la batteria di questionari.

I dati sono stati analizzati attraverso una serie di statistiche multivariate che hanno evidenziato un aumento sia dell’impulso alla magrezza sia della bulimia nel campione dei maschi e delle femmine. Per valutare il reale effetto dello stress sul sintomo alimentare sono stati realizzati dei modelli di equazione strutturale da cui si evince che il perfezionismo e controllo influenzano lo stress determinando impulso alla magrezza. Mentre, la bulimia è generata dallo stress che a sua volta è influenzato dalle variabili cognitive di perfezionismo e controllo.

Il principale risultato del presente studio è che la situazione stressante è un fattore determinante la genesi del disturbo alimentare. Quindi, lo stress ed altre variabili cognitive intervenienti determinano l’insorgenza di un disturbo alimentare.

 

 

BIBLIOGRAFIA:

  • Greeno C G, Wing R R. Stress-induced eating (2004). Psychological Bulletin 115, 444–464.
  • Ruggiero GM, Levi D, Ciuna A, Sassaroli S (2003). Stress situation reveals an association between perfectionism and drive for thinness. International Journal of Eating Disorder 34, 220–226.
  • Steptoe A. (1991). Invited review. The links between stress and illness. Journal of Psychosomatic Research 35, 633–644.
  • Wallis DJ, Hetherington MM (2004). Stress and eating: the effects of ego-threat and cognitive demand on food 43, 39-46

Il dolore in terapia: sofferenza da dimenticare o necessità evolutiva?

PSICOTERAPIA: UN DOLORE NECESSARIO

Il dolore in terapia: sofferenza da dimenticare o necessità evolutiva? - Immagine: © Dawn Hudson - Fotolia.com - Di recente mi sono piacevolmente imbattuto in un testo dal titolo “Manuale di psicoterapia ad uso del paziente (ovvero: come scegliersi l’analista). Dialoghi con Cristina” (Quattrini, 1991), del quale mi ha colpito un passaggio iniziale estremamente significativo:

“L’oggetto principale dell’interesse della psicoterapia è il dramma dell’essere umano: essendo evidentemente un fenomeno molto complesso, questo richiede almeno un tentativo di collocazione sul piano teorico. A un esame attento risulta evidente che il dramma non può essere valutato con un metro filosofico ab-soluto: chiunque converrà che il suo nucleo è il dolore, e le domande sul dolore sono di quelle che hanno una precisa risposta in ambito tecnico, essendo esso il prodotto di una τεχνη ancorché naturale, trattandosi cioè di un espediente biologico la cui funzione consiste nell’aumentare le chance di sopravvivenza. Sgravato il dramma di pesi metafisici, si apre allora il problema di come gestirlo, perché è ovvio che qualcosa da fare ci sia, dal momento che il dolore è lì programmaticamente perché qualcosa sia fatto: e se ci sono limiti alla possibilità di sopprimerne le cause, non ce ne sono alla possibilità di inventare reazioni, e qui il dramma ritorna ad essere δραμα, azione, e esistenzialmente l’antinomia tragica dolore-amore si risolve in una interazione funzionale, i cui elementi non sono più antinomici fra loro di una ruota che gira rispetto al motore che la spinge. Solo introducendo questo limite che necessariamente sposta per un tratto il ragionamento su un grado più basso di astrazione, si può accedere filosoficamente al dramma senza indurre nell’interlocutore considerazioni esistenzialmente fuorvianti: a meno che non si consideri la speculazione filosofica come non inerente all’esistenziale, nel qual caso viene da chiedersi di quale σοφια si sia in definitiva φιλοι” (pp.6-7).

Prima di addentrarsi in una trattazione sulle principali psicoterapie ad indirizzo psicodinamico, il testo affronta la tematica che accompagna l’attività di ogni clinico, di qualunque orientamento egli faccia parte: qual è il senso evolutivamente più profondo della psicoterapia? Che genere di vissuto rappresenta per il paziente e come collocarla nell’ambito della più universale esperienza umana che nasce con la vita stessa?

Lo sguardo del dolore - © Kelly Young - Fotolia.com
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Una prima e fondamentale risposta a queste domande è contenuta nel concetto di dolore, che costituisce un elemento ineludibile del cammino psicoterapico e il cui attraversamento risulta improcrastinabile se lo scopo del soggetto è giungere ad un’esaustiva conoscenza di sé. Ogni paziente si trova dinanzi ad una scelta che spesso, a causa di emozioni particolarmente intense, concede un ridotto grado di libertà: risolvere solo la problematica del sintomo o accedere ad una dimensione più profonda, più spirituale? In base alla risposta, talvolta inconsapevole, che viene fornita a questa domanda, il percorso clinico che ci proponiamo di impostare può subire delle variazioni significative: è il caso ad esempio di quei pazienti che dopo aver estinto i sintomi del panico si sentono molto bene e ci comunicano di voler interrompere la cura, nonostante sia a noi evidente che il loro modo di funzionare non è affatto mutato e rappresenta un equilibrio precario, pronto a crollare nuovamente alla prima invalidazione importante.

 

Oppure, al contrario, di quei soggetti che pur non presentando più un quadro sintomatico difficile si rivelano sempre più motivati alla terapia, e trasformano il percorso di cura in un prezioso viaggio di autoconoscenza durante il quale emergono elementi rimasti nascosti negli angoli più oscuri della storia di vita. Il dolore, ci spiega il “Manuale di psicoterapia ad uso del paziente (ovvero: come scegliersi l’analista)” può essere affrontato in due modi: attraverso la speculazione esistenziale, che introduce dall’alto concetti teorici esplicativi del senso dell’esperienza umana, oppure su un piano tecnico, laddove per tecnica si intende l’intervento di processi umani, innati o appresi, che organizzano i significati, conferiscono funzioni specifiche alle emozioni, predispongono l’individuo all’adattamento.

Il dolore non può essere evitato, né le sue cause più remote prevenute; è un principio unificatore dell’esistenza umana e tuttavia può mostrarsi ai nostri occhi con le sembianze di una necessità evolutiva, un’urgenza di cambiamento. Il tentativo di attribuire al dolore una definizione teorica assume una funzione difensiva che ci protegge dall’eventualità di doverlo affrontare veramente; elaborare speculazioni esistenziali sul significato neutro della sofferenza ci separa dal suo reale contenuto emotivo e la rende controllabile attraverso l’applicazione di sistemi di pensiero aprioristici. In terapia accompagniamo il paziente nella realizzazione di un’operazione differente, che da un lato lo espone ad un sacrificio più impegnativo poiché il contatto col dolore ha un carattere diretto e concreto, ma dall’altro gli consente un’esplorazione di risorse evolutive fondamentali.

Vado in terapia: aspettative e timori - Immagine: © andrewgenn - Fotolia.com -
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La sofferenza è davanti all’uomo e il suo manifesto programmatico è elicitare la rappresentazione di soluzioni alternative, modi diversi di costruire la propria identità, sistemi più flessibili coi quali integrare la novità dell’esperienza nello schema adattativo presente. Quando l’individuo si incunea nel dolore, o il dolore nelle pieghe dell’individuo, l’emozione può sembrare ingestibile, essere percepita come soverchiante. Ogni risorsa personale appare insufficiente ma da questo scenario può prendere forma, ed è il senso profondo della psicoterapia, una possibilità di evoluzione nella quale inserire nuove tecniche. Tecnica, appunto: funzione e strumento per compierla, comparsa genetica del dolore all’interno di un ambiente complesso e sviluppo di strategie che attorno al dolore, attivamente e creativamente, organizzano risposte.

 

In conclusione: può la psicoterapia essere una terapia del dolore col dolore?

 

BIBLIOGRAFIA:

  • Quattrini, G. P. (1991), Manuale di psicoterapia ad uso del paziente (ovvero come scegliersi l’analista). Dialoghi con Cristina. Qui ed Ora rivista di Gestalt, registrazione del Tribunale di Cagliari 6/91 del 22/02/1991.

Contesti Sociali Competitivi sul quoziente intellettivo.

– Rassegna Stampa –

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze PsicologicheUn interessante ricerca condotta da un gruppo di scienziati del Virginia Tech Carilion Research Institute ha messo in luce come l’esercizio di alcune funzioni cognitive possa venire compromesso in alcune situazioni sociali. In particolare sembra che l’espressione del QI possa, in alcuni individui, subire un temporaneo declino in contesti sociali competitivi.

Dopo avere misurato con uno strumento standard il QI dei partecipanti allo studio, i ricercatori hanno chiesto loro di svolgere una serie di compiti in piccoli gruppi per i quali ricevevano un feedback in cui le loro prestazioni venivano paragonate a quelle degli altri membri del gruppo. Gli scienziati hanno usato la risonanza magnetica funzionale (fMRI) per studiare come il cervello elabora le informazioni sullo status sociale in piccoli gruppi e come la percezione di questo status influenzi l’espressione di capacità cognitive.

Ecco alcuni dei dati raccolti:

1. Sono state registrate attività in diverse regioni cerebrali, in particolare l’amigdala, la corteccia prefrontale e il nucleo accumbens – regioni che si pensa siano coinvolte rispettivamente nei processi emotivi, nel problem solving, e nella ricompensa e piacere.

2. Tutti i soggetti hanno avuto inizialmente un aumento dell’attivazione dell’amigdala e una diminuita attività nella corteccia prefrontale; in entrambi i casi si è registrata minore capacità di problem-solving.

3. A fine compito, alte prestazioni di gruppo hanno coinciso con una ridotta attivazione dell’amigdala e una maggiore attivazione della corteccia prefrontale, entrambe associate ad una maggiore capacità di risolvere i problemi più difficili.

4. Variazioni di status in positivo erano associate ad una maggiore attività nel nucleus accumbens bilaterale, che è sempre stato legato all’apprendimento e ha dimostrato di rispondere alle ricompense e piacere.

Variazioni negative nello stauts corrispondevano a una maggiore attività nella corteccia cingolata anteriore dorsale, coerente con la risposta a informazioni contrastanti.

Età ed etnia non sono risultate variabili rilevanti

I risultati indicano quindi che l’espressione del QI in alcuni individui ha risentito dei segnali sullo status all’interno del gruppo e questo dato indica che non è appropriato considerare il QI come misura attendibile dell’intelligenza di una persona, senza considerare come questa funzione interagisce con il contesto sociale. Inoltre, data la profonda interazione tra elaborazione sociale e cognitiva, sembra proprio che l’idea di una divisione tra queste due funzioni cerebrali sia piuttosto artificiale.

“Gran parte della nostra società è organizzata intorno a piccole interazioni di gruppo”, sottolinea Kishida, principale autore dello studio, “capire come il nostro cervello risponde a dinamiche sociali è un’importante area di ricerca futura e ulteriori ricerche di brain imaging possono aiutare nello sviluppo di strategie efficaci a minimizzare l’effetto della pressione sociale in chi risulta più sensibile”.

 

BIBLIOGRAFIA:

I valori sacri: il prezzo della moralità alla luce della risonanza magnetica.

 

I valori sacri: il prezzo della moralità  - Immagine: © Szabolcs Szekeres - Fotolia.com - Quando si parla di valori sacri si è soliti fare riferimento alle credenze religiose, alle identità etniche e alle norme morali. Generalmente, questi valori guidano una serie di scelte effettuate nel quotidiano, dalle più comuni, cosa comprare al supermercato, a quelle più importanti, chi sposare. È possibile che la mancanza di condivisione di questi valori sacri porti al verificarsi di conflitti di varia natura.

Secondo la teoria deontologica i valori sacri sono elaborati sulla base di ciò che è giusto o sbagliato a prescindere dei risultati, mentre la teoria utilitaristica suggerisce che essi sono processati sulla base di costi e di benefici derivanti da una valutazione dei risultati ottenuti.

Ma come sono rappresentati nella mente questi concetti?

Giudizio morale: una questione di stomaco. Immagine: © Andy Dean - Fotolia.com -
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A tal proposito, in un recentissimo studio, realizzato dal gruppo di ricerca di Gregory Berns (2012), si valuta se è possibile violare questi valori sacri. Per realizzare ciò, in laboratorio era stimata l’integrità morale dei partecipanti all’esperimento. In questo caso il concetto di integrità si riferisce alla coerenza che un individuo mostra rispetto ai propri valori e alle proprie azioni. Per esempio, anche se non è possibile verificare se un individuo è disposto ad uccidere un essere umano innocente, si può testare la disponibilità potenziale di poterlo fare. In che modo? Firmando un documento contenente una serie di informazioni, anche se la firma non vincola la persona alla messa in atto dell’azione, ma crea una contraddizione tra ciò in cui si crede e quanto realmente si è portati a fare, avente, come conseguenza, una perdita di integrità.

 

E’ stato quindi messo a punto un compito sperimentale diviso in quattro fasi, inizialmente i partecipanti all’esperimento dovevano scegliere attivamente delle affermazioni in base ai loro valori sacri (es. Credi in Dio?), e alla fine dell’esperimento, avevano la possibilità di mettere all’asta quanto scelto. In questo caso coloro che decidevano di vendere andavano contro le loro regole morali. Così facendo, potevano guadagnare fino a 100 dollari per dichiarazione, semplicemente accettando di firmare un documento in cui si chiedeva di affermare il contrario di quello in cui credevano.

E’ ragionevole supporre che se qualcosa è giudicata veramente sacra, importante, preziosa, allora l’individuo dovrebbe mantenere integrità per quel valore e ci si aspetta che non possa firmare il documento finale. In questo caso firmando si crea un trade-off tra il guadagno monetario e il costo dell’integrità personale. Quindi, la quantità di denaro guadagnato rappresenta la misura dell’integrità della propria moralità.

Lavati e non ci pensi più. Ma i processi mentali restano. Immagine: Lady Macbeth by George Cattermole - Wikimedia Commons Public Domain Art -
Articolo consigliato: Lavati e non ci pensi più. Ma i processi mentali restano.
I dati raccolti in Risonanza Magnetica Funzionale indicano che i valori sacri che la gente ha rifiutato di vendere sono associati all’area imputata a valutare i torti subiti (la giunzione temporale sinistra) e all’area del recupero dell’informazione semantica (corteccia prefrontale ventro-laterale sinistra), ma non c’era nessuna attivazione del sistema di ricompensa.

Questo suggerisce che i valori sacri influenzino il comportamento attraverso il richiamo e l’elaborazione di regole deontologiche e non attraverso una valutazione utilitaristica dei costi e dei benefici. Infatti, quando i valori sacri hanno basi più solide, ad esempio si appartiene ad un particolare gruppo religioso o sociale,  si ottengono attivazioni più forti della prima area, e se si utilizzano parole come Dio vs parole comuni, si ottengono maggiori attivazioni della corteccia prefrontale dorsolaterale. Ciò suggerisce che gli individui che hanno forti rappresentazioni semantiche di valori sacri sono più propensi ad agire rispettando il loro credo.

Questi dati attestano che, quando gli individui possiedono valori sacri, non riescono a scendere a compromessi, rendendo qualsiasi ricompensa, anche se cospicua, inefficacie. A conferma di ciò, quando i valori sacri sono stati confutati, e i soggetti hanno scelto di percepire denaro, si è osservato un significativo aumento della attivazione dell’amigdala, il che suggerisce la presenza di una risposta emotiva negativa, è come se ci fosse dissenso nei confronti di noi stessi, quindi la scelta fatta non è giusta e genera un confitto.

Concludendo, i valori sacri sono regole deontologiche imprescindibili, che regolano la nostra esistenza e ci guidano nelle azioni, fino a farci sentire delle persone moralmente correte, impedendoci di effettuare scelte utilitaristiche.

 

BIBLIOGRAFIA:

L’approccio allo stress in psicologia cognitiva

Segnaliamo l’evento di lunedì 30 gennaio 2012 a Modena:

L’Approccio allo Stress in Psicologia Cognitiva.

Conduce l’incontro: Dott. Gabriele Caselli

Parte del ciclo di conferenze Ridurre lo StressScarica la locandina con il calendario delle conferenze (PDF).

Organizzatori:

  • Cognitivismo Clinico Modena
  • Associazione per la promozione della Psicoterapia Cognitiva e Cognitivismo Comportamentale — Circoscrizione 3

 

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