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Da Freud ai Neuroni Specchio: Schizofrenia e social perception.

 

Cervello, Neuroni Specchio. - Immagine: © V. Yakobchuk - Fotolia.com - P. G. Northoff, dell’Istitute of Mental Health Research dell’Università di Ottawa, sottolinea l’importanza, sia per la pratica clinica e l’impostazione del progetto terapeutico dei pazienti schizofrenici sia per la comprensione sempre più accurata del funzionamento del cervello umano, di una recente ricerca italiana:

“Questa ricerca mostra come i pazienti schizofrenici perdano il contatto con la realtà in quanto incapaci di integrare il loro sé con quello degli altri e quindi con l’ambiente sociale”, e ancora “ Questo lavoro studia una dimensione di base della nostra esperienza e della nostra coscienza, cioè l’abilità preverbale di integrare vari stimoli sensoriali al proprio sé e dimostra che i pazienti schizofrenici presentano attivazioni alterate della corteccia premotoria.”

Punto centrale dello studio è stato, dunque, l’evidenziare le basi neurali dell’incapacità di stabilire un confine tra sé e l’altro, tratto, per altro, peculiare nei pazienti schizofrenici.

Scendendo nei particolari dello studio, i ricercatori guidati da Vittorio Gallese, professore di fisiologia al Dipartimento di Neuroscienze all’Università di Parma, hanno utilizzato la tecnica del fMRI per osservare nei pazienti schizofrenici le risposte cerebrali a situazioni sociali, in particolare relative all’osservazione di sensazioni corporee esperite da altri. Il campione di questo primo studio era formato da un gruppo di 22 soggetti di controllo e 24 pazienti in una fase di esordio psicotico. Ai soggetti veniva fatto vedere un video dove una mano veniva a volte toccata, altre accarezzata, altre ancora schiaffeggiata da un’altra. Dalla risonanza si è potuto vedere che l’area della corteccia premotoria si attivava molto meno nei pazienti schizofrenici che nei controlli, e che l’attivazione era inversamente proporzionale alla gravità dei sintomi della schizofrenia, in particolare rispetto alla percezione del sé. Inoltre, l’insula posteriore che nei soggetti di controllo si “spegne” davanti all’esperienza tattile altrui, nei soggetti schizofrenici rimane attiva.

Gallese sottolinea come i risultati di questo studio abbiano per base il modello dei neuroni specchio (cellule nervose che si attivano sia quando si osserva una persona fare una azione, sia facendola in prima persona); infatti, traslando il concetto, possiamo pensare che basti vedere un’emozione su un viso o osservare la mano di un altro essere sfiorata per attivare nel nostro cervello una sensazione – e relativa attivazione- corrispondente. Detto questo, risulta evidente come questo modello debba essere preso in considerazione come ingrediente aggiuntivo per lo studio di tutte quelle patologie che hanno nell’intersoggettività un nodo cruciale.

Merito di questo studio è l’avere dato una chiave di lettura, mettendo in evidenza le basi neurali, di uno dei problemi nucleari della patologia schizofrenica: il non essere capaci di definire dei confini netti tra il sé e l’altro. D’altronde è forse vero che ogni nuova scoperta prende linfa dall’origine: infatti, già Freud aveva supposto che alla base del pensiero psicotico ci fosse un’alterazione nella distinzione tra me e un altro-da-me. Questa ricerca, di fatto, fornisce una nuova base scientifica a questa teoria, identificando i meccanismi cerebrali implicati.

Chissà che cosa avrebbe fatto Freud se avesse avuto a disposizione la risonanza magnetica funzionale…

 

 

BIBLIOGRAFIA:

ProYouth: un Progetto per la Prevenzione dei Disturbi Alimentari online

 

NASCE IL PROGETTO PROYOUTH: per la promozione della salute mentale in ragazzi e ragazze con un’età compresa tra i 15 e i 25 anni, incentrata soprattutto su un sano regime alimentare, sulla soddisfazione corporea e sui sintomi che caratterizzano i disturbi alimentari. Una piattaforma online per offrire ai giovani informazioni e diversi moduli di supporto.

 

ProYouth LogoSono gli alti standard suggeriti prima e successivamente pretesi dalla società? È la necessità di gestire e controllare tutto, anche i bisogni fisiologici più elementari come la fame? È il rifiuto di crescere, di vedere il proprio corpo bambino trasformarsi in un corpo adulto? Forse sono tutti questi aspetti, forse solo alcuni. Quello che ci interessa è l’esito che fattori non del tutto determinati possono avere sul benessere fisico e psicologico di ragazzi che transitano in una fascia di età che è per sua natura estremamente fragile e troppo influenzabile da principi e valori ammalianti e caduchi come l’importanza di un aspetto fisico che rientri in determinati standard.

A prescindere dai nessi causali o dai tentativi esplicativi, quello che abbiamo oggi è una serie di consapevolezze: quanto l’età adolescenziale sia un periodo difficile e delicato per il benessere psicologico e per una gestione efficace dell’emotività; quanto sia difficile rivolgersi ai servizi di cura senza sentirsi “diversi” e allo stesso tempo senza aspettare che il disagio vada oltre e sfoci in un comportamento alimentare problematico; quanto troppo spesso ci sia da parte dei genitori la voglia di raccontarsi che tutti gli adolescenti sono problematici, che alla fine rimane solo da aspettare che crescano.

Per tutte queste ragioni, la Scuola di Specializzazione in Psicoterapia Cognitiva e Cognitivo-Comportamentale Studi Cognitivi sta promuovendo in Italia un progetto per la prevenzione dei Disturbi Alimentari indirizzato alla giovane popolazione, che cerca di abbattere le difficoltà descritte utilizzando una modalità telematica, attraverso una piattaforma web, mirando a ridurre ai minimi termini le problematiche di stigmatizzazione e identificazione troppo tardiva del disagio.

DEFINIZIONE DI STIGMA SU PSICOPEDIA 

Il ProYouth nasce da una collaborazione internazionale che vede l’Italia schierata con Irlanda, Germania, Romania, Repubblica Ceca, Ungheria e Paesi Bassi nella prevenzione dei Disturbi Alimentari tra gli adolescenti, progetto ambizioso che può contare sul co-finanziamento della Executive Agency for Health and Consumers, Health Programme della Commissione Europea.

A partire dal 1 aprile 2011 questi sette Paesi hanno collaborato per costruire una piattaforma web attiva in Italia dall’inizio del 2012, che garantisce un sostegno anonimo e del tutto gratuito ai giovani utenti che vorranno registrarsi al programma e usufruire senza nessun costo di tutti i servizi offerti:

  • una sezione psicoeducativa contenente diversi consigli e le informazioni più rilevanti sui disturbi alimentari;
  • un blog che permetterà a tutti gli utenti di accedere in forma anonima e scambiarsi suggerimenti, consigli, rassicurazioni, incoraggiamenti, sempre sotto l’occhio vigile dei componenti dello staff che garantiranno sì la libertà di parola, ma nel rispetto delle norme di educazione e “convivenza”;
  • chat individuali, in cui un singolo adolescente potrà comunicare con uno psicologo gratuitamente e in forma anonima;
  • chat di gruppo in cui i ragazzi sotto la garanzia dell’anonimato potranno confrontarsi tra loro e con lo psicologo moderatore circa tematiche che li preoccupano;
  • un forum, moderato dallo staff ProYouth, in cui postare commenti, suggerimenti, informazioni e dubbi e commentare i post degli altri utenti;
  • una serie di questionari di monitoraggio, compilati regolarmente, che consentiranno di osservare l’andamento del disagio psicologico degli utenti.

Grazie a tutti questi strumenti e alla garanzia di anonimato e gratuità, il ProYouth vuole affiancarsi al sistema di cura convenzionale, non sostituirsi a esso, ma limitarsi alla fase di prevenzione e a tempestive indicazioni di accesso al sistema di cura stesso nel caso in cui un semplice malessere assumesse le sembianze di una problematica più seria.

L’efficacia di interventi di prevenzione e promozione della salute attraverso l’utilizzo di piattaforme online simili a quella proposta è già stata toccata con mano da alcuni precedenti progetti implementati dai partner tedeschi del ProYouth, per utenti universitari (Bauer et al., 2009) e adolescenti (Lindenberg et al. 2011).

Alla luce di queste considerazioni, diamo il benvenuto a uno strumento che, ci auguriamo, potrà facilitare la diffusione di informazioni corrette sull’alimentazione e fornire un primo sostegno alla difficile gestione delle emozioni in adolescenza.

 

RIFERIMENTI:
www.proyouth.eu
www.facebook.com/proyouth.italia

 

 

BIBLIOGRAFIA:

  • Bauer, S., Moessner, M., Wolf, M., Haug, S. and Kordy, H. (2009). ES[S]PRIT – an Internet-based programme for the prevention and early intervention of eating disorders in college students. British Journal of Guidance & Counselling, 37 (3), 327-336.
  • Lindenberg, K., Moessner, M., Harney, J., McLaughlin, O. and Bauer, S. (2011). E-Health for Individualized Prevention of Eating Disorders. Clinical Practice & Epidemiology in Mental Health, 7, 74-83.

Punizioni corporali sui bambini ed effetti negativi a lungo termine.

– Rassegna Stampa – 

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze PsicologichePer chi avesse ancora dei dubbi in merito: le punizioni corporali sui bambini hanno effetti negativi a lungo termine sul loro sviluppo.

Due ricercatori canadesi, Joan Durrant del Department of Family Social Sciences, dell’università di Manitoba, and Ron Ensom del Children’s Hospital of Eastern, Ontario, hanno analizzato la letteratura sull’argomento degli ultimi 20 anni, evidenziando come i bambini che hanno subito punizioni corporali siano più aggressivi verso i genitori, i fratelli, i compagni e, da adulti, anche verso il/la partner; sono inoltre più inclini a sviluppare comportamenti antisociali.

Una delle ricerche prese in esame suggerisce un effetto causale diretto delle punizioni corporali sul comportamento dei bambini, sia come risposta al dolore che come effetto del modellamento familiare, infatti in un campione di ben 500 famiglie in cui i genitori sono stati addestrati a ridurre le punizioni corporali con i figli si è registrato un corrispondente declino delle difficoltà comportamentali nei bambini.

Le punizioni fisiche sono anche risultate associate a disturbi emotivi come ansia e depressione e all’uso di droga e alcol; addirittura, come suggeriscono recenti studi di neuroimaging, queste provocherebbero alterazioni in alcune aree cerebrali in grado di aumentare la vulnerabilità alla dipendenza dall’alcol e alle droghe.

 

 

BIBLIOGRAFIA: 

Children’s understanding of emotion and behavior problems

 

The effectiveness of video feedback therapy. Part 5

Children’s understanding of emotion and behavior problems. - Immagine: © Marcel Mooij - Fotolia.com Until recently, children who have difficulties in understanding emotion have not been examined in relation to the development and maintenance of psychopathology. In recent years however, some research has been conducted which has demonstrated that children who have limited understanding of emotion are more likely to demonstrate behaviour problems and lack social competence (Izard, 2002; Denham, Blair, DeMulder, Levitas, Sawyer, Auerbach-Major & Queenan 2003).

Since the literature has shown that children who struggle to understand emotion are likely to develop behavior problems, recent research has investigated if mothers can be successfully trained to use more emotional and elaborative conversations with their children. This has recently been tested in the context of child oppositional behavior problems. Salmon, Dadds, Allen and Hawes (2009) provided 14 mothers of children (age three to eight) with oppositional behavior problems with Parent Management Training (PMT), which trained mothers to use reinforcement and teaching social learning strategies, and also trained them to be more elaborative and use a more emotion-rich style during conversations as well. These mothers were compared to 12 mothers provided with PMT only. Both groups of mothers received six sessions of training, which included watching videos of mother-child interactions. The videos watched by the experimental group encouraged mothers to use open-ended questions and emotion talk with their children while the video watched by the control group encouraged mothers to observe and encourage their children while they played.

The Effectiveness of video feedback therapy - Part 4 - Immagine: © Vanessa - Fotolia.com
Suggested articles: The effectiveness of video feedback therapy.

The results demonstrated that across both types of training, experimental and PMT, children’s oppositional behaviour problems decreased over the course of the training. The children of mothers who were provided with training which focused on emotional language and elaborative styles, showed increased elaborative style and emotional references in conversations compared to the comparison group. The experimental group did not, however, alter children’s behaviour significantly more than the PMT only group.

These findings are particularly important as, in the context of psychopathology, the children of mothers who were trained to use more emotion words and be more elaborative demonstrated an increase in understanding of emotion themselves. Additionally, this increase was only shown in children of mothers trained in this style of discourse, not in the children of mothers trained in PMT only. Further research would benefit from additional investigation of the effect increased emotional understanding has on children with clinical psychopathology. Based on the literature, it could be argued that this increase of understanding could lead to less behavior and social problems.

 

 

BIBLIOGRAFIA: 

  • Izard, C.E. (2002). Translating emotion theory and research into preventive interventions. Psychological Bulletin, 128, 796 – 824.
  • Denham, S, A., Blair, K. A., DeMulder., Levitas. J., Sawyer, K., Auerbach-Major, S., & Queenan, P. (2003). Preschool emotional competence: pathway to social competence? Child Development, 74, 238 – 256.
  • Salmon, K., Dadds, M. R., Allen, J., & Hawes, D. J. (2009). Can emotional language skills be taught during parent training for conduct problem children? Child Psychiatry and Human Development, 40, 485 – 498.   

“Ricomporre il puzzle. Quando il trauma interferisce nel percorso di crescita”

 

– Milano, 9 febbraio 2012.  Reportage dal convegno: RICOMPORRE IL PUZZLE – Quando il trauma interferisce nel percorso di crescita. GIOVEDI’ 9 FEBBRAIO 2012 ORE 9.00 – 14.30 Sala delle Colonne della BPM Via S.Paolo 12 – Milano – Organizzato dalla SOCIETA’ ITALIANA di PSICOLOGIA CLINICA e PSICOTERAPIA.

RICOMPORRE IL PUZZLE  Quando il trauma interferisce  nel percorso di crescita -  SOCIETA’ ITALIANA di PSICOLOGIA CLINICA e PSICOTERAPIA - Immagine:  Pablo Picasso, Girl with a boat. Nell’accogliente cornice di un palazzo nel centro di Milano si sono incontrati il 9 febbraio alcuni tra gli esponenti di rilievo italiani nell’ambito del trauma e sviluppo. Infatti, tra i relatori di oggi, ci sono Benedetto Farina e Isabel Fernandez. Il buon numero di partecipanti -circa 60- conferma quanto i temi affrontati sono di grande attualità, rilievo e interesse.

Come è noto, negli ultimi anni, l’interesse della scienza psicologica sulle conseguenze degli eventi traumatici nei bambini continua a crescere. La diffusione di interventi (EMDR su tutti) dimostra questo aspetto. E, come previsto, la presenza di Fernandez e colleghi copre circa la metà delle relazioni odierne.

Una breve apertura dei lavori di Marisa Zipoli (Presidente della Società Italiana di Psicologia Clinica e Psicoterapia SPCP, organizzatore del convegno), oltre ad introdurre l’evento, descrive la cornice teorica di riferimento dell’intero convegno.

Violenza sulle donne e dinamiche di vittimizzazione - Immagine: © olly - Fotolia.com
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In una delle relazioni più attese della giornata, quella di Benedetto Farina su sviluppo traumatico e trauma dello sviluppo, viene descritto il legame tra trauma e esperienza dissociativa (“il trauma disintegra, continuamente”), legame ormai dimostrato in moltissima letteratura. Le esperienze dissociative possono essere considerate come una sorta di “strategia salvavita” di fronte ad esperienze eccessivamente traumatizzanti per noi (aspetto peraltro sostenuto anche da Elena Simonetta nella sua stimolante relazione su Trauma e DSA). Il tema centrale però è il trauma dello sviluppo, esperienza continuativa dello sviluppo dei bambini in cui è prevalente una valenza relazionale; circa il 60% delle situazioni a rischio sono rappresentate dalla presenza di genitori neglecting. Tale sviluppo traumatico interferisce drammaticamente con i processi integrativi che avvengono durante lo sviluppo, contribuendo alla strutturazione di uno stile di Attaccamento di tipo Disorganizzato.
Piccola nota per gli addetti ai lavori: nel futuro DSM V dovrebbe (con discreta certezza) comparire una nuova categoria nosografica, il Developmental Traumatic Disorder; questo potrebbe diventare un terreno fertile (anche in termini di linguaggio comune per tutti) per ricerche scientifiche e per la strutturazione di interventi sempre più efficaci specifici sul trauma dello sviluppo.

Psicopatia - Immagine: © Gina Sanders - Fotolia.com -
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Alla brillante relazione di Farina segue un altro intervento molto atteso, quello di Isabel Fernandez, da pochi mesi Vice-Presidente della EMDR Europe, già Presidente EMDR Italia. Il tema trattato riguarda EMDR e reazioni da stress post-traumatico nei bambini vittime di grandi disastri e/o gravi incidenti. La proposta della Fernandez è quella di trattare tutti i bambini e non solo quelli che manifestano sintomi PTSD sopra la soglia clinica. Questo perché l’esperienza traumatica permane nella memoria implicita (e/o esplicita) dei bambini e, anche se non si struttura in un PTSD conclamato, può mantenere la sua funzione di fattore di rischio e riattivarsi successivamente in presenza di eventuali altre situazioni stressanti che richiamano l’esperienza traumatica fatta. Il dato riportato, che sicuramente fa riflettere, è che i bambini vittime di disastri che non presentano alcun sintomo PTSD sembrano essere meno del 30%, mentre dopo l’intervento EMDR, tale dato sale a iperbole verso il 93%.

Senza molte novità o spunti innovativi, l’interessante relazione rappresenta in larga parte una panoramica degli interventi svolti (e dei risultati dell’ormai molto nota efficacia…) negli ultimi anni durante alcuni tra i più rilevanti disastri o grandi incidenti avvenuti in Italia negli ultimi 10 anni (Alluvione di Capoterra, il terremoto dell’Aquila, l’incidente del Pirellone – in particolare i bambini della scuola Galvani sotto al Palazzo – a Milano etc…).

 

Dopo un breve e polare coffe break, è la volta di Elena Simonetta. Il suo intervento su DSA e Trauma conferma l’interesse emergente in letteratura su un approccio multifattoriale ai DSA (come ho già scritto nella serie di State of Mind su Attaccamento e DSA). In discordanza con gli approcci più diffusi, che vedono i DSA come problematiche legate a questioni “genetiche” , nell’intervento di Simonetta emergono diversi fattori che correlano con la strutturazione di un DSA, in particolare. Tali fattori sono: Sviluppo Psicomotorio, Sviluppo Psicolinguistico, Sviluppo Cognitivo, Attaccamento e Trauma. La teoria esposta sulla Disgnosia, ritenuto da Simonetta come un disturbo legato alla comprensione/apprendimento e non solo all’esecuzione di compiti richiesti ai bambini nelle prestazioni scolastiche, distingue in modo chiaro un problema “esecutivo” (ad esempio dislessia e discalculia) da un problema anche “funzionale” (la disgnosia appunto). L’intervento sui DSA proposto da Simonetta prevede quindi un intervento con focus doppio: uno specifico e centrato sui DSA e un secondo, non meno importante, su Attaccamento ed eventuale presenza di traumi nella storia evolutiva del bambino.

Istruzioni per creare uno psicopatico: recensione di "Io ti troverò" by Shane Stevens - Immagine: Copyright © 2010-2012 fazieditore.com
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Gli ultimi due interventi della giornata riguardano due applicazioni cliniche con pazienti con situazioni traumatiche. In particolare, Anna Rita Verardo riporta la sua esperienza con la nota e quasi onnipresente EMDR con i genitori. Il focus è centrato sugli aspetti che dovrebbero rappresentare i target degli interventi con i genitori: lutti, traumi, paure, convinzioni legate al sé e “riattivatori traumatici”, cioè quegli elementi che elicitano le esperienze legate al trauma (individuate tramite le narrazioni della AAI, Adult Attachment Interview, strumento principe per valutare lo stile di attaccamento adulto). Un’ipotesi di ricerca portata all’attenzione riguarda le modificazioni che le narrazioni all’AAI ottengono a seguito di un intervento EMDR sugli eventi traumatici.

In ultimo, Cecilia Ragaini, seguendo un altro approccio, maggiormente psicodinamico e altrettanto stimolante, relaziona sull’uso della Terapia con la Sabbia (Sand Play Therapy, nata in ambito jungiano) con i bambini che attraversano un percorso adottivo. L’ipotesi di base consiste nella considerazione che, per alcuni bambini, l’evento stesso dell’arrivo nel paese di destinazione si configuri come situazione traumatica e che l’uso della Sand Play Therapy possa aiutare il bambino ad esprimere immagini del proprio mondo interno in un modo diverso e più accessibile rispetto al piano “superiore” della verbalizzazione. Ciò permetterebbe un percorso di elaborazione del trauma, attraverso l’accesso a contenuti emotivi arcaici e primari.

Il titolo del convegno si pone come obiettivo quello di “ricomporre il puzzle” degli sviluppi traumatici nei percorsi di crescita e sembra che i relatori oggi siano riusciti nell’intento. Inoltre, credo abbiano sollevato alcune questioni cruciali e brillanti, che continuano a rappresentare terreno di discussioni, riflessioni e ricerche.

I Circuiti Neurali attivi nel Delirio di Riferimento

 

I Circuiti Neurali attivi nel Delirio di Riferimento. - Immagine: © Vibe Images - Fotolia.com In un recente studio condotto dal Centre for Addiction and Mental Health (CAMH), è stata dimostrata una maggiore attivazione neurale, in pazienti affetti da schizofrenia, durante alcuni test in grado di indurre un lieve forma di delirio di riferimento.

La ricerca è stata pubblicata in Dicembre sulla rivista Biological Psychiatry e costituisce un importante punto di partenza per le future ricerche sul trattamento delle psicosi, di cui ancora poco si conosce sia sul piano dell’eziopatogenesi che della cura.

I ricercatori si sono occupati di approfondire una particolare forma di delirio, chiamato appunto delirio di riferimento: si tratta di una forma di delirio caratterizzato dalla tendenza dei pazienti a considerare stimoli esterni quali giornali, articoli, conversazioni di estranei, come riferite a loro. Anticamera del vero e proprio delirio paranoide, il delirio di riferimento costituisce una forma difficile da trattare e soggetta a continuo rischio di “ri-attivazione” proprio perché legata a stimoli esterni “reali”.

I Sintomi Psicotici delle persone sane. - © rolffimages - Fotolia.com
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A differenza delle voci o di altri fenomeni allucinatori, il delirio di riferimento parte da una percezione corretta della realtà, che viene però letta in modo rigido e “autoriferito”, tale da rendere il disputing sulle credenze praticamente impossibile. 2/3 dei pazienti affetti da schizofrenia presenta questa forma di delirio e il meccanismo neurale coinvolto sembra essere un’eccessiva attivazione dei recettori della dopamina in specifiche aree cerebrali deputate ad identificare nell’ambiente informazioni rilevanti per se stessi e la propria sopravvivenza.

I ricercatori del CAMH, guidati dal Dr. Mahesh Menon, hanno cercato di individuare tramite risonanza magnetica funzionale (fMRI), i pattern di attivazione specifici del delirio di riferimento, con l’obiettivo di somministrare terapie e farmacoterapie più mirate a ridurre questo sintomo, spesso presente anche nei periodi intercritici e capace di condizionare negativamente un buon funzionamento sociale e lavorativo. 

La Psicosi e Roman Polanski: formazione per terapeuti. - Immagine: Immagine: The poster art copyright is believed to belong to the distributor of the film, the publisher of the film or the graphic artist - Retrievable from: : http://www.affichescinema.com
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A tutti i partecipanti all’esperimento, pazienti affetti da schizofrenia e soggetti di controllo, era richiesto di valutare se 60 frasi sottoposte loro durante la risonanza, fossero riferite o meno a loro: 20 frasi erano in effetti riferite a loro poiché includevano dettagli raccolti durante lo screening iniziale, 40 erano generiche (20 neutre “Lui colleziona CD”, 20 a valenza emotiva “tutti la odiano”).

I risultati hanno evidenziato la tendenza dei pazienti a riferire a loro stessi anche le frasi generiche, mostrando un maggior tempo di risposta nel decidere se queste fossero o meno riferite a loro; l’fMRI ha mostrato un’attivazione delle specifiche aree cerebrali (corteccia mediale pre-frontale e corteccia cingolata anteriore) in tutti i partecipanti quando riconoscevano le frasi realmente riferite a loro, mentre solo i pazienti affetti da schizofrenia hanno mostrato lo stesso pattern di attivazione anche quando rispondevano “no” alle frasi generiche. I ricercatori hanno attribuito questo pattern di attivazione, assente nei controlli, ad una difficoltà specifica per i pazienti schizofrenici nel differenziare tra stimoli rilevanti o non-rilevanti per loro stessi.

Una volta replicati e confermati, questi risultati possono portare alla messa a punto di terapie mirate ad intervenire su queste aree cerebrali in modo indiretto attraverso l’Attentional Retraining Therapy, una terapia mirata alla riabilitazione di funzioni cognitive legate all’attenzione, in grado di migliorare le capacità di intercettare e comprendere gli stimoli esterni, o in modo diretto attraverso la somministrazione di cicli ripetuti di Stimolazione Magnetica Transcranica (TMS), una forma non invasiva di stimolazione cerebrale, in grado di inibire o aumentare l’attivazione di specifici circuiti neurali.

Siamo in un ambito “futuristico” (almeno per l’Italia!) ma di enorme rilevanza se si pensa alla possibilità di ridurre le terapie farmacologiche e migliorare il generale funzionamento sociale e lavorativo, che rischia di essere gravemente compromesso dalla lettura frettolosa di una notizia di cronaca sul quotidiano locale, che improvvisamente appare allarmante per una casuale e improbabile attinenza con la propria vita!

 

 

BIBLIOGRAFIA:  

Attività fisica ed entusiasmo

– Rassegna Stampa – 

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze PsicologicheChe l’attività fisica faccia bene anche all’umore lo raccontano le linee guida NICE nel delineare il trattamento e prevenzione delle ricadute dei sintomi depressivi, lo racconta spesso chi ci vuole smuovere dalla pigrizia per motivarci a fare un po’ di sport. Alcuni ricercatori della Penn State University però hanno deciso di spacchettare queste ampie associazioni tra attività fisica e positività e si sono chiesti:“Quale tipo di emozioni si riscontrano nei giorni in cui facciamo un po’ di attività fisica e in coloro che sono generalmente più attivi?”.

I ricercatori hanno chiesto a 190 studenti universitari di tenere un diario quotidiano per 8 giorni in cui registrare la quantità e intensità di attività sportiva (lieve, moderata, o intensa) nel tempo libero, la quantità e qualità del sonno, i livelli di stress percepito e gli stati emotivi esperiti durante la giornata. In particolare i partecipanti dovevano segnalare attività fisico-sportive della durata di almeno 15 minuti.
Gli stati emotivi riportati nei diari quotidiani sono poi stati categorizzati in quattro gruppi: stati emotivi a valenza positiva e attivazione medio-alta (entusiasmo), stati emotivi piacevoli a bassa attivazione (tranquillità, soddisfazione), stati emotivi negativi e attivanti (ansia, rabbia) e infine stati emotivi negativi a bassa attivazione (tristezza).

Dai diari è emerso che le persone che sono fisicamente attive riportano un maggior livello di entusiasmo (stato emotivo piacevole e a medio-alta attivazione) rispetto a coloro che sono fisicamente più passive; inoltre nei giorni in cui i partecipanti si dimostravano più sportivi riferivano maggior livello di entusiasmo rispetto al solito. Mentre precedenti studi si sono focalizzati principalmente sulla valenza edonica questo studio allarga l’interesse di analisi anche al livello di attivazione dello stato emotivo: non solo lo sport si associa a stati emotivi positivi ma a stati emotivi attivanti, energizzanti ed entusiasmanti.

 

 

BIBLIOGRAFIA: 

Le proprietà anti-age del Prozac

 

Le proprietà anti-age del Prozac. - Immagine: © pkulik - Fotolia.com - Nel panorama scientifico numerose sono le ricerche che tentano di dimostrare l’efficacia degli antidepressivi di ultima generazione (SSRI) nel trattamento di diversi disturbi psicologici. I ricercatori impegnati in tale ambito giungono a conclusioni ben diverse, c’è chi li giudica meno efficaci di un placebo e chi ne sostiene l’utilizzo evidenziando i successi dell’intervento farmacologico.

La questione sembrerebbe dunque essere tutt’altro che chiusa, anche se sembra esserci un consenso diffuso rispetto all’idea che psicoterapia e antidepressivi conducano a migliori risultati se impiegati insieme nel trattamento di pazienti con disturbi d’ansia o dell’umore,  piuttosto che se scelti come unica modalità di intervento.

In che modo però il trattamento farmacologico è in grado di supportare “la terapia della parola“?

Secondo Nina Karpova, Eero Castrèn e illustri colleghi del Centro di Neuroscienze dell’Università di Helsinki, gli antidepressivi, come il Prozac, sono in grado di preparare il cervello, attraverso una riprogrammazione dei circuiti difettosi, ad accogliere con maggior permeabilità gli esiti del lavoro psicoterapeutico.

Anche in questo caso un ringraziamento particolare va al topo di laboratorio, che per esigenze di protocollo si è visto ripetutamente friggere i piedi subito dopo la comparsa di uno stimolo sonoro. Una volta consolidato l’apprendimento, accertato dal fatto che il povero animaletto mostrasse segni di terrore al solo udire il suono, i ricercatori hanno dato il via al training di estinzione: da quel momento al rumore temuto non seguiva alcuna scossa elettrica. I ricercatori avevano già notato in precedenza una differente reazione a seconda dell’età del roditore: i topi più giovani imparavano velocemente che il segnale sonoro non era più prodromo di pericolo, mentre i più anziani mostravano maggior resistenza ad interrompere l’associazione.

Antidepressivi
Articolo consigliato: Pillole o Parole?

In quest’ultimo studio i topi adulti, trattati con fluoxetina (Prozac) durante il training di estinzione, hanno dimostrato un comportamento simile ai giovani spavaldi. La paura del suono si è estinta in tempi più brevi rispetto al campione di topi non trattato farmacologicamente e soprattutto l’ansia non è ricomparsa a distanza di tempo.

Doveroso sottolineare che l’antidepressivo, in assenza di un programma di estinzione, non ha prodotto gli stessi incoraggianti esiti, condannando le cavie a permanere nello stato ansioso.

Già altri ricercatori avevano ipotizzato che la depressione fosse responsabile della morte dei neuroni mentre gli antidepressivi promuovessero la crescita di nuove cellule nel cervello. La ricerca di Castren approfondisce questa evidenza, riconoscendo al Prozac il merito di far regredire alcune aree del cervello ad uno stato di immaturità in cui i neuroni sono in grado di creare o interrompere più connessioni tra loro di quanto non sia in grado di fare il cervello adulto. In altre parole, l’antidepressivo favorisce la plasticità neuronale che a suo volta renderebbe il cervello in grado di riorganizzarsi nei termini della maggiore funzionalità psicologica promossa dal  lavoro psicoterapeutico.

Tuttavia ancora una volta mi tocca chiudere l’argomento con parole non certo nuove, questa volta pronunciate dallo stesso Castrèn:

We know that a combination of antidepressant treatment and cognitive behavioral therapy has better effects than either of these treatments alone, but the neurobiological basis is not known”.

 

 

BIBLIOGRAFIA:  

La coppia imprigionata

 

La coppia imprigionata. - Immagine: © michaltutko - Fotolia.com - Come è stato detto nei post precedenti, la scelta del partner può essere intesa come la ricerca della persona con cui realizzare un’aspettativa soggettiva: da una parte questa è legata alla necessità di sperimentare nuovamente un senso di condivisione già vissuto in passato, rendendo attuale un particolare contesto di attaccamento e senso di appartenenza, e dall’altra è determinata dal desiderio di esplorazione e ricerca, attraverso l’altro, di stimoli nuovi che permettano di modificare, il proprio scenario interno.

In alcune relazioni di coppia, però, utilizzare la relazione per riconfigurare il proprio scenario interno (Norsa e Zavattini, 1997) risulta essere un impresa impossibile. Sono le coppie che si costituiscono su un modello di relazione negativo: una sorta di “prototipo” relazionale che nega qualunque possibilità di cambiamento e che ciascun partner ripropone nella relazione attuale nel tentativo di anticipare le aspettative negative e assicurarsi un controllo e una prevedibilità sull’andamento della relazione.

La Scelta del Partner: dall'innamoramento alla costruzione di una relazione stabile. Immagine: © Artistan - Fotolia.com -
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Questa costante relazionale negativa (Seganti, 1995) è l’espressione di una difesa dell’individuo rispetto a situazioni relazionali che sono state estremamente frustranti; relazioni in cui realizzare un cambiamento in senso creativo ed evolutivo è stato impossibile, una lotta vana condannata al fallimento. Attraverso la ripetizione di uno schema frustrante, ma “familiare” e quindi prevedibile, viene preservato il senso di coesione e integrità del sé. In questo tipo di relazioni, le relazioni interne, deludenti e frustranti, si impongono sulle esperienze reali, negando la possibilità di una disconferma e revisione dei modelli interni e neutralizzando l’aspetto riparativo delle relazioni umane.

Nelle situazioni più gravi la sensazione soggettiva è quella di inglobare l’altro nei propri schemi o di esservi inglobato, perdendo di vista più o meno totalmente il partner reale: il costo di questa operazione infatti è quello di percepire l’altro solo per quegli aspetti che si teme di incontrare e dai quali ci si difende. La relazione è caratterizzata dalla paura e dalla diffidenza; a seconda del modello internalizzato si può temere e anticipare l’abbandono, il tradimento, la superiorità o la prevaricazione da parte del partner.

La Scelta del Partner. Immagine: © Christian Maurer - Fotolia.com -
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Quando entrambi i partner condividono un modello di relazione interno carico di aspetti “negativi” si parla di collusione di coppia (Diks, 1967). La relazione di coppia in questi casi diventa un luogo nel quale ci si sente imprigionati in dinamiche ripetitive e condannati all’infelicità, incapaci di utilizzare la dimensione naturalmente terapeutica dei rapporti umani. La collusione garantisce a entrambi di non avere accesso o modificare alcune aree della propria vita emotiva, mantenendo intatti i propri oggetti interni danneggiati (Monguzzi, 2003).


Per Freud (1914) la collusione di coppia si verifica quando uno dei due partner assume il ruolo infantile di colui che deve essere protetto e salvato in una “scelta per appoggio”, e l’altro quello complementare di onnipotente salvatore in una scelta complementare “di tipo narcisistico”, collusione che può arrivare fino al sadomasochismo. Nella scelta per appoggio si va quindi alla ricerca di un partner che rappresenti un sostituto genitoriale, protettivo e normativo, che si ponga come guida nel lavoro, nella vita e negli studi; la posizione in cui si mette chi sceglie questo tipo di partner è quella del bambino. Nella scelta di tipo narcisistico invece ad agire è il meccanismo di identificazione proiettiva per cui i propri bisogni infantili frustrati vengono proiettati sul partner, per poi identificarsi con lui; l’altro quindi rappresenta una parte del proprio sé, quella negata e rimossa, il sé stesso bambino a cui è stato negato l’amore materno.

Un altro tipo di scelta narcisistica è quella di chi proietta sul partner scelto gli aspetti idealizzati di sé che non riescono a esprimersi, l’ideale dell’Io che non è stato raggiunto. Chi compie questa scelta sceglie un ruolo infantile, ma il partner non sarà un genitore accudente, bensì un “dio” adorato e idealizzato. L’impossibilità di raggiungere le mete ideali che ci si pone è anche legata a una difficoltà nell’espressione e nell’uso dell’aggressività in modo costruttivo, questa infatti viene negata e rimossa, a favore di un’ eccessiva tenerezza che viene usata in maniera seduttiva e manipolatoria; l’aggressività tuttavia non è scomparsa e finisce per rivolgersi a livello inconscio verso chi ha raggiunto ciò che il soggetto avrebbe voluto per sé: i sentimenti verso il partner saranno allora ambivalenti, carichi di ammirazione e invidia. Relazioni di questo tipo possono condurre alla formazione di coppie dove la disparità tra i partner favorisce una totale identificazione con la coppia genitore/figlio.

"Gelosi tecno-patologici" - Immagine: © 2012 Costanza Prinetti -
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Le due scelte sopra descritte comportano relazioni complementari: uno dei due partner invierà segnali per ottenere appoggio, cercando nel partner una figura genitoriale o un dio da adorare, e l’altro sarà lieto di avere per compagno un bambino a cui dare quella felicità che egli stesso non ha avuto; in entrambi i casi uno dei due avrà una posizione di potere, anche se non sempre sarà quello ad apparire più forte.

Per Baldaro Verde (1990) è una scelta di scelta di ripiego quella di chi pensa di non avere scelta, per problemi reali legati all’aspetto fisico o a condizioni sociali estreme. Questo tipo di rapporto provoca spesso una svalutazione del partner; su di lui/lei vengono proiettati i propri sentimenti di inferiorità, per questo motivo chi accetta un rapporto di questo tipo si sente a sua volta una persona di poco valore.

La coppia: chi si somiglia si piglia? - Immagine: © Jan Will - Fotolia.com -
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A proposito di coppie imprigionate in un meccanismo relazionale che non lascia spazio al cambiamento Mony Elkaim (1990) spiega come in alcune coppie entrambi i partner si rivolgano, a livello esplicito, delle richieste che però sono impossibili da soddisfare perché in contraddizione a un livello più profondo con la propria “mappa del mondo”, cioè con il proprio bagaglio interno di rappresentazioni e aspettative su di sé, sull’altro e sulla relazione. L’idea è quella che ciascuno sia diviso tra due livelli di aspettative contrastanti, preesistenti all’incontro con il partner e che la relazione permette di esteriorizzare. È un po’ come se grazie alla relazione ciascuno spostasse sull’altro il “carceriere” che è in lui, garantendosi una protezione rispetto alle possibilità di modificare il suo mondo interno: se si riescono a portare in superficie entrambe le aspettative, quella esplicita e quella implicita contraria, emerge come la richiesta fatta al partner sia in realtà una richiesta impossibile da soddisfare, perché tale soddisfazione è in realtà inaccettabile a livello delle proprie rappresentazioni interne.

Nei prossimi articoli di questa serie verranno analizzate in maniera più specifica alcuni tipi di scelte relazionali.

 

 

BIBLIOGRAFIA:  

  • Baldaro Verde, J. (1990). Lo spazio dell’illusione. Viaggio attorno alla coppia. Milano: Raffaello Cortina.
  • Dicks, H. V. (1967). Marital Tensions. Trad. it. Tensioni coniugali. Studi clinici per una teoria psicologica dell’interazione. Roma: Borla 1992.
  • Elkaim M. (1990). Se mi ami, non amarmi. Orientamento sistemico e psicoterapia. Torino: Boringhieri
  • Freud S. (1914). Introduzione al narcisismo. Freud Opere, 7: 441-472. Torino: Boringhieri, 1975
  • Monguzzi F. (2003), La coppia: analisi della domanda di psicoterapia congiunta, Psychomedia.it, consultato il 20 dicembre 2011 su http://www.psychomedia.it/pm/grpind/family/monguzzi1.htm
  • Norsa D, Zavattini G, C. (1997). Intimità e collusione. Teoria e tecnica della psicoterapia psicoanalitica di coppia. Milano: Ragffaello Cortina Editore.
  • Seganti, A. (1995). La memoria sensoriale delle relazioni. Ipotesi verificabili di psicoterapia psicoanalitica. Torino: Bollati-Boringhieri.

Motherhood: Il mito della Madre

 

Motherhood: il mito della madre. - Immagine: © Dmitry Ersler - Fotolia.com Motherhood, o la mammitudine, come potrebbe essere tradotto, è un concetto sfaccettato di cui è assai difficile cogliere ogni ramificazione, che tocca la sfera della cultura, della biologia, della psicologia, le soggettivissime preferenze umane, la politica. Senza tentare di cogliere qui la mammitudine nella sua complessità, mi vorrei soffermare su alcuni dati interessanti riguardanti un suo aspetto specifico: quello dell’esclusività del rapporto madre-figlio e delle sue conseguenze sulla nostra vita quotidiana.

In un recente articolo sul New York Review of Books, MelvinKonner riporta il lavoro dell’antropologa e primatologa Sarah Blaffer Hrdy, soffermandosi in particolare sulla sua ultima opera, Mothers and Others: The EvolutionaryOrigins of Mutual Understanding. La tesi di Hrdy è in larga parte tesa a sostenere l’importanza di quello che viene chiamato cooperative breeding, cioè la crescita dei bambini all’interno di un contesto sociale più ampio di quello della famiglia nucleare (o della sola mamma), per la nostra evoluzione come specie. Qui vorrei concentrarmi su alcuni dati discussi nell’articolo che mi sembrano non solo i più interessanti, ma anche più ‘solidi’ da un punto di vista scientifico.

Amica? Nemica! - Immagine: 2011-2012 © Costanza Prinetti.
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Prima di tutto, mentre le madri sembrano avere un ruolo centrale nella crescita dei bambini in quasi tutte le culture, studi etnografici dimostrano che ad occuparsi della crescita dei bambini sono molto spesso altre persone all’interno della comunità, e che di norma il rapporto della madre con i propri figli non esiste in un vacuum, ma è strettamente integrato nel suo contesto sociale più ampio. Per la maggior parte della loro storia, ed in larga misura ancora in molte culture non occidentali, le donne si sono occupate di ogni sorta di attività – dalla raccolta di piante all’agricoltura, alla pesca, alla costruzione di case, alla produzione di tessuti ed altri manufatti eccetera – attività che non avrebbero mai potuto condurre se la cura dei figli non fosse stata almeno in parte condivisa, sia all’interno di famiglie allargate, che all’interno della comunità più in generale.

Non solo le famiglie nucleari che conosciamo non sono dunque la norma, ma il rapporto ‘esclusivo’ tra madre e bambino che è diventato uno degli assunti culturali della società occidentale è in larga misura un incidente storico, nient’affatto ‘naturale’. Dove nasca il mito della madre-chioccia la cui principale e (talvolta assoluta) funzione è quella di riprodursi e prendersi cura dei figli è un altro problema – un inglese risponderebbe citando l’età vittoriana, un italiano potrebbe pensare all’atteggiamento della chiesa, un americano al boom degli anni ’50 – ma è importante riconoscerlo per quello che è: un mito, appunto. Come scrive Konner:

‘the working mother has always been a central part of the human scene, and the classic stay-at-home mom of 1950s television may have been limited to Western cultures in that era’.

Un approccio più integrato alla mammitudine è inoltre supportato da una serie di dati emergenti. Uno studio condotto dalla Columbia University School of Social Work, pubblicato nel Luglio del 2010, ha seguito più di 1000 bambini in 10 aree geografiche differenti, fino all’età di sette anni, analizzando il loro contesto familiare e il loro sviluppo. La conclusione di questo studio è stata che nel complesso, gli svantaggi causati dall’allontanamento della madre per motivi lavorativi nel primo anno di vita del bambino sono bilanciati dai vantaggi che questo genera (un aumento dell’income della madre e una maggiore probabilità che i bambini ricevano cure migliori). Le madri lavoratrici non danneggiano, dunque, lo sviluppo dei propri figli.

Segnali incoraggianti, anche se oh, così timidi e lenti!, vengono anche dai padri, che vengono ancora considerati troppo poco e in modo troppo marginale quando si parla della cura dei figli. Eppure, sta diventato sempre più evidente che un cambiamento culturale è in atto anche dal lato della paternità, perlomeno a livello Europeo. La direttiva (n.9285 20/10/2010) approvata dal parlamento Europeo è senz’altro un passo importante. Diversi paesi del nord Europa sono, in questo senso, ancora più avanzati. Mentre in Inghilterra, uno studio del 2009 della Equality and Human Rights Commission ha rilevato come un desiderio di impiegare maggior tempo nella cura dei propri figli sia ormai diffuso nella maggior parte degli uomini (62%).

Perfezionismo e genitorialità. Immagine: © sonya etchison - Fotolia.com -
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Ci sono, naturalmente, una miriade di problemi aperti sia dal punto di vista lavorativo, che legislativo, che del welfare, che al momento ostacolano lo sviluppo lavorativo di molte donne quanto la serenità della loro gravidanza. Qui, mi premeva mettere a fuoco un pregiudizio di ordine prettamente culturale, quello che vede la madre come unica protagonista della cura dei propri figli e la cura dei figli come suo destino ineluttabile e assoluto. Pregiudizio appunto, che però è strettamente legato, se non la prima causa, degli ostacoli materiali, lavorativi e legislativi cui alludevo sopra. È importante, invece, trovare un equilibrio sensato tra le reali necessità biologiche legate alla mammitudine e le inclinazioni personali e le ambizioni lavorative di ogni mamma (ed ogni padre), senza farsi travolgere da teorie evoluzionistiche che più che scientifiche, sembrano ideologici dictat culturali volti a riaffermare l’ineluttabile destino delle donne occidentali. È rassicurante sapere che siamo invece libere di scegliere, e che questo delicato percorso culturale può, al contrario, essere portato avanti con serenità e senza temere che la nostra biologia ci si ritorca contro.

 

 

 

BIBLIOGRAFIA: 

Ci facciamo una risata? Non saprei, è pur sempre una terapia

O forse ridere è già una terapia?

Ci facciamo una risata? Non saprei, è pur sempre una terapia. - Immagine: © Yuri Arcurs - Fotolia.com - Nel riprendere un filone di articoli che affronta piccole scene da terapia, passando per la tecnica della bacchetta magica e arrivando fino alla monetina e al suo “testa o croce?”, vorrei introdurre una riflessione sull’uso dell’ironia con i nostri pazienti.

Spesso ci interroghiamo su quale sia l’atteggiamento più opportuno da tenere nel setting clinico, in particolare quando consideriamo il tema della giusta distanza da adottare nei confronti del paziente. Da un lato infatti esiste un ruolo, il nostro ruolo di terapeuti che deve nutrirsi di credibilità, autorevolezza e competenza professionale, dall’altro è indubbio che la relazione terapeutica sia in primo luogo una relazione umana e come tale si componga di molteplici elementi, fra i quali la condivisione di momenti più leggeri.

Tecniche terapeutiche: la bacchetta magica - Immagine: © Ekler - Fotolia.com
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Il paziente non arriva da noi solo per ottenere un miglioramento sintomatico oppure, nel caso di soggetti dotati di maggiori risorse, una più profonda conoscenza di sé. Egli si rappresenta la terapia come uno spazio e un tempo nei quali essere accolto, riconosciuto: questa almeno è la nostra speranza nonché l’obiettivo al quale rivolgiamo parte del nostro lavoro. Uno dei nostri talenti deve essere la capacità di trasmettere a chi chiede il nostro aiuto il senso di un’esperienza in parte comune: se non manifestiamo mai un’emozione di fronte alle emozioni del paziente, se non sappiamo mai nulla degli interessi di cui ci parla, se rimaniamo seriosi anche di fronte al suo tentativo di sdrammatizzare alcuni passaggi della terapia, finiamo inevitabilmente per apparire ed essere lontani da lui.

Il Metodo della Monetina in Psicoterapia: Testa o Croce? - Immagine: © ra3rn - Fotolia.com
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Ciò non significa seguire gli stati emotivi del paziente come uno specchio piatto, né guardare tutte le sere il suo programma preferito se non riusciamo a digerirlo in alcun modo; può accadere però che una battuta del paziente, ad esempio una frase autoironica, ci dica molto del suo bisogno di condividere il contenuto di quell’istante. E mi sento di aggiungere che in queste parole riecheggia sia l’anima del terapeuta al lavoro sia quella del clinico in terapia personale; l’autoironia del paziente può comunicarci che è riuscito a mentalizzare uno stato emotivo problematico, a trasformarlo in un vissuto più tollerabile, mentre una frase che dileggia qualcuno che appartiene al suo contesto di vita attuale o alla sua storia non necessariamente corrisponde ad una svalutazione narcisistica. In alcuni casi avviene un depotenziamento delle tematiche fonte di sofferenza e noi possiamo avvertirlo anche grazie all’ironia; se il paziente ci racconta un episodio che ha visto protagonista il suo capo e la narrazione si arricchisce di commenti ironici, diversi dai toni cupi o dal sarcasmo rabbioso del passato, possiamo intuire che sta avvenendo una trasformazione nella quale ciò che prima era considerato ingestibile viene ora accompagnato da uno sguardo più consapevole.

Il capo del nostro paziente non è più il suo tiranno, colui che con i propri sbalzi d’umore definisce la scarsa amabilità della vittima ansiosa, bensì una figura che è possibile accettare nella bizzarria che la contraddistingue. Ironia come capacità di coping. E noi possiamo ascoltare le venature di tale umorismo, sentire se è un riso amaro col quale il paziente colpisce duramente la propria autostima oppure si sta verificando una catartica decatastrofizzazione; nel secondo caso, ritengo assai opportuno che sciogliamo per qualche istante la nostra ricerca di credibilità professionale per accedere ad una dimensione solo apparentemente diversa, nella quale l’intento terapeutico di creare una relazione col paziente e di fargli percepire che siamo dalla sua parte passa attraverso la condivisione dell’ironia. In altre situazioni possiamo invece essere noi a spostare il registro della comunicazione verso un piano più divertente, qualora la conoscenza del paziente ci suggerisca che si tratta di un’operazione realizzabile ed efficace. Possiamo prendere in giro noi il suo capo, essere noi a mostrare che esiste la via alternativa della presa di coscienza dei limiti altrui. Nulla di meglio dell’ironia, con alcuni pazienti ai quali lo spostamento del focus può solo giovare.

Storie di Terapie - © Athanasia Nomikou - Fotolia.com
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Come nel caso della bacchetta magica, anche questa strategia apre scenari più flessibili in cui riflettere insieme sulla reale utilità del dare sempre un significato assoluto ed autoriferito agli eventi. Naturalmente l’ironia non è la stessa con tutti i pazienti né si rivela con tutti praticabile, non solo per ragioni legate alle loro problematiche ma anche per fattori più semplici: soggetti diversi hanno un umorismo differente, alcuni possono esserne palesemente sprovvisti e, mai dimenticarlo, ognuno di loro ci ispira un livello peculiare di empatia, di simpatia e di partecipazione ironica. Un paziente con cui fatichiamo a relazionarci in modo spontaneo è certamente una montagna da scalare per il nostro intento di utilizzare l’ironia, ma anche quando ci sentiamo vicini possono presentarsi difficoltà da gestire con cura: un paziente che ci piace, con cui sentiamo un ottimo feeling rappresenta una situazione clinica nella quale la distanza potrebbe ridursi troppo, fino al generarsi di interazioni più simili ad uno scambio dialettico tra amici che ad una psicoterapia. La consapevolezza delle nostre reazioni presenti e di quelle potenziali può di conseguenza indurci a contenere l’ironia: torniamo così ad occuparci dell’interrogativo iniziale, come comportarci col paziente. E attenzione agli errori, c’è poco da ridere!

Mamma triste in gravidanza e dopo il parto: una concordanza vantaggiosa?

– Rassegna Stampa – 

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze PsicologicheSorprendenti gli esiti di un nuovo studio su maternità e depressione pubblicato da Psychological Science: la condizione prenatale negativa che consiste nell’avere una madre in gravidanza depressa può di fatto persino essere vantaggiosa se la medesima condizione viene mantenuta anche dopo la nascita. Il risultato è in linea con il modello “risposta predittiva-adattiva” secondo cui le avversità in-utero possono avere vantaggi adattivi se le medesime difficoltà si presentano dopo la nascita.

I ricercatori hanno misurato il livello di sintomi depressivi in 221 donne in stato di gravidanza e per dodici mesi a seguito della nascita del figlio. I bambini sono stati quindi categorizzati in quattro gruppi: due gruppi “concordanti” in cui la condizione depressiva della madre era la stessa pre e post-parto (madri che erano depresse o madri senza alcun sintomo depressivo sia prima che dopo il parto) e due gruppi “discrepanti” in cui la condizione materna era differente in gravidanza rispetto alla fase successiva al parto (la madre aveva sintomi depressivi in una fase ma non nell’altra).

I risultati dimostrano che i bambini dei gruppi “concordanti” presentano punteggi maggiori nello sviluppo mentale a 3 e 6 mesi e un miglior sviluppo psicomotorio a 6 mesi rispetto ai bambini facenti parte dei gruppi “discordanti”. In altre parole, tra i figli di madri con depressione post-natale coloro che avevano un miglior sviluppo mentale e psicomotorio erano proprio i bambini la cui mamma era depressa anche durante la gravidanza. Questa evidenza controintuitiva si differenzia dalla mole di studi che sostengono un inflessibile associazione tra avversità durante la gravidanza ed esiti negativi per il bambino, e sicuramente va a considerare in qualche modo la regolarità dei contesti come aspetto rilevante per favorire vantaggi adattivi nello sviluppo ontogenetico.

Nel passaggio dalla ricerca alla clinica però non è accettabile la cinica ipotesi di non trattare una madre depressa per assicurare una concordanza di condizione che favorirebbe lo sviluppo psicomotorio e cognitivo del figlio: primo, anche la madre ha chiaramente diritto di alleviare i propri sintomi depressivi; secondo, avere una madre depressa può rappresentare una variabile implicata in difficoltà psicopatologiche a lungo termine nel bambino e nel futuro adulto.  

 

 

BIBLIOGRAFIA: 


Working Memory & la Percezione del Tempo che Scorre.

– Rassegna Stampa –

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze PsicologicheIl tempo non passa mai oppure sentite che scorre troppo velocemente? Accanto a fattori emotivi che possono influenzare tale percezione soggettiva, anche la memoria di lavoro, o working memory, può giocare un ruolo importante. Un nuovo studio pubblicato in questi giorni su Acta Psicologica suggerisce che via sia un legame tra la capacità della memoria di lavoro e la percezione del tempo.

I ricercatori hanno coinvolto un campione di 99 studenti dividendoli in funzione della loro capacità di memoria di lavoro in due gruppi: soggetti con elevata e bassa capacità di working memory. Ai partecipanti è stato richiesto di impegnarsi nella risoluzione di problemi matematici, chiedendo loro contemporaneamente di valutare soggettivamente il tempo trascorso in tale attività.

I risultati hanno evidenziato come i soggetti con maggiori capacità di memoria di lavoro tendano a valutare soggettivamente inferiore il tempo impiegato nella risoluzione del compito rispetto ai soggetti con bassa capacità di memoria di lavoro.
Ma perché una elevata capacità di memoria di lavoro fa sì che via sia uno scorrere del tempo soggettivamente più veloce? Secondo gli autori gli individui con migliori capacità di working memory sarebbero in grado di focalizzare la loro attenzione quasi interamente sullo svolgimento del problema matematico (task primario), portando benefici alla performance matematica e prestando meno attenzione al trascorrere del tempo; viceversa, i partecipanti con scarsa capacità di memoria di lavoro allocano una parte della loro attenzione sulla valutazione soggettiva dello scorrere del tempo risultando quindi più accurati nella percezione di tale variabile, a scapito però della performance matemantica.

Quante implicazioni può avere questo studio pensando alle performance accademiche in cui studenti con minore memoria di lavoro potrebbero focalizzare maggiormente la loro attenzione sul tempo che trascorre mentre svolgono un esame scritto a scapito della prestazione. Un limite dello studio è riscontrabile nella scelta di non indagare lo stato emotivo dei soggetti alle prese con problemi matematici e di non considerare possibili mediazioni di questa variabile sulla funzionalità della memoria di lavoro.

 

 

BIBLIOGRAFIA:

Schema Therapy: dal Training Internazionale di Roma (#1 Assessment)

Silvia Taddei.

Schema Therapy: dal Training Internazionale di Roma. - Immagine: © puckillustrations - Fotolia.com - In questi mesi si sta svolgendo a Roma il training internazionale per diventare terapeuta certificato per la schema therapy dalla Società Internazionale della Schema Therapy ISST e organizzato dalla Società Italiana per la Schema Therapy. Alcune ricerche mostrano come la Schema Therapy sia molto efficace con pazienti che presentano un disturbo di personalità (Arntz A.,et al.2006).

Durante i primi giorni è stato illustrato il modello teorico sviluppato da Jeffrey Young. Esso è un approccio che integra elementi derivanti dalla terapia cognitivo- comportamentale, dalla teoria dell’attaccamento, dal modello psicodinamico, da quello costruttivista a quello della Gestalt.

Habemus Schema Therapy.
Articolo Consigliato: Habemus Schema Therapy.

Si è appreso come in realtà le problematiche del paziente siano il risultato di una interazione tra temperamento ed esperienze di vita negative vissute nella prima infanzia e nell’adolescenza. Uno dei concetti fondamentali su cui si basa la Schema Therapy è infatti quello dei “bisogni emotivi primari” che ogni essere vivente, chi più chi meno, presenta fin dalla nascita e per tutta la vita (alcuni sarebbero più importanti in alcune fasi, altri in altre). Il soddisfacimento adeguato di questi bisogni nell’infanzia favorisce un equilibrio psicologico interno sano rendendo l’individuo capace nell’arco della sua vita di imparare a soddisfare lui stesso tali bisogni in modo funzionale al suo benessere psicofisico. Laddove essi non vengano soddisfatti in maniera adeguata invece si formerebbero quelli che vengono definiti Schemi “maladattivi precoci”. Uno schema mal adattivo precoce viene definito da Jeffrey Young come: “Un tema o un aspetto generale e pervasivo, Comprende ricordi, emozioni e cognizioni, è relativo a sé e alle proprie relazioni con gli altri, Insorto durante l’infanzia o l’adolescenza e elaborato nel corso della vita, Disfunzionale ad un livello significativo.

Analisi Critica della Schema Therapy - Immagine: © robodread - Fotolia.com
Leggi l'articolo: "Un'analisi critica della Schema Therapy"

Obiettivo della Schema Therapy è quindi quello di aiutare i pazienti a riconoscere i loro schemi e i loro bisogni non soddisfatti e soddisfare i propri bisogni primari in modo adattivo, modificando i loro schemi, i mode e i comportamenti di coping. I mode possono essere definiti come “qualsiasi schema, o comportamento che si esprima nel momento presente”. Il concetto di mode viene introdotto e risulta molto utile quando si lavora con pazienti con disturbi di personalità gravi e che presentino numerosi schemi dei 18 individuati da J.Y. Questo perché esso permette di non perdersi durante la seduta dietro l’attivazione di ogni singolo schema.

Gli stili di coping sono le modalità attraverso cui la persona cerca di gestire l’attivazione degli schemi. Fondamentalmente sono tre: resa (il paziente ritiene assolutamente vero lo schema) evitamento (il paziente evita le circostanze in cui uno schema si può attivare o evita di sentire sensazioni fisiche o emozioni) ipercompensazione (il paziente agisce così da sentirsi all’opposto rispetto a quello che lo schema vorrebbe fargli sentire); Es: per uno schema di inadeguatezza, Resa: “Io sono inadeguato” e quindi agisco in modo inadeguato; Evitamento: evito di trovarmi in una situazione in cui possa sperimentare la mia inadeguatezza; Ipercompensazione: mi comporto facendo sentire gli altri inadeguati. I comportamenti di coping in realtà per numerosi motivi tendono a rafforzare gli schemi stessi, nel tempo.

L’Assessment viene svolto su tre livelli: un livello cognitivo, attraverso i colloqui mirati, partendo dai problemi individuati nel presente e tornando indietro fino all’infanzia per individuare i pattern o “costanti di vita”. Il livello testistico con l’utilizzo dello Young Schema Questionnaire e dello Young Parenting Inventory o dello Schema Mode Inventory. Utili per avere una valutazione più “oggettiva”degli schemi, o dei mode e delle origini degli stessi, e anche per raccogliere altro materiale per approfondire la conoscenza delle problematiche del paziente. Interessante è spesso mettere in luce quelle che possono essere le discrepanze tra i punteggi nei vari item delle diverse scale.

Mode - Schema Therapy - Terapia Cognitiva - © Web Buttons Inc
Leggi l'articolo: I “Mode” della Schema Therapy e la Terapia Cognitiva.

Il terzo livello di assessment è quello emotivo fatto attraverso le tecniche immaginative. Esse sono utilizzate per aiutare il paziente ad individuare a livello non solo cognitivo quali sono i suoi problemi e da dove essi derivino. Le tecniche immaginative diventano fondamentali nella prima fase per riuscire a cogliere quali siano stati i bisogni emotivi primari che non sono stati soddisfatti in modo adeguato e che hanno portato alla formazione degli schemi maladattivi con tutte le conseguenze, spesso disastrose, per la vita della persona. Si inizia con questa tecnica immaginativa: si fa chiudere gli occhi al paziente, si chiede di pensare all’ immagine di un luogo sicuro, si chiedono dettagli visivi, emozioni, pensieri, e sensazioni fisiche; si chiede al paziente di far sfumare via l’immagine del luogo sicuro, e di individuare un’immagine di sè da bambino con un genitore o figura di riferimento che lo ha turbato, e a questo punto gli si chiede cosa vorrebbe dire a questa persona e come vorrebbe che questa cambiasse; poi si chiede di individuare un’immagine nella vita attuale, da adulto, in cui sia presente la stessa emozione; infine piano piano si fanno riaprire gli occhi.

EABCT 2011: Arntz sulla Schema Therapy di Jeffrey Young
Articolo consigliato: EABCT 2011: Arntz sulla Schema Therapy di Jeffrey Young

L’aspetto peculiare di questa tecnica è il forte impatto emotivo che provoca, inoltre consentendo al paziente di ampliare la comprensione dei suoi schemi, favorendo il passaggio da un piano puramente razionale ad uno emotivo. Contrariamente ad altri esercizi immaginativi, che mirano a suscitare emozioni negative, lo scopo di questa tecnica è di permettere al paziente di esprimere i propri bisogni.

Tutte le informazioni ottenute nelle tre fasi di assessment vengono messe in relazione tra di loro, evidenziando eventualmente le discrepanze tra di esse, per arrivare veramente a definire in profondità i problemi psicologici della persona. Il tutto viene restituito al paziente in accordo al modello della Schema Therapy ricollegando quindi i problemi del presente a tutte le informazioni raccolte sulla vita della persona e cercando di favorire l’apprendimento di un linguaggio comune tra Terapeuta e paziente. 

LA PROSSIMA SETTIMANA parleremo della seconda fase: quella di cambiamento ovvero la Terapia

I nostri nonni si amavano di più? Evoluzione o declino del matrimonio?

 

I nostri nonni si amavano di più? Evoluzione o declino del matrimonio? - Immagine: © alexcoolok - Fotolia.com - Si sente spesso dire che non esistono più le coppie di una volta o che le generazioni passate si amavano di più. Il dato oggettivo è che i matrimoni sono in calo e che i divorzi, al contrario, sono sempre più numerosi. Spesso i giovani d’oggi sono stati accusati di non essere capaci di amare, di avere paura degli impegni e ancor più, del matrimonio. Il paradosso è che la crisi del matrimonio è iniziata proprio con l’ideologia dell’amore romantico, la quale ha contribuito a rendere l’unione matrimoniale più fragile e instabile. Cosa significa questo? Che più ci si ama e più si è fragili?

Si può affermare che una coppia prende vita a partire dal momento in cui due individui, uniti da un reciproco sentimento, iniziano ad avere dei progetti comuni per l’avvenire. La coppia, così come il singolo individuo ha un’identità intima e una sociale e quest’ultima, non può essere definita senza considerare il contesto nella quale è inserita.

Fino a non molto tempo fa, ma in realtà ancora oggi per qualcuno è così, il matrimonio, più di qualsiasi altra cosa, determinava il cambiamento nell’identità delle persone. Il matrimonio era l’unica legittima occasione per modificare e rompere i legami con la famiglia d’origine; l’unica occasione di sancire la legittimità della coppia e cambiare l’identità sociale dei membri. Uomini e donne erano tacitamente costretti a sposarsi per conquistare lo status di marito e moglie, unico ruolo attraverso il quale potevano mostrarsi come adulti indipendenti. Eppure queste coppie, spesso hanno vissuto insieme una vita intera. Si amavano di più? Forse non è così!

Conflitti, Devitalizzazioni e Tempeste: tracce di una coppia in crisi. - Immagine: © laurent hamels - Fotolia.com -
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A partire dalla metà degli anni settanta, dopo l’ entrata in vigore della legge sul divorzio, si è osservato un progressivo declino del matrimonio e conseguentemente, una graduale diffusione di una pluralità di tipologie di famiglie: famiglie ricomposte, monogenitoriali, di fatto e così via. Oggi l’uscita dalla famiglia di origine può coincidere, con svariati eventi, quali una convivenza con la persona amata, una coabitazione con amici, un soggiorno fuori porta per motivi di studio.

Le nozze pertanto, non sono più l’unico atto in grado di modificare l’identità sociale degli individui e di realizzare strategie familiari. Il matrimonio attualmente si può definire una vera e propria istituzione della felicità, la coppia oggi ha l’importante responsabilità di assicurare la crescita e la felicità di ciascuno dei suoi membri, tutelandone il benessere totale e dato che il matrimonio è un contratto, di fatto può essere recesso. Il divorzio non necessariamente significa che non ci si interessi all’altro, al contrario, secondo un recente punto di vista, esso prova che si attribuisce alla coppia una tale importanza che conduce gli individui a non rassegnarsi più a vivere sotto lo stesso tetto se non ci si sente gratificati abbastanza. Si può dunque affermare che la legittimità affettiva risulta più potente e rimpiazza quella legale, perché alle coppie non rimane che contare sui propri sentimenti e su quelli dell’altro. Questa può essere una delle possibili spiegazioni della sempre più frequente rottura delle relazioni, tuttavia, tale chiarimento non è esaustivo e la questione non sembra essere risolta.

 

Perché la maggior parte dei nostri nonni ha condiviso una vita insieme e oggi è così raro che questo accada? Si può pensare a una questione di pazienza e di compromessi. La vita di coppia molte volte viene descritta come un’esistenza di compromessi, ma di fatto, anche un single è soggetto a compromessi, tuttavia nella maggior parte dei casi crede di avere il libero arbitrio su qualunque scelta che possa minare la propria libertà, così come le tanto citate abitudini. La vita di coppia per qualcuno sfocia irrimediabilmente in noiose abitudini, tuttavia non esiste persona che non abbia abitudini quotidiane, la difficoltà talvolta sta nel trovare un equilibrio fra le proprie e quelle altrui creando consuetudini condivise senza annullare la propria personalità o quella del partner.

La Scelta del Partner. Immagine: © Christian Maurer - Fotolia.com -
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Un’ulteriore spiegazione di questo fenomeno, può ruotare intorno all’emancipazione femminile: negli ultimi decenni, infatti, il ruolo della donna all’interno della società è profondamente cambiato. Oggi non è più solo l’uomo a poter decidere del destino della famiglia, anche le donne hanno la legittima ragione di voler rompere relazioni poco soddisfacenti e di cercare la propria felicità indipendentemente dalla posizione sociale che loro riserva tale scelta.

Questo breve articolo non ha la pretesa di trovare una risposta, la questione è piuttosto complicata e lascia liberi a diverse interpretazioni. Sarà realmente vero che i nostri nonni si amavano di più? Una cosa è certa: le loro relazioni erano più durature, tuttavia questo non necessariamente coincide con un amore perpetuato nel tempo. Oggigiorno semplicemente non si ha più voglia di impegnarsi o non si è più disposti a rinunciare al proprio benessere? Ma poi, sarà vero che una cosa esclude l’altra?

 

 

BIBLIOGRAFIA:  

  • Chantal Van Cutsem (1999). Famiglie ricomposte. Presa in carico e consulenza. Cortina Editore, 1999.
  • Maria Mancarella (2001). Nuove famiglie nuove relazioni. Pensa Multimedia Edizioni, 2001.

Gran Torino: la Conversione di Clint Eastwood

Gran Torino (2008) – Pochi artisti hanno lasciato con la propria opera un segno altrettanto indelebile: il regista Clint Eastwood è la testimonianza vivente di quanto un essere umano possa modificare nel corso della propria esistenza le convinzioni più radicate, gli atteggiamenti apparentemente più inestinguibili.

 

Gran Torino - Immagine: Theatrical release poster for Gran Torino, Copyright © 2008 by Warner Bros. Pictures. All Rights Reserved.

Eastwood è stato attore di western, polizieschi, pellicole con un buono e un cattivo, una verità e una menzogna. E’ stato l’espressione dell’identità americana più tradizionale, il ritratto del modo di pensare più comune fra quelli che il Nuovo Continente ha trasmesso al resto del mondo: la fiducia nell’affidabilità di un sistema che protegge la patria e guarda con diffidenza lo straniero, la sicurezza riposta nelle mani di uno sceriffo che incarna la stabilità della legge.

Ebbene, come ribaltando un tavolo da gioco per vedere l’effetto che fa negli astanti, questo grande narratore della nostra epoca si è messo dietro la macchina da presa e ha scavato dentro sé stesso. Ha radunato le esperienze della propria vita, le osservazioni che gli derivavano dalla saggezza e dall’accesso ad un’età più anziana; ha intravisto la possibilità di un’alternativa cognitiva, emotiva, esistenziale e sono così nati straordinari capolavori, culminati nell’opera che gran parte dei critici ha considerato il suo prodigio: Gran Torino.

 

Gran Torino: il film

Con questo film Eastwood si addentra in un territorio che tempo addietro sarebbe stato folle accostare al suo nome: il contatto con la multietnicità / razzialità, con esseri umani che al vecchio ispettore Callaghan sarebbero sembrati “musi gialli”, e la scoperta della propria imperfezione, della propria timidezza di fronte a loro, la scoperta tentennante di un desiderio di conoscenza e conciliazione. Il vecchio Clint, il vecchio duro della frontiera, d’improvviso preda di una tentazione, di un dubbio: saranno tutti cattivi quelli là, saranno davvero meritevoli del mio sguardo di pietra? Non è difficile scorgere l’attualità di questa lezione e credere che sarà ancora più preziosa negli anni a venire; il regista Eastwood ci conduce a minare le fondamenta delle nostre certezze e lo fa nella sua patria, anche contro la sua patria allorché questa si dimostri restia ad abbandonare pregiudizi delegittimati dal tempo.

Attraverso un’altra operazione di destrutturazione e ricomposizione, lontana dalle pistole fumanti dell’attore Eastwood che cantano l’inno a stelle e strisce, il vecchio Clint ci propone “J. Edgar” e con esso un’altra disincantata lezione sul mondo cui siamo chiamati a dare significato. In questo caso, ad essere preso di mira è il potere e anche in questo caso siamo in America, distanti dalla tentazione di proiettare sul nemico, sul diverso da noi, le nostre debolezze, le contraddizioni che segnano il nostro esistere, le ingiustizie di cui siamo spettatori. “J. Edgar” è la biografia dello storico capo dell’Fbi: come a dire, Eastwood mira al cuore dell’autorità americana. Il film ci svela gradualmente un personaggio che vive il potere con risolutezza e talvolta malcelata sofferenza, oscillando tra la responsabilità di dirigere un apparato dal quale dipende la stabilità del Paese in una fase storica assai delicata, e le fragilità che emergono quando lo sguardo introspettivo diventa più intimo. J. Edgar possiede una cultura di integrità che poco alla volta si modula attorno a fattori più complessi: l’ambizione di reggere il potere senza incertezze, il peso di un ruolo che egli vuole proteggere ma anche estendere, l’importanza politica delle scelte assunte in materia di sicurezza nazionale. Sullo sfondo, un itinerario personale segnato dalla convivenza con aspetti di sé che non sono accettabili né semplici da condividere; J. Edgar si interroga sulla propria capacità di entrare in relazione, sulla propria identità sessuale e lo fa con la fatica di una piega del viso, chiuso nei vincoli di un potere senza il quale non può pensarsi. Egli affronta i limiti di un’organizzazione che piega i principi morali a logiche di prevaricazione, ed è parte attiva di questi meccanismi.

Il film non lascia una risposta allo spettatore, non lo conduce ad un’idea nitida su come definire J.Edgar, descrivendone invece con maestria la complessità esistenziale. Ciò che sorprende, ancora una volta, osservando l’opera di Eastwood è la sua capacità di elevare l’animo umano al di sopra delle bandiere di parte; come per “Gran Torino” e per molte altre storie da lui raccontate, possiamo dire che il nuovo West è la scoperta di dimensioni umane che si nutrano di un significato pieno, il nuovo sogno americano è il superamento della corruzione morale di alcuni e del conflitto sofferente di molti, di chi è escluso dai giochi del potere e del gloria oppure ne sembra partecipe ma ascolta dentro di sé le vibrazioni dolenti che giungono da quelle stanze. Il nemico non è più il fuorilegge ma a volte fa la legge, le armi non sparano e si limitano a colpire chi le usa, nella forma di riflessioni che non si intimidiscono di fronte a luoghi inesplorati. La ridefinizione dei confini, delle attribuzioni e delle relazioni tra i soggetti narrativi appare in ogni film di Eastwood sempre più sofisticata, con un denominatore comune: squarciare il velo conservatore della tradizione, degli stereotipi, delle rassicurazioni da difendere. Lunga vita al grande Clint!

 

Gran Torino (2008) di Clint Eastwood – TRAILER:

 

10 Tecniche per aumentare la Motivazione e la Forza di volontà

 

10 Tecniche per aumentare la Motivazione e la forza di volontà. - Immagine: © puckillustrations - Fotolia.com - Per molti di noi l’inizio del nuovo anno rappresenta un momento per riflettere sul passato e per decidere di adottare cambiamenti o nuovi comportamenti. Ad esempio, in quanti hanno detto di volersi mettere a dieta? “Dal 2 di gennaio inizierò a mangiare meno!” Inizialmente, è abbastanza facile progettare un’alimentazione più controllata. Si inizia col comprare più ortaggi, a bollire i cibi, a evitare carboidrati e zuccheri in eccesso, e così via. Al principio, la motivazione e la forza di volontà sono molto alte, anche le palestre in questo periodo sono sovraccariche di gente. Ma dopo poche settimane, la motivazione tende ad essere più flebile e la forza di volontà si esaurisce, si è portati a tornare alle vecchie abitudini alimentari, meno sane di quelle nuove.

Per la maggior parte delle persone, non è intuitivamente ovvio che cosa fare per preservare lo scopo prefissato e per raggiungere gli obiettivi prestabiliti, ma la terapia cognitivo-comportamentale può aiutare nel migliorare le capacità di perseguire lo scopo, o quando si avverte una estinzione anticipata del bisogno di raggiungerlo, e quindi sopraggiungono i pensieri sabotanti. In questo caso, processi specifici di pensiero e alcune abilità comportamentali potrebbero aiutare a incrementare la motivazione e la forza di volontà, che cominciano a scarseggiare. Farò riferimento alla perdita di peso in generale come esempio principale, ma le tecniche che descriverò possono essere applicate anche ad altri obiettivi: attenersi a un budget, smettere di fumare, ridurre il consumo di alcol, citando alcuni fra i desideri più comuni. Di seguito troverete un elenco di competenze essenziali da mettere in pratica. 

Tecniche per aumentare la motivazione:

1. Sviluppare un obiettivo ragionevole e un piano di lavoro che permetta di perseguire lo scopo. Quindi, niente obiettivi irrealistici, ma iniziare con cose molto semplici e concrete.

2. Creare un elenco di motivazioni molto forti che portino a raggiungere l’obiettivo prefissato. E’ necessario leggere questa lista ogni mattina e ogni volta in cui si è tentati di abbandonare l’obiettivo, anche, e soprattutto, quando non si ha voglia di farlo.

3. Darsi credito ogni volta che ci si impegna in comportamenti progettati per raggiungere l’obiettivo prestabilito ed evitare comportamenti che, al contrario, tengono lontani dal perseguimento dello scopo.

4. Impostare una lista di cose giornaliere da realizzare, alla quale rendere conto nel caso in cui non si riuscisse a portarla a termine.

5. Non assecondare il pensiero sabotante, ovvero lasciarlo scorrere nella propria mente tenendo fermo il proprio obiettivo.

6. Identificare gli ostacoli e risolvere i problemi in anticipo, sapendo che uscendo fuori dal piano di lavoro prefissato è facile incappare in infinite tentazioni.

7. Preparasi ad affrontare i sentimenti di scoraggiamento, di delusione e di privazioni che scaturiscono nel momento in cui non si dovessero raggiungere gli obiettivi stabiliti.

8. Decidere su come ricompensare se stessi quando si raggiungono gli obiettivi e i sotto-obiettivi.

9. Focalizzarsi sulle esperienze che vale la pena di fare per facilitare il raggiungimento dell’obiettivo.

10. Tornare al punto numero 1 quando si va “fuori pista”.

Queste strategie sono molto importanti per riuscire a tenere alta ed amplificare la motivazione e la forza di volontà, quando, inevitabilmente, tenderanno a diminuire. Quando il gioco si fa duro, la motivazione e la forza di volontà cominciano a giocare.

 

 

BIBLIOGRAFIA:  

  • Beck., J. The Beck Diet Solution: Train Your Brain to Think Like a Thin Person. Birmingham, AL: Oxmoor House (2007).
  • Beck., J. The Complete Beck Diet for Life. Birmingham, AL: Oxmoor House (2008).

Amarezza cronica post-traumatica: una diagnosi per i precari.

 

Amarezza cronica post-traumatica. Immagine: © 2011-2012 Costanza Prinetti -

Navigando tra riviste scientifiche mi sono “imbattuta” in un articolo che trattava di una nuova diagnosi che mi è parsa interessante ed emblematica rispetto al periodo storico ed economico in cui ci troviamo: il “disturbo da amarezza cronica post-traumatica” (Post-Traumatic Embitterment Disorder, PTED).

Descritto come una particolare forma di disturbo dell’adattamento, il PTED è stato per la prima volta proposto nel 2003, dallo psichiatra tedesco Michael Linden come nuovo disturbo mentale. Le prime ricerche su questa sindrome risalgono al 1999 e si sono occupate di approfondire lo stato di malessere psicologico diffuso tra gli immigrati tedeschi provenienti dalla Germania dell’Est a seguito della caduta del muro di Berlino.

Ambienti rigenerativi - Immagine: © John Casey - Fotolia.com -
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Attualmente i sintomi che caratterizzano questa diagnosi sono considerati una reazione psicopatologica ad eventi di vita particolari che possono essere classificabili come normali eventi di vita negativi, se non tendono però a ripetersi tutti i giorni (ad esempio i conflitti a lavoro, perdita di lavoro, essere vittima di discriminazioni,…).

Ecco che la ciclica perdita di lavoro cui i precari sono soggetti, potrebbe spingerli verso questo stato di cronica sofferenza psicologica.

L’elemento cruciale perché si manifesti questo cronico sentimento di amarezza è, secondo i ricercatori, che l’evento sia vissuto come ingiusto e come una grave violazione delle proprie credenze e valori di riferimento. La differenza principale tra i disturbo da stress post-traumatico (PTSD) e il disturbo da amarezza cronica post-traumatica (PTED) sta nel fatto che il primo riguarda una reazione psicopatologica ad eventi che per la maggior parte delle persone sono considerati traumatici (violenze fisiche, guerre, disastri naturali,..), mentre il secondo riguarda eventi non classificabili come traumatici, ma che per la frequenza o per la loro capacità di colpire valori centrali per la persona, possono provocare sintomi quali amarezza, sentimenti di ingiustizia, ricordi ripetitivi ed intrusivi degli eventi critici, sintomi fobici, abbassamento del tono dell’umore, ritiro dalle relazioni sociali e comportamenti di evitamento.

I principali criteri indicati da Linden (2007) sono:

A –  Sviluppo di sintomi emotivi e comportamentali clinicamente significativi a seguito di un unico, sebbene normale, evento di vita negativo.

B –  L’evento traumatico viene vissuto nei seguenti modi:

  • la persona riconosce l’evento come causa del suo problema emotivo;
  • l’evento è percepito come ingiusto, come un insulto o un’umiliazione;
  • la reazione della persona all’evento implica sentimenti di amarezza, rabbia e impotenza;
  • la persona reagisce con un arousal emotivo significativo quando ripensa all’evento.

C – Presenza di ricordi intrusivi e ripetitivi e uno stabile e significativo cambiamento in senso negativo nel benessere psicologico.

D –  Assenza di altri disturbi mentali precedenti all’evento, che possano spiegare tale reazione.

E –  Ridotto funzionamento sociale e lavorativo.

F – I sintomi durano da più di 6 mesi.

 

I disturbi psicopatologici con più alta comorbidità con la diagnosi di PTED sono i Disturbi dell’Adattamento (66%), la Depressione Maggiore (50%) e la Distimia (40%).

Gli studi di Linden hanno evidenziato come nel 73% dei casi gli eventi considerati come scatenanti il malessere riguardassero problemi sul posto di lavoro; tutti i pazienti intervistati dai ricercatori hanno riferito inoltre di avere pensieri intrusivi improvvisi, il 98% lamentava un umore persistente negativo e il 92% una cronica irrequietezza dal manifestarsi degli eventi critici in poi. Tuttavia, in contrasto con i pazienti depressi, il 92% dei pazienti affetti da PTED mostra un umore normale ed una buona capacità di modulare le emozioni quando distratti dalle loro preoccupazioni.

Linden e il suo gruppo di ricerca stanno validando una psicoterapia studiata ad hoc per la cura di questo disturbo: la “Wisdom Therapy” (Terapia della saggezza) da lui ideata qualche anno fa. Si tratta di una combinazione di Terapia Cognitivo-Comportamentale, e pratiche mindfulness. Ad una prima occhiata nulla di nuovo rispetto alle ormai classiche terapie cognitive di terza generazione!

La brutta notizia per i precari è che questa diagnosi ad oggi non è stata inserita ufficialmente nel Manuale Diagnostico dei Disturbi mentali (DSM IV-TR) e questo stato di “cronica amarezza” difficilmente potrà essere oggetto di risarcimento …. almeno per ora!

 

 

 BIBLIOGRAFIA: 

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