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Differenze di personalità tra uomini e donne. Un nuovo modo per misurarle.

– Rassegna Stampa –

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze PsicologicheUn nuovo interessante studio pubblicato su PLoS ONE sostiene, empiricamente, che ci siano sostanziali differenze di personalità tra maschi e femmine. Le differenze di genere, considerate quasi un ovvietà dal senso comune, sono state negli anni oggetto di molte discussioni in ambito scientifico: da una parte l’hp della “somiglianza tra i generi” di Hyde, per cui maschi e femmine sarebbero, per maggior parte delle variabili psicologiche, più simili gli uni agli altri che diversi; all’altra estremità dello spettro teorico, invece, gli psicologi evoluzionisti hanno sottolineato come le differenze psicologiche tra i sessi siano da attribuire all’effetto di pressioni selettive diverse. Secondo questo approccio le differenze sessuali maggiori si riscontrano nei tratti di personalità e nei comportamenti che riguardano l’accoppiamento e la genitorialità; secondo l’hp di Hyde invece le diversità maggiori si concentrerebbero nelle aree della sessualità e dell’aggressività e in alcuni comportamenti motori.

Dato il contrasto tra le previsioni derivate dalla teoria evolutiva e quelle basate sull’ipotesi delle somiglianze di genere, c’è, secondo i ricercatori dell’Università di Torino, una pressante necessità di stime empiriche accurate. Il compito di quantificare le differenze di genere nella personalità affronta una serie di importanti sfide metodologiche e, secondo gli autori della ricerca in questione, tutti gli studi eseguiti finora soffrono, a vari livelli, di limiti che in ultima analisi conducono ad una sottostima sistematica dell’effetto di alcune dimensioni. Marco del Giudice, autore principale dello studio, descrive in questo lavoro un nuovo metodo per misurare e analizzare le differenze di personalità che sostiene essere più accurato rispetto ai metodi precedenti. I ricercatori hanno usato le misurazioni di personalità provenienti da un campione di 10.000 persone (metà uomini e metà donne). Il test della personalità comprendeva 15 scale, comprendenti tratti come il calore, la sensibilità, e il perfezionismo. Quando uomini e donne sono stati messi a confronto nei profili di personalità complessiva la differenza tra i sessi è stata evidente; le differenze invece sembrano molto più piccole nel caso in cui ogni tratto venga considerato separatamente.

 

BIBLIOGRAFIA:

 

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Le donne con alta autostima sono meno desiderabili!

Le donne con alta autostima sono meno desiderabili??

Le donne con alta autostima sono meno desiderabili. Immagine: © Marco Lensi - Fotolia.com Mostrare di avere un elevata autostima ha un impatto rilevante sulla desiderabilità di una persona agli occhi dell’altro sesso, e questo impatto è diverso per uomini e donne. Una serie di studi di recente pubblicazione (Zeigler-Hill & Myers, 2011) riporta che gli uomini che mostrano un elevata autostima sono mediamente percepiti come più “desiderabili” per instaurare una relazione di coppia. Viceversa mostrare un’autostima elevata per un donna riduce il livello di desiderabilità.

Se le donne preferiscono l’uomo che mostra un’elevata autostima, gli uomini sceglierebbero come partner donne con livelli di autostima moderata. L’elemento responsabile di questa curiosa differenza sembra essere la tendenza da parte degli uomini a considerare le donne con alta autostima come meno ‘accoglienti’ da un punto di vista affettivo e meno ‘affidabili’ nella costruzione di un rapporto a lungo termine.

Nonostante questo tema non sia direttamente collegato al mondo della psicologia clinica, ci suggerisce ancora una volta come il lo stile di giudizio sia continuamente influenzato da associazioni automatiche di cui non siamo consapevoli (es: l’associazione tra autostima manifesta e inaffidabilità relazionale). Queste regole che governano valutazioni e decisioni sono definite in termini tecnici euristiche, strategie semplificate del pensiero che non si basano su un ragionamento puramente logico ma di tipo probabilistico e si formano sulla base a esperienze e informazioni che quotidianamente riceviamo dalle nostre figure educative e dal mondo culturale che ci circonda (Kahneman, Slovic & Tversky, 1982).

Queste regole possono sostenere molti disturbi psicologici, pensiamo per esempio all’associazione tra magrezza e perfezionismo. Spesso la terapia è un percorso che conduce a riconoscere le proprie euristiche più dannose, valutarne l’infondatezza e assumere rispetto ad esse una posizione di distanza critica.

 

BIBLIOGRAFIA:

  • Kahneman, Slovic & Tversky (1982). Judgement under uncertainty: Heuristics and biases. Cambridge University Press.
  • Zeigler-Hill & Myers (2011). Evolutionary Psychology, 9(2), 147-180.

 

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Perchè Why è meglio di How nei problemi quotidiani dei pazienti depressi?

Effetti disfunzionali del pensiero ripetitivo e effetti negativi della focalizzazione sul depressive mood (Ingram & Smith, 1984; Carver & Scheier, 1990; Watkins & Teasdale, 2001; Watkins, 2004)

 

INTUITIVE HEURISTIC BINDING PERFECTIONISM, CONTROL AND BODY SHAPE BELIEFS

Eating Disorder as illusory compensation to the sense of lack of control and obsession for a self-esteem perceived as perfectionistically inadequate; this illusory compensation gets displaced onto controlling eating and body shape (Fairburn, Shafran, & Cooper, 1999).

Perché non possiamo fare a meno di sbadigliare?!

Quando gli animali sbadigliano assumono un volto umano. [Karl Krauss]

Sbadigliare - Immagine: © Eric Isselée - Fotolia.comDi fronte allo sbadigliare, le spiegazioni ingenue che ci diamo possono essere tante: dal sonno alla fame, dalla cattiva digestione alla noia, dal tentativo di “risvegliarsi” ed essere più vigili al messaggio, più o meno implicito, al nostro interlocutore che non si ha più voglia di ascoltare.

Tuttavia non esiste, ad oggi, una spiegazione univoca sulla funzione di questo riflesso. Secondo i ricercatori Gary Hack e Andrew Gallup, questo comportamento potrebbe avere una funzione di controllo nella regolazione della temperatura del cervello. Il cervello, così come il computer, funzionerebbe meglio se “raffreddato”. Ma come è possibile? Sbadigliare permetterebbe alle pareti del seno mascellare di espandersi e contrarsi come un soffietto, immettendo così aria nel cervello abbassandone di conseguenza la temperatura.

Dai dati raccolti in un recente studio condotto da Gallup su due gruppi di volontari, si evince che si sbadiglia sensibilmente meno in estate che in inverno. Questi dati spiegherebbero la funzione di controllo della temperatura del cervello: quando, infatti, la temperatura esterna è inferiore a quella corporea, cioè d’inverno, gioverebbe lo sbadiglio: l’aria fresca inalata sarebbe un toccasana per il cervello che, scambiando aria con l’esterno, si “sentirebbe” immediatamente rigenerato; quando invece la temperatura è simile non ci sarebbero particolari vantaggi e l’organismo inibirebbe questo comportamento.

In un altro studio condotto sui ratti, Gallup ha scoperto che la temperatura cerebrale s’innalzava poco prima dello sbadiglio e poi iniziava a calare fino a raggiungere la temperatura pre-sbadiglio, il che suggerisce che lo sbadiglio sia attivato da un incremento della temperatura cerebrale e che ne favorisca il raffreddamento. Gli stessi dati sono stati ritrovati anche in uno studio condotto su due donne che soffrono di attacchi di continuo sbadiglio. Se consideriamo buona questa funzione dello sbadiglio, allora non ci dovremmo meravigliare quando non possiamo fare a meno di sbadigliare anche in assenza di un reale motivo.

I ricercatori sottolineano anche gli importanti risvolti medici che possono avere questi dati; infatti, lo sbadiglio troppo ricorrente in soggetti che soffrono di emicrania può essere prodromo del dolore e in soggetti che soffrono di epilessia può anticipare gli attacchi epilettici. Il numero di sbadigli potrebbe essere, quindi, un ulteriore indice da considerare per la valutazione del quadro sintomatologico dei pazienti. “L’eccessivo sbadigliare sembra essere sintomatico in condizioni che fanno aumentare la temperatura del cervello e/o del cuore, come ad esempio danni al sistema nervoso centrale e la privazione del sonno”, sottolinea Gallup. Tuttavia gli stessi ricercatori sono prudenti ed evidenziano che, nonostante i dati raccolti, ci si muove ancora in un territorio per gran parte inesplorato.

Questa, infatti, è solo una delle ricerche sulle funzioni dello sbadiglio e forse viene anche spontaneo a questo punto chiedersi come spiegare il “fenomeno” del contagio dello sbadiglio. Infatti, se vediamo o sentiamo qualcuno sbadigliare, difficilmente riusciamo a resistere alla tentazione di lasciarci prendere da un lungo e rumoroso sbadiglio. Ma perché? Uno studio condotto da Elisabetta Palagi e Ivan Norscia ha evidenziato che il contagio dello sbadiglio è associato al legame empatico tra le persone. Lo studio mostra che il contagio e la risposta allo sbadiglio, in termini di tempo di latenza, è direttamente proporzionale alla vicinanza affettiva; quindi è maggiore nei parenti e negli amici stretti fino ad arrivare ad una risposta quasi nulla negli sconosciuti. Il contagio sembra essere ridotto nei soggetti che presentano disturbi legati alla sfera dell’empatia.

Ma forse anche la lettura di questo articolo ha provocato in voi il desiderio di un lungo e “ristoratore” sbadiglio… e chissà, magari vi ritroverete nel paese delle meraviglie con Alice.

 

BIBLIOGRAFIA:

  • Norscia I.,Palagi E.. Yawn contagion and empathy in Homo sapiens. PLoS ONE 2011, 6(12): e28472.
  • Shoup-Knox M., Gallup A.C., Gallup G.G. & McNay E.C. (2010). Yawning and stretching predict brain temperature changes in rats: support fot the thermoregulatory hypothesis. Frontiers in evolutionary neuro science,2.
  • Gallup, A. C., & Gallup, G. G. Jr. (2008). Yawning and thermoregulation. Physiol. Behav. 95, 10–16.
  • Gallup, A. C., and Gallup, G. G. Jr. (2007). Yawning as a brain cooling mechanism: nasal breathing and forehead cooling diminish the incidence of contagious yawning. Evol. Psychol. 5, 92–101.

 

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Saggezza infantile: i benefici del pensiero positivo e l’ottimismo dei genitori

– Rassegna Stampa –

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze PsicologicheAnche i bambini sanno che pensare in modo positivo e ottimista fa stare meglio. E il grado di ottimismo dei genitori gioca un ruolo rilevante nella comprensione che i figli hanno del legame tra pensieri ed emozioni. Un nuovo studio in fase pubblicazione sulla rivista Child Development lo conferma.

Un campione di 90 bambini di età compresa tra i 5 e i 10 anni hanno ascoltato sei storie in cui due personaggi vivevano una situazione generalmente positiva (ricevere in regalo un peluche), negativa (rovesciare accidentalmente un bicchiere di latte), o ambigua (incontrare una nuova insegnante). In seguito a ciascuna esperienza, un personaggio aveva pensieri ottimisti che coloravano l’evento di una luce positiva, mentre l’altro personaggio aveva un pensiero pessimista che quindi metteva l’evento in una luce negativa: i pensieri venivano descritti esplicitamente a livello verbale.

Ai bambini è stato in seguito chiesto di prevedere le emozioni di ciascun personaggio e di cercare di spiegare le motivazioni alla base di tali emozioni. Inoltre, ai bambini e ai loro genitori sono stati somministrati questionari per misurare il loro livello di ottimismo e speranza.

Ecco i risultati: già dall’età di cinque anni i bambini sono in grado di prevedere che le persone si sentono meglio quando pensano in modo più positivo rispetto a quando sono presenti pensieri negativi. In particolare tale evidenza si è dimostrata più saliente nelle situazioni ambigue. La questione si complica invece in relazione a situazioni generalmente negative: i bambini avrebbero più difficoltà a comprendere come un pensiero positivo possa influenzare le emozioni nel vivere e nell’affrontare eventi negativi come il cadere e farsi male.

E’ in relazione a questi eventi negativi che i livelli di speranza e ottimismo del bambino e ancor di più dei genitori giocano un ruolo differenziale nella capacità di comprendere la potenzialità del pensiero positivo.

 

BIBLIOGRAFIA:

 

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L’ansia sociale rende più vulnerabili all’uso di cannabis

– Rassegna Stampa –

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

Gli individui con un elevato livello di ansia sociale sembrano essere particolarmente vulnerabili a problemi con l’uso di cannabis. Uno studio pubblicato pochi giorni fa su Journal of Anxiety Disorders ha esaminato le relazioni tra ansia sociale, craving, ansia di stato, variabili situazionali e uso di cannabis in situazioni di vita quotidiana utilizzando la modalità di assessment EMA -Ecological Momentary Assessment.

L’approccio EMA implica un campionamento ripetuto dei comportamenti degli individui nel momento presente e delle loro esperienze in real-time all’interno di situazioni di vita quotidiana. La ricerca ha coinvolto 49 individui attualmente utilizzatori di cannabis. Dai dati raccolti durante le due settimane di rilevazione EMA è emerso che l’ansia sociale interagisce significativamente con il craving e predice l’uso di cannabis.

Nello specifico individui con punteggi più elevati di ansia sociale e craving più facilmente usavano cannabis. Inoltre è stato riscontrata un’interazione tra ansia sociale, ansia di stato e situazione sociale in cui anche le persone intorno utilizzano: quando gli altri (amici o conoscenti che condividono una certa situazione) usavano cannabis, gli individui con elevati punteggi sia nell’ansia di tratto (ansia sociale) che nell’ansia di stato utilizzavano cannabis con una maggiore probabilità.

 

BIBLIOGRAFIA:

     

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    Lo Psicodramma

     

    Lo psicodramma trae origine dalla concezione psicologica e dal metodo psicoterapeutico e formativo elaborati da Moreno in quasi sessant’anni di attività nel campo clinico, sociale,educativo, dapprima in Vienna e poi – a partire dal 1925 – negli USA…

    Classe sociale e compassione

    – Rassegna Stampa –

    Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze PsicologicheI ricercatori di Berkeley hanno dimostrato che individui di classi socioeconomiche più basse sono più propensi a riconoscere i segnali di disagio e più veloci nell’esprimere compassione rispetto ai loro compagni di classi sociali superiori.

    La studio ha coinvolto 148 studenti della University of California Berkeley e ha evidenziato come individui con background socioculturale più basso riportavano più spesso sentimenti di compassione rispetto ai loro coetanei di classi sociali superiori. Al di là dei dati self-report, i ricercatori hanno monitorato anche le variabili psicofisiologiche, quali la frequenza del battito cardiaco, in 64 studenti mentre guardavano video emotivamente “carichi”, come per esempio famiglie alle prese con un bambino ammalato di cancro. E’ stato riscontrato che mentre entrambi i gruppi reagivano in modo simile dal punto di vista psicofisiologico a video emotivamente neutri, di fronte a video altamente emotigeni gli studenti appartenenti a classi socioeconomiche più basse mostravano un pattern di risposta psicofisiologica specifica definita “calmante” (caratterizzata da una decelerazione del battito cardiaco), una modalità tipica che si riscontra nel momento in cui ci si prepara a prendersi cura di un’altra persona.

    Anche in un terzo esperimento in cui gli studenti a coppie simulavano un colloquio di lavoro, i ragazzi di classi socioeconomiche più basse sentivano che i loro competitors erano particolarmente a disagio e riportavano un maggior grado di compassione rispetto ai ragazzi delle upper classes. In qualche modo quindi il contesto affettivo esperienziale legato a classi socioeconomiche più basse favorirebbe un maggiore livello di compassione, e cioè di considerazione e comprensione della sofferenza e del benessere dell’altro.

     

    BIBLIOGRAFIA:

    Stellar, J. E., Manzo, V. M., Kraus, M. W., Keltner, D. (2011). Class and compassion: Socioeconomic factors predict responses to suffering. Emotion, Dec, no pagination specified.

     

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    Il Perfezionismo e la Chimera del Genitore Perfetto

    Cerchi di essere un genitore perfetto? Meglio sbagliare – Parte 2

    Perfezionismo e la chimera del Genitore Perfetto - Immagine: © falcorpic - Fotolia.com - Nella prima parte di questa serie ci eravamo lasciati con una domanda sull’ambiguità del genitore perfetto: in altre parole, è vero che cercare di essere perfetti è necessariamente positivo? Essere dei genitori perfetti equivale a essere anche dei bravi genitori?

    Prima di provare a rispondere a queste domande, cerchiamo di chiarire il concetto di perfezionismo. Nel corso degli ultimi decenni le ricerche sul perfezionismo hanno occupato una fetta molto ampia di ambiti, dall’attaccamento alla personalità, dalla sana ambizione alla psicopatologia (e.g. Missildine, 1963; Pacht, 1984, Flett, Hewitt, & Dyck, 1989). Attualmente vi sono ancora discordanze sulla definizione di perfezionismo, dal gruppo di Oxford che lo descrive come un concetto unitario (Shafran et. al., 2001) a chi invece sostiene l’importanza di mantenere la multidimensionalità del costrutto (Tozzi et al., 2004; Sassaroli & Ruggiero, 2005).

    Perfezionismo e genitorialità. Immagine: © sonya etchison - Fotolia.com -
    Articolo consigliato: "Perfezionismo e genitorialità"

    Per i nostri scopi utilizzerò studi che si rifanno a quest’ultima prospettiva teorica e che hanno definito il perfezionismo come un tratto multidimensionale, caratterizzato da standard personali eccessivamente elevati e timore dell’errore (Frost et al., 1990). In quest’ottica significa che la persona perfezionista non solo cerca costantemente di raggiungere obiettivi notevolmente alti, ma giudica severamente il proprio comportamento anche in seguito a prestazioni eccellenti non tollerando errori e sbagli. Di fronte a questa definizione non è difficile comprendere come il perfezionismo sia collegato a diversi tipi di psicopatologia, tra cui i disturbi alimentari, depressione, ansia e disturbo ossessivo-compulsivo (Blatt, 1995).

     

    Da questa prospettiva teorica si è sviluppato un modello transazionale integrativo sull’origine del perfezionismo, il quale prevede che le caratteristiche del bambino (come stile di attaccamento e temperamento), i fattori parentali (come lo stile genitoriale) e ambientali (come la relazione con i pari, l’ambiente scolastico e culturale ecc.) giochino contemporaneamente un ruolo importante nel suo sviluppo (Flett et. al., 2002).

    Relativamente alla relazione tra stile genitoriale e perfezionismo prendiamo in esame uno studio condotto da Kyra Davies presso la facoltà di Psicologia della California State University. A 154 partecipanti è stato sottoposto il Frost Multidimensional Perfectionism Scale, insieme ad altre scale sulla relazione parentale e sul temperamento dei genitori.

    Il modello elaborato da Frost suddivide il perfezionismo in 6 dimensioni:

    • Timore degli errori – misura le reazioni negative agli errori e il senso di fallimento provato.

    • Standard personali – valuta gli standard che ciascuno si dà.

    • Criticismo genitoriale e aspettative – misura le aspettative perfezioniste dei genitori nei confronti dei loro figli e il criticismo di fronte a prestazioni non perfette.

    • Dubbi sulle azioni – valuta come le persone si sentono riguardo alle decisioni che prendono e i dubbi che possono insorgere nel completamento di un compito.

    • Organizzazione/disciplina di sé – misura l’importanza attribuita all’ordine e all’organizzazione.

    Avendo esposto questa premessa teorica necessaria per comprendere che cosa si intende per perfezionismo, la prossima settimana andremo a vedere nel dettaglio la relazione tra questo costrutto e lo stile genitoriale.

     

    BIBLIOGRAFIA:

    • Blatt, S. J. (1995). The destructiveness of perfectionism: Implications for the treatmetn of
    • depression. American Psychologist, 50, 1003-1020.
    • Flett, G. L., & Hewitt, P. L. (2002). Perfectionism and maladjustment: An overview of theoretical, definitional, and treatment issues. In G. L. Flett & P. L. Hewitt (Eds.), Perfectionism: Theory, research and treatment (pp. 5-31). Washington, DC: American Psychological Association.
    • Flett, G. L., Hewitt, E L., & Dyck, D. (3. (1989). Self-oriented perfectionism, neuroticism, and anxiety. Personality and Individual Differences, 10, 731-735.
    • Frost, R.O., Marten, P., Lahart, C. E Rosenblate, r. (1990). The dimension of perfectionism. Cognitive Therapy and Research, 14, 449-468.
    • Missildine, W. H. (1963). Your inner child of the past. New York: Simon & Schuster.
    • Pacht, A. R. (1984). Reflections on perfection. American Psychologist, 39, 386-390.
    • Sassaroli, S., & Ruggiero, GM. (2005). The role of stress in the association between low self-esteem, perfectionism, and worry and eating disorders. Int J Eat Disord, 37: 135-141.
    • Shafran, R., & Mansell, W., (2001). Perfectionism and psychopathology: a review of research and treatment. Clinical Psychology Review. 21(6): 879-906.
    • Tozzi F et al. (2004). The structure of perfectionism: a twin study. Behavior Genetics, 34 (5): 483-494.

     

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    2012: Organizzare la mente: nuovi strumenti per i buoni propositi

    – Rassegna Stampa –

    Buoni propositi per il 2012: coltivare una mente organizzata in un mare di distrazioni.

    Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze PsicologichePer molti, ma non per tutti… con il nuovo anno in molti saranno tentati di ripromettersi una maggiore organizzazione, efficienza ed efficacia nei propri impegni quotidiani possibilmente senza procrastinazioni, rimuginii ed evitamenti.

    Obiettivo ultimo? Avere una vita meno stressata e più gratificante. In pubblicazione in questi ultimi giorni del 2011 e a ridosso del nuovo anno, il nuovo libro “Organize your Mind, Organize your Life” di Paul Hammerness, psichiatra della Harvard Medical School e della collega Margaret Moore, ben si presta come chicca per aiutarci a mantenere i buoni e inevitabili propositi per il 2012.

    Nel libro gli autori riportano una serie di recentissime ricerche neuroscientifiche sulle straordinario sistema di organizzazione del nostro cervello, traducendole quindi in consigli pratici di cui avvalersi nella quotidianità.

    Tra i punti cardine del libro la tesi secondo cui il nostro cervello non sarebbe “progettato” per il multitasking ma al contrario per focalizzarsi beatamente e completamente su un singolo compito per volta: in questo modo il cervello avendo pieno e completo accesso alle proprie risorse avrebbe una grandissima potenzialità creativa e produttiva. Questa modalità sembra essere profondamente in contrasto con le nostre pratiche quotidiane e con le richieste del XXI secolo, secondo cui dobbiamo velocemente spostare il nostro focus da un compito all’altro, da un’e-mail, alla stesura di un testo a una telefonata e così via: il nostro cervello fatica a spostare le proprie risorse cognitive velocemente e ripetutamente da una cosa all’altra.

    In questo mare dinamico di splitting attentivo continuo e di sovrastimolazione possiamo prendere però possesso del timone: gli autori suggeriscono diversi step chiamati “Rules of Order”: calma la frenesia (frenesia e ultrastimolazioni mettono a dura prova e stressano la corteccia prefrontale), metti tra parentesi (mettersi nelle condizioni di fermarsi e rivalutare nuovi stimoli in relazione alle proprie priorità), elabora e modella le informazioni flessibilmente verso previsioni realisitiche, e così via…Non resta che leggere e provare per dire addio alla distrazione… Buon 2012!

     

    BIBLIOGRAFIA:

     

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    E’ possibile associare la situazione di stress ad un aumento o decremento di cibo?

    Bambini e memoria: costanza dell’oggetto

    – Rassegna Stampa –
    Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze PsicologicheQuindici anni fa, la letteratura sullo sviluppo infantile ha dichiarato che i bambini 6 mesi non avevano il senso di “costanza dell’oggetto“, cioè la convinzione che un oggetto esiste anche quando è fuori dal campo visivo. Ciò significava che se mamma o papà non erano nella stessa stanza con lui, un bambino poteva avere la sensazione che non esistessero più. Al giorno d’oggi sappiamo che non è vero: lontano dagli occhi non significa lontano dal cuore. Ma quanto i bambini ricordano del mondo che li circonda, e di quali dettagli il loro cervello ha bisogno per poter ricordare?

     

    Un nuovo studio, condotto dallo psicologo e esperto di sviluppo infantile Johns Hopkins, ha aggiunto alcuni pezzi di questo puzzle. Pubblicato in un recente numero della rivista Psychological Science, lo studio rivela che, anche se bambini molto piccoli non riescono a ricordare i dettagli di un oggetto che hanno visto e che poi è stato nascosto, il loro cervello conserva degli indizi che lo aiutano a mantenere la nozione che ciò che hanno visto continua a esistere anche quando scompare alla vista.

     

    Un team di ricercatori ha scoperto che anche se i bambini non si ricordano le forme di due oggetti nascosti, si stupiscono quando gli oggetti spariscono completamente; anche i neonati infatti ricordano l’esistenza di un oggetto senza ricordare l’oggetto. Questo è importante, spiegano i ricercatori, perché getta luce sui meccanismi cerebrali coinvolti nei processi di memorizzazione durante l’infanzia.

     

    I risultati dello studio sembrano indicare che il cervello ha una serie di ‘pointers’ che vengono utilizzati per individuare ciò che abbiamo bisogno di tenere sotto controllo; l’indizio non ci dà alcuna informazione su ciò che indica, ma ci dice che quel qualcosa c’è. I neonati utilizzano questa abilità per rintracciare gli oggetti, senza dover ricordare cosa sono. Questo studio potrebbe aiutare i ricercatori a stabilire una cronologia più accurata delle tappe evolutive fondamentali dell’infanzia e della fanciullezza.

     

    BIBLIOGRAFIA:

    L’abbuffata natalizia e i cannabinoidi endogeni.

     

    Cibi grassi e cannabinoidi endogeni - Immagine: © Ruth Black - Fotolia.com - Il natale incombe e tutti siamo pronti ad acquistare varie leccornie da mangiare durante le festività. Come fare a resistere a tutte quelle cose buonissime, dolcissime e ipercaloriche? E’ praticamente impossibile! Infatti, quando ci si vuole opporre all’eccesso di cibi fritti e grassi, scatta un meccanismo che rende il tutto più difficile.

    Mangiare cibi grassi provoca l’emissione di una sostanza simile al principio attivo della cannabis, un oppiaceo endogeno, che aumenta il piacere e rende più difficile fermarsi. Tutto ciò è il risultato di una ricerca dell’università della California, Irvine (USA) diretta dal professor Piomelli che lavorando sui topi da laboratorio, nutriti con cibi grassi, patatine fritte nello specifico, ha verificato che nel momento in cui mangiavano non volevano più smettere di farlo.

    Si è così registrato l’intero meccanismo, a partire dalla lingua per finire all’intestino. Proprio la lingua dopo aver recepito e valutato il cibo, invia un segnale che tocca il cervello ed arriva all’intestino. Quando poi tocca lo stomaco l’impulso causa l’emissione di cannabinoidi endogeni, che aumentano il piacere del mangiare, spingendo alle abbuffate ed ostacolando la moderazione. Secondo i ricercatori, tale sistema interessa tutti i cibi grassi, ma non zuccheri e proteine, che non alimenterebbero il circuito. Inoltre, questo forse il dato più importante, la conoscenza del meccanismo rende  più facile interromperlo e dire basta davanti ad un piatto pieno: nel momento in cui si registra una sensazione di piacevolezza, un’estasi dei sensi, la sublimazione del gusto, a quel punto bisogna fermarsi, altrimenti si potrebbe andare avanti all’infinito.

    In questo modo si spiega il meccanismo secondo cui i cibi molto buoni portano la persona a mangiarne sempre senza fermarsi mai. Tale meccanismo è noto in alcune patologie alimentari quali il binge eating disorder in cui i pazienti che ne soffrono manifestano dipendenza e assuefazione al cibo. Nel momento in cui viene loro in mente di mangiare, devono assolutamente soddisfare questo bisogno altrimenti vanno in crisi d’astinenza, come le persone che fanno uso di stupefacenti.

    Per concludere, è bene mangiare e assimilare tante calorie in questi giorni, ma non perennemente, altrimenti si diventa food addicted.

     

    BIBLIOGRAFIA:

    • D. Piomelli, G. Astarita and R. Rapaka, 2007. A neuroscientist’s guide to lipidomics. Nat Rev Neurosci, 8, 743-754.
    • G.J. Schwartz, J. Fu, G. Astarita, X. Li, S. Gaetani, P. Campolongo, V. Cuomo and D. Piomelli, 2008. The lipid messenger OEA links dietary fat intake to satiety. Cell Metab 8, 281-288.
    • P. Campolongo, B. Roozendaal, V. Trezza, V. Cuomo, G. Astarita, J. Fu, J.L. McGaugh and D. Piomelli, 2009. Fat-induced satiety factor oleoylethanolamide enhances memory consolidation. Proc Natl Acad Sci U.S.A., 106, 8027-8031.

    Ciò che non uccide fortifica: esperienze negative e Resilienza

    – Rassegna Stampa –

    Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze PsicologicheCiò che non uccide fortifica, recita un vecchio detto popolare. Sembra proprio che in parte questo sia vero, cioè che una moderata quantità di avversità permetta di sviluppare resilienza.

    Una ricerca condotta all’università di Buffalo e pubblicata sul numero di dicembre di Psychological Science ha messo a confronto persone che hanno subito differenti quantità di esperienze traumatiche e stressanti nel corso della vita; come già evidenziato da molti altri studi, eventi gravi, come la morte di un figlio o di genitore, catastrofi naturali, abusi fisici o sessuali, separazioni precoci e prolungate dai genitori, sono tutti eventi molto stressanti in grado di incidere molto negativamente sulla salute mentale e fisica delle persone.

    Il dato più interessante dello studio in questione però riguarda chi ha sperimentato solo “alcuni” eventi negativi: una moderata esposizione alle avversità infatti può avere un effetto fortificante, rendendoci più attrezzati ad affrontare la vita, come se le esperienze difficili permettessero di imparare ad affrontare le difficoltà successive; le difficoltà della vita inoltre creano un occasione per testare l’affidabilità e la solidità della propria rete sociale, permettendo di imparare a chiedere aiuto quando necessario.

     

    Holiday Blues: Come evitare il senso di tristezza tipico delle Festività

    Holiday Blues - Immagine: © Ariwasabi - Fotolia.com - Oltre ad essere un momento felice di condivisione degli affetti ed allegria per l’arrivo dell’Anno nuovo, spesso le Festività (Natale e Capodanno) possono essere un momento in cui le persone avvertono un senso di tristezza e lamentano di sentirsi giù. Queste sensazioni di tristezza sono reali, ma il più delle volte sono lievi e temporanee. In fin dei conti questi “umori festivi” non possono essere considerati come veri e propri sintomi di un quadro clinico di depressione. Quando le persone hanno un serio quadro clinico di depressione, d’altra parte, presentano diversi sintomi di cui hanno esperienza per la maggior parte della giornata, ogni giorno, per più di due settimane.

    Ricordiamo che la depressione clinica comporta la presenza di almeno 5 dei seguenti sintomi: marcata diminuzione di interesse o piacere per tutte, o quasi tutte, le attività; significativa perdita di peso, in assenza di una dieta, o significativo aumento di peso, oppure diminuzione o aumento dell’appetito; insonnia o ipersonnia; agitazione o rallentamento psicomotorio; affaticabilità o mancanza di energia; sentimenti di autosvalutazione oppure sentimenti eccessivi o inappropriati e sensi di colpa; diminuzione della capacità di concentrazione, attenzione e pensiero; difficoltà nel prendere decisioni o iniziative in ambito familiare e/o lavorativo; pensieri ricorrenti di morte o di intenzione e/o progettualità suicidaria (DSM-IV TR, 2000).

    Paradosso del Donatore. Immagine: © Ariwasabi - Fotolia.com -
    Articolo consigliato: “Babbo Natale e il Paradosso del Donatore”

    Si tratta di sintomi che potrebbero richiedere l’intervento di un professionista della salute mentale, non possono di certo essere paragonati alle sensazioni di tristezza – che gli americani chiamano Holiday Blues– che è possibile provare durante le Festività.

    Ma che dire di questi lievi sentimenti di scoraggiamento che si verificano, per alcune persone, in prossimità delle Festività?

    Un breve articolo pubblicato da Judith Beck, figlia di Aaron Temkin Beck, uno dei padri fondatori con Albert Ellis della Psicoterapia Cognitiva in America, sull’Huffpost Healthy Living ci propone alcuni consigli utili per aiutarvi ad evitare di provare queste sensazioni di tristezza durante le Feste:

    1.Mantenete le vostre aspettative realistiche e abbandonate l’idea che sia necessario partecipare pienamente ad ogni rituale festivo;

    2.Se partecipate a delle feste (specialmente in occasione di ritrovi familiari), puntate a godervi il momento, senza aspettarvi necessariamente che sia un momento magnifico, altrimenti rischiate di rimanere delusi. Ricordate, l’idea che le festività debbano necessariamente essere i momenti migliori dell’anno è solo un’invenzione della televisione;

    3.Mantenete la vostra routine, mangiate, bevete e dormite come d’abitudine. Se avete esagerato con il cibo e non avete rimediato con il solito esercizio fisico, finirete per sentirvi pesanti, gonfi e stanchi;

    4.Stabilite un limite massimo di denaro da spendere per i regali ed evitate di cercare “il regalo perfetto”. Vi sentirete meglio sapendo di non aver gravato eccessivamente sul vostro conto corrente;

    5.Cercate di non aspettarvi di ricevere il regalo che sognate. Anche in questo caso, potreste finire per sentirvi delusi;

    6.Se vi sentite giù, chiamate un amico con cui è possibile intavolare delle conversazioni edificanti e progettate qualcosa insieme;

    7.Infine, se vi va, aiutate chi è meno fortunato di voi. È probabile che fare del bene a chi è più bisognoso vi aiuterà a sentirvi ancora più bene con voi stessi.

    Insomma, Natale e Capodanno si stanno inesorabilmente avvicinando! E voi? Come vi sentite?

     

     

    BIBLIOGRAFIA:

    • AA.VV., 2000. Diagnostic and statistical manual of mental disorders: DSM-IV-TR. American Psychiatric Pub.
    • Beck J., 2011. How to Avoid the Holiday Blues. www.huffingtonpost.com

     

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    Allucinazioni uditive e schizofrenia.

    ALLUCINAZIONI UDITIVE: ESITO DI UN’INEFFICACE REGOLAZIONE EMOTIVA?

    Alucinazioni uditive e schizofrenia. Immagine: © Xtremer - Fotolia.com - Numerosi studi presenti in letteratura hanno ormai dimostrato che gli individui affetti da schizofrenia mostrano significative difficoltà nell’esperire, nell’esprimere e talora nel percepire le emozioni. Con l’obiettivo di andare oltre il classico criterio dell’ “appiattimento emotivo” (blunted affect) utilizzato nella formulazione delle diagnosi di questi pazienti, alcuni ricercatori si sono occupati di capirne le motivazioni e i meccanismi sottostanti.

    I sintomi positivi della schizofrenia, come ad esempio le voci o altre allucinazioni uditive, sembrano fortemente associati all’incremento di stati d’ansia o ad alterazioni del tono dell’umore, stati mentali che vengono in condizioni normali e da tutti noi tenuti sotto controllo attraverso strategie di riduzione dell’intensità delle emozioni, quali la soppressione dell’espressione delle emozioni (per esempio l’ inibizione di comportamenti legati al vissuto emotivo), un utilizzo disfunzionale delle risorse attentive, quali ruminazione o rimuginio, oppure tentativi di cambiare le proprie credenze e valutazioni rispetto all’esperienza emotiva vissuta (reappraisal).

    A tal proposito, alcuni recenti studi si sono concentrati sul legame tra la presenza di allucinazioni uditive e la possibilità di una deficitaria o inappropriata regolazione delle emozioni, come fattore di aggravamento o mantenimento dei sintomi. Un gruppo di ricercatori australiani ha pubblicato nel 2011, sulla rivista Psychiatry Research, un interessante contributo in questa direzione.

    Il protocollo utilizzato prevedeva la somministrazione a 34 pazienti affetti di schizofrenia con allucinazioni uditive come sintomi positivi dominanti, e a 34 soggetti di controllo “sani”, di alcune misure di self-report relative a: 1- descrizione dei sintomi allucinatori relativamente a gravità del disturbo (frequenza, durata e intensità) e angoscia percepita, 2- presenza di sintomatologia ansiosa e/o depressiva e 3- strategie più frequentemente utilizzate per regolare le emozioni (reappraisal cognitivo e soppressione delle emozioni).

    I risultati hanno mostrato come nel gruppo dei pazienti un maggior utilizzo della soppressione delle emozioni venga associato ad un aggravamento dei sintomi allucinatori e ad un esito peggiore nelle gestione delle attività quotidiane (isolamento sociale e basso funzionamento lavorativo), mentre la tendenza alla ruminazione appare significativamente associata ai vissuti di angoscia conseguenti ai sintomi, ma non ad un peggioramento dei sintomi stessi. Nel gruppo di controllo si è evidenziata, come prevedibile, una correlazione significativa e positiva tra l’utilizzo della soppressione delle emozioni, della ruminazione e del rimuginio e l’incremento di sintomi depressivi e ansiosi.

    L’aspetto interessante su cui porre attenzione rimane tuttavia proprio l’approfondimento delle strategie di regolazione delle emozioni, come importante predittore delle strategie di coping delle esperienze allucinatorie. Da questa ed altre ricerche condotte in quest’ambito emerge infatti la necessità di valutare e inserire nei protocolli di cura di questa patologia cronica un lavoro mirato alla gestione delle emozioni, prima ancora di pensare ad un intervento di “reappraisal critico” (disputing) sui contenuti delle stesse esperienze allucinatorie. Scontata considerazione forse, ma di fondamentale importanza per capire il ruolo determinante dell’affiancare una psicoterapia,al trattamento farmacologico, in pazienti generalmente così difficili da trattare e così poco trattati.

    Alla psichiatria dunque l’ingrato compito di ridurre l’intensità e la pervasività dei sintomi, soprattutto nei periodi di riacutizzazione della malattia, e a noi psicoterapeuti quello di capire come e perché i sintomi si manifestano e il loro ruolo (spesso “protettivo”) nel funzionamento della persona: un approccio integrato che includa a pieno titolo la psicoterapia nel percorso di cura, apre la possibilità di intervenire in modo indiretto e forse più efficace sulla frequenza e sull’intensità delle allucinazioni uditive, allenando la competenza emotiva, la consapevolezza di malattia e il legame tra allucinazioni uditive ed eventi di vita.

    Se si pensa allo stigma che alcune manifestazioni emotive “eccessive” e “inadeguate” fanno ricadere sui pazienti affetti da schizofrenia, ecco che la soppressione emotiva cui spesso ricorrono sia i pazienti che le stesse strutture riabilitative che si occupano dei loro percorsi di cura, può diventare iatrogena e favorire esiti drammatici.

    Qui collocherei il lavoro psicoterapico, che rischia di assumere dunque un significato clinico importante, oltre che etico e di rilevanza sociale.

     

    BIBLIOGRAFIA:

    • Johanna C. Badcock, Georgie Paulik, Murray T. Maybery (2011). The role of emotion regulation in auditory hallucinations. Psychiatry Research 185, p. 303–308.

     

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    Alcol, aggressività e le conseguenze sulle nostre azioni

    – Rassegna Stampa –

    Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze PsicologicheSecondo un recente studio chi ha poca capacità di prendere in considerazione le conseguenze delle proprie azioni corre il rischio di diventare aggressivo se alza troppo il gomito; questo non accadrebbe invece in chi gode di una visione prospettica delle situazioni.

    Le persone che si concentrano sul qui e ora, senza pensare alle conseguenze nel futuro, sono in generale più aggressive delle altre, e questo effetto è amplificato notevolmente quando sono ubriache. L’alcol rende miopi e restringe l’attenzione su ciò che è importante per sé nell’immediato, spiega Brad Bushman, autore principale dello studio e professore di comunicazione e psicologia della Ohio State University.

    Lo studio ha coinvolto 495 adulti, tutti bevitori sociali con un’età media di 23 anni; a tutti è stata somministrata la Consideration of Future Consequences scale, per valutare quanto i partecipanti erano concentrati sul presente o sul futuro. Successivamente sono stati creati due gruppi, uno dei quali è stato fatto ubriacare con succo di arancia mescolato ad alcol in un rapporto di 1:5, mentre all’altro gruppo è stata data una bevanda quasi analcolica, considerata placebo.

    L’aggressività è stata misurata replicando una prova sperimentale sviluppata nel 1967 per testare l’aggressività attraverso l’uso di scosse elettriche inoffensive, ma lievemente dolorose. A ognuno dei partecipanti è stato detto che era in competizione con un avversario dello stesso sesso in un test di velocità di reazione al computer, nel quale il vincitore somministrava una scossa elettrica al perdente, determinandone anche l’intensità e la durata. In realtà non c’era nessun avversario e i vincitori erano stabiliti in modo arbitrario. Il dato interessante riguarda l’escalation di violenza (scariche più forti e lunghe) che si è verificata nei confronti dei perdenti da parte dei vincitori, ai quali infatti veniva fatto credere che stavano effettivamente somministrando scariche sempre più forti man mano che l’esperimento progrediva. I risultati sono chiari: meno le persone pensano al futuro e più è facile che si vendichino sull’avversario, specialmente se sono ubriache. Quelli concentrati sul presente e anche ubriachi infatti hanno dato scosse più intense e lunghe di chiunque altro. L’alcol invece non ha avuto effetti sull’aggressività di chi ha mostrato di possedere una visione prospettica (future-focused). Gli uomini erano più aggressivi delle donne in generale, ma gli effetti dell’alcol e della personalità erano simili in entrambi i sessi.

    Se non avete lo sguardo lungo quindi attenzione a non alzare troppo il gomito durante le feste…potrebbe finir male!

     

     

    BIBLIOGRAFIA:

     

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