expand_lessAPRI WIDGET

Le metafore attivano le regioni cerebrali coinvolte nell’esperienza sensoriale

– Rassegna Stampa – 

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze PsicologicheBruciare di passione, sentire gelarsi il sangue…attenzione il nostro cervello riattiva le esperienze sensoriali e motorie per comprendere le espressioni metaforiche. E’ evidente anche alla psicologia ingenua che le nostre conversazioni quotidiane sono immancabilmente ricche di metafore. Linguisti e psicologi da tempo sono alle prese con il rapporto tra le metafore, il linguaggio e la nostra esperienza sensoriale e già George Lakoff lo diceva: la comprensione delle metafore è radicata nelle nostre esperienze senso-motorie. Ma in pratica che significa? E chi lo ha dimostrato empiricamente?

Un nuovo studio pubblicato questa settimana su Brain & Language dimostra a livello empirico che l’ascolto di una frase contenente una metafora tattile (implicante cioè una qualità tattile, ad esempio vino vellutato oppure rough day in lingua inglese) attiva una specifica regione cerebrale sensomotoria, l’opercolo parietale, deputata non tanto alla comprensione linguistica ma proprio all’elaborazione delle sensazioni tattili: in altre parole, sembra che si verifichi una simulazione mentale interna, con tanto di correlati cerebrali, delle sensazioni tattili legate a una certa qualità tattile espressa nella metafora. La stessa regione non si attiva quando invece ascoltiamo una frase che spiega esplicitamente a livello linguistico il significato della stessa metafora.

“Anche quando lo stimolo è rappresentato da una metafora nota e di uso comune è stato dimostrato che la comprensione delle metafore attiva le aree sensoriali del nostro cervello, appunto implicate nell’elaborazione degli stimoli sensoriali” dice Krish Sathian professore di neurologia, riabilitazione e psicologia presso Emory University di Atlanta.

Come da attese in linea con l’approccio della grounded cognition, effettivamente non è stata riscontrata l’attivazione delle regioni corticali visive durante la comprensione delle metafore tattili: una sorta di coerenza tra tipologia di aree sensoriali riattivate e comprensione linguistica di metafore basate su specifiche modalità sensoriali (metafore visive, cinestesiche, tattili, uditive, etc). Non stupisce che la ricerca sia stata condotta da un gruppo di ricercatori della Emory University di Atlanta, patria di Lawrence Barsalou uno dei principali sostenitori dell’approccio della grounded cognition nell’ambito delle scienze cognitive.

 

 

BIBLIOGRAFIA:  

Il Potere della Timidezza. Introversione, estroversione e stili di pensiero.

 

Time Cover - Monday, Feb. 06, 2012 (US). Immagine: © 2012 Time Inc. All rights reservedL’autorevole periodico americano Time ha recentemente dedicato una copertina al “potere della timidezza” nel tentativo di sfidare uno dei più consolidati luoghi comuni, ovvero: essere estroversi migliora la propria leadership.

Pensare alla timidezza necessariamente come un difetto o, ancor peggio una malattia, è profondamente errato. Il messaggio che riceviamo dai media, tuttavia, è proprio questo: le persone timide hanno una scarsa autostima, soffrono spesso di disturbi d’ansia e necessitano di cure.

Il luogo comune non distingue infatti la timidezza dalla fobia sociale, disturbo ansioso caratterizzato da una costante e sproporzionata paura nelle relazioni sociali, uno stato di intenso malessere psicofisico che costringe l’individuo a evitare situazioni sociali per il timore di essere giudicato inadeguato dagli altri. Il più delle volte questo timore si autoalimenta dando vita a una sorta di circolo vizioso, in cui il soggetto fobico, per paura che gli altri scoprano le sue preoccupazioni, arriva al punto di avere paura della paura stessa, sviluppando un’ansia anticipatoria che lo costringe di conseguenza a perpetuare i suoi comportamenti di evitamento.

La fobia sociale, tuttavia, non corrisponde alla timidezza, la quale non è solo sinonimo di difficoltà e disagi, ma racchiude anche una serie di qualità e abilità che, se efficacemente utilizzate, possono diventare un punto di forza, come per esempio, la maggiore e più prolungata capacità di attenzione. Sembrerebbe che nei soggetti introversi, l’attività cerebrale sia concentrata nella corteccia cingolata anteriore, ovvero la regione legata ai processi emozionali, al contrario negli estroversi, tale attività interessa prevalentemente le aree del linguaggio e del pensiero razionale della corteccia frontale sinistra (Mobbs, 2005).

Narcisismo e Leadership: gli svantaggi delle apparenze. Immagine: © 2011-2012 Costanza Prinetti
Articolo consigliato: Narcisismo e Leadership: gli svantaggi delle apparenze.

Per comprendere la natura dell’introversione e dell’estroversione occorre, però, fare riferimento alle numerose interazioni tra fattori genetico-biologici ed ambientali. Come è vero infatti che i fattori genetici esercitano un ruolo primario nello stabilire gli aspetti costitutivi della personalità, è altrettanto vero che tali predisposizioni ereditarie si struttureranno o meno nel soggetto a seconda del ruolo, ugualmente fondamentale, giocato dall’ambiente nel corso dello sviluppo. Oggi però, nella società sempre più efficientista, dinamica e competitiva in cui viviamo, poco importa “come si è”, l’importante è “come si appare”.

In letteratura introversi e non, vengono comunemente definiti “Sitters” e “Rovers” (Cain, 2012): i primi sono coloro che si imbattono nelle situazioni senza pensarci due volte e godono all’idea di stare al centro dell’attenzione; mentre la seconda definizione descrive figure più attente, che spesso rimangono ai margini in una fase di osservazione e valutazione e che agiscono solo in un secondo momento.

Il continuum introversione-estroversione non deve essere considerato un’evoluzione da una disposizione caratteriale negativa vs positiva, queste due polarità sono semplicemente due modi differenti di essere: sitters e rovers metteno in atto strategie di sopravvivenza diverse e ognuna porta ad ottenere diverse ricompense. L’estroverso risulta essere più sicuro, ed ha abilità maggiori nella gestione delle critiche e dello stress rispetto al timido, il quale è sicuramente più sensibile e vulnerabile, ma anche più riflessivo e con maggiori capacità di concentrazione (Jagiellowicz, 2010).

Sarà dunque vero che l’estroversione è il segreto per avere successo nella vita? Forse non è sempre così, come dimostrano alcune strepitose carriere, come quella dell’introverso regista Woody Allen, del celeberrimo maestro Vladimir Horowiz, il quale interruppe le sue esibizioni per 15 lunghi anni a causa della paura di fallire di fronte al suo pubblico, o quella della timida scrittrice britannica Joanne Kathleen Rowling. Ci sono poi personalità pubbliche che sulla propria timidezza costruiscono i loro personaggi e spesso la loro fortuna, ad esempio il sopracitato Woody Allen o la nostrana Margherita Buy, come osserva lo psichiatra Fausto Manara.

Concludo osservando che gli individui schivi alla mondanità, non avvezzi a futili chiacchiere o serate di circostanza vengono spesso etichettati come chiusi o, nella peggiore delle ipotesi, asociali. La tendenza a categorizzare, tuttavia, sembra essere un bisogno intrinseco all’esperienza umana, ma non presenziare ad ogni evento o non avere sempre qualcosa da dire, non sono necessariamente manifestazioni di timidezza, né tantomeno di introversione. In un periodo storico come quello odierno dei reality show, in cui i panni sporchi vengono lavati di fronte a milioni di telespettatori, si può solo pensare che il peggior difetto di un introverso sia quello di non essere “alla moda”.

 

 

BIBLIOGRAFIA:

  • Stengel R. (2012). What if Introverts Ruled the World? Time, Monday, Feb 06, 2012
  • Cain S. (2012). Quiet: The Power of Introverts in a World That Can’t Stop Talking . Crown Publishing Group (NY) 2012.
  • Jagiellowicz J., et al. (2010) “The trait of sensory processing sensitivity and neural responses to changes in visual scenes”. Social Cognitive Affective Neuroscience 2010.
  • Mobbs D., et al., (2005). Personality predicts activity in reward and emotional regions associated with humor. Pnas 2005; 102:16502-1656.
  • Manara F. (1997). Timidezza. Sperling & Kupfer Editori, Milano, 1997.

Storie di Terapie – Introduzione

Introduzione

Questi casi reali li ho raccontati per descrivere la psicoterapia cognitiva in azione, evidenziandone alcuni meccanismi tipici che il terapeuta porta con sé nella borsa degli attrezzi e utilizza al momento giusto, diverso in ogni percorso terapeutStorie di Terapie - © Athanasia Nomikou - Fotolia.comico. La teoria ci dice che la terapia cognitiva consiste in un cambiamento di credenze e scopi della persona sofferente e che i passi da percorrere sono sostanzialmente due:

1 – In primo luogo si tratta di comprendere noi e rendere consapevole il paziente del suo modo di funzionare: si chiede al paziente di essere psicologo di se stesso.

2 – Una volta evidenziate le credenze che guidano la sua vita dolorosa si tratta di modificarle attraverso alcuni passaggi chiave:

  • analizzare il contesto di apprendimento dove si sono strutturate, essendo ad esso adattive e accorgersi di quanto quel contesto sia cambiato rendendole attualmente patogene.
  • valutarne la falsità e la dannosità.
  • trovare delle credenze alternative con cui sostituirle
Vado in terapia: aspettative e timori - Immagine: © andrewgenn - Fotolia.com -
Articolo consigliato: "Vado in terapia: aspettative e timori"

Sempre la teoria ci ricorda che lo scopo generale della terapia è riattivare un processo di cambiamento /crescita/adattamento del sistema nel cui blocco consiste la patologia e che per ottenere questo è necessario perseguire un duplice ampliamento dei gradi di libertà del sistema:

  • Sollecitando l’ampliamento degli scopi su cui investire in modo da ridurre il rischio di fallimenti catastrofici se un settore va male
  • Aumentando il numero di strategie di perseguimento utilizzate per ciascuno scopo terminale: un sistema con più scopi e con più strategie di perseguimento per ciascuno di essi è più al sicuro

A questo seguono i due grandi movimenti della terapia che possiamo chiamare quello della rassicurazione e quello dell’accettazione.

 La rassicurazione tende a mostrare al paziente che sovrastima erroneamente la probabilità dell’evento temuto. E’ quello che anche i laici vicini alla persona sofferente tentano di fare: “stai esagerando, vedrai che non succederà!” Il terapeuta tuttavia lo articola in maniera più sofisticata, evidenziando gli errori di ragionamento che tendono a confermare i modi di vedere disfunzionali: il messaggio comunque resta “non succederà!”

Il dolore in terapia: sofferenza da dimenticare o necessità evolutiva? - Immagine: © Dawn Hudson - Fotolia.com -
Articolo consigliato: Il dolore in terapia: sofferenza da dimenticare o necessità evolutiva?

L’accettazione invece tende, da un lato, a far considerare l’evento temuto meno terribile di quanto il soggetto lo valuti per la serie “il diavolo non è così brutto come lo si dipinge” e dall’altro a convincere il paziente che, rispetto ad un evento immodificabile, investirvi risorse è solo un ulteriore danno.

La psicoterapia cognitiva deve, persino troppo, la sua notorietà ed il suo successo al ricco strumentario di tecniche codificate di cui si avvale ma a cui assolutamente non si riduce. Infatti la riattivazione del cambiamento attraverso l’aumento dei gradi di libertà del sistema, la rivalutazione corretta della probabilità dell’evento temuto e la sua decatastrofizzazione si ottengono attraverso interventi molto concreti (tecniche specifiche) scelti nell’itinerario terapeutico definito al momento del contratto e modificati via via dall’evolversi della relazione terapeutica o cogliendo al volo le opportunità fortuite offerte dagli accadimenti della vita quotidiana, oltre a quelle predisposte con gli home work per falsificare le vecchie modalità.

Alcuni di questi interventi sono:

  • La psicoeducazione e la trasmissione di informazioni che il paziente ignora, nonché la sollecitazione a guardarsi intorno per escogitare soluzioni nuove ai vecchi problemi abbandonando quelle dimostratesi inefficaci.
  • L’evidenziazione di possibili conflitti tra scopi e l’assunzione della responsabilità di una scelta che restituisca agentività a quei pazienti che arrivano dichiarando la loro impotenza con frasi del tipo “è più forte di me” cui in genere rispondo “allora mi mandi lui che tratto direttamente con il capo”.
  • Lo svelamento degli schemi interpersonali disfunzionali all’interno della relazione terapeutica, l’esame dei circoli di rinforzo che creano e la sperimentazione di modalità nuove.
  • L’interruzione degli automatismi sintomatici anche attraverso manovre comportamentali, contemporaneamente al recupero del loro significato originale modificato o perso nel corso del tempo.

 

Lo sguardo del dolore - © Kelly Young - Fotolia.com
Articolo consigliato: In terapia: lo sguardo del dolore.

Ho pensato utile raccontare un po’ di casi clinici sparsi lungo tutto l’arco delle diagnosi categoriali e soprattutto di situazioni miste, perchè i pazienti si ostinano a non studiare il DSM IV per collocarsi correttamente nelle sue categorie e insistono a presentarsi come persone reali, sofferenti e multisfaccettate: con mille acciacchi diversi e sovrapposti.

In queste situazioni ci sono di scarso aiuto i protocolli, si tratta per ciascun caso di identificare con quali meccanismi nel paziente si genera sofferenza e dopo averli smascherati provare a modificarli costruendo alternative. Ho cercato di raccontare il paziente, quello che è avvenuto tra noi in terapia e come sono andate le cose, insuccessi ed errori compresi, transfert e controtransfert o come si chiama nella nostra parrocchia quel miscuglio di sentimenti che avviluppa paziente e terapeuta.

Nei casi che seguono, l’arrosto sostanzioso dei vari pazienti è condito con il sugo della fantasia, per rendere non identificabili le persone e la lettura più avvincente. Spesso ho condensato in un solo paziente più persone e, quasi sempre ci sono scappati pezzetti di me stesso.

Roberto Lorenzini 06 febbraio 2012

 

Caso Clinico #1: Marco, l’ultimo Samurai

Storie di Terapie #1 – Marco, l’ultimo samurai

Storie di Terapie 

Nei casi clinici che seguono, l’arrosto sostanzioso dei vari pazienti è condito con il sugo della fantasia, per rendere non identificabili le persone e la lettura più avvincente. Spesso ho condensato in un solo paziente più persone e, quasi sempre ci sono scappati pezzetti di me stesso.   – Leggi l’introduzione –   

 

#1

Marco, l’ultimo Samurai.

Marco, l'ultimo samurai. Immagine: © Diedie55 - Fotolia.com - Marco arriva su invio dei colleghi dell’ospedale dove è stato ricoverato, volontariamente, qualche giorno in osservazione.

Sono allarmati perché la giovane età di Marco, 24 anni, fa temere un esordio psicotico. Ciò che indirizza verso una prognosi negativa è il forte ritiro sociale, l’atteggiamento sospettoso e ostile nei confronti degli altri e una serie di sintomi molteplici e bizzarri difficilmente riconducibili ad un unico disturbo.

Il trattamento praticato fino a quel momento, da circa cinque anni, consiste in farmaci ansiolitici e serotoninergici per controllare la sintomatologia ansiosa molto pervasiva e multiforme; di recente, sono stati associati neurolettici atipici, proprio per il timore di un esordio psicotico.

Tecniche terapeutiche: la bacchetta magica - Immagine: © Ekler - Fotolia.com
Articolo consigliato: "Tecniche terapeutiche: la bacchetta magica"

Marco ha anche seguito per un paio di anni una psicoterapia che riferisce essere stata utile, così come i farmaci, nel ridurre la sintomatologia che tuttavia si ripresenta con la sospensione delle terapie dell’uno o dell’altro tipo; ciò gli ha procurato l’ulteriore paura di non guarire più e di essere per sempre un malato mentale.

Il timore per qualsiasi malattia fisica è invece patrimonio antico e consolidato. Mi aspetto un giovane psicotico, ostile, rifiutante e da convincere a farsi curare, inconsapevole e non molto sveglio: non è così.

Marco è un giovane di 24 anni che frequenta con straordinario profitto l’ultimo anno di Ingegneria all’Università. E’ alto, bello, curato nel vestire, seppure senza ostentazione ed in stile casual. Ha i capelli completamente rasati e presenta una balbuzie vistosa che, tuttavia, non ostacola la comunicazione e si attenua dopo il primo impatto.

Marco arriva allo studio accompagnato dal padre di 56 anni, che è lì con lui sia per definire le questioni economiche relative ad una assicurazione di cui gode e che necessita di una particolare procedura per il rimborso, sia perché Marco non ama andare in giro da solo, soprattutto in zone poco conosciute.

Al padre, da cinque anni, è stato diagnosticato un mieloma ed avendo subito già due trapianti non potrà eseguirne altri; della stessa malattia è morto anche il nonno paterno di Marco. Inutile dire che l’eventualità di potersi ammalare è una delle preoccupazioni di Marco che, invece, non ne mostra alcuna verso il padre, non nel senso che è ottimista ma in quello più radicale del menefreghismo. L’aggravamento e l’eventuale morte del padre sembrano riguardarlo solo in quanto riduzione delle risorse a sua disposizione. Quanto ciò sia importante lo scoprirò solo al termine della terapia. Un tale struggente e disinteressato amore filiale mi mette in una negativa disposizione d’animo verso il giovane, ma l’autocontrollo è adamantino e nulla filtra all’esterno. Lo farò a pezzi nei miei sogni notturni.

Rimasto solo con Marco ho l’impressione di trovarmi di fronte ad un pugile con la guardia ben alzata ed allo stesso tempo ad un bambino spaventato, pronto ad aggrapparsi a quella mano che, d’altro canto, teme lo colpisca. Il mio confermazionismo esulta allo scoprire ogni volta, dietro un’immagine da bullo o da macho, uno smarrito “piscialletto”, ma è solo una consolazione fondata sulla speranza che si dia anche la relazione opposta: fragilità esterna uguale a forza interiore.

Parliamo volentieri, il confronto razionale, analitico, scientifico e a carattere psicoeducativo costituiscono subito un facile terreno d’intesa. Marco, da buon ingegnere e ubbidiente scolaro, vuole capire cosa gli stia succedendo e sapere cosa fare; l’ approccio cognitivo-comportamentale gli si addice perfettamente. Il suo primo interesse è sapere quale malattia abbia, gli sono state fatte numerose e diverse diagnosi e ciò lo disorienta e lo spaventa. Un problema, a suo avviso, lo si può risolvere solo se ha un nome e dei connotati precisi, la vaghezza non fa per lui…  

…Colludiamo come due matematici in esilio nelle scienze umane. Naturalmente, l’opinione che lui ha è che la sua malattia sia organica come quella del padre e che occorra trovare il nome e la medicina giusta. L’esistenza stessa di una vita psichica è qualcosa che riesce solo vagamente ad intuire, la realtà è costituita di cose concrete, manipolabili. Il fatto però che io riesca, con assoluta precisione, a descrivergli cosa sente quando sta male e cosa abbia pensato subito prima e immediatamente dopo, sollecita la sua vivace curiosità. Si interessa a concetti come “emozioni”, “pensieri”, “stati d’animo”, è molto intelligente e le spiegazioni circa i complessi legami tra gli stati interni e il loro rapporto con il mondo esterno, quello degli ingegneri, lo attraggono da un punto di vista teorico ancor prima che personale. 

Durante la terza seduta si informa sul motivo della mia condizione (emiparesi sinistra) ed ho la netta impressione che abbia deciso che, grazie a ciò, io non possa essere pericoloso. A quel punto, inizia a narrare tutti i disturbi insensati per cui si considera matto e inizia a sudare copiosamente… il primo, in ordine di gravità , è l’ “affaire capelli”. 

Mi racconta che passa almeno due ore al giorno di fronte allo specchio a controllare il cuoio capelluto, per vedere se non ci sia un diradamento dei capelli che lo terrorizza. Assume un farmaco costosissimo contro la caduta dei capelli, con il rischio di ipertrofia prostatica e altri importanti effetti collaterali, li taglia a zero sia per rinforzarli che per rendere meno visibili le eventuali aree di diradamento della chioma. 

Quando è fuori casa osserva, da vicino e con insistenza, le capigliature di tutti gli uomini al punto di aver provocato litigi con alcuni che, immagino, si saranno sentiti oggetto di non richieste attenzioni omosessuali. Ha elaborato una teoria per prevedere con esattezza a che età un uomo diventerà calvo, la sola parola “pelato” lo getta in uno stato di agitazione. Secondo questa teoria esistono dei segni premonitori che riguardano la stempiatura, la densità di capelli per unità di superficie, lo spessore del capello e il suo stato di secchezza, l’averli lisci o ricci e la presenza di vertigini. Dal combinarsi di queste dimensioni si può, a suo parere, prevedere l’epoca della calvizie. Quando osserva gli altri maschi il suo unico intento è stabilire se diventeranno calvi prima o dopo di lui; se i loro capelli sopravviveranno ai suoi si sentirà canzonato, deriso e immagina di non poter sopravvivere a tale umiliazione. 

L’inizio di questo tormento lo ricorda esattamente, come se fosse un disturbo post traumatico da stress e lo fa risalire ai sedici anni: è il primo pomeriggio di una domenica primaverile come tante altre e Marco ignora che, proprio quel giorno, la sua vita cambierà e che lui varcherà, a grandi falcate, il portone della malattia mentale. 

La domenica pomeriggio, che vede da sempre bandito ogni studio, è dedicata al calcio dalle 14.00 alle 20.00. Marco sta seduto sul divano, con il padre, a guardare in televisione “Quelli che il calcio” e la madre sta finendo di sparecchiare. Egli ricorda con esattezza, come in un fermo immagine, l’intervista a Cassano fatta da una Simona Ventura in un corto abito arancione.La madre passando dietro al divano gli carezza la nuca dicendo “qui ti verrà la chierica”. 

Marco non ricorda il prosieguo della conversazione, se mai ci fu, in proposito ha la stessa amnesia lacunare di chi è coinvolto in un grave incidente stradale. Sente una vampata di calore avvolgerlo, le tempie scoppiargli, la testa confondersi e girare, il sudore inumidirgli la fronte e la vista annebbiarsi. Quando la trama del ricordo riprende, dopo il temporaneo sfilacciamento, non sta più a guardare Cassano conversare con la Ventura, ma è in bagno e, con uno specchio portatile tenuto dietro il suo cranio, cerca di proiettare sullo specchio grande di fronte a sé l’area dove si era poggiata la carezza della madre. 

Marco descrive quell’istante come un passaggio, un momento cruciale e irreversibile della sua esistenza, la fine dell’età dell’innocenza, l’inizio della sofferenza e l’avvento della follia. Da quel momento nulla sarà più come prima, non sa il perché, ma è consapevole che qualcosa si sia rotto per sempre. Inizia il pellegrinaggio che, a partire dai dermatologi, conduce agli psichiatri. 

Il primo da cui lo portarono gli diagnosticò quel disturbo noto come “dismorfofobia”: trattasi di una delirante percezione di un intollerabile difetto corporeo assolutamente inesistente. Altri, successivamente, dissero trattarsi di disturbo ossessivo compulsivo, perché Marco doveva fare tutte le cose secondo rigidi e immutabili protocolli. Più probabilmente, poteva avere entrambi i disturbi che sembrano andare d’accordo come il formaggio con le pere. Entrambi poi potevano essere i vessilli di disturbi ben più gravi meritori, un tempo, di una carriera manicomiale. 

Del resto, Marco, ossessivo lo era innegabilmente. Studiava sei ore al giorno, dalle 14.00 alle 20.30, con una pausa alle 17 di trenta minuti per la merenda, con tre fette di pane e nutella. Studiava esclusivamente nella sua cameretta, con accese due delle quattro lampadine del lume. Seppure aveva tempo libero in università, non apriva libro perché non era nell’orario e nella sede destinati allo studio. Se, stando a casa faceva, per errore, oltrepassare le 14.00, rinunciava completamente allo studio. Questa meticolosità, che Marco stesso riteneva eccessiva, diceva di averla imparata dal padre. 

Ossessionato dall’ ordine, il padre cataloga e conserva tutti gli scontrini e tiene un’agenda in cui segna tutte le attività che compie, dalla mattina alla sera, con intervalli di 10 minuti. In ogni giornata ci sono, dunque, 144 annotazioni che alla sera conta per verificarne la correttezza. 

Si è fatto stampare, da un amico tipografo, dei moduli appositi con i 144 spazi. Insomma il padre non scherza; è del tutto egosintonico e sostiene che questo rigore sia la chiave per avere successo nella vita ed il motivo per cui, nonostante il suo semplice diploma di ragioniere, è un apprezzato dirigente. Del resto, a conferma di ciò, anche la carriera scolastica di Marco è stata assolutamente brillante, se si escludono i primi due anni delle medie. 

E’ sempre stato il primo della classe e all’università non è mai sceso sotto il 29. Avrebbe voluto fare Medicina, ma le prospettive di lavoro sono state giudicate dal padre meno promettenti rispetto ad Ingegneria e non c’è stata discussione. Discussioni in famiglia non ci sono mai, non perché tema i genitori, ma perché è sempre totalmente d’accordo con loro. Lo sviluppo di un pensiero divergente da quello dei genitori è stato molto più avanti uno degli indicatori più attendibili del buon esito della terapia. 

Secondo Marco il successo scolastico è ascrivibile all’importanza assoluta che gli attribuiva la madre e al metodo rigoroso del padre. La signora Gina era maestra elementare ed ha insegnato a leggere e scrivere a tutto il paese. Sin dal primo giorno di scuola chiarì al figlio che avrebbe dovuto fare bella figura ed essere sempre il primo della classe, altrimenti il paese avrebbe riso di lei come nella storiella del calzolaio che va in giro con le scarpe sfondate. Non gli chiedeva poi molto: doveva semplicemente fare il suo dovere. 

Marco sentiva la responsabilità di non inciampare neppure una volta, perché ciò avrebbe ricoperto l’intera famiglia di vergogna ed umiliazione. L’umiliazione è per Marco in costante agguato dietro ad ogni angolo. Al ragazzo venne chiesto molto ma in cambio avrebbe avuto affetto smisurato ed una protezione assoluta: doveva solo renderli orgogliosi e non avrebbe dovuto preoccuparsi di altro. 

Tuttora Marco non deve occuparsi di niente tranne che studiare. Non si occupa della manutenzione della sua auto, cui non mette neppure la benzina. Non ha mai fatto un bollettino postale e non ricorda di essere mai entrato in una banca. Non acquista nessun capo di abbigliamento per proprio conto. Provvede da solo all’igiene intima (la qual cosa non mi sembrò affatto scontata tant’è che sentii il bisogno di sincerarmene). 

Non sa cucinare nulla, neppure il proverbiale uovo al tegamino o la pasta. Ignora le misteriose procedure che permettono di ottenere il caffè, bevanda di cui è ghiotto. Al mattino trova la colazione già preparata sul tavolo e la madre si premura anche di spezzargli i biscotti dentro il latte. Durante un incontro con la famiglia, alla mia domanda sulle motivazioni dell’operazione biscotti tutti mi guardano come un marziano o un pericoloso sovversivo che si lasci esplodere durante una colazione nella casa del Mulino Bianco. Perché? Lui è più contento, non perde tempo, non sbaglia la quantità e non sbriciola dappertutto. 

Tornando alla carriera scolastica, dopo delle elementari strepitose con sua madre nella classe accanto, Marco approda alle medie. E’ malvisto, giudicato secchione e raccomandato e diventa oggetto di pesante bullismo. E qui c’è un altro “undici settembre” precedente a quello della “chierica”: alla festa patronale di San Venceslao, uno dei ragazzi più aggressivi con un complice guardiaspalle lo colpisce al naso e, al tentativo di reazione di Marco, gli sputa in faccia di fronte ad un folto pubblico. Quando ricorda il suo sangue sulla terra e lo sputo colargli lungo la faccia prova, ancora oggi, una rabbia omicida. Marco dice di aver tenuto sottocchio i due in tutti questi dieci anni e di stare aspettando il tempo giusto per una vendetta e cita, in proposito, la nota affermazione sulla vendetta come piatto freddo, che consola quanti sono stati incapaci di consumarla a caldo nutrendosi delle viscere fumanti del nemico, vero inconfessato desiderio. Ha pensato che quando, passato tanto tempo, nessuno potrà più collegare i due eventi, investirà e ucciderà uno dopo l’altro i due. 

Anche se non sapranno mai di dovermi ringraziare, credo che quei due siano fortemente debitori alla psicoterapia di Marco. 

Nei primi due anni delle scuole medie il rendimento scolastico scende intorno alla sufficienza: impensabile e drammatico ad un tempo. Marco ricorda che la madre non gli rivolse la parola, dalla pagella del primo trimestre fino alla successiva, dove aveva recuperato in tre materie. 

In quel periodo iniziò a balbettare, tirandosi addosso altre prese in giro. Le frustrazioni non vengono mai da sole e, nella sua mente, rimane impresso un momento preciso. L’allenatore lo ha appena sostituito perché sta giocando malissimo. Si siede sulla panchina a bordo campo e pensa, con queste precise parole: “a scuola sto diventando un somaro, sono goffo e balbuziente, nello sport sono un perdente, ma in compenso sono proprio un bel ragazzo”. Poi, sotto la doccia negli spogliatoi, decide che nessuno ha dei capelli belli e lunghi come i suoi, cosa che gli riconoscono tutti, anche gli altri maschi. 

Lui non capiva cosa fosse questa “dismorfofobia” che gli attribuivano. Sapeva però che, quando la madre gli aveva parlato della chierica, gli era crollato letteralmente il mondo addosso e, se non fosse stato sul divano, le gambe non lo avrebbero retto. Quello che riteneva essere rimasto il suo unico punto di forza nella competizione senza esclusione di colpi per sopravvivere, veniva abbattuto da sua madre con una carezza e una parola. 

Una sensazione analoga l’aveva provata quando, nella sua vita, debuttarono quei devastanti improvvisi malesseri che avrebbe imparato a chiamare “attacchi di panico” e che aggiungevano un altro tassello alla sua follia. Quando arrivò in terapia gli attacchi di panico erano il disturbo in primo piano, per il quale prendeva le medicine e che gli impediva di fare tutte quelle cose che lo avrebbero portato lontano da casa o in luoghi dove non fosse possibile ricevere immediate cure. Non andava in treno, nè in aereo, nè in macchina se non con la sua, per essere certo di potersi allontanare a suo piacimento. 

Il primo attacco di panico lo ebbe durante una vacanza in un villaggio turistico in Spagna, la prima volta da solo lontano da casa. Era stremato per una interminabile partita di volley e si sdraiò all’ombra di un eucalipto a riprendere fiato. Dopo cinque minuti si sentiva ancora debole e barcollante e allora controllò la frequenza cardiaca. Il cuore batteva velocemente, ma un attimo dopo accelerò ancora di più. Sembrava schizzargli fuori dal petto e Marco fu certo che di lì a pochi istanti sarebbe morto, non fu un dubbio ma una certezza assoluta. Mentalmente accennò persino ad un “pater noster”, quantunque non più credente. 

Era talmente agitato che fu un amico a digitare sul suo cellulare il numero della madre che, con poche parole, lo rassicurò “stai tranquillo che appena arrivi ti prenoto un controllo dal cardiologo, che un check up al cuore è ora di farlo per quel soffiettino che ti ha trovato già il pediatra” (l’utilizzo da parte della famiglia delle prestazioni del S.S.N. era tale che una loro morte avrebbe ripianato il bilancio della regione Lazio). 

Il volo di ritorno dalla Spagna fu l’ultimo aereo che Marco prese e smise anche di allontanarsi da casa. 

Decise fermamente che non avrebbe più fatto vacanze, se non con due amici che sentiva assolutamente rassicuranti poichè li giudicava molto più sfigati e deboli di lui. Quelli spagnoli erano invece amici, ma in gamba e brillanti, decisamente vincenti nel confronto con lui. Quando mi raccontò quanto si trovasse a suo agio con gli sfigati pensai con una certa quota di irritazione che qualcosa del genere dovesse esserci alla base della nostra buona relazione terapeutica. Molti anni dopo, tornare a prendere gli aerei fu uno degli indicatori del buon esito della psicoterapia. 

Le relazioni affettive di Marco erano state numerose e si erano tutte interrotte per colpa sua. La sua gelosia era incontenibile, ingiustificata a suo stesso dire e spesso violenta. Era certo che la partner gli avrebbe preferito qualsiasi altro e, dunque, non poteva uscire se non con lui e non poteva usare il computer in sua assenza. Immaginava vividamente la scena in cui un altro uomo possedeva la sua donna facendosi beffe di lui. Col tempo, questo controllo esasperato sulla partner e la disperazione che causava, aveva iniziato a procurargli piacere ed era diventato un motivo in sé del suo comportamento prepotente. 

In famiglia avevano iniziato a dirgli che era cattivo perché godeva nel maltrattare il suo cagnolino. Marco ribatteva che il suo scopo non era quello di procurare dolore, ma semplicemente di avere il potere assoluto, anche di vita e di morte, su quanto era suo. Solo quando si sentiva il padrone assoluto con il controllo totale sugli altri e sulla situazione si sentiva, (attenzione!) non bene, ma tranquillo, la minaccia di una improvvisa e umiliante sconfitta si chetava momentaneamente. 

L’ipocondria di Marco meriterebbe un capitolo a parte, non c’era malattia di cui non temesse di essere affetto. I genitori lo assecondavano con ripetuti esami clinici e visite mediche che, rimandando alla necessità di futuri ulteriori controlli, non facevano che moltiplicare i timori e l’autosservazione corporea alla ricerca dei prodromi di malattie gravissime. 

Essendo incuriosito dalla discrepanza tra un così grande timore ipocondriaco e un comportamento privo di ogni precauzione, da eroe senza paura, verso incidenti mortali (guida veloce, sport rischiosi, ecc.) chiesi a Marco cosa temesse effettivamente: non era affatto la morte che considerava ineluttabile e naturale, quanto piuttosto lo stato di malattia. Non per le possibili sofferenze ad esso connesse, ma perché lo status di malato era, ai suoi occhi, una condizione di inferiorità che lo avrebbe esposto alla sopraffazione e all’umiliazione dei sani. In parte, anche la condizione di morto lo rendeva inferiore agli altri e in loro balia, ma era consapevole che quando ciò si fosse realizzato non ne avrebbe avuto coscienza e dunque fastidio. Tuttavia, sarebbe stato molto contento di una fine del mondo apocalittica, di una morte collettiva contemporanea senza nessuno che gli sopravvivesse. Alla richiesta di immaginare la sua morte e perché gli apparisse così orribile descriveva il suo funerale lungo le vie del paese, con gli amici ai bordi della strada a godersi beffardi la sua sconfitta definitiva. Immaginava anche che sarebbero andati al cimitero a farsi beffe della sua condizione e mi disse che avrebbe voluto sulla lapide la scritta “fatevi i cazzi vostri”. 

Impegnato com’era in una costante competizione con gli altri sperimentava un’ intensa ansia di prestazione e paura del giudizio in tutte le situazioni scolastiche. Nel suo corso universitario era tranquillo perché riconosciuto da tutti come indiscutibilmente il più bravo, la gerarchia all’interno del gruppo classe era stata definita una volta per sempre e lui era il vincitore. Ma bastava che si trovasse in una situazione nuova (concorso, esame per uno stage) o che alla sua classe ne venisse associata un’altra con colleghi che non lo conoscevano e subito l’ansia saliva e la balbuzie peggiorava. Quest’ansia, che a lui appariva inspiegabile, “all’Università ormai non sono più angosciato”, innescava immediatamente due problemi ulteriori. 

Non riconoscendoli come ansia, interpretava i segni fisici come un malessere organico incipiente, che lo avrebbe fatto morire o impazzire. Si incamminava così nella strada del panico che, tuttavia, l’assimilata psicoeducazione gli impediva di percorrere fino in fondo. Inoltre, avvertendo nella presenza dei nuovi colleghi la causa del suo malessere, diventava ostile nei loro confronti. Marco era consapevole che appariva agli altri, amici, conoscenti e colleghi, come una persona scontrosa e gonfia di rabbia. Lo riconosceva nell’immagine riflessa nello specchio, che era diventata ancora più convincentemente minacciosa con i capelli a zero, ma lui sentiva che dentro c’era solo paura. Il suo atteggiamento, nella migliore ipotesi, veniva preso come sprezzante e altezzosa superiorità oppure come vera e propria aggressività. Ciò, naturalmente, suscitava reazioni interpersonali simmetriche che gli confermavano, in un circolo vizioso confirmatorio, la minacciosità degli altri. 

Andava in giro sempre con una macchina al di sopra delle possibilità familiari perché qualsiasi altra più modesta lo faceva immaginare oggetto di derisione. Diceva a se stesso che fosse la pigrizia ad impedirgli di portare avanti le consuete incombenze della vita quotidiana che delegava ai genitori, ma sapeva che non era per questo: in verità pensava di mostrarsi incapace agli occhi di tutti nel compiere quelle azioni così semplici che tutti sanno fare. 

Dovettero passare tredici mesi dall’inizio della terapia perché Marco potesse rievocare un periodo della sua infanzia in cui i nonni paterni vivevano con loro. Genesio, il nonno mitico che era stato podestà del paese, sebbene ospite del figlio gestiva con pugno di ferro tutta la vita familiare, in particolare l’educazione dei nipoti, che vedeva in pericolo nelle mani del proprio figlio giudicato un uomo debole e incapace. 

I compiti scolastici del piccolo Marco venivano verificati sia dal padre che dal nonno. Alla verifica degli scritti seguiva normalmente una sgridata del nonno al padre per non essersi accorto degli errori che, invece, lui aveva rilevato e punizioni severe per i nipoti, a volte qualche ceffone ma, soprattutto, privazioni di giochi con gli amici o della televisione pomeridiana. 

Negli ultimi tempi della sua vita l’anziano podestà si era dedicato alla ristrutturazione di un suo vecchio cappello, applicandovi due grosse orecchie d’asino. Aveva intenzione di costringere i nipoti ad andare in giro così addobbati per ogni insufficienza presa. La vista di quel cappello nell’armadio del nonno, misto all’odore di urina stantia che sprigionava dai pantaloni del vecchio, è tuttora una delle esperienze sensoriali più spaventose e disgustose che Marco ricordi. Si sentì fortemente in colpa per l’incontenibile gioia provata quando il carcinoma della prostata ebbe ragione sulla resistenza del vecchio. 

La salvezza del fratello Bruno di due anni più piccolo, che ora convive con una ex collega di studi e insegna all’Università, fu dovuta a due eventi accidentali che segnarono decisivi punti di svolta: a otto anni disse al nonno che puzzava di vecchio schifoso e il patriarca lo disconobbe come nipote e non volle più alcun rapporto con lui, a diciotto anni mise incinta la figlia del vicesindaco e, dopo l’aborto, si ritenne opportuno che cambiasse paese, gli fu affittato un appartamento a Pisa dove andò a studiare. 

La chiave del successo della terapia con Marco va ricercata nella positiva relazione terapeutica. Credo che, a motivo della mia disabilità, non mi abbia mai percepito come un possibile competitor e una potenziale minaccia. 

Questa è stata una coincidenza fortuita favorente: in ogni cosa ci sono almeno due aspetti positivi, basta saperli vedere. Inoltre sin da subito ho percepito, dietro l’aspetto ostentato da naziskin e il digrignare metaforico dei denti, un ragazzino spaventato e insicuro che andava rassicurato sulle sue capacità di tenuta. L’ atteggiamento interiore su cui mi sono modellato è stato quello di un padre accogliente e protettivo ma soprattutto incoraggiante, che promuove l’esplorazione, non chiede né tantomeno pretende nulla, con in testa la parola d’ordine “sono certo che ce la puoi fare!”. 

Con l’annuncio della opportunità di iniziare a programmare la conclusione della terapia, essendo i sintomi praticamente scomparsi, ci fu un importante e inaspettato balzo avanti della consapevolezza. All’idea di interrompere il rapporto con me Marco mostrava sentimenti di preoccupazione rispetto a ciò che sarebbe potuto succedere e di dispiacere. Alla mia richiesta se mai si fosse sentito in questo modo, durante la sua vita, rispose con un pianto inizialmente sommesso e imbarazzato e poi sempre più incontenibile. 

Era stato all’inizio di quello che definiva il suo “annus orribilis”, in cui erano comparsi gli attacchi di panico, l’ossessione dei capelli e l’ipocondria. Per la prima volta, a terapia conclusa, riusciva a mettere in successione cronologica e causale gli eventi di quell’anno e persino guardare il buchino nella diga che aveva fatto crollare tutto, poteva sperimentare le emozioni connesse e decidere di mostrarle. 

L’incipit di tutto era stata la notizia del tumore al midollo osseo del padre, stessa malattia di cui era morto il nonno. Marco, sin da piccolo, si era ritenuto un buono a nulla destinato ad essere sopraffatto e umiliato dai compagni, ma aveva la certezza dell’intervento pronto e deciso del padre che, giovane e forte, scendeva decisamente in campo nelle liti del ragazzo con gli altri e non li ammoniva a parole ma usava le maniere forti per far rispettare il figlio. 

La notizia della malattia, il lungo ricovero e poi la prospettiva di un trapianto trasformavano il padre in un malato cronico che non poteva più essere il supereroe pronto a intervenire e lui sentì vacillare le fondamenta del suo mondo. Le parole che meglio esprimevano il suo stato d’animo era “impossibile”, “non può essere e non ci credo”, tuttavia non pianse mai. In famiglia non si parlava di questa faccenda per il timore delle emozioni negative che generava e non se ne parlava all’esterno, nessuno lo sapeva, perché se gli altri avessero saputo di questa debolezza familiare avrebbero potuto attaccare. 

Cessato il pianto, in seduta Marco mi chiese cosa potesse entrarci questa vicenda con le sue stranezze, fissazioni e paure. Provammo insieme a ridare un senso storico alla sua vicenda: sin da piccolo si era sentito debole, goffo e inadeguato e temeva di essere oggetto di umiliazione. I suoi punti di forza erano tre: lo studio, la bellezza e la forza del padre, sempre pronto a intervenire. 

Venuto a mancare quest’ultimo sperimentò un vissuto di debolezza assoluto, di fragilità da cui sarebbe originato il filone dei sintomi ipocondriaci e quello del panico. Gli restava solo la carta della bellezza, che diede a sua volta origine ai sintomi ossessivi inerenti la capigliatura. Per la prima volta Marco poteva piangere il dolore per questa perdita di sicurezza e farlo con un estraneo percepito come accudente. 

Indubbiamente l’intelligenza e le capacità razionali di Marco sono state un ulteriore fattore favorente: capiva con facilità i bias cognitivi confirmatori e i circoli viziosi nei quali si cacciava e accettava di buon grado di metterli in discussione e fare esperienze alternative. Ciò che, senza dubbio, lo ha affascinato di più, per la sua tendenza ossessiva all’unitarietà, è stato il ricondurre tutti i suoi diversi e molteplici sintomi ad un unico tema centrale. Era davvero soddisfatto quando poteva dirsi “non sono dismorfobico, ipocondriaco, ossessivo, panicoso, paranoide, geloso patologico e forse non sono neppure un malato mentale, sono solo come un samurai impegnato in una guerra continua per salvare la dignità e il dottore mi ha semplicemente detto che la guerra è finita.” 

L’obbedienza all’autorità che, per altri versi, abbiamo messo in discussione è stata utilissima nello svolgimento degli home-work che Marco eseguiva con la determinazione di un attentatore suicida alla conquista del paradiso traboccante di vergini. Nella terapia Marco ha sperimentato una situazione nuova: potersi mostrare debole, senza essere attaccato e criticato da un lato, o immediatamente sostituito dall’altro. 

Naturalmente accettare il rischio di sperimentare questa nuova condizione è stata la conseguenza diretta di una lucida consapevolezza del suo modo di funzionare e della fatica e dei costi che esso comportava. 

Mi piacerebbe concludere dicendo che lavora nella cooperazione internazionale e dedica la sua vita ad aiutare gli altri. Ci siamo andati vicini ma non è successo. Lavora in un’azienda e fa una vita normale, come tutti. Non è il primo della classe ma è felice e io mi dico “cosa vuoi di più dalla vita? Eccetto ovviamente un amaro di marca”.    


Linee guida per identificare abusi e maltrattamenti in pazienti neurologici

– Rassegna Stampa – 

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze PsicologicheL’American Academy of Neurology ha definito la necessità da parte di tutti i neurologi di inserire nello screening diagnostico dei pazienti neurologici una serie di domande volte a identificare l’esistenza di abusi e violenze, attuali o passate, da parte di familiari o più in generale dei caregivers; la rosa di comportamenti indagati è ampia: abusi sugli anziani, sui bambini, abusi sessuali, finanziari, emotivi, bullismo, cyberbullismo e neglect.

Più del 90% degli atti di violenza interpersonale all’interno di relazioni significative sono diretti alla testa, al viso, al collo e per questo possono provocare lesioni cerebrali, sopratutto se perpetuati in modo continuativo nel tempo. Pazienti neurologici con il Parkinson e l’Alzheimer, ma anche chi ha avuto infarti, è maggiormente esposto ad abusi o a neglect. I dati relativi ad abusi fisici e sessuali sono impressionanti: il 20-30% delle donne e il 7,5% degli uomini è stato fisicamente o sessualmente abusato da una persona a lui vicina nel corso della sua vita adulta.

I neurologi, dice il Dr. Schulman, autore principale dell’articolo, vedono continuamente nella loro pratica clinica pazienti che sono a rischio di abuso o che sono più o meno direttamente esposti al maltrattamento, per questo non indagare l’eventuale esistenza di abusi e violenze, oltre a impedire la messa in protezione del paziente, può significare il fallimento del trattamento. L’AAN stila un elenco di 10 interventi che permettono di orientare il medico nell’indagine; lo scopo è quello di raccogliere i dati relativi a eventuali abusi o violenze subiti e permetterne l’integrazione nella storia medica del paziente. A chi fosse interessato l’AAN offre anche training gratuiti per imparare a riconoscere la violenza domestica all’interno della propria comunità.

 

 

BIBLIOGRAFIA:  

Psicologia: 6 lavori inusuali

Psicologia: 6 lavori... inusuali! - Immagine: © schmetfad - Fotolia.comChe sia effetto della crisi o del naturale sviluppo delle professioni, che sia una reazione allo stereotipo che vede lo psicologo affiancato al lettino o che sia semplicemente un riflesso della voglia di dare voce a una professione che non ha vita facile, in un recente articolo su Psychcentral vengono pubblicati sei lavori correlati alla psicologia davvero inusuali. Se bisogna inventarsi il lavoro, insomma, questi psicologi non mancano certo di iniziativa.

 

Psicologia al circo

La psicologa Madeleine Hallè lavora per il Cirque du Soleil aiutando i circensi ad adattarsi al loro lavoro, superare le paure e i timori da palcoscenico e offrendo sostegno per favorire il recupero fisico e mentale. Ha iniziato nel 1998 come consulente per poi passare come psicologa a tempo pieno quando il Cirque du Soleil ha deciso di inserire la figura dello psicologo come parte fissa del team. Madeleine Hallè ha un master in scienze dello sport e un Ph.D in psicologia dello sport ottenuto all’Università di Montreal.

 

La psicologia aerospaziale

Ebbene sì: psicologo aerospaziale. Lo psicologo Paul Eckert lavora come stratega internazionale e commerciale per la società Boeing, aiutando gli esperti a tradurre le loro idee in realtà. Per esempio, lavora come consulente in un team di ingegneri ed esperti commerciali per risolvere i problemi tecnici ed economici di creare capsule a misura d’uomo per portare sia gli astronauti della NASA che passeggeri civili nello spazio.

 

Ambienti rigenerativi - Immagine: © John Casey - Fotolia.com -
Articolo consigliato: Ambienti Rigenerativi

La psicologia & Google

Sottolineando che il motore di ricerca Google è basato su un funzionamento messo a punto da psicologi, nel team vi lavora anche la psicologa Dawn Shaikh, la quale conduce studi per aiutare gli utenti a selezionare i font (caratteri) migliori per le loro pagine web. Partecipa a un progetto simile per sviluppare font pensati per l’industria dei paesi emergenti.

 

La psicologa regista

Chi dice che sogni diversi non si possano realizzare? La psicologa clinica Nadine Vaughan vede pazienti durante il giorno e scrive film, sceneggiature e romanzi la sera. Nadine ha una laurea in criminologia, un master in salute mentale e un dottorato in psicologia.

 

Psicologia del traffico

Campo che da diversi anni sta prendendo piede anche in Italia, la psicologia del traffico è un campo emergente che studia il comportamento delle persone al volante. Dwight Hennessy, professore associato al Buffalo State College ha pubblicato diversi lavori che spaziano dalla rabbia al volante all’impatto dello stress dei pendolari sul lavoro passando dal fenomeno del bere e poi mettersi alla guida. Ha conseguito il dottorato all’Università di York in psicologia sociale e della personalità.

 

La para-psicologia

Dean Radin, originariamente violinista, si è laureato in ingegneria elettronica per poi conseguire un Ph.D in psicologia. Dopo gli studi ha lavorato come ricercatore ai laboratori del AT&T Bell nel settore delle telecomunicazioni, iniziandosi a interessare dei fenomeni della mente. Attualmente si occupa degli studi controversi della lettura della mente e dello spostamento degli oggetti con la pura forza mentale.

 

 

BIBLIOGRAFIA:  

I Social Network e le modificazioni indotte nel cervello. Pericolo o Evoluzione?

 

I Social Network e le modificazioni indotte nel cervello. Pericolo o Evoluzione? - Immagine: © arrow - Fotolia.com - Recentemente, mi è capitato sottomano questo articolo in cui si lancia un allarme relativo al pericolo dell’utilizzo eccessivo di social network, quali Facebook (750 milioni di utenti in tutto il mondo) e Twitter da parte degli adolescenti. Secondo la Greenfield, autrice dell’articolo, i nuovi media sarebbero in grado di produrre profondi cambiamenti nel cervello dei giovani, riducendone l’attenzione, incoraggiando la gratificazione istantanea, rendendoli sempre più individualisti, azzerandone le relazioni umane reali, riducendo la loro empatia verso gli altri, facendoli regredire, in sostanza, a uno “stadio infantile”.

Facebook wallpaper. Immagine: © Microsoft Corporation
Articolo consigliato: Facebook e Psicologia: tra Miti e Ricerca

Questa notizia incontra la preoccupazione dei genitori e degli insegnanti, che si lamentano del fatto che gli adolescenti di oggi non sono più capaci di comunicare né di concentrarsi, se deprivati dei dispositivi a cui tanto sono affezionati. Una schiera di persone competenti, tra cui neuroscienziati, psicologi, psichiatri, sono sempre più convinti che questi strumenti facciano più male che bene a chi li utilizza.

 

Infatti, la ripetuta esposizione ai nuovi media porterebbe un vero e proprio “ricablaggio” (rewiring) delle connessioni cerebrali, dando vita a nuove connessioni tra aree cerebrali diverse.

Twitter Global Mood - © rare - Fotolia.com
Articolo consigliato: "Twitter Global Mood: misurare la temperatura emotiva del pianeta"

Queste tecnologie è come se portassero ad una regressione a uno stadio infantile. Infatti, queste persone si comporterebbero come dei bambini piccoli, che sono attratti da rumori e luci brillanti, poiché dotati di scarse capacità attentive e intellettive (Greenfield, 2009). In questo caso, gli adulti/bambini sono attratti dalle medesime cose, alle quali, però, si aggiunge una forma più complessa di conoscenza: curiosità o esibizionismo, nel caso dei social network; agonismo virtuale, nel caso dei video games.

 

 

La Greenfield sottolinea che le persone malate di autismo, si trovano a loro agio utilizzando il computer.

Non è noto se l’aumento della prevalenza di autismo fra i giovani sia dovuta a una maggiore accortezza diagnostica da parte dei clinici o se tale fenomeno possa correlarsi in qualche modo all’incremento del tempo speso nelle relazioni virtuali tramite computer, ma indubbiamente è un’ipotesi da tenere in debita considerazione.

Gli psicologi, a loro volta, confermano che la tecnologia digitale sta cambiando il modo in cui ragioniamo. Emerge che i teenagers starebbero al computer per più di 7 ore e mezzo al giorno, ovvero più di quanto dura una giornata di scuola.

Realtà virtuale e dissociazione. Immagine: © HaywireMedia - Fotolia.com -
Articolo consigliato: Realtà Virtuale e Stati Dissociativi

La psicologa dell’educazione Jane Healy (2010), ad esempio, sostiene che i bambini minori di 7 anni non dovrebbero fare giochi al computer, in quanto stimolerebbero prevalentemente le regioni del cervello alla base della risposta di “attacco e fuga”, e non quelle del ragionamento, ottenendo in questo caso una forma di apprendimenti più primordiale e non sofisticata. Le conseguenze: una minore capacità di riflettere sui propri stati interni, meno o scarsa metacognizione, che induce a relazionarsi alla vita di tutti i giorni in maniera semplicistica, e nel momento in cui sopraggiunge una emozione non sanno esattamente dove collocarla e come gestirla.

Il Potere Politico dei Social Media in Italia
Articolo consigliato: Il Potere Politico dei Social Media in Italia

Ancora più drastica Sue Palmer (2006), autrice di un libro dal titolo molto evocativo, Toxic Childhood, in cui scrive: “Lo sviluppo del cervello dei nostri figli è danneggiato, perché non si impegna più in attività nelle quali i cervelli umani si sono impegnati per millenni”. E’ vero, non si impegna più nella conoscenza attiva di qualcosa, tutto è mediato da internet basta cliccare su un tasti e ogni cosa trova risposta.

Malgrado i contro derivanti da questo comportamento, è possibile ne derivino anche effetti positivi, come essere più veloci, avere più capacità di fronteggiare gli stimoli, essere più abili e concreti, etc. Tutto questo cambiamento, naturalmente anche in ambito cerebrale, potrebbe essere semplicemente il risultato di cambiamenti culturali , per questo non è detto si peggiori per forza, magari in questo modo è possibile ottenere dei miglioramenti in ambito cognitivo.

 

(Intervista a Susan Greenfield) 

 

BIBLIOGRAFIA: 

Bullismo virtuale (o cyber-bullismo): una violenza inaspettata.

 

“Nel pollaio si accese una discussione se fosse più bella l’alba o il tramonto. Si formò il partito delle galline tramontiste e quello delle galline albiste. Con il passare del tempo le une si dimenticarono dell’alba e le altre dimenticarono il tramonto, rimase solo l’odio delle une contro le altre.”  
(Luigi Malerba, Le galline pensierose)

 

Bullismo virtuale. - Immagine: © gcpics - Fotolia.com Per violenza, nella sua accezione globale, l’OMS (2002) intende “l’uso intenzionale della forza fisica o del potere, minacciato o reale, contro se stessi, altre persone o contro un gruppo o una comunità, da cui conseguono, o da cui hanno una alta probabilità di conseguire, lesioni, morte, danni psicologici, compromissioni nello sviluppo o deprivazioni”.

Numerosi sono gli episodi di cronaca che giorno dopo giorno ci raccontano di scenari di violenza nelle scuole e tra i ragazzi. Una ricerca condotta negli Stati Uniti allarga il nostro punto di vista facendoci spostare l’attenzione sul fenomeno del cyber-bullismo, che sembra avere negli adolescenti effetti ancora più importanti e gravi di quello reale. Tra l’altro, anche una recente ricerca italiana conferma questo dato: circa il 33% dei ragazzi si dichiara vittima di cyber-bullismo.

Il Bullo, il Maschio Alpha e la lotta per lo Status Sociale - Immagine: © Kimsonal - Fotolia.com
Articolo Consigliato: "Il Bullo, il Maschio Alpha e la lotta per lo Status Sociale"

Ma perché gli effetti sono così “gravi”? Dai dati delle ricerche fatte sembra emergere che nodo cruciale è “l’essere inaspettato”. Infatti, quando si apre la posta elettronica o si risponde al cellulare anche solo leggendo gli sms si è in un certo senso colti di sorpresa: non è cioè stato possibile attivare delle strategie di coping efficaci per difendersi dalle aggressioni, cosa che invece più facilmente avviene nella vita reale.

Ciò che aggrava ancora di più il quadro è la percezione di non avere una via di fuga, la sensazione di persecuzione. Nella realtà, la vittima di bullismo può trovare un proprio luogo sicuro, magari anche ricercando la presenza di un insegnate o di un adulto di riferimento; quando invece le minacce arrivano direttamente sul cellulare la vittima sente di non aver scelta e di non potersi proteggere in alcun modo.

I Comportamenti aggressivi dei bambini - Immagine: © Pixlmaker - Fotolia.com
Articolo consigliato: "I comportamenti aggressivi dei bambini - PARTE 1"

Lo studio dell’Education Development Center dell’Università di Boston è stato condotto su ventimila studenti, a cui è stato chiesto di rispondere a due domande:

  • Quante volte qualcuno ti ha insultato, minacciato, deriso usando internet, il cellulare o altri mezzi di comunicazione elettronica?
  • Quante volte ti sei sentito frustrato al punto da sentirti una completa nullità e volerti addirittura punire per non saper reagire?

Dai dati si evince che tra le vittime di bullismo reale e cyber, il 47% soffre di depressione e, in particolare, scomponendo il campione nei due sottogruppi vittima di cyber-bullismo e vittima di bullismo “reale”, nei primi ben il 33,9% sviluppa un disturbo depressivo.

Ulteriore conferma di questo dato viene da una ricerca dell’università di Helsinki e di New York su 2215 ragazzi tra i 13 e 16 anni, pubblicato sugli Archives of General Psichiatry, in cui le vittime colpite da cyber-bullismo, oltre ai sintomi che più spesso riporta chi è vittima di bullismo (depressione, insonnia, difficoltà di relazione con i compagni, disregolazione emotiva, cefalea, ricorrenti dolori addominali), mostrano anche iperattività, abuso di alcool e fumo e ridotta socialità.

 

 

BIBLIOGRAFIA:  

  • Schneider,S.,O’Donnell, L., Stueve, A., & Robert W. S, (2012). Coulter Cyberbullying, School Bullying, and Psychological Distress: A Regional Census of High School Students. American Journal of Public Health, January, 102, 70-77.

Età del divorzio e variazione delle condizioni di salute.

– Rassegna Stampa – 

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze PsicologicheSecondo uno studio condotto alla Michigan State University divorziare in giovane età ha conseguenze peggiori sulla salute che quando questo avviene più avanti negli anni. La sociologa Hui Liu ha analizzato i dati di quasi 1300 questionari self-report compilati dai partecipanti a una ricerca a lungo termine, la Americans’ Changing Lives. Ha misurato il divario tra le condizioni di salute dei partecipanti che nell’arco di 15 anni erano rimasti sposati e quelle di chi invece era andato incontro a un divorzio, e ha scoperto che questo era maggiore nei giovani. Chi aveva divorziato in un età compresa tra i 35 e i 41 anni infatti riferiva maggiori problemi di salute di chi continuava sposato, il divario nelle condizioni di salute tra sposati e divorziati si riduceva però con l’aumento dell’età di divorzio.

Liu spiega questi dati con il fatto che la pressione sociale in favore della conservazione del matrimonio, tipica delle vecchie generazioni, può avere costretto molti in una situazione di grande infelicità e il divorzio deve essere stato, per quelli che se lo sono infine concesso, un sollievo.

Un dato interessante riguarda il fatto che le condizioni di salute di chi non è andato incontro a una variazione del suo stato civile durante l’intero arco temporale dello studio, sposato o divorziato che fosse, rimanevano costanti. Questo suggerisce che il fattore di stress in grado di influenzare lo stati di salute non è una o l’altra condizione, sposato o divorziato, ma il passaggio da una condizione all’altra.

 

 

BIBLIOGRAFIA: 

Michigan State University. (2012). Divorce hurts health more at earlier ages. Press Release

Ambienti Rigenerativi

 

Ambienti rigenerativi - Immagine: © John Casey - Fotolia.com - Una branca della psicologia ambientale si occupa da diversi anni del rapporto uomo-natura, per scoprirne effetti e caratteristiche.

Da un punto di vista razionale, i contesti naturali non sono sempre luoghi in cui è piacevole soggiornare (foreste buie e tempeste in mare aperto sono un buon esempio) ma è stata registrata, a livello globale, la tendenza a preferire ambienti naturali, verdi, possibilmente con piante e fonti d’acqua, a quelli costruiti, indipendentemente dall’età e dalla cultura di provenienza. Per queste preferenze sono state elaborate due principali spiegazioni.

 

Psicologia Ambientale. Immagine: © rolffimages - Fotolia.com
Articolo consigliato: Psicologia Ambientale

La prima, di carattere evoluzionistico, basata su una risposta affettiva immediata e non necessariamente consapevole, sostiene che questa predilezione per la natura dipenda dalle nostre origini animali e primitive, quando i paesaggi verdi e rigogliosi potevano assicurare un sostentamento prolungato e un riparo dai possibili predatori. Al contrario, la seconda ipotesi, di matrice costruzionista, ritiene che gli atteggiamenti positivi verso gli ambienti naturali dipendano da valutazioni cognitive, culturalmente mediate, nelle quali spiccano ricordi d’infanzia legati ad attività all’aperto, nei luoghi esterni alla casa.

Gli ambienti naturali non sono solo una delizia per gli occhi ma sono un aiuto per il benessere psicologico degli individui, spesso afflitto dalle forme più comuni di stress urbano, come il rumore, il traffico o l’affollamento. Essi possono alleggerire menti sovraccariche di pensieri, offrire momenti di crescita personale o di fuga dal quotidiano, nonché migliorare l’umore e aumentare le sensazioni positive, come l’essere parte integrante dell’ecosistema.

City - Country - Immagine: © arquiplay77 - Fotolia.com
Articolo consigliato: Città o campagna? Te lo dice lo Stress.

Alcune ricerche in ambito ospedaliero hanno evidenziato il ruolo rigenerate dei paesaggi verdi nel favorire i decorsi post-operatori e i processi fisici di guarigione. Ovviamente, non basta trascorre un po’ di tempo a contatto con la natura per recuperare la salute ma è stato dimostrato che la vista su un ambiente naturale velocizza e migliora la qualità del tempo trascorso in ospedale in coloro che non sono affetti da gravi patologie, diminuendo sistematicamente il numero delle complicazioni e la quantità di antidolorifici assunti.

 

Infine, è stato dimostrato che anche una semplice e breve (non più di dieci minuti) visione di film o di diapositive di ambienti naturali, particolarmente attraenti, può avere un effetto positivo sul recupero delle capacità attentive. Le possibili implicazioni per questo tipo di ricerche sono evidenti, soprattutto se si pensa che l’attenzione è coinvolta nella maggior parte dei nostri processi vitali e che un abuso di risorse può avere anche conseguenze mortali, come nei casi di incidenti alla guida o sul lavoro. 

Ambienti rigenerativi - Immagine: © CCat82 - Fotolia.com
E' stato dimostrato che anche una semplice e breve (non più di dieci minuti) visione di film o di diapositive di ambienti naturali, particolarmente attraenti, può avere un effetto positivo sul recupero delle capacità attentive.

  

 

BIBLIOGRAFIA: 

  • Baroni, M. R. (2008). Psicologia ambientale. Il Mulino, Itinerari, Bologna.
  • Berto, R. (2005). Exposure to restorative environments helps restore attentional capacity. In Journal of Environmental Psychology 25, pp. 249–259.
  • Gifford, R. (2002). Environmental psychology: Principles and practice (third edition). Optimal Books, Colville, Wash.
  • Kaplan, S. (1987). Aesthetics, affect, and cognition. Environmental preference from an evolutionary perspective. In Environment and Behavior, 19, 1, pp. 3-32.
  • Lyons, E. (1983). Demographic correlates of landscape preference. In Environment and Behavior, 15, pp. 487-511.
  • Ulrich, R. S., Simons, R. F., Losito, B. D., Fiorito, E., Miles, M. A. and M. Zelson (1991). Stress recovery during exposure to natural and urban environments. In Journal of Environmental Psychology, 11, pp. 201-230.

 

Istruzioni per creare uno psicopatico: recensione di “Io ti troverò” di Shane Stevens

Io ti troverò (Titolo originale: By Reason of Insanity, 1979) ha ispirato i grandi maestri, da James Ellroy a Stephen King. Ritmo serrato ed incalzante, ottimo intreccio, nulla ha da invidiare ai thriller moderni che, anzi, hanno attinto a piene mani da questo capolavoro, diventato leggenda anche grazie all’alone di mistero che avvolge il suo autore: la vera identità di Shane Stevens rimane tutt’oggi sconosciuta; sparito dopo la pubblicazione del libro, si sa solo che è morto nel 2007.

Istruzioni per creare uno psicopatico: recensione di "Io ti troverò" by Shane Stevens - Immagine: Copyright © 2010-2012 fazieditore.comThomas Bishop, 3 anni, viene ricoverato in ospedale con ustioni di secondo grado, esito dell’ennesima sevizia a cui la madre lo ha sottoposto. In mancanza di prove certe, però, l’ospedale non può rivolgersi alle autorità. Il destino del piccolo pare segnato: “una cosa è dannatamente certa”. La voce [del medico] tremava di rabbia. “Quel bambino lì dentro è condannato. Qualunque cosa accada è condannato”. A 10 anni Thomas Bishop viene internato per aver ucciso sua madre, a 20 anni evade dall’ospedale psichiatrico organizzando una fuga rocambolesca, iniziando un lungo viaggio attraverso gli Stati Uniti, seminando terrore e lasciando dietro di sé una lunga scia di sangue.

Immediatamente si scatena un’imponente caccia all’uomo che vede coinvolta non solo la polizia, ma anche l’FBI, la stampa, la mafia, giudici e politici senza scrupoli, esperti criminologi, tutti beffati dall’astuzia di questo inafferrabile assassino che ha un solo obiettivo: eliminare tutte le donne dalla faccia della Terra.

L’autore dipinge in maniera agghiacciante l’infanzia e la psiche del protagonista, e la storia è un ottimo esempio di come bambini che sperimentano la figura di accudimento come fonte di minaccia e pericolo, anziché di protezione e affidabilità, sviluppino un grave attaccamento disorganizzato e rischino di essere violenti psicopatici in training (Levy & Orlans, 2000).

Cresciuto in una famiglia ad alto rischio, con un padre antisociale e violento e una madre alcolizzata, bugiarda, abusata, maltrattata e maltrattante, istituzionalizzato all’età di 10 anni, il piccolo Thomas sembra essere destinato a sviluppare un’assoluta mancanza di empatia e morale e comportamenti aggressivi e violenti: divenuto un predatore senza rimorso, estremamente intelligente, utilizza il proprio fascino, l’intimidazione e la violenza a sangue freddo per sfruttare gli altri e raggiungere i propri scopi, incarnando quella che viene definita una personalità psicopatica (Hare, 1996).

Thomas non ha memoria delle torture subite né di aver ucciso sua madre; la sua mente si è protetta dai numerosi traumi subiti attraverso meccanismi dissociativi, cosicché della madre ha solo ricordi dolcissimi. In momenti di forte tensione emotiva, però, rivive terrorizzato inspiegabili flashback che la sua mente dissociata non è in grado di integrare: l’immagine dolorosa della frusta che schiocca sulla sua testa e la sua vocina implorante “Mi dispiace mamma. Mi dispiace. Non volevo! Ti prego, non picchiarmi!” si stampano indelebili nel lettore che si ritrova, suo malgrado, a condividerne il dolore e a provare compassione per lui.

Ma Thomas Bishop era davvero certamente condannato a diventare il mostro che è diventato? E se non ha avuto scelta, allora quanto è responsabile dei crimini commessi e quanto siamo disposti ad assolverlo?

Attaccamento disorganizzato.

Psicopedia - Immagine: © 2011-2012 State of Mind. Riproduzione riservata Definizione di Attaccamento Disorganizzato.

Bowlby definisce attaccamento la tendenza innata a cercare la vicinanza protettiva di un membro della propria specie quando si percepisce un pericolo.

Quando la figura che dovrebbe fornire protezione in caso di pericolo è essa stessa la fonte di pericolo e di minaccia, si sviluppa quello che viene definito attaccamento disorganizzato.

Il bambino si trova nella situazione paradossale di dover chiedere protezione proprio a chi lo sta minacciando, di doversi allontanare dalla fonte minacciosa e al contempo avvicinarvisi alla ricerca di rassicurazione. Ciò non permette al bambino di sviluppare una rappresentazione coerente di Sé, dell’Altro e della Relazione con l’altro. Inoltre contribuisce allo sviluppo di un deficit nella capacità di regolazione delle emozioni nonché di un deficit delle funzioni metacognitive, cioè della capacità di attribuire agli altri intenzioni, pensieri, emozioni, desideri in modo da attribuire un significato al loro comportamento.

 

 

BIBLIOGRAFIA: 

  • Bowlby J (1999) [1982]. Attachment. Attachment and Loss Vol. I (2nd ed.). New York: Basic Books. 

Il Disturbo Narcisistico di Personalità secondo la Teoria di Kernberg

 

Il Disturbo Narcisistico di Personalità secondo la Teoria di Kernberg. - Immagine: © marcodeepsub - Fotolia.com L’Università Bicocca di Milano ha ospitato sabato scorso la Lectio Magistralis del prof. Kernberg sulla personalità narcisista. Ma cosa propone la sua teoria?

È innegabile come il lavoro del prof. Kernberg abbia rivoluzionato il mondo della psicologia, ma per poter comprendere come e quanto è necessario fare un salto nella “storia della psicologia dinamica”.

Verso la fine degli anni ’30 gli psicoanalisti americani iniziarono a incontrare nei loro ambulatori dei pazienti “strani” che non rientravano in nessuna delle due principali categorie diagnostiche individuate da Freud. Ebbe così inizio la diatriba sui “pazienti borderline”, ovvero al confine fra nevrosi e psicosi. Uno dei primi studiosi a cercare di risolvere quest’enigma fu Stern (1938) che ipotizzò l’esistenza di “borderline group of neuroses” (gruppo borderline delle nevrosi). Tuttavia questa definizione non convinceva, così negli anni furono avanzate differenti ipotesi, per esempio Knight (Knight, R. 1953) ipotizzò che questi pazienti sperimentavano stati borderline dell’Io, Hoch e Polatin (Hoch, P. & Polatin, P. 1949) parlarono invece di Schizofrenia Pseudonevrotica. Così il termine borderline iniziò ad essere associato a stati, sindromi e personalità, insomma c’era un po’ il rischio che a disorganizzarsi, ancor prima dei pazienti, fosse il sistema di classificazione.

Otto Kernberg, Lectio Magistralis Milano-Bicocca, Narcissistic personality disorder, towards DSM-5 - Lectio Magistralis by Otto Kernberg and Frank Yeoman - Immagine: © 2012 State of Mind
Articolo consigliato: “Il disturbo narcisistico di personalità, verso il DSM-5″ – Lectio Magistralis di Otto Kernberg e Frank Yeomans

La rivoluzione kernberghiana ebbe inizio negli anni ’60 quando la diatriba sui “pazienti borderline” era all’apice. Kernberg fu il primo ad avere il coraggio di avanzare l’ipotesi che Freud probabilmente si fosse sbagliato nel postulare l’esistenza di due classi diagnostiche, poiché in realtà queste erano tre: Organizzazione Nevrotica, Psicotica e Borderline di Personalità (Kernberg, O. F., 1967).

L’ Organizzazione di Personalità si articola intorno a tre criteri strutturali:

  • Esame di realtà, cioè la capacità di distinguere fra ciò che è vero e ciò che è frutto della nostra interpretazione.
  • Integrazione della personalità, ovvero la capacità di tenere nell’Io le rappresentazioni di Sé e dell’Oggetto.
  • Difese utilizzate, ovvero le strategie utilizzate per difendersi.

Senza nessuna pretesa di esaustività diremo solo che nei soggetti con Organizzazione di Personalità Borderline l’esame di realtà rimane intatto, mentre l’Io risulta non integrato e quindi deficitario nella capacità di integrare gli aspetti positivi e negativi dell’Oggetto che vengono costantemente idealizzati o svalutati, attraverso l’uso di difese primitive come la scissione.

Otto Kernberg, Lectio Magistralis Milano-Bicocca, Narcissistic personality disorder, towards DSM-5 - Lectio Magistralis by Otto Kernberg and Frank Yeoman (2) - Immagine: © 2012 State of Mind - Anteprima
Articolo consigliato: DSM-V: Quando l’ideologia sconfigge la scienza: sulla Lectio Magistralis di Kernberg a Milano

Secondo Kernberg è all’interno di questo tipo di Organizzazione di Personalità che si inseriscono tutti i Disturbi di Personalità, compreso quello Narcisistico.

Il professore distingue fra tre differenti tipi di narcisismo (Kernberg, O.; 1987 e 1975).

  • Il narcisismo sano, che tutti condividiamo, in cui l’investimento libidico su un sé integrato porta a essere ambiziosi, ad avere delle relazioni interpersonali e a essere in accordo con i propri valori morali.
  • Nel narcisismo infantile, basato sulla gratificazione/soddisfazione di bisogni, incluso il bisogno di entrare in connessione con l’altro, il soggetto, come un bambino, è insaziabilmente richiedente, incessantemente esigente e gli altri esistono solo in funzione della soddisfazione dei suoi bisogni.
  • Infine, il narcisismo patologico, che si configura come uno specifico disturbo di personalità, origina da un iperinvestimento della libido sul sé. Un sé non integrato, che mantiene scisse le rappresentazioni idealizzate del sé e degli altri, dando così origine ad un sé grandioso.

Kernberg spiega che il paziente narcisista apparentemente sembra funzionare bene poiché a uno sguardo superficiale il suo comportamento può apparire poco disturbato. Tuttavia indagando più a fondo si scopre che l’Io, composto solo da aspetti idealizzati del Sé e dell’Oggetto (gli altri), è diventato “grandioso”.

Così il paziente narcisista si muove in una realtà pericolosa, perchè in ogni momento l’immagine grandiosa che ha di se stesso può venire invalidata. Per tentare di difendersi da questo rischio il narcisista è costretto a tenere lontani gli altri, che diventano automaticamente oggetto di rabbia e svalutazione. Questa forte svalutazione dell’altro però non basta a metterlo al riparo dalle emozioni negative. Purtroppo infatti il narcisista deve anche fare i conti con sentimenti di estrema inferiorità, generati da un Super Io sadico, che prescrive solo i “don’t”, che innescano sia un eccessivo bisogno di essere rassicurato che un profondo sentimento di invidia verso gli altri. L’altro è così sia un amato salvatore che un odiato rivale! Il rapporto con gli altri diventa frequentemente parassitario e improntato sullo sfruttamento per alimentare la propria autostima. Tutti questi vissuti sono inscritti in un profondo senso di solitudine, che Kernberg chiama magnificent loneliness, nel quale sono immersi questi pazienti.

Intervista a Frank Yeomans - State of Mind. - Immagine: © 2011-2012 State of Mind
Articoloconsigliato: Intervista a Frank Yeomans.

Lo sviluppo più drammatico del disturbo si osserva quando la grandiosità del paziente si combina con una forte quota di aggressività. Si sviluppa così il “narcisismo maligno”. Questa particolare forma di narcisismo porta il paziente ad aggiungere al suo sé grandioso anche un aspetto di onnipotenza “Posso fare quello che voglio. Per me le regole non valgono!”. In questa categoria si trovano pazienti la cui grandiosità è rafforzata dal senso di trionfo provato infliggendo dolore e paura agli altri.

Spiegare in così poche righe la complessa teoria del prof. Kernberg costringe a trascurare molti interessanti dettagli. Forse è un teoria un po’ aliena agli psicologi cognitivi che a concetti come pulsione, investimento libidico e relazioni oggettuali sono un po’ allergici, ma che sicuramente è interessante e prolifico approfondire.

 

 

BIBLIOGRAFIA: 

  • Knight, R. (1953). Borderline states. In Bullettin of the Menninger Clinic, 17, pp 1-24
  • Hoch, P. & Polatin, P (1949) Pseudoneurotic form of schizophrenia. In Psychiatric Quarterly, 38, pp 248-276
  • Kernbert, O. F.. (1967). Borderline personality organization. Journal of the American Psychoanalytic Association, 15, pp.236-253
  • Kernberg, O.F. (1975) Sndromi marginali e narcisismo patologico. Trad. it Bollati Boringhieri, Torino
  • Kernberg, O. F. (1987) Disturbi gravi della personalità. Trad. it Bollati e Boringhieri, Torino

I precedenti psichiatrici in famiglia e interessi intellettuali.

– Rassegna Stampa – 

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze PsicologicheUno studio condotto da un gruppo di ricercatori della Princeton University suggerisce che  la storia psichiatrica della propria famiglia, specialmente quella legata ad autismo e depressione, possa influenzare gli interessi di una persona, cioè quello che questa giudicherà interessante e degno di particolare attenzione nel corso della sua vita.

I campi di interesse privilegiati sarebbero quelli delle arti e delle scienze, che già in precedenti studi sperimentali sono stati associati ad alcuni disturbi psichiatrici. Lo studio è stato fatto su un campione di 1100 studenti ai quali è stato chiesto quali fossero i loro interessi intellettuali e quale l’incidenza familiare nelle due generazioni precedenti di disturbi dell’umore, l’abuso di sostanze e disturbi dello spettro autistico.

Dai risultati è emerso che gli studenti interessati a un percorso in materie umanistiche o sociali avevano il doppio delle probabilità di riferire che un membro della loro famiglia avesse un disturbo dell’umore o un problema di abuso di sostanze; gli studenti con un interesse per la scienza e la tecnica, invece, avevano tre volte più probabilità di avere un fratello con un disturbo dello spettro autistico. La novità dello studio sta nel fatto che la correlazione tra familiarità psichiatrica e interessi è indipendente dal talento e dalla carriera delle persone in esame, cioè questo studio prende in considerazione la semplice predilezione per un argomento, un interesse che non necessariamente si manifesta con capacità eccellenti o che sfocia in una carriera lavorativa.

Mentre gli interessi di una persona e le sue scelte professionali sono presumibilmente correlati, gli interessi intellettuali potrebbero modellarsi indipendentemente, sulla base delle condizioni psichiatriche, a loro volta influenzate dal contesto genetico familiare. L’idea di fondo dei ricercatori infatti è che la correlazione tra interessi intellettuali e malattia psichiatrica derivi da un percorso genetico comune che potrebbe portare gli individui di una stessa famiglia in direzioni simili, ma mentre alcuni svilupperebbero disturbi psichiatrici, altri possiederebbero solo alcuni tratti, e questi stessi tratti potrebbero manifestarsi con specifiche preferenze e interessi intellettuali.

 

 

BIBLIOGRAFIA: 

 

Intervista a Frank Yeomans.

In occasione della Lectio Magistralis di Otto Kernberg e Frank Yeomans di sabato 28 gennaio 2012 tenutasi a Milano, La redazione di State of Mind ha posto una domanda al gentilissimo Prof. Frank Yeomans

 

INTERVISTATRICE:  Dunque, la nostra domanda è: “Cosa può imparare un terapeuta cognitivo dal vostro approccio?”

PROF. YEOMANS: Questa è una bella domanda!  

INTERVISTATRICE: Certo che sì!

Otto Kernberg, Lectio Magistralis Milano-Bicocca, Narcissistic personality disorder, towards DSM-5 - Lectio Magistralis by Otto Kernberg and Frank Yeoman - Immagine: © 2012 State of Mind
Articolo consigliato: “Il disturbo narcisistico di personalità, verso il DSM-5″ – Lectio Magistralis di Otto Kernberg e Frank Yeomans

PROF. YEOMANS: Cosa può imparare un terapeuta cognitivo… non sono un terapeuta cognitivo, ma la mia prima impressione è che mi aiuterebbe ad apprezzare semplicemente il potere delle cose di cui non siamo consapevoli, non semplicemente perché non le conosciamo – perché capisco che nella terapia cognitiva si aiutino le persone a conoscere cose che non conoscono – ma la differenza è…

INTERVISTATRICE: Più o meno…

PROF. YEOMAS: Li aiuti a comprenderle meglio e può essere…può essere molto utile. Ma penso che quello che un terapeuta cognitivo possa apprezzare meglio è ciò che nella nostra mente ci impedisce di conoscere le cose, le ragioni per cui non conosciamo le cose. Perché la mia conoscenza, che è limitata, della terapia cognitiva…la mia impressione è che si focalizzi un po’ troppo semplicemente sui processi razionali piuttosto che sui nostri processi primitivi dove i livelli più profondi della nostra mente, neurobiologicamente parlando il sistema limbico, creano intensi affetti con cui la mente cognitiva cosciente non sa cosa fare.

Otto Kernberg, Lectio Magistralis Milano-Bicocca, Narcissistic personality disorder, towards DSM-5 - Lectio Magistralis by Otto Kernberg and Frank Yeoman (2) - Immagine: © 2012 State of Mind - Anteprima
Articolo consigliato: DSM-V: Quando l’ideologia sconfigge la scienza: sulla Lectio Magistralis di Kernberg a Milano

E la terapia cognitiva può aiutare a gestire in termini di ordine ciò che è nella nostra mente, ma, per quel poco che ne so, mi pare che non aiuti molto con i conflitti primari tra intensi impulsi aggressivi e di amore e non ci aiuta a capire la resistenza a conoscerli, il perché non vogliamo sapere alcune cose di noi stessi. Penso che l’approccio psicodinamico renda più il senso di conflitto che c’è nella nostra mente che non dovremmo conoscere. E si dovrebbe ricordare la definizione di psicodinamica: significa la mente in movimento. Non solo la mente dei nostri pazienti è in movimento, ma anche la nostra mente è in movimento perché ogni essere umano ha sempre un equilibrio difensivo tra intense urgenze biologiche, proibizioni sociali e valori morali. Quindi il nostro obiettivo è trovare un equilibrio. Credo che il terapeuta cognitivo dovrebbe essere più consapevole della sua natura primitiva.

INTERVISTATRICE: Grazie mille per tutto! 

PROF. YEOMANS: prego!   

 

(NDR: Traduzione dell’intervista a cura di Valentina Davi).

Verso il DSM-5: Il Disturbo dello Spettro Autistico

 

Verso il DSM-V: Il Disturbo dello Spettro Autistico. - Immagine: © Jaimie Duplass - Fotolia.com Ottenere una diagnosi di autismo pare diventi più difficile con l’uscita del DSM-5 nel 2013. Questo è quanto ci dicono i dati preliminari raccolti dai ricercatori dell’Università di Yale, negli Stati Uniti.

Seguendo i nuovi criteri, infatti, parrebbe che quasi la metà delle persone classificate sotto lo spettro autistico secondo il DSM-IV potrebbero non raggiungere i criteri per la stessa diagnosi nel nuovo manuale diagnostico. Questi primi studi sono stati condotti da Fred Volkmar e colleghi della facoltà di Medicina della prestigiosa università statunitense e saranno pubblicati tra la fine di Febbraio e l’inizio di Marzo 2012. Se questi risultati verranno confermati da studi successivi e più approfonditi, si avranno certamente notevoli implicazioni dal punto di vista clinico e dei servizi offerti a queste persone, soprattutto in età evolutiva.

Per ora possiamo presentare i nuovi criteri proposti per la nuova diagnosi di Disturbo dello Spettro Autistico (DSM-V):

Criteri Diagnostici:

Deve soddisfare i criteri A, B, C e D:

Progetto iSpectrum: un Serious Game per favorire l'inserimento nel mondo del lavoro di chi è affetto da autismo
Articolo consigliato: “Progetto iSpectrum: un Serious Game per favorire l’inserimento nel mondo del lavoro di chi è affetto da autismo”

A. Deficit persistente nella comunicazione sociale e nell’interazione sociale in diversi contesti, non spiegabile attraverso un ritardo generalizzato dello sviluppo, e manifestato da tutti e 3 i seguenti punti:

1. Deficit nella reciprocità socio-emotiva: un’approccio sociale anormale e fallimento nella normale conversazione (in avanti ed indietro) e/o un ridotto interesse nella condivisione degli interessi, emozioni, affetto e risposta e/o una mancanza di iniziativa nell’interazione sociale.

2. Deficit nei comportamenti comunicativi non verbali usati per l’interazione sociale: che vanno da una povera integrazione della comunicazione verbale e non verbale, attraverso anormalità nel contatto oculare e nel linguaggio del corpo, o deficit nella comprensione e nell’uso della comunicazione non verbale, fino alla totale mancanza di espressività facciale e gestualità.

3. Deficit nello sviluppo e mantenimento di relazioni, appropriate al livello di sviluppo (non comprese quelle con i genitori e caregiver): difficoltà nel regolare il comportamento rispetto ai diversi contesti sociali e/o difficoltà nella condivisione del gioco immaginativo e nel fare amicizie e/o apparente mancanza di interesse nelle persone.

Linee Guida per l'Autismo: cosa sì e cosa no. Immagine: © puckillustrations - Fotolia.com -
Articolo consigliato: Linee Guida per l’Autismo: cosa sì e cosa no.

B. Comportamenti e/o interessi e/o attività ristrette e ripetitive come manifestato da almeno 2 dei seguenti punti:

1. Linguaggio e/o movimenti motori e/o uso di oggetti, stereotipato e/o ripetitivo: come semplici stereotipie motorie, ecolalia, uso ripetitivo di oggetti, frasi idiosincratiche.

2. Eccessiva aderenza alla routine, comportamenti verbali o non verbali riutilizzati e/o eccessiva resistenza ai cambiamenti: rituali motori, insistenza nel fare la stessa strada o mangiare lo stesso cibo, domande o discussioni incessanti o estremo stress a seguito di piccoli cambiamenti.

3. Fissazione in interessi altamente ristretti con intensità o attenzione anormale: forte attaccamento o preoccupazione per oggetti inusuali, interessi eccessivamente perseveranti o circostanziati.

4. Iper-reattività e/o Ipo-reattività agli stimoli sensoriali o interessi inusuali rispetto a certi aspetti dell’ambiente: apparente indifferenza al caldo/freddo/dolore, risposta avversa a suoni o tessuti specifici, eccessivo odorare o toccare gli oggetti, fascinazione verso luci o oggetti roteanti.

C. I sintomi devono essere presenti nella prima infanzia (ma possono non diventare completamente manifesti finché la domanda sociale non eccede il limite delle capacità).

D. L’insieme dei sintomi deve compromettere il funzionamento quotidiano.

 

Razionale.

Un unico spettro

E’ stato dato un nuovo nome alla categoria, Disturbi dello Spettro Autistico, che include il Disturbo Autistico (autismo), Sindrome di Asperger, Disturbo disintegrativo dell’infanzia, e disturbi pervasivi dello sviluppo non altrimenti specificati.

La differenziazione dello spettro autistico rispetto allo sviluppo tipico e ad altri disturbi non nello spettro è fatta con validità ed efficacia; mentre la distinzione tra i diversi disturbi è stata trovata inconsistente nel tempo, variabile tra i diversi luoghi in cui è stata effettuata la diagnosi, e spesso associata alla severità, livello linguistico o intelligenza invece che alle caratteristiche specifiche dei diversi disturbi.

Poiché l’autismo è definito come un insieme comune di comportamenti, è meglio rappresentato da una singola categoria diagnostica che si possa adattare alle presentazioni cliniche individuali (es. severità, abilità verbale e altre) e alle condizioni associate (es. disordini genetici conosciuti, epilessia, disabilità intellettuale e altre). Un singolo spettro riflette meglio lo stato attuale delle conoscenza riguardo la patologia e la presentazione clinica; i criteri clinici precedenti erano equivalenti a voler spaccare il capello con un’accetta (“cleave meatloaf at the joints” in inglese n.d.r.)

Tre domini diventano due:

Deficit Socio-Comunicativi / Interessi fissati e comportamenti ripetitivi

  • I deficit nella comunicazione e nel comportamento sociale sono inseparabili e più accuratamente considerati come un singolo insieme di sintomi con specificità rispetto all’ambiente e al contesto.
  • I ritardi nel linguaggio non sono ne unici ne universali rispetto allo spettro autistico e sono più accuratamente considerati come un fattore che influenza la presentazione clinica della sintomatologia autistica piuttosto che come definitori della diagnosi.
  • Richiedere che entrambi i criteri (1 e 2)i siano raggiunti aumenta la specificità della diagnosi senza intaccarne la sensibilità rispetto ai diversi livelli, dal moderato fino al più severo, mentre si mantiene la specificità con solo due domini.
  • Le decisioni sono state basate sulla letteratura, la consultazione di esperti e le discussioni nei gruppi di lavoro; i dati sono stati in un secondo momento confermati dalle analisi della CPEA e STAART, Università del Michigan, e i database del Simons Simplex Collection.

Diversi criteri socio-comunicativi sono stati uniti e specificati in modo da chiarire i requisiti diagnostici.

Sam, un amico virtuale per i bambini autistici
Articolo consigliato: “Sam, un amico virtuale per i bambini autistici”

Nel DSM-IV criteri multipli riguardavano in realtà lo stesso sintomo e quindi pesavano troppo nella decisione della diagnosi. L’unione delle aree comunicative e sociali richiedeva un nuovo approccio ai criteri. Una secondaria analisi dei dati è stata condotta sui sintomi socio-comunicativi per determinare l’insieme di sintomi  più sensibili e specifici per ogni gruppo di età e capacità linguistica.

Interessi fissi e movimenti ripetitivi

  • Richiedere che si manifestino almeno due sintomi aumenta la specificità del criterio senza diminuirne significativamente la sensibilità. La necessità di molteplici fonti di informazione include la capacità nell’osservazione clinica, il racconto di genitori/custodi/insegnanti ed è sottolineata dalla necessità di validare un’alta proporzione di criteri.
  • La presenza, attraverso l’osservazione clinica o il racconto dei genitori, di una storia di interessi fissi, routine, rituali o movimenti stereotipati aumenta sensibilmente la stabilità di una diagnosi di spettro autistico nel tempo e la differenzia da altri tipi di disturbi.
  • La riorganizzazione dei sottodomini aumenta la chiarezza e continua a permettere un’adeguata sensibilità e nel mentre aumenta la specificità attraverso esempi adatti a differenti età e livelli linguistici.
  • Comportamenti sensoriali inusuali sono stati esplicitamente inclusi in un sottodominio, espandendo la specificazione di differenti comportamenti che possono essere codificati in questo dominio, con esempi particolarmente rilevanti per i bambini più piccoli.

I disturbi dello spettro autistico sono disturbi dello sviluppo neurologico che possono essere presenti dall’infanzia o dalla prima giovinezza, ma possono non essere rilevanti fino a più tardi a causa della minima richiesta sociale o della presenza di supporto da parte dei genitori nei primi anni.

Severità

Livello 3: Richiede supporto rilevante

  • Comunicazione sociale: I severi deficit nella comunicazione sociale, verbale e non verbale, causano un impedimento severo nel funzionamento; iniziativa molto limitata nell’interazione sociale e minima risposta all’iniziativa altrui.
  • Interessi ristretti e comportamenti ripetitivi: Preoccupazioni, rituali fissi e/o comportamenti ripetitivi che interferiscono marcatamente con il funzionamento in tutte le sfere. Stress marcato quando i rituali o le routine sono interrotte; è molto difficile ridirigere dall’interesse fissativo o ritorna rapidamente ad esso.

Livello 2: Richiede supporto moderato

  • Comunicazione sociale:  Deficit marcati nella comunicazione sociale, verbale e non verbale, l’impedimento sociale appare evidente anche quando è presente supporto; iniziativa limitata nell’interazione sociale e ridotta o anormale risposta all’iniziativa degli altri.
  • Interessi ristretti e comportamenti ripetitivi: Preoccupazioni, rituali fissi e/o comportamenti ripetitivi appaiono abbastanza di frequente da essere ovvi all’osservatore casuale ed interferiscono con il funzionamento in diversi contesti. Stress o frustrazione appaiono quando sono interrotti ed è difficile ridirigere l’attenzione.

Livello 1: Richiede supporto lieve

  • Comunicazione sociale:  senza supporto i deficit nella comunicazione sociale causano impedimenti che possono essere notati. Ha difficoltà ad iniziare le interazioni sociali e mostra chiari esempi di atipicità o insuccesso nella risposta alle iniziative altrui. Può sembrare che abbia un ridotto interesse nell’interazione sociale.
  • Interessi ristretti e comportamenti ripetitivi: Rituali e comportamenti ripetitivi causano un’interferenza significativa in uno o più contesti. Resiste ai tentativi da parte degli altri di interromperli.

 

PRENOTA IL DSM-5 ONLINE

 

BIBLIOGRAFIA:

Ho sposato un alieno: la Sindrome di Capgras

Silvia Dioni. 

Ho sposato un alieno: la Sindrome di Capgras - Immagine: © John Takai - Fotolia.com - Nel romanzo “Il Piccolo Principe” di Antoine de Saint-Exupéry c’è un celebre dialogo in cui la volpe ammonisce il protagonista con una frase destinata a diventare un aforisma senza tempo: “Non si vede bene che con il cuore, l’essenziale è invisibile agli occhi.”

Riflessione semplice e profonda allo stesso tempo, che rinnova in chiave poetica un concetto abbastanza ovvio: sul piano delle relazioni interpersonali c’è una bella differenza tra la semplice dimensione visiva e quella affettiva ed emozionale. Se poi tra i due livelli si percepisce addirittura un’incongruenza, le cose si complicano notevolmente.

La Sindrome di Capgras è un esempio clinico di come possa manifestarsi un conflitto tra queste due dimensioni: chi soffre di questa patologia neurologica sa infatti riconoscere perfettamente le fattezze e il volto dei propri cari ma, nonostante la familiarità, viene a mancare completamente l’aspetto dell’attivazione affettiva ed emotiva nei loro confronti. Per esempio un uomo può continuare a riconoscere correttamente la propria moglie, ma allo stesso tempo non provare più alcun sentimento per lei: una simile dissonanza cognitiva viene “risolta” dal paziente con un delirio, ossia con la ferma convinzione che il proprio caro sia stato sostituito da un impostore, un robot o un alieno che si limita ad assomigliare in tutto e per tutto alla persona amata.

I Sintomi Psicotici delle persone sane. - Immagine: © rolffimages - Fotolia.com
Articolo consigliato: I Sintomi Psicotici delle persone sane

Al delirio si accompagna spesso un comportamento aggressivo e violento nei confronti di quello che si considera un sosia, soprattutto in risposta ai tentativi di mettere in discussione la convinzione delirante. Questa condizione clinica di scissione tra identificazione visiva ed emozioni, generalmente correlata a quadri psicotici o a lesioni cerebrali, incoraggia una riflessione generale su quale sia il processo cognitivo attraverso il quale riconosciamo come autentica l’identità altrui.

Uno studio di Ellis e Young, basato sulla misurazione dei parametri di conduttanza cutanea, ha confermato che i pazienti affetti da sindrome di Capgras mantengono intatta l’abilità conscia di discriminare i volti familiari, ma che a questa capacità non corrisponde un’adeguata risposta di attivazione automatica e inconscia delle emozioni congruenti, quasi ci fosse una compromissione nello scambio di informazioni tra corteccia visiva e sistema limbico.

Le ipotesi formulate a partire da questa premessa sono molteplici: esistono forse due sistemi anatomicamente distinti coinvolti nel processo di riconoscimento dei volti amati, uno deputato ad elaborare le informazioni visive e uno a riconoscerne la risonanza emotiva? In quale sede cerebrale (o a che livello cognitivo) potrebbe collocarsi la connessione tra le due strutture? Perché una compromessa integrazione fra questi due sistemi dovrebbe spingere il paziente a delirare su sosia e duplicanti? E che cos’è che fa sì che di fronte ad una fisionomia razionalmente riconosciuta come familiare il paziente percepisca che a livello viscerale c’è qualcosa che non quadra?

In attesa di ulteriori studi in ambito neuropsicologico, un’interpretazione alternativa e sicuramente intrigante è quella psicoanalitica, secondo la quale la genesi e il mantenimento del delirio di Capgras garantirebbe una sorta di “tornaconto” al paziente, nel senso che servirebbe a risolvere una preesistente ambivalenza nel rapporto tra il paziente e la persona oggetto del delirio.

La Psicosi e Roman Polanski: formazione per terapeuti. - Immagine:  The poster art copyright is believed to belong to the distributor of the film, the publisher of the film or the graphic artist - Retrievable from: : http://www.affichescinema.com
Articolo consigliato: "La Psicosi e Roman Polanski: formazione per terapeuti"

Proviamo a tornare all’esempio del marito: dopo anni di malumori, insofferenze taciute e rabbia soffocata nei confronti della moglie, interviene la sindrome a slatentizzare il tutto e ad appagare finalmente l’aggressività repressa. Il sosia è l’espediente geniale: ci si può accanire quanto si vuole senza per questo sentirsi minimamente in colpa (che male c’è a incattivirsi contro un alieno bugiardo?) e allo stesso tempo continuare a nutrire profondi sentimenti di affetto e amore per il proprio coniuge, inspiegabilmente sostituito e perduto.

Se non si trattasse di una psicosi su base organica, potrebbe quindi sembrare una strategia cognitiva straordinariamente elegante per risolvere un problema complesso: dopotutto l’autostima è salva, l’incolumità del proprio caro pure, e l’ostilità ha finalmente libero sfogo.

Insomma, che dire? Chapeau!

 

 

BIBLIOGRAFIA: 

  • Hadyn D. Ellis, Michael B. Lewis. (2001). Capgras delusion: a window on face recognition TRENDS in Cognitive Sciences 5 (4): 149-156
  • McKay R., Langdon R., Coltheart M. (2005) “Sleights of mind”: Delusions, defences and self-deception Cognitive Neuropsychiatry 10 (4): 305-326

Mindfulness in rosa: ridurre lo stress nelle diagnosi di cancro al seno.

 

MIndfulness in rosa: ridurre lo stress nelle diagnosi di cancro al seno - Immagine: © Mark Abercrombie - Fotolia.com - La diagnosi di cancro al seno porta con sé numerosi cambiamenti nella vita delle donne e delle loro famiglie: vengono compromesse la sfera sociale, fisica, funzionale ed emotiva. Anche quando le terapie si dimostrano efficaci e la situazione sembra rientrare, per alcune donne non è facile recuperare un equilibrio psicofisiologico.

Le tecniche mente-corpo possono, in questo delicato momento, supportare le donne operate al seno. I dati di uno studio pubblicato sul Wester Journal of Nursing Research, condotto da un team di ricercatori della Sinclair School of Nursing dell’università del Missouri (USA), sottolineano l’efficacia del protocollo Mindfulness Based Stress Reduction per migliorare la qualità della vita e la gestione dello stress nelle donne operate al seno. La ricerca prevedeva un ciclo di otto sedute di gruppo, una parte del campione oltre al trattamento standard seguiva il protocollo MBSR.

I benefici maggiori dopo il trattamento MBSR sono stati:

  • abbassamento della pressione sanguigna;
  • rallentamento della frequenza respiratoria;
  • rallentamento del battito cardiaco;
  • miglioramento del tono dell’umore.
Le reazioni psicologiche dei pazienti con scompenso cardiaco - Immagine: © Petr Vaclavek - Fotolia.com -
Articolo consigliato: Le reazioni psicologiche dei pazienti con scompenso cardiaco.

Conferma di questo dato la troviamo sulla rivista Integrative Cancer Therapie: una pratica meditativa aiuterebbe, dunque, a ridurre lo stress e a migliorare il benessere emotivo. A questo studio hanno partecipato 130 donne affette da tumore al seno in cura presso un reparto oncologico. L’intero campione è stato diviso in due gruppi: una seguiva una terapia combinata di cure tradizionali + meditazione, e un secondo gruppo che seguiva solamente le cure “tradizionalmente” prescritte. In particolare i soggetti della ricerca hanno trovato nella meditazione un ottimo strumento per la riduzione dello stress, e riportano i benefici maggiori dopo gli incontri di gruppo.

La meditazione come trattamento aggiuntivo per le donne operate al seno viene utilizzata anche presso l’Ospedale Bellaria di Bologna dove il Dott. Gioacchino Pagliaro porta avanti dal 2003 il progetto “ Armoniosamente”. (Scarica il pdf della presentazione)

Questo protocollo prevede due parti: una prima fase di psico-educazione i cui obiettivi principali sono:

  • accrescere la speranza nei confronti della guarigione;
  • aumentare la fiducia nella cura radio e chemio terapica;
  • aiutare a migliorare il rapporto con il corpo ”malato”.

In una seconda fase vengono insegnate tecniche di meditazione e visualizzazione. In questo caso gli obiettivi principali sono:

  • ridurre lo stress;
  • far sentire le donne protagoniste della cura e dei processi di guarigione;
  • aumentare l’autostima;
  • ridurre gli effetti collaterali della chemioterapia;
  • aiutare a fronteggiare la paura.

A breve un‘intervista con il Dott. Pagliaro per racconti più dettagliati su questo interessante progetto.

 

 

BIBLIOGRAFIA:

cancel