Contesti Sociali Competitivi sul quoziente intellettivo.
– Rassegna Stampa –
Un interessante ricerca condotta da un gruppo di scienziati del Virginia Tech Carilion Research Institute ha messo in luce come l’esercizio di alcune funzioni cognitive possa venire compromesso in alcune situazioni sociali. In particolare sembra che l’espressione del QI possa, in alcuni individui, subire un temporaneo declino in contesti sociali competitivi.
Dopo avere misurato con uno strumento standard il QI dei partecipanti allo studio, i ricercatori hanno chiesto loro di svolgere una serie di compiti in piccoli gruppi per i quali ricevevano un feedback in cui le loro prestazioni venivano paragonate a quelle degli altri membri del gruppo. Gli scienziati hanno usato la risonanza magnetica funzionale (fMRI) per studiare come il cervello elabora le informazioni sullo status sociale in piccoli gruppi e come la percezione di questo status influenzi l’espressione di capacità cognitive.
Ecco alcuni dei dati raccolti:
1. Sono state registrate attività in diverse regioni cerebrali, in particolare l’amigdala, la corteccia prefrontale e il nucleo accumbens – regioni che si pensa siano coinvolte rispettivamente nei processi emotivi, nel problem solving, e nella ricompensa e piacere.
2. Tutti i soggetti hanno avuto inizialmente un aumento dell’attivazione dell’amigdala e una diminuita attività nella corteccia prefrontale; in entrambi i casi si è registrata minore capacità di problem-solving.
3. A fine compito, alte prestazioni di gruppo hanno coinciso con una ridotta attivazione dell’amigdala e una maggiore attivazione della corteccia prefrontale, entrambe associate ad una maggiore capacità di risolvere i problemi più difficili.
4. Variazioni di status in positivo erano associate ad una maggiore attività nel nucleus accumbens bilaterale, che è sempre stato legato all’apprendimento e ha dimostrato di rispondere alle ricompense e piacere.
Variazioni negative nello stauts corrispondevano a una maggiore attività nella corteccia cingolata anteriore dorsale, coerente con la risposta a informazioni contrastanti.
Età ed etnia non sono risultate variabili rilevanti
I risultati indicano quindi che l’espressione del QI in alcuni individui ha risentito dei segnali sullo status all’interno del gruppo e questo dato indica che non è appropriato considerare il QI come misura attendibile dell’intelligenza di una persona, senza considerare come questa funzione interagisce con il contesto sociale. Inoltre, data la profonda interazione tra elaborazione sociale e cognitiva, sembra proprio che l’idea di una divisione tra queste due funzioni cerebrali sia piuttosto artificiale.
“Gran parte della nostra società è organizzata intorno a piccole interazioni di gruppo”, sottolinea Kishida, principale autore dello studio, “capire come il nostro cervello risponde a dinamiche sociali è un’importante area di ricerca futura e ulteriori ricerche di brain imaging possono aiutare nello sviluppo di strategie efficaci a minimizzare l’effetto della pressione sociale in chi risulta più sensibile”.
I valori sacri: il prezzo della moralità alla luce della risonanza magnetica.
Quando si parla di valori sacri si è soliti fare riferimento alle credenze religiose, alle identità etniche e alle norme morali. Generalmente, questi valori guidano una serie di scelte effettuate nel quotidiano, dalle più comuni, cosa comprare al supermercato, a quelle più importanti, chi sposare. È possibile che la mancanza di condivisione di questi valori sacri porti al verificarsi di conflitti di varia natura.
Secondo la teoria deontologica i valori sacri sono elaborati sulla base di ciò che è giusto o sbagliato a prescindere dei risultati, mentre la teoria utilitaristica suggerisce che essi sono processati sulla base di costi e di benefici derivanti da una valutazione dei risultati ottenuti.
Ma come sono rappresentati nella mente questi concetti?
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A tal proposito, in un recentissimo studio, realizzato dal gruppo di ricerca di Gregory Berns (2012), si valuta se è possibile violare questi valori sacri. Per realizzare ciò, in laboratorio era stimata l’integrità morale dei partecipanti all’esperimento. In questo caso il concetto di integrità si riferisce alla coerenza che un individuo mostra rispetto ai propri valori e alle proprie azioni. Per esempio, anche se non è possibile verificare se un individuo è disposto ad uccidere un essere umano innocente, si può testare la disponibilità potenziale di poterlo fare. In che modo? Firmando un documento contenente una serie di informazioni, anche se la firma non vincola la persona alla messa in atto dell’azione, ma crea una contraddizione tra ciò in cui si crede e quanto realmente si è portati a fare, avente, come conseguenza, una perdita di integrità.
E’ stato quindi messo a punto un compito sperimentale diviso in quattro fasi, inizialmente i partecipanti all’esperimento dovevano scegliere attivamente delle affermazioni in base ai loro valori sacri (es. Credi in Dio?), e alla fine dell’esperimento, avevano la possibilità di mettere all’asta quanto scelto. In questo caso coloro che decidevano di vendere andavano contro le loro regole morali. Così facendo, potevano guadagnare fino a 100 dollari per dichiarazione, semplicemente accettando di firmare un documento in cui si chiedeva di affermare il contrario di quello in cui credevano.
E’ ragionevole supporre che se qualcosa è giudicata veramente sacra, importante, preziosa, allora l’individuo dovrebbe mantenere integrità per quel valore e ci si aspetta che non possa firmare il documento finale. In questo caso firmando si crea un trade-off tra il guadagno monetario e il costo dell’integrità personale. Quindi, la quantità di denaro guadagnato rappresenta la misura dell’integrità della propria moralità.
Articolo consigliato: Lavati e non ci pensi più. Ma i processi mentali restano. I dati raccolti in Risonanza Magnetica Funzionale indicano che i valori sacri che la gente ha rifiutato di vendere sono associati all’area imputata a valutare i torti subiti (la giunzione temporale sinistra) e all’area del recupero dell’informazione semantica (corteccia prefrontale ventro-laterale sinistra), ma non c’era nessuna attivazione del sistema di ricompensa.
Questo suggerisce che i valori sacri influenzino il comportamento attraverso il richiamo e l’elaborazione di regole deontologiche e non attraverso una valutazione utilitaristica dei costi e dei benefici. Infatti, quando i valori sacri hanno basi più solide, ad esempio si appartiene ad un particolare gruppo religioso o sociale, si ottengono attivazioni più forti della prima area, e se si utilizzano parole come Dio vs parole comuni, si ottengono maggiori attivazioni della corteccia prefrontale dorsolaterale. Ciò suggerisce che gli individui che hanno forti rappresentazioni semantiche di valori sacri sono più propensi ad agire rispettando il loro credo.
Questi dati attestano che, quando gli individui possiedono valori sacri, non riescono a scendere a compromessi, rendendo qualsiasi ricompensa, anche se cospicua, inefficacie. A conferma di ciò, quando i valori sacri sono stati confutati, e i soggetti hanno scelto di percepire denaro, si è osservato un significativo aumento della attivazione dell’amigdala, il che suggerisce la presenza di una risposta emotiva negativa, è come se ci fosse dissenso nei confronti di noi stessi, quindi la scelta fatta non è giusta e genera un confitto.
Concludendo, i valori sacri sono regole deontologiche imprescindibili, che regolano la nostra esistenza e ci guidano nelle azioni, fino a farci sentire delle persone moralmente correte, impedendoci di effettuare scelte utilitaristiche.
“Come geloso, io soffro quattro volte: perché sono geloso, perché mi rimprovero di esserlo, perché temo che la mia gelosia finisca col ferire l’altro, perché mi lascio soggiogare da una banalità: soffro di essere escluso, di essere aggressivo, di essere pazzo e di essere come tutti gli altri”. – Roland Barthes (1977) –
Quanti di noi si identificano in queste parole? Quanti sono stati male per gelosia? A quanti ha rovinato la vita? A giudicare dalle infinite canzoni e numerosi versi di prosa esistenti, si è in tanti ad essere gelosi o ad esserlo stati. Vasco Rossi sosteneva, in una celebre canzone ormai datata, che la gelosia è come una malattia incomprensibile.
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Ma, cos’è la gelosia? Si tratta di un sentimento generante dall’idea che si potrebbe perdere da un momento all’altro la cosa più cara che si possiede. Quindi, quell’animi motus che si sperimenta, intrisa di un po’ di follia, porta a compiere gesti eccessivi e disperati sulla scia di una emotività che, spesse volte, porta a percepire l’abbandono di chi si ama. Essa è intimamente legata alla possessività, ovvero alla possibile perdita di ciò che si ritiene proprio, ineluttabilmente di nessun altro. Entrambi gli stati pretendono di avere, in maniera esclusiva e assoluta, l’altro, inteso come oggetto del desiderio che soddisfa, in questo caso, un bisogno atavico: voglio te e solo te. Spesso chi ne è affetto manifesta la sua gelosia in assenza di qualunque evento reale, di qualunque circostanza che possa giustificare un vissuto del genere.
La persona gelosa presenta le seguenti caratteristiche:
paura della perdita, della separazione, di ciò che si ritiene proprio e necessario al proprio benessere;
paura dell’abbandono, di essere lasciato solo senza nessuno che possa prendersi cura di se stessi;
gelosia dell’altro che potrebbe condividere qualcosa che non gli appartiene, ma è di nostra proprietà;
invidia di alcune caratteristiche fisiche e caratteriali di una papabile altra persona. In questo caso la gelosia non è rivolta tanto al proprio partner ma è gelosia del terzo e quindi si muove ai confini.
Esistono diversi livelli di gelosia, si parla di gelosia normale quando è inseparabile dall’amore per il partner e mostra livelli di attivazione fisiologica accettabili. E’ funzionale a far sentire l’altro veramente amato, nel dimostrargli che è la persona con cui si vuole condividere la propria vita. Credo, possa essere capitato a tutti di pensare che se la persona amata non mostrasse un minimo di gelosia potrebbe non essere innamorato. Quindi, se è poca potrebbe, paradossalmente, giovare alla relazione, poiché mette un po’ di brio nel rapporto.
Invece, la gelosia patologica si genera da comportamenti che non trovano riscontro nella realtà, da azioni infondate, e deriva, sostanzialmente, da un’angoscia che prende forma nella mente senza nessun riscontro oggettivo. Quest’angoscia produce delle vere e proprie rappresentazioni mentali in cui si costruiscono ad hoc lo scenario, il rivale e, più di tutto, le prove dell’infedeltà. Quindi, la realtà viene erroneamente interpretata e tutto può essere frainteso. Questo, può portare a dei veri e propri deliri di gelosia che in alcuni casi sono all’origine di delitti passionali. Si tratta, dunque, di autentico delirio florido, esattamente come affermava Freud anni or sono, e rappresenta la parte più patologica della gelosia. Questa forma di gelosia si manifesta con le seguenti caratteristiche:
paura irrazionale dell’abbandono e tristezza per la possibile perdita;
sospettosità per ogni comportamento relazionale del partner verso persone dell’altro sesso;
controllo di ogni comportamento dell’ altro;
invidia ed aggressività verso i possibili rivali;
aggressività persecutoria verso il partner;
sensazione d’ inadeguatezza e scarsa autostima di noi stessi.
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Sostanzialmente, è una sintomatologia affine a quella della dipendenza affettiva. La gelosia, dunque, potrebbe essere la manifestazione di una patologia latente, la dipendenza affettiva, concedetemi il termine psicoanalitico visto che la prima nosografia scritta in merito a tale argomento risale a Freud (1922).
Da questo breve excursus si può affermare che la gelosia e la dipendenza affettiva sono due facce di una stessa medaglia. Se è presente l’una è molto probabile sia presente anche l’altra. Forse, potremmo azzardare, la gelosia costituisce il campanello d’allarme della dipenda affettiva, ovvero quando la avvertiamo in maniera prepotente è probabile ci possa esser qualcosa di importante che non funziona come dovrebbe. Infatti, il dipendente affettivo agisce sulla scia di un bisogno: non voglio rimanere solo. Di conseguenza, nel momento in cui si assume che l’oggetto d’amore, senza un dato di realtà, possa venir meno, si manifesta questa strana sensazione di estrema vulnerabilità in cui inizia la caccia all’untore, e anche la più piccola percezione può destabilizzare il geloso. Da qui partono gesti disperati nel tentativo di tenere legato a sé l’oggetto d’amore! E’ come una crisi d’astinenza: la sostanza sta per finire e io mi aggrappo alla più flebile speranza per averne ancora, e per sempre.
Come scriveva Marcel Proust (1923),” la gelosia è sovente solo un inquieto bisogno di tirannide applicato alle cose dell’amore. Dal momento in cui la gelosia è scoperta, essa è considerata da chi ne è oggetto come una diffidenza che legittima l’inganno“. E’ vero, è un arma a doppio taglio, più si è gelosi, più si soffoca l’altro, più l’altro si sente in dovere di scappare per trovare una boccata di freschezza, quindi tradisce. Tutto si conclude con un circolo vizioso che si autoperpetua.
BIBLIOGRAFIA:
Freud, S. (1922), Alcuni meccanismi nevrotici nella gelosia, paranoia e omosessualità. A cura di C. Musatti, Opere di Sgmund Freud, Boringhieri, Torino (2002).
Marazziti, D., Di Nasso, E., Masala, I., et al (2003) Normal and obsessional jealousy: a study of a population of young adults. European Psychiatry, 18, 106–111.
Proust, M. (1923), La prigioniera. In A. B. Anguissola, D. Galateria, G. Raboni (Eds.) Alla ricerca del tempo perduto, Oscar – Mondadori, Milano, 2001.
Barthes, R. (1977), Frammenti di un discorso amoroso, A cura di R. Guidieri, Einaudi tascabili, (2008).
Omofobia: paura del diverso o paura di se stessi?
L’ostilità e la discriminazione nei confronti degli omosessuali sono ben note. A volte questi atteggiamenti negativi possono portare ad atti ostili sia verbali che fisici nei loro confronti. Anche se in generale si assume che gli atteggiamenti e i comportamenti negativi verso gli omosessuali siano associati a rigide credenze moraliste, ad ignoranza sessuale e alla paura dell’omosessualità, l’eziologia di questi atteggiamenti e comportamenti di discriminazione rimane ancora un mistero.
Weinberg (1972) ha etichettato questi atteggiamenti e comportamenti nei confronti dell’omosessualità come omofobia, che ha definito come la paura di essere in stretto contatto con omosessuali uomini e donne così come la paura irrazionale, l’odio e l’intolleranza da parte di individui eterosessuali nei confronti di uomini e donne omosessuali.
Secondo Hudson e Ricketts (1980) il significato del termine “omofobia” è stato generalizzato a causa della sua espansione in letteratura, per includere ogni atteggiamento negativo, credo, o azione negativa nei confronti dell’omosessualità. Per chiarire questo problema, Hudson e Ricketts hanno definito come “omonegativismo” un costrutto multidimensionale che include il giudizio sulla moralità dell’omosessualità, sulle decisioni circa i rapporti personali o sociali, e qualsiasi risposta cognitiva negativa relativa a credenze, preferenze, legalità e desiderabilità sociale. L’omofobia, d’altra parte, è stata anche definita come una risposta affettiva che comprende emozioni di paura, ansia, rabbia, disagio e avversione suscitate dall’interazione con persone omosessuali, senza che vi sia necessariamente una componente cognitiva consapevole di questa discriminazione.
Per capire cosa si nasconde dietro al profondo rancore nei confronti dell’omosessualità, Adams, Wright e Lohr (1996) hanno indagato il ruolo della risposta sessuale in uomini eterosessuali alla presentazione di stimoli omosessuali.
I partecipanti all’esperimento sono stati suddivisi in due gruppi (omofobi e non-omofobi) sulla base di un questionario costruito per indagare l’atteggiamento nei riguardi dell’omosessualità. Gli stessi sono stati poi esposti ad immagini erotiche sessualmente esplicite eterosessuali e omosessuali. Durante l’esperimento sono state misurate le variazioni della circonferenza del pene, tenute in considerazione come indice della relativa risposta di eccitazione sessuale in risposta agli stimoli. Entrambi i gruppi hanno mostrato un aumento della circonferenza del pene in risposta a video con scene a carattere eterosessuale e a donne omosessuali. Solo gli uomini “omofobi” hanno mostrato un aumento dell’erezione del pene in risposta alla presentazione di immagini a carattere omosessuale fra uomini.
Secondo questo studio, troverebbero una spiegazione empirica le numerose teorie psicoanalitiche secondo le quali l’omofobia sarebbe il risultato di un’omosessualità repressa o latente, definita come l’eccitazione omosessuale che l’individuo nega o di cui non è consapevole (West, 1977).
Per quanto dopo la pubblicazione di questo studio siano apparsi sul web una lunga serie di articoli che titolavano a gran voce “Uno studio scientifico conferma: Freud aveva ragione, l’omofobo è un gay represso!”, in realtà siamo ancora ben lontani da una conclusione sull’argomento.
Un’altra spiegazione di questi dati si trova infatti in Barlow, Sakheim, e Beck (1983), secondo cui è possibile che la visione di stimoli omosessuali provochi forti emozioni negative negli uomini omofobi ma non negli uomini non-omofobi. Poiché è stato dimostrato che l’ansia aumenta l’eccitazione e di conseguenza l’erezione (Barlow, 1986), questa teoria prevedrebbe che l’aumento dell’erezione negli uomini omofobi di fronte alla presentazione di stimoli omosessuali sia una funzione della condizione di minaccia percepita piuttosto che di un’eccitazione sessuale vera e propria.
Rimane allora ancora da chiedersi quale sia la ragione alla base della discriminazione sessuale nei confronti degli omosessuali, dato che l’emarginazione e il pregiudizio portano con sé la sofferenza dell’individuo che li subisce. È proprio questa sofferenza che dovrebbe spingerci a trovare delle risposte come professionisti della salute mentale, ma ancor prima come esseri umani portatori di sani valori di uguaglianza.
Potremmo ipotizzare, come Giovanni Ruggiero nel suo articolo, che alla base di questa discriminazione vi sia fondamentalmente l’ignoranza sessuale, intesa come “non conoscenza” dei meccanismi alla base del processo di differenziazione sessuale. Se adottassimo questa spiegazione potremmo supporre che l’individuo non a conoscenza di questi fondamenti abbia in sé la credenza irrazionale che l’omosessualità possa essere trasmessa magicamente attraverso la vicinanza o il semplice sguardo.
Sarebbe da chiedersi in questo caso se sia più appropriato utilizzare il termine xenofobia (inteso non come paura dello straniero o della persona lontana dalla nostra abitazione, ma come paura del diverso da noi, di ciò che non comprendiamo e di coloro che non hanno le nostre stesse abitudini), piuttosto che omofobia (termine che avrebbe in sé la contraddizione del sottolineare il timore per ciò che è uguale a sé anziché per ciò che è diverso). Se adottassimo invece la spiegazione delle credenze morali, il discorso si farebbe ancora più ampio e delicato, rischiando di toccare punti di difficile esplorazione.
La domanda che ci dovremmo porre è se si è fermamente ed intimamente convinti della propria eterosessualità, senza che si abbia il dubbio che gli omosessuali possano convincerci delle loro ragioni, perché allontanarli da noi? E ancora, visto che l’omosessualità non può essere considerata scientificamente come una semplice scelta o addirittura come una moda, cosa porta alcuni individui a considerarla una colpa o ad attribuirvi un’intenzione malevola?
BIBLIOGRAFIA:
Adams H. E, Wright L. W. Jr, Lohr B. A. (1996). Is Homophobia Associated With Homosexual Arousal? Journal of Abnormal Psychology, 105, 3, 440-445.
Barlow, D. H. (1986). Causes of sexual dysfunction: The role of anxiety and cognitive interference. Journal of Consulting and Clinical Psychology, 54, 140-148.
Barlow, D. H., Sakheim, D. K., & Beck, J. G. (1983). Anxiety increases sexual arousal. Journal of Abnormal Psychology, 92, 49-54.
Hudson, W. W., & Ricketts, W. A. (1980). A strategy for the measurement of homophobia. Journal of Homosexuality, 5, 356-371.
Weinberg, G. (1972). Society and the healthy homosexual. New York: St. Martin’s Press.
West, D. J. ( 1977 ). Homosexuality re-examined. Minneapolis: University of Minnesota Press.
Potenziamento cognitivo: allenarsi nel problem solving apre al cambiamento.
Uno studio pubblicato sulla rivista Psychology and Aging ha dimostrato che un intervento di potenziamento cognitivo su adulti anziani è stato in grado di modificarne la personalità. È l’apertura al cambiamento – cioè l’essere flessibili e creativi, abbracciare nuove idee e portare avanti sfide intellettuali o culturali – il tratto della personalità che sembra essere correlato con le capacità cognitive e con il loro andamento.
I partecipanti allo studio, tutti tutti di età compresa tra i 60 e i 94 anni, si sono impegnati per 16 settimane consecutive in compiti di problem solving, parole crociate e sudoku; l’allenamento, in accordo con il miglioramento delle prestazioni dei partecipanti, diventava ogni settimana più impegnativo. Un secondo gruppo di controllo non ha partecipato all’allenamento cognitivo; le capacità cognitive e i tratti di personalità dei partecipanti di entrambi i gruppi venivano testati prima e dopo l’esperimento. I risultati dell’esperimento indicano non solo che l’allenamento cognitivo ha notevolmente incrementato le abilità legate al pensiero induttivo del gruppo sottoposto ad allenamento, ma anche che questo andava di pari passo con un aumento, moderato ma significativo, dell’apertura al cambiamento. Entrambe le variabili sono invece rimaste inalterate nel gruppo di controllo.
Secondo i ricercatori un elemento fondamentale nel determinare i risultati è stato proprio l’incremento progressivo delle difficoltà dei compiti proposti in sincronia con i traguardi raggiunti dai partecipanti; questo avrebbe permesso ai partecipanti di acquisire fiducia nelle proprie abilità, a sostegno dell’impegno intellettuale e dello sforzo creativo.
– Rassegna Stampa – Questa è la seconda parte di un articolo unico sugli studi più interessanti del 2011 nel campo della Psicologia.
Buon lunedì! Come anticipato la settimana scorsa, ecco le altre cinque ricerche del 2011 che potrebbero offrire interessanti spunti di riflessione in questo 2012! La classifica è redatta da David di Salvo e pubblicata originariamente sul sito Psychology Today.
6) Meglio un uovo oggi… in quest’epoca di crisi mondiale, i ricercatori della Columbia University di New York si sono chiesti che cosa caratterizzi gli individui che, come la cavalletta nella favola di Esopo, vivono nel presente, spendendo più di quanto possono permettersi, accumulando così debiti futuri. Una scelta considerata vantaggiosa a breve termine, mentre il pagamento degli interessi viene collocato in un futuro troppo lontano per preoccuparsene, specie, se il vantaggio economico è disponibile fin da subito. A pesare su questa linea di condotta, che in America non ha solo inciso sulle finanze degli statunitensi, ma ha contribuito a far crollare tutto il sistema economico, sarebbe l’associazione con componenti psicologiche legate al processo decisionale, al bias dell’immediatezza e alla sfera dell’impulsività.
Nell’esperimento era chiesto ai soggetti di compilare un questionario riguardante la capacità di dilazionare i piaceri nel tempo; dopo, i partecipanti, potevano scegliere un piccolo omaggio, da ritirare subito o una ricompensa più grande, ma elargita in un secondo tempo. I risultati dello studio, in accordo con le ipotesi iniziali mostravano che i soggetti che si definivano più impazienti, sceglievano la ricompensa più piccola. A sorprendere la correlazione tra la tendenza a concedersi piccole gratifiche giornaliere e un peggiore stato finanziario. Ciò potrebbe suggerire che la tendenza a contrarre debiti potrebbe derivare sia da processi consapevoli sia dall’impulsività individuale.
7) Personalità e Creatività, il luogo comune vuole l’artista come un inguaribile narcisista, ma sarà vero? Secondo gli studiosi della Cornell University di New York, non esattamente. I narcisisti sarebbero però convinti di essere creativi e più bravi nel persuadere l’altro a crederlo!
Nell’esperimento, ai 244 partecipanti, precedentemente testati per individuare il grado di narcisismo individuale, veniva richiesto di convincere un altro in merito a idee relative ad un film. I narcisisti tendevano a giudicare le proprie idee come più creative e similmente faceva l’altro. Un risultato differente, però si otteneva se il valutatore si limitava a leggere le stesse idee. Ciò sembrerebbe dovuto al fatto che i narcisisti si mostrano più entusiasti delle loro idee, influenzando il modo in cui vengono accolte, ma l’idea in sè non sarebbe effettivamente più creativa di quelle degli altri. In un setting di gruppo i narcisisti invece sembrerebbero aumentare la creatività altrui: in un secondo studio, a 292 partecipanti divisi in piccoli gruppi, veniva richiesto di proporre soluzioni creative per aumentare la produttività aziendale. Gli esaminatori hanno scoperto che la presenza di due narcisisti in un gruppo produrrebbe idee migliori, perché aumenterebbe la competitività. I risultati mostrano anche che se i narcisisti sono più di due la produttività ne viene inficiata per un eccesso di competitività.
8) Felici tutta la vita? C’è una connessione tra le esperienze infantili e la felicità da adulti?
Un gruppo di ricercatori dell’Università di Cambridge ha provato a rispondere a questa domanda, analizzando fonti derivanti da test di personalità e giudizi scolastici di maestri e professori durante la carriera scolastica di un campione di 2.776 soggetti a partire dal 1946; questi dati sono stati incrociati con il livello scolastico raggiunto da adulti, lo stato civile, il reddito, il tipo di occupazione, la salute mentale, il coinvolgimento sociale e la capacità di leadership. Comparando i dati relativi all’infanzia, chi era stato un bambino felice, da adulto aveva una probabilità minore del 21% di sviluppare problemi emotivi, chi otteneva un punteggio positivo da adulto era in misura minore soggetto a tali problemi nel 61% dei casi. Un dato sorprendente, di cui rimandiamo la discussione in un altro momento, è stato scoprire che chi era stato più felice da bambino era maggiormente soggetto a un matrimonio infelice da adulto e più a rischio di divorziare.
9) Scegliere il meglio, come? Molte delle ricerche che si focalizzano sulle modalità che ha il consumatore di scegliere si occupano del “blocco” derivante dall’avere troppe opzioni. Vi è mai capitato al ristorante di non sapervi decidere tra un cibo e l’altro, per la presenza sul menu troppo ricchi di piatti prelibati? Ecco qualcosa del genere! Uno studio della Columbia University suggerisce invece che avere molte opzioni tra le quali scegliere orienti la nostra decisione verso una maggiore qualità.
Nell’esperimento, condotto da Sheena Iyengar, autrice del libro “The Art of Choosing”, i partecipanti si trovavano a scegliere tra più di venti marche di vino o cioccolato. Invece di prendere il primo a portata di mano, i soggetti sceglievano il tipo di più alta qualità, anche se era quello che costava di più. I ricercatori hanno analizzato anche il comportamento dei partecipanti a 63 aste di vino a Londra per un periodo di tre anni, ottenendo risultati simili. In quelle che offrivano un’ampia scelta di vini, i consumatori erano portati a spendere di più, viceversa, in quelle con una scelta scarsa ad offrire di meno. Un’utile lezione per i nostri acquisti: nel dubbio, la qualità!
10) Arrabbiati ed eviterai gli errori… cognitivi! In particolare la rabbia eviterebbe la tendenza al bias confermativo, una distorsione del pensiero che porta l’individuo a scegliere le informazioni che supportano quello che già conosce, un pregiudizio che rende il nostro pensiero coerente a se stesso.
I ricercatori della UCLA hanno chiesto a 97 studenti, divisi per gruppi, di scrivere del giorno in cui sono stati più arrabbiati (per richiamare alla mente e quindi indurre uno stato emotivo specifico), del giorno in cui erano stati più tristi o quello che consideravano più banale. In un secondo momento a tutti i partecipanti veniva richiesto di leggere una discussione sulla sicurezza e sul parlare al telefono con l’auricolare mentre si guida (i partecipanti erano stati preselezionati e tutti concordavano sul fatto che fosse più sicuro l’auricolare, che tenere in mano il cellulare). In seguito, venivano presentati alcuni articoli a favore e altri contro l’argomento ed era chiesto loro di sceglierne cinque da leggere. I partecipanti “arrabbiati” sceglievano in misura maggiore gli articoli critici sull’uso dell’auricolare, rispetto a quelli “tristi” o con uno stato emotivo neutro. Lo studio suggerirebbe che essere arrabbiati, porterebbe l’individuo a disconfermare la sua esperienza, rendendo di fatto il proprio pensiero “più critico”.
Dall’innamoramento alla costruzione di una relazione stabile
La scelta del Partner – Parte 2
La caratteristica saliente della “fase” di innamoramento è una particolare “permeabilità del sé” che mette a rischio i confini soggettivi, fa sentire fragili e bisognosi dell’altro; la sensazione è quella di non bastare più a sé stessi, di avere continuamente bisogno che l’altro, con la sua presenza, ci completi: abbiamo scelto il partner adatto a contenere alcune parti di noi, ne abbiamo fatto il nostro complemento e la sua assenza ci fa subito sentire la mancanza di qualcosa di vitale e insostituibile. In realtà quel senso di vuoto preesisteva, ma è solo con la presenza dell’altro che riusciamo a entrarvi in contatto: due mondi si incontrano a due diversi livelli, quello del quotidiano e quello interno. (Menghi, 1999).
La scelta del partner avviene anche grazie alla possibilità di riconoscere nella neo relazione, qualcosa di “familiare” che garantisca un senso di continuità dell’esperienza interna. L’idealizzazione, tipica di questa fase, si esprime infatti nell’illusione di far combaciare il compagno di interazione interno (Norsa e Zavattini, 1977), con la persona reale: tanto più l’altro corrisponde a tale illusione tanto maggiore sarà il sentimento di unità e coesione del sé .
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La tendenza all’idealizzazione ha quindi due componenti psichiche: la coazione a ripetere, che porta a riconoscere nel presente ciò che è già stato sperimentato affettivamente nel passato, e una spinta al cambiamento, cioè la possibilità di proiettarsi nel futuro; la coppia appena formata condivide l’illusione di poter costruire insieme qualcosa di nuovo e diverso dalla condizione iniziale, superando limiti e confini precedenti. Questo avviene attraverso un processo che passa continuamente da momenti di coinvolgimento nella relazione a momenti di svincolo da essa, durante i quali ciascuno torna a una propria dimensione intrapsichica modificato dall’incontro con il partner.
Il passaggio dalla fase di innamoramento alla scelta di un rapporto più duraturo e stabile comporta il superamento di momenti di crisi: scegliere un partner comporta inevitabilmente la separazione da alcune parti di noi. L’incontro con quell’altra parte del nostro mondo interno, che prima ignoravamo, e la progressiva attenzione del partner ad alcune parti di noi che inaspettatamente vengono valorizzate o attaccate e criticate, ci spingono inevitabilmente, pena la fine della relazione e la perdita di un’occasione importante per imparare qualcosa su di noi, a riorganizzare e ricostruire l’immagine che abbiamo di noi stessi.
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Riorganizzare il proprio mondo interno è un processo spesso doloroso e difficile perché costringe a separarsi da quelle parti di noi alle quali siamo “attaccati con la colla” per dare spazio ad un unione ad un altro livello (Menghi, 1999).
Superata la fase di innamoramento il rapporto subisce, nei migliore dei casi, una trasformazione, ricomponendosi in modo tale che ciascuno abbia una visione più integrata di sé, separato dall’altro (Freud, 1921). La consuetudine alla vita in comune porta infatti alla costruzione di un clima di intimità che permette di tollerare sia la fine dell’idealizzazione sia la fine delle dinamiche di coinvolgimento e separazione. Il sentimento di intimità, che è la consapevolezza della disponibilità affettiva reciproca all’interno della relazione, è infatti fortemente ancorato al senso di appartenenza reciproco e si esprime in regole condivise che tengono conto di compiti reali e ruoli derivanti anche dal contesto sociale e culturale di appartenenza.
L’intimità si costruisce e viene mantenuta attraverso un monitoraggio affettivo reciproco (Norsa e Zavattini, 1997), cioè grazie a un continuo processo di “scannerizzazione” dei propri stati interni e di quelli del partner; questo continuo processo di verifica e ricerca di sintonizzazione lascia spazio a conferme, ma anche a revisioni e riparazioni delle proprie aspettative. Da questo punto di vista tutti quei micro-agiti (regole, abitudini, routine, modalità tipiche di comunicazione) che caratterizzano l’assetto stabile della relazione di coppia, veicolano comunicazioni significative leggibili all’interno della storia di coppia e dei significati condivisi; questi piccoli eventi quotidiani hanno il potere di risvegliare rappresentazioni interne individuali di eventi con un particolare scenario affettivo e permettono a ciascun partner di rielaborare, attraverso la relazione, le varie rappresentazioni di “sé con l’altro” che alimentano il senso di identità soggettiva. La complicità che si stabilisce tra i partner inoltre offre l’opportunità di usare l’altro come estensione del sé, nel senso che stare in coppia permette di continuare quel processo di svincolo da certi aspetti di sé identificati con alcuni modelli familiari criticati o rifiutati, e allo stesso tempo permette di definire meglio altri aspetti di sé collegati ai modelli della famiglia di origine che invece si vuole conservare e approfondire in accordo con la scelta del partner.
BIBLIOGRAFIA:
Freud S, Alcuni meccanismi nevrotici nella gelosia, paranoia, omosessualità (1921, in Opere, vol.IX, Boringhieri, Torino)
Menghi P (1999) “La coppia utile”, in “La crisi della coppia”, Raffaello Cortina, Milano
Norsa D, Zavattini G C (1997) “Intimità e collusione. Teoria e tecnica della psicoterapia psicoanalitica di coppia”, Ragffaello Cortina Editore, Milano
Sandler, J. (1993) Note psicoanalitiche sull’amore In D.N. Stern e M. Ammaniti (A cura di) Psicoanalisi dell’amore. Bari: Laterza, .46-57.
Zavattini G.C. (1999 a) Identificazioni genitoriali e trasmissione transgenerazionale delle relazioni rappresentate, in Loriedo C., Solfaroli Camillocci D., Micheli M. (a cura di) Genitori. Individui e relazioni intergenerazionali nella famiglia, Milano, Angeli, pp. 50-58).
La chimica dell’innamoramento: Ebbrezza d’amore VS Sobrietà di coppia
DOPAMINA, NORADRENALINA e FENILETILAMINA: molecole da innamorati.
Ognuno di noi quando s’innamora dice di provare delle sensazioni: c’è chi alla vista dell’amato “sente le farfalle nello stomaco”, chi riferisce di “avere la testa fra le nuvole”,e chi, già di primo mattino, quando ancora tutti dormono in piedi, è esaltato “all’ennesima potenza”. Pare proprio che quest’euforia da innamoramento sia legata alla mediazione di “sostanze stimolanti” quali dopamina, norandrenalina ed in particolar modo dalla feniletilamina (PEA) che, a differenza delle precedenti, è un ormone appartenente alla classe delle anfetamine.
La mancanza di appetito e l’iperattività dell’innamorato/a pare dipendano dagli alti livelli di PEA. A tal proposito Liebowitz (1983) condusse una ricerca sui cosiddetti “malati d’amore”, persone che hanno come unico obiettivo quello di avere una relazione, incappando il più delle volte nella scelta di persone non adatte a loro. Sottopose il campione ad un trattamento con farmaci IMAO (Inibitori delle Mono Amino Ossidasi) i quali fanno aumentare i livelli di PEA (ed in realtà anche di altri neurotrasmettitori, quali i precedenti). Ciò che si è osservato è che tale ricerca “dell’amore a tutti i costi” cessava. Il farmaco IMAO porta ad un aumento dei livelli di PEA e questo ha reso inutile per “gli appassionati dell’ebbrezza d’amore” perpetrare la loro ricerca di stimoli euforici indotti dal suddetto ormone. Queste le conclusioni di Liebowitz sostenute anche da Sabelli (Sabelli e coll. , 1990; Sabelli, 1991) il quale rilevò che nelle urine di persone “felicemente accoppiate” vi erano alti livelli di metaboliti della PEA mentre questo non si è verificato nelle persone “tristemente accoppiate”.
A questo punto qualcuno di voi potrebbe pensare: “Bene procuriamoci questa benedetta PEA (che tra l’altro è contenuta anche nel cioccolato) e viviamo per sempre “euforici e contenti” . SBAGLIATO!!!
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Col tempo diventiamo tolleranti e dovremmo assumere sempre più PEA per sentirne gli effetti esaltanti. E nonostante ciò dobbiamo arrenderci all’evidenza “scientifica” che dopo due o tre anni il nostro corpo non può più produrne la quantità necessaria, nonostante la carriera di mangiatori di cioccolato sia già avviata.
Alla luce di quanto detto la faccenda Amore potrebbe apparire molto triste, ma è ancora presto per disperarsi.
In base a quanto teorizzato da Liebowitz per “gli appassionati dell’ebbrezza d’amore” il calo degli effetti della PEA significherebbe la fine della storia, mentre, per coloro che vivono nella “sobrietà” la loro relazione amorosa, il perdurare dell’amore pare essere mediato dall’aumento della liberazione di endorfine, sostanze chimiche di natura proteica prodotte dal nostro organismo, che hanno la proprietà di essere un antidolirifico naturale e per tanto hanno l’effetto di portare pace, calma e tranquillità.
E sulla scia di queste emozioni s’instaurerebbe un legame affettivo duraturo che nulla ha a che vedere con lo sconvolgente effetto dell’innamoramento ma che consente di godersi serenamente il presente, senza la vana e continua ricerca di qualcosa o qualcuno.
Questa è solo un piccola curiosità su ciò che sta alla base del grande fenomeno Amore, tuttavia per chi di voi lettori si sentisse “appasionato dell’ebrezza d’amore” , nonché collezionista d’innumerevoli “relazioni toccata e fuga”, in questo estratto potrebbe trovare una delle tante spiegazioni possibili.
Sui piatti delle bilancia “Ebbrezza d’amore” e “sobrietà di coppia” quale andrà per la maggiore?
BIBLIOGRAFIA:
Liebowitz, M. R. (1983). The chemistry of love. Boston: Little Brown. Trad. it: La Chimica dell’amore. Milano: Rizzoli, 1984
Sabelli, H. C. (1991). Rapid treatment of depression with selegiline-phenylalanine combination. Journal of Clinical Psychology, 24 63-64
Sabelli, H. C., Carlson-Sabelli, L., Javaid, J. L. (1990). The thermodynamics of bipolarity. A bifurcation model of bipolar illness and bipolar character and its psychoterapeutic applications. Psychiatry, 53, 346-368.
Dèttore, D. (2001). Psicologia e psicopatologia del comportamento sessuale. Milano: Mc Graw-Hill
Inciviltà tra colleghi: Emozioni a confronto tra uomini e donne.
Secondo un recente studio, quando nell’ambiente di lavoro assistiamo a comportamenti ingiusti e poco civili nei confronti dei colleghi, reagiamo con un ampia gamma di emozioni negative, soprattutto quando si tratta di colleghi dello stesso sesso.
L’inciviltà sul luogo di lavoro è pratica comune e la mancanza di rispetto verso i colleghi colpisce emotivamente non solo le vittime ma anche gli osservatori. Un campione di 453 uomini e donne, dipendenti nel campo della ristorazione, sono stati interrogati circa le emozioni di rabbia, demoralizzazione, la paura e l’ansia, provate nell’assistere a comportamenti incivili nei confronti dei colleghi.
I risultati mostrano che le donne sperimentano livelli significativamente più alti di rabbia, demoralizzazione, paura e ansia quando la mancanza di rispetto è diretta ad altre donne, rispetto a quando colpisce gli uomini. La demoralizzazione inoltre è l’emozione negativa più intensa nel caso in cui le vittime siano altre donne. Gli osservatori di sesso maschile invece sono risultati significativamente più arrabbiati, impauriti e preoccupati, nel caso in cui osservavano dipendenti dello stesso sesso rispetto a quelli dell’altro sesso. È interessante notare che demoralizzazione non è stata un’emozione negativa vissuta dagli osservatori maschi.
Questi risultati sottolineano il ruolo delle differenze di genere nella percezione dei maltrattamenti e nelle risonanze emotive nei contesti organizzativi.
La ricetta è un mix di contatto fisico, fiducia, risate e buona musica.
Robin Dunbar dopo aver indagato sul numero di amicizie che un individuo può tenere a mente, 150 amici appunto, continua chiedendosi in che modo sia possibile raggiungere questo scopo. Il primo aspetto preso in considerazione dall’antropologo è il tatto, il senso che più ci lega agli altri ed esprime meglio ciò che proviamo per loro. Anche nel mondo animale le effusioni tattili sono importanti, ad esempio tra le scimmie esiste la pratica del grooming una sorta di spulciamento, che oltre a togliere pulci o sporcizia, serve da vero e proprio massaggio.
Tutte le stimolazioni fisiche inducono la produzione di endorfine, sostanze che regolano il senso di benessere e di rilassatezza nell’organismo, agendo anche sul circuito del dolore con un’azione naturale, simile a quella provocata da oppio e morfina.
Il contatto corporeo con gli altri regola le nostre vite in modi di cui non siamo completamente consapevoli; trattandosi di un canale non-verbale, che per i linguisti consiste nel 90% della comunicazione, verrebbe percepito solo a livello profondo, preverbale, dall’emisfero destro: il cervello delle emozioni, quello evoluzionisticamente più antico. Mentre i centri del linguaggio, più recenti, si trovano nell’emisfero sinistro.
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Un altro aspetto fondante il sistema sociale è la fiducia, caratterizzata dalla reciprocità: “io gratto la schiena a te, tu la gratti a me”. La sua base chimica sarebbe l’ossitocina, una sostanza che contribuisce a generare una sensazione di attaccamento e la cui presenza sembrerebbe differenziare le specie monogame dalle altre: viene prodotta infatti in grandi quantità durante l’allattamento, i rapporti sessuali e appunto quando si sperimenta fiducia.
Quello che Dunbar suggerisce non è che la nostra vita sia interamente regolata da processi chimici, ma che particolari molecole ci renderebbero sensibili a certi segnali inviati dall’ambiente. Un esempio dal mondo animale, è la reazione chiamata “attacco/fuga” in situazioni di pericolo, innescata dall’adrenalina. Nell’uomo il rilascio di questo ormone predispone il corpo all’azione, ma come si comporterà l’individuo dipende in larga parte dalla lettura che darà della situazione. Dunbar riflette sul fatto che nelle situazioni a carattere sociale ciò che predispone ad “attaccar bottone” è ridere insieme, perchè ciò crea un senso di coesione e cameratismo, sia che si tratti di un noioso meeting di affari o di uno spettacolo comico in teatro. La risata non solo ha il potere di far sentire rilassati e carichi di energia allo stesso tempo, ma anche in pace col mondo e più propensi ad aprirci all’altro.
L’ultima caratteristica sociale trattata dallo studioso è la musica, considerata per molto tempo un “di più” evolutivo dalla scienza, qualcosa di non strettamente necessario per la sopravvivenza della nostra specie. La spiegazione per un fenomeno a cui la nostra specie assegna tanta importanza per Darwin sarebbe che la musica ha la stessa funzione della coda nel pavone: una forma di pubblicità sessuale. In altre parole la destrezza in quest’arte mostrerebbe la qualità dei geni di chi la esegue, rendendo il soggetto più appetibile durante il corteggiamento. Lo psicologo Geoffrey Miller (2) studiando le vite di alcuni compositori, ha effettivamente notato che la fase più creativa corrispondeva a quella sessualmente più attiva e la fase meno produttiva si verificava in coincidenza delle unioni amorose. Questo senza dubbio spiegherebbe il fascino che le pop star hanno sempre avuto sui fan nel corso del tempo!
BIBLIOGRAFIA:
Dunbar R. (2010). “How Many Friends Does One Person Need? Dunbar’s Number and Other Evolutionary Quirks” London (UK) Farber and Farber Limited
Miller G. (2000). The mating mind: How sexual choice shaped the evolution of human nature New York, Doubleday
Non imparo perché… sono pigro e incapace. O per dire qualcosa a mamma e papà? #1
Disturbi Specifici dell’Apprendimento e Attaccamento (Parte 1)
Quella di Disturbo Specifico dell’Apprendimento (DSA) è una diagnosi che sempre più si sta affermando nelle realtà scolastiche, forse grazie anche alla crescente attenzione che si sta sviluppando, vista l’incidenza stimata intorno al 3-4% della popolazione scolastica. Anche il gossip e i media ultimamente hanno dato importanza al tema DSA grazie ai “famosi” che hanno sofferto di DSA in età scolare, come Napoleone, Galileo Galilei, Isaac Newton, Pablo Picasso ma anche Tom Cruise, Cher, Quentin Tarantino, Muhammed Ali.
Allo stato dell’arte, le teorie più diffuse fanno riferimento ai DSA come a problematiche legate a malfunzionamenti neurobiologici e genetici che compromettono alcune funzioni di base dell’apprendimento. Esistono, però, altri modelli che considerano i DSA come una problematica multi-fattoriale, in cui anche gli aspetti relazionali hanno un peso consistente. Nonostante non siano molti, alcuni studi presenti in letteratura si sono interessati agli stili di attaccamento dei bambini dislessici, disgrafici, disortografici o discalculici.
Cerchiamo di fare una fotografia sui dati disponibili in letteratura.
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Come è noto, nel caso in cui il bambino sviluppi schemi cognitivi interpersonali di sé, dell’altro e di sé con l’altro (i famosi internal working models; Aisworth et al., 1978) riconducibili a pattern di attaccamento di tipo insicuro, frequentemente il bambino sperimenta fragilità emotiva e mancanza di condizioni ambientali capaci di favorire lo sviluppo delle funzioni cognitive di base. Tale funzioni, in breve, comprendono quelle percettive, legate alla motricità e che permettono la realizzazione di una rappresentazione interna del mondo esterno, il linguaggio, che consente di descrivere tale rappresentazione e di operare su di essa, la funzione simbolica, che permette di evocare la rappresentazione mentale di un oggetto in assenza dello stesso e logica, che permette di operare con la funzione simbolica.
Tali funzioni vengono considerate prerequisiti della competenza umana ad apprendere. Un ambiente sfavorevole allo sviluppo di queste funzioni porta spesso a un disinvestimento intellettivo da parte del bambino che rinuncia a usare le proprie competenze cognitive per imparare, e che viene, a un primo sguardo, letto dagli adulti come “pigrizia” o “lentezza”. Ciò può manifestarsi, a livello sintomatologico, con rallentamento psicomotorio e con problematiche di apprendimento.
Alcuni modelli teorici, infatti, considerano il ritardo dello sviluppo psicomotorio e il DSA come manifestazione comportamentale di problematiche legate all’attaccamento, considerate concausa del carente o inadeguato sviluppo psicomotorio e psicolinguistico (Simonetta, 2007).
Come ricordano le teorie del cognitivismo evoluzionista, il sintomo assume significato in funzione del pattern di attaccamento di cui è espressione. Il sintomo entra, così, a far parte della relazione con lo scopo di “curare la relazione ferita” (Lambruschi, 2004). I significati legati al sintomo nel bambino sono di frequente di tipo emotivo/affettivo e sono alimentati dai bisogni di “cura” e di protezione, presenti nella relazione di attaccamento con i genitori, negli equilibri del loro rapporto di coppia e negli schemi interpersonali disfunzionali dei genitori.
Sulla scia di queste riflessioni, potremmo pensare ai DSA come ad un disagio multi-fattoriale, che non coinvolge solo elementi legati allo studio (focus di riabilitazioni e trattamenti logopedici) o al contesto scolastico in generale, in quanto luogo principe dell’apprendere; forse questi bambini non imparano non perché pigri, lenti o incapaci ma perché troppo impegnati dal bisogno di dire qualcosa a mamma e papà…
Ainsworth M., Blehar M., Waters E., & Wall S. (1978). Patterns of Attachment. Hillsdale, NJ: Erlbaum.
Lambruschi F. (a cura di) (2004). Psicoterapia cognitiva dell’età evolutiva. Bollati Boringhieri: Torino.
Simonetta E. (2005). La dislessia. Un nuovo approccio per la diagnosi e il trattamento. Carlo Editore Editore: Milano.
Simonetta E. (2007). Io non imparo perché sto male. Disagio infantile e disgnosia. Carlo Amore Editore: Milano.
The therapeutic effectiveness of video feedback – Part 3
Previous installments: Part 1 – Part 2
This series has highlighted that video feedback training successfully increases the sensitivity of mothers with psychopathology and in the context of child adoption. From my previous series, Your first day of school will be scary, we know that anxiety disorders affect the way that mothers’ converse with their children. The literature also shows that mothers’ conversations with their young children tend to be characterized by emotion rich language that is linked to children’s understanding of self and emotions (Fivush, 2007). Since video feedback training has been shown to improve mothers’ sensitivity towards their children, research has examined the effect of training mothers to use emotion-rich conversation style with their children.
Related series: Parents' words and Anxiety Disorders.
Few studies have examined the benefits of training mothers to use emotion rich language in conversations with their children. Peterson, Jesso and McCabe (1999) longitudinally assessed the benefit of training 10 mothers to have more emotion-based, open-ended and longer conversations with their 43 month old children. Children’s discussions and verbal ability were assessed before and after the intervention. One year later, compared to the 10 mothers who did not receive training, trained mothers showed an increase in open-ended prompts, ‘wh’ context questions and verbal and non-verbal responses to their children. In turn, the children of trained mothers had conversations that were richer in context-setting description.
In a more recent study, Reese and Newcombie (2007) trained 100 mothers to speak to their 19-month old infants using open-ended questions, and, where infants provided a verbal or non-verbal response, to confirm their contribution to the conversation. During reassessments when the infants were 34 months of age, compared to waitlist control mothers, trained mothers asked more open-ended questions, responded to their children’s contributions to the conversations more, and had more elaborative conversations overall. The discourse of the children of trained mothers was also characterized by more memory elaborations, and higher self recognition than the discourse of children of untrained mothers.
These two studies provided insight into the benefits of training mothers to use more emotion rich, elaborative conversation styles. However, as part of the training in both studies, mothers were also instructed to spend additional time with their children. In the next installment of this series will cover a study which attempted to control for this factor. Additionally, I will be discussing the possible effect of more emotionally balanced discourse on children’s behavior.
Ansia e paura a confronto: espressioni diverse per diverse funzioni.
– Rassegna Stampa –
Le emozioni di ansia e paura sono spesso confuse, tuttavia, gli studi sulle reazioni difensive nei roditori, in condizioni naturali, suggeriscono che l’ansia sia funzionalmente distinta dalla paura. Un gruppo di ricercatori dell’Institute of Psychiatry (IOP) al King’s College di Londra hanno, per la prima volta nell’uomo, identificato l’espressione facciale dell’ansia, distinguendola da quella di paura.
L’espressione di un volto ansioso comprenderebbe una “scansione” visiva dell’ambiente circostante per la valutazione del rischio imminente, e sembra essere associata a situazioni minacciose in cui il rischio è ambiguo e poco chiaro. Contrariamente la paura, e la relativa espressione facciale, compaiono in situazioni in cui il pericolo è chiaramente definito.
Questi risultati suggeriscono che l’espressione del viso ansioso nell’uomo – guizzo degli occhi e rotazione della testa, come nei roditori – serve ad aumentare la raccolta di informazioni e conoscenza dell’ambiente potenzialmente pericoloso attraverso l’espansione del campo visivo e di quello uditivo. Questa reazione sembra avere una componente sia funzionale che sociale, infatti oltre a facilitare una rapida valutazione dell’ambiente circostante, permette di comunicare agli altri il nostro stato emotivo.
Perkins, Adam M.;Inchley-Mort, Sophie L.;Pickering, Alan D.;Corr, Philip J.;Burgess, Adrian P.; (2012); A facial expression for anxiety.Journal of Personality and Social Psychology, Jan 9 , 2012, No Pagination Specified. doi: 10.1037/a0026825
L’impotenza (o Disturbo dell’Erezione)
Il termine impotenza da sempre genera equivoci ed evoca fantasmi nel nostro immaginario culturale, rimandando ad un’idea di generale inadeguatezza della persona, ed è pertanto connotato in senso fortemente negativo.
Attualmente si parla preferibilmente di “disturbo dell’erezione” o “disturbo dell’eccitazione maschile”, inteso come incapacità persistente o ricorrente di raggiungere o mantenere, fino al completamento dell’attività sessuale, un’adeguata erezione, incapacità che causa notevole disagio o difficoltà interpersonali. Talvolta è associato ad un disturbo del desiderio e/o a difficoltà eiaculatorie (APA, 1994).
Negli ultimi anni si è assistito ad un considerevole incremento delle richieste di trattamento per questo problema, probabilmente anche come conseguenza di un cambiamento culturale che ha visto il maschio uscire progressivamente dal cliché dell’ “uomo che non deve chiedere mai” e più attento e rispettoso anche delle proprie difficoltà. Tuttavia, la vergogna di fronte a questo argomento è ancora un ostacolo forte ad un’efficace presa in carico, senza contare il disorientamento dovuto a tanta (cattiva) informazione che, anche grazie a internet, spinge sempre di più le persone a farsi diagnosi da sé ed a tentare trattamenti senza un’adeguata indicazione medica e/o psicologica, col rischio di cronicizzare il disturbo e peggiorare la situazione.
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Sebbene la percentuale aumenti con l’avanzare dell’età, inoltre, non è affatto vero che il disturbo dell’erezione sia una prerogativa di uomini maturi o anziani, anzi: negli ultimi tempi si è assistito ad un considerevole aumento anche nella popolazione più giovane.
Ma quali sono i meccanismi coinvolti nella genesi e nel mantenimento di questo disturbo?
I fattori di rischio sono diversi e comprendono disturbi vascolari, traumi spinali o pelvici, neuropatie, disfunzioni ormonali, fumo, alcol, farmaci, ansia, depressione, problemi di coppia ed elementi di contesto (Simonelli, 1997).
Vorrei qui soffermarmi su un meccanismo molto importante non solo nell’eziologia del disturbo ma anche e soprattutto nel suo mantenimento: la reazione di allarme.
La reazione di allarme, infatti, attivando il sistema nervoso ortosimpatico, antagonista del sistema parasimpatico che sostiene l’erezione, funziona da “estintore” per l’eccitazione, facendo defluire il sangue dalla zona genitale verso i muscoli di gambe e braccia, preparando così il corpo per la reazione di attacco/fuga.
La paura di fronte al pericolo è un’emozione fondamentale che ci ha permesso di sopravvivere come specie: sarebbe molto svantaggioso essere sessualmente eccitati invece che pronti alla fuga nel momento in cui ci troviamo di fronte ad un predatore! Noi esseri umani, tuttavia, abbiamo teorie molto personali sulla pericolosità degli eventi: l’erezione può mancare proprio perché è “pericoloso” non averla in quel momento!
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A volte questo circuito di allarme è innescato da piccoli incidenti che fanno arrivare la persona spaventata al rapporto successivo, come una profezia che si autodetermina.
A volte gli uomini vengono colti impreparati da un ritardo dell’erezione psicogena, ovvero quella quota di eccitazione regolata da un centro, situato in sede toraco-lombare del midollo spinale, che riceve segnali dal cervello e produce eccitazione come risposta a ciò che abbiamo pensato, desiderato, visto, udito o toccato. Questo centro funziona in sinergia con un altro centro, situato nella regione sacrale, che genera l‘eccitazione riflessa, dovuta alla stimolazione diretta dell’area genitale. Questi meccanismi funzionano in modi diversi nell’arco della nostra vita: mentre in giovane età l’eccitazione psicogena è assolutamente predominante, col passare degli anni diventa necessario aggiungere una quota sempre maggiore di stimolazione diretta.
Lo stesso dicasi per la fisiologica oscillazione che interessa l’erezione: come tutte le funzioni fisiologiche, infatti, l’eccitazione non è in continua e stabile crescita, ma aumenta e diminuisce. L’entità di tali oscillazioni è minima in giovanissima età, quasi impercettibile, per diventare più marcata col passare del tempo.
Se la coppia non trova il modo per integrare questi cambiamenti in un modo diverso di fare l’amore possono insorgere numerose difficoltà della gestione dell’eccitazione (Fenelli, Lorenzini, 1999; Simonelli, 1997).
Altre volte l’allarme è collegato a meccanismi più complessi: la paura di non essere all’altezza, del rifiuto, di perdere l’amore o la stima della propria compagna; il bisogno di tenere sotto controllo ogni evento somatico; il sentirsi vulnerabili; la tendenza ad attribuire a se stessi la responsabilità di ogni insuccesso; la paura di abbandonarsi; ecc.
Il modo di risolvere questo problema, non è essere eccitati mentre si ha paura, ma non avere paura, cioè risolvere la questione che crea l’allarme e concentrarsi unicamente sul piacere, avendo fiducia nel fatto che, cercando solo piacere condiviso, l’erezione comparirà come “regalo”.
In questo senso molto importante è il ruolo delle donne nella prevenzione del disturbo dell’erezione: un atteggiamento di squalifica e l’incapacità di affrontare un momento di difficoltà in modo cooperativo e complice è spesso all’origine di una cronicizzazione del disturbo che, invece di restare un episodio o essere occasione per esplorare nuovi modi di stare nella sessualità, può diventare un ostacolo insormontabile.
In generale la prevenzione, e dunque la buona informazione, sono di fondamentale importanza, soprattutto data la crescente diffusione del disturbo dell’erezione anche fra i giovani, ma sarebbe ingenuo credere che un intervento psico-educativo, di per sé, sia sufficiente per far fronte al problema e risolvere il disturbo ove già presente: in questi casi una diagnosi precoce ed un tempestivo intervento terapeutico rappresentano il migliore strumento per evitare la cronicizzazione e garantire una prognosi più favorevole.
BIBLIOGRAFIA:
American Psychiatric Association (1944). Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders , Fourth Edition.
American Psychiatric Association: Washington D.C. (tr.it. Andreoli, V., Cassano, G.B., Rossi, R. (a cura di) (1996). DSM-IV. Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali, Masson: Milano).
Fenelli, A., Lorenzini, R. (1999). Clinica delle disfunzioni sessuali. Carocci: Roma.
Simonelli, C. (a cura di) (1997). Diagnosi e trattamento delle disfunzioni sessuali. FrancoAngeli: Milano.
Sotto le lenzuola: Uomini troppo “golosi” e troppo “ruminatori”? Cause o correlazioni nella Disfunzione Erettile
Allarme virilità per i maschi emiliani. I disturbi sessuali, infatti, colpiscono oltre 120.000 uomini in regione. Le cause? Il 50% indica lo stress e i ritmi frenetici, che hanno effetti negativi sull’erezione, mentre il 20% lamenta insicurezza e inadeguatezza di fronte a donne sempre più esigenti.
Questo è quanto riportato in un articolo del Resto del Carlino e che emerge da dati di un’indagine nazionale, da cui prende spunto l’evento “Benessere sessuale. Libertà di amare sempre”, che ha visto Bologna in primo piano con un incontro di approfondimento rivolto ai medici di medicina generale.
Ma non allarmatevi emiliani! Basta fare un giro sul web e ce n’è per ogni Regione, dalla Sicilia, passando per le Marche fino al Veneto, un problema Nazionale insomma che vede gli italiani primi, nella classifica europea, fruitori della “mentina dell’amore”.
Gli studi sulla sessualità hanno mostrato significativi progressi negli ultimi 30 anni, in campo sia medico che psicologico: ad oggi si colloca al crocevia di scienze diverse e molto lontane tra loro e comunque c’è poco accordo circa le cause, eccetto il fatto che siano multiple (Wincze & Carey, 2001), e che la relazione tra le disfunzioni sessuali e l’umore sia “complessa e multidirezionale” (Weiner & Rosen, 1999, p. 412).
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Nello specifico, la Disfunzione Erettile (DE) è definita dalla Consensus Conference dei National Institutes of Health del 1993 come “l’incapacità persistente a raggiungere e/o mantenere un erezione sufficiente per avere un rapporto sessuale soddisfacente”.
Dalla recente letteratura emerge come tradizionalmente si possano identificare tre tipi di cause: organica, psichica o mista, mettendo così in luce come i fattori biologici o intrapsichici, indipendentemente o in maniera congiunta, possano esitare in un tale sintomo (E.A. Jannini, A. Lenzi, M.A. Maggi, 2007).
In ambito psicologico, vi è una ricca tradizione di teorizzazioni sulle probabili cause dei problemi sessuali, e c’è una singolare somiglianza tra la maggior parte di queste teorie e le teorie che sono state proposte per spiegare lo sviluppo e il mantenimento della depressione e dell’ansia. Esaminando una recente Review (Laurent e Simons, 2009) sulle disfunzioni sessuali, ansia e depressione, emergono diverse ricerche che considerano la disfunzione erettile, nello specifico, come un condizione comune negli uomini depressi.
Nell’insieme, questi studi mostrano che fino al 50% degli uomini con disfunzione erettile sono depressi o mostrano sintomi depressivi, e che la depressione è 2-3 volte più probabile in uomini con disfunzione erettile, che in uomini senza alcun disturbo dell’eccitazione sessuale.
Ovvio, viene da pensare, che un uomo in tale condizione si deprima un po’, infatti la maggior parte degli studi forniscono informazioni utili circa la relazione tra depressione e problemi dell’eccitazione sessuale negli uomini ma, essendo descrittivi e correlazionali, non fanno riferimento direttamente a una direzione causale tra disfunzione erettile e depressione.
Poche sono le ricerche che hanno cercato di capire i legami causali tra depressione e DE utilizzando disegni sperimentali; nessuno degli studi ha stabilito chiaramente se le disfunzioni sessuali siano causate dalla depressione o se la depressione sia causata dalle disfunzioni sessuali.
Alti livelli di comorbidità, insieme alla mancanza di una chiara relazione causale tra le disfunzioni sessuali in generale e la depressione (Balon, 2006), suggeriscono che ognuna possa essere sintomo dell’altra, avendo rilevato come i sintomi depressivi siano uno dei maggiori problemi nei pazienti con disfunzioni sessuali, e come le disfunzioni sessuali siano riscontrate in pazienti depressi.
In conclusione, un’implicazione diretta o indiretta della depressione o dell’ansia come causa o conseguenza delle disfunzioni sessuali è comune a tutte le teorie.
Partendo da questi dati, con alcuni colleghi stiamo lavorando per comprendere se, e in che modo, alcuni stili di pensiero disfunzionali come ruminazione e rimuginio (per cui la letteratura ha già ampiamente dimostrato il ruolo predittivo, rispettivamente in Depressione e Ansia) possano avere anche un ruolo nella DE.
Ancora agli albori, questo lavoro, ha confermato la presenza di un pensiero perseverativo ricorrente nei soggetti con disfunzioni sessuali, e il ruolo di questo nel determinare peggiori performance e uno stato emotivo più negativo. In particolare, abbiamo ipotizzato una strategia di funzionamento, che abbiamo chiamato “strategia di ragionamento verbale”, utilizzata prevalentemente da soggetti con diagnosi di DE. Questi soggetti tenderebbero a mettere in atto un pensiero verbale perseverativo e ricorrente: ruminazione (“perché sta succedendo a me?”, “perché capita sempre così?”) e rimuginio (“andrà malissimo”, “non ce la farò anche questa volta”).
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L’utilizzo di queste strategie di ragionamento verbale, caratterizzate dalla rigidità e dalla ripetitività del pensiero negativo, comporta l’attivazione di stati emotivi negativi e facilita la continua produzione di stimoli attivatori interni nella forma di pensieri negativi automatici, causando il perdurare dello stato emotivo negativo.
Confrontando poi un campione clinico con un campione di controllo, i soggetti clinici hanno riportato livelli significativamente più alti di sintomi depressivi e ruminazione; emerge inoltre una significativa correlazione tra la disfunzione erettile, sintomi depressivi e ruminazione, la quale fungerebbe da fattore predittivo nella DE, al di là della sintomatologia depressiva.
La ricerca ovviamente ha ancora molta strada da percorrere in tal senso, ad esempio come reagiscono soggetti senza disfunzioni sessuali di fronte a sporadici episodi di DE?
Fiduciosi che non tutti ricorrano golosamente alla caramella dell’amore, fondamentale sembra essere l’intervento di prevenzione rispetto a queste tematiche, come l’importante campagna internazionale “Basta Scuse”, che ha visto lo scorso anno le tre più grandi società scientifiche italiane coinvolte nella promozione della salute maschile: SIA (Società Italiana di Andrologia), SIAMS (Società Italiana di Andrologia e Medicina della Sessualità) e SIU (Società Italiana di Urologia), da sempre impegnate nella diffusione di una sempre più ampia cultura della prevenzione della DE, con lo scopo di sensibilizzare gli uomini alle problematiche sessuali.
La campagna ha avuto un grosso successo e non è un caso, a parer mio, che lo spot pubblicitario della campagna citi “forse non ci sono riuscito perché sono stanco, forse non ci sono riuscito perché il cane ci guardava, forse perché il film faceva paura, forse perché avevo mangiato troppo, o forse perché è qualcos’altro?”
In un ottica ovviamente psicologica, ma anche squisitamente olistica, e diversamente non potrebbe essere in questo caso, credo che in tutte le “impotenze”, anche le più puramente organiche, la componente psicologica non possa mancare. Chissà però, quanti “maschi” emiliani e non, sarebbero disposti, ad essere meno “golosi” di caramelle, disposti a chiedersi meno “perché” e più “come”?
BIBLIOGRAFIA:
Balon, R. (2006). Mood, anxiety, and physical illness: Body and mind, or mind and body? Depression and Anxiety, 23, 377−387.
Jannini, E.A., Lenzi, A. & Maggi, M.A., (2007) Sessuologia medica. Trattato di psicosessuologia e medicina della sessualità. Elsevier.
Laurent, S. M. & Simons, A.D. (2009) Sexual dysfunction in depression and anxiety: conceptualizing sexual dysfunction as part of an internalizing dimension. Clinical Psychology Review, 29, 573-585.
Weiner, D. N., & Rosen, R. C. (1999). Sexual dysfunctions and disorders. In T. Millon, P. H.
Blaney, & R. D. Davis (Eds.), Oxford textbook of psychopathology (pp. 410−443). New York: Oxford University Press.
Wincze, J. P., & Carey, M. P. (2001). Sexual dysfunction: A guide for assessment and treatment (2nd ed.). New York: The Guilford Press.
Il punto sull’intelligenza: la review “Intelligence: New Findings and Theoretical Developments”
– Rassegna Stampa –
Un grande classico sull’intelligenza dal titolo Knowns and Unknowns of Intelligence fu pubblicato sulla rivista American Psychologist nel 1996. Sedici anni dopo, un gruppo di autori tra cui Richard Nisbett, Joshua Aronson e Diane Halpern, pubblicano un fondamentale contributo di review in cui discutono gli sviluppi empirici e teorici occorsi dal 1996 ad oggi in relazione alla tematica dell’intelligenza.
Il titolo pretenzioso recita non di meno che “Intelligence: New Findings and Theoretical Developments”: facendo il punto sulle più recenti evidenze empiriche si affrontano tematiche cruciali quali (solo per citarne alcune) la relazione tra intelligenza e memoria di lavoro, l’ereditabilità del QI, le caratteristiche dell’ intelligenza fluida e cristallizzata a livello comportamentale e biologico, la modificabilità e persistenza del cambiamento del QI a seguito di interventi riabilitativi infantili così come l’effetto dello stress sull’intelligenza.
E’ nostro piacere segnalarvi che l’articolo è gratuitamente scaricabile da questo link.
BIBLIOGRAFIA:
Nisbett, R. E., Aronson, J., Blair, C., Dickens, W., Flynn, J., Halpern, D. F., & Turkheimer, E.(2012, January 2). Intelligence: New Findings and Theoretical Developments. AmericanPsychologist. Advance online publication. doi: 10.1037/a0026699
Neisser, Ulrich; Boodoo, Gwyneth; Bouchard, Thomas J.; Boykin, A. Wade; Brody, Nathan; Ceci, Stephen J.; Halpern, Diane F.; Loehlin, John C.; Perloff, Robert; Sternberg, Robert J.; Urbina, Susana (1996). “Intelligence: Knowns and Unknowns“. American Psychologist. 51:77–101.
Medicina, Psicologia e Fisica Quantistica: intervista al Prof. Pagliaro – AIREMP
Grazie al prezioso lavoro di studio e di ricerca svolto dall’AIREMP (Associazione Italiana di Ricerca sull’Entanglement in Medicina e in Psicologia) il 19-20 Novembre 2011 si è tenuto a Bologna il Congresso Nazionale:
Medicina, Psicologia e Fisica Quantistica: la crisi delle certezze e l’umanizzazione della cura.
Vi ho partecipato affascinata dal vedere tanti professionisti di diversi orientamenti e con diverse specialità: fisici, medici, biologi, psicologi, sociologi dialogare insieme utilizzando un linguaggio comune e volto ad un progetto integrato di cura e presa in carico della persona-paziente.
Ho avuto la possibilità di parlare con il Prof. Gioacchino Pagliaro, Vice Presidente dell’AIREMP, per approfondire alcune tematiche trattate nel convegno.
Al convegno si è parlato molto di PNEI, quali sono le peculiarità di questo approccio?
Innanzitutto premetto che è necessario specificare che la PNEI di cui si occupa l’AIREMP si riferisce ad un nuovo ambito di ricerca e di applicazione clinica che sta evidenziando il profondo collegamento esistente tra processi quantistici e processi bio-chimici del nostro organismo, che denominiamo PNEI Quantistica. Questo collegamento cambia strutturalmente la visione dogmatica, basata sulla convinzione che i geni condizionano il nostro funzionamento, e le conseguenti concezioni della cura e della salute. La PNEI Quantistica sostiene che la mente non è un epifenomeno del cervello, ma preesiste al cervello stesso, come dimostrato dalle teorie di molti scienziati di fama mondiale, (tra cui spiccano i nomi di Penrose, Libet, Hameroff, che parlano di processi mentali in termini di Neurodinamica Quantistica e di Neuro Quantologia), e come sostenuto dal buddhismo, che concepisce la mente come non localizzata in un punto del corpo, ma come eterna ed infinita, che si manifesta temporaneamente anche nel corpo umano.
Ci può dare una definizione di Entanglement, concetto chiave del Convegno?
Articolo consigliato: "Convegno internazionale di Psiconeuroendocrinoimmunologia: Intervista al Prof. Bottaccioli"
L’Entanglement rappresenta l’evoluzione ulteriore che è avvenuta nella fisica quantistica. E’ la struttura teorico-scientifica di questa nuova visione della realtà e dell’uomo, non più legata alla fisica classica e alle sue teorie deterministiche e riduzioniste. Determinismo e riduzionismo hanno prodotto in medicina, in biologia e in psicologia il modello bio-medico, caratterizzato dal sapere disciplinare e frammentato, rigidamente centrato su una concezione meccanica della cura, intesa come riparazione e/o sostituzione della parte malata. Se la PNEI tradizionale considera l’organismo umano come un network dotato di relazioni bidirezionali tra psiche e sistemi biologici, la PNEI Quantistica attraverso l’Entanglement considera l’uomo come una unità processuale, dove la mente biografica e il corpo sono invece un tutt’uno, quindi l’espressione della Mente, intendendo con questo termine, ciò che sottende ogni forma ed ogni entità che percepiamo intorno a noi. L’uomo come entità processuale è pervaso dall’energia/informazione della Mente, ed è caratterizzato dalla interconnessione e dalla dall’interdipendenza in una condizione di inseparabilità. E’ Entangled con le dimensioni energetiche e spirituali della Mente.
Nella sua relazione al Convegno ha parlato di Entanglement e Compassione ci può spiegare come portare operativamente questi concetti in terapia e nella presa in carico del paziente?
La terapia per noi psicologi, medici, biologi e fisici (ricercatori e clinici) dell’ AIREMP, va oltre la “riparazione di una parte malata”. Curare vuol dire prendersi cura e quindi interagire con la persona malata per aiutarla ad attivare il processo di guarigione che è dentro di lei e intorno a lei. La Compassione, intesa in termini buddhisti come profondo desiderio di aiutare l’altro a liberarsi dalla sofferenza , indica per i terapeuti un nuovo bagaglio teorico e di competenze legato ai processi energetici, quantistici e spirituali della mente biografica e della Mente. Tutto questo rappresenta il superamento della visione bio-psico-sociale dell’uomo, delle etichette diagnostiche, delle teorie intracraniche della mente e della terminologia che ne è derivata (psiche, psico-somatica, bio-psichico ecc. ecc.), che sopravvivendo generano solo pasticci semantici e linguistici.
La giornata di sabato si è conclusa con una sessione pratica di meditazione guidata dalla Ven.le S. Khadro, quali sono secondo la sua esperienza clinica gli effetti benefici della meditazione?
Gli effetti benefici della meditazione oggi sono ampiamente dimostrati e verificati sia a livello fisiologico, che bio-chimico, che psicopatologico. La letteratura scientifica è vastissima e dimostra che la meditazione è particolarmente indicata nella gestione dello stress, nel trattamento dell’ansia, dell’attacco di panico, nelle depressioni, nel trattamento dell’insonnia, del colon irritabile e come regolatore della pressione. Nella mia UOC di Psicologia Ospedaliera, all’Ospedale Bellaria dell’AUSL di Bologna, la utilizziamo con pazienti oncologici, cardiologici e neurologici. Ma la meditazione è e resta innanzitutto una pratica di liberazione dalla sofferenza dell’esistenza, e quindi è un cammino di elevazione spirituale . Sarebbe un errore ridurla ad una forma di terapia. Continuiamo a chiamarla meditazione, non americanizziamola con il termine mindfulness pensando di attribuirle un maggiore alone di scientificità.
Ripenso ai giorni del Convegno agli spunti e alle riflessioni da portare quotidianamente nell’attività clinica, e mantengo in sottofondo il piacevole ricordo del concerto di canto armonico a conclusione della prima giornata di lavoro.