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CORSO DI PERFEZIONAMENTO IN SESSUOLOGIA in MODENA on 24/03/2011

Realtà virtuale e stati dissociativi.

Sabrina Cattaneo, Virna Graffeo.

 

Quando la realtà virtuale influenza i nostri stati di coscienza

Realtà virtuale e dissociazione. Immagine: © HaywireMedia - Fotolia.com - La realtà virtuale sta diventando sempre più presente nella nostra società, sia per l’influenza che esercita sull’umore e sul comportamento umano, sia per la risorsa che rappresenta, permettendo di sviluppare sempre nuove metodologie in ambiti quali la chirurgia, la medicina riabilitativa e non ultime la psicologia e la psicoterapia.

Un gruppo di ricercatori del Fernand-Seguin Research Center di Montreal (Aardema, O’Connor, Côté, Taillon, 2010) ha studiato gli effetti della realtà virtuale sull’esperienza dissociativa e sul senso di presenza.

La parola dissociazione spesso spaventa poiché associata a gravi patologie, in realtà essa descrive la sensazione di distacco da se stessi (deperesonalizzazione) o dalla realtà circostante (derealizzazione) che può variare lungo un continuum passando da esperienze quotidiane, come il sognare ad occhi aperti, a vere e proprie manifestazioni cliniche. Il senso di presenza fa invece riferimento alla sensazione di essere in un determinato ambiente, sia esso reale o virtuale. I due concetti sono ovviamente strettamente correlati poiché un maggior grado di immersione o di presenza in un ambiente virtuale implicherebbe naturalmente un maggiore livello di distacco dalla realtà esterna.

Lo studio di Aardema e collaboratori ha rilevato un generale incremento di sintomi dissociativi dopo l’esposizione a un ambiente di realtà virtuale; in particolare è stato osservato che soggetti con livelli iniziali più elevati di sintomi dissociativi mostravano un maggior incremento degli stessi, a seguito dell’esposizione all’ambiente virtuale, rispetto a quelli con livelli iniziali più bassi. Viceversa il senso della presenza nella realtà oggettiva risulta diminuito dall’esposizione ad un ambiente virtuale, questa volta però preesistenti livelli di depersonalizzazione o derealizzazione non differenziano il livello di presenza sperimentato dopo l’immersione in un ambiente virtuale.

Questo studio fornisce inoltre supporto all’idea che i sintomi dissociativi possono essere generati da una discontinuità negli ambienti percettivi (in questo caso della realtà virtuale rispetto alla realtà oggettiva), è pertanto possibile ridurre i fenomeni dissociativi accrescendo la capacità della persona a tollerare discontinuità percettive e promuovendo l’adozione di un atteggiamento meno rigido verso la percezione.

Gli effetti osservati in questo studio possono essere simili a trascorrere diverse ore di lavoro al computer e sentirsi temporaneamente più distaccati dalla realtà oggettiva rispetto al solito. Sembra probabile che gli effetti dell’esposizione ad una ambiente virtuale scompaiano rapidamente a seguito di una successiva immersione nella realtà. Inoltre, l’effetto dissociativo stesso può essere dipendente dalla durata dell’esposizione. Tuttavia, è possibile che periodi prolungati di discontinuità nella percezione oggettiva possano avere effetti negativi su individui vulnerabili come negli ultimi anni ha dimostrato una forte crescita di disturbi legati all’uso del computer (dipendenza da internet, gioco d’azzardo online ecc).

Alcuni autori (Kraut et al., 1998) hanno inoltre evidenziato come l’esposizione a esperienze altamente “assorbenti”, come l’attività in internet, possa portare ad un senso di distacco, ad un diminuito senso di presenza e, potenzialmente, ad un aumento di sentimenti depressivi.

 

BIBLIOGRAFIA:

  • Aardema F., O’Connor K., Côté S., Taillon A. (2010) Virtual reality induces dissociation and lowers sense of presence in objective reality. Cyberpsychol Behav Soc Netw, 13(4):429-35.
  • Kraut R, Patterson M, Lundmark V, et al. (1998) Internet paradox: a social technology that reduces social involvement and psychological well-being .American Psychologist, 53:1017–31.

 

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Perfezionismo e Genitorialità, lo stress e l’ansia di essere un genitore perfetto

Cerchi di essere un genitore perfetto? Meglio sbagliare

 PARTE 1 – PARTE 2 – PARTE 3

Perfezionismo e genitorialità. Lo stress e l'ansia di essere un genitore perfetto. Immagine: © sonya etchison - Fotolia.com - Cercare di essere il genitore perfetto è un’arma a doppio taglio – commenta Meghan Lee, autrice principale di uno studio apparso online su Personality and Individual Differences (non ancora disponibile la versione pubblicata) portato avanti alla facoltà di Scienze della Famiglia e dello Sviluppo Umano presso la Ohio State Universiy.

Secondo l’autrice, i neo-genitori sembrerebbero avere un più difficoltoso adattamento al ruolo genitoriale quando credono che la società si aspetti che essi siano una mamma e un papà perfetti.

Questo studio prende in considerazione 182 coppie che sono diventate genitori per la prima volta tra il 2008 e il 2010. Prima del termine della gravidanza, è stato fatto compilare un questionario che andava a misurare il livello di perfezionismo sociale o auto-riferito.

Per perfezionismo sociale si intende la percezione soggettiva di doversi attenere agli elevati standard e aspettative degli altri (Hewitt & Flett, 1991). In questo caso la scala si riferiva alla preoccupazione dei partecipanti su che idea avessero gli altri dell’essere un buon genitore. Un esempio di item utilizzato è: “La maggior parte delle persone che mi circondano si aspetta che io sia sempre un genitore eccellente”.

Il perfezionismo auto-diretto si può generalmente definire come la tendenza a porsi standard elevati per se stessi e contemporaneamente evitare gli errori (Frost et al., 1990, Shafran et al., 2002). Nello studio è stato chiesto, ad esempio: “Io devo sempre essere un genitore di successo”.

Tre mesi dopo la nascita del piccolo, alle stesse coppie è stato chiesto di compilare un questionario relativo al loro adattamento al ruolo genitoriale in termini di soddisfazione, auto-efficacia e livello di stress.

I risultati hanno evidenziato che la misura dell’adattamento al nuovo ruolo è associata al livello di perfezionismo mostrato. In particolare, genitori con alti livelli di perfezionismo sociale mostrano anche livelli di stress più elevati e un senso di auto-efficacia relativa alle loro capacità genitoriali più basso rispetto a chi, invece, dà poco peso agli standard sociali. Per quanto riguarda il perfezionismo auto-diretto, invece, i risultati sono molto interessanti: nelle madri un elevato perfezionismo è associato a maggiore soddisfazione personale come mamme, mentre non si evidenzia alcuna correlazione con il livello di auto-efficacia e o di stress. Nei padri invece, il perfezionismo auto-diretto avrebbe un effetto positivo su tutte e tre le dimensioni: soddisfazione personale, senso di auto-efficacia e stress.

Come si spiegano questi risultati? Gli autori dello studio ipotizzano ancora una volta che i padri non avrebbero, nella nostra società, lo stesso impatto nella cura dei figli che hanno le madri. Alcuni padri potrebbero avere in generale alti standard per se stessi, e allo stesso tempo potrebbe non essere così difficile per loro adeguarsi a tali standard di quanto non sia, invece, per le donne (e le madri quindi).

Gli autori però ci mettono in guardia: anche se da questi risultati il perfezionismo sembra avere degli effetti positivi su mamma e papà, non lasciamoci ingannare dai dati e guardiamo il rovescio della medaglia. Che cosa succede ai nuovi genitori, infatti, dopo i primi mesi, con il crescere dei figli? Come si traduce questo perfezionismo nello stile educativo? E che cosa succede quando mamma e papà vanno incontro a un fallimento?

La prossima settimana proveremo a rispondere a questa (assai ardua) domanda.

LEGGI ANCHE PARTE 2PARTE 3

 

BIBLIOGRAFIA:

  • Frost, R.O., Marten, P., Lahart, C. E Rosenblate, r. (1990). The dimension of perfectionism. Cognitive Therapy and Research, 14, 449-468.
  • Hewitt, P. L., & Flett, G. L. (1991). Perfectionism in the self and social contexts: conceptualization, assessment, and association with psychopathology, Journal of Personality and Social Psychology, Vol. 60, No. 3, 456—470.
  • Shafran, R., Cooper, Z., Fairburn, C.G. (2002). Clinical perfectionism: a cognitive-behavioural analysis. Behav Res Ther. 40(7):773-91.

 

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Shopping di Natale e Circuiti Neurali

– Rassegna Stampa –

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze PsicologicheSecondo Brian Knutson, professore associato di psicologia e neuroscienze alla Stanford University, fare shopping è il risultato di un adattamento evolutivo, tanto che questo comportamento attiva gli stessi circuiti cerebrali che originariamente hanno spinto i nostri antenati a uscire in cerca di cibo. “Qualcosa ci spinge ad andare là fuori per cercare qualcosa di buono, anche se ancora non sappiamo che cosa è buono” dice il prof. Knutson; le scansioni cerebrali che ha effettuato mostrano che, quando le persone valutano i prodotti e i prezzi, il  nucleus accumbens si attiva. Quando in quella zona avviene il rilascio di dopamina, le persone sono motivate ad agire.

Quindi la prospettiva stessa di un acquisto – forse indotta dalla pubblicità e da altri strumenti di marketing – può attivare quei circuiti, generando entusiasmo e mettendoci dell’umore adatto ad assaltare i negozi. Altri circuiti invece reagiscono ai prezzi troppo elevati, smorzando l’entusiasmo: i segnali concorrono – comprare o non comprare? – passando nella parte anteriore del cervello, nella corteccia prefrontale, dove avviene la decisione finale. Ma c’è anche un’altra area del cervello, la corteccia cingolata, che si attiva in caso di conflitti, come nel caso di voler comprare qualcosa che costa troppo per le nostre tasche.

Paradosso del Donatore. Immagine: © Ariwasabi - Fotolia.com -
Articolo consigliato: “Il Paradosso del Donatore”

Una strategia per tenere a bada la voglia di spendere e ridurre le occasioni di indecisione e conflitto, raccomandano gli esperti, è stabilire un budget e una lista di cose da comprare prima di recarsi nei negozi, questo facilita l’autocontrollo; i centri commerciali sono dei luoghi di forte tentazione perchè si è circondati da cose da comprare e da persone che le comprano! meglio starne alla larga e preferire, per esempio, lo shopping on-line, che permette di non disperdere troppo l’attenzione, anche se non è esente da tentazioni a causa della convenienza. È bene comunque cercare di contenere al massimo il numero di decisioni da prendere e le occasioni in cui è necessario controllarsi troppo e, se proprio non se ne può fare a meno, evitare assolutamente di prendere decisioni su spese troppo costose a fine giornata, quando la stanchezza ci rende “deboli”.

ConsapevolMente

 

Consapevolmente © Subbotina Anna - Fotolia.comOrmai sono numerosi gli studi sull’efficacia della mindfulness e della meditazione nel trattamento di ansia, depressione, insonnia, dolore cronico e stress. Tuttavia molto spesso, anche se si conosce il razionale tecnico della pratica, si fatica ad applicarla con costanza… Ma come mai? Credo che possa essere interessante passare in rassegna gli ostacoli che si trovano nella quotidianità della pratica. Sicuramente tra le difficoltà più comuni troviamo: il rimuginio, la pigrizia, il torpore, la non motivazione (Pagliaro).

Tipici segni del lavorio mentale sono, da un lato la tendenza a distrarsi che porta continuamente l’attenzione su altre cose,dall’altro l’eccitazione mentale che impedisce alla mente di stabilizzarsi. La pigrizia funziona come un rallentatore della pratica o in alcuni casi arriva ad interrompere l’esperienza stessa. La pigrizia si fa spazio tra la frenesia dell’organizzazione della giornata, la fatica a sbrigare ogni giorno i mille impegni in agenda (il lavoro, la spesa e i figli da prendere a scuola) e il poco tempo che ognuno di noi dedica a prendersi cura di sé. Il torpore, perdita di lucidità mentale, è uno stato che spesso porta all’addormentamento; alle volte è dovuto ad un eccesso di stanchezza in questi casi è meglio lasciarsi andare, cercando di recuperare il sonno perso e praticare successivamente.La mancanza di motivazione spesso nasce quando la pratica non ha risposto alle aspettative, quando i risultati ottenuti non sono quelli sperati.

E allora che fare?

Per combattere la mancanza di motivazione è necessario ridare fiducia a quello che si sta facendo, magari discutendone con il terapeuta che vi ha introdotto alla pratica meditativa, magari osservando l’esperienza fatta e valorizzando ad oggi quelli che sono stati gli aspetti positivi. Il torpore non sempre è un segnale negativo e alle volte indica semplicemente la mancanza di sonno. Tuttavia, una tecnica da utilizzare potrebbe essere quella di controllare che il capo non sia nella pratica troppo piegato in avanti. Per quanto riguarda la pigrizia è importante ancorarsi alla motivazione per la pratica che deve trovare la forza nella conoscenza di ciò che si sta facendo e degli effetti benefici che questo può avere. E infine, per il lavorio mentale, il rimedio più efficace è il riportare continuamente l’attenzione sull’osservazione del respiro.

Di seguito le indicazioni per una pratica di consapevolezza:

Bere il tè

1.Fai bollire un pentolino d’acqua.

2.Prendi una bustina di tè o un filtro e riempilo di foglie di tè e mettilo in una tazza.

3.Versaci sopra l’acqua bollente e riempi la tazza.

4.Lascia riposare l’infusione

Osserva l’acqua cambiare colore. Mentre la versi sopra le foglie di tè, l’acqua pian piano prenderà un leggero colore verde, rosso, marrone a seconda del tè che hai scelto. Presto diventerà ancora più scura. Aspetta qualche minuto, lascia riposare e poi rimuovi il filtro. Guarda il colore del tè e su un foglio annota cosa non avevi notato prima del colore del tè e del suo profumo.

Adesso metti le mani attorno alla tazza calda. Ti sei mai soffermato a sentire una tazza di tè? È calda o bollente? Prendi nota delle tue sensazioni, nota la temperatura. Ora porta la tazza alle labbra, senti il vapore che ti accarezza il volto, annusa il tè. Aspira lungamente, il 90% del gusto è controllato dal naso. Ora bevine un sorso, scotta? È troppo caldo? Oppure è piacevolmente caldo? Annota la tua esperienza, cerca la consapevolezza delle tue sensazioni in ogni istante.

Anche se non ti piace il tè, prova questo esercizio ricordandoti che non possiamo applicare la pratica della “consapevolezza del presente” solo nei momenti di piacere ma occorre imparare a praticare anche nelle esperienze spiacevoli, così da poter esperire realmente un evento per quello che semplicemente è.

Buona tazza di tè!

 

BIBLIOGRAFIA:

  • Hayes, S., Smith, S. (2011). Smetti di soffrire e inizia a vivere. Impara a superare il dolore emotivo, a liberarti dai pensieri negativi e vivi una vita che vale la pena di vivere, Franco Angeli.
  • Pagliaro, G.M. (2004). Mente meditazione e benessere. Medicina tibetana e psicologia clinica. Tecniche nuove.

Attaccamento adulto e ricordi autobiografici infantili a confronto

Naomi Aceto.

Attaccamento adulto e ricordi autobiografici infantili a confronto . Immagine: © Baltazar - Fotolia.comNel discutere la memoria autobiografica, generalmente si fa riferimento al complesso di ricordi che una persona ha delle proprie esperienze di vita e si evidenzia l’importante questione legata all’individualità del soggetto attore del ricordo. Il modello teorico del Self Memory System (Conway et. al, 2004), ipotizza che le informazioni codificate e le esperienze vissute nell’arco della vita diverranno ricordi autobiografici solo se coerenti con il sistema di credenze del soggetto, in caso contrario, tali informazioni verranno dimenticate dall’individuo.

Secondo la Teoria dell’Attaccamento i Modelli Operativi Interni, responsabili di una certa continuità tra i comportamenti infantili relativi all’attaccamento e gli atteggiamenti adulti nei confronti dei legami affettivi, possono influenzare i processi di percezione e interpretazione dell’esperienza e di conseguenza ripercuotersi sulle azioni, le decisioni e i sentimenti degli individui.

In linea con tali premesse, è dunque, possibile individuare numerose differenze, ponendo a confronto gli stili di attaccamento adulto e i processi cognitivi che gli individui utilizzano nel tentativo di rievocare un ricordo autobiografico infantile. E’ possibile, in altri termini, osservare, tra le due macro categorie di attaccamento (sicuro e insicuro), differenze in relazione alle strategie di rievocazione e alle nutrite variabili dei ricordi autobiografici. Esaminando lo stile di attaccamento dei soggetti adulti in relazione alla loro capacità di rievocare episodi specifici dell’infanzia a partire da alcune parole-stimolo astratte e concrete, in grado di attivare o meno il loro sistema di attaccamento, si possono osservare alcune rilevanti differenze.

In primo luogo si osserva che il soggetto sicuro e il soggetto insicuro utilizzano, processi di recupero differenti: i soggetti sicuri utilizzano principalmente strategie di recupero legate alle emozioni, al contrario nei soggetti insicuri il metodo d’elezione nel recupero dei propri ricordi autobiografici sembra essere una strategia legata alle immagini.

Emergono, inoltre, notevoli differenze in relazione all’utilizzo di strategie di problem solving e monitoraggio, quest’ultimo infatti, in linea con quanto sostenuto dalla letteratura, è indice di attaccamento sicuro (Carcione, Falcone, 1999). Soggetti con attaccamento sicuro fanno uso di strategie di problem solving e manifestano la capacità di riflettere sui propri stati mentali e utilizzarli al fine di recuperare informazioni utili per la ricostruzione del ricordo autobiografico, in misura nettamente superiore a quelli con attaccamento insicuro.

I fattori di personalità e l’idea che ognuno ha di se stesso sono elementi di grande interesse nello studio della memoria autobiografica; quando si chiede a una persona adulta di rievocare un episodio specifico della propria infanzia, bisogna necessariamente tenere presente che colui che racconta l’evento è una persona diversa da quella che lo ha vissuto nel passato.

Gli episodi che gli individui ricordano fanno parte della loro storia, assicurano una continuità di se nel passato, nel presente e nel futuro, permettendo all’esperienza soggettiva di organizzarsi e modellarsi nel tentativo di dare forma ad un tutto coerente (Mazzoni, Mamon, 2003).

Possiamo dunque concludere con un pensiero di Gabriel Garcia Marquez che troviamo nella sua biografia: non è forse vero che in fondo la vita non è quella che si è vissuta, ma quella che si ricorda e come la si ricorda per raccontarla?

 

BIBLIOGRAFIA:

  • Carcione, A., Falcone, M. (1999). Il concetto di meta cognizione come costrutto clinico fondamentale per la psicoterapia. In: Semerari, A. (a cura di) Psicoterapia cognitiva del paziente grave. Raffaello Cortina, Milano.
  • Conway, M.A., Singer, J.A., Tagini A. (2004). The self and autobiographical memory: Correspondence and coherence. Social Cognition, 22, 491-529.
  • Mazzoni, G., Mamon, A., (2003). Imagination can create false memories. Psychological Science, 14, pp. 186-8.

 

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London Taxi Drivers: memoria e plasticità neurale

– Rassegna Stampa –

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze PsicologicheImparare a memoria la complessa mappa delle 25.000 strade di Londra e migliaia di punti di interesse causa cambiamenti strutturali nel cervello e nella funzione mnestica dei taxisti della capitale.

Il nuovo studio pubblicato su Current Biology, supporta le evidenze sempre crescenti che l’apprendimento anche nella vita adulta è un processo continuo e con infinite potenzialità persino nel cambiamento strutturale del cervello.

Per ottenere la licenza di taxista londinese è necessario apprendere e conoscere la mappa delle migliaia di strade della città, attraverso un training (unico al mondo) della durata di circa 3-4 anni e diversi esami di ammissione, superati generalmente soltanto dalla metà dei candidati.

Sulla scia di precedenti ricerche, Eleanor Maguire e Katherine Woollett del Wellcome Trust Centre for Neuroimaging hanno coinvolto un gruppo di 79 aspiranti taxi drivers e 31 soggetti di controllo (non taxi drivers), sottoponendoli a scansioni di risonanza magnetica (MRI) nel corso degli anni e studiandone la performance mnestiche. Soltanto 39 degli aspiranti sono riusciti a superare gli esami di qualificazione e a ottenere la licenza, dando cosi la possibilità ai ricercatori di confrontare tre gruppi: aspiranti diventati taxisti, asprianti in formazione ma non riusciti ad ottenere la licenza, e individui di controllo, non taxisti e senza alcun training.

Esaminando le strutture cerebrali all’inizio e al termine (3 anni dopo) del training dei tre gruppi i ricercatori hanno scoperto che erano presenti differenze significative tra il pre e post-training nella porzione posteriore dell’ippocampo (maggiore volume della sostanza grigia) degli asprianti taxisti che avevano ottenuto la licenza. Negli“aspiranti esclusi” e nei soggetti di controllo non era presente tale differenza strutturale a distanza dei tre anni. Come ci si poteva aspettare, sia i candidati che avevano poi ottenuto la licenza che quelli esclusi avevano prestazioni mnestiche migliori in prove specifiche riguardanti il territorio di Londra rispetto al gruppo di controllo.

Questa evidenza di cambiamento strutturale dell’ippocampo in funzione di una specifica e controllata stimolazione esterna (l’acquisizione della conoscenza dell’intricata mappa delle strade londinesi) supporta a livello empirico la plasticità neurale del cervello nell’adulto in funzione delle esperienze e dell’apprendimento: sempre più solide speranze e niente più scuse per il lifelong learning.

 

BIBLIOGRAFIA:

Katherine Woollett, Eleanor A. Maguire. Acquiring “the Knowledge” of London’s Layout Drives Structural Brain Changes. Current Biology, 2011; DOI: 10.1016/j.cub.2011.11.018

Science does not offer Recipes for Treating Eating Disorders

Walter Vandereycken, Università di Leuven / Lovanio, Belgio.

No recipes for treating eating disorders. Symptoms associated with food avoidance or overeating varied considerably over time. In view of this historical variability, eating disorders apparently belong to those disorders whose features show a remarkable susceptibility over the span of centuries to prevailing economic and sociocultural conditions as well as to developing medical knowledge.

The current constellations of symptoms comprising anorexia nervosa and bulimia nervosa are to be considered the latest – and conceivably not the last – variants in an ever-existing, but constantly changing pattern of disordered eating behavior. Preoccupations with weight and shape and the use of weight control strategies like dieting and self-induced vomiting, have acquired popular and medical attention relatively recently and predominantly in Western or westernized countries. Hence, in medicine, the specific syndromes of anorexia nervosa and bulimia nervosa appear to be relatively “modern” clinical entities. Our diet-culture started more than a century ago and it is going to be with us for many years to come, probably together with eating disorders, “old” or “new” ones…

More than a century after the first systematic clinical observations, eating disorders still induce quite opposite reactions in clinicians: their “therapeutic appetite” may be either stimulated or suppressed. A considerable number of health care professionals do not want to treat patients with eating disorders, mainly because of feelings of frustration and lack of empathy with these patients. Others devote their entire professional career to the research and/or treatment of eating disordered patients.

Why are these disorders so fascinating for some and so frustrating for others?

Control and Perceived Criticism in Eating Disorders
Suggested article: "Control and Perceived Criticism in Eating Disorders"

An ever-recurring pitfall in writings about one particular diagnostic category is the “uniformity myth”, i.e. the assumption of homogeneity. Such a myth can easily be detected when one asks a clinician to briefly describe the major characteristics of anorexia nervosa. We all have a prototype in our mind, a kind of typical model which has been imprinted in our memory when first hearing or learning of the disorder. A common anorectic prototype is the “skinny teenage girl refusing to eat”. If that picture becomes the leading image in our perception, we are likely not only to miss the diagnosis in several cases, but to mistreat many patients. Regardless of its diagnostic simplification into a DSM code, each person with an eating disorder reflects a complexity of biopsychosocial issues.

 

Nowhere in a medical discipline is the plurality of opinion as great as in psychiatry. Does this diversity reflect the appealing richness of the discipline or is it symptomatic for a hybrid professional identity? This colorful picture is even more striking in the management of eating disordered patients, including the whole spectrum of professionals and the most diverse therapeutic arsenal in health care. But what treatment,by whom is the best for which patient? Clinicians often want a kind of global positioning system tracing a variety of roads – the easiest, the fastest, and the most scenic – toward the desired goal. But for navigation in daily clinical practice, can science be the only reliable and useful guide?

Treatment for serious eating disorders can last many years and still its long-term outcome remains difficult to predict. So, how long should one go on with treatment trials? When does the disorder become chronic or “recalcitrant”? And what should we do for those patients who have “chosen” a life as an abstainer or a bulimic? Challenged by the reality of health care costs, be it in varying degrees depending on the health care system of the country involved, therapists dealing with seriously ill patients have to face some difficult decisions, both clinically and ethically, for which no clear-cut evidence-based guidelines exist.

Evidence-based medicine, in general, uses the double blind randomized controlled trial as the gold standard for judging the effectiveness of an intervention. The outcome of this type of research is then translated in algorithmic guidelines and manual-based treatments. For an increasing number of clinicians, only this approach can guarantee the scientific status of their work and safeguard the quality of care for a diversity of patients. For others, this scientific mainstreaming is experienced as the ultimate straitjacket squeezing their professional creativity into some form of pre-programmed practice. In recent years, the most challenging task in health care appears to be the fruitful merging of an evidence-based and an experienced-based approach. As in general medicine, this is the case in the field of eating disorders. Indeed, daily practice of working with eating disorder patients is not summarizable to some simple “do’s and don’ts”. Therefore, science cannot offer easy-to-use recipes. Clinicians still need a great deal of creativity and the ability to integrate the best current knowledge available.

 

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Babbo Natale e il Paradosso del Donatore.

Il Paradosso del donatore: ecco perchè un regalo può essere meglio di due.

Paradosso del Donatore. Immagine: © Ariwasabi - Fotolia.com - Alle prese con l’ansia di completare gli acquisti di Natale? Rilassatevi!

Comprare un solo regalo alle persone più care non solo contribuisce a conservare qualche spicciolo ma, agli occhi di chi lo riceve, può essere percepito anche di maggior valore rispetto allo stesso dono accompagnato da altri pensierini.

Kimberlee Weaver, assistente professore di Marketing al Pamplin College of Business in Virginia, ha scoperto attraverso una serie di studi un fenomeno in grado di spiegare codesta stranezza, il cosiddetto “Presenter’s Paradox”, e cioè il Paradosso del Donatore.

Secondo quanto emerso da diversi studi effettuati dal suo gruppo di ricerca, chi dona lo fa partendo da una prospettiva diversa rispetto a quella adottata dal ricevente. Il donatore infatti è portato a pensare che “più è meglio è” quindi, pur avendo trovato il regalo adatto, pensa di accrescerne il valore accompagnandolo a un ulteriore presente di minor pregio. Peccato che chi riceve abbia una logica di pensiero del tutto diversa che lo spinge a considerare l’intero gesto operando una sorta di “media” tra i vari regali ricevuti, il che conduce, a rigor di statistica, ad un giudizio meno favorevole quando al prezioso dono se ne accompagna un altro di minor valore.

Il Paradosso del Donatore è però così influente da riscontrarsi  in diverse situazioni, anche quando si tratta di regali non proprio piacevoli quale, per esempio,  una pena a seguito di un reato di abbandono di rifiuti. Coloro i quali sono stati chiamati a scegliere la pena più onerosa da infliggere hanno scelto di aggiungere a una multa di  750 dollari due ore di servizio civile. I delinquenti hanno ritenuto però la pena così modificata, di entità inferiore rispetto alla sola pena pecuniaria.

Gli stessi effetti paradossali si possono riscontrare in molte altre situazioni, analizzate nell’articolo che la Weaver ha scritto con Stephen Garcia e Norbert Schwarz dell’università del Michigan dal titolo “Il Paradosso del Donatore”, di prossima pubblicazione sul Journal of Consumer Research.

Ma tornando al Natale e alla ragione che ci ha spinto a disturbare i colleghi d’Oltreoceano, quale prezioso suggerimento possiamo trarre da questa scoperta?

In realtà ben due: Babbo Natale può lasciare a casa una renna alleggerendo il carico della slitta e, quanto a voi, se avete regalato un diamante capace di illuminare oltre allo sguardo della fortunata anche un’intera stanza, il tenero peluche con gli occhi a forma di cuore fareste meglio a tenerlo nel cassetto perché di regalo ne basta uno… purché sia stupendo!

 

 

BIBLIOGRAFIA:

Virginia Tech (2011, December 12). The paradox of gift giving: More not better, says new studyScienceDaily. Retrieved December 19

 

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Uomini alle prese con le emozioni di altri uomini: quali differenze tra il vedere un uomo o una donna esprimere emozioni?

–  Rassegna Stampa –

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze PsicologicheUno studio pubblicato sul numero di dicembre di Emotion analizza le attivazioni cerebrali di uomini e donne in risposta a fotografie di persone di genere maschile e femminile che esprimono emozioni: sembrerebbe che gli uomini utilizzino maggiormente l’emisfero cerebrale destro per riconoscere le emozioni espresse da volti maschili rispetto a quando si trovino alle prese con le stesse emozioni espresse da donne.

L’autore dello studio, che ha coinvolto un centinaio di soggetti, Qazi Rahman della Queen Mary’s School of Biological and Chemical Sciences, afferma: “Uomini cui venivano mostrate emozioni di gioia, tristezza e rabbia espresse a livello facciale da altri uomini, presentavano attivazioni cerebrali esclusivamente a carico dell’emisfero destro, mentre utilizzavano entrambi gli emisferi quando venivano loro presentate volti di donne che esprimevano emozioni”.

In particolare, le risposte neurali più intense si sono rilevate quando agli uomini venivano presentate espressioni facciali maschili di collera e sorpresa; questo potrebbe essere spiegato da una maggiore propensione a cogliere indizi di allerta o minaccia in altri uomini rispetto a quando espresse da donne.

La ricerca pone nuove sfide a due principali teorie riguardanti le attivazioni cerebrali legate al riconoscimento emotivo: i risultati disconfermano da una parte la teoria secondo cui l’emisfero destro è esclusivamente implicato nel riconoscimento di tutte le emozioni, dall’altra la teoria che sostiene che le emozioni positive sarebbero elaborate dall’emisfero destro e le negative da quello sinistro. Dai dati di questo lavoro, emerge l’importanza di superare queste semplificazioni e di prendere in considerazione dettagli non irrilevanti quali il genere sia di chi è chiamato a riconoscere un’emozione sia del volto che esprime quell’emozione, nonché le rispettive concordanze, per definire le funzioni di emisfero destro e sinistro nel processo di riconoscimento emotivo.

 

BIBLIOGRAFIA:

 

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Che cosa è cambiato dall’uomo di Neanderthal a oggi: evoluzione dei lobi temporali e dei bulbi olfattivi

– Rassegna Stampa –

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze PsicologicheL’aumento del quoziente di encefalizzazione è una premessa essenziale per l’evoluzione culturale della specie Homo. In uno studio pubblicato questa settimana su Nature Communications è stata utilizzata una sofisticata tecnica di medical imaging per analizzare le strutture interne di crani fossili di umani.

Questa procedura implica l’utilizzo di un metodo 3D per quantificare la forma e la dimensione di strutture cerebrali a partire dalla morfologia della base del cranio. I risultati mostrano che i lobi temporali del cervello umano, così importanti per funzioni quali il linguaggio, la memoria, e altre funzioni sociali, e i bulbi olfattivi sono significativamente più grandi (di circa il 12%) nell’Homo Sapiens Sapiens rispetto all’uomo di Neanderthal.

La dimensione dei bulbi olfattivi è correlata alla capacità di rilevare e discriminare i diversi odori. L’olfatto è la modalità sensoriale evolutivamente più antica, e i circuiti neurali deputati all’olfatto coincidono con il sistema limbico – roccaforte di memoria ed emozioni. Le informazioni olfattive vengono trasmesse alle regioni cerebrali deputate alla memoria e al processamento delle emozioni, della motivazione, del piacere e dell’attrazione.

Sulla base di queste evidenze i neuroscienziati hanno coniato il termine “funzioni olfattive superiori” per definire gli aspetti funzionali che combinano la cognizione (memoria, percezione, ragionamento), le emozioni e l’olfatto. La maggiore dimensione dei bulbi olfattivi e dei lobi temporali nell’Homo Sapiens Sapiens rispetto alle altre varianti della specie Homo porta a speculare sulla possibilità che si sia sviluppato nell’uomo moderno un senso dell’olfatto profondamente diverso legato all’evoluzione delle funzioni cognitive e sociali superiori.

Credit Score: Impazienza e Insolvenza finanziaria -Economia Comportamentale-

– Rassegna Stampa –

Il Credit Score misura il comportamento legato al debito e al credito degli individui considerati come attori economici.

State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche - Rassegna Stampa - Finanza comportamentale, Economia Comportamentale

C’è una spiegazione psicologica del perché alcune persone che, a parità di reddito hanno acceso un mutuo sono poi insolventi?

Un nuovo studio, che verrà pubblicato a breve su Psychological Science, ha scoperto che persone con difficoltà a mantenere i propri impegni finanziari sono in qualche modo definite “impazienti” e cioè più portate a scegliere ricompense immediate rispetto a differire nel tempo la loro gratificazione per avere una maggiore ricompensa ma in un momento futuro.

Gli autori dell’articolo, Stephan Meier (Columbia University) e Charles Sprenger (Stanford University) sono due economisti che ai tempi della progettazione della ricerca e della raccolta dei dati lavoravano presso il Federal Reserve’s Center for Behavioral Economics and Decisionmaking di Boston.

LO STUDIO:
437 individui con reddito medio-basso sono stati coinvolti nello studio: a ciascuno è stato chiesto di compilare un questionario in cui dovevano scegliere tra ricompense piccole ma immediate oppure premi di maggiore entità ma fruibili solo in tempi successivi. Le domande prevedevano diverse quantità e diversi ranges temporali. Nel contempo, con il consenso dei partecipanti, gli studiosi hanno valutato per ciascun soggetto un indice definito “credit score” (punteggio di credito): tale indice si basa su comportamenti legati al debito e credito finanziario avuti in passato, quali per esempio mancanze e inadempienze nel pagare bollette, o insolvenze di mutui e prestiti. Un basso indice di credito sta ad indicare difficoltà nel passato nell’adempiere in generale ai propri impegni finanziari. Dai dati è emerso che individui che al questionario risultavano preferire ricompense di breve entità ma immediate, quindi con difficoltà a differire temporalmente la gratificazione, erano anche coloro che dimostravano minori credit scores.

Ovviamente, l’inadempienza finanziaria e l’insolvenza di un mutuo non sono sempre scelte deliberate o legate a proprie caratteristiche psicologiche, è ovvio dire che si può essere insolventi, per esempio perché si perde il lavoro.
Vale la pena sottolineare che la ricerca presenta i dati raccolti su un campione di cittadini statunitensi: generalizzare questi risultati a un campione europeo o italiano è rischioso poiché è molto probabile che esistano modelli culturali profondamente diversi che regolano il rapporto con il denaro, con il risparmio, e le modalità di accesso al credito.

 

BIBLIOGRAFIA:

L’insostenibile Leggerezza del Bugiardo Patologico

FENOMENOLOGIA DEL BUGIARDO PATOLOGICO.

L'insostenibile leggerezza del Bugiardo Patologico - © SCPixBit - Fotolia.com - Vostro marito o vostra moglie, il vostro compagno o la vostra compagna, o degli amici dicono tante bugie, spesso senza avere un risvolto pratico? Beh, escludendo ogni patologia a carico del destinatario della menzogna, è possibile si possa avere a che fare con un bugiardo patologico.

Prima di entrare nel vivo del discorso è opportuno comprendere la differenza fra bugiardi patologici e bugiardi compulsivi.

Il bugiardo compulsivo non mente per raggiungere un fine specifico, ma semplicemente per abitudine e soprattutto perché mentire lo fa stare meglio rispetto a quando racconta la verità. Essere sinceri per queste persone diventa un’impresa psicologicamente difficile, così mentono su qualsiasi cosa. La bugia diventa una risposta automatica ed irrefrenabile, compulsiva appunto. Questo tipo di bugiardo, non è manipolativo o almeno non lo è apertamente. Mentre, il bugiardo patologico è colui che mente incessantemente per ottenere qualcosa e lo fa senza curarsi delle conseguenze emotive e comportamentali che questo atteggiamento può avere sugli altri.

In questo caso l’abitudine alla menzogna è vista come meccanismo per affrontare la realtà. Il bugiardo patologico è in genere manipolativo, autocentrato e ben poco empatico rispetto alla dimensione psicologica delle altre persone.

La persona che mente ha interiorizzato da così tanto tempo il meccanismo della menzogna che riesce a conviverci in modo egosintonico e difficilmente percepisce il suo modo di fare come patologico.

 

Tamponico - Mammese - Autore dell'immagine: Costanza Prinetti
La manipolazione delle madri: il linguaggio Mammese

 

Il primo passo da realizzare è quindi l’autoconsapevolezza, ovvero rendersi conto di avere un problema su cui lavorare. In seconda battuta va sottolineato che, come ogni altro comportamento che offre comfort e fuga dallo stress, la menzogna può creare dipendenza e assuefazione, quindi si tratta di un qualcosa difficile da disimparare. Come per le tossicodipendenze, se non c’è una forte motivazione a smettere, è difficile che si possa approdare a cambiamenti strutturali per la persona. I bugiardi sono tanto abituati a mentire che, spesse volte, non riescono a distinguere più la realtà dalla fantasia. E’ come se la bugia andasse a sostituire la verità con dei contenuti compensatori che completano perfettamente il puzzle della realtà. Infine, la realtà stessa assume una connotazione di falsità e la bugia diventa la realtà.

 

La prima caratteristica che connota un bugiardo patologico è dichiararsi sostenitori della sincerità e dei valori. Si tratta di persone severamente malate, anche se appaiono normali in superficie, e il loro disturbo può provocare gravissime conseguenze a chi sta loro vicino.

Sono persone che non hanno consapevolezza della loro malattia e credono che mentire sia giusto al fine di proteggere il proprio ego per guadagnare dei benefici. Gli altri, naturalmente, ricevono dai danni gravi in risposta ai comportamenti spietatamente manipolatori, e mendaci messi in atto dal bugiardo. Fondamentalmente, si tratta di persone che sono in grado di inscenare una pantomima della realtà fino ad apparire sinceri al più attento osservatore.
A molti capita di incontrare e conoscere persone con tale disturbo; essi si presentano con grande attorialità, ipocrisia (“ipocrita”, in greco significa attore) e astuzia come persone buone e sincere, quindi utilizzano questa maschera come copertura al fine di poter mentire e raggirare con maggior efficacia. Perciò è molto difficile riconoscerli e si può facilmente diventarne vittima nelle relazioni di amicizia, di lavoro e sentimentali.

MENTIRE L’AMORE
 

A rendere ancora più complicata la situazione è la presenza di un pervasivo disturbo di personalità, in genere narcisistico, nei mentitori patologici.
I narcisisti amano troppo se stessi per riuscire ad amare gli altri. Secondo uno studio statunitense, pubblicato sul “Journal of Personality and Social Psychology”, non sono in grado di mantenere relazioni sentimentali felici e durature. Per il “narciso”, l’amore è un gioco in cui si deve fare sempre la “parte del leone”, per mantenere sempre il potere anche a costo di mentire, tradire e umiliare il partner.
La personalità narcisistica è risultata incompatibile con la possibilità di stabilire relazioni sentimentali soddisfacenti, durature e affettivamente importanti. Infatti, nonostante sia vero che per amare gli altri bisogna prima di tutto amare se stessi, i narcisisti, in realtà, non amano veramente se stessi, ma si sopravvalutano continuamente, a spese di chi sta loro vicino.
Lo studio mette poi in guardia chi cerca un partner: “attenzione a non confondere il narcisismo con l’autostima”, perché l’autostima si concilia benissimo con la capacità di amare, il narcisismo implica necessariamente lo sfruttamento e l’umiliazione del partner. Certo, spesso i narcisisti sono estremamente affascinanti e sfuggenti, ma alla “prova del cuore” rivelano gradualmente la loro vera natura: egoisti, infedeli, manipolatori, prepotenti.

Il manipolatore relazionale è egocentrico; un vampiro psico-affettivo che si nutre dell’essenza vitale delle sue prede. Critica, disprezza, colpevolizza, ricatta, ricordando agli altri i principi morali o il perseguimento della perfezione, ma questo solo quando gli torna utile. E per raggiungere i suoi scopi ricorre a ragionamenti pseudo-logici che capovolgono le situazioni a suo vantaggio.

Spesso la sua comunicazione è paradossale: messaggi opposti in double bind, a cui è impossibile rispondere senza contraddirsi, oppure deforma il significato del discorso.
Si auto-commisera, si deresponsabilizza, non formula richieste esplicite e chiare. Non tollera i rifiuti, vuol sempre avere l’ultima parola per trarre le sue conclusioni, pur non condivise. Muta opinioni e decisioni. Soprattutto mente, insinua sospetti, riferisce malintesi . Simula somatizzazioni ed autosvalutazioni, ma dimostra sostanzialmente disinteresse affettivo.
Si tratta, insomma, di personalità disturbate e disturbanti, con cui ci si può legare sentimentalmente per venire immancabilmente destabilizzati dalla loro perfida influenza.

Concludo citando Kundera ne “L’insostenibile leggerezza dell’essere”: quello che scegliamo e apprezziamo come leggero non tarda a rivelare il proprio peso insostenibile. Forse solo la vivacità e la mobilità dell’intelligenza sfuggono a questa condanna. Chi è pesante non può fare a meno di innamorarsi perdutamente di chi vola lievemente nell’aria, tra il fantastico e il possibile, mentre i leggeri sono respinti dai loro simili e trascinati dalla ‘compassione’ verso i corpi e le anime possedute dalla pesantezza. Era la vertigine. L’ottenebrante, irresistibile desiderio di cadere. La vertigine potremmo anche chiamarla ebbrezza della debolezza. Ci si rende conto della propria debolezza e invece di resisterle, ci si vuole abbandonare a essa: la bugia.

 

BIBLIOGRAFIA:

  • Vazire, S. & Gosling, S. D. (2004). e-Perceptions: Personality impressions based on personal websites. Journal of Personality and Social Psychology, 87, 123-132.
  • Vazire, S., Naumann, L. P., Rentfrow, P. J., & Gosling, S. D. (2008). Portrait of a narcissist: Manifestations of narcissism in physical appearance. Journal of Research in Personality, 42, 1439-1447.
  • Giuseppe Maria Silvio Ierace, (2004). Solstizio D’Estate. Arnoldi editore.
  • Milan Kundera, (2003). L’insostenibile leggerezza dell’essere, Adelphi
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The effectiveness of video-feedback therapy

Parents’ Words and Anxiety Disorders – Part 8 –  The effectiveness of video-feedback therapy

The effectiveness of video feedback - Immagine: © piumadaquila.com - Fotolia.com - Video-feedback therapy effectively alters the distorted cognitions of individuals in various populations. While this form of therapy is used in attachment based therapy with children, it is also used to increase parental sensitivity in populations with adopted children. There is evidence that the communication of adopted children within their adopting families is different from that of non-adopted children (Juffer & van IJzendoorn, 2005).

As adopted children grow into adolescence, they are at a higher risk for developing behavioral and psychiatric problems (Verhulst, Althaus & Versluis-den Beiman, 1990). Increasing maternal sensitivity to their children’s distorted signals has been investigated for possible benefits for adopted children’s behavior.

Anxiety - © Abdone - Fotolia.com
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In a study investigating the effect of video feedback on mother-infant interaction, Juffer, Hoksbergen, Riksen-Walraven and Kohnstamm (1997) aimed to increase maternal sensitivity during interactions with their adopted children. Three groups of mothers of adopted children (assessed at age five, six, nine and 12 months of age) were examined longitudinally: two groups were provided treatment and one control group was not (n = 30 in each). The first treatment group received a personal book (which promoted positive parenting), and the second treatment group received the personal book and three sessions of video feedback based on a series of free play interactions between the mothers and their children which occurred when the child was six and nine months of age. The three sessions of video feedback were characterized by the interveners showing the mothers the videos of the mother-child interactions and providing positive reinforcement when the mothers provided sensitive comments and responses to their children. The results at six months demonstrated that there was no significant difference between groups on ratings of maternal sensitivity or cooperation and infant exploration, at 12 months, mothers who were provided with the personal book as well as the three sessions of video feedback showed significantly more improvement in maternal sensitivity and infant competence than both the control group and the group who just received the personal book.

 

Within this study, mothers who struggled to accurately perceive their children’s signals heightened their sensitivity to their children’s behavior. Additionally, infants’ responded to their mothers’ heightened sensitivity by showing heightened competence themselves. Finally, the personal book treatment option was unable to alter maternal sensitivity to their children.

It could be argued that this is because the personal book treatment did not provide mothers with insight into their own behavior, and did not provided support. These results demonstrate the ability of video feedback to heighten maternal sensitivity within the context of adoption. More recent research has examined the effect of video feedback on mothers with psychopathology. In the second installment of this sub-series I will be exploring the effectiveness of video-feedback on parent-child relationships in the context of psychopathology.

 

BIBLIOGRAPHY:

 

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Video feedback therapy

Video feedback therapy: Definition.

Psicopedia - Proprietà di State of MindA collection of interventions aim to promote maternal sensitivity through the review of taped parent-child interactions and written materials. The interventions can also be expanded to include the parents’ internal working models and/or sensitive disciplinary practices.

BIBLIOGRAPHY:

  • Juffer, F., Bakermans-Kranenburg, M. J., & van IJendoorn, M. H. (2008). Promoting Positive Parenting: An Attachment-Based Intervention. New York; Psychology Press.

La percezione di un cambiamento possibile. Concentrandosi sui lati negativi

– Rassegna Stampa –

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze PsicologicheSe si vuol cambiare qualcosa, per riuscire nell’impresa è necessario concentrarsi su ciò che non va; le persone inoltre prestano attenzione alle informazioni negative quando ritengono lo status quo possa cambiare, in altre parole è la percezione di una possibilità di cambiamento che permette di concentrarsi su ciò che non va. Questa è l’idea alla base di un nuovo studio che sarà pubblicato su Psychological Science, una rivista della Association for Psychological Science.

Chi desidera migliorare sul lavoro, per esempio, è disposto a prendere in considerazione informazioni negative su di sé, se è convinto che questa penosa presa di coscienza porterà a un miglioramento a lungo termine. Ma funziona così anche quando pensiamo alla società che ci circonda?

Perché le persone sentano di poter fare effettivamente qualcosa per influenzare il mondo sociale, devono poter vedere il mondo come mutevole“, dice India Johnson, uno studente laureato alla Ohio State University che ha condotto questo studio con il professor Kentaro Fujita. Vedere una possibilità di cambiamento è il perno attorno a cui ruota la possibilità di cambiamento stessa: “Se si vuole che la gente sia in grado di fare quel salto, bisogna prima che arrivi a questo. Poi le persone saranno disposte a cercare le informazioni negative. Naturalmente, ci sono diversi passi da compiere per cambiare il sistema, non solo scoprire cosa c’è di sbagliato in esso. Anche dopo aver ottenuto le informazioni negative, si potrebbe pensare che c’è troppo da fare per cambiare le cose e decidere che non ci si può fare niente”, dice Johnson, che ha in programma di fare ulteriori ricerche sui passi necessari a produrre un cambiamento sociale.

 

BIBLIOGRAFIA:

 

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Desire Thinking across the Continuum of Drinking Behaviour

– Rassegna Stampa / Academic Papers –

Segnaliamo la pubblicazione di questo articolo:

Desire Thinking across the Continuum of Drinking Behaviour

Autori:

Gabriele Casellia, c, Marta Ferlae, Clarice Mezzalunad, Francesco Rovettoe, Marcantonio M. Spadaa, b

aLondon South Bank University and
bNorth East London NHS Foundation Trust, London, UK; ‘Studi Cognitivi’, Cognitive Psychotherapy School,
cMilan and
dSan Benedetto del Tronto, and
eUniversity of Pavia, Pavia, Italy

DOI: 10.1159/000333601

 

ABSTRACT:

Objective: Desire thinking is a voluntary cognitive process involving verbal and imaginary elaboration of a desired target. Recent research has highlighted the role of desire thinking in predicting addictive behaviours independent of other psychological constructs including negative affect and craving. The goal of this research project was to explore the role of desire thinking across the continuum of drinking behaviour.Methods: A sample of alcohol-dependent drinkers (n = 43), problem drinkers (n = 59), and social drinkers (n = 68) completed self-report instruments of desire thinking, negative affect, craving and drinking behaviour. Results: Analyses revealed that alcohol-dependent drinkers and problem drinkers scored higher than social drinkers on imaginal prefiguration, and that alcohol-dependent drinkers scored higher than problem drinkers who in turn scored higher than social drinkers on verbal perseveration. A multi-group discriminant analysis showed that craving, imaginal prefiguration and verbal perseveration loaded on a first function whilst age loaded on a second function. The variables correctly classified 75.9% of cases. Conclusions: The findings suggest that desire thinking may be a risk factor across the continuum of drinking behaviour and that treatment may benefit from specifically targeting this cognitive process.

 

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STILI DI PENSIERO E VARIABILI PSICOFISIOLOGICHE

Uno studio per approfondire il legame tra mente e corpo, in relazione a diverse modalità di pensiero.

 

E’ stato ipotizzato che il rimuginio svolga numerose funzioni, quali prepararsi all’eventualità di eventi negativi (“prepararsi al peggio”; Sassaroli & Ruggiero, 2003) e mantenere sotto controllo l’arousal fisiologico legato all’ansia (Borkovec, Lyonfields, Wiser, & Diehl, 1993). A favore di questa funzione adattiva del rimuginio esistono in letteratura prove del fatto che soggetti “rimuginatori” risultino caratterizzati dall’assenza di iper-reattività simpatica che costituisce per loro un vantaggio importante tale da portarli a mantenere questa strategia nel tempo.

Attualmente è considerata adattiva la capacità di reagire agli eventi stressanti quando questi si presentano, tuttavia un’iper-reattvità diventa disadattiva se si mantiene costante anche quando la fonte di stress non è più presente (Brosschot, Gerin, & Thayer, 2006). Vi sono oramai numerose prove a favore del fatto che l’attivazione prolungata nel tempo sia più dannosa per la salute rispetto ad un picco di reattività più intenso ma di breve durata (Brosschot, Pieper, & Thayer, 2005).

Il lavoro di ricerca condotto dal nostro gruppo si è occupato di approfondire i correlati fisiologici associati a diversi stili di pensiero, al fine di proporre un protocollo che permetta di inserire la misurazione di questi indici sia in fase di valutazione psicodiagnostica che di follow up, da affiancare ai tradizionali strumenti di valutazione. Le ipotesi specifiche di questa ricerca sono state di dimostrare:

1) il ruolo adattivo a breve termine del rimuginio ansioso nel suo essere associato ad una ridotta reattività fisiologica in risposta a stressor ambientali e

2) le sue conseguenze disadattive a lungo termine legate alla presenza di picchi di attivazione meno intensi, a fronte di un arousal costantemente maggiore nel lungo periodo.

PROTOCOLLO:

Il protocollo scelto prevedeva la registrazione di alcuni indici fisiologici legati all’arousal del sistema nervoso autonomo, durante le 3 condizioni scelte per indurre nei soggetti sperimentali (31 patologici e 36 controlli) diversi stili di pensiero:

  • Rimuginio (“pensi intensamente ad un evento che la preoccupa molto nell’imminente futuro”),
  • Reappraisal (“ripensi allo stesso evento per cui si è preoccupato precedentemente in chiave positiva”).
  • Distrazione (“unisca i puntini nel disegno seguendo la numerazione in ordine crescente”).

La distrazione è stata studiata in base ad altre ricerche raccolte in letteratura, per riprodurre una condizione di “pensiero neutro” e con un basso carico cognitivo. Durante tutti e tre i compiti veniva somministrato uno stimolo stressogeno (rumore bianco, 105dB, durata 550 ms) ad intervalli irregolari così da non poterne prevedere l’arrivo, al fine di valutare la reattività fisiologica e le capacità di adattamento allo stress nelle tre condizioni sperimentali.

Gli indici fisiologici utilizzati per misurare la reattività simpatica e il funzionamento autonomico sono stati: conduttanza cutanea, che misura la micro-sudorazione corporea ed è un indice che permette di misurare in modo rapido il livello di attivazione del  sistema nervoso simpatico, e la variabilità interbattito (Heart Rate Variability), un indice di buon balance autonomico tra componente  simpatica e parasimpatica. Dall’analisi HRV vengono estratti alcuni indici usati poi nell’analisi dell’attivazione delle due componenti (separatamente). All’inizio della procedura sperimentale sono stati somministrati inoltre dei questionari psicometrici per un assessmento completo di ansia, depressione, rimuginio e disturbi psicosomatici (Penn State Worry Questionnaire, State-Trait Anxiety Inventory, Intolerance of Uncertainty Scale, Anxious Control Questionnaire, Beck Depression Inventory, General Health Questionnaire, Questionario psicofisiologico, Metacognition Questionnaire).

RISULTATI:

I risultati ottenuti hanno confermato entrambe le ipotesi sperimentali: dalle analisi condotte emerge infatti una correlazione significativa tra livelli di arousal durante il compito di rimuginio e i punteggi relativi alle somatizzazioni e i sintomi depressivi (QPFR e BDI), segnalando che chi rimugina di più è più depresso e mostra un maggior numero di lamentele fisiche (mal di testa, gastriti, dolori muscolari, formicolio,..).

Dall’analisi dei valori di variabilità interbattito (HRV) è emerso inoltre che controlli e patologici funzionano in modo significativamente diverso nella condizione di rimuginio: i controlli mostrano una minore attivazione simpatica media rispetto ai patologici durante la condizione di rimuginio, a fronte di una riduzione del tono vagale (componente parasimpatica) maggiore nei patologici che risultano quindi meno capaci di “spegnere” l’attivazione fisiologica suscitata dalla combinazione di stimolo stressante e rimuginio.

Questo ci ha permesso di ipotizzare che il rimuginio, come stile di pensiero stabile e molto frequente nei disturbi d’ansia, possa produrre nel lungo periodo un cronico squilibrio autonomico tra sistema componente simpatica e parasimpatica e avere un impatto negativo sulla salute cardiovascolare.

Rispetto ai valori di conduttanza cutanea inoltre, i soggetti con una più alta propensione al rimuginio mostrano un maggior picco di attivazione alla presentazione dello stimolo stressante rispetto ai controlli: rimuginare quindi non li aiuta a spaventarsi meno, né sembra ridurre l’arousal fisiologico a fronte di eventi imprevisti e percepiti come pericolosi e fuori controllo. Controlli e patologici hanno infine un’attivazione simile nel reappraisal: dal punto di vista clinico questo dato ci segnala che insegnare ai pazienti un modo di pensiero diverso abbassa i livelli generali di attivazione e riduce il rischio cardiovascolare.

CONCLUSIONI:

Concludendo, i dati ottenuti sembrano confermare il dato, già molto presente in letteratura, che ridurre il rimuginio attraverso la psicoterapia permette di diventare buoni “reappraisers” rispetto ad eventi negativi e..soprattutto di fare prevenzione sullo sviluppo di patologie cardiovascolari future legate alla cronicizzazione di uno stato di arousal costante ed eccessivo cui l’ansia spesso conduce.

 

 

BIBLIOGRAFIA:

  • Borkovec, T. D., Lyonfields, J. D., Wiser, S. L., & Diehl, L. (1993). The role of worrisome thinking in the suppression of cardiovascular response to phobic imagery. Behaviour Research and Therapy, 31, 321_/324.
  • Brosschot, J. F., Pieper, S., & Thayer, J. F. (2005). Expanding stress theory: Prolonged activation and perseverative cognition. Psychoneuroendocrinology, 30, 1043–1049.
  • Brosschot, J. F., Gerin, W., & Thayer, J. F. (2006). The perseverative cognition hypothesis: a review of worry, prolonged stress-related physiological activation and health. Journal of Psychosomatic Research, 60, 113–124.
  • Porges, S.W.(2007). The polyvagal perspective. Biological Psychology, 74 (2), 116–143.
  • Sassaroli, S., & Ruggiero, G. M. (2003). La psicopatologia cognitiva del rimuginio (worry). Psicoterapia Cognitiva e Comportamentale , 9, 31-45.

 

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