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Magrezza non è bellezza. L’ansia di perfezione e il ruolo dei genitori nei disturbi alimentari

Magrezza non è bellezza. L’ansia di perfezione e il ruolo dei genitori nei disturbi alimentari

Nell’ambito della serie di incontri “agoràscuolaaperta” su iniziativa di Editori Laterza, si terrà a Milano il 18 aprile 2012

l’incontro: Magrezza non è bellezza. L’ansia di perfezione e il ruolo dei genitori nei disturbi alimentari.

Condotto da Sandra Sassaroli.

Less than perfect: il rapporto tra perfezionismo e stile genitoriale. Immagine: © olly - Fotolia.com -
Articolo consigliato: "Less than perfect: il rapporto tra perfezionismo e stile genitoriale".

Psichiatra e psicoterapeuta, ha insegnato psicoterapia Cognitiva all’Università Cattolica di roma. È stata tra i promotori della conoscenza e della diffusione della terapia cognitiva in Italia e ha fondato «Studi Cognitivi», la scuola di specializzazione in terapia cognitiva che dirige. Tra le sue pubblicazioni: Paure e fobie,con R. Lorenzini, Il Saggiatore 2000; La mente prigioniera con R. Lorenzini, raffaello Cortina 2000; Psicoterapia cognitiva dell’ansia, con r. Lorenzini e g.m ruggiero, raffaello Cortina 2006;I disturbi alimentari, con g.m. ruggiero, Laterza 2010.

Less than Perfect: Il rapporto tra Perfezionismo e lo Stile Genitoriale

Cerchi di essere un genitore perfetto? Meglio sbagliare! – Parte 3

Less than perfect: il rapporto tra perfezionismo e stile genitoriale. Immagine: © olly - Fotolia.com - Dopo l’approfondimento discusso nella seconda parte di questa serie su che cosa si intende per perfezionismo, andremo ora a vedere la connessione tra questo costrutto e lo stile genitoriale. Come abbiamo sottolineato nella prima parte, cercare di essere un perfetto genitore, così come ricercare la perfezione nei figli si rivela spesso un’arma a doppio taglio, portando più spesso un carico di conseguenze ben lontane dalla tanto ambita perfezione.

La letteratura scientifica sull’argomento è concorde nel ritenere che l’interazione con i genitori sia il fattore principale responsabile dello sviluppo del perfezionismo nei figli come caratteristica di personalità (Barrow & Moore, 1983; Pacht,1984). Non è difficile capire, infatti, che crescere con dei genitori che richiedono costantemente prestazioni perfette porti il bambino a pensare continuamente al “dovere essere perfetto” a tutti i costi, nella scuola, con i genitori, nello sport e così via.

Perfezionismo e la chimera del Genitore Perfetto - Immagine: © falcorpic - Fotolia.com -
Articolo consigliato: "Perfezionismo e la chimera del Genitore Perfetto"

Questa modalità di rapportarsi agli altri e alla realtà assolutamente irrealistica e irraggiungibile (chi di noi, infatti, ha sempre ottenuto il massimo dei voti in tutte le prove dell’intera carriera scolastica? Chi di noi ha sempre battuto ogni record al proprio sport preferito?) porterà questo bambino a diventare un adulto “perfezionista”, e un adulto perfezionista ha molte più probabilità di essere anche una persona con un disturbo d’ansia, un disturbo ossessivo-compulsivo, un disturbo alimentare (Blatt, 1995; Sassaroli & Ruggiero, 2005).

 

Ma torniamo allo stile genitoriale con cui avevamo iniziato questa terza parte. Le relazioni con i nostri genitori rappresentano la base per le nostre future relazioni, ci forniscono dei modelli e ci insegnano come comportarci e che cosa aspettarci dagli altri e dalla realtà. Da questa prospettiva, un bambino con dei genitori perfezionisti crescerà in un ambiente familiare dove, molto probabilmente, verrà costantemente criticato  per essere “meno di perfetto” o, con il termine inglese, “less than perfect”; di conseguenza, questo bambino imparerà che tutto ciò che è less than perfect non è accettabile (Patch, 1984).

Molti studi in questo ambito hanno concluso che in generale il perfezionismo è associato a bambini che percepiscono i loro genitori come iper-critici (Frost et al., 1991) e con uno stile educativo autoritario (Robin, Koepke, and Moye, 1990, Kawamura et al., 2002). Sembra verosimile, infatti, che i bambini di genitori autoritari sviluppino caratteristiche perfezioniste dovute alla natura iper-controllante dei loro genitori; in altre parole, è come se questi bambini internalizzassero il criticismo dei genitori per poi sviluppare un criticismo auto-riferito.

Ancora una volta, insomma, i genitori vengono additati come principali responsabili dei futuri problemi dei loro figli. Anche se indubbiamente allo sviluppo di un disagio concorrono molti fattori, la relazione con il genitore costituisce la base di quello che tutti noi poi impariamo a fare e a riutilizzare nelle relazioni future con gli altri.

Essere genitore comporta molte responsabilità, è vero, eppure a volte, basterebbe solo un po’ di buon senso: se prendi un 4 a scuola recuperi la prossima volta!

 

BIBLIOGRAFIA:

  • Barrow, J. C., & Moore, C. A. (1983). Group interventions with perfectinist thinking. Personnel and Guidance Journal, 61, 612,615.
  • Blatt, S. J. (1995). The destructiveness of perfectionism: Implications for the treatmetn of depression. American Psychologist, 50, 1003-1020.
  • Frost, R. O., Lahart, C. M., & Rosenblate, R. (1991). The development of perfectionism: A study of daughters and their parents. Cognitive Therapy and Research,13(6), 469-489.
  • Kawamura, K. Y., Frost, R. O., & Harmatz, M. G. (2002). The relationship of perceived parenting styles to perfectionism. Personality and Individual Differences, 32, 317-327.
  • Pacht, A. R. (1984). Reflections on perfection. American Psychologist, 39, 386-390.
  • Sassaroli, S., & Ruggiero, GM. (2005). The role of stress in the association between low self-esteem, perfectionism, and worry and eating disorders. Int J Eat Disord, 37: 135-141.

 

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Le reazioni psicologiche dei pazienti con scompenso cardiaco

 

Le reazioni psicologiche dei pazienti con scompenso cardiaco - Immagine: © Petr Vaclavek - Fotolia.com - Quando svolgo interventi psicologici con i pazienti con scompenso cardiaco, mi trovo spesso a riflettere come i tempi della malattia cardiaca e i tempi personali di accettazione e adattamento alla stessa siano davvero differenti.

Nei casi più fortunati, queste due linee procedono più o meno parallelamente. Invece, nei casi in cui questi pazienti strutturano una cinta muraria di strategie disfunzionali di contrattacco e di non accettazione della malattia cronica, l’aderenza e la compliance alle prescrizione mediche e infermieristiche vengono meno, causando talvolta effetti distruttivi, per sé e per il proprio ambiente relazionale.

Lo scompenso cardiaco è una malattia cronica che necessita di cure stabili e continuative per ridurne gli effetti negativi. Dal momento in cui viene fatta la diagnosi, si innesca un processo psicologico di adattamento a questa nuova condizione medica, che di fatto è anche una condizione psicologica (“il malato cronico”) che richiede il passaggio attraverso alcune fasi “naturali”.

La fase iniziale, solitamente della prima crisi cardiaca, arriva spesso dal nulla, inaspettata, improvvisa e acuta. In questa fase, la strategia più funzionale è quella di accettare le terapie prescritte in attesa di effettuare gli approfondimenti necessari.

Conclusa questa prima fase di crisi, si entra nel periodo di cronicizzazione, quello del “vivere giorno per giorno con la malattia”. Le necessità cognitive ed emotive in questa fase mettono i pazienti in una condizione, talvolta dolorosa e faticosa, di ridefinire l’immagine di sé e creare una nuova quotidianità, appagante quanto (o quasi) quella precedente. Frustrante e faticosa perché lo scompenso cardiaco, come tutte le malattie croniche, comporta il dover fare i conti con la debolezza del proprio corpo, che facilmente si trasforma in “io sono debole”, e con una limitazione delle proprie possibilità.

Quindi, potremmo “smontare” il percorso di malattia in 3 fasi: Esordio-Cronicizzazione-Accettazione.

Ora vediamo come la persona con scompenso cardiaco potrebbe imboccare la “strada verso l’accettazione”.

L’avere ricevuto una diagnosi di scompenso cardiaco, innesca spesso una fase di rifiuto. Le prime reazioni alla diagnosi possono essere un vero e proprio shock, del quale possono rimanere anche solo pochi ricordi frammentati e confusi. La persona sperimenta forti sensazioni di confusione che la disorientano momentaneamente e la rendono incapace di gestire la situazione.

Superato lo scossone iniziale, il paziente può cercare di negare il problema, affermando che il problema non esiste o che è facilmente risolvibile: ciò gli impedisce di concedersi di vivere tutte le emozioni negative che in quel momento sta provando, di riconoscere i propri bisogni, anche di “persona malata”, e di aderire alle richieste dei medici.

Superata questa fase di rifiuto/negazione (che non tutti riescono ad attraversare facilmente), si innesca un processo, per così dire, di proto-accettazione della malattia, in cui si avvertono ancora sentimenti di rifiuto e di ostilità che vengono però riversati sull’esterno (i medici, gli infermieri, gli psicologi, l’ospedale o i familiari).

Una volta che questi pazienti attraversano e guadano il fiume del rifiuto e della negazione, cominciano a affrontare realisticamente la propria condizione e qui inizia la vera e propria accettazione della realtà. Attenzione, l’accettazione non è rassegnazione, remissività e passività. L’accettazione, per dirla in ottica ACT (Acceptance and Commitment Therapy, Harris, 2011), è un atteggiamento che ci aiuta a “gestire efficacemente il dolore e lo stress che la vita inevitabilmente porta a tutti”, che rende l’individuo capace di “gestire i pensieri e le emozioni dolorose in modo efficace; in questo modo, sia i pensieri sia le emozioni hanno un impatto minore sulla propria vita e sul proprio benessere”.

Alla conclusione di questo tortuoso percorso di accettazione, la persona può entrare nel ruolo di “paziente” che accetta di essere curato e di porsi in modo pro-attivo nel suo processo di cura, diventandone protagonista e adattandosi alle varie fasi della malattia cronica.

Visto l’impatto che una malattia cronica ha sull’immagine di sé, in termini di percezione di controllo sul proprio corpo e sulla propria vita, occorre crearsi nuovi obiettivi a partire dai limiti imposti dalla malattia e dalle risorse ancora presenti.

Un piccolo homework per gli interessati all’ascolto, o meglio alla lettura, può essere di aiuto.

1 – Individuare progetti di vita che sono ancora aperti, “quelle cose che ho sempre voluto fare e non ho mai fatto”.

2 – Ridefinire il progetto scelto, considerandone i limiti: “di quel progetto, cosa rimane di fattibile?” (può anche essere completamente fattibile, se si tratta ad esempio, di un corso di fotografia).

3- Pensare a come poterlo realizzare, farsi un piano di attuazione.

4- Passare all’azione attivando le risorse necessarie.

5- Valutare l’esito ed eventualmente aggiustare il tiro (“come è andato?”, “in cosa è stato utile per me”, “mi ha aiutato a stare meglio?”).

Sarebbe davvero molto interessante se qualcuno dei lettori volesse condividere (si può fare anche in modo anonimo su State of Mind!) la propria esperienza…

 

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Stress sul lavoro e craving alimentare: camminare 15 minuti dimezza la fame nervosa

– Rassegna Stampa –

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze PsicologicheCaramelle e cioccolatini: una camminata di 15 minuti riduce il craving.

Quando arriva il crollo pomeridiano in qualsiasi ufficio anche le più indesiderabili merendine, snacks, caramelle e cioccolatini possono diventare irresistibili! Un nuovo studio pubblicato su Appetite presenta una nuova strategia per coloro che faticano a resistere a merendine e caramelle durante il lavoro d’ufficio.

I ricercatori hanno chiesto ai partecipanti di completare una serie di noiosi compiti attentivi al computer; ad alcuni veniva indicato di prendersi una pausa di 15 minuti rimanendo seduti alla loro scrivania, mentre altri venivano esortati a fare una camminata di 15 minuti. Una volta ripresi i noiosi compiti al pc, i partecipanti si ritrovavano una ciotola di cioccolatini sulla scrivania con tanto di invito a mangiarne liberamente quanti ne volessero.

I risultati dello studio indicano che coloro che avevano impiegato la pausa di 15 minuti camminando di fatto assumevano la metà dei cioccolatini rispetto a coloro che semplicemente si erano rilassati rimanendo seduti alla scrivania. Quindi, in condizioni di prolungati compiti cognitivi e attentivi complessi un minimo esercizio fisico riduce il craving alimentare, e una breve camminata può energizzare molto di più rispetto a una manciata di zuccherose caramelle.

E per gli scettici ecco il riferimento accademico…a scanso di scuse!

BIBLIOGRAFIA:

 

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La nicotina migliora la memoria ed aiuta a combattere i Deterioramenti Cognitivi.

La terapia che non ti aspetti: cerotti alla nicotina per la memoria.

Nicotina e memoria. Immagine: © dalaprod - Fotolia.com - Da qualche giorno sui quotidiani nazionali ed internazionali, rimbalza una notizia che ha del paradossale e starà facendo gongolare molti fumatori: la nicotina migliora la memoria. Ad una prima lettura la notizia potrebbe sembrare dar ragione a i tabagisti incalliti che, anche a fronte di evidenze sulla pericolosità del fumo, hanno sempre ‘fatto spallucce’.

Ad una lettura più approfondita emerge una sostanziale differenza, infatti non è il fumo in sé ad essere un fattore protettivo per la memoria ma sembra che lo siano i cerotti alla nicotina utilizzati per smettere di fumare. A sostenerlo è uno studio pubblicato su Neurology da un gruppo di ricercatori statunitensi guidati dal Dr. Paul Newhouse, professore di psichiatria alla Vanderbilt University School of Medicine a Nashville.

Lo studio è stato condotto su un campione di 69 soggetti formato da persone anziane non fumatrici, con un’età media di circa 74 anni e diagnosi di Mild Cognitive Impairment (MCI), ovvero un deterioramento cognitivo lieve. La condizione definita come MCI sembra essere un precursore della Malattia di Alzheimer (o di altre demenze, a seconda del dominio cognitivo in cui appaiono i primi sintomi) in cui si evidenziano le prime difficoltà di memoria accompagnate solitamente da deficit attentivi e rallentamento nei processi mentali.

Per sei mesi è stato somministrato a metà dei partecipanti, un cerotto alla nicotina (15 mg al giorno), mentre all’altra metà un placebo. Dai primi risultati ottenuti è emerso che coloro ai quali era stato somministrato il cerotto alla nicotina mostravano un miglioramento dell’attenzione, dell’elaborazione mentale e della memoria.

Gli autori hanno concluso che persone con lieve perdita di memoria possono trarre beneficio da questa fonte inaspettata e cioè i cerotti alla nicotina, aggiungendo che questo effetto positivo sulla memoria sembra possa crescere nel tempo, l’unico limite riguarda l’età, il trattamento con i cerotti alla nicotina non può essere somministrato a soggetti con più di 75 anni. Il gruppo di ricerca sottolinea anche che i risultati si possono raggiungere solo attraverso l’applicazione dei cerotti e non attraverso il fumo che invece resta un fattore di rischio per i deficit mnesici… nessuno scampo per i fumatori incalliti, anche in questo caso si ricorda che il fumo nuoce gravemente alla salute.

 

BIBLIOGRAFIA:

Lo strano caso della Coscienza nella guerra tra Cognizioni ed Emozioni

 

Lostrano caso della coscienza. Immagine: © puckillustrations - Fotolia.comMi interrogo da molto tempo, per la precisione da quando ho iniziato questo mestiere, su due temi affascinanti: il rapporto tra cognizione ed emozione e il ruolo della coscienza. Si tratta di dibattiti teorici che hanno contraddistinto la psicoterapia cognitiva (forse l’intera psicologia) sin dal giorno della sua nascita.

Penso ai padri fondatori della Psicoterapia Cognitiva: Aaron Beck e Albert Ellis (Beck et al., 1987; Ellis, 1989). Uno degli elementi che i due teorici condividevano era l’idea che le emozioni fossero il prodotto di diverse valutazioni del mondo (cognizioni).

Ecco che allora anche eventi stressanti come la fine di una relazione sentimentale possono essere letti come “finalmente riprendo in mano la mia vita” o come “resterò solo”. Due valutazioni cognitive differenti che danno adito a due emozioni differenti. La teorizzazione di Beck ed Ellis non poteva che essere condizionata dal contesto storico-scientifico in cui si stava sviluppando. Un nuovo pargolo, il cognitivismo, aveva bisogno di sgomitare in mezzo ai due colossi allora imperanti: la psicoanalisi e il comportamentismo. Quest’azione di sgomitamento portò inevitabilmente queste prime teorie cognitive a estremizzarsi su alcuni punti. Quali? Beh, quelli che maggiormente marcavano il confine con i due oppositori. Ecco che:

1.Primo punto (anticomportamentista): della mente si può parlare, non siamo davanti a una scatola nera anzi è proprio nella mente dell’individuo che si riscontra quel mediatore che produce differenti emozioni soggettive a fronte delle stesse esperienze.

2.Secondo punto (antipsicoanalista): tutto questo processo è totalmente cosciente, i processi impliciti inconsapevoli non vengono (inizialmente) tradotti all’interno di queste nuove cornici teoriche, figuriamoci il concetto di inconscio.

Psicoterapia nucleare e psicoterapia esistenziale
Articolo consigliato: “Psicoterapia nucleare e psicoterapia esistenziale”

A onor del vero questa spinta estremista iniziale si è decisamente moderata negli anni, anche da parte degli stessi autori. Tuttavia ha marchiato la nascita del cognitivismo e ha fatto in tempo a generare qualche confusione nelle generazioni successive. Questa confusione, chiamiamolo pure limite, può essere identificata nella sovrapposizione quasi totale tra cognizione e coscienza (“le cognizioni sono solo coscienti”).

 

Teniamo questa piccola deformazione nel cassetto del corredo genetico del cognitivismo e vediamo il suo impatto lungo la sua storia evolutiva. Dopo una prima età dell’oro in cui il cognitivismo cresceva con grandi successi, vincendo numerose sfide cliniche, eccolo incocciare nei primi intoppi: i cosiddetti “pazienti difficili” (Roth & Fonagy, 2004). Tra i vari punti critici che sollevava l’incontro con simili pazienti, uno di quelli che faceva storcere il naso ai cognitivisti era proprio lo strano rapporto tra pensieri ed emozioni. In particolare la legge del paradigma cognitivo sembrava non reggere, le emozioni apparivano indipendenti dalle valutazioni coscienti. Non solo, ma non si riusciva nemmeno a identificare la presenza di un pensiero o di una valutazione, ma l’emozione poteva giungere in modo inspiegabile alla mente dell’individuo.

Immagino la brama di alcuni e l’entusiasmo di alti nell’aver colto la falla nel sistema dei grandi padri fondatori. E la conseguente aspirazione a fondare un nuovo movimento, l’alzata degli stendardi dell’emozione e il radunarsi di aspiranti teorici, talvolta passionali talvolta semplicemente individualisti. Nacque il tempo della rivoluzione teorica e del ribaltamento emotivo. Da troppo tempo nelle mani di freddi e biechi sostenitori del razionalismo, si doveva finalmente riconoscere la vena romantica e sentimentale dell’essere umano e recuperare il ruolo principe delle emozioni come nucleo, unico e solo, della lettura e del trattamento dei disturbi psicologici!

Ed ecco, com’è affascinante il comportamento umano, che quella necessità di mettersi totalmente dalla parte della coscienza ha generato negli anni la frattura su cui si è instaurata la rivoluzione emotiva. Ma guardiamola bene questa rivoluzione emotiva. Vedete, tutti i rivoluzionari emotivi hanno avuto bisogno di sgomitare oltre il padrone e gigante cognitivo-comportamentale. E ancora una volta, questo sgomitare per raggiungere certi riflettori porta a essere un po’ troppo estremisti e a dimenticar dei pezzi. I rivoluzionari emotivi avevano quindi bisogno di prendere le distanze dal cognitivismo e lo fecero lungo due assi:

  • Le emozioni possono essere precognitive, la valutazione cognitiva è solo una valutazione a posteriori.
  • Alcune emozioni nascono da vulnerabilità sviluppatesi durante la storia evolutiva dell’individuo (sotto forma di stili genitoriali dannosi o esperienze traumatiche), fuori cioè dalla sua coscienza.

Due cardini del cognitivismo messi sotto attacco: (1) il ruolo delle cognizioni sulle emozioni, (2) l’importanza del funzionamento attuale su quello storico-evolutivo.

Ma a guardar bene, cosa è rimasto inalterato in questa terza ondata? L’efficacia non mostra differenze sostanziali, anche se qualche innovativo spunto è stato raggiunto (Ost, 2008). Ma soprattutto non cambia la sovrapposizione tra cognizione e coscienza. Nonostante la percezione del malessere si inserisce nella coscienza e talvolta nemmeno in modo chiaro, ciò non significa che non siano stati precedentemente attivati processi cognitivi. Come può non esserci un diverso processo percettivo, attentivo, valutativo anche se non necessariamente cosciente, precursore dell’attivazione fisiologica di varia natura? Ma il fatto che non siano coscienti, significa che non sussistono?

Forse la strada della futura integrazione passa attraverso uno studio scientifico più approfondito su come cambia l’espressione fenotipica del rapporto tra cognizioni ed emozioni lungo il continuum di diversi gradi di coscienza, piuttosto che una lotta per focalizzare l’intervento su uno dei due aspetti. L’inserimento della variabile “coscienza”nel rapporto tra cognizioni ed emozioni potrebbe aprire uno spiraglio di alleanza tra le parti di questa diatriba e forse fittizio dilemma. Forse così potremmo smettere di assistere al proliferare costante di nuove teorie della mente (talvolta più filosofiche che scientifiche) che funzionano solo per una porzione di individui e che appaiono soddisfare soprattutto i bisogni di chi le promuove.

Ovvio che da ricercatore la domanda malinconica è: ma la scienza può muoversi secondo questi circuiti distorti e parziali fatti del bisogno umano di contrapporsi e rifondarsi? Beh, siamo uomini quindi evidentemente può, ma anche qui introdurre la nostra coscienza può aiutarci nel buon discernimento.

 

BIBLIOGRAFIA:

  • Beck, A.T.; Rush, J.A., Shaw, B.F. & Emery, G. (1987) Terapia Cognitiva della Depressione. Torino: Bollati Boringhieri
  • Ellis, A. (1989). Ragione ed emozione in psicoterapia. Roma: Astrolabio
  • Ost. L.G. (2008). Efficacy of the third wave of behavioral terapie: A systematic review and meta-analysis. Behavior Research and Therapy, 46(3), 296-321. (http://www.sciencedirect.com/science/article/pii/S000579670700246X)
  • Roth, A. & FonagyP. (2004). What Works for Whom?. Guildford Publisher

 

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La felicità? E’ un piacere semplice. – parte 2

Simona Meroni.

La felicità? E' una cosa semplice. Parte 2 - Immagine: © Kudryashka - Fotolia.comUn approccio differente, rispetto alla visione di Seligman (esposta nella parte 1 dell’articolo), ma altrettanto solido, nella ricerca della felicità è quello di Daniel Kahneman, psicologo premio Nobel per l’Economia nel 2002.

Kahneman, attraverso uno studio rigoroso e scientifico, dimostra che i giudizi alla base delle decisioni e del comportamento umano non sono guidati da processi razionali né dall’applicazione di norme statistiche, ma piuttosto sono il frutto di ragionamenti intuitivi, guidati da “scorciatoie cognitive” (euristiche) che spesso facilitano le scelte più appropriate, ma possono anche condurre ad errori sistematici. Secondo Kahneman i requisiti di coerenza della così detta razionalità economica non possono essere soddisfatti dalla mente umana. Ciò non significa un rifiuto radicale della razionalità umana, bensì una razionalità limitata, che combina elementi intuitivi e riflessivi.

Gli studi di Kahneman procedono in due direzioni precise; la prima si concentra su come le persone formulano decisioni in caso di eventi incerti. I giudizi umani si basano su un numero limitato di euristiche che riducono la complessità dei compiti ad operazioni semplici (ad esempio, l’euristica della disponibilità si riferisce alla tendenza a giudicare la probabilità di eventi sulla base degli esempi che sono presenti nella memoria. Poiché il ricordo è influenzato da fattori diversi, non sempre ci fornisce un campione rappresentativo).

La Felicità? E' una cosa semplice - Immagine: © chesterF - Fotolia.com
Articolo consigliato: “La Felicità? E’ una cosa semplice”

Il secondo filone di ricerca prende in esame l’attitudine a rischiare, o meno, in determinate situazioni. Gli individui mostrano sperimentalmente una sensibilità più spiccata per le perdite che per i guadagni; ciò significa che una formulazione che pone l’accento sulle perdite derivanti da un’opzione, rende quell’opzione meno attraente per l’essere umano.
L’evidenza empirica di Kahneman suggerisce dunque che la razionalità umana non è governata dalla massimizzazione dei benefici e minimizzazione dei rischi, bensì dall’impatto di fattori affettivo-emotivi sul sistema cognitivo.

Questi due filoni di ricerca e di riflessione convergono nella definizione di Kahneman di benessere e felicità.

Lo psicologo israeliano riprende le ricerche di Easterlin, che indagava il costrutto di felicità ponendo ai soggetti intervistati una semplice domanda: «Presa la tua vita nel suo insieme, come stanno andando le cose? Ti consideri molto felice, abbastanza felice o poco felice?». Dai risultati di Kahneman sappiamo però che la mente umana può incappare in diversi errori di giudizio e valutazione: la memoria può essere tratta in inganno da processi mentali fallaci, influenzata da manipolazioni dello stato d’animo, da elementi contestuali, dalla cultura, etc.

Kahneman, nelle sue ricerche, quindi, richiede alle persone un resoconto momento-per-momento e non globale della propria esperienza, evitando così una ricostruzione a posteriori e utilizzando gli elementi forniti “in diretta”: «La tua esperienza è positiva o no in questo momento?».

«Per neutralizzare l’effetto delle distorsioni cognitive presenti nell’autovalutazione delle persone, dobbiamo disporre di misure che offrano le seguenti caratteristiche: a) devono corrispondere il più direttamente possibile alle reali esperienze edoniche ed emozionali; b) devono attribuire peso appropriato alla durata di varie porzioni di vita (come lavoro, divertimenti, ecc.); c) devono essere influenzati soltanto in misura minima da contesto e pietre di paragone».

La percezione della felicità, dunque, è determinata da un insieme di fattori, tra cui:

  • Il contesto: è in grado di influenzare le nostre decisioni, allontanandoci da ciò che sceglieremmo in completa autonomia. Alzi la mano chi, dopo un bombardamento incessante di spot pubblicitari, non ha mai ceduto all’acquisto.
  • Novità e imprevisti: una piacevole cena con gli amici può essere guastata da un conto inaspettatamente salato, oppure – viceversa – la temuta visita dal dentista può essere rallegrata da una telefonata che ci annuncia la vincita di un viaggio.
  • Attenzione: dona rilievo e importanza a qualcosa, che sia un oggetto o una circostanza. Ecco perché molte persone desiderano ardentemente qualcosa e poi, una volta ottenuta, scoprono di non essere più felici di prima;
  • Loss aversion: gli individui hanno paura di perdere qualcosa in loro possesso, più di quanto gioiscano a guadagnare qualcosa.

Si deduce, dunque, che esistono limiti cognitivi nel pensare e rappresentare la propria felicità e che la nostra stessa mente ci indirizza alla ricerca di una felicità ingannevole.

Tra gli “errori mentali” più comuni, troviamo la difficoltà dell’essere umano a concepire la misura del tempo e la rapidità con cui ci abituiamo alle nuove situazioni (o ai nuovi oggetti). Fare grandi sacrifici ed enormi sforzi per aumentare il proprio reddito o per acquistare un bene materiale, nel tempo, aumenta poco o nulla la nostra felicità.

La felicità, come premesso, è composta da dimensioni elementari (la qualità dell’esperienza che si sta vivendo, positiva o negativa che sia), aspettative future e ricordi. Molto spesso siamo vittime di un “ingolosimento” momentaneo, che ci porta ad inseguire paradisi di breve durata (ad esempio: l’ultimo gadget tecnologico, un’automobile nuova).

Le ricerche di Kahneman dimostrano che lo stato affettivo esperito nei resoconti dei soggetti intervistati, dipende dalle attività in cui sono coinvolti.

In generale, il lavoro ottiene l’indice di gradimento più basso, così come i lavori domestici e lo shopping (!). Le attività relazionali e il tempo libero sono invece in testa alla classifica: socializzare con gli amici, rilassarsi, cenare e pranzare, fare attività fisica ma anche spirituale come il pregare.

Il tempo con gli amici è quello che offre un maggiore contributo in termini di felicità, seguito da quello passato in solitudine. Si nota anche che alcune circostanze di vita e di lavoro hanno differenti effetti sulla valutazione; ad esempio, donne divorziate hanno segnalato un livello di soddisfazione generale inferiore a quello segnalato dalla donne sposate. Grazie al metodo della ricostruzione giornaliera, gli effetti di alcune condizioni (matrimonio, divorzio, ma anche la qualità del governo), risultano incidere sulla valutazione della propria felicità, portandoci dunque una volta di più a riflettere sugli indicatori del benessere.

E’ importante tenere presente che i risultati sono frutto di una media, e ciò non significa che non esistano persone infelici del proprio matrimonio oppure altre che non traggono soddisfazione dalla propria carriera.

Un altro strumento utile e diffuso, purtroppo o per fortuna, per raggiungere livelli soddisfacenti di felicità, sono i così detti manuali di auto-aiuto. Insomma ognuno sembra avere una (o più) risposte alla spinosa questione.

I proverbi, del resto, confermano i risultati della ricerca da cui siamo partiti e che sembra confermata anche dagli studi di Seligman e Kahneman: “La felicità non si può comperare”; “I soldi non danno la felicità”; “Anche i ricchi piangono” etc.

Riassumendo, per essere felici, secondo Howell e il suo team di ricerca, quello che conta sembrano essere le nostre esperienze personali, i nostri vissuti, più che gli oggetti in sé.
Potremmo allora azzardarci a sostenere che Il discorso del Capitalista di Jacques Lacan declinato ai giorni nostri possa essere valido in parte, o in toto?

Ossia: nonostante la nostra società ci riempia di oggetti (anche non richiesti), ci bombardi di messaggi pubblicitari, di slogan, di imperativi, la nostra felicità (e da qui, il nostro benessere) possono derivare non dagli oggetti onnipresenti, ma dalla nostra capacità di rimanere Soggetti con la S maiuscola?
E ancora: possiamo forse affermare che alcuni disagi contemporanei (penso ai Disturbi Alimentari, alle Dipendenze, agli Attacchi di Panico) derivino proprio da questo “ingozzamento”, che ci fa soffocare, che fa smarrire la strada, che riempie un vuoto che in realtà dovremmo sentire, senza “tappare” con cibo, alcol, o paura? Un vuoto che ci consenta di percepire l’altro, ma anche noi stessi?

Un invito, forse, a riscoprire le nostre passioni, senza vergognarci della nostra felicità, per quanto semplice e disarmante possa essere.

 

BIBLIOGRAFIA:

  • Gray R., Jamieson A., Happiness? It’s just a simple pleasure, The Telegraph Group Limited, London, 2009.
  • Howell R., Rodzon K., How happy can you be? The Journal of Positive Psichology, 2009 (in press). Available at: http://bss.sfsu.edu/rhowell/Publications.htm.
  • Kahneman D., Economia della felicità, Il Sole 24 Ore Libri, 2007.
  • Kahneman D., Diener E., Diener E., Well-being: the Foundations of Hedonic Psychology. Russell Sage Foundation Publications, 1999.
  • Seligman, M., Imparare L’Ottimismo, Free Press, New York, 1998.

 

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Memory week: partecipa all’esperimento on-line di Cambridge

– Rassegna Stampa –

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze PsicologicheCuriosità e opportunità dalla Memory Week lanciata dal Guardian: i ricercatori Yasemin Yazar and Jon Simonsare dell’Università di Cambridge offrono ai lettori la possibilità di partecipare a un esperimento on-line, finalizzato ad indagare le caratteristiche della memoria a lungo termine e in particolare della memoria episodica – la memoria di eventi ed episodi del nostro passato che sono parte della nostra autobiografia.Viene richiesto di completare due parti dello studio e di fornire alcune informazioni anonime.

Al termine, i soggetti sperimentali che si saranno auto-reclutati riceveranno un punteggio indicatore delle proprie abilità mnestiche e una sorta di classifica rispetto agli altri partecipanti. Andate tranquilli, la ricerca è stata approvata da University of Cambridge Psychology Research Ethics Committee.

Cliccate su questo link e dedicate 10-15 minuti alla vostra memoria e alla ricerca!

L’estetica della crudeltà in Out di Roee Rosen

Giuseppe Civitarese, Sara Boffito.

“Out” (Tse). Mediometraggio dell’artista israeliano Roee Rosen, presso la Galleria Riccardo Crespi di Milano.

L’estetica della crudeltà in Out di Roee RosenDue donne commentano la loro esperienza (vissuta realmente) di aderenti a gruppi dediti a pratiche di BDSM (Bondage-Domination-Sadism-Masochism) in Israele. Entrambe rievocano aspetti dolorosi della loro storia di vita, passano poi, quasi inavvertitamente, a temi di politica e illustrano il proprio credo ideologico: l’una di femminista e pacifista (Yoana, 32 anni), l’altra militante di destra cresciuta in una famiglia razzista (Ela, 25 anni).

La società è costruita sull’oppressione e sul potere, spiega Yoana. Sono questi i mattoni anche delle nostre fantasie, tutti posti in cui regna il Super-Io. Non esistono legami affettivi o di sesso senza giochi di potere. La trasgressione del BDSM li fa emergere. La perdita di controllo è liberatoria. La donna aggiunge poi che l’esercizio controllato e condiviso di una violenza erotizzata, oltre che rappresentare per entrambe la via per raggiungere un senso di autenticità e per stanare i demoni che ciascuno ha in corpo, può essere usato ritualmente anche per esorcizzarli. C’è però una cautela da rispettare. Non puoi avvicinarti a un esorcismo solo con sentimenti negativi. Devi identificarti col demone, provare simpatia per lui. Solo così puoi capire i trucchi che usa e sedurlo ad abbandonare il corpo.

Nella scena successiva assistiamo al rituale esorcistico. Yoana, dall’aria androgina e in abiti maschili, ha il ruolo della dominatrice, Ela della sottomessa. La vediamo infatti in piedi, nuda, le mani fissate a manette ancorate in alto al soffitto. Il demone che abita nel suo corpo è la violenza ideologica nella figura di Avigdor Lieberman, attuale ministro israeliano alla Difesa, un politico di destra che vorrebbe cacciare tutti i palestinesi da Isralele. Yoana prova per lui una certa ‘simpatia’ perché almeno è uno che, per terribile che sia, osa dire quello che pensa. Non si nasconde, come fanno invece ‘altri assassini e razzisti’.

Per estrarlo dal corpo di Ela, Yoana le assesta dei colpi sulle natiche incrementando gradualmente la forza. La ragazza non geme, la sua voce assume invece le tonalità gutturali del demone Lieberman e le frasi che pronuncia sono citazioni da suoi discorsi pubblici.

Nella terza e ultima scena un attore suona la fisarmonica traendone sonorità klezmer e un altro canta in russo con grande bravura una struggente canzone il cui testo è la Lettera alla madre di Esenin.

Autore del video, intitolato Out (Tse) è l’israeliano Roee Rosen. Nel 2010 l’opera è stata premiata alla 67esima Mostra del festival del cinema a Venezia, nella sezione dei mediometraggi. Che abbia riscosso successo, non stupisce. Aspro e duro, il video di Rosen non punta certo a suscitare superficiali emozioni estetiche basate su facili effetti, ma produce una forte impressione.

Con Out abbiamo il problema di come sottrarci a trovare immediatamente dei significati a quello che vediamo. Infatti siamo sedotti tanto a prendere posizioni “corrette” di fronte alla violenza, alla perversione, all’ideologia, quanto soprattutto a disfare il complesso intreccio di temi messo a punto astutamente da Rosen. Da questo punto di vista il video è una trappola perfetta. Siamo ammaliati, insomma, e sospinti a esercitare virtualmente una speculare violenza, che sarà ovviamente una violenza dell’interpretazione; a rispondere per esempio a domande come: chi dirige il gioco nelle relazioni perverse? chi opprime chi? qual è il nesso tra le politiche familiari e quelle dei partiti e degli Stati? qual è il ruolo della pulsione di morte in tutto ciò? quando l’aggressività diventa odio? È ovvio infatti che come spettatori è difficile provare simpatia per le pratiche BDSM, o per Lieberman, o in generale per i demoni. Questa stessa ovvietà però ci insospettisce e ci induce a essere più perspicaci.

Rosen gioca abilmente con l’ambiguità per farci scoprire che ospitiamo in noi stessi il demone di un giudizio virtualmente violento e ideologico, in qualsivoglia direzione lo rivolgiamo. Raggiunge lo scopo sfumando la linea che separa maschile e femminile, vittima e carnefice, autore e spettatore, piacere e dolore, verità e menzogna. Mostrarci Out è il suo modo di esorcizzarci. A quel punto, se l’esorcismo riesce, una volta liberati del mostro in cui abbiamo accettato di farci trasformare per il solo fatto di esserci seduti a guardare il video, non ci resta che fare il lutto della perdita della grazia che – scopriamo – non abbiamo mai posseduto.

Com’è ovvio, ciò non vuol dire certo che dobbiamo rinunciare a giudicare, ma che semmai il nostro giudizio deve essere più maturo e che non possiamo pensarci mai come puri e purificati dall’odio. Vuol dire anche che la cosa più difficile da fare è sopportare la persecutorietà del non sapere. Solo se passiamo per questa crisi emotiva possiamo sperare di vedere le cose in modo più nitido. Per la prova cui ci sottopone, l’estetica di Roseen si può definire pertanto un’estetica della crudeltà, rivolta a educarci a una certa capacità negativa. È la capacità, che in una lettera del 1817 Keats riconosce ai poeti, di accogliere in sé più cose possibili: il saper «stare nelle incertezze, nei misteri, nei dubbi, senza essere impazienti di pervenire a fatti e a ragioni».

Di fronte a un’opera del genere la critica psicoanalitica potrebbe prendere due strade. La prima rimanderebbe al concetto di sublimazione: un impulso proibito è sperimentato dallo spettatore voyeur in un contesto permesso e approvato e in una forma trasformata; la seconda metterebbe in evidenza la funzione di contenimento psichico dell’orrore cui l’arte assolve grazie alle sue qualità formali. A nostro avviso i due punti di vista non si escludono, ma il secondo contiene il primo, e pertanto è da ritenersi primario. Forse non è tanto importante gratificare la pulsione di per sé (placare l’Es) – l’aspetto che di solito è stato enfatizzato – quanto piuttosto rinsaldare la cornice di sicurezza in cui ciò può realizzarsi (rafforzare l’Io). In entrambi i casi è l’ordine simbolico come espressione dei legami intersoggettivi ciò che permette di assegnare un significato personale all’esperienza.

Rosen ci dà un’indicazione precisa in tal senso. Sul finale di Out arriva la musica. Dai livelli più differenziati e astratti della mente, riflessi nei discorsi della psicologia, della sociologia e della politica (simbolici), arretriamo verso quelli più musicali, corporei, affettivi (semiotici); ai livelli che sono in gioco alla nascita, quando il bambino non ha ancora né linguaggio né un Io. La lettera alla madre è lo strazio per la sua ineliminabile ambiguità e insieme, come forma poetica, l’illusione del recupero del suo corpo; con le parole di Freud: della nostra prima patria e dimora.

C’è un ambito particolare dove questa capacità di contenimento ‘sensoriale’ e una certa rinuncia all’interpretazione si fanno più pregnanti: nelle relazioni di cura. È lì che la violenza dell’interpretazione è ancora più insidiosa. Rosen suggerisce l’analogia in modo palese. In Out mette a tema, in modo sottile e coinvolgente, la questione del rapporto tra la Storia e gli aspetti più personali e intimi della nostra vita. Ci mostra con che brutalità i personaggi della Storia possono entrare nel mondo interno e lì giocare ruoli estremamente violenti. I frammenti dei discorsi di Lieberman, che Rosen fa uscire dalla bocca di Yoana, sono pronunciati in parte con la voce roboante e distorta del demone, e in parte con la voce della ragazza, una voce quasi di bambina, più autentica, che sembra esprimere, attraverso le parole del ministro della difesa, anche il proprio dramma personale: “Nessuno mi ama”, “Nessuno mi ringrazia, nessuno mi apprezza”.

Ela e Yoana vivono dunque la scena di BDSM letteralmente come un setting. Yoana spiega che quel che prova è “un senso di grande libertà e piacere nel rinunciare al controllo in un posto sicuro e protetto”. Il fotogramma in cui Ela racconta la propria storia sembra – per un attimo – l’inizio di una prima seduta di analisi. La donna ci parla della propria perversione, di come è nata e di come domini ormai la sua vita. È sempre stato così per lei. Ci dice di volersene liberare ma al riguardo è ambivalente: “Credo che persone che dicono che Lieberman parli attraverso di me esagerino” ma poi continua “sento che è una parte di me, le sue opinioni sono maturate dentro di me, come un bambino che cresce nella pancia della mamma […] Sarebbe come un aborto, raschiare via delle parti di me”. E Yoana, nella veste dell’esorcista, capisce che, per vincere il demone, è necessario provare anche a guardarlo con uno sguardo benevolo, capire le sue ragioni, per quanto le possano sembrare estranee. Può farlo perché anche lei ha avuto una storia difficile – lo ha raccontato all’inizio – che l’ha portata a scegliere quel genere di pratiche sessuali; con Frost potremmo dire che “ha conosciuto la notte”.

Non vogliamo naturalmente paragonare l’analisi a una scena di BDSM, ma riflettere sul fatto che da un lato una certa ‘violenza’ dell’interpretazione è inevitabile e che dall’altro il problema è come esserne consapevoli per non trasformarla in violenza pura e semplice. È questo che dovremmo tenere a mente anche in analisi quando personaggi che compaiono nel discorso del paziente e che si riferiscono a fatti di cronaca, della politica o della Storia, ci risultano particolarmente odiosi, magari perché appartenenti a una posizione sociale o politica diversa dalla nostra. Oppure quando essi stessi hanno commesso atti che sfidano le nostre capacità di immedesimazione perché ripugnanti. Dovremmo restare aperti al discorso dell’inconscio e chiederci chi sta davvero parlando e di cosa.

Non a caso James Grotstein, il famoso psicoanalista americano, descrive il modello del “divenire” – secondo Bion, l’unica trasformazione autenticamente analitica – come un esorcismo tramite il quale i demoni dell’analizzando si trasferiscono all’analista. Il processo si può tradurre benissimo nel linguaggio della psicologia. Secondo lui, il termine esorcismo è il più adeguato a rendere conto dell’importanza centrale dell’identificazione proiettiva (o transidentificazione proiettiva, se vogliamo accentuarne l’aspetto intersoggettivo) nella psicoanalisi kleiniano-bioniana: il meccanismo che descrive come avviene la comunicazione da inconscio a inconscio. L’analista si libera dei demoni che ha assorbito dal paziente, dopo essere riuscito a contenerli dentro di sé e a trasformarli.

Ultimato il rito sado-masochistico, Ela è sdraiata sul letto, stremata; Yoana si ritira autisticamente a guardare uno schermo – se mai rimanessero dei dubbi sull’identificazione in cui lo spettatore è risucchiato -, ma entrambe sono immerse in una musica commovente. L’efficacia dell’esorcismo, come in generale nella cura e nell’arte, dipende da questo, dalla capacità di commuovere, di far sentire all’unisono. La struggente nostalgia che pervade la canzone segna il momento dell’integrazione dell’odio con l’amore che subentra al sentimento di essere perseguitati.

Perché una mente possa crescere e svilupparsi, ci ha insegnato Winnicott, l’amore spietato, istintuale, del bambino deve incontrare una madre capace di provare odio e di contenerlo, per evitare così di agirlo. Si potrebbe dire che stia in questo il senso ultimo dell’esorcismo. L’artista creativo, annota in una delle sue fulminanti intuizioni, è spietato allo stesso modo del bambino. Solo così può permetterci di legare l’odio con l’amore e di espandere la nostra umanità. La crudeltà nell’arte è necessaria perché per sentirci toccati dall’amore dobbiamo sentirci toccati anche dall’odio.

La scelta del partner

 

La Scelta del Partner. Immagine: © Christian Maurer - Fotolia.com - Quando due persone si incontrano ognuna porta con sé un bagaglio di modelli e abitudini relazionali, di “teorie” e aspettative, di bisogni da soddisfare, di domande alle quali rispondere per trovare una via d’uscita a difficoltà sentimentali precedenti,  fantasie e bisogni evolutivi, o regressivi, spesso legati a ruoli e funzioni assunte all’interno della famiglia di origine o a precedenti rapporti di coppia.

Le persone quindi vivono le relazioni sentimentali non solo sulla base degli aspetti “pragmatici” e coscienti della relazione con l’altro, ma anche in funzione delle rappresentazioni interne, i modelli, che hanno costruito nel corso dell’esistenza all’interno dei rapporti più significativi.

Ma qual è il meccanismo attraverso il quale avviene la scelta di una persona piuttosto che di un’altra? Cosa del proprio bagaglio personale peserà maggiormente nell’effettuare la scelta?

Gli aspetti implicati nel meccanismo di scelta sono molteplici:

L’altro, il partner, l’amato, è sempre, in parte, usato narcisisticamente come un contenitore per alcune parti di noi, cioè in lui proiettiamo uno o più aspetti complementari di noi. Questo meccanismo può investire parti idealizzate del sé, come per esempio nell’innamoramento, o parti  indesiderabili, angoscianti e difficili da gestire.

Questo processo può dimostrarsi evolutivo, e favorire l’integrazione, quando il rapporto con il partner permette di riconoscere e bonificare le parti di noi che abbiamo fino a quel momento respinto, diminuendo anche la proiezione di aspetti scissi; o, al contrario, questo meccanismo può andare nella direzione di un uso difensivo dell’altro, per cui la relazione con lui diventa il mezzo per negare la propria realtà psichica, ignorando e misconoscendo le parti del sé che sono state risposte nel partner, e mantenendo allo stesso tempo anche un controllo sugli aspetti angoscianti e ingestibili del sé.

La scelta del partner, da questo punto di vista, è tutt’altro che casuale, infatti il prescelto deve rappresentare il contenitore “adatto” alle proiezioni e questo deve avvenire per entrambi i membri della coppia: si creano così contesti interattivi circolari all’interno dei quali entrambi i coniugi si trovano ad agire e pensare inconsapevolmente secondo modalità analoghe o contrarie a quelle indotte nell’altro dalle proprie proiezioni. Nel corso di relazioni di coppia significative è possibile osservare questo adattamento reciproco che può, come già detto, essere dinamico, cioè evolutivo e facilitante l’integrazione, o rigido e difensivo. Integrare significa poter riprendere su di sé tanto le parti buone quanto quelle inaccessibili, ma anche saper riconoscere la separatezza e la diversità dell’altro rispetto a noi. In questo senso diversi autori, primo tra tutti Dicks, si riferiscono al matrimonio come a una relazione terapeutica naturale, cioè a un terreno comune di scambio all’interno del quale è possibile trovare un contenitore idoneo all’elaborazione ed integrazione dei nuclei non risolti di ognuno di noi. In quest’ottica i lutti e le separazioni sono esperienze molto difficili da affrontare perchè comportano la perdita, oltre che della persona reale, anche di aspetti del proprio sé, del senso di identità ed equilibrio interno che è stato affidato all’essere in coppia.

– un altro aspetto coinvolto nella scelta del partner ha a che fare con come ci rappresentiamo il “noi”: questa rappresentazione interna della relazione con l’altro permette di discriminare affettivamente ciò che può essere condiviso da ciò che non lo è. Il tema della condivisione rimanda automaticamente anche al suo contrario, cioè al senso di esclusione, e a come sono stati affrontati non solo i momenti di non incontro con le figure significative, ma anche quelli di esclusione all’interno di dinamiche triangolari, quelle edipiche innanzi tutto, ma anche quelle che coinvolgono i fratelli in alleanze e coalizioni, sia orizzontali, che verticali.

Ultimo elemento, ma non meno importante degli altri, è il modello di coppia che ci portiamo dentro, così come l’abbiamo interiorizzato sulla base della nostra esperienza con i  genitori. Il progressivo sovrapporsi di configurazioni di coppia nei vari periodi evolutivi (dall’idealizzazione dei genitori nella prima infanzia, alla coppia che proibisce del periodo edipico, fino alla coppia “smembrata” dallo spirito critico e dalla contestazione adolescenziale e “ricomposta” con l’apporto di altri modelli anche esterni alla famiglia) subisce una progressiva integrazione che nell’adulto raggiunge la rappresentazione interiorizzata di coppia. Questo schema definisce ciò che ci aspettiamo dall’ “essere insieme” e influenza una porzione rilevante della vita affettiva perchè può o meno favorire la capacità di instaurare rapporti di coppia nella vita adulta, nel senso che questi saranno “usati” per confermare o smentire le attese sulla relazione di coppia. Se da un lato infatti questo schema orienta la qualità delle relazioni interpersonali e con il tempo subisce un progressivo accomodamento alla realtà, dall’altro è possibile che permangano aspetti irrisolti che non si piegano all’esame di realtà.

– Un altro fattore importante che influenza la scelta del partner è il mito, e il relativo mandato, familiare.

Il mito familiare è un insieme di rappresentazioni, valori e credenze condivise concernenti l’immagine che i membri di una famiglia hanno di sé stessi e dei ruoli reciproci all’interno della famiglia stessa. Per comprenderlo bisogna quindi concentrarsi sui contenuti simbolici e ideativo-affettivi che appartengono a più generazioni di individui. Ogni individuo infatti trova nell’universo di valori familiari e nei suoi miti una peculiare collocazione, funzionale alla soddisfazione dei suoi bisogni primari e al suo equilibrio psico-affettivo. Il mito familiare da un lato ha una funzione omeostatica perché, assicurando continuità all’identità dei suoi membri e alle relazioni reciproche, funziona come mezzo di resistenza al cambiamento; d’altro canto con il tempo può subire delle modificazioni importanti e questo spesso avviene in corrispondenza delle tappe evolutive, in cui è richiesta una modificazione funzionale dei rapporti all’interno del sistema. È’ intuitivo quindi come anche il mito familiare, e il mandato che lo veicola, abbiano una funzione importante nel determinare la scelta del partner. Quando il mito familiare prevale sui bisogni individuali, la spinta a realizzarlo è tale da sostenere la convinzione che esso esprima il tipo di legame più idoneo a soddisfare le esigenze individuali; in altri casi si può invece assistere a una ribellione, più o meno cosciente, al mandato e a una conseguente scelta del partner con caratteristiche opposte a quelle previste. In entrambi i casi è comune che le aspettative sul piano affettivo rimangano insoddisfatte. Comunque quanto più il mito sarà ricco e articolato tanto maggiori saranno le possibilità di scelta e sviluppo individuale, al contrario tanto più una componente prevarrà sulle altre quanto minori saranno le possibilità che un’ampia gamma di bisogni venga considerata e soddisfatta all’interno della relazione di coppia.

Insomma la scelta del partner, anche quella apparentemente più spontanea, acquista un senso solo alla luce di una più attenta analisi degli elementi che l’hanno determinata. In particolare il mito, in virtù della sua matrice prettamente relazionale, sembra fare da cornice alla costruzione delle rappresentazioni interne individuali.

 

BIBLIOGRAFIA:

  • Angelo C (1999) “La scelta del partner”, in “La crisi della coppia”, Raffaello Cortina, Milano.
  • Dicks, H. V. (1967) Marital Tensions. Trad. it. Tensioni coniugali. Studi clinici per una teoria psicologica dell’interazione. Roma: Borla 1992.
  • Norsa D, Zavattini G C (1997) “Intimità e collusione. Teoria e tecnica della psicoterapia psicoanalitica di coppia”, Ragffaello Cortina Editore, Milano

 

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Dio e Monsieur Divan (2011) di Stefano Jacini

Il 2011, ci ha regalato un bel libro. È uscito per i tipi di Bompiani “Dio e Monsieur Divan” di Stefano Jacini, intrigante giallo teologico che per una buona metà oscilla sapientemente indeciso tra le cospirazioni intellettuali di Umberto Eco e i complotti d’azione di Dan Brown e che infine inclina per il primo, tradendo la sua preferenza per il colto stile europeo.

Il romanzo scorre bene come un vino novello e lascia in gola un piacevole gusto. Il suo maggiore punto di forza è il dialogo spiritoso e brillante, scritto bene, ricco di faccette e di emoticon quasi fosse un social network ambientato nel passato.

Naturalmente non rivelo nulla della trama, che lascio alla scoperta del lettore. Accennerò solo che in essa si incrociano e talvolta si combattono sacerdoti inclini al diabolismo illuminista, demi-mondaine dedite alla caccia di amanti facoltosi da mungere, credenti desiderosi di edificare santuari ai loro santi patroni e naturalmente Dio e la Chiesa cattolica, che -come in ogni trama che si rispetti- ha tradito il suo divino mandato e ha sposato il fascino del potere.

Insomma, Dio e Monsieur Divan è un racconto filosofico che vuole riflettere sul bene e sul male, che mescola sottilmente toni alti e bassi e che segue una sua brillantezza di stile tutta post-moderna.

Ma è anche una riflessione critica su come il pensiero laico non riesca sempre a liberarsi di una sua curiosa ossessione per Dio e per il cattolicesimo, irrinunciabile termine di confronto malefico. Tanto da far sospettare che oggi, per riuscire a produrre dei personaggi interessanti e sottratti al perbenismo moralistico di una laicità paradossalmente sempre più sessuofobica, occorra ricorrere a promiscui cardinali e teologi dalla doppia vita carnale e spirituale e dalla tripla morale. Se proprio occorre trovare un difetto in questa piacevolissima lettura, notiamo che forse i personaggi laici avrebbero tratto giovamento da una maggiore ambiguità e ricchezza di sfaccettature. Ma per fortuna ci pensano i preti del romanzo a spargere sale sulle ferite della modernità, scacciando gli eccessi zuccherini dei personaggi laici.

Dio e Monsieur Divan - Stefano Jacini - Bompiani 2011 -

Psicologia: le ricerche più interessanti del 2011

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze PsicologicheIn questo periodo, in cui un anno è finito e un altro è cominciato, siamo tutti impegnati a fare propositi, si spera buoni, e a decidere a cosa sarebbe meglio rinunciare e cosa portare con noi in questo nuovo inizio d’anno. Il giornalista scientifico David Di Salvo ha pensato analogamente di stilare la classifica, pubblicata sul sito Psychology Today, riguardante le dieci ricerche in campo psicologico effettuate nel corso del 2011, di cui vale la pena continuare a discutere anche in questo 2012 appena cominciato. Vediamole insieme:

 

1)Potere e maleducazione. Questa ricerca pubblicata sul Social Psychological and Personality Science, convaliderebbe il detto “il potere corrompe”. Nell’esperimento ai soggetti venivamo mostrate persone che si comportavano in modo maleducato, prendendo il caffè di un’altra persona, infrangendo regole contabili, gettando la cenere di sigaretta sul pavimento o poggiando i piedi sulla scrivania, e situazioni neutre in cui i personaggi si comportavano correttamente. Successivamente veniva richiesto ai partecipanti di dare un giudizio su queste persone. Dalle interviste è emerso che i maleducati erano considerati più forti e potenti, rispetto a quelli che mostravano comportamenti civili. Il motivo principale di tale attribuzione sembrerebbe derivare dalla forza di volontà che i soggetti a cui l’esperimento era rivolto associavano alla violazione delle norme condivise. L’aspetto più interessante è che ufficialmente la maleducazione è considerata socialmente riprovevole, ma come fa notare Di Salvo spiegherebbe anche la presenza di certi personaggi in politica. Come non essere d’accordo?

 

 

2) L’effetto boomerang delle fantasie sul tema del desiderio. Pensare troppo al raggiungimento dei nostri obiettivi potrebbe essere alla lunga controproducente! Sembrerebbe infatti, secondo uno studio pubblicato sul Journal of Experimental Social Psychology, che indulgere in questo tipo di attività immaginativa, ingannerebbe il cervello, che invece di concentrarsi sul raggiungimento di quanto desiderato, produrrebbe una risposta di benessere e rilassamento, simile a quella che proveremmo di fronte all’effettivo raggiungimento di quanto auspicato.  Nell’esperimento, i partecipanti, monitorati poi nel corso della settimana, mostravano un livello significativamente minore di energie impiegate nel raggiungimento effettivo dei propri desideri se nella situazione sperimentale era stato richiesto loro di produrre fantasie positive in merito a quanto desiderato, rispetto a chi doveva produrre fantasie negative o neutre. Viene da chiedersi certi sogni aiutano davvero a vivere meglio?

 

 

3) Maggiore è il rilassamento, maggiore il valore delle cose.  Il suggerimento proviene da uno studio del Journal of Marketing Research e potrebbe convincere alcune catene di negozi ad abbandonare la musica assordante e gli ambienti iperstimolanti, in favore di negozi dai colori neutri, magari attraversati dai pacifici rumori della foresta pluviale, per averne un ritorno economico! Nell’esperimento, i soggetti erano esposti a filmati o musiche rilassanti, in un secondo tempo era poi richiesto di assegnare un prezzo ad una serie di prodotti. I partecipanti “rilassati” tendevano ad assegnare, in media, un valore maggiore del 15% superiore rispetto a chi non aveva subito il trattamento o era stato esposto a contenuti stimolanti. Sarebbe superficiale affermare che chi è in ristrettezze economiche o ha perso il lavoro, situazione non infrequente in questo tempo di crisi, potrebbe rovinarsi definitivamente, ma potrebbe far riflettere sui motivi per cui a volte è più facile cadere in tentazione, mettendo mano al portafogli!

 

 

4) Fumare per finta per smettere di fumare. Uno studio dell’Università di Catania pubblicato sullo European Respiratory Journal suggerisce che per abbandonare il vizio, può essere utile concentrarsi sulla dipendenza comportamentale indotta dalle sigarette. Nell’esperimento, i partecipanti nel gruppo che riceveva una sigaretta di plastica senza nicotina, come unico trattamento, nel follow up a 24 settimane continuavano ad essere astinenti con un tasso di 3,5 volte superiore rispetto al gruppo a cui era somministrato solo il trattamento standard per smettere di fumare. Il dato potrebbe suggerire, che la dipendenza comportamentale possa influire allo stesso modo di altri aspetti, come una scarsa forza di volontà o del controllo degli impulsi e focalizzarsi su questo aspetto, potrebbe evitare ai fumatori recidivanti anni di frustrazioni e fallimenti.

 

 

5) Il potere delle metafore. Forse non basterà una metafora a far nascere l’amore, come sosteneva Milan Kundera, ma certamente esse sono in grado di influenzare le nostre opinioni, a confermalo sarebbe uno studio della Stanford University. Nell’esperimento veniva chiesto a due gruppi di leggere due testi riguardanti la criminalità nella cittadina di Addison e di commentare con proposte per ridurne il tasso. I due testi erano uguali eccetto che in un caso, in cui il crimine veniva descritto come una “bestia selvaggia a caccia nella città e che si nascondeva nel vicinato”, mentre nell’altro come un  “virus che infestava la città” e una “piaga sociale”. Il 75% dei soggetti a cui era dato il primo foglio reagiva proponendo l’intervento dell’esercito, la costruzione di nuove carceri o un inasprimento delle pene e solo il 25% consigliava una serie di riforme che innalzassero il tasso di scolarizzazione o del benessere sociale. Nel secondo caso, diversamente, solo il 56% suggeriva un aumento delle forze dell’ordine, mentre la restante parte rispondeva nella direzione delle riforme sociali.

 

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Panico – Attacchi di Panico

Psicopedia - Proprietà di State of MindL’attacco di panico è un improvvisa manifestazione di intensa paura in  assenza di un reale pericolo, accompagnata da sintomi  somatici (tachicardia, intensa sudorazione, fame d’aria, tremore) e cognitivi (paura di impazzire, di perdere il controllo, paura di morire). Generalmente raggiunge rapidamente l’apice ed è di breve durata (di solito 10 minuti o meno).

Caratteristica essenziale  dell’Attacco di Panico è la sensazione di perdita di controllo su se stessi e sulla  situazione. Spesso si ha la paura di morire, di avere un infarto o di  impazzire. Ulteriore caratteristica associata a questo disturbo è  il forte desiderio di fuggire dal luogo in cui si sta manifestando  l’attacco. Il disagio generato dagli attacchi è spesso accompagnato da vergogna  e timore che il malessere sia percepito dalle altre persone favorendo un  immagine di sé “debole”.
Il carattere improvviso degli  attacchi e la loro relativa imprevedibilità, porta spesso le persone aventi  questo disagio a sentirsi particolarmente deboli e vulnerabili, condizione  che porta spesso a un cambiamento significativo della vita.

Esistono tre tipi caratteristici di Attacchi di Panico: 
1) Inaspettati (non provocati): in cui non è possibile associare l’esordio dell’attacco con un fattore scatenante preciso;

2) gli Attacchi di Panico causati dalla situazione (situazionali): in cui l’attacco si manifesta quasi inevitabilmente durante l’esposizione al fattore scatenante;

3) gli Attacchi di Panico sensibili alla situazione sono simili a quelli situazionali, ma a differenza dei primi non sono invariabilmente associati allo stimolo e non si manifestano necessariamente subito dopo l’esposizione.

The effectiveness of video feedback therapy – part 2

Maternal eating disorders, mother-child interaction and video feedback therapy.

The Effectiveness of Video Feedback Therapy - Part 2 - Immagine: © Ruslan Olinchuk - Fotolia.com - The previous installment of this sub-series showed that video feedback can heighten maternal sensitivity within the context of adoption. More recent research has examined the effect of video feedback on mothers with psychopathology. This installment will discuss the effect of maternal eating disorders on mother-child interaction and the possible benefits of video feedback therapy.

Eating disorders are associated with disturbances in mother-infant interactions. Thus, mothers with eating disorders do not detect and or respond to infant signals during mealtimes. They also have difficulty accepting their children’s age appropriate needs for autonomy through self-feeding.

Stein et al. (2006) examined the effect of video feedback on the quality of interactions and maternal autonomy promotion in dyads in which mothers had an eating disorder. Mothers and their children were videotaped during a meal-time interaction when the child was between four to six months and again at 13 months of age. A group of 40 mothers was provided with 13 one-hour sessions of video feedback therapy and a second group of 40 mothers was provided with supportive counseling. The aim of the video feedback therapy was to enhance mother-child interactions by facilitating maternal recognition, awareness and responsiveness to their infants’ cues.

The results demonstrated that, following treatment, mothers who received video feedback exhibited significantly less conflict during interactions than those who received only counseling. Additionally, compared to the control group, the video feedback group showed an estimated 73% reduction in the occurrence of a marked or severe conflict episode during meal times. Further, the children in the video feedback group were granted significantly higher levels of autonomy, maternal facilitation and appropriate non-verbal responses and fewer inappropriate verbal responses to their infants.

In addition to increasing mothers’ sensitivity to their infants’ gestures during meal-time, the results of the study by Stein et al. (2006) demonstrate that video feedback can reduce conflict in mother-child interaction and raise levels of maternal autonomy-promotion, facilitation and appropriate non-verbal responses. After receiving video feedback, mothers made fewer inappropriate verbal responses to their infants.

In the next installment of this sub-series I will be discussing the effect of video feedback therapy on mother-child narratives.

 

BIBLIOGRAPHY:

 

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ANCHE IL CALCIO PRATICATO NON FA BENE AL CERVELLO

Anche il calcio praticato fa male alla salute - Immagine: © Smileus - Fotolia.com - Che passare le domeniche sul divano davanti a una ventina di uomini che corrono dietro ad un pallone non fosse un’attività capace di promuovere lo sviluppo intellettivo, questo si sapeva, ma ora i ricercatori ci dicono che anche chi pratica questo sport mette a rischio il suo cervello.
In particolare uno studio dell’Albert Einstein College of Medicine ha dimostrato che colpire ripetutamente di testa la palla aumenta il rischio di lesioni cerebrali e deficit cognitivi.

I ricercatori hanno sottoposto 38 calciatori non professionisti, ma alle prese con questo sport dalla tenera età, a una delle più recenti tecniche di neuroimaging. Tale tecnica, nota con l’acronimo DTI  Diffusion Tensor Imaging, permette di ricavare una misura di anisotropia di diffusione, l’anisotropia frazionale FA, in grado di misurare il movimento delle molecole d’acqua lungo gli assoni. In un cervello sano ad alti indici di FA corrisponde un movimento uniforme. Una FA troppo bassa all’interno della materia bianca è invece stata associata a un movimento più disordinato, caratteristico dei pazienti con commozione cerebrale .

Ai soggetti è stato chiesto di rievocare il numero di volte in cui hanno colpito il pallone di testa nel corso dell’anno passato. I risultati dei test confermano che gli individui che hanno dichiarato di aver compiuto il gesto atletico incriminato con maggior frequenza, esibivano lesioni cerebrali simili a suddetti pazienti con commozione cerebrale.
I danni si situano soprattutto in cinque regioni cerebrali collocate nel lobo frontale e nella regione temporo-occipitale, responsabili di importanti funzioni cognitive quali memoria, attenzione, funzioni esecutive e funzioni visive di ordine superiore.

Se i mariti volessero dunque continuare indisturbati a dedicare due sere a settimana al calcetto sarà bene che dimostrino che tale attività non sia dannosa per la loro salute. Come? Esibendo per esempio una memoria di ferro nel ricordare gli anniversari e un’attenzione più che vigile nel complimentarsi con la compagna per il nuovo taglio di capelli. In assenza di tali precauzioni c’è il rischio che tali informazioni vengano strumentalizzate da tutte quelle donne stufe di lavare calzini maleodoranti.
Considerando inoltre che il calcio è uno degli sport più praticati al mondo, i ricercatori si sono spesi anche nell’individuare un numero massimo di colpi, oltre il quale il danno diventa significativo. La soglia è stata stimata tra i 1000 e i 1500 colpi di testa l’anno.
Per facilitare una presa di coscienza del problema da parte dei calciatori, gli studiosi hanno fatto la divisione per loro: non più di tre colpi di testa al giorno

 

BIBLIOGRAFIA:

 

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REFRAMED: Dialectical Behaviour Therapy per il trattamento della depressione refrattaria.

– Rassegna stampa –

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze PsicologicheI ricercatori della University of Southampton, guidati dal professore di psicologia clinica Thomas Lynch stanno conducendo uno studio per valutare gli effetti di un approccio basato sulla Dialectical Behaviour Therapy (DBT) nel trattamento della depressione cronica e resistente ai trattamenti psicofarmacologici (depressione refrattaria).

“REFRAMED” (REFRActory Depression: Mechanisms and Efficacy of Dialectical Behaviour Therapy) è il primo trial clinico finalizzato a verificare l’estendibilità dei principi della DBT al trattamento della depressione refrattaria. Il trial prevede il reclutamento di circa 270 pazienti, metà dei quali saranno sottoposti a trattamento DBT (con 24 sedute individuali e 24 sedute di gruppo nell’arco di sei mesi), mentre il gruppo di controllo sarà sottoposto ai trattamenti standard principalmente focalizzati sul trattamento farmacologico con antidepressivi.

Oltre alle fasi di pre e post assessments il trial prevede anche la rilevazione dei cambiamenti del tono dell’umore e modalità di coping durante il trattamento stesso. Lo studio è stato specificamente pianificato per includere proprio quei pazienti (con diagnosi di depressione refrattaria) cronici, resistenti ai trattamenti e spesso con comportamenti suicidari. Attendiamo con curiosità gli esiti della sperimentazione.

 

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI:

 

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L’impronta della violenza sul nostro cervello

 

L’impronta della violenza sul nostro cervello - Immagine: © fasphotographic - Fotolia.com - Le violenze subite in famiglia sembrano aumentare la sensibilità e la capacità dei bambini di intercettare potenziali stimoli minacciosi nell’ambiente. “Assistere a violenze” o “esserne vittima” poco importa, entrambe mettono in scacco la speranza di sopravvivere e facilitano il rapido incremento della capacità di captare indizi pericolosi.

I dati epidemiologici ci dicono che l’esposizione ad un clima familiare violento colpisce ad oggi una significativa minoranza di bambini: le stime generali sulla presenza di episodi di violenza fisica/sessuale sono tra il 4 e il 16%, mentre il range di violenze domestiche subite arriva a colpire tra l’8 e il 25% dei bambini. Quest’ultima percentuale diventa un dato di enorme impatto clinico, se si pensa che queste esperienze di maltrattamento, spesso reiterate per anni, costituiscono uno stress ambientale in grado di accrescere drammaticamente il rischio di sviluppare una psicopatologia nell’età adulta.

I comportamenti aggressivi dei bambini. Immagine: © elisabetta figus - Fotolia.com
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Uno studio pubblicato nel 2011 sulla rivista Current Biology ha utilizzato tecniche di neuroimaging per esplorare l’impatto dell’abuso fisico o della violenza domestica sullo sviluppo emotivo del bambino. I ricercatori del gruppo di McCrory della University College London hanno rilevato nei bambini con storia di violenza la presenza di una maggiore reattività a stimoli minacciosi significativi dal punto di vista biologico (cioè legati alla sopravvivenza!), come ad esempio volti arrabbiati, rispetto a volti tristi o neutri. Le aree cerebrali più attivate dalla presentazione di volti rabbiosi sono state l’insula anteriore e l’amigdala, entrambe coinvolte nell’intercettare minacce nell’ambiente e nell’anticipare e prevenire il dolore, fisico e mentale.

 

Non si tratta di danno cerebrale, ma di una maggiore e più frequente attivazione dei circuiti neurali legati alla paura e alla percezione di pericolo. L’ipotesi dei ricercatori è dunque che questa maggior reattività costituisca un meccanismo di adattamento biologico che rende questi bambini “iper-consapevoli” (hyper-aware) rispetto alla presenza di possibili pericoli nel loro ambiente e che li aiuta ad intercettare in brevissimo tempo il pericolo e ad avere salva la vita. Precedenti studi di neuroimaging condotti su soldati che avevano partecipato a combattimenti violenti, hanno mostrato lo stesso pattern di attivazione in queste due aree cerebrali!

Ma cosa succede se questo pattern viene mantenuto invariato nel tempo?

I ricercatori sottolineano come questo meccanismo, inizialmente adattivo, possa diventare in età adulta un fattore di rischio neurobiologico e di predisposizione a sviluppare disturbi psicologici. Ansia e depressione negli adulti sono spesso il risultato di una prolungata esposizione a violenze domestiche o a uno stato prolungato di neglect affettivo (ugualmente percepito come “rischio di vita” per un bambino); tuttavia sono ancora poche le ricerche che si sono occupate di studiare come la presenza di queste storie riesca a lasciare “un’impronta nel cervello” tale da incrementare la vulnerabilità nell’adulto a sviluppare sofferenza psicologica.

Il dato descritto dagli autori può apparentemente non avere impatto diretto sul piano clinico e del trattamento, ma la sola possibilità di spiegare anche in termini biologici l’intenso stato d’ansia, pervasivo disturbante e talora logorante, come una normale risposta al pericolo appresa nella propria storia può talora essere rassicurante e ridurre la sensazione di incapacità o debolezza spesso legata alla cronica impossibilità di riuscire a godersi momenti di relax, anche quando l’ambiente intorno è privo di pericoli.

 

BIBLIOGRAFIA:

McCrory EJ, De Brito SA, Sebastian CL, Mechelli A, Bird G, Kelly PA, Viding E, (2011). “Heightened neural reactivity to threat in child victims of family violence”. Current Biology, 21(23).

 

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Vado in terapia: aspettative e timori

Cosa si aspettano i (potenziali) pazienti?

Vado in terapia: aspettative e timori - Immagine: © andrewgenn - Fotolia.com -
"Dottore, non sono sicuro di potermi fidare di lei"

Nella nostra esperienza clinica un aspetto fondamentale è rappresentato dalla domanda terapeutica, intesa non solo come contenuto del problema oggettivamente descritto dal paziente ma soprattutto come rappresentazione che egli si costruisce riguardo alla terapia, all’intervento del terapeuta e al proprio ruolo nel processo di cura.

 

Esaminando il primo elemento scopriamo che in molti casi, nell’incontro con chi si rivolge a noi, il concetto di trattamento terapeutico viene rivestito di un significato medico, all’interno del quale la funzione principale è svolta dalle competenze del “dottore”, dalla sua tecnica e dalla teoria che la sostiene; il paziente si aspetta una risposta ma non solo, la attende giusta, corretta. Non è raro che di fronte alla nostra spiegazione, auspichiamo sintetica, delle caratteristiche principali della terapia, egli cerchi di ottenere un rimando il più preciso possibile, che escluda i casi particolari, l’uso della parola “dipende” e fornisca indicazioni attendibili anche sulla durata del trattamento.

Tecniche terapeutiche: la bacchetta magica - Immagine: © Ekler - Fotolia.com
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Nella rappresentazione del paziente, la possibilità da parte del terapeuta di accedere a un vasto insieme di tecniche e strumenti applicabili con rigore alla risoluzione del problema clinico, implica sia possibile stilare un programma di cura, prevedere i tempi e i modi. In questi casi la terapia è considerata un’esperienza asimmetrica, nella quale la figura medica ha il compito di insegnare ciò che il paziente non può apprendere in autonomia; la competenza del terapeuta è perciò l’elemento discriminante in base al quale il paziente struttura la propria domanda di cura, affidandosi al depositario della tecnica e aspettandosi in tempi relativamente brevi il frutto benefico di quella competenza alla quale ha deciso di attingere.

 

E’ chiaro come questo approccio, non infrequente peraltro, vada sottoposto a immediata revisione critica, pena l’insorgere di aspettative irrealistiche nel paziente e l’impossibilità di strutturare il lavoro clinico nella forma di un processo di sviluppo collaborativo, che non si fonda sulla presenza di un personaggio attivo e uno passivo ma sulla condivisione di un percorso capace di sostanziarsi nel tempo mediante gli atti comunicativi di entrambi gli attori della relazione.

La letteratura clinica afferma da molti anni che i principali fattori di cambiamento in terapia sono l’accordo sugli scopi e sui compiti e la creazione di una buona alleanza col paziente (Bordin, 1979); diventa perciò fondamentale individuare quali sono le credenze, le teorie naives che il soggetto richiedente la cura esprime riguardo all’origine della propria sofferenza nonché le convinzioni che egli nutre circa le reali possibilità di generare un cambiamento (Lorenzini, Sassaroli, 2000). Utilizzando la Naif Ideas Survey (Caroso et al., 2000) sono state individuate cinque teorie attraverso le quali i pazienti rintracciano la causa del proprio malessere (Sassaroli, Lorenzini, Ruggiero, 2006):

  • teoria dell’incapacità;
  • teoria del malfunzionamento biochimico e del sistema nervoso;
  • teoria delle cause esterne impersonali;
  • teoria relazionale;
  • teoria cognitivo-comportamentale.
Il Metodo della Monetina in Psicoterapia: Testa o Croce? - Immagine: © ra3rn - Fotolia.com
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Ai fini della nostra trattazione è particolarmente interessante il primo punto. Il paziente che mostra di aderire alla teoria dell’incapacità ritiene di non riuscire a raggiungere gli scopi percepiti come desiderabili a causa di fattori interni, scarse abilità relazionali ad esempio, oppure una carente conoscenza dell’ambiente, difetti caratteriali, demotivazione. Ne scaturisce perciò l’aspettativa che il terapeuta intervenga attraverso l’insegnamento di capacità particolari che il soggetto non possiede o abilità più generali che fino ad allora sono state utilizzate con un grado di efficacia insoddisfacente. In questo caso il lavoro clinico non si orienta verso la pianificazione di strategie migliori bensì persegue la comprensione delle credenze sottese a tali strategie; non offre al paziente la prescrizione di azioni da considerarsi oggettivamente giuste, ma una consapevolezza più profonda circa il ruolo svolto dalle sue credenze nell’insorgenza degli stati d’animo problematici e nella messa in atto dei comportamenti disfunzionali.

 

La terapia deve invalidare la teoria dell’incapacità e le aspettative di chi chiede aiuto: un intervento esterno che riduca il dialogo con le risorse del paziente, giudicate carenti da quest’ultimo, per imporre una soluzione tecnica, si risolve nella conferma delle credenze già rivelatesi disfunzionali.

 

… e cosa temono?

Quando parliamo di timori del paziente riguardo alla terapia, è necessario procedere ad alcune precisazioni. In primo luogo ci riferiamo unicamente alle resistenze esplicitate dal soggetto, e in particolare a quelle che nella fase iniziale del trattamento possono comprometterne la prosecuzione. Come terapeuti cognitivisti riteniamo di doverci soffermare su ciò che l’individuo si rappresenta in termini di pensiero cosciente; siamo perciò convinti che le resistenze inconsce descritte dalla letteratura psicoanalitica, pur costituendo un tema di interesse per tutti coloro che operano nella clinica, non possano considerarsi l’oggetto centrale di un processo di cura, in virtù della loro essenza sfuggente e non dimostrabile.

Anger - © ioannis kounadeas - Fotolia.com
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Nella nostra esperienza clinica alcuni pazienti intraprendono la terapia mostrando un repertorio piuttosto scarno di teorie e credenze in merito ad essa, si tratta per lo più di coloro che come descritto in precedenza si affidano passivamente alle competenze del dottore, mentre altri esprimono un proprio sistema di significati personali connessi al processo di cura. La nostra trattazione intende esaminare alcuni di tali costrutti, muovendo da un’osservazione: se da un lato le successive fasi della terapia possono far emergere credenze nuove delle quali il soggetto non era inizialmente consapevole, dall’altro è fondamentale chiarire e discutere i timori coscienti che accompagnano l’avvio di ciò che potrà diventare un percorso di cambiamento.

 

In particolare abbiamo focalizzato l’attenzione su quei soggetti che intravedono nella terapia un possibile e temuto attacco critico alle figure più significative della loro vita, e parallelamente alle esperienze più importanti che li hanno condotti fino a noi. Nella rappresentazione di questi pazienti la terapia non è tanto un processo di sviluppo di risorse rimaste fino a quel momento imprigionate all’interno di credenze disfunzionali su di sé e sul mondo, quanto piuttosto un faticoso esercizio di messa in discussione senza sbocchi apparenti, nel quale un ruolo preponderante potrà essere assunto dal rimprovero ruminativo nei confronti della propria origine.

Rumination - © Johan van Beilen - Fotolia.com
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Per questi soggetti, che l’osservazione clinica coglie reduci da esperienze di significativo criticismo genitoriale, la terapia è un sentiero minaccioso diretto al passato e l’emozione di paura che viene espressa durante i colloqui riguarda l’eventualità di dover ridipingere a tinte fosche l’operato dei propri genitori o di altre figure rilevanti. Siamo di fronte a pazienti estremamente polarizzati per i quali analizzare i life events significa attribuire delle colpe ineludibili, che essi hanno sempre rivolto e sentito rivolgere alle proprie azioni e che ora la terapia potrebbe riversare in modo altrettanto assoluto su altri attori.

 

Seguendo tale costrutto l’individuo si interroga sulle modalità di un possibile cambiamento e finisce sovente per immaginarselo come il risultato di un insegnamento o di una tecnica che il terapeuta saprà trasmettere; si percepisce incapace di attingere a risorse personali autonome e tende a concepire la terapia come un percorso che potrà progredire solo in due, alternative direzioni: creando un nuovo soggetto rimproverante, il paziente che processa coloro dai quali veniva in precedenza processato, o applicando tecniche nuove, nuovi strumenti di gestione delle emozioni ai contesti attuali. Solo il superamento di questa dicotomia, nell’ambito della quale il secondo scenario viene ritenuto un’evoluzione desiderabile mentre il primo minaccia il paziente col peso del proprio significato assoluto, può permettere alla terapia di approfondire realmente ciò che viene definito cambiamento.

 

BIBLIOGRAFIA:

  • Bordin, E. S. (1979). The generalizability of the psychoanalytic concept of the working alliance. Psychotherapy: Theory, Research and Practice, 16, pp. 252-260.
  • Caroso, M., Ottavi, P., Scarinci, A., Vicino, S., Tresca E. (2000). Strumenti di indagine delle teorie psicologiche naives in terapia in Lorenzini, R., Sassaroli, S., La mente prigioniera. Strategie di terapia cognitiva. Raffaello Cortina, Milano.
  • Lorenzini, R., Sassaroli, S. (2000). La mente prigioniera. Strategie di terapia cognitiva. Raffaello Cortina, Milano.
  • Sassaroli, S., Lorenzini, R., Ruggiero, G. M. (2006). Psicoterapia cognitiva dell’ansia. Rimuginio, controllo ed evitamento. Raffaello Cortina, Milano.

 

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