Un gruppo di ricercatori, dal 1991 ad oggi, ha intervistato più di 1300 neo-mamme, completando l’indagine nel corso dei 10 anni successivi con ulteriori interviste e osservazioni. La variabile lavoro è stata declinata in tre diverse condizioni: il lavoro a tempo pieno, il part-time (max 32 ore settimanali) e l’assenza di lavoro.
L’analisi dei risultati indica che la condizione di lavoratrice part-time, rispetto al full-time, coincide con una maggiore opportunità di partecipazione alla vita familiare e permette anche di ridurre l’eventuale conflitto tra lavoro e famiglia, ma nel complesso non è stata registrata una differenza significativa nel benessere di mamme con lavoro full-time o part-time; sembra infatti che a fare la differenza sia proprio la presenza o l’assenza della vita lavorativa in aggiunta a quella familiare, indipendentemente dalla quantità di ore che impegna.
Le madri lavoratrici infatti hanno un migliore stato di salute generale e minori sintomi depressivi delle madri casalinghe; nessuna differenza invece tra lavoratrici part-time e full-time per quanto riguarda percezione del proprio lavoro come sostegno per la famiglia, incluso l’essere un genitore migliore.
Il limite della ricerca, secondo gli stessi ricercatori, sta nell’aver considerato solo le mamme con figlio unico e di aver preso in esame solo il numero di ore lavorative. In futuro la ricerca dovrà essere raffinata differenziando ulteriormente le condizioni lavorative da esaminare in relazione al benessere, includendo per esempio il livello professionale, la flessibilità, l’impegno richiesto e l’orario dei turni lavorativi.
Lavati e non ci pensi più. Ma i processi mentali restano lì.
Lady Macbeth in un dipinto di George Cattermole
‘Bimbo bestemmia e le maestre gli fanno lavare la bocca col sapone: denunciate”. Questo il titolo di un articolo apparso quest’anno sul Corriere. L’intervento formativo viene giudicato eccessivo dalla madre dell’imprecatore che sporge denuncia contro le insegnanti che avrebbero invitato l’alunno a sciacquarsi la bocca dopo aver rivolto loro una bestemmia. La dirigente scolastica non ha invece la minima intenzione di allontanare le insegnanti che si sono sempre dimostrate a suo parere competenti e professionali.
E a quanto pare l’intervento delle insegnanti, che a una prima analisi sembrerebbe rasentare la crudeltà delle pratiche punitive medioevali, ha un fondamento teorico secondo quanto pubblicato da Spike W.S. Lee e Norbert Schwarz, ricercatori presso l’Università del Michigan.
L’autorevole fonte sostiene infatti che l’esperienza corporea di rimuovere lo sporco dal proprio corpo induca nell’erronea credenza di rimuovere anche i contenuti mentali.
Gli autori hanno riscontrato che le persone tendono a giudicare il comportamento immorale degli altri con maggior severità se posti in ambienti sciatti o maleodoranti piuttosto che se seduti in camere pulite e confortevoli. Anche il giudizio sul nostro stesso comportamento immorale scaturisce minor senso di colpa se, dopo aver commesso il fattaccio, ci si deterge con una salviettina disinfettante.
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La cosa davvero interessante, e capace di scagionare le severe inquisitrici, è che la preferenza per la parte del corpo da pulire allo scopo di rimuovere gli spiacevoli residui mentali, dipende dal luogo ritenuto responsabile del peccato. La ricerca dimostra infatti che chi ha mentito a parole preferisce lavarsi la bocca anzichè le mani, mentre chi ha mentito via mail mostra la tendenza opposta.
Ecco spiegato perchè Lady Macbeth, dopo aver indotto il marito a commettere un omicidio, non riesca a togliersi l’immaginaria macchia di sangue dalle mani: il peccato è stato commesso dalle parole uscite dalla sua bocca e non dalle sue mani.
Forse, se in quell’epoca fossero esistiti gli spazzolini, avrebbe avuto un alito più gradevole e soprattutto si sarebbe tormentata di meno!
I Comportamenti Aggressivi dei Bambini: ma è sempre colpa dei genitori? – Parte 4
Bambini e aggressività: che cosa possiamo fare? Alcuni suggerimenti pratici.
Sul numero di Settembre di Child Development troviamo una guida su come impostare un lavoro con bambini che hanno comportamenti aggressivi. A fornirci questi spunti, riassunto di ricerche internazionali e di casi clinici, sono il medico Angela Luangrath, del Royal Children’s Hospital di Melbourne e Harriet Hiscock, pediatra e ricercatrice presso l’Università di Melbourne.
LE LINEE GUIDA:
(1)Incoraggia i comportamenti positivi: anche se può sembrare contro-intuitivo, le punizioni servono a poco e soprattutto non fungono da deterrente per il comportamento aggressivo futuro. Ciò che invece diventa determinante è il rinforzo dei comportamenti positivi, ad esempio sottolineando e lodando il bambino quando si comporta in maniera appropriata. Si possono dare dei piccoli “punti” per ogni comportamento adeguato, come ad esempio delle figurine, e al raggiungimento di un certo numero di punti si può stabilire il guadagno di un premio.
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(2)Sii costante nei comportamenti con il tuo bambino: è fondamentale che il bambino sappia che a un determinato comportamento seguirà una certa conseguenza. È altrettanto importante che si renda conto che il genitore terrà una linea costante e coerente nell’educazione (rispetto delle regole, che cosa fare nel caso vengano infrante, come stabilire le eccezioni ecc…), in modo da non essere confuso e da poter stabilmente prevedere cosa è concesso e cosa è vietato. Sarebbe molto utile che venisse tenuta una linea comune tra famiglia e scuola. Sono molto frequenti, infatti, i casi in cui i bambini sembrano “degli angeli” in classe e a casa “fanno disperare”. Questo problema potrebbe proprio essere dovuto a una mancanza di coerenza che il bambino percepisce nell’ambiente domestico, dove magari vengono applicare regole troppo flessibili e poco chiare.
(3)Stabilisci dei limiti chiari e crea delle aspettative: i bambini, soprattutto i più piccoli, dovrebbero avere una chiara comprensione di ciò che ci si aspetta da loro e tali aspettative vanno loro spiegate con precisione, ad esempio il condividere un giocattolo.
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(4)Stabilisci che cosa fare di fronte ai comportamenti aggressivi: ovviamente in questo caso dipende dall’età e dal tipo di comportamento aggressivo messo in atto da bambino. In generale è importante che i genitori abbiano chiaro che cosa fare nel momento in cui si verifichi un problema e che tengano una linea comune e costante nel tempo. Una strategia generalmente usata è quella di ignorare il comportamento problematico o di distrarre il bambino – se si tratta di aggressività “minore”, ovvero che non implichi pericolo per sé o per gli altri. È utile che i genitori, al posto di arrabbiarsi a loro volta, spieghino con calma le conseguenze delle azioni del bambino. Anche per i comportamenti aggressivi più importanti è bene ricordare di non alzare il tono di voce e di porre fine al comportamento aggressivo e lasciare calmare il bambino – in queste situazioni, infatti, solitamente il bambino proverà a rimettere in atto il comportamento più volte e sarà troppo attivato per comprendere una spiegazione. È bene quindi allontanarlo dalla situazione in caso di pericolo, se ad esempio sta lanciando oggetti contro la sorella, e dargli il tempo il calmarsi. Anche se può sembrare a prima vista difficile, è molto importante lodare sempre il proprio bambino quando smette il comportamento-problema, proprio per andare a rafforzare il comportamento positivo.
Ossitocina: l’ormone che facilita la vita sociale.
– Rassegna Stampa –
Gli eventi legati alla vita sociale, come gli appuntamenti galanti, le feste, gli aperitivi, ma anche i colloqui di lavoro e le relazioni tra colleghi, se per molti sono occasioni di svago e divertimento, per i più timidi e introversi, possono rappresentare momenti estremamente stressanti.
Un aiuto per affrontare con più spensieratezza e fiducia i momenti di socializzazione viene da una ricerca della Concordia University e pubblicata su Psychofarmacology che ha identificato nell’ossitocina, l’ormone naturalmente rilasciato durante e dopo il parto, un facilitatore della vita sociale: sembra che sotto l’effetto dell’ossitocina ci si senta più estroversi, più aperti a nuove idee e più fiduciosi.
Lo studio in questione ha messo a confronto due gruppi di soggetti, un gruppo ha inalato ossitocina e l’altro del placebo; i soggetti di entrambi i gruppi non dovevano avere assunto farmaci, soffrire di un disturbo mentale attuale o pregresso, fare uso di droghe o essere fumatori; 90 minuti dopo l’assunzione dell’ossitocina o del placebo tutti i partecipanti alla ricerca sono stati testati con scale per il nevroticismo, l’estroversione, l’apertura a nuove esperienze, l’amabilità e la coscienziosità.
I risultati rivelano che chi aveva inalato ossitocina ha poi ottenuto punteggi maggiori nelle scale di estroversione e apertura alle esperienze rispetto a coloro che avevano assunto un placebo, in particolare l’assunzione di questo ormone ha amplificato alcuni tratti della personalità come il calore, la fiducia, l’altruismo e l’apertura verso l’esterno.
Tradimento: un percorso in 9 STEP da utilizzare in terapia di coppia.
“Sono sposato da 11 anni con una donna della quale non posso che parlar bene, con la quale ho due figli e mi è sempre stata accanto, nel bene e nel male, proprio come comanda il matrimonio. E’ mia coetanea, colta, bella, intelligente. Eppure 6 anni fa l’ho tradita e ho portato avanti quella relazione per quasi 3 anni. Lei non ha mai saputo nulla, sono stato bravo a mentire. Perché l’ho tradita? Solo perché ho conosciuto una ragazza più giovane, più bella, più interessante. Il matrimonio non era in crisi, non mi mancava nulla, ma quella ragazza aveva qualcosa a cui non sapevo resistere”.
La vita di coppia può essere sconvolta da eventi non prevedibili, come il tradimento, che possono generare una vera e propria frattura difficile da tollerare e dolorosa da affrontare. Quando si scopre un tradimento, spesso si mettono in atto delle modalità relazionali che minano la stabilità di ogni membro: stress, reazioni aggressive,comportamenti caotici, incapacità nella gestione della propria rabbia, senso di frustrazione e umiliazione, smarrimento, pensieri ossessivi. Ogni partner attribuisce all’altro degli atteggiamenti irrazionali, la comunicazione diventa problematica e incomprensibile, l’altro viene percepito come un estraneo in quanto attua condotte insolite e indecifrabili. La frattura, nella coppia, è dovuta soprattutto alla sensazione che siano venute meno le premesse di base su cui si fonda una relazione. Il tradimento ha minacciato la stabilità, la sicurezza, la fiducia, la reciprocità, il progetto comune, le certezze costruite insieme, la lealtà.
A volte i partner si stupiscono delle loro stesse reazioni: coloro che, all’inizio della relazione di coppia, avevano giurato che se avessero subito un tradimento avrebbero sciolto il legame, ora invece, davanti al fatto compiuto, non riescono ad andarsene; coloro che, all’inizio della storia, affermavano che la loro relazione era più importante di qualsiasi scappatella, ora invece, alla scoperta dell’infedeltà, se ne vanno di casa senza esitazione.
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Gli agenti che possono portare al tradimento, riguardano modalità relazionali che, nel corso del tempo, possono aver gravato sulla costruzione di un rapporto autentico, intimo, comprensivo e paritetico. Ad esempio: la tendenza a lasciare i conflitti aperti e irrisolti; il sacrificio dell’autenticità o delle proprie esigenze personali allo scopo di dare vita ad un’unione ideale che, in apparenza, rasenta la perfezione; l’evitamento dei conflitti o del disaccordo perché convinti che possano logorare il rapporto; l’insoddisfazione protratta nei rapporti sessuali che vengono vissuti come poco gratificanti o assenti; l’evitamento dell’intimità che, di conseguenza, ostacola la condivisione e la complicità e favorisce l’alienazione dalla vita di coppia; l’assenza di solidi confini che preservino la coppia da ingerenze esterne (amicali o familiari); l’assenza di specifici spazi e tempi che appartengano solo alla coppia, lontani dall’intromissione costante di pensieri rivolti ai figli o al lavoro.
La terapia di coppia, in questi casi, fornisce un adeguato spazio di contenimento ed elaborazione dei molteplici fattori che portano alla spaccatura della coppia. A volte il tradimento può costituire un elemento che, per quanto doloroso, permette una rinegoziazione delle regole all’interno del rapporto, aprendo nuovi canali comunicativi tra i partner e favorendo la tendenza ad attingere a nuove risorse del legame.
La relazione può fare un salto di qualità, sia nel caso in cui si decida di restare insieme, sia nel caso contrario. La terapia di coppia aiuta ogni membro ad esprimere le proprie autentiche esigenze e ad accogliere in modo nuovo quelle dell’altro, costruendo un rapporto basato su una reciprocità più genuina, fondata su scelta e responsabilità.
Ma in che modo nella pratica clinica si possono applicare questi assunti al cambiamento?
Ecco alcune istruzioni che consentiranno di valutare le vostre interpretazioni. L’applicazione dei principi della terapia cognitiva per il miglioramento e cambiamento della vita di coppia richiede una certa progressione. Di seguito quella che Beck chiama la terapia dei 9 passi. Ogni step comporta determinati esercizi che alle coppie sono utilissimi per affrontare le idee fuorvianti e frustranti.
PRIMO PASSO: COLLEGARE LE REAZIONI EMOTIVE AI PENSIERI AUTOMATICI. In questo caso è necessario individuare una reazione emotiva derivante da una situazione, allo scopo di determinare un collegamento tra le due cose. Quindi, attraverso la tecnica dell’ABC si evidenziano dei collegamenti che ai pazienti possono non essere immediati. Ad esempio: una moglie che si arrabbia o diventa ansiosa, o un marito che non torna a casa per tempo, sono situazioni assolutamente comuni, ma è l’interpretazione delle stesse che crea sentimenti ed emozioni non adeguate.
SECONDO PASSO: USARE L’IMMAGINAZIONE PER INDIVIDUARE I PENSIERI. Immaginare una scena, raffigurarsi una situazione può aiutare a portare alla luce una serie di pensieri automatici che potrebbero creare delle emozioni non del tutto comprensibili di primo acchito. Alla fine del processo immaginativo è utile inserire su un foglio diviso in due colonne i pensieri automatici (interpretazioni) avute durante la visualizzazione della scena e le emozioni derivate. Quindi, bisogna rileggere quanto scritto per rendere consapevoli se stessi dei propri pensieri.
TERZO PASSO: ESERCITARSI AD INDIVIDUARE I PENSIERI AUTOMATICI. Concentrandosi, si possono individuare i pensieri automatici nel momento in cui si profilano all’orizzonte della consapevolezza. Questi messaggi interiori innescano reazioni emotive, come la rabbia o la tristezza, o il desiderio di punire il coniuge. Per lo più le emozioni scaturiscono direttamente dalla situazione: non si presta attenzione ai pensieri fuggevoli che collegano la situazione alle emozioni e ai desideri. Imparando a conoscere i propri pensieri automatici si acquisisce maestria nel padroneggiarli perfettamente.
QUARTO PASSO: USARE LA TECNICA DEL REPLAY. Rivedere mentalmente l’evento che ci ha turbato aiuta a rivivere la situazione e a individuare l’evento che l’ha scatenato. L’interrogativo da porre è: “Che cosa sta avvenendo in questo istante nella mia mente?“
QUINTO PASSO: VERIFICARE L’ATTENDIBILITA’ DEI PENSIERI AUTOMATICI. Per stabilire se i pensieri automatici siano esagerati è necessario rispondano a degli interrogativi:
che prove ci sono a favore e contro la mia interpretazione?
dalle azioni del mio partner seguono logicamente delle motivazioni fondate al suo comportamento?
SESTO PASSO: USARE RISPOSTE RAZIONALI. La risposta razionale, e non rimuginativa, valuta la ragionevolezza dei pensieri automatici. Trovare la risposta razionale aiuta a vedere i propri pensieri automatici in prospettiva: come reazione e interpretazione, non come la verità.
SETTIMO PASSO: VERIFICARE LE VOSTRE PREVISIONI. Portare la persona a verificare che le ipotesi fatte corrispondano alla realtà e non alla fantasia. “Che dati ho a conferma delle mie ipotesi?”.
OTTAVO PASSO: RICONFIGURAZIONE DEL RAPPORTO. Le valutazioni malevole attribuite al coniuge ingigantiscono le problematiche. La riconfigurazione consiste nel riconoscere in una luce diversa queste caratteristiche negative, valutare le alternative.
NONO PASSO: DEFINIRE LE PROPRIE DISTORSIONI. In questa fase si passa alla individuazione delle distorsioni cognitive che sono applicate ai pensieri.
Per concludere, dopo aver acquisito una certa esperienza nelle analisi delle proprie reazioni emotive è possibile capire che direzione potrebbe prendere la propria relazione.
Andare avanti e tollerare, o concludere scegliendo altro?
BIBLIOGRAFIA:
Beck, A.T. (2003). L’amore non basta. Come risolvere i problemi del rapporto di coppia con la terapia cognitiva. Astrolabio, Roma.
Psicologia: gli occhi puntati sul social network: 130 pubblicazioni accademiche in 3 anni.
La recente crescita esponenziale dei social network come Facebook e la rilevanza che stanno assumendo a livello mondiale ha coinvolto anche il mondo della ricerca in psicologia e psicoterapia. Negli ultimi tre anni sono state pubblicate oltre 130 ricerche su riviste scientifiche e psicologiche riguardo Facebook.
La maggior parte delle ricerche ha cercato di verificare diversi miti e pregiudizi legati ai social network o di esplorarne le potenzialità dal punto di vista del benessere psicologico.
Innanzitutto pare infondata la credenza che la presenza sui social network produca una riduzione delle relazioni interpersonali faccia-a-faccia.
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Al contrario, sono proprio gli estroversi ad essere più presenti e ad usare questo strumento come estensione della propria socialità in vivo più che come un suo sostituto (Kujath, 2011). Le persone introverse invece possono usare facebook come strumento di facilitazione dei contatti interpersonali da cui potrebbero essere esclusi, certo in questo caso non rappresenta la soluzione ottimale ma può ridurre la sensazione di isolamento.
Un secondo vantaggio di Facebook sembra essere un rilevante sostegno alla propria autostima. Molti ritengono che il confronto con altri profili possa aumentare un senso di inadeguatezza. Invece la possibilità di selezionare le modalità di autopresentazione nei profili di Facebook (es: cosa scrivere, cosa pubblicare ecc…) e la cura della propria immagine online sembrano conferire più soddisfazione e senso di autoefficacia sociale (Gonzalez & Hancock, 2011).
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Infine, Facebook è risultato essere un buon strumento di supporto sociale. Le persone tendono a esprimere maggiormente i propri sentimenti di malessere online rispetto a quanto non facciano nella vita quotidiana e parallelamente ricevono più supporto dai commenti di amici e di altre persone e sentono gli altri più vicini e accoglienti. In questa direzione Facebook potrebbe rappresentare una nuova via per combattere lo stigma solitamente associato alla sofferenza psicologica (Moreno et al., 2011).
BIBLIOGRAFIA:
Kujath, Cyberpsychology, Behavior and Social Networking, 2011, 14:75-78
Gonzalez & Hancock, Cyberpsychology, Behavior and Social Networking, 2011, 14:79-83
Moreno et al., Depression and Anxiety, 2011, in press.
La tecnica ABC, ben descritta nei lavori di Ellis (1957) e successivamente da Beck (1975), è utile per aiutare il paziente a prendere coscienza di come si sviluppano i propri episodi emozionali, a partire da un evento che accade nel qui ed ora.
La tecnica ABC non solo è uno schema teorico utile per concettualizzare le variabili fondamentali connesse alla condotta dell’individuo, ma è anche una procedura tramite la quale può essere concretamente attuata una valutazione, una formulazione del caso, una sua pianificazione, ed un trattamento.
La struttura logica connessa alla tecnica ABC può essere immaginata come uno schema a tre colonne:
A -Activating event- identifica le condizioni antecedenti, gli stimoli, gli eventi, le situazioni.
B -Belief system- indica il sistema di credenze, il pensiero, il ragionamento, le attività mentali che formano il Bagaglio o la Base cognitiva dell’individuo.
C -Consequences- definisce le conseguenze di queste attività mentali ed identifica reazioni emotive e comportamentali (De Silvestri 1981).
L’aspetto centrale dell’interesse cognitivista per il funzionamento mentale riguarda la distinzione delle attività e dei processi cognitivi rappresentati e focalizzati dal B. Classicamente sono prese in considerazione le seguenti attività psichiche: immagini, inferenze, valutazioni, assunzioni personali, schemi.
Le immagini, attività sensoriali e mnestiche, sono prese in considerazione in quanto parte integrante delle rappresentazioni soggettive riguardanti la interpretazione di un dato evento. Esse riflettono direttamente il significato attribuito dal soggetto ad un dato evento e il contributo dei processi di elaborazione più automatici (regole, assunzioni personali, inferenze, pensieri).
I pensieri sono ipotesi che attengono alla presenza o assenza di condizioni fattuali, cioè di eventi attesi nell’A. Alcuni sono elaborati in modo quasi-automatico, e quindi il soggetto non è immediatamente cosciente, tanto che Beck (1975) li ha definiti pensieri automatici, oppure possono essere predizioni su ciò che accadrà, sta accadendo o è accaduto; ad ogni evento il soggetto attribuisce delle caratteristiche e delle cause, ma tali attribuzioni sono guidate dalla propria base conoscitiva.
A tutto questo segue un’emozione, C, derivante direttamente dal pensiero, e un comportamento che il soggetto mette in atto per far fronte a quanto ne consegue.
BIBLIOGRAFIA:
Ellis, A. (1957). Rational psychotherapy and individual psychology. Journal of Individual Psychology, 13, 38-44.
Beck, A.T. Cognitive Therapy and the Emotional Disorders. Intl Universities Press, 1975.
De Silvestri, C. (1981). I fondamenti teorici e clinici della terapia razionale emotiva, Astrolabio, Roma, 1997.
La consapevolezza cosciente: Necessaria o Accessoria?
Lo strano caso della scacchiera infornata: il ruolo della consapevolezza percettiva nell’elaborazione delle informazioni.
Esiste una funzione della nostra consapevolezza cosciente (conscious awareness) nel processamento dell’informazione oppure è soltanto un sottoprodotto epifenomenico, certamente significativo, ma senza alcun ruolo funzionale? La questione da sempre ha portato a dibattere psicologi, filosofi e neuroscienziati. Un nuovo studio della Hebrew University di Gerusalemme e pubblicato su Psychological Science si avventura nella questione, ponendosi l’obiettivo di verificare se la funzione cardine della consapevolezza cosciente percettiva sia quella di integrare diversi input percettivi, quali un insieme di caratteristiche e oggetti costituenti una scena complessa, verso una esperienza percettiva unitaria, coerente e significativa.
Per verificare tale ipotesi, è stata utilizzata una tecnica di rivalità binoculare per indurre una “soppressione percettiva”: ai partecipanti venivano presentate a un occhio alcune fotografie di azioni umane, mentre contemporaneamente l’altro occhio vedeva lo sfarfallio di colori che distoglieva l’attenzione del soggetto, così che non fosse consapevole per diversi secondi delle scene che venivano presentate al primo occhio. Entro due condizioni sperimentali, sono state mostrate in un caso fotografie di scene raffiguranti azioni umane abituali, come per esempio un giocatore di basket che salta al canestro con in mano una palla; nell’altro caso i soggetti venivano presentate immagini più inusuali, per esempio un giocatore di basket che salta al canestro con in mano un’anguria. I soggetti a loro volta dovevano indicare, il più velocemente possibile, il riconoscimento di qualche porzione o dettaglio delle scene loro proposte. Tale procedura ha consentito la misurazione del tempo con cui le scene, siano esse normali e insolite, “vincevano la competizione” contro lo sfarfallio colorato presentato all’altro occhio, sfondando quindi il muro della consapevolezza visiva conscia.
Dai risultati è emerso che le scene inusuali – una casalinga che inforna una scacchiera- sfuggivano prima alla soppressione percettiva, accedendo quindi più rapidamente alla consapevolezza cosciente rispetto a scene normali e abituali – la nostra casalinga che inforna una torta.
Quindi, anche prima che i partecipanti fossero consapevoli dell’esistenza della scena stessa, la relazione semantica tra le diverse componenti della scena complessa era già stata elaborata: sembrerebbe che l’integrazione percettiva degli oggetti all’interno di una scena complessa, non sia prerogativa della consapevolezza percettiva ma possa essere raggiunta anche senza di essa.
Possiamo relegare dunque la consapevolezza conscia a mero epifenomeno, bene di lusso non strettamente necessario? Estremamente rischioso, dato che tale i risultati della ricerca ci dicono che quando ci troviamo di fronte a esiti non previsti e anomali di tale integrazione, quali eventi, situazioni, scene semanticamente insolite e sconosciute, a livello percettivo la consapevolezza conscia entra in gioco rapidamente per rendere conto dell’enigma.
L’MDMA, più comunemente conosciuto come l’ecstasy, è la sostanza più usata nei “rave” e in generale nelle discoteche perchè in grado di provocare forti sensazioni di euforia e calore emotivo.
Nel corso di un indagine condotta nel 2010 negli Stati Uniti, 15,9 milioni di americani hanno dichiarato di aver fatto uso di ecstasy nel corso della loro vita e 695.000 persone avevano fatto uso di ecstasy nel mese prima di essere esaminati da un gruppo di ricercatori della Vanderbilt University.
I risultati dello studio, pubblicati negli Archives of General Psychiatry, mostrano che l’uso di ecstasy produce neurotossicità a lungo termine negli esseri umani; l’effetto si rileva a livello dei recettori della serotonina, un neurotrasmettitore che ha un ruolo importante nei processi di regolazione del tono dell’umore, dell’appetito, del sonno, di apprendimento e memoria. I ricercatori hanno usato la PET per rilevare i livelli dei recettori di serotonina in diverse aree del cervello in due gruppi di donne, che avevano fatto uso di MDMA e che non l’avevano mai usato.
Le rilevazioni mostrano che l’uso di ecstasy ha prodotto un aumento del numero di recettori della serotonina, a compensazione della perdita cronica di serotonina provocata dall’uso della sostanza.
Sembra però che l’MDMA possa anche avere effetti terapeutici nel trattamento, attualmente in fase di sperimentazione, del disturbo post-traumatico da stress e nell’ansia associati al cancro. Questi dati sostengono la necessità di stabilire a quali dosaggi questa sostanza risulta tossica e se esistono fattori di vulnerabilità alla tossicità.
Il metodo della monetina in Psicoterapia. Testa o Croce?
Elena Ponzio.
Recentemente la mia attenzione è stata catturata da un interessante articolo sul misterioso strumento terapeutico noto come “la Bacchetta Magica”. Per utilizzarlo e scoprirne l’insospettabile e versatile efficacia non è necessario tuttavia essere un mago, né aver letto tutti i libri di Harry Potter; basta infatti aver frequentato, come citato dal collega Frazzoni, le lezioni di psicoterapia del Dr Vinai. E se la bacchetta magica stimola la creatività del paziente e permette di aggirare gli ingorghi della diatriba verbale e della razionalità, mi sembra particolarmente importante la sua capacità di svelare preferenze o aspirazioni che spesso restano inaccessibili.
Nell’ambito dunque dei rimedi homemade, trucchi, trucchetti e stratagemmi per la terapia e per la vita, vorrei riproporre in chiave psicoterapica l’antico sistema della monetina.
Quando è difficile scegliere tra due possibilità, quando pensando e ripensando proprio non si giunge ad una conclusione, ecco venire in nostro soccorso la classica monetina. Dal sesterzio fino all’euro questo facile e casuale metodo di scelta ha sempre dato risultati chiari e definiti (non si conoscono infatti molti casi di monetine rimaste in bilico di taglio) e tuttavia l’arbitrio affidato al caso dirime da tiranno le questioni irrisolte e configura una strategia forse un po’ primitiva e sicuramente molto spesso insoddisfacente.
Ma è proprio in quest’ultima parola – insoddisfacente – che risiede a mio avviso il potenziale della moneta! Con un semplice e leggero sforzo metacognitivo si può insegnare al paziente a far sì che da tiranna la moneta diventi geniale consigliera: se infatti sono insoddisfatto del risultato ottenuto, voilà, la soluzione sarà chiara davanti a me!
Imparare a porre attenzione e a riconoscere gli stati emotivi o i pensieri che rapidissimi attraversano la mente in un dato istante e per un dato evento è sicuramente uno degli obiettivi della psicoterapia. Così quel fugace: “testa!! Accidenti, no, preferivo croce!!!” può svelare ciò che ad una prima riflessione non era chiaro circa la propria preferenza, o i propri desideri. Una volta conquistata la consapevolezza della preferenza nascosta e ricordando a noi stessi che siamo per fortuna esseri liberi di scegliere, sapremo che direzione dare alle nostre azioni con buona pace della monetina. La difficoltà della scelta infatti non dovrebbe oscurare il valore inestimabile della possibilità stessa di scegliere e della libertà!
E a chi potrebbe obiettare che svelato il trucco trovato l’inganno, insomma, che se sai che la monetina non comanda allora a cosa serve tirarla, rispondo: “Ma davvero avete mai pensato di affidare la vostra vita ad una monetina??!!” E poi, quanti di voi avranno giocato almeno una volta al super enalotto sognando milioni quando tutti sanno che è più probabile venire colpiti da un meteorite portando a spasso il cane piuttosto che azzeccare la combinazione vincente?!!
L’uomo è sempre stato un po’ superstizioso, il caso e la fortuna si accompagnano ancora oggi ai progressi della scienza e un po’ di irrazionale trova spazio in ognuno di noi: la differenza la si fa prendendone atto e usandola a nostro vantaggio! E allora, davvero voglio pubblicare questo articolo?
Testa o croce?
Il Tamponico (o Mammese): una strana lingua. (Bruno Osimo, Dizionario affettivo della lingua ebraica)
L’invenzione più divertente di questo bel libro (Bruno Osimo: Dizionario affettivo della lingua ebraica. Marcos Y Marcos editore), è il “tamponico” lingua materna che implica il tamponare, attutire, manipolare la realtà con fini che avvolgono il figlio in una perenne confusione, in dubbi eterni, in titubanze e incertezze.
Lei parla mammese, detto anche tamponico. Questa lingua non è ancora stata analizzata, ma consiste fondamentalmente nel fatto che non si descrive la realtà come appare, ma come apparirebbe se non facesse paura. Se non mettesse in imbarazzo. Se non facesse provare dei sentimenti. Più che una lingua, è una difesa. È uno smorzamento, un ammosciamento. È un’attenuazione. È un materasso, un respingente, un tampone.
Questa bella invenzione/definizione linguistica mi ha fatto venire voglia di definire meglio l’attività manipolativa nelle relazioni interpersonali.
MANIPOLAZIONE:
Una persona ha un’idea che considera giusta sulla realtà, sugli altri, sul mondo.
Ha il desiderio o l’urgenza che questa lettura venga accettata da altri.
Non ha voglia, desiderio o capacità di affrontare un dialogo tra pari che potrebbe portare a risultati incerti.
Si adopera ad una rilettura della realtà in modo che l’altro non comprenda, non si orienti, accetti il suo punto di vista come vero e necessario.
Nella sua versione severa questa patologia ovviamente tocca la perversione. Nella sua versione quotidiana e meno severa, genera però danni sia in chi tampona (chi utilizza il linguaggio tamponico) sia in chi ne è vittima. Ad esempio alcune persone manipolano in modo consapevole, altre non conoscono altro modo di comunicare. Infatti la distinzione tra “mi conviene” e “non so fare altro” è importante dal punto di vista clinico perché ci porta a interventi differenti.
DANNI IN CHI MANIPOLA (TAMPONA):
Il manipolatore / tamponatore non impara a confrontarsi in modo maturo e forte con gli altri.
Non si abitua ad ascoltare ed esplorare punti di vista diversi, nuovi, creativi.
L’onnipotenza manipolativa è un’illusione che nel tempo mostra i suoi limiti nella scarsa propensione a mettersi in gioco su partite grandi e complesse e dal risultato incerto.
DANNI NEL MANIPOLATO (TAMPONATO):
Il manipolato / tamponato perde chiarezza sui propri scopi personali.
Disimpara a fare i conti e a leggere in modo fine le proprie emozioni.
A volte si irrita se si rende conto di essere oggetto di manipolazione.
I suoi scopi si disorganizzano e nel tempo diviene per lui difficile fidarsi di portare avanti progetti complessi con determinazione.
Diviene passivo, a volte depresso, apatico, malinconico.
ESEMPIO DI EVENTO MANIPOLATORIO (TAMPONICO):
Una madre di una figlia adolescente, odia certe scarpe leopardate e bizzarre che la ragazza ha comprato, le ritiene brutte e non conformi ai suoi gusti. La figlia resiste e le difende con forza e determinazione. Un giorno la figlia si assenta da casa e tornando la madre le dice: “Sorpresa! Ho messo a posto la tua stanza, ti ho comprato una nuova coperta per il letto e ho buttato alcuni vecchi ciaffi che avevi in giro!”
La figlia si sente contenta, è anche grata.
Poi va a cercare le sue scarpe e non le trova. La madre le dice: “ah scusa, mettendo ordine forse le ho gettate…”
La figlia entra in confusione: da un lato deve essere grata alla gentilezza della madre che le ha messo a posto la stanza, dall’altro è arrabbiata e triste della perdita delle sue scarpe. Se dimostra irritazione viene considerata ingrata, se tace si sente sconfitta.
L’esito nel lungo periodo: tristezza, confusione, rabbia, passivizzazione. Desiderio, spesso irrealistico, di essere ascoltata.
La cocaina, Sigmund Freud e la lezione dei maestri
Recentemente sulla New York Review of Books si è parlato degli effetti –positivi e negativi- che ebbe il consumo di cocaina sulla produzione creativa di Sigmund Freud. L’occasione è la recensione di un libro di Howard Markel che racconta meticolosamente un fatto noto ma spesso taciuto: che Freud fu per circa 15 anni assiduo consumatore di cocaina.
Markel suggerisce che parte delle più audaci elaborazioni di Freud, quali le inferenze più acrobatiche sul significato metaforico dei sogni, la propensione a percepire le sue meditazioni in coppia con Wilhelm Fliess come illuminazioni messianiche, e anche la sua tendenza a giudicarsi circondato da nemici, tutte derivino dal consumo alto, forte e continuo di cocaina.
Nonostante alcuni tratti irritanti delle argomentazioni del recensore Crews, dalle quali emerge una certa antipatia verso la psicoanalisi (argomentazioni non sempre condivise dall’autore del libro, Markel, più prudente e benevolo verso Freud), alcuni punti fanno pensare. A quanto pare, in concomitanza con il consumo di cocaina, a un certo punto degli anni novanta dell’ottocento Freud comincia a mostrare segni di pensiero magico: strani giochi di numerologia con Fliess, applicazioni della numerologia di Fliess al timing delle mestruazioni maschili (avete letto bene: maschili; si tratta di un’idea un po’ fantasiosa di Fliess).
E’ vero che mentre fa questo Freud continua a scrivere anche sull’afasia in maniera scientificamente inappuntabile. Non ha perso completamente la testa, ma è di questo periodo anche una modalità di pensiero “associativa, autoconfermativa, visionaria e capace di spiegare tutto” che si allontana dai fondamenti del pensiero scientifico dell’epoca. “Nel 1894 comincia a sentirsi un eroe solitario” e questi stati d’animo abbassano la severità del suo rigore empirico. Crews sostiene che la abbassano, ma non lo demoliscono perché Freud mantiene fino alla fine la capacità di muoversi da una modalità più scientifica all’altra più vaga e autoconfermativa. E sostiene che “l’altra” fu fortemente influenzata dalla cocaina.
Il pericolo di autoreferenzialità e ortodossia nel percorso del sapere scientifico
Ci interessa tutto questo a noi che non siamo psicanalisti e non abbiamo riferimenti teorici ai quali richiamarci o da proteggere? Sì, ci interessa perché una certa abitudine all’isolamento autoreferenziale nel mondo psicanalitico è rimasta, una certa compiacenza a isolarsi tra vicini di pensiero, a non confrontarsi con il pensiero diverso, a richiamarsi all’ortodossia.
E paradossalmente è stata proprio l’ortodossia la lama che ha poi spezzettato il movimento psicoanalitico in tante frammentate correnti e movimenti: se la protezione del pensiero conforme diviene lo scopo privilegiato, allora se non sono d’accordo su alcuni punti devo andar via, devo fondare un’eresia. Questa chiusura sta diminuendo in questi anni proprio perché la psicoanalisi ha incontrato il pensiero moderno e scientifico e si sta mettendo in relazione con nozioni provenienti da mondi differenti: le neuroscienze, la ricerca in psicoterapia, e anche la scienza cognitiva e la psicoterapia cognitiva.
Ortodossia ed eresie nel mondo della psicoterapia cognitiva attuale
Lasciamo ora il campo psicoanalitico e parliamo un po’ di analoghi fenomeni avvenuti nel mio mondo cognitivo. Forse un certo tipo di personalità debordante è tipica dei padri fondatori. Il triste commiato professionale di Albert Ellis ci dice quanto sia difficile uscire di scena, dover scomparire. Arte di pochi in ogni campo.
Anche in Italia non sempre il nostro padre fondatore, Vittorio Guidano, si dimostrò capace di essere un buon nutritore di giovani seguaci e talvolta mostrò la propensione a concentrarsi troppo su di sé e a divorare, come Crono, chi non seguiva il suo dettato. Ma lasciamo da parte questi tristi racconti e torniamo al presente. Le ultime evoluzioni del cognitivismo clinico hanno visto un fenomeno nuovo: l’emergere improvviso di personalità di padri fondatori che, invece di rimanere nel solco del lavoro già fatto per svilupparlo, tendono a fondare nuovi inizi rinnegando il passato.
Sono dei Maestri con la maiuscola, fondatori di nuove scuole: Hayes con la sua ACT, Wells con la sua Metacognition Therapy, Young con la Schema Therapy. Tutti e tre non si sono accontentati di essere solo terapeuti cognitivi, come del resto a suo tempo Guidano volle essere, aggiungendo l’aggettivo “post-razionalista” al suo cognitivismo. Ripeto: forse una certa componente narcisista e perfino paranoica è necessaria e inevitabile per indicare nuove direzioni. Fatto sta che però si paga anche un prezzo.
Il punto interessante è il nascere in persone creative, nel bel mezzo di una vita di studio e idee, di tratti di pensiero sconcertanti. Si comincia a sentirsi più unici, ma anche più splendidamente isolati. Insomma, gli altri ci invidiano. Le nostre idee sono le più importanti, e chi non è d’accordo è uno sciocco, un invidioso, forse perfino un immorale. Le critiche fatte al nostro pensiero sono risibili. Ci si sente bene solo nel gruppo di devoti che sono sempre d’accordo con noi. Scompare il dovuto rispetto alle idee dell’altro, scompare la curiosità. Diventa difficile un dibattito su cose concrete: “solo nel mio gruppo mi trovo veramente al sicuro e non vedo minacciate le mie idee”. E, per finire, è dunque giusto che io fondi un movimento, con un suo nome che cambierà per sempre e in modo radicale la storia della psicoterapia.
In realtà questa tendenza a rifondare sempre tutto è il problema della psicoterapia. Se smetto il confronto nutrendo disprezzo verso gli altri sono destinato nel tempo a ritrovarmi lontano dai luoghi dove il nuovo accade. E così le idee divengono marmoree, fissate in uno spazio atemporale. Ma se non ho il coraggio di una discussione franca e dura, emargino automaticamente le persone creative che se ne vanno, mi lasciano, per andare a discutere altrove.
Questi sono i cattivi maestri. Che con la loro brillantezza creano, ma generano anche problemi nel tempo. Ne parla George Steiner in “La lezione dei maestri”. Invece il vero maestro lascia crescere e maturare come Socrate e accetta l’indipendenza di giudizio nel quadro di una relazione che dura nel tempo.
Sarcasmo: cosa comprendono i bambini
– Rassegna Stampa –
Già a sei anni i bambini sono in grado di comprendere espressioni sarcastiche usate allo scopo di consolare o punzecchiare l’interlocutore.
Una logopedista della Kansas State University ha studiato proprio la comprensione del sarcasmo nei bambini di questa età e ha scoperto che non tutte le espressioni di sarcasmo sono ugualmente comprese nella loro ironia, ma solo quelle più convenzionali, cioè quelle comunemente usate, indipendentemente dal contesto del momento. L’ironia permette di esprimere indirettamente ciò che si sta pensando, e nel sarcasmo ciò che diciamo esprime tutto il contrario di ciò che stiamo pensando, per cui lo scollamento tra ciò che si dice e ciò che si pensa è particolarmente marcato.
Comprenderne l’intenzione comunicativa da parte di un interlocutore richiede quindi una certa quantità di lavoro extra, sia dal punto di vista linguistico che cognitivo, e per i bambini piccoli questo è un compito particolarmente difficile. A facilitarlo, secondo i risultati dello studio che è stato presentato al convegno annuale dell’American Speech-Language-Hearing, è l’opportunità da parte dei bambini piccoli di imparare il significato convenzionale delle più comuni espressioni sarcastiche. La logopedista e ricercatrice ha mostrato a bambini di 6 e 8 anni una vignetta dove un personaggio commentava sarcasticamente il fatto che un altro personaggio avesse bruciato tutti i biscotti nel forno, le frasi pronunciate erano due: “bel lavoro!”, considerata nella lingua inglese convenzionalmente sarcastica, e “che squisiti questi biscotti!”, con un ironia più legata al contesto del momento.
I risultati confermano che, indipendentemente dall’età, dal sesso e dalla presenza di un disturbo del linguaggio, i bambini comprendevano più facilmente l’ironia contenuta nella prima frase che nella seconda. Questa sembra essere un indicazione importante per logopedisti e adulti, affinchè lavorino insieme ai bambini sulla comunicazione e la pragmatica insegnando loro le frasi convenzionalmente più usate.
Di fronte alle affermazioni di Scilipoti sull’orientamento sessuale di Paola Concia occorre essere onesti e confessare cosa c’è in ballo. In ballo c’è il timore del matrimonio gay. Ebbene, proprio l’onestà ci deve far prendere atto che le argomentazioni a sfavore di questo tipo di matrimonio scientificamente non reggono. Di queste, la principale argomentazione riguarda i figli. Matrimonio gay significa genitorialità gay. E cosa accade ai bambini che crescono in queste famiglie? Ebbene, va detto: nulla di grave. Nessun parametro psicologico o evolutivo ci ha mostrato numeri che dimostrino che per i bambini sia controindicato crescere con genitori omosessuali.
Questi sono i dati forniti in vari studi scientifici (Stacey e Biblarz, 2001; Biblarz e Stacey, 2010) e poi confermati nel 2005 da un rapporto ufficiale sulla genitorialità di lesbiche e gay dell’APA, la American Psychological Association.
Per i conservatori non è dunque il caso di fare i piagnucolosi. E da conservatore qual sono io, mi spiace che il fronte conservatore sia rappresentato da Scilipoti. Occorrerebbe semmai rispondere con un po’ di leggerezza. Per esempio, notando signorilmente che la scienza ha ormai dimostrato che i figli di coppie omosessuali non solo non soffrono di alcun svantaggio, ma addirittura stanno meglio, sono educati meglio e godono di una nutrita serie di vantaggi: minore frequenza di punizioni corporali; minor frequenza di alterchi, contrasti e litigi in famiglia (insomma, un ambiente familiare più sereno); migliore capacità di discutere i problemi emotivi con i figli; maggiore interessamento e coinvolgimento negli sforzi scolastici; minori “problemi comportamentali” (insomma, meno comportamenti strani, da fuori di testa); migliore percezione della propria “competenza cognitiva” (ovvero, i figli di genitori omosessuali si sentono più intelligenti); migliore percezione della propria “competenza fisica” (ovvero, i figli di genitori omosessuali si sentono più a loro agio con il loro corpo); minore aggressività; minore convinzione di superiorità del proprio sesso; minori pressioni al conformismo dei ruoli sessuali; maggiore tolleranza del non conformismo nei ruoli sessuali; minore aspirazione tra le ragazze a ruoli maschili; meno marcata identità eterosessuale nelle ragazze; maggiore flessibilità di genere tra i ragazzi.
Il quadro è abbastanza impressionante. A leggerlo, sembrerebbe inevitabile reagire pensando che nascere in una famiglia eterosessuale sia una mezza disgrazia, da accettare con leggerezza e ironia. La stessa ironia che consiglio a Scilipoti.
Giovanni M. Ruggiero, Medico Chirurgo, specialista in Psichiatria e in Psicoterapia Cognitiva. Dirige il giornale online di scienze psicologiche “State of Mind” (link www.stateofmind.it)
Committee on Lesbian, Gay, and Bisexual Concerns (CLGBC), Committee on Children, Youth, and Families (CYF), Committee on Women in Psychology (CWP). Lesbian and Gay Parenting. American Psychological Association, Washington, DC, 2005.
Le testimonianze oculari sono da sempre trattate con scetticismo all’interno dei tribunali perché, a dispetto dell’assoluta certezza del ricordo da parte del testimone, spesso vengono smentite dalle prove scientifiche.
Un gruppo di ricercatori provenienti da diverse università americane si sono chiesti se esiste un modo per rendere più affidabile il processo di riconoscimento e la lettura dei ricordi: sembra proprio di si, monitorando i movimenti oculari infatti è possibile definire su cosa e per quanto tempo l’attenzione viene focalizzata e sulla base di questo operare una distinzione tra materiale noto e materiale nuovo, anche in assenza di resoconti accurati.
Il disegno sperimentale consisteva essenzialmente nel discriminare stimoli noti, precedentemente studiati dai partecipanti all’esperimento, da stimoli non noti e a volte somiglianti a quelli studiati. La scelta avveniva sia premendo un pulsante che attraverso una dichiarazione verbale. L’aspetto più interessante della ricerca riguarda il fatto che prima di premere il pulsante di scelta il target prescelto veniva osservato a lungo e molto attentamente rispetto agli altri target presentati contemporaneamente, tuttavia subito dopo aver compiuto la scelta i movimenti oculari mimavano la scelta fatta, indipendentemente dal fatto che fosse giusta o sbagliata.
In altre parole la pre-visualizzazione della risposta sembra riflettere l’esperienza reale, mentre la visualizzazione che segue la scelta sembra riflettere più che altro il processo decisionale; inizialmente l’esplorazione estesa e prolungata del target contribuisce ad aumentare la consapevolezza che lo si conosce, successivamente però i processi cognitivi di valutazione intervengono, permettendo di effettuare la scelta definitiva ma condizionando anche l’esplorazione visiva del materiale e quindi potenzialmente fuorviando la valutazione stessa e la decisione.
La tecnica di osservazione dei movimenti oculari, assicurano i ricercatori, bypassando i resoconti, potrebbe essere utilizzata per esaminare la memoria in alcuni pazienti psichiatrici e nei bambini, cioè con quei soggetti che possono avere problemi a comunicare ciò che ricordano.
Erezioni Virtuali: Porno Online e Impotenza
Erezioni virtuali: l’abuso di pornografia induce disfunzioni erettili e impotenza.
Una recente ricerca condotta dalla Dott.ssa Robinson , collega impotenza e disfunzioni erettili alla troppa “attività” virtuale. Immagini erotiche, filmati, foto, sesso online renderebbero notevolmente inferiore la qualità del sesso “reale”: quando si dice il troppo stroppia.
Da un’analisi dei casi di impotenza giovanile, si evince che l’unica variabile, trasversale ai ragazzi che si rivolgono al medico per problemi di funzionalità erettile, è il frequentare assiduamente siti internet porno; nessun’altra caratteristica sembra fare la differenza, sia essa culturale o etnica, sia l’uso di cannabinoidi o l’abuso di alcolici…
Una conferma di questo dato emerge anche dal sondaggio dell’urologo Carlo Foresta (Società Italiana di Andrologia e Medicina Sessuale, Professore dell’Università di Padova). Il motivo principale che aveva spinto questo lavoro stava nella constatazione del fatto che un numero sempre maggiore di giovani si stava rivolgendo a consultori e specialisti riferendo di avere problemi di impotenza e un generale calo del desiderio sessuale, senza però presentare alcun problema psicologico o fisico. Da qui la SIAMS ha ritenuto necessario condurre un’analisi sul comportamento sessuale dei giovani italiani per andare a trovare l’origine di questo fenomeno. In particolare sono stati messi in relazione questi disturbi e la frequentazione della pornografia online. Si è quindi indagato quando e quanto 28 mila giovani italiani ricorressero alla pornografia online. Secondo i dati emersi, sarebbero 8 milioni i fedelissimi dei siti pornografici: il 70% sono uomini tra i 24 e i 44 anni e il 10% sarebbe costituito da minorenni.
“Dall’analisi” sostiene Foresta “emerge che la frequentazione dei siti pornografici comincia molto precocemente, tra i 15 e i 16 anni, e avviene quotidianamente anche per 3-4 anni”. Questo avrebbe poi una ripercussione importante sulla maturazione di una vita sessuale legata all’affettività, creando una sorta di assuefazione all’esperienza sessuale, anche quella più violenta, che porterebbe con se un disinteresse per la sessualità reale.
Tornando allo studio della Dott.ssa Robinson la spiegazione della perdita della libido e delle difficoltà erettili sarebbe correlata ad un eccesso di stimolazione della dopamina, il neurotrasmettitore che attiva la reazione del corpo al piacere sessuale, connesso al massiccio utilizzo di materiale pornografico. Il cervello, infatti, a causa dell’eccessiva ed elevata stimolazione dovuta alla dopamina, perde la sua capacità di rispondere ai segnali di questo neurotrasmettitore.
Una sorta di effetto paradosso. Gli internauti, quindi, necessitano di esperienze sempre più estreme per arrivare ad un’eccitazione sessuale normale. La Dott.ssa Robinson ha aggiunto: ”In alcuni soggetti la risposta della dopamina è così bassa che non riescono a raggiungere un’erezione senza ulteriori e costanti stimoli tramite internet”.
Che fare allora?
L’unica indicazione terapeutica che emerge dall’articolo “Porn-Induced Sexual Dysfunction is a Growing Problem” è il rimanere astinenti dalla stimolazione erotica di internet; un periodo di alcuni mesi (6-12 settimane) senza l’assidua frequenza ai siti porno permetterebbe al cervello di resettarsi e “disintossicarsi” dalla pornografia. Ovviamente come ogni periodo di astinenza successivo ad una dipendenza possono verificarsi momenti di irritabilità, disforia, insonnia, difficoltà di concentrazione. Ma forse, se la controparte è il recupero della funzionalità erettile, allora il gioco vale la candela.
Riconoscere i volti: il modello olistico e quello analitico.
– Rassegna Stampa –
Perchè alcune persone riconoscono facilmente volti già visti e altre fanno più fatica o addirittura falliscono del tutto?
Un nuovo studio, che verrà pubblicato sulla rivista Psychological Science, fornisce la prima evidenza sperimentale che le differenze individuali rispetto a questa importante abilità sociale sono radicate nel modo unico in cui la mente percepisce i volti.
Dallo studio risulterebbe infatti che gli individui che percepiscono i volti in modo olistico, cioè come un insieme integrato, siano facilitati nel riconoscimento facciale rispetto a quelli che invece hanno una percezione più analitica, cioè che si focalizza sui singoli elementi che compongono il viso.
Due sono le situazioni sperimentali a sostegno del fatto che la percezione olistica è il processo elettivo nella percezione di volti: in un primo esperimento i partecipanti dovevano riconoscere le immagini di volti che erano stati tagliati orizzontalmente e poi ricombinati tra loro; il riconoscimento si è dimostrato più semplice nel caso in cui le due metà rimanevano disallineate tra loro, rispetto a quando venivano presentate incollate insieme; in questa seconda condizione infatti il processo di elaborazione olistica delle informazioni spinge il cervello a combinare automaticamente le due parti in una nuova forma, che è percepita come diversa da quelle già viste. Il secondo esperimento prevedeva invece il riconoscimento di singole parti del viso in due diverse condizioni: insieme ad altre parti simili (ad esempio tutti nasi) o all’interno di un viso; anche in questo caso il riconoscimento è stato facilitato dalla condizione in cui le singole parti comparivano all’interno di un insieme integrato di elementi.
A sostegno del fatto che il processo di riconoscimento olistico è unico e indipendente i ricercatori sottolineano anche che non sono state trovate correlazioni con il livello di intelligenza dei partecipanti all’esperimento. Questi risultati potrebbero essere utili nel trattamento di disturbi come la prosopagnosia (cecità al viso) e l’autismo, allenando per esempio alla percezione olistica, con l’obiettivo di facilitare il riconoscimento dei volti familiari.
“Si narra che Noè ha contato gli animali dentro l’Arca a due a due. Probabilmente stava pensando in termini di riproduzione. Se avesse pensato in termini sociali avrebbe contato i suoi animali di tre in tre” (Dunbar, 2011).
Nei precedenti articoli pubblicati su State of Mind e intitolati “150 Amici” e “I segreti per mantenerli” abbiamo imparato che possiamo avere 150 amici, ma questi 150 hanno tutti lo stesso valore? Proviamo a porre attenzione ai nostri 150 amici e alle nostre dinamiche relazionali; con facilità possiamo individuare differenti “cerchie di intimità”.
Non con tutte le persone sentiamo di avere lo stesso legame, infatti non a tutti raccontiamo tutto, ma scegliamo accuratamente con chi condividere i nostri segreti più intimi. All’interno del suo nuovo libro Dunbar ci spiega che in realtà esiste una regola matematica per identificare le differenti “cerchie”.
La “cerchia più interna” è costituita da tre – cinque, persone che costituiscono il nucleo degli amici più intimi: quelli a cui ci rivolgiamo nei momenti difficili per avere consigli e conforto. Insomma gli amici del cuore, quelli che non ci abbandonano mai e sanno praticamente tutto di noi. Oltre a questa cerchia se ne trova una leggermente più ampia costituita da altre dieci persone, solitamente sono amici meno intimi. Solitamente fanno parte di questa cerchia persone con le quali si ha piacere di condividere una serata ogni tanto, come per esempio fra compagni di classe, i compagni dei nostri amici oppure i colleghi di lavoro che ci stanno più simpatici. Oltre a questa seconda se ne trova una terza ancora più grande di approssimativamente trenta persone, che iniziano ad essere sempre più conoscenti e sempre meno amici, come per esempio l’amica dell’amica oppure i colleghi di lavoro, però quelli meno simpatici.
Dunbar ha notato che se si considera ciascuna cerchia comprensiva di tutte le più interne emerge un chiaro legame: esse sembrano formare una serie che cresce moltiplicando per tre: 5, 15, 50 e 150.Gli studiosi non sono ancora riusciti a scoprire a cosa facciano riferimento tutte le cerchie, tuttavia ciascuna sembra definire i criteri di due regole specifiche della relazione: la frequenza con cui si ricerca la compagnia della persona e il grado di intimità che si prova nei suoi confronti. Infatti si osserva che contattiamo gli appartenenti alla cerchia dei cinque almeno una volta alla settimana, almeno una volta al mese gli amici della cerchia dei quindici e almeno una volta all’anno quelli della cerchia dei 150. Inoltre abbiamo relazioni più intime con la rosa dei cinque, mentre i nostri sentimenti diventano progressivamente più “freddi” nei confronti dei livelli successivi.
Questa struttura in cerchie di amici sembrerebbe suggerire che esista un ulteriore limite al numero di persone che possiamo tenere in un certo grado di intimità, tanto che se nella nostra vita appare una persona nuova, qualcuno dovrà per forza scendere ad un livello più alto per far spazio alla new entry. Non ci sono molti posti liberi nella cerchia dei cinque. Si dia quindi il via alle nomination!!
BIBLIOGRAFIA:
Dunbar, R., Di quanti amici abbiamo bisogno? Frivolezze e curiosità evoluzionistiche. 2011, Milano: Raffaello Cortina. 284.Hill, R.A.,
Bentley, R.A., and Dunbar, R.I., Network scaling reveals consistent fractal pattern in hierarchical mammalian societies. Biol Lett, 2008. 4(6): p. 748-51.Dunbar, R., Psychology. Evolution of the social brain. Science, 2003. 302(5648): p. 1160-1.