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“Ricky And The Spider”: un videogame per bambini affetti da disturbo ossessivo-compulsivo

– Rassegna Stampa –

Ricky And The Spider è un nuovo Serious Game sviluppato dall’Università di Zurigo per il trattamento dell’OCD.

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze PsicologicheVideogames con finalità serie, anche definiti in termini tecnici Serious Games, vengono in aiuto agli psicoterapeuti nell’attuazione di trattamenti evidence-based per la cura del disturbo ossessivo-compulsivo. Il Center of Child and Adolescent Psychiatry presso l’ Università di Zurigo ha progettato e sviluppato il gioco digitale “Ricky and the Spider“. Il gioco include gli elementi chiave di un trattamento cognitivo-comportamentale, facilitando negli utenti la comprensione del disturbo delle sue conseguenze e del trattamento.

 

Progetto iSpectrum: un Serious Game per favorire l'inserimento nel mondo del lavoro di chi è affetto da autismo
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Nel gioco, un ragno cerca di costringere Ricky la Cavalletta e Lisa la Coccinella a fare cose che in realtà non vorrebbero fare. Per esempio, a Ricky è concesso di attraversare il prato solo saltellando secondo un particolare percorso e Lisa è costretta a contare i puntini neri sulle proprie ali ogni sera prima di andare a letto. Temendo il ragno cattivo, i due personaggi si ritrovano sempre più intrappolati nella rete del “DOC”, finché Ricky a un certo punto del gioco può chiedere aiuto al Dr. Owl.

 

Sam, un amico virtuale per i bambini autistici
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Veronika Brezinka, responsabile della progettazione, sottolinea che “Il gioco è finalizzato a incoraggiare i bambini con diagnosi di DOC a confrontarsi con il loro di disturbo all’interno di una cornice di trattamento con uno psicoterapeuta, e non invece come un gioco di auto-aiuto”.

 

BIBLIOGRAFIA:

Fumo in Gravidanza: i danni sempre più evidenti.

Fumo in gravidanza: a nuova ricerca ne evidenzia la portata dei danni neurologici.

Fumo in gravidanza - Immagine: © Alexei Nastoiascii - Fotolia.com Il fumo nuoce gravemente alla salute. Il fumo produce danni a te e a chi ti sta intorno e, ancora di più, al tuo bambino. Tutte informazioni ben note ai fumatori e le notizie delle ultime ricerche non sono certo incoraggianti. Anzi, secondo un recente studio pubblicato sul Journal of Human Capital, il fumo in gravidanza provocherebbe dei danni allo sviluppo neurologico del neonato ancora più importanti di quanto già si pensasse: il fumo, infatti, provocherebbe un rischio del 40% maggiore di incorrere in problemi dello sviluppo in bambini dai 3 ai 24 mesi dopo la nascita rispetto ai figli di madri che non fumano. Si tratta di risultati di uno dei più vasti studi in questo settore: 1600 diadi madre-bambino sono state selezionate in Argentina, Brasile e Cile. Dopo avere valutato le abitudini al fumo delle madri, i bambini sono stati sottoposti a test neuro-cognitivi e a valutazione delle abilità di comunicazione. A un anno, i bambini di madri che avevano fatto uso di sigarette in gravidanza mostravano punteggi significativamente minori a tutti i test. Data la numerosità del campione, è stato possibile osservare che questi dati rimangono validi anche a prescindere da altre variabili, come il concomitante uso di alcool o lo status socio-economico.

Questi dati sono preoccupanti, poiché mentre in passato le ricerche si sono focalizzate principalmente sugli effetti sul feto del fumo in gravidanza, queste nuove evidenze ci informano sui possibili effetti a lungo termine di questa rischiosa abitudine: l’esposizione al fumo in fase prenatale può infatti portare all’aumento di rischio di insorgenza di sintomi psichiatrici nei bambini fino alla comparsa di veri e propri disturbi durante l’adolescenza (Fergusson et al., 1998; Markussen et al., 2006). Tra i rischi più comuni citiamo i problemi del comportamento, le condotte antisociali, la delinquenza, l’abuso di alcool e di altre sostanze (Button et al., 2005).

Al di là della validità di queste ricerche e dell’innegabile effetto dannoso che il fumo ha sul bambino, dal punto di vista psicologico è doveroso sottolineare che donne che decidono di continuare a fare uso di sigarette in gravidanza potrebbero essere caratterizzate da minore consapevolezza dei rischi legati al fumo e, viceversa, degli aspetti benefici legati allo smettere di fumare, così come potrebbero essere persone che richiedono meno aiuto e sostegno durante la gravidanza. Ci sono, infatti, tutta una serie di ricerche che mettono in evidenza proprio la differenza nella personalità e nello stile di vita di fumatori e non – più bassa soglia di auto-regolazione, basso rendimento scolastico e livello di educazione raggiunto, diete non equilibrate ecc…).

Nonostante le numerose campagne antifumo e l’aumento della consapevolezza dei danni conseguenti, le percentuali delle fumatrici in gravidanza rimangono sorprendentemente alte: oltre il 12% delle donne americane e oltre il 9% di quelle italiane riferisce di avere continuato a fumare anche in gravidanza.

“Data l’importanza di un ottimale sviluppo neuro-cognitivo del bambino per il suo futuro benessere”, commenta il professor George Wehby dell’Università del Iowa negli Stati Uniti coordinatore dello studio, “sarebbe fondamentale progettare degli interventi mirati per ridurre il fumo in gravidanza e, a lungo termine, per il benessere dei bambini e dell’intero capitale umano”.

 

BIBLIOGRAFIA:

 

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150 Amici: e i segreti per mantenerli.

Dopo aver postulato il numero aureo dei 150 amici, ecco la ricetta: un mix di contatto fisico, fiducia, risate e buona musica.

150 Amici - Immagine: © aroas - Fotolia.com Robin Dunbar dopo aver indagato sul numero di amicizie che un individuo può tenere a mente, 150 appunto, continua chiedendosi in che modo sia possibile raggiungere questo scopo. Il primo aspetto preso in considerazione dall’antropologo è il tatto, il senso che più ci lega agli altri ed esprime meglio ciò che proviamo per loro. Anche nel mondo animale le effusioni tattili sono importanti, ad esempio tra le scimmie esiste la pratica del grooming una sorta di spulciamento, che oltre a togliere pulci o sporcizia, serve da vero e proprio massaggio.

Tutte le stimolazioni fisiche inducono la produzione di endorfine, sostanze che regolano il senso di benessere e di rilassatezza nell’organismo, agendo anche sul circuito del dolore con un’azione naturale, simile a quella provocata da oppio e morfina.

Il contatto corporeo con gli altri regola le nostre vite in modi di cui non siamo completamente consapevoli; non trattandosi di un canale verbale, che per i linguisti consiste nel 90% della comunicazione, verrebbe percepito solo a livello profondo, preverbale, dall’emisfero destro: il cervello delle emozioni, quello evoluzionisticamente più antico. Mentre i centri del linguaggio, più recenti, si trovano nell’emisfero sinistro.

 

150 Amici - Social Network - © TheSupe87 - Fotolia.com - Articolo
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Un altro aspetto fondante il sistema sociale è la fiducia, caratterizzata dalla reciprocità: “io gratto la schiena a te, tu la gratti a me”. La sua base chimica sarebbe l’ossitocina, una sostanza che contribuisce a generare una sensazione di attaccamento e la cui presenza sembrerebbe differenziare le specie monogame dalle altre: viene prodotta infatti in grandi quantità durante l’allattamento, i rapporti sessuali e appunto quando si esperisce fiducia.

 

Quello che Dunbar suggerisce non è che la nostra vita sia interamente regolata da processi chimici, ma che le sostanze chimiche ci renderebbero sensibili a certi segnali inviati dall’ambiente. Un esempio dal mondo animale, è la reazione chiamata “attacco/fuga” in situazioni di pericolo, innescata dall’adrenalina. Nell’uomo il rilascio di questo ormone predispone il corpo all’azione, ma come si comporterà l’individuo dipende in larga parte dalla lettura che darà della situazione.

Dunbar riflette sul fatto che nelle situazioni a carattere sociale ciò che predispone ad “attaccar bottone” è ridere insieme, perchè ciò crea un senso di coesione e cameratismo, sia che si tratti di un noioso meeting di affari o di uno spettacolo comico in teatro. La risata non solo ha il potere di far sentire rilassati e carichi di energia allo stesso tempo, ma anche in pace col mondo e più propensi ad aprirci all’altro.

L’ultima caratteristica sociale trattata dallo studioso è la musica, considerata per molto tempo un “di più” evolutivo dalla scienza, qualcosa di non strettamente necessario per la sopravvivenza della nostra specie. La spiegazione per un fenomeno a cui la nostra specie assegna tanta importanza per Darwin sarebbe che la musica ha la stessa funzione della coda nel pavone: una forma di pubblicità sessuale. In altre parole la destrezza in quest’arte mostrerebbe la qualità dei geni di chi la esegue, rendendo il soggetto più appetibile durante il corteggiamento. Lo psicologo Geoffrey Miller (Miller 2000) studiando le vite di alcuni compositori, ha effettivamente notato che la fase più creativa corrispondeva a quella sessualmente più attiva e la fase meno produttiva si verificava in coincidenza delle unioni amorose. Questo senza dubbio spiegherebbe il fascino che le pop star hanno sempre avuto sui fan nel corso del tempo!

 

 

BIBLIOGRAFIA:

 

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I Comportamenti Aggressivi dei Bambini: ma è sempre colpa dei genitori? – Parte 3

I Comportamenti aggressivi dei bambini: allora diteci che cosa fare! (Parte 3)

I comportamenti aggressivi dei bambini. Immagine: © elisabetta figus - Fotolia.com Nella parte 1 e parte 2 della serie abbiamo visto che uno dei fattori predisponenti all’aggressività del bambino è lo stile genitoriale. Genitori che reagiscono alla rabbia dei figli con altrettanta rabbia e aggressività o che usano la minaccia e toni di voce molto elevati hanno possibilità marcatamente maggiori di avere figli aggressivi rispetto a genitori che utilizzano, invece, strategie positive (Weiss et al., 1992). Anche la sola aggressione verbale è associata allo sviluppo di comportamenti aggressivi nei bambini, così come la delinquenza e i problemi interpersonali dall’età pre-scolare fino all’adolescenza (Vissing et al., 1991).

Se è vero che i genitori hanno una così forte influenza nel modellare i comportamenti dei figli, non dobbiamo disperarci. Anzi, proprio per questo motivo, i suggerimenti provenienti da pediatri e terapeuti ci dicono di utilizzare proprio il comportamento di mamma e papà per cambiare quello del bambino.

I comportamenti aggressivi dei bambini: ma è sempre colpa dei genitori? PARTE 2 - Immagine: © olly - Fotolia.com
Articolo consigliato: "I comportamenti aggressivi dei bambini: ma è sempre colpa dei genitori? PARTE 2"

Prima di iniziare qualsiasi intervento, il primo passo da compiere è quello di individuare con precisione gli episodi di comportamenti aggressivi del bambino e il contesto in cui questi si manifestano. Una delle metodologie più semplici e diffuse è quella dell’ “ABC- Antecedent, Behaviour, Consequences” comportamentale (attenzione a non confonderlo con l’ABC usato nella terapia cognitiva):

 

A- antecedente: quali sono stati gli eventi che hanno preceduto i comportamenti aggressivi?

B- comportamento: in che cosa consiste precisamente i comportamenti aggressivi?

C- conseguenze: che cosa hanno fatto i genitori per risolvere la situazione?

 

Questa fase serve per avere una descrizione il più precisa possibile del comportamento-problema; per questo sarebbe utile, anche attraverso griglie osservative che possono utilizzare insegnanti o specialisti, informarsi sulla frequenza e i luoghi in cui icomportamenti aggressivi si manifestano, ad esempio sia a casa che a scuola o solamente a casa. Solitamente, infatti, più un comportamento è pervasivo e generalizzato a situazioni diverse, più è indice di problematicità e indica la necessità richiedere un parere specialistico. Inoltre, quando si vanno a osservare i comportamenti aggressivi, bisogna considerare, ad esempio, la modalità con cui la famiglia stabilisce delle regole chiare e come si impegna per farle rispettare.

I Comportamenti aggressivi dei bambini - Immagine: © Pixlmaker - Fotolia.com
Articolo consigliato: "I comportamenti aggressivi dei bambini - PARTE 1"

Se infatti, un bambino è sempre aggressivo a casa e mai nel contesto scolastico, si potrebbe ipotizzare un problema specifico del setting casalingo, dove per esempio vi potrebbero essere regole poco chiare.

 

Una volta escluse cause mediche o legate a disturbi dello sviluppo (che richiedono l’intervento più complesso di diversi specialisti con procedure appropriate al disturbo specifico) i genitori possono provare a mettere in pratica delle strategie alternative di gestione del problema.

Nella prossima parte di questa serie verranno elencati alcuni suggerimenti per le famiglie riconosciuti a livello internazionale da terapeuti e pediatri.

 

 

BIBLIOGRAFIA:

 

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Allucinare i colori? Basta volerlo!

-Rassegna Stampa –

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze PsicologicheUno studio pubblicato questa settimana su Consciousness and Cognition ha dimostrato che alcune persone sono in grado di allucinare i colori secondo il loro desiderio anche senza il supporto di ipnosi. Con “alcune persone” si intende un gruppo di persone selezionate che si sono dimostrate altamente suggestionabili all’ipnosi: nell’ambito dell’esperimento, a questi soggetti è stato chiesto di guardare una serie di disegni monocromatici e di visualizzare dei colori in essi. Testati sia in una condizione di ipnosi che in una condizione “normale” riportavano in entrambi i casi la capacità di visualizzare i colori a differenza dei soggetti non suggestionabili.

Al di là dei report soggettivi in relazione al compito sperimentale, i partecipanti sono stati sottoposti a risonanza magnetica funzionale con la finalità di evidenziare eventuali differenze nei patterns di attivazione cerebrale di soggetti suggestionabili rispetto ai non-suggestionabili in tale compito di visualizzazione dei colori. Dai dati sono emersi cambiamenti significativi nell’attivazione cerebrale delle aree deputate alla percezione visiva soltanto tra i soggetti altamente suggestionabili.

Quindi sembrerebbe che le persone altamente suggestionabili, a differenza del senso comune che tende a etichettarle negativamente come più circuibili e meno razionali, siano portatrici di maggiori opportunità quanto meno in termini di possibilità di modulare le proprie esperienze percettive. Certo non è esente da rischi tale opportunità, se dovesse sfuggire di mano il grado di flessibilità e capacità di modificare le esperienze percettive.

Ad ogni modo, pensando alla modalità di funzionamento della nostra mente che oltre a elaborare simboli astratti e amodali, è anche una mente simulativa, si potrebbe speculare che la suggestionabilità possa essere un variabile che possa discriminare tra menti più o meno simulative?

 

BIBLIOGRAFIA:

 

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La violenza nel cinema secondo Michael Haneke

Parlare di violenza nel cinema è un esercizio quantomai attuale; molte produzioni ricercano un impatto emotivo sullo spettatore attraverso il ricorso ripetuto a scene nelle quali predomina l’aggressività fisica dei protagonisti, l’energia distruttiva di forze che si contrappongono e sono spesso caratterizzate da segni valoriali opposti, il bene e il male. Spesso tendiamo a identificarci con una delle due parti, solitamente con chi si batte per ripristinare la giustizia e la legalità, sia esso un poliziotto sulle tracce di un serial killer o un muscoloso soldato dei corpi speciali alle prese con sgradevoli ospiti alieni.

 

La violenza nel cinema di Michael Haneke non è nulla di tutto ciò ed è più violento di tutto ciò. Il cinema di Michael Haneke esprime la violenza psicologica dei personaggi, la potenza ricattatoria di un abuso, attraverso frammenti silenziosi: una donna che prima di cenare con la madre, fra le onde di un rapporto gelido e incestuale, si attarda in bagno per infliggersi piccoli tagli nelle parti intime – accade ne La pianista -, un uomo che si recide la gola davanti a colui che alcuni decenni prima gli aveva arrecato un trauma difficilmente riparabile, è l’agghiacciante epilogo di “Niente da nascondere”, oppure gli sguardi atterriti delle vittime che in “Funny games” accompagnano le atrocità dei carnefici, raccontate non con la descrizione visiva della violenza ma con l’immersione nella paura da essa generata.

Cosa vuole comunicare Michael Haneke? A mio parere i suoi obiettivi sono molteplici; in primo luogo il regista non conclude mai con verità assolute, limitandosi a chiudere la trama narrativa e non i possibili significati che lo spettatore è in grado di costruire autonomamente. Il secondo aspetto fondamentale è il silenzio della violenza, che non viene mai utilizzata in modo strumentale.

 

La pianista (2001) di Michael Haneke TRAILER:

 

 

La violenza nel cinema di Michael Haneke

Michael Haneke scuote profondamente lo spettatore ma vi riesce mostrandogli la normalità di emozioni che chiunque potrebbe provare: rabbia, invidia, noia esistenziale, crudeltà familiare. Il trauma nasce da una violenza inaspettata eppure tremendamente vicina, da relazioni che gli attori hanno contribuito a forgiare secondo quelle modalità che si sono poi trasformate in tragedia. La violenza è presente già prima del dramma manifesto, è un sottile e latente egoismo, un cinismo sempre più capace di respingere qualunque tentativo di empatia, o nella forma più semplice, una memoria che non dimentica le ferite e investe ogni energia nella vendetta.

Nei film di Michael Haneke non possiamo prendere davvero le distanze dal male, nemmeno quando esso è puro sfogo di malvagità annoiata come in Funny games. Le nostre reazioni sono lì a dimostrarlo: non urliamo per un mostro col volto tumefatto, non guardiamo un giustiziere distante e scontato che ammazza dai titoli di apertura a quelli di coda, bensì rimaniamo raggelati da un essere umano che agisce emozioni conosciute anche da noi, probabilmente più intense e disregolate ma non differenti nell’essenza ultima.

 

Funny Games (2007) di Michael Haneke TRAILER:

 

Il nastro bianco, non a caso, tratteggia alcune linee fondamentali dell’educazione tedesca fra le due guerre mondiali, spiegandoci il processo che ha trasformato dei bambini perfettamente uguali agli altri nei peggiori criminali della storia. Ogni film di Michael Haneke sembra chiederci: cosa ne pensate? Siete così sicuri che il male abiti lontano da voi e assuma sempre forme aliene?

 

Il nastro bianco (2009) di Michael Haneke TRAILER:

 

Il giudizio morale: una Questione di Stomaco.

Due ricerche esplorano il meccanismo di funzionamento del giudizio morale, spostando l’attenzione dal razionale all’irrazionale e dalla corteccia prefrontale all’amigdala.

Giudizio morale: una questione di stomaco. Immagine: © Andy Dean - Fotolia.com - La moralità e l’etica sono tematiche sempre state appannaggio della filosofia e delle scienze cosiddette “speculative”, che cioè teorizzano funzionamenti e situazioni, senza la velleità di trovarvi spiegazioni o proporre modalità di funzionamento specifiche.  Da qualche anno, però, il ragionamento morale è sfuggito a questa oligarchia e ha iniziato a essere maggiormente osservato sotto la lente della psicologia, che ha cercato di capire meglio quale potesse essere il funzionamento alla base delle scelte fatte dalle persone quando sono poste di fronte a un “dilemma morale”.

Quindi, non smentendo mai la paternità cartesiana, le indagini sono iniziate con la classica contrapposizione tra “razionalità” e “emozione/biologia”, intesi come parte “intelligente” e “animalesca, arcaica” dell’essere umano. A un primo sguardo, non vi sarebbero dubbi: un “giudizio” morale, lo dice la parola stessa, implica per forza un’azione volontaria e razionale della persona, una procedura per così dire “pensata”. Del resto, lo si può osservare rispetto qualunque fatto di cronaca: in un qualsiasi posto di ritrovo, a partire dai bar, quante persone stanno a teorizzare a lungo sulle notizie del TG, apportando argomentazioni a favore di una e dell’altra parte, per poi giungere alla sentenza finale?

E invece si è dimostrato non essere proprio così: in contrapposizione a questa visione del giudizio morale “razionale” si è schierato il modello intuizionista, secondo cui il giudizio morale sarebbe risultato non di un processi di ragionamento e riflessione, bensì di valutazioni automatiche e veloci. Uno dei maggiori supporter di questo secondo modello è Haidt, che in una famosa ricerca (Haidt 2001) ha deciso di tirare davvero la corda, della serie “se giudizio morale deve essere, che lo sia fino in fondo”. Ha immaginato scenari piuttosto forti, che toccassero le corde della morale occidentale trasmessa nei secoli, che però non ammettessero razionalizzazioni complesse e sofisticate.

Scenario e Giudizio Morale:

Uno di questi scenari si  presentava così: durante una vacanza in Francia, una sorella e un fratello decidono di avere un rapporto sessuale. Specificando, si scopre che questo rapporto è stato consenziente, protetto al limite dell’ossessività e apprezzato da entrambi alla luce della maggiore intimità che ha permesso di raggiungere. Tuttavia, i ragazzi hanno deciso che questo rimarrà un loro segreto e che questa esperienza non si ripeterà più.

Una volta posti di fronte a questa breve scenetta e interrogati sul proprio giudizio di “giusto” o “sbagliato”, i partecipanti alla ricerca si sono schierati prepotentemente nella seconda fazione. E fin qui niente di stupefacente, certo. Ma davanti alla fatale domanda di Haidt che suonava come “ok, ma perché secondo lei questo comportamento è sbagliato?”, i partecipanti si sono limitati a addurre motivazioni pretestuose e vaghe, una volta escluse le motivazioni di origine “medica” (il rapporto era protetto) e relative alla libertà di scelta (il rapporto era stato consenziente da parte di entrambi). Penso che chiunque di noi possa sentire un urto allo stomaco, indicativo della “non correttezza” di questo atto, ma penso anche che, se volessimo essere davvero sinceri con noi stessi, tutt’ora faremmo fatica a formulare motivazioni che non suonassero come delle scuse. È come il bambino che giustifica la spinta data al compagno con la dinamica temporale secondo cui “ha iniziato prima lui”, pur sapendo che questo non diminuisce la scorrettezza della propria azione. Dicevamo di questi tentativi fallimentari di giustificare la scorrettezza del rapporto sessuale tra i due fratelli portato come esempio da Haidt.

E perché allora, una volta smontate pezzo per pezzo tutte le motivazioni apportate attraverso l’analisi più attenta dei dati di realtà, non limitarsi a correggere il proprio giudizio e a dire “ok, allora forse in fin dei conti non è stata una cosa così sbagliata”? Sicuramente in parte per una necessità di coerenza dei propri giudizi, per cui se una cosa mi ha stretto così tanto lo stomaco non sarò molto disposto ad accettarla come corretta dieci minuti dopo.

Corteccia prefrontale o Amigdala?

Sembra quindi che la parte del corpo deputata al giudizio, per noi, non sia il cervello, ma lo stomaco. O meglio, non sia la corteccia prefrontale (area deputata alla decisione, alla pianificazione e all’adattamento), ma siano aree dell’amigdala (una delle parti del nostro cervello più antiche dal punto di vista evolutivo). Questo almeno hanno scoperto i neurologi del Karolinska Institute di Stoccolma, che hanno proposto a una serie di volontari di cimentarsi in giochi di ruolo e, contemporaneamente, sottoporsi a una risonanza magnetica funzionale. Hanno osservato appunto come il cervello, di fronte a una situazione ingiusta, reagisca attivando aree dell’amigdala arcaica e non, come si pensava, la corteccia prefrontale, evolutivamente molto più recente.

Disgust-© snaptitude - Fotolia.com
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A conferma del dato, si è verificato che, nel momento in cui l’attività dell’amigdala viene inficiata dalla somministrazione di benzodiazepine, le reazioni di fronte a una situazioni ingiusta sono meno nette, e cresce nei soggetti sperimentali la disponibilità ad accettare evidenti ingiustizie.

Questo sembra essere il meccanismo di funzionamento del giudizio morale: una valutazione bottom-up, guidata dalle sensazioni “a pelle” e giustificata post-hoc con motivazioni razionalizzate e riportate a profusione, nel tentativo spasmodico di poter assecondare e avvalorare la tesi promossa dalla nostra amigdala. A quanto pare la parte emotiva, arcaica, ancestrale del nostro cervello, che tanto tendiamo a snobbare, ha capito da subito l’importanza di rispettare alcune regole morali di base che permettano davvero alla specie di non estinguersi.

Ad esempio la “lotta mortale” tra conspecifici è un’attitudine squisitamente umana, presente solo nelle creature che hanno sviluppato questa sorta di cervello “intelligente”, che nel mondo animale lascia il posto a un combattimento ritualizzato, che difficilmente si conclude con la morte di uno dei partecipanti, quando intrapreso tra esemplari della stessa specie. Ancora una volta l’istinto è più conservativo della ragione, più tutelante nei confronti di noi stessi, almeno quando si parla di questioni “pesanti”, questioni che implicano scelte importanti per la sopravvivenza della specie.

 

BIBLIOGRAFIA:

 

 

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Lo psicoterapeuta e la sua voce

L’importanza del fattore voce nella psicoterapia.

Ciro Imparato
Ciro Imparato - Doppiatore e Voice Trainer

Giorni, mesi, anni ad ascoltare mia moglie che mi rimproverava certi miei toni di voce grigi e inespressivi: ma come fai a far lezione con questa voce? E terapia? Li farai dormire tutti! E io pensavo infastidito: ma questa qui che vuole? La psicoterapia è un fatto mentale, e poi non sono un attore! E poi: controllare la propria voce non è finzione? Eppure un’altra voce mi diceva che poteva esserci del vero negli sberleffi della mia consorte.

Infine accadde che mia moglie, la quale condivide o quasi il mio mestiere essendo una psichiatra (ma lei è tutta farmacologia, mentre io sono tutto psicoterapia) un giorno se ne torna a casa tutta giuliva e trionfante. “Ho fatto un corso per migliorare la voce!” “Ma sei impazzita?” “Calma, è una cosa seria, un corso specifico per psichiatri approvato dal servizio sanitario”. Taccio, di fronte all’autorità dello Stato.

Insomma, mia moglie ha fatto un corso per migliorare il proprio controllo vocale con un cosiddetto voice trainer professionista, Ciro Imparato, che è un noto doppiatore e presentatore. Ma è anche il collega Imparato, dato che ha studiato pedagogia indirizzo psicologico. E ha ideato un corso di addestramento vocale degno di ricevere maggiore attenzione scientifica.

E così ho fatto il corso. Beninteso, me lo ha regalato mia moglie. Ma sono rimasto soddisfatto. E ho capito perché Imparato organizza corsi non solo per animatori turistici, attori, venditori, cantanti e intrattenitori di vario tipo, ma anche per psichiatri e psicoterapeuti. Lungi dal limitarsi a insegnare la solita voce squillante e motivante degli intrattenitori da villaggio vacanze, Imparato insegna a emettere un tono di voce che sa essere tranquillo e accogliente senza diventare inavvertitamente grigio e monotono. La differenza è minima e non così facile da padroneggiare, ed è per questo che così facilmente la nostra voce diventa inespressiva. Ma questa differenza è formalizzabile in parametri, e Imparato -secondo me- è riuscito a formalizzarla, giocando sul tono, il ritmo, il tempo, le pause, il volume e anche il sorriso. E insegnando a gestirli consapevolemente.

Riflettiamo ora come terapeuti. La voce, ammettiamolo, è uno dei nostri strumenti di lavoro. Ai nostri pazienti parliamo. Scambiamo informazioni anche con il tono di voce. Comprendere quanto facilmente e involontariamente il nostro tono di voce può diventare grigio e inespressivo è importante. Io ho avuto la fortuna di una moglie che me lo ha fatto capire (con una certa insistenza).

Non si tratta tanto di motivare, ma di coinvolgere e accogliere il paziente. È quello che Imparato chiama ‘tono di voce verde’. Ma anche, al momento opportuno, saper sfoderare un tono di voce ottimista e attivante (voce gialla) o autorevole (voce blu). Certo, occorre attenzione. Occorre anche non esagerare. Eppure, malgrado le diffidenze di noi psico-operatori, ritengo che ci sia qualcosa da imparare da questi corsi di competenza vocale. E anche qualcosa su cui riflettere in termini clinici e di ricerca scientifica. In letteratura c’è veramente poco e datato. Un solo articolo del 1985 ho trovato, almeno finora.

Ce ne sarebbe di ricerca da fare. Si potrebbe confermare, ad esempio, che la voce verde tranquillizza il cliente, facilita un battito cardiaco più lento e un tono muscolare più rilassato. Oppure può aiutare a calibrare bene i momenti di passaggio dalla voce verde e accogliente a quelli in cui è necessario un certo entusiasmo e autorevolezza per poter smuovere e scuotere il paziente. Cose che in fondo noi psico-operatori già facciamo. Si tratta solo di apprendere a farlo con maggiore consapevolezza.

 

BIBLIOGRAFIA:

Bady, S.L. (1985). The Voice as a Curative Factor in Psychotherapy. Psychoanalatyc Review, 72, 479-490.

Imparato, C. (2011). La Voce Verde della Calma. Con audio CD. Milano: Sperling & Kupfer.

 

 

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Il capo ti maltratta? La tua relazione di coppia può risentirne

– Rassegna Stampa –

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze PsicologicheAvere un capo maltrattante non solo ha un impatto negativo sulla quotidianità lavorativa ma può portare a tensioni relazionali nella nostra vita privata, secondo quanto riportato da uno studio della Baylor University. Lo studio ha evidenziato come stress e tensioni causate da un capo maltrattante sul lavoro abbiano un impatto sul partner del lavoratore “maltrattato” e che a sua volta influenza la relazione di coppia.

Cerchiamo di capire come sono state indagate tali variabili e in che modo si è giunti a tale risultato.

Anzitutto, con il termine maltrattamento da parte di un principale, gli autori si riferiscono a una serie di scatti di’ira, comportamenti stizzosi, criticismo in pubblico, e comportamenti sconsiderati e maleducati. Lo studio ha coinvolto 280 lavoratori full-time (sia donne che uomini) e i loro partners, con un’età media di 36 anni, con circa 5 anni di impiego nel loro attuale lavoro, e mediamente relazioni di coppia della durata di 10 anni. I lavoratori sono stati selezionati da pubbliche organizzazioni, aziende private e organizzazioni no-profit ed è stato loro chiesto di compilare una survey on-line. Lo studio ha evidenziato che i soggetti che riportavano più frequentemente comportamenti maltrattanti da parte del loro capo, erano proprio coloro i cui partners riferivano maggiori tensioni e conflitti relazionali nella coppia.

Al di là dell’esito varrebbe la pena capire cosa media o modera tale processo: le variabili deliziosamente psicologiche, riguardanti ad esempio l’abitudine alla condivisione emotiva, le diverse strategie di regolazione emotiva, il perfezionismo patologico, la resilienza (solo per citarne alcune), sono escluse dall’indagine e quindi anche da una spiegazione empiricamente fondata che vada oltre la speculazione.

Al di là dei futuri obiettivi di ricerca, voi che ne pensate? Per dirla in parole più semplici, siete i tipi che ritornati da lavoro ricercate nel partner un “contenitore emotivo” in cui svuotare tutte le vostre frustrazioni raccontando l’accaduto quotidiano oppure silenziosamente sopprimente le emozioni, vi distraete, rileggete la situazione da punti di vista diversi oppure evitate cognitivamente e discorsivamente l’argomento? Pensate che queste diverse modalità di regolazione e condivisione emotiva di ciò che di maltrattante vi accade sul lavoro possano influenzare la vostra vita di coppia?

 

BIBLIOGRAFIA:

 

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Dexter lo psicopatico e la mentalizzazione degli stati emotivi.

La genesi del serial killer Dexter e il suo profilo psicopatologico capace di cambiare ed evolvere.

Dexter - Immagine di proprietà di © 2011 - Showtime Da diversi anni assistiamo alla proliferazione di serie televisive per lo più americane incentrate su tematiche piuttosto ricorrenti, una delle quali, forse la più esplorata, è la criminologia. Sono ormai innumerevoli le produzioni che ci raccontano vicende poliziesche, indagini legali, ricerche di spietati assassini o intrighi nei quali si intersecano aspetti criminali e politici. Il pubblico è interessato a scoprire cosa si cela dietro l’immagine, spesso mitizzata, delle grandi organizzazioni americane contro il crimine, la Cia, l’Fbi, i dipartimenti di polizia e i nuclei investigativi che si occupano di ricostruire in termini scientifici le dinamiche dei fatti delittuosi. Naturalmente le serie tv tendono ad offrire un ritratto che conferma le aspettative degli spettatori, presentando il volto più efficiente ed energico della lotta all’illegalità.

Tra i filoni che descrivono il dietro le quinte delle attività investigative ottiene un successo costante l’indagine scientifica sulla scena del crimine. Portata alla ribalta da Csi e successivamente ripresa da molte altre serie, questa modalità utilizza i contributi di scienze come la chimica, la biologia e la fisica per interpretare il significato delle tracce rinvenute sul luogo del delitto. Per estensione, analizza i reperti che anche in fasi successive possono essere trovati in seguito a perquisizioni o a nuove scoperte investigative. Gli esami scientifici vengono poi correlati ad elementi più strettamente criminologici, ossia si cerca di ricostruire la personalità e il modus operandi del presunto assassino avvalendosi dei segni che egli ha lasciato dietro di sé.

Psicopatia - Immagine: © Gina Sanders - Fotolia.com -

I serial killer sono il soggetto preferito per molte di queste narrazioni, poiché uniscono efficacemente le due componenti considerate; l’assassino seriale tende infatti a riprodurre il proprio sistema d’azione, lasciando indizi ridondanti che sovente corrispondono ad un linguaggio il cui scopo è comunicare con la polizia, sfidarla e talvolta indicarle la strada giusta per la soluzione del mistero, allorché l’omicida coltivi il desiderio nemmeno troppo inconscio di essere scoperto e di porre termine ad una fuga emotivamente logorante che non riesce più a sostenere. Le serie tv di argomento criminologico sono spesso ben fatte, seppure in alcuni casi appaiano un po’ forzate; non è raro infatti che alcuni aspetti della trama prevalgano in misura evidente su altri, ad esempio quando gli esercizi di logica deduttiva volti alla descrizione della mente dell’assassino si rivelano troppo didascalici, soggiogati all’utilizzo di criteri diagnostici rigidamente attinti dalle classificazioni psichiatriche.

 

Oppure quando la voce della scienza diventa un percorso schematico che esclude le variabili psicologiche. Nella terra di mezzo, confermando la sentenza latina “in medio stat virtus”, si colloca Dexter, il serial killer dei serial killer. Ben pochi aspetti di questo telefilm si mostrano approssimativi: Dexter è uno dei personaggi meglio rappresentati sul piano psicologico, arrivando a sfiorare sfumature hichtcockiane.

La sua storia criminale nasce da un trauma subito nella prima infanzia, quando la madre viene brutalmente assassinata in un container ed egli assiste all’omicidio rimanendo immobile e impotente ad osservare il lago di sangue che lo bagna. Portato via da un poliziotto che diventerà il suo padre adottivo, Dexter tradisce ben presto una natura inquietante, colma di aggressività. E’ a quel punto che il padre gli insegna il Codice, un insieme di regole con le quali Dexter potrà seguire il proprio istinto omicida rivolgendolo però verso comportamenti in qualche modo riparatori. Il Codice gli impedisce di aggredire persone innocenti: nascerà così un giustiziere dei criminali, attento a verificare l’effettiva colpevolezza delle vittime prima di passare all’azione.

Come in un destino che non può non seguire precise regole, il Dexter adulto torna a convivere col sangue e non solo facendolo sgorgare da coloro che sopprime; nella vita normale di Miami, prima delle notti umide in cui cresce la brama predatoria, lavora per la polizia analizzando le tracce ematiche sulle scene del crimine. La trama si sviluppa perciò su un doppio binario: la luce del giorno e il passeggero oscuro – come Dexter definisce il proprio irrefrenabile impulso -, gli omicidi e le acrobazie necessarie a mascherarli che spesso consistono nella diretta manipolazione delle prove.

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Ciò che più di tutto affascina di questo telefilm è la raffinatezza con cui viene delineato il personaggio principale: Dexter avverte un gelo emotivo che lo rende perfetto nel compito che è chiamato a svolgere, un’incapacità assoluta di entrare realmente in relazione col prossimo. Tali caratteristiche vengono distribuite nella narrazione come un costante stillicidio, sia attraverso la voce narrante di Dexter che espone i propri vissuti nelle notti trascorse sulle tracce della vittima prescelta, sia con l’approfondimento dei normali eventi di vita: l’inizio della relazione con una donna e l’impossibilità di provare vicinanza emotiva, l’osservazione degli altri esseri umani mentre mettono in atto comportamenti di condivisione sociale che a Dexter risultano impossibili da imitare spontaneamente, il rapporto coi figli della compagna.

 

E proprio nell’apparente ineluttabilità di questo destino la serie diventa ancora più sorprendente, poiché Dexter comincia a scegliere. Comincia a ragionare su esperienze correttive reali o potenziali, l’amore lo cambia e senza seguire strade retoriche; si confronta col passato, mette in discussione le certezze imposte dal padre, sempre meno idealizzato nel corso dell’intreccio narrativo, riguardo all’immodificabilità aprioristica delle pulsioni violente, e intravede lo spazio della volontà cosciente, della riflessione su scopi alternativi.

Carnage (locandina) - Proprietà di Sony Pictures
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Intravede la necessità di proteggere la normalità che si profila all’orizzonte. Senza svelare troppo della trama si può dire che il passaggio dalla totale assenza di empatia, peculiare di una personalità psicopatica, all’emergere di un approccio caro a noi cognitivisti, nel quale la mentalizzazione degli stati emotivi contribuisce a modificarli, è tratteggiato con un rigore concettuale e una sensibilità notevoli.

 

E’ significativa inoltre la complessità evolutiva di Dexter, che non abbandona il primo stato per generare il secondo, bensì modifica il significato primario del passeggero oscuro per riuscire ad integrarlo con i nuovi desideri, i nuovi progetti esistenziali che vengono alla luce. Continua ad uccidere e sarebbe poco credibile il contrario, data la natura strutturante della patologia che lo accompagna, ma i suoi gesti attraversano uno spettro variegato di tonalità emotive e attribuzioni cognitive, lasciando spazio anche a semplici ricadute con cui egli regredisce ad organizzazioni di coscienza più primitive. Una grandissima serie, da seguire nella versione inglese per apprezzare la profondità della voce originale.

 

 

Psicopatia, PTSD e genesi di condotte antisociali.

Psicopatia, comportamento criminale ed esperienze traumatiche. Rischio e recidiva.

Psicopatia - Immagine: © Gina Sanders - Fotolia.com - In occasione della  prima conferenza della Società Italiana per lo Studio dello Stress Traumatico (SISST), tenutasi il 19 Novembre presso l’Università Cattolica di Milano e di cui si è parlato nell’articolo “Violenza sulle donne: dinamiche di vittimizzazione”, uno dei workshop pomeridiani, tenuto da Vittoria Ardino, Vincenzo Caretti e Caterina Zaiontz, ha riguardato le sindromi post-traumatiche e dell’adattamento in contesti forensi.

Il lavoro dei tre relatori ha evidenziato come le sindromi post-traumatiche possano costituire un importante fattore di rischio per il comportamento criminale e una barriera per la riabilitazione degli autori di reato e come il ciclo trauma-disturbi dell’adattamento (incluso l’adattamento al contesto carcerario) sia un elemento fondamentale nel mantenimento della recidiva. Vorrei qui soffermarmi su uno degli aspetti emersi da questo interessante workshop: il ruolo delle esperienze traumatiche nello sviluppo di “carriere” criminali con particolare attenzione alla discussa diagnosi di psicopatia.

La psicopatia è un disturbo deviante dello sviluppo. Se lo sviluppo è un processo dinamico, frutto di traiettorie  diverse, complessità di incontri tra fattori di rischio e fattori di protezione, la psicopatia è un  processo verso la perdita definitiva del sentimento umano, del sentimento di essere nel mondo degli umani.

Le persone che commettono atti antisociali non sono necessariamente psicopatiche, così come è sbagliata l’idea che tutti gli psicopatici siano dei folli assassini. Certamente gli psicopatici hanno gravi impulsi antisociali ai quali danno corso non curandosi delle conseguenze delle loro azioni e molti dei serial killer che affollano le cronache nere possono a pieno titolo essere annoverati in questa categoria. La maggior parte degli psicopatici, tuttavia, appare al mondo come un modello di normalità: sono molto abili a mascherare il loro mondo interiore ed a costruirsi una vita all’apparenza felice e bene adattata. Non è detto che queste persone commettano delitti o reati efferati: la maggior parte di loro conduce un’esistenza al di fuori dei circuiti penali, ma riuscendo a stabilire solo rapporti di sfruttamento e manipolazione, mancando completamente di principi morali.

Sono predatori intraspecie, sfruttano chi li circonda, approfittando dei punti deboli delle persone per manipolarle a proprio vantaggio. Le altre persone sono viste come oggetti. Sono incapaci di mettersi nei panni degli altri, così come un serpente è incapace di immedesimarsi nelle proprie prede. A differenza del disturbo antisociale di personalità, ciò che caratterizza la psicopatia è la presenza di freddezza emotiva, un vero e proprio deficit affettivo ed interpersonale, insieme a comportamenti manipolatori, predatori, malvagi e violenti. Anche gli antisociali sono manipolativi, tuttavia sono impulsivi in maniera evidente, con frequenti acting out e aggressività manifesta.

Gli psicopatici trattengono gli impulsi, li congelano e li mettono in atto al momento opportuno.  Hanno una forte propensione alla noia e bisogno di stimoli sempre più forti, elemento che può diventare una forte motivazione a commettere delitti. Alcuni studi di neuroimaging, riportati da Vincenzo Caretti, rilevano in questi soggetti un deficit nel cervello “morale”: insensibilità di fronte al dolore altrui, ridotta attivazione del sistema limbico, dell’amigdala, e della corteccia orbitale (coinvolta nel ragionamento etico).

Cleckley (1941) descrive gli psicopatici come persone incapaci di provare senso di colpa, egocentriche, con un estremo senso della propria importanza, incapaci di autentico affetto, in cui è assente il rimorso, che mancano di introspezione psicologica e incapaci di apprendere dall’esperienza. Dotati di fascino superficiale e bravi parlatori, utilizzano questa loro capacità per manipolare l’interlocutore, sfruttando per questo scopo la loro capacità di leggere perfettamente gli stati mentali altrui. Manca loro, invece, la capacità di mentalizzare i propri stati emotivi e non presentano segni di sofferenza psichica: nel racconto di violenze subite, spesso presenti nelle loro storie di vita, c’è una totale assenza di emozioni. Proprio per questa ragione, a differenza di persone con disturbo antisociale di personalità, sono insensibili alle punizioni e di questo è necessario tenere conto negli eventuali programmi di trattamento.

Tuttavia sono estremamente vulnerabili all’umiliazione, tanto che i picchi di violenza, utilizzata come estrema strategia di gestione, si registrano proprio nei momenti in cui questi soggetti sperimentano maggiormente tale emozione.

Che relazione ha tutto questo con il trauma?

Il primo dato importante riportato da Vittoria Ardino nella sua relazione è che l’esposizione precoce a traumi familiari o di comunità sono correlati positivamente con un maggiore rischio di comportamenti criminali. Il secondo dato importante è che gli autori di reato hanno più elevati livelli di Disturbo da Stress Post-Traumatico (PTSD) e che il comportamento criminale è correlato con la gravità del PTSD (nelle popolazioni forensi la percentuale di PTSD è molto maggiore rispetto alla popolazione generale). Tuttavia i meccanismi specifici sono poco esplorati in letteratura.

Ci sono fattori ed esperienze che determinano queste traiettorie fin dall’infanzia, dando origine alla “carriera” criminale: comportamenti antisociali nell’infanzia, devianza nell’adolescenza e comportamenti criminali nell’età adulta. Non ci sono individui predisposti naturalmente all’antisocialità, ma esistono alcune circostanze che rendono gli individui più vulnerabili ad essa. Il trauma è un importante fattore che aumenta questa vulnerabilità. Il costante stato di allarme e le aspettative di maltrattamento tipiche del PTSD complesso generano  una sregolazione emotiva, in particolare della rabbia: a fronte di ciò la strategia di coping preferenziale è la messa in atto di comportamenti violenti per proteggersi, acquisire un certo controllo sulla situazione ed uscire dal ruolo di vittima.

Questi meccanismi sono aspetti fondamentali nella genesi delle condotte antisociali. Diversi studi mostrano come gli offender, rispetto alla popolazione generale, abbiano alti livelli di rabbia, impulsività, traumi e dissociazioni (esperienze frequenti nel PTSD complesso). Gli psicopatici, in particolare, rispetto ad altri offenders, hanno traumi più frequenti, traumi infantili più precoci e maggiori esperienze dissociative.  L’insensibilità al dolore dello psicopatico ricorda il congelamento dovuto all’attivazione del nucleo vagale-dorsale di cui parla Porges (2001) nella sua analisi del sistema di difesa.

L’umiliazione, legata alla vergogna, è un’emozione che caratterizza fortemente il vissuto di chi ha subito un trauma.

Sembra, dunque, che il trauma ed i disturbi ad esso correlati siano un ambito di indagine clinica e di ricerca davvero importante per una migliore comprensione del comportamento criminale e per una strategia efficace di trattamento, riabilitazione degli autori di reato e prevenzione della recidiva. In particolare, per quanto riguarda gli psicopatici, è opportuno tenere conto della maggiore gravità delle storie traumatiche che caratterizzano il loro sviluppo e degli specifici meccanismi coinvolti,  con particolare attenzione all’insensibilità al dolore, e dunque alle punizioni, ed ai vissuti di umiliazione che possono condurre ad un drammatico inasprimento della violenza.

 

 

BIBLIOGRAFIA:

  • Cleckley, H. The mask of sanity. Emily S. Cleckley, Augusta, GA, 1941
  • Hare, R.D. La psicopatia. Valutazione diagnostica e ricerca empirica. Astrolabio, Roma, 2009

  • Porges SW. The polyvagal theory: phylogenetic substrates of a social nervous system. Int J Psychophysiol 2001; 42:123–146.

  • Simon, R.I. I buoni lo sognano, i cattivi lo fanno. Raffaello Cortina Editore, Milano, 1997

 

 

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L’opera del politico Napolitano dietro lo stile tecnocratico di Monti

Articolo di Giovanni Maria Ruggiero pubblicato su Affaritaliani.

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze PsicologichePer conquistare il potere occorrono talenti diversi da quelli richiesti per ben governare. Sia in democrazia che non. Non si scappa da questo dilemma. La conquista del potere, anche non democratica, è arte della convinzione e della persuasione, vicina all’illudere e all’indulgere. Il governare è invece arte del deludere e, nonostante questo, del saper mantenere il timone nonostante le delusioni inflitte. Non si sfugge a questa ironia della realtà (o- se si vuole- di Dio, supremo ironista).
E sempre così sarà. Non esiste governo tecnico, governo che cioè non debba aver convinto e mediato opposte passioni. Il confliggere degli interessi non può generare scelte disinteressate. Occorre convincere, non dimostrare. In situazioni eccezionali si scelgono governi cosiddetti tecnici, e così pare sia il governo Monti. O forse non è così…CONTINUA A LEGGERE SU AFFARITALIANI

Psicopatia

Psicopedia - Proprietà di State of MindScomparsa dai manuali diagnostici negli anni ’80, quando il DSM-III la mutò in favore della diagnosi di disturbo antisociale di personalità, la definizione di psicopatia ha continuato ad essere utilizzata per indicare una costellazione di caratteristiche affettive, intrapersonali e comportamentali che includono egocentrismo, impulsività, irresponsabilità, emozioni superficiali, assenza di empatia, senso di colpa o rimorso, mentire patologico, manipolazione e persistente violazione di norme e aspettative sociali.

In particolare si deve a Robert Hare l’analisi approfondita di questo disturbo mentale e la diagnosi differenziale rispetto al disturbo antisociale di personalità: egli sottolinea, infatti, come a caratterizzare i soggetti psicopatici sia, accanto a comportamenti antisociali, violenti e manipolatori,  la freddezza emotiva, un vero e proprio deficit affettivo ed interpersonale.

 

BIBLIOGRAFIA:

  • Cleckley, H. 1976: The Mask of Sanity. St. Louis: Mosby

  • Hare, R. 1993: Without Conscience: The Disturbing World of Psychopaths among Us. NewYork: Pocket Books.

Multitasking: uomini e donne a confronto.

– Rassegna Stampa –

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze PsicologicheIl multitasking è ormai una realtà diffusa tra lavoratori di tutte le età e di entrambi i sessi; la American Sociological Review ha pubblicato i risultati di un ampio studio che ha trovato importanti differenze nella percezione, e nella tolleranza, che madri e padri hanno allo svolgimento di più lavori contemporameamente. Indovinate un po..?!  I risultati mostrano che sono le donne, le mamme, e non i papà, quelle che più frequentemente svolgono più di un lavoro e che rispetto agli uomini vivono il multitasking più negativamente. Le differenze riscontrate tra mamme e papà sembrano dipendere non solo alla quantità di compiti svolti ma soprattutto alla qualità di questi. Le mamme infatti, con una media di 48,3 ore settimanali, lavorano su più fronti per ben 10 ore a settimana in più dei papà (39,9), cioè svolgono almeno due attività contemporaneamente per più dei 2/5 del tempo in cui sono sveglie. Ma la vera differenza tra madri e padri sta in come il multitasking viene vissuto, infatti per la maggior parte delle donne il multitasking è un’esperienza negativa e stressante, che le fa sentire in conflitto sopratutto quando lavorano sia fuori che dentro casa. Per i padri invece è quasi sempre un esperienza positiva. Infatti quando le donne hanno più di un lavoro, e lo svolgono da casa, è più probabile che finiscano anche per occuparsi delle faccende di casa e della cura dei figli, attività che richiedono un grosso sforzo. I padri invece, quando lavorano da casa, si lasciano più facilmente coinvolgere in altri tipi di attività, come parlare con qualcuno o occuparsi di sé stessi, attività chiaramente meno impegnative. Quando i compiti svolti riguardano anche la cura dei figli e della casa, le mamme sono anche più esposte al giudizio sociale sul loro ruolo di “brava mamma” di quanto non lo siano i padri, che invece sono socialmente considerati il principale sostegno della famiglia in termini economici.La chiave del benessere emotivo delle mamme, concludono i ricercatori, sta nel comportamento dei papà che dovrebbero condividere maggiormente gli impegni domestici e partecipare di più alla routine della famiglia, grazia anche a una maggiore flessibilità negli impegni e negli orari lavorativi…

 

BIBLIOGRAFIA:

 

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The dark side of creativity: la correlazione tra creatività e disonestà

– Rassegna Stampa –

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze PsicologicheUna ricerca apparsa sull’ultimo numero del Journal of Personality and Social Psychology suggerisce che le persone più creative siano meno oneste e più propense a barare di chi dimostra meno creatività.

Il disegno sperimentale prevedeva un primo screening del campione in osservazione per identificare, con apposite misure, gli individui più creativi; in un secondo momento tutti i partecipanti venivano sottoposti a 5 set di esperimenti per i quali venivano tutti ugualmente ricompensati con una piccola somma di denaro, che sarebbe stata maggiore per quelli che si fossero dimostrati disposti a barare, così da falsare i risultati dell’esperimento. I risultati della ricerca dimostrano che le personalità più creative erano significativamente più propense all’inganno delle loro controparti meno creative e che la creatività è predittiva di comportamenti disonesti più dell’intelligenza; inoltre i più disonesti si sono dimostrati anche i più abili nel giustificare la loro disonestà.

i ricercatori concludono che una maggiore creatività aiuta le persone risolvere compiti difficili in molti settori, ma può portare gli individui a prendere strade poco etiche nella ricerca di soluzioni ai problemi; per questo motivo chi lavora in ambienti che promuovono il pensiero creativo potrebbe essere il più a rischio quando si trova ad affrontare dilemmi etici.

Gli autori, tuttavia, sottolineano un limite importante della ricerca, cioè il fatto gli incentivi a barare sono tutti monetari; suggeriscono inoltre che futuri studi dovrebbero esaminare in che misura la creatività influenza il soddisfacimento di desideri e bisogni immediati e quali sono le differenze rispetto alla realizzazione di ambizioni e aspirazioni a lungo termine, per le quali è necessaria buona capacità di autocontrollo.

 

BIBLIOGRAFIA:

 

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La percezione del corpo e l’illusione della mano di gomma.

L’esperimento della mano di gomma conferma la minore abilità dei soggetti schizofrenici a percepire il proprio corpo.

Esperimento della mano di gomma - Immagine di proprietà di: John Russell / Vanderbilt University
La ricercatrice Lindsey McIntosh mentre efffettua una dimostrazione dell’esperimento di illusione sensoriale. (John Russell / Vanderbilt University)

Ormai sono tante le evidenze scientifiche a favore del fatto che la pratica di un esercizio fisico costante nel tempo, portando l’attenzione sul corpo, possa aiutare ad alleviare i sintomi della schizofrenia, andando anche a migliorare la qualità della vita dei pazienti stessi. Già è noto che questo disturbo porti con sé la presenza di allucinazioni e deliri; inoltre nello studio condotto dai neuro scienziati della Vanderbilt University, ci viene illustrato che include anche la difficoltà di percepire le sensazioni reali ed effettive del proprio corpo. In questo studio, infatti, emerge che una ridotta percezione del proprio corpo sia caratteristica comune nei soggetti schizofrenici.

 

La dott.ssa Sohee Park ha valutato la percezione del proprio corpo di 55 soggetti (21 soggetti di controllo e 24 pazienti con diagnosi di schizofrenia) testandone la vulnerabilità alla “illusione della mano di gomma”.

Questa illusione sensoriale fu identificata nel 1998 e da allora viene utilizzata in campo scientifico. Consiste nel toccare contemporaneamente una mano del soggetto testato, che quest’ultimo non può vedere, e una mano di gomma che invece entra nel campo visivo del soggetto stesso.

Esperimento della mano di gomma 2 - Immagine di proprietà di: John Russell / Vanderbilt University
Test di taratura della posizione percepita della mano nascosta. Il test viene effettuato sia prima che dopo l’esperimento e le variazioni nella stima del soggetto in esame forniscono una misura quantitativa della forza dell’illusione. (John Russell / Vanderbilt University)

I ricercatori affermano che dopo poco tempo i pazienti schizofrenici tendono a sentire come propria la mano di gomma, che è nel loro campo visivo, e rinnegano la propria che invece non vedono; anche alcuni soggetti del campione di controllo subiscono questa illusione, ma in modo molto meno intenso e molti non ne sono per nulla influenzati. I soggetti sani che vengono influenzati dall’illusione della mano di gomma hanno anche punteggi più alti alla scala per valutare la schizotimia, che viene somministrata prima dell’esperimento vero e proprio. Per valutare l’intensità relativa all’illusione, i ricercatori hanno chiesto ai soggetti di stimare, prima e dopo la stimolazione, la posizione del dito indice della mano toccata: più è alto il potere dell’illusione e più la stima dei soggetti viene spostata verso la mano di gomma.

 

Tra l’altro, l’illusione della mano di gomma avrebbe anche un correlato fisiologico: infatti, quando la persona ne sperimenta l’illusione, la temperatura della mano nascosta scende di qualche decimo proprio come se non facesse più parte del corpo del soggetto stesso.

L’importanza di questa ricerca sta nel fatto che la percezione corporea, insieme alla sensazione di essere ”padroni” delle proprie azioni vanno a costituire la consapevolezza di sé. Da qui la constatazione che i pazienti schizofrenici, risultando più vulnerabili all’illusione della mano di gomma, hanno una percezione più debole e flessibile di sé, rispetto ai soggetti del gruppo di controllo.

Ritorna, nelle conclusioni della ricerca, l’importanza dell’esercizio fisico come strumento per migliorare la percezione corporea e in seconda battuta la qualità della vita dei pazienti schizofrenici. A supporto di questo anche una ricerca del 2008, che riporta come un breve training fisico di 12 settimane avesse alleviato alcuni sintomi negativi e migliorato il comportamento di un piccolo gruppo di pazienti con schizofrenia rispetto al gruppo di controllo che, a parità di diagnosi, non faceva alcun training fisico. Il suggerimento finale è quello di considerare l’esercizio fisico, e soprattutto quelle discipline che coinvolgono un preciso controllo del corpo, come lo yoga e alcuni tipi di danza, come un ulteriore ingrediente nel trattamento di questi pazienti, ovviamente in accordo con il curante in relazione a specifici obiettivi terapeutici.

Comportamenti antisociali e punizioni: Evoluzione, Autoconservazione

– Rassegna Stampa –

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze PsicologicheUn nuovo studio dell’ University of British Columbia e pubblicato su Proceedings of National Academy of Sciences suggerisce che I bambini di appena otto mesi siano a favore di punizioni o comportamenti negativi nei confronti di chi si comporta in modo antisociale e provino invece antipatia per chi è tenero con i “cattivi”.
L’esperimento:
100 bambini hanno partecipato alla ricerca, nel corso della quale dovevano esprimere la loro preferenza per alcuni pupazzi che punivano o premiavano dei burattini definiti dai ricercatori “cattivi”; quando è stato chiesto ai bambini di scegliere i loro personaggi preferiti, questi hanno scelto proprio quei pupazzi che avevano punito i burattini cattivi rispetto a quelli che li avevano premiati.
In un esperimento simile bambini poco più grandi, di 21 mesi, hanno premiato comportamenti prosociali e punito comportamenti antisociali.
Considerazioni:
Questo studio aiuta a rispondere alle domande che hanno assillato per decenni gli psicologi evoluzionisti, dice il Prof. Kiley Hamlin: “come siamo sopravvissuti come creature intensamente sociali se la nostra socialità ci rende vulnerabili a essere sfruttati e truffati?”
La risposta suggerita dai risultati della ricerca è che già a partire da otto mesi di età facciamo attenzione alle persone che potrebbero metterci a rischio e preferiamo vedere i comportamenti antisociali regolamentati, come dire quindi che la tendenza a costruire alleanze per proteggersi socialmente ha le sue radici evolutive in meccanismi di autoconservazione.

Tecnica del Video Feedback

La tecnica del Video Feedback è nata verso la fine del secolo scorso in ambito Psicoanalitico e Gestaltico.

Psicopedia - Proprietà di State of MindIl video è lo strumento che caratterizza, forse più di ogni altra cosa, la nostra società ed i nostri modelli culturali. Esso può essere strumento della psicoterapia per la sua capacità di mostrare, ad ognuno, se stesso. Il lavoro psicoterapico mediato dal video rappresenta, quindi, l’articolazione di un procedimento (chiedersi chi si è, come si è, etc.) che è di tutti, e che per tutti ha valore e importanza. La tecnica del Video Feedback dà al partecipante un’opportunità di osservare direttamente il comportamento che egli stesso ha agito nella situazione specifica, favorendo quel cambiamento, che si verifica nei processi di comprensione e di attribuzione, che può realizzarsi nel momento in cui la persona passa da una prospettiva di attore ad una prospettiva di osservatore.

Il Video Feedback è definito come una tecnica di osservazione dell’interazione attraverso l’uso di un addestramento assistito (McDonough, 1993). L’ambito applicativo di tale prospettiva è soprattutto quello della psicologia dello sviluppo, della clinica e della ricerca, ambienti in cui si è interessati ai cambiamenti nei comportamenti di cura, piuttosto che al cambiamento più generale delle capacità di auto-valutazione o all’esame dei comportamenti agiti dai bambini “problematici” verso i genitori o gli altri adulti che ne hanno cura (Juffer, Bakermans-Kranenburg e van IJzendoorn, 2005).

L’effetto più drammatico è la reazione che il paziente ha nel momento in cui si osserva nel video, si ottengono dei risultati terapeutici impressionanti. Per questo motivo il video – feedback rappresenta una potente tecnica da usare in terapia o nella ricerca. Infatti, la visione della propria immagine determina rapidi cambiamenti nelle condizioni psicotiche e psicopatologiche, perché indica un maggiore contato con la realtà.

Vedere se stessi in veste di osservatore, come se ci guardassimo allo specchio, pone maggiore attenzione agli aspetti che giocano un ruolo fondamentale nel comportamento (ad esempio ci concentriamo su quello che consideriamo essere particolarmente bello, brutto o strano).

E’ noto che nella ripresa delle immagini, la destra e la sinistra sono invertite. Questo cambio di posizione gioca un ruolo fondamentale nella propria auto-percezione e nel proprio auto-apprezzamento e può essere vissuta sia come minaccioso sia come piacevole dal paziente, a seconda di come questi ha costruito la sua identità personale. Inoltre, il coinvolgimento legato ad una immagine video può essere trovato nella connessione tra corpo-immagine e concetto di sé. Sentire le sensazioni del proprio corpo e le informazioni propriocettive sono una base importante per la struttura della propria identità.

Con l’utilizzo del Video Feedback, il terapeuta può utilizzare il linguaggio del corpo mostrato per far avere consapevolezza al paziente della risonanza che alcuni gesti possono avere sugli altri, inducendolo a produrre esso stesse delle risposte, quindi per meta-riflettere sui propri stati comportamentali e di conseguenza emotivi.

Tale tecnica offre la rara opportunità di auto-osservarsi per poter riflettere non sulla base di un proprio ricordo, quanto sulle informazioni tratte dalla visione diretta della registrazione del proprio comportamento. Questo processo è guidato e accelerato dagli insight che il terapeuta/ricercatore offre al paziente, portandolo a focalizzare la sua attenzione su alcune sequenze critiche particolarmente informative, accuratamente selezionate per lui. Tale lettura preventiva del materiale facilita e guida il passaggio di ogni partecipante dalla sua originale prospettiva di attore a quella successiva di osservatore e valutatore del proprio comportamento. Ciò al fine di favorire la possibilità di auto-correzione implicita in questa prassi di intervento.

Oltre a tale aspetto di facilitazione delle capacità spontanee di riflessività del paziente, il video-feedback offre anche utili elementi, che il terapeuta/ricercatore può utilizzare per realizzare un’intervista focalizzata. In questa intervista si possono esplorare ad hoc, nel corso del video-feedback stesso, gli elementi più cognitivi e interpretativi del fenomeno che si sta studiando, che possono essere suggeriti direttamente dal paziente (D’Errico, & Leone, 2006).

In sintesi, focalizzandosi sulle sequenze cruciali precedentemente individuate dal terapeuta/ricercatore, e osservando direttamente il comportamento che egli stesso ha messo in atto durante la registrazione, il paziente ha una base di partenza concreta, e non ricostruita o immaginata, per motivare e spiegare il modo in cui ha agito in quella situazione. Il punto critico di questa proposta risiede nella capacità di trasformare il momento dell’osservazione di un comportamento in un’occasione di auto-osservazione per chi ha messo in atto quello stesso comportamento, oggetto di interesse, di studio e approfondimento euristico. Tale passaggio sottolinea, inoltre, il ruolo attivo del paziente, laddove l’interazione con il terapeuta/ricercatore non è un elemento da limitare perchè fonte di disturbo, ma costituisce parte integrante della procedura clinica e sperimentale (Richeson, & Shelton, 2003).

 

 

BIBLIOGRAFIA:

  • D’Errico, F., Leone, G. (2006). Giocare ad aiutare. L’uso di un gioco di simulazione come possibilità di osservazione e di auto-valutazione del sovra-aiuto materno, in presenza di una malattia cronica infantile. Psicologia della salute,1, 91-106.
  • Juffer F., Bakermans-Kranenburg M.J. e van Ijzendoorn M. (2005). Promuovere lo sviluppo socioemotivo dei bambini. In R. Cassibba e M. van IJzendoorn (a cura di), L’intervento clinico basato sull’attaccamento. Promuovere la relazione genitore-bambino. Bologna: Il Mulino, pp. 39-77.
  • McDonough, S. (1993). Interaction guidance: Understanding and treating early infant-caregiver relationship disturbances. In Ch.H. Zenah (a cura di), Handbook of infant mental health. New York: Guilford Press.
  • Richeson, J. A., & Shelton, J. N. (2003). When prejudice does not pay: Effects of interracial contact on executive function. Psychological Science, 14, 287-290.

 

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