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Il Perfezionismo e la Chimera del Genitore Perfetto

Cerchi di essere un genitore perfetto? Meglio sbagliare – Parte 2

Perfezionismo e la chimera del Genitore Perfetto - Immagine: © falcorpic - Fotolia.com - Nella prima parte di questa serie ci eravamo lasciati con una domanda sull’ambiguità del genitore perfetto: in altre parole, è vero che cercare di essere perfetti è necessariamente positivo? Essere dei genitori perfetti equivale a essere anche dei bravi genitori?

Prima di provare a rispondere a queste domande, cerchiamo di chiarire il concetto di perfezionismo. Nel corso degli ultimi decenni le ricerche sul perfezionismo hanno occupato una fetta molto ampia di ambiti, dall’attaccamento alla personalità, dalla sana ambizione alla psicopatologia (e.g. Missildine, 1963; Pacht, 1984, Flett, Hewitt, & Dyck, 1989). Attualmente vi sono ancora discordanze sulla definizione di perfezionismo, dal gruppo di Oxford che lo descrive come un concetto unitario (Shafran et. al., 2001) a chi invece sostiene l’importanza di mantenere la multidimensionalità del costrutto (Tozzi et al., 2004; Sassaroli & Ruggiero, 2005).

Perfezionismo e genitorialità. Immagine: © sonya etchison - Fotolia.com -
Articolo consigliato: "Perfezionismo e genitorialità"

Per i nostri scopi utilizzerò studi che si rifanno a quest’ultima prospettiva teorica e che hanno definito il perfezionismo come un tratto multidimensionale, caratterizzato da standard personali eccessivamente elevati e timore dell’errore (Frost et al., 1990). In quest’ottica significa che la persona perfezionista non solo cerca costantemente di raggiungere obiettivi notevolmente alti, ma giudica severamente il proprio comportamento anche in seguito a prestazioni eccellenti non tollerando errori e sbagli. Di fronte a questa definizione non è difficile comprendere come il perfezionismo sia collegato a diversi tipi di psicopatologia, tra cui i disturbi alimentari, depressione, ansia e disturbo ossessivo-compulsivo (Blatt, 1995).

 

Da questa prospettiva teorica si è sviluppato un modello transazionale integrativo sull’origine del perfezionismo, il quale prevede che le caratteristiche del bambino (come stile di attaccamento e temperamento), i fattori parentali (come lo stile genitoriale) e ambientali (come la relazione con i pari, l’ambiente scolastico e culturale ecc.) giochino contemporaneamente un ruolo importante nel suo sviluppo (Flett et. al., 2002).

Relativamente alla relazione tra stile genitoriale e perfezionismo prendiamo in esame uno studio condotto da Kyra Davies presso la facoltà di Psicologia della California State University. A 154 partecipanti è stato sottoposto il Frost Multidimensional Perfectionism Scale, insieme ad altre scale sulla relazione parentale e sul temperamento dei genitori.

Il modello elaborato da Frost suddivide il perfezionismo in 6 dimensioni:

  • Timore degli errori – misura le reazioni negative agli errori e il senso di fallimento provato.

  • Standard personali – valuta gli standard che ciascuno si dà.

  • Criticismo genitoriale e aspettative – misura le aspettative perfezioniste dei genitori nei confronti dei loro figli e il criticismo di fronte a prestazioni non perfette.

  • Dubbi sulle azioni – valuta come le persone si sentono riguardo alle decisioni che prendono e i dubbi che possono insorgere nel completamento di un compito.

  • Organizzazione/disciplina di sé – misura l’importanza attribuita all’ordine e all’organizzazione.

Avendo esposto questa premessa teorica necessaria per comprendere che cosa si intende per perfezionismo, la prossima settimana andremo a vedere nel dettaglio la relazione tra questo costrutto e lo stile genitoriale.

 

BIBLIOGRAFIA:

  • Blatt, S. J. (1995). The destructiveness of perfectionism: Implications for the treatmetn of
  • depression. American Psychologist, 50, 1003-1020.
  • Flett, G. L., & Hewitt, P. L. (2002). Perfectionism and maladjustment: An overview of theoretical, definitional, and treatment issues. In G. L. Flett & P. L. Hewitt (Eds.), Perfectionism: Theory, research and treatment (pp. 5-31). Washington, DC: American Psychological Association.
  • Flett, G. L., Hewitt, E L., & Dyck, D. (3. (1989). Self-oriented perfectionism, neuroticism, and anxiety. Personality and Individual Differences, 10, 731-735.
  • Frost, R.O., Marten, P., Lahart, C. E Rosenblate, r. (1990). The dimension of perfectionism. Cognitive Therapy and Research, 14, 449-468.
  • Missildine, W. H. (1963). Your inner child of the past. New York: Simon & Schuster.
  • Pacht, A. R. (1984). Reflections on perfection. American Psychologist, 39, 386-390.
  • Sassaroli, S., & Ruggiero, GM. (2005). The role of stress in the association between low self-esteem, perfectionism, and worry and eating disorders. Int J Eat Disord, 37: 135-141.
  • Shafran, R., & Mansell, W., (2001). Perfectionism and psychopathology: a review of research and treatment. Clinical Psychology Review. 21(6): 879-906.
  • Tozzi F et al. (2004). The structure of perfectionism: a twin study. Behavior Genetics, 34 (5): 483-494.

 

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2012: Organizzare la mente: nuovi strumenti per i buoni propositi

– Rassegna Stampa –

Buoni propositi per il 2012: coltivare una mente organizzata in un mare di distrazioni.

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze PsicologichePer molti, ma non per tutti… con il nuovo anno in molti saranno tentati di ripromettersi una maggiore organizzazione, efficienza ed efficacia nei propri impegni quotidiani possibilmente senza procrastinazioni, rimuginii ed evitamenti.

Obiettivo ultimo? Avere una vita meno stressata e più gratificante. In pubblicazione in questi ultimi giorni del 2011 e a ridosso del nuovo anno, il nuovo libro “Organize your Mind, Organize your Life” di Paul Hammerness, psichiatra della Harvard Medical School e della collega Margaret Moore, ben si presta come chicca per aiutarci a mantenere i buoni e inevitabili propositi per il 2012.

Nel libro gli autori riportano una serie di recentissime ricerche neuroscientifiche sulle straordinario sistema di organizzazione del nostro cervello, traducendole quindi in consigli pratici di cui avvalersi nella quotidianità.

Tra i punti cardine del libro la tesi secondo cui il nostro cervello non sarebbe “progettato” per il multitasking ma al contrario per focalizzarsi beatamente e completamente su un singolo compito per volta: in questo modo il cervello avendo pieno e completo accesso alle proprie risorse avrebbe una grandissima potenzialità creativa e produttiva. Questa modalità sembra essere profondamente in contrasto con le nostre pratiche quotidiane e con le richieste del XXI secolo, secondo cui dobbiamo velocemente spostare il nostro focus da un compito all’altro, da un’e-mail, alla stesura di un testo a una telefonata e così via: il nostro cervello fatica a spostare le proprie risorse cognitive velocemente e ripetutamente da una cosa all’altra.

In questo mare dinamico di splitting attentivo continuo e di sovrastimolazione possiamo prendere però possesso del timone: gli autori suggeriscono diversi step chiamati “Rules of Order”: calma la frenesia (frenesia e ultrastimolazioni mettono a dura prova e stressano la corteccia prefrontale), metti tra parentesi (mettersi nelle condizioni di fermarsi e rivalutare nuovi stimoli in relazione alle proprie priorità), elabora e modella le informazioni flessibilmente verso previsioni realisitiche, e così via…Non resta che leggere e provare per dire addio alla distrazione… Buon 2012!

 

BIBLIOGRAFIA:

 

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E’ possibile associare la situazione di stress ad un aumento o decremento di cibo?

Bambini e memoria: costanza dell’oggetto

– Rassegna Stampa –
Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze PsicologicheQuindici anni fa, la letteratura sullo sviluppo infantile ha dichiarato che i bambini 6 mesi non avevano il senso di “costanza dell’oggetto“, cioè la convinzione che un oggetto esiste anche quando è fuori dal campo visivo. Ciò significava che se mamma o papà non erano nella stessa stanza con lui, un bambino poteva avere la sensazione che non esistessero più. Al giorno d’oggi sappiamo che non è vero: lontano dagli occhi non significa lontano dal cuore. Ma quanto i bambini ricordano del mondo che li circonda, e di quali dettagli il loro cervello ha bisogno per poter ricordare?

 

Un nuovo studio, condotto dallo psicologo e esperto di sviluppo infantile Johns Hopkins, ha aggiunto alcuni pezzi di questo puzzle. Pubblicato in un recente numero della rivista Psychological Science, lo studio rivela che, anche se bambini molto piccoli non riescono a ricordare i dettagli di un oggetto che hanno visto e che poi è stato nascosto, il loro cervello conserva degli indizi che lo aiutano a mantenere la nozione che ciò che hanno visto continua a esistere anche quando scompare alla vista.

 

Un team di ricercatori ha scoperto che anche se i bambini non si ricordano le forme di due oggetti nascosti, si stupiscono quando gli oggetti spariscono completamente; anche i neonati infatti ricordano l’esistenza di un oggetto senza ricordare l’oggetto. Questo è importante, spiegano i ricercatori, perché getta luce sui meccanismi cerebrali coinvolti nei processi di memorizzazione durante l’infanzia.

 

I risultati dello studio sembrano indicare che il cervello ha una serie di ‘pointers’ che vengono utilizzati per individuare ciò che abbiamo bisogno di tenere sotto controllo; l’indizio non ci dà alcuna informazione su ciò che indica, ma ci dice che quel qualcosa c’è. I neonati utilizzano questa abilità per rintracciare gli oggetti, senza dover ricordare cosa sono. Questo studio potrebbe aiutare i ricercatori a stabilire una cronologia più accurata delle tappe evolutive fondamentali dell’infanzia e della fanciullezza.

 

BIBLIOGRAFIA:

L’abbuffata natalizia e i cannabinoidi endogeni.

 

Cibi grassi e cannabinoidi endogeni - Immagine: © Ruth Black - Fotolia.com - Il natale incombe e tutti siamo pronti ad acquistare varie leccornie da mangiare durante le festività. Come fare a resistere a tutte quelle cose buonissime, dolcissime e ipercaloriche? E’ praticamente impossibile! Infatti, quando ci si vuole opporre all’eccesso di cibi fritti e grassi, scatta un meccanismo che rende il tutto più difficile.

Mangiare cibi grassi provoca l’emissione di una sostanza simile al principio attivo della cannabis, un oppiaceo endogeno, che aumenta il piacere e rende più difficile fermarsi. Tutto ciò è il risultato di una ricerca dell’università della California, Irvine (USA) diretta dal professor Piomelli che lavorando sui topi da laboratorio, nutriti con cibi grassi, patatine fritte nello specifico, ha verificato che nel momento in cui mangiavano non volevano più smettere di farlo.

Si è così registrato l’intero meccanismo, a partire dalla lingua per finire all’intestino. Proprio la lingua dopo aver recepito e valutato il cibo, invia un segnale che tocca il cervello ed arriva all’intestino. Quando poi tocca lo stomaco l’impulso causa l’emissione di cannabinoidi endogeni, che aumentano il piacere del mangiare, spingendo alle abbuffate ed ostacolando la moderazione. Secondo i ricercatori, tale sistema interessa tutti i cibi grassi, ma non zuccheri e proteine, che non alimenterebbero il circuito. Inoltre, questo forse il dato più importante, la conoscenza del meccanismo rende  più facile interromperlo e dire basta davanti ad un piatto pieno: nel momento in cui si registra una sensazione di piacevolezza, un’estasi dei sensi, la sublimazione del gusto, a quel punto bisogna fermarsi, altrimenti si potrebbe andare avanti all’infinito.

In questo modo si spiega il meccanismo secondo cui i cibi molto buoni portano la persona a mangiarne sempre senza fermarsi mai. Tale meccanismo è noto in alcune patologie alimentari quali il binge eating disorder in cui i pazienti che ne soffrono manifestano dipendenza e assuefazione al cibo. Nel momento in cui viene loro in mente di mangiare, devono assolutamente soddisfare questo bisogno altrimenti vanno in crisi d’astinenza, come le persone che fanno uso di stupefacenti.

Per concludere, è bene mangiare e assimilare tante calorie in questi giorni, ma non perennemente, altrimenti si diventa food addicted.

 

BIBLIOGRAFIA:

  • D. Piomelli, G. Astarita and R. Rapaka, 2007. A neuroscientist’s guide to lipidomics. Nat Rev Neurosci, 8, 743-754.
  • G.J. Schwartz, J. Fu, G. Astarita, X. Li, S. Gaetani, P. Campolongo, V. Cuomo and D. Piomelli, 2008. The lipid messenger OEA links dietary fat intake to satiety. Cell Metab 8, 281-288.
  • P. Campolongo, B. Roozendaal, V. Trezza, V. Cuomo, G. Astarita, J. Fu, J.L. McGaugh and D. Piomelli, 2009. Fat-induced satiety factor oleoylethanolamide enhances memory consolidation. Proc Natl Acad Sci U.S.A., 106, 8027-8031.

Ciò che non uccide fortifica: esperienze negative e Resilienza

– Rassegna Stampa –

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze PsicologicheCiò che non uccide fortifica, recita un vecchio detto popolare. Sembra proprio che in parte questo sia vero, cioè che una moderata quantità di avversità permetta di sviluppare resilienza.

Una ricerca condotta all’università di Buffalo e pubblicata sul numero di dicembre di Psychological Science ha messo a confronto persone che hanno subito differenti quantità di esperienze traumatiche e stressanti nel corso della vita; come già evidenziato da molti altri studi, eventi gravi, come la morte di un figlio o di genitore, catastrofi naturali, abusi fisici o sessuali, separazioni precoci e prolungate dai genitori, sono tutti eventi molto stressanti in grado di incidere molto negativamente sulla salute mentale e fisica delle persone.

Il dato più interessante dello studio in questione però riguarda chi ha sperimentato solo “alcuni” eventi negativi: una moderata esposizione alle avversità infatti può avere un effetto fortificante, rendendoci più attrezzati ad affrontare la vita, come se le esperienze difficili permettessero di imparare ad affrontare le difficoltà successive; le difficoltà della vita inoltre creano un occasione per testare l’affidabilità e la solidità della propria rete sociale, permettendo di imparare a chiedere aiuto quando necessario.

 

Holiday Blues: Come evitare il senso di tristezza tipico delle Festività

Holiday Blues - Immagine: © Ariwasabi - Fotolia.com - Oltre ad essere un momento felice di condivisione degli affetti ed allegria per l’arrivo dell’Anno nuovo, spesso le Festività (Natale e Capodanno) possono essere un momento in cui le persone avvertono un senso di tristezza e lamentano di sentirsi giù. Queste sensazioni di tristezza sono reali, ma il più delle volte sono lievi e temporanee. In fin dei conti questi “umori festivi” non possono essere considerati come veri e propri sintomi di un quadro clinico di depressione. Quando le persone hanno un serio quadro clinico di depressione, d’altra parte, presentano diversi sintomi di cui hanno esperienza per la maggior parte della giornata, ogni giorno, per più di due settimane.

Ricordiamo che la depressione clinica comporta la presenza di almeno 5 dei seguenti sintomi: marcata diminuzione di interesse o piacere per tutte, o quasi tutte, le attività; significativa perdita di peso, in assenza di una dieta, o significativo aumento di peso, oppure diminuzione o aumento dell’appetito; insonnia o ipersonnia; agitazione o rallentamento psicomotorio; affaticabilità o mancanza di energia; sentimenti di autosvalutazione oppure sentimenti eccessivi o inappropriati e sensi di colpa; diminuzione della capacità di concentrazione, attenzione e pensiero; difficoltà nel prendere decisioni o iniziative in ambito familiare e/o lavorativo; pensieri ricorrenti di morte o di intenzione e/o progettualità suicidaria (DSM-IV TR, 2000).

Paradosso del Donatore. Immagine: © Ariwasabi - Fotolia.com -
Articolo consigliato: “Babbo Natale e il Paradosso del Donatore”

Si tratta di sintomi che potrebbero richiedere l’intervento di un professionista della salute mentale, non possono di certo essere paragonati alle sensazioni di tristezza – che gli americani chiamano Holiday Blues– che è possibile provare durante le Festività.

Ma che dire di questi lievi sentimenti di scoraggiamento che si verificano, per alcune persone, in prossimità delle Festività?

Un breve articolo pubblicato da Judith Beck, figlia di Aaron Temkin Beck, uno dei padri fondatori con Albert Ellis della Psicoterapia Cognitiva in America, sull’Huffpost Healthy Living ci propone alcuni consigli utili per aiutarvi ad evitare di provare queste sensazioni di tristezza durante le Feste:

1.Mantenete le vostre aspettative realistiche e abbandonate l’idea che sia necessario partecipare pienamente ad ogni rituale festivo;

2.Se partecipate a delle feste (specialmente in occasione di ritrovi familiari), puntate a godervi il momento, senza aspettarvi necessariamente che sia un momento magnifico, altrimenti rischiate di rimanere delusi. Ricordate, l’idea che le festività debbano necessariamente essere i momenti migliori dell’anno è solo un’invenzione della televisione;

3.Mantenete la vostra routine, mangiate, bevete e dormite come d’abitudine. Se avete esagerato con il cibo e non avete rimediato con il solito esercizio fisico, finirete per sentirvi pesanti, gonfi e stanchi;

4.Stabilite un limite massimo di denaro da spendere per i regali ed evitate di cercare “il regalo perfetto”. Vi sentirete meglio sapendo di non aver gravato eccessivamente sul vostro conto corrente;

5.Cercate di non aspettarvi di ricevere il regalo che sognate. Anche in questo caso, potreste finire per sentirvi delusi;

6.Se vi sentite giù, chiamate un amico con cui è possibile intavolare delle conversazioni edificanti e progettate qualcosa insieme;

7.Infine, se vi va, aiutate chi è meno fortunato di voi. È probabile che fare del bene a chi è più bisognoso vi aiuterà a sentirvi ancora più bene con voi stessi.

Insomma, Natale e Capodanno si stanno inesorabilmente avvicinando! E voi? Come vi sentite?

 

 

BIBLIOGRAFIA:

  • AA.VV., 2000. Diagnostic and statistical manual of mental disorders: DSM-IV-TR. American Psychiatric Pub.
  • Beck J., 2011. How to Avoid the Holiday Blues. www.huffingtonpost.com

 

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Allucinazioni uditive e schizofrenia.

ALLUCINAZIONI UDITIVE: ESITO DI UN’INEFFICACE REGOLAZIONE EMOTIVA?

Alucinazioni uditive e schizofrenia. Immagine: © Xtremer - Fotolia.com - Numerosi studi presenti in letteratura hanno ormai dimostrato che gli individui affetti da schizofrenia mostrano significative difficoltà nell’esperire, nell’esprimere e talora nel percepire le emozioni. Con l’obiettivo di andare oltre il classico criterio dell’ “appiattimento emotivo” (blunted affect) utilizzato nella formulazione delle diagnosi di questi pazienti, alcuni ricercatori si sono occupati di capirne le motivazioni e i meccanismi sottostanti.

I sintomi positivi della schizofrenia, come ad esempio le voci o altre allucinazioni uditive, sembrano fortemente associati all’incremento di stati d’ansia o ad alterazioni del tono dell’umore, stati mentali che vengono in condizioni normali e da tutti noi tenuti sotto controllo attraverso strategie di riduzione dell’intensità delle emozioni, quali la soppressione dell’espressione delle emozioni (per esempio l’ inibizione di comportamenti legati al vissuto emotivo), un utilizzo disfunzionale delle risorse attentive, quali ruminazione o rimuginio, oppure tentativi di cambiare le proprie credenze e valutazioni rispetto all’esperienza emotiva vissuta (reappraisal).

A tal proposito, alcuni recenti studi si sono concentrati sul legame tra la presenza di allucinazioni uditive e la possibilità di una deficitaria o inappropriata regolazione delle emozioni, come fattore di aggravamento o mantenimento dei sintomi. Un gruppo di ricercatori australiani ha pubblicato nel 2011, sulla rivista Psychiatry Research, un interessante contributo in questa direzione.

Il protocollo utilizzato prevedeva la somministrazione a 34 pazienti affetti di schizofrenia con allucinazioni uditive come sintomi positivi dominanti, e a 34 soggetti di controllo “sani”, di alcune misure di self-report relative a: 1- descrizione dei sintomi allucinatori relativamente a gravità del disturbo (frequenza, durata e intensità) e angoscia percepita, 2- presenza di sintomatologia ansiosa e/o depressiva e 3- strategie più frequentemente utilizzate per regolare le emozioni (reappraisal cognitivo e soppressione delle emozioni).

I risultati hanno mostrato come nel gruppo dei pazienti un maggior utilizzo della soppressione delle emozioni venga associato ad un aggravamento dei sintomi allucinatori e ad un esito peggiore nelle gestione delle attività quotidiane (isolamento sociale e basso funzionamento lavorativo), mentre la tendenza alla ruminazione appare significativamente associata ai vissuti di angoscia conseguenti ai sintomi, ma non ad un peggioramento dei sintomi stessi. Nel gruppo di controllo si è evidenziata, come prevedibile, una correlazione significativa e positiva tra l’utilizzo della soppressione delle emozioni, della ruminazione e del rimuginio e l’incremento di sintomi depressivi e ansiosi.

L’aspetto interessante su cui porre attenzione rimane tuttavia proprio l’approfondimento delle strategie di regolazione delle emozioni, come importante predittore delle strategie di coping delle esperienze allucinatorie. Da questa ed altre ricerche condotte in quest’ambito emerge infatti la necessità di valutare e inserire nei protocolli di cura di questa patologia cronica un lavoro mirato alla gestione delle emozioni, prima ancora di pensare ad un intervento di “reappraisal critico” (disputing) sui contenuti delle stesse esperienze allucinatorie. Scontata considerazione forse, ma di fondamentale importanza per capire il ruolo determinante dell’affiancare una psicoterapia,al trattamento farmacologico, in pazienti generalmente così difficili da trattare e così poco trattati.

Alla psichiatria dunque l’ingrato compito di ridurre l’intensità e la pervasività dei sintomi, soprattutto nei periodi di riacutizzazione della malattia, e a noi psicoterapeuti quello di capire come e perché i sintomi si manifestano e il loro ruolo (spesso “protettivo”) nel funzionamento della persona: un approccio integrato che includa a pieno titolo la psicoterapia nel percorso di cura, apre la possibilità di intervenire in modo indiretto e forse più efficace sulla frequenza e sull’intensità delle allucinazioni uditive, allenando la competenza emotiva, la consapevolezza di malattia e il legame tra allucinazioni uditive ed eventi di vita.

Se si pensa allo stigma che alcune manifestazioni emotive “eccessive” e “inadeguate” fanno ricadere sui pazienti affetti da schizofrenia, ecco che la soppressione emotiva cui spesso ricorrono sia i pazienti che le stesse strutture riabilitative che si occupano dei loro percorsi di cura, può diventare iatrogena e favorire esiti drammatici.

Qui collocherei il lavoro psicoterapico, che rischia di assumere dunque un significato clinico importante, oltre che etico e di rilevanza sociale.

 

BIBLIOGRAFIA:

  • Johanna C. Badcock, Georgie Paulik, Murray T. Maybery (2011). The role of emotion regulation in auditory hallucinations. Psychiatry Research 185, p. 303–308.

 

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Alcol, aggressività e le conseguenze sulle nostre azioni

– Rassegna Stampa –

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze PsicologicheSecondo un recente studio chi ha poca capacità di prendere in considerazione le conseguenze delle proprie azioni corre il rischio di diventare aggressivo se alza troppo il gomito; questo non accadrebbe invece in chi gode di una visione prospettica delle situazioni.

Le persone che si concentrano sul qui e ora, senza pensare alle conseguenze nel futuro, sono in generale più aggressive delle altre, e questo effetto è amplificato notevolmente quando sono ubriache. L’alcol rende miopi e restringe l’attenzione su ciò che è importante per sé nell’immediato, spiega Brad Bushman, autore principale dello studio e professore di comunicazione e psicologia della Ohio State University.

Lo studio ha coinvolto 495 adulti, tutti bevitori sociali con un’età media di 23 anni; a tutti è stata somministrata la Consideration of Future Consequences scale, per valutare quanto i partecipanti erano concentrati sul presente o sul futuro. Successivamente sono stati creati due gruppi, uno dei quali è stato fatto ubriacare con succo di arancia mescolato ad alcol in un rapporto di 1:5, mentre all’altro gruppo è stata data una bevanda quasi analcolica, considerata placebo.

L’aggressività è stata misurata replicando una prova sperimentale sviluppata nel 1967 per testare l’aggressività attraverso l’uso di scosse elettriche inoffensive, ma lievemente dolorose. A ognuno dei partecipanti è stato detto che era in competizione con un avversario dello stesso sesso in un test di velocità di reazione al computer, nel quale il vincitore somministrava una scossa elettrica al perdente, determinandone anche l’intensità e la durata. In realtà non c’era nessun avversario e i vincitori erano stabiliti in modo arbitrario. Il dato interessante riguarda l’escalation di violenza (scariche più forti e lunghe) che si è verificata nei confronti dei perdenti da parte dei vincitori, ai quali infatti veniva fatto credere che stavano effettivamente somministrando scariche sempre più forti man mano che l’esperimento progrediva. I risultati sono chiari: meno le persone pensano al futuro e più è facile che si vendichino sull’avversario, specialmente se sono ubriache. Quelli concentrati sul presente e anche ubriachi infatti hanno dato scosse più intense e lunghe di chiunque altro. L’alcol invece non ha avuto effetti sull’aggressività di chi ha mostrato di possedere una visione prospettica (future-focused). Gli uomini erano più aggressivi delle donne in generale, ma gli effetti dell’alcol e della personalità erano simili in entrambi i sessi.

Se non avete lo sguardo lungo quindi attenzione a non alzare troppo il gomito durante le feste…potrebbe finir male!

 

 

BIBLIOGRAFIA:

 

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CORSO DI PERFEZIONAMENTO IN SESSUOLOGIA in MODENA on 24/03/2011

Realtà virtuale e stati dissociativi.

Sabrina Cattaneo, Virna Graffeo.

 

Quando la realtà virtuale influenza i nostri stati di coscienza

Realtà virtuale e dissociazione. Immagine: © HaywireMedia - Fotolia.com - La realtà virtuale sta diventando sempre più presente nella nostra società, sia per l’influenza che esercita sull’umore e sul comportamento umano, sia per la risorsa che rappresenta, permettendo di sviluppare sempre nuove metodologie in ambiti quali la chirurgia, la medicina riabilitativa e non ultime la psicologia e la psicoterapia.

Un gruppo di ricercatori del Fernand-Seguin Research Center di Montreal (Aardema, O’Connor, Côté, Taillon, 2010) ha studiato gli effetti della realtà virtuale sull’esperienza dissociativa e sul senso di presenza.

La parola dissociazione spesso spaventa poiché associata a gravi patologie, in realtà essa descrive la sensazione di distacco da se stessi (deperesonalizzazione) o dalla realtà circostante (derealizzazione) che può variare lungo un continuum passando da esperienze quotidiane, come il sognare ad occhi aperti, a vere e proprie manifestazioni cliniche. Il senso di presenza fa invece riferimento alla sensazione di essere in un determinato ambiente, sia esso reale o virtuale. I due concetti sono ovviamente strettamente correlati poiché un maggior grado di immersione o di presenza in un ambiente virtuale implicherebbe naturalmente un maggiore livello di distacco dalla realtà esterna.

Lo studio di Aardema e collaboratori ha rilevato un generale incremento di sintomi dissociativi dopo l’esposizione a un ambiente di realtà virtuale; in particolare è stato osservato che soggetti con livelli iniziali più elevati di sintomi dissociativi mostravano un maggior incremento degli stessi, a seguito dell’esposizione all’ambiente virtuale, rispetto a quelli con livelli iniziali più bassi. Viceversa il senso della presenza nella realtà oggettiva risulta diminuito dall’esposizione ad un ambiente virtuale, questa volta però preesistenti livelli di depersonalizzazione o derealizzazione non differenziano il livello di presenza sperimentato dopo l’immersione in un ambiente virtuale.

Questo studio fornisce inoltre supporto all’idea che i sintomi dissociativi possono essere generati da una discontinuità negli ambienti percettivi (in questo caso della realtà virtuale rispetto alla realtà oggettiva), è pertanto possibile ridurre i fenomeni dissociativi accrescendo la capacità della persona a tollerare discontinuità percettive e promuovendo l’adozione di un atteggiamento meno rigido verso la percezione.

Gli effetti osservati in questo studio possono essere simili a trascorrere diverse ore di lavoro al computer e sentirsi temporaneamente più distaccati dalla realtà oggettiva rispetto al solito. Sembra probabile che gli effetti dell’esposizione ad una ambiente virtuale scompaiano rapidamente a seguito di una successiva immersione nella realtà. Inoltre, l’effetto dissociativo stesso può essere dipendente dalla durata dell’esposizione. Tuttavia, è possibile che periodi prolungati di discontinuità nella percezione oggettiva possano avere effetti negativi su individui vulnerabili come negli ultimi anni ha dimostrato una forte crescita di disturbi legati all’uso del computer (dipendenza da internet, gioco d’azzardo online ecc).

Alcuni autori (Kraut et al., 1998) hanno inoltre evidenziato come l’esposizione a esperienze altamente “assorbenti”, come l’attività in internet, possa portare ad un senso di distacco, ad un diminuito senso di presenza e, potenzialmente, ad un aumento di sentimenti depressivi.

 

BIBLIOGRAFIA:

  • Aardema F., O’Connor K., Côté S., Taillon A. (2010) Virtual reality induces dissociation and lowers sense of presence in objective reality. Cyberpsychol Behav Soc Netw, 13(4):429-35.
  • Kraut R, Patterson M, Lundmark V, et al. (1998) Internet paradox: a social technology that reduces social involvement and psychological well-being .American Psychologist, 53:1017–31.

 

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Perfezionismo e Genitorialità, lo stress e l’ansia di essere un genitore perfetto

Cerchi di essere un genitore perfetto? Meglio sbagliare

 PARTE 1 – PARTE 2 – PARTE 3

Perfezionismo e genitorialità. Lo stress e l'ansia di essere un genitore perfetto. Immagine: © sonya etchison - Fotolia.com - Cercare di essere il genitore perfetto è un’arma a doppio taglio – commenta Meghan Lee, autrice principale di uno studio apparso online su Personality and Individual Differences (non ancora disponibile la versione pubblicata) portato avanti alla facoltà di Scienze della Famiglia e dello Sviluppo Umano presso la Ohio State Universiy.

Secondo l’autrice, i neo-genitori sembrerebbero avere un più difficoltoso adattamento al ruolo genitoriale quando credono che la società si aspetti che essi siano una mamma e un papà perfetti.

Questo studio prende in considerazione 182 coppie che sono diventate genitori per la prima volta tra il 2008 e il 2010. Prima del termine della gravidanza, è stato fatto compilare un questionario che andava a misurare il livello di perfezionismo sociale o auto-riferito.

Per perfezionismo sociale si intende la percezione soggettiva di doversi attenere agli elevati standard e aspettative degli altri (Hewitt & Flett, 1991). In questo caso la scala si riferiva alla preoccupazione dei partecipanti su che idea avessero gli altri dell’essere un buon genitore. Un esempio di item utilizzato è: “La maggior parte delle persone che mi circondano si aspetta che io sia sempre un genitore eccellente”.

Il perfezionismo auto-diretto si può generalmente definire come la tendenza a porsi standard elevati per se stessi e contemporaneamente evitare gli errori (Frost et al., 1990, Shafran et al., 2002). Nello studio è stato chiesto, ad esempio: “Io devo sempre essere un genitore di successo”.

Tre mesi dopo la nascita del piccolo, alle stesse coppie è stato chiesto di compilare un questionario relativo al loro adattamento al ruolo genitoriale in termini di soddisfazione, auto-efficacia e livello di stress.

I risultati hanno evidenziato che la misura dell’adattamento al nuovo ruolo è associata al livello di perfezionismo mostrato. In particolare, genitori con alti livelli di perfezionismo sociale mostrano anche livelli di stress più elevati e un senso di auto-efficacia relativa alle loro capacità genitoriali più basso rispetto a chi, invece, dà poco peso agli standard sociali. Per quanto riguarda il perfezionismo auto-diretto, invece, i risultati sono molto interessanti: nelle madri un elevato perfezionismo è associato a maggiore soddisfazione personale come mamme, mentre non si evidenzia alcuna correlazione con il livello di auto-efficacia e o di stress. Nei padri invece, il perfezionismo auto-diretto avrebbe un effetto positivo su tutte e tre le dimensioni: soddisfazione personale, senso di auto-efficacia e stress.

Come si spiegano questi risultati? Gli autori dello studio ipotizzano ancora una volta che i padri non avrebbero, nella nostra società, lo stesso impatto nella cura dei figli che hanno le madri. Alcuni padri potrebbero avere in generale alti standard per se stessi, e allo stesso tempo potrebbe non essere così difficile per loro adeguarsi a tali standard di quanto non sia, invece, per le donne (e le madri quindi).

Gli autori però ci mettono in guardia: anche se da questi risultati il perfezionismo sembra avere degli effetti positivi su mamma e papà, non lasciamoci ingannare dai dati e guardiamo il rovescio della medaglia. Che cosa succede ai nuovi genitori, infatti, dopo i primi mesi, con il crescere dei figli? Come si traduce questo perfezionismo nello stile educativo? E che cosa succede quando mamma e papà vanno incontro a un fallimento?

La prossima settimana proveremo a rispondere a questa (assai ardua) domanda.

LEGGI ANCHE PARTE 2PARTE 3

 

BIBLIOGRAFIA:

  • Frost, R.O., Marten, P., Lahart, C. E Rosenblate, r. (1990). The dimension of perfectionism. Cognitive Therapy and Research, 14, 449-468.
  • Hewitt, P. L., & Flett, G. L. (1991). Perfectionism in the self and social contexts: conceptualization, assessment, and association with psychopathology, Journal of Personality and Social Psychology, Vol. 60, No. 3, 456—470.
  • Shafran, R., Cooper, Z., Fairburn, C.G. (2002). Clinical perfectionism: a cognitive-behavioural analysis. Behav Res Ther. 40(7):773-91.

 

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Shopping di Natale e Circuiti Neurali

– Rassegna Stampa –

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze PsicologicheSecondo Brian Knutson, professore associato di psicologia e neuroscienze alla Stanford University, fare shopping è il risultato di un adattamento evolutivo, tanto che questo comportamento attiva gli stessi circuiti cerebrali che originariamente hanno spinto i nostri antenati a uscire in cerca di cibo. “Qualcosa ci spinge ad andare là fuori per cercare qualcosa di buono, anche se ancora non sappiamo che cosa è buono” dice il prof. Knutson; le scansioni cerebrali che ha effettuato mostrano che, quando le persone valutano i prodotti e i prezzi, il  nucleus accumbens si attiva. Quando in quella zona avviene il rilascio di dopamina, le persone sono motivate ad agire.

Quindi la prospettiva stessa di un acquisto – forse indotta dalla pubblicità e da altri strumenti di marketing – può attivare quei circuiti, generando entusiasmo e mettendoci dell’umore adatto ad assaltare i negozi. Altri circuiti invece reagiscono ai prezzi troppo elevati, smorzando l’entusiasmo: i segnali concorrono – comprare o non comprare? – passando nella parte anteriore del cervello, nella corteccia prefrontale, dove avviene la decisione finale. Ma c’è anche un’altra area del cervello, la corteccia cingolata, che si attiva in caso di conflitti, come nel caso di voler comprare qualcosa che costa troppo per le nostre tasche.

Paradosso del Donatore. Immagine: © Ariwasabi - Fotolia.com -
Articolo consigliato: “Il Paradosso del Donatore”

Una strategia per tenere a bada la voglia di spendere e ridurre le occasioni di indecisione e conflitto, raccomandano gli esperti, è stabilire un budget e una lista di cose da comprare prima di recarsi nei negozi, questo facilita l’autocontrollo; i centri commerciali sono dei luoghi di forte tentazione perchè si è circondati da cose da comprare e da persone che le comprano! meglio starne alla larga e preferire, per esempio, lo shopping on-line, che permette di non disperdere troppo l’attenzione, anche se non è esente da tentazioni a causa della convenienza. È bene comunque cercare di contenere al massimo il numero di decisioni da prendere e le occasioni in cui è necessario controllarsi troppo e, se proprio non se ne può fare a meno, evitare assolutamente di prendere decisioni su spese troppo costose a fine giornata, quando la stanchezza ci rende “deboli”.

ConsapevolMente

 

Consapevolmente © Subbotina Anna - Fotolia.comOrmai sono numerosi gli studi sull’efficacia della mindfulness e della meditazione nel trattamento di ansia, depressione, insonnia, dolore cronico e stress. Tuttavia molto spesso, anche se si conosce il razionale tecnico della pratica, si fatica ad applicarla con costanza… Ma come mai? Credo che possa essere interessante passare in rassegna gli ostacoli che si trovano nella quotidianità della pratica. Sicuramente tra le difficoltà più comuni troviamo: il rimuginio, la pigrizia, il torpore, la non motivazione (Pagliaro).

Tipici segni del lavorio mentale sono, da un lato la tendenza a distrarsi che porta continuamente l’attenzione su altre cose,dall’altro l’eccitazione mentale che impedisce alla mente di stabilizzarsi. La pigrizia funziona come un rallentatore della pratica o in alcuni casi arriva ad interrompere l’esperienza stessa. La pigrizia si fa spazio tra la frenesia dell’organizzazione della giornata, la fatica a sbrigare ogni giorno i mille impegni in agenda (il lavoro, la spesa e i figli da prendere a scuola) e il poco tempo che ognuno di noi dedica a prendersi cura di sé. Il torpore, perdita di lucidità mentale, è uno stato che spesso porta all’addormentamento; alle volte è dovuto ad un eccesso di stanchezza in questi casi è meglio lasciarsi andare, cercando di recuperare il sonno perso e praticare successivamente.La mancanza di motivazione spesso nasce quando la pratica non ha risposto alle aspettative, quando i risultati ottenuti non sono quelli sperati.

E allora che fare?

Per combattere la mancanza di motivazione è necessario ridare fiducia a quello che si sta facendo, magari discutendone con il terapeuta che vi ha introdotto alla pratica meditativa, magari osservando l’esperienza fatta e valorizzando ad oggi quelli che sono stati gli aspetti positivi. Il torpore non sempre è un segnale negativo e alle volte indica semplicemente la mancanza di sonno. Tuttavia, una tecnica da utilizzare potrebbe essere quella di controllare che il capo non sia nella pratica troppo piegato in avanti. Per quanto riguarda la pigrizia è importante ancorarsi alla motivazione per la pratica che deve trovare la forza nella conoscenza di ciò che si sta facendo e degli effetti benefici che questo può avere. E infine, per il lavorio mentale, il rimedio più efficace è il riportare continuamente l’attenzione sull’osservazione del respiro.

Di seguito le indicazioni per una pratica di consapevolezza:

Bere il tè

1.Fai bollire un pentolino d’acqua.

2.Prendi una bustina di tè o un filtro e riempilo di foglie di tè e mettilo in una tazza.

3.Versaci sopra l’acqua bollente e riempi la tazza.

4.Lascia riposare l’infusione

Osserva l’acqua cambiare colore. Mentre la versi sopra le foglie di tè, l’acqua pian piano prenderà un leggero colore verde, rosso, marrone a seconda del tè che hai scelto. Presto diventerà ancora più scura. Aspetta qualche minuto, lascia riposare e poi rimuovi il filtro. Guarda il colore del tè e su un foglio annota cosa non avevi notato prima del colore del tè e del suo profumo.

Adesso metti le mani attorno alla tazza calda. Ti sei mai soffermato a sentire una tazza di tè? È calda o bollente? Prendi nota delle tue sensazioni, nota la temperatura. Ora porta la tazza alle labbra, senti il vapore che ti accarezza il volto, annusa il tè. Aspira lungamente, il 90% del gusto è controllato dal naso. Ora bevine un sorso, scotta? È troppo caldo? Oppure è piacevolmente caldo? Annota la tua esperienza, cerca la consapevolezza delle tue sensazioni in ogni istante.

Anche se non ti piace il tè, prova questo esercizio ricordandoti che non possiamo applicare la pratica della “consapevolezza del presente” solo nei momenti di piacere ma occorre imparare a praticare anche nelle esperienze spiacevoli, così da poter esperire realmente un evento per quello che semplicemente è.

Buona tazza di tè!

 

BIBLIOGRAFIA:

  • Hayes, S., Smith, S. (2011). Smetti di soffrire e inizia a vivere. Impara a superare il dolore emotivo, a liberarti dai pensieri negativi e vivi una vita che vale la pena di vivere, Franco Angeli.
  • Pagliaro, G.M. (2004). Mente meditazione e benessere. Medicina tibetana e psicologia clinica. Tecniche nuove.

Attaccamento adulto e ricordi autobiografici infantili a confronto

Naomi Aceto.

Attaccamento adulto e ricordi autobiografici infantili a confronto . Immagine: © Baltazar - Fotolia.comNel discutere la memoria autobiografica, generalmente si fa riferimento al complesso di ricordi che una persona ha delle proprie esperienze di vita e si evidenzia l’importante questione legata all’individualità del soggetto attore del ricordo. Il modello teorico del Self Memory System (Conway et. al, 2004), ipotizza che le informazioni codificate e le esperienze vissute nell’arco della vita diverranno ricordi autobiografici solo se coerenti con il sistema di credenze del soggetto, in caso contrario, tali informazioni verranno dimenticate dall’individuo.

Secondo la Teoria dell’Attaccamento i Modelli Operativi Interni, responsabili di una certa continuità tra i comportamenti infantili relativi all’attaccamento e gli atteggiamenti adulti nei confronti dei legami affettivi, possono influenzare i processi di percezione e interpretazione dell’esperienza e di conseguenza ripercuotersi sulle azioni, le decisioni e i sentimenti degli individui.

In linea con tali premesse, è dunque, possibile individuare numerose differenze, ponendo a confronto gli stili di attaccamento adulto e i processi cognitivi che gli individui utilizzano nel tentativo di rievocare un ricordo autobiografico infantile. E’ possibile, in altri termini, osservare, tra le due macro categorie di attaccamento (sicuro e insicuro), differenze in relazione alle strategie di rievocazione e alle nutrite variabili dei ricordi autobiografici. Esaminando lo stile di attaccamento dei soggetti adulti in relazione alla loro capacità di rievocare episodi specifici dell’infanzia a partire da alcune parole-stimolo astratte e concrete, in grado di attivare o meno il loro sistema di attaccamento, si possono osservare alcune rilevanti differenze.

In primo luogo si osserva che il soggetto sicuro e il soggetto insicuro utilizzano, processi di recupero differenti: i soggetti sicuri utilizzano principalmente strategie di recupero legate alle emozioni, al contrario nei soggetti insicuri il metodo d’elezione nel recupero dei propri ricordi autobiografici sembra essere una strategia legata alle immagini.

Emergono, inoltre, notevoli differenze in relazione all’utilizzo di strategie di problem solving e monitoraggio, quest’ultimo infatti, in linea con quanto sostenuto dalla letteratura, è indice di attaccamento sicuro (Carcione, Falcone, 1999). Soggetti con attaccamento sicuro fanno uso di strategie di problem solving e manifestano la capacità di riflettere sui propri stati mentali e utilizzarli al fine di recuperare informazioni utili per la ricostruzione del ricordo autobiografico, in misura nettamente superiore a quelli con attaccamento insicuro.

I fattori di personalità e l’idea che ognuno ha di se stesso sono elementi di grande interesse nello studio della memoria autobiografica; quando si chiede a una persona adulta di rievocare un episodio specifico della propria infanzia, bisogna necessariamente tenere presente che colui che racconta l’evento è una persona diversa da quella che lo ha vissuto nel passato.

Gli episodi che gli individui ricordano fanno parte della loro storia, assicurano una continuità di se nel passato, nel presente e nel futuro, permettendo all’esperienza soggettiva di organizzarsi e modellarsi nel tentativo di dare forma ad un tutto coerente (Mazzoni, Mamon, 2003).

Possiamo dunque concludere con un pensiero di Gabriel Garcia Marquez che troviamo nella sua biografia: non è forse vero che in fondo la vita non è quella che si è vissuta, ma quella che si ricorda e come la si ricorda per raccontarla?

 

BIBLIOGRAFIA:

  • Carcione, A., Falcone, M. (1999). Il concetto di meta cognizione come costrutto clinico fondamentale per la psicoterapia. In: Semerari, A. (a cura di) Psicoterapia cognitiva del paziente grave. Raffaello Cortina, Milano.
  • Conway, M.A., Singer, J.A., Tagini A. (2004). The self and autobiographical memory: Correspondence and coherence. Social Cognition, 22, 491-529.
  • Mazzoni, G., Mamon, A., (2003). Imagination can create false memories. Psychological Science, 14, pp. 186-8.

 

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London Taxi Drivers: memoria e plasticità neurale

– Rassegna Stampa –

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze PsicologicheImparare a memoria la complessa mappa delle 25.000 strade di Londra e migliaia di punti di interesse causa cambiamenti strutturali nel cervello e nella funzione mnestica dei taxisti della capitale.

Il nuovo studio pubblicato su Current Biology, supporta le evidenze sempre crescenti che l’apprendimento anche nella vita adulta è un processo continuo e con infinite potenzialità persino nel cambiamento strutturale del cervello.

Per ottenere la licenza di taxista londinese è necessario apprendere e conoscere la mappa delle migliaia di strade della città, attraverso un training (unico al mondo) della durata di circa 3-4 anni e diversi esami di ammissione, superati generalmente soltanto dalla metà dei candidati.

Sulla scia di precedenti ricerche, Eleanor Maguire e Katherine Woollett del Wellcome Trust Centre for Neuroimaging hanno coinvolto un gruppo di 79 aspiranti taxi drivers e 31 soggetti di controllo (non taxi drivers), sottoponendoli a scansioni di risonanza magnetica (MRI) nel corso degli anni e studiandone la performance mnestiche. Soltanto 39 degli aspiranti sono riusciti a superare gli esami di qualificazione e a ottenere la licenza, dando cosi la possibilità ai ricercatori di confrontare tre gruppi: aspiranti diventati taxisti, asprianti in formazione ma non riusciti ad ottenere la licenza, e individui di controllo, non taxisti e senza alcun training.

Esaminando le strutture cerebrali all’inizio e al termine (3 anni dopo) del training dei tre gruppi i ricercatori hanno scoperto che erano presenti differenze significative tra il pre e post-training nella porzione posteriore dell’ippocampo (maggiore volume della sostanza grigia) degli asprianti taxisti che avevano ottenuto la licenza. Negli“aspiranti esclusi” e nei soggetti di controllo non era presente tale differenza strutturale a distanza dei tre anni. Come ci si poteva aspettare, sia i candidati che avevano poi ottenuto la licenza che quelli esclusi avevano prestazioni mnestiche migliori in prove specifiche riguardanti il territorio di Londra rispetto al gruppo di controllo.

Questa evidenza di cambiamento strutturale dell’ippocampo in funzione di una specifica e controllata stimolazione esterna (l’acquisizione della conoscenza dell’intricata mappa delle strade londinesi) supporta a livello empirico la plasticità neurale del cervello nell’adulto in funzione delle esperienze e dell’apprendimento: sempre più solide speranze e niente più scuse per il lifelong learning.

 

BIBLIOGRAFIA:

Katherine Woollett, Eleanor A. Maguire. Acquiring “the Knowledge” of London’s Layout Drives Structural Brain Changes. Current Biology, 2011; DOI: 10.1016/j.cub.2011.11.018

Science does not offer Recipes for Treating Eating Disorders

Walter Vandereycken, Università di Leuven / Lovanio, Belgio.

No recipes for treating eating disorders. Symptoms associated with food avoidance or overeating varied considerably over time. In view of this historical variability, eating disorders apparently belong to those disorders whose features show a remarkable susceptibility over the span of centuries to prevailing economic and sociocultural conditions as well as to developing medical knowledge.

The current constellations of symptoms comprising anorexia nervosa and bulimia nervosa are to be considered the latest – and conceivably not the last – variants in an ever-existing, but constantly changing pattern of disordered eating behavior. Preoccupations with weight and shape and the use of weight control strategies like dieting and self-induced vomiting, have acquired popular and medical attention relatively recently and predominantly in Western or westernized countries. Hence, in medicine, the specific syndromes of anorexia nervosa and bulimia nervosa appear to be relatively “modern” clinical entities. Our diet-culture started more than a century ago and it is going to be with us for many years to come, probably together with eating disorders, “old” or “new” ones…

More than a century after the first systematic clinical observations, eating disorders still induce quite opposite reactions in clinicians: their “therapeutic appetite” may be either stimulated or suppressed. A considerable number of health care professionals do not want to treat patients with eating disorders, mainly because of feelings of frustration and lack of empathy with these patients. Others devote their entire professional career to the research and/or treatment of eating disordered patients.

Why are these disorders so fascinating for some and so frustrating for others?

Control and Perceived Criticism in Eating Disorders
Suggested article: "Control and Perceived Criticism in Eating Disorders"

An ever-recurring pitfall in writings about one particular diagnostic category is the “uniformity myth”, i.e. the assumption of homogeneity. Such a myth can easily be detected when one asks a clinician to briefly describe the major characteristics of anorexia nervosa. We all have a prototype in our mind, a kind of typical model which has been imprinted in our memory when first hearing or learning of the disorder. A common anorectic prototype is the “skinny teenage girl refusing to eat”. If that picture becomes the leading image in our perception, we are likely not only to miss the diagnosis in several cases, but to mistreat many patients. Regardless of its diagnostic simplification into a DSM code, each person with an eating disorder reflects a complexity of biopsychosocial issues.

 

Nowhere in a medical discipline is the plurality of opinion as great as in psychiatry. Does this diversity reflect the appealing richness of the discipline or is it symptomatic for a hybrid professional identity? This colorful picture is even more striking in the management of eating disordered patients, including the whole spectrum of professionals and the most diverse therapeutic arsenal in health care. But what treatment,by whom is the best for which patient? Clinicians often want a kind of global positioning system tracing a variety of roads – the easiest, the fastest, and the most scenic – toward the desired goal. But for navigation in daily clinical practice, can science be the only reliable and useful guide?

Treatment for serious eating disorders can last many years and still its long-term outcome remains difficult to predict. So, how long should one go on with treatment trials? When does the disorder become chronic or “recalcitrant”? And what should we do for those patients who have “chosen” a life as an abstainer or a bulimic? Challenged by the reality of health care costs, be it in varying degrees depending on the health care system of the country involved, therapists dealing with seriously ill patients have to face some difficult decisions, both clinically and ethically, for which no clear-cut evidence-based guidelines exist.

Evidence-based medicine, in general, uses the double blind randomized controlled trial as the gold standard for judging the effectiveness of an intervention. The outcome of this type of research is then translated in algorithmic guidelines and manual-based treatments. For an increasing number of clinicians, only this approach can guarantee the scientific status of their work and safeguard the quality of care for a diversity of patients. For others, this scientific mainstreaming is experienced as the ultimate straitjacket squeezing their professional creativity into some form of pre-programmed practice. In recent years, the most challenging task in health care appears to be the fruitful merging of an evidence-based and an experienced-based approach. As in general medicine, this is the case in the field of eating disorders. Indeed, daily practice of working with eating disorder patients is not summarizable to some simple “do’s and don’ts”. Therefore, science cannot offer easy-to-use recipes. Clinicians still need a great deal of creativity and the ability to integrate the best current knowledge available.

 

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Babbo Natale e il Paradosso del Donatore.

Il Paradosso del donatore: ecco perchè un regalo può essere meglio di due.

Paradosso del Donatore. Immagine: © Ariwasabi - Fotolia.com - Alle prese con l’ansia di completare gli acquisti di Natale? Rilassatevi!

Comprare un solo regalo alle persone più care non solo contribuisce a conservare qualche spicciolo ma, agli occhi di chi lo riceve, può essere percepito anche di maggior valore rispetto allo stesso dono accompagnato da altri pensierini.

Kimberlee Weaver, assistente professore di Marketing al Pamplin College of Business in Virginia, ha scoperto attraverso una serie di studi un fenomeno in grado di spiegare codesta stranezza, il cosiddetto “Presenter’s Paradox”, e cioè il Paradosso del Donatore.

Secondo quanto emerso da diversi studi effettuati dal suo gruppo di ricerca, chi dona lo fa partendo da una prospettiva diversa rispetto a quella adottata dal ricevente. Il donatore infatti è portato a pensare che “più è meglio è” quindi, pur avendo trovato il regalo adatto, pensa di accrescerne il valore accompagnandolo a un ulteriore presente di minor pregio. Peccato che chi riceve abbia una logica di pensiero del tutto diversa che lo spinge a considerare l’intero gesto operando una sorta di “media” tra i vari regali ricevuti, il che conduce, a rigor di statistica, ad un giudizio meno favorevole quando al prezioso dono se ne accompagna un altro di minor valore.

Il Paradosso del Donatore è però così influente da riscontrarsi  in diverse situazioni, anche quando si tratta di regali non proprio piacevoli quale, per esempio,  una pena a seguito di un reato di abbandono di rifiuti. Coloro i quali sono stati chiamati a scegliere la pena più onerosa da infliggere hanno scelto di aggiungere a una multa di  750 dollari due ore di servizio civile. I delinquenti hanno ritenuto però la pena così modificata, di entità inferiore rispetto alla sola pena pecuniaria.

Gli stessi effetti paradossali si possono riscontrare in molte altre situazioni, analizzate nell’articolo che la Weaver ha scritto con Stephen Garcia e Norbert Schwarz dell’università del Michigan dal titolo “Il Paradosso del Donatore”, di prossima pubblicazione sul Journal of Consumer Research.

Ma tornando al Natale e alla ragione che ci ha spinto a disturbare i colleghi d’Oltreoceano, quale prezioso suggerimento possiamo trarre da questa scoperta?

In realtà ben due: Babbo Natale può lasciare a casa una renna alleggerendo il carico della slitta e, quanto a voi, se avete regalato un diamante capace di illuminare oltre allo sguardo della fortunata anche un’intera stanza, il tenero peluche con gli occhi a forma di cuore fareste meglio a tenerlo nel cassetto perché di regalo ne basta uno… purché sia stupendo!

 

 

BIBLIOGRAFIA:

Virginia Tech (2011, December 12). The paradox of gift giving: More not better, says new studyScienceDaily. Retrieved December 19

 

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