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L’impronta della violenza sul nostro cervello

 

L’impronta della violenza sul nostro cervello - Immagine: © fasphotographic - Fotolia.com - Le violenze subite in famiglia sembrano aumentare la sensibilità e la capacità dei bambini di intercettare potenziali stimoli minacciosi nell’ambiente. “Assistere a violenze” o “esserne vittima” poco importa, entrambe mettono in scacco la speranza di sopravvivere e facilitano il rapido incremento della capacità di captare indizi pericolosi.

I dati epidemiologici ci dicono che l’esposizione ad un clima familiare violento colpisce ad oggi una significativa minoranza di bambini: le stime generali sulla presenza di episodi di violenza fisica/sessuale sono tra il 4 e il 16%, mentre il range di violenze domestiche subite arriva a colpire tra l’8 e il 25% dei bambini. Quest’ultima percentuale diventa un dato di enorme impatto clinico, se si pensa che queste esperienze di maltrattamento, spesso reiterate per anni, costituiscono uno stress ambientale in grado di accrescere drammaticamente il rischio di sviluppare una psicopatologia nell’età adulta.

I comportamenti aggressivi dei bambini. Immagine: © elisabetta figus - Fotolia.com
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Uno studio pubblicato nel 2011 sulla rivista Current Biology ha utilizzato tecniche di neuroimaging per esplorare l’impatto dell’abuso fisico o della violenza domestica sullo sviluppo emotivo del bambino. I ricercatori del gruppo di McCrory della University College London hanno rilevato nei bambini con storia di violenza la presenza di una maggiore reattività a stimoli minacciosi significativi dal punto di vista biologico (cioè legati alla sopravvivenza!), come ad esempio volti arrabbiati, rispetto a volti tristi o neutri. Le aree cerebrali più attivate dalla presentazione di volti rabbiosi sono state l’insula anteriore e l’amigdala, entrambe coinvolte nell’intercettare minacce nell’ambiente e nell’anticipare e prevenire il dolore, fisico e mentale.

 

Non si tratta di danno cerebrale, ma di una maggiore e più frequente attivazione dei circuiti neurali legati alla paura e alla percezione di pericolo. L’ipotesi dei ricercatori è dunque che questa maggior reattività costituisca un meccanismo di adattamento biologico che rende questi bambini “iper-consapevoli” (hyper-aware) rispetto alla presenza di possibili pericoli nel loro ambiente e che li aiuta ad intercettare in brevissimo tempo il pericolo e ad avere salva la vita. Precedenti studi di neuroimaging condotti su soldati che avevano partecipato a combattimenti violenti, hanno mostrato lo stesso pattern di attivazione in queste due aree cerebrali!

Ma cosa succede se questo pattern viene mantenuto invariato nel tempo?

I ricercatori sottolineano come questo meccanismo, inizialmente adattivo, possa diventare in età adulta un fattore di rischio neurobiologico e di predisposizione a sviluppare disturbi psicologici. Ansia e depressione negli adulti sono spesso il risultato di una prolungata esposizione a violenze domestiche o a uno stato prolungato di neglect affettivo (ugualmente percepito come “rischio di vita” per un bambino); tuttavia sono ancora poche le ricerche che si sono occupate di studiare come la presenza di queste storie riesca a lasciare “un’impronta nel cervello” tale da incrementare la vulnerabilità nell’adulto a sviluppare sofferenza psicologica.

Il dato descritto dagli autori può apparentemente non avere impatto diretto sul piano clinico e del trattamento, ma la sola possibilità di spiegare anche in termini biologici l’intenso stato d’ansia, pervasivo disturbante e talora logorante, come una normale risposta al pericolo appresa nella propria storia può talora essere rassicurante e ridurre la sensazione di incapacità o debolezza spesso legata alla cronica impossibilità di riuscire a godersi momenti di relax, anche quando l’ambiente intorno è privo di pericoli.

 

BIBLIOGRAFIA:

McCrory EJ, De Brito SA, Sebastian CL, Mechelli A, Bird G, Kelly PA, Viding E, (2011). “Heightened neural reactivity to threat in child victims of family violence”. Current Biology, 21(23).

 

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Vado in terapia: aspettative e timori

Cosa si aspettano i (potenziali) pazienti?

Vado in terapia: aspettative e timori - Immagine: © andrewgenn - Fotolia.com -
"Dottore, non sono sicuro di potermi fidare di lei"

Nella nostra esperienza clinica un aspetto fondamentale è rappresentato dalla domanda terapeutica, intesa non solo come contenuto del problema oggettivamente descritto dal paziente ma soprattutto come rappresentazione che egli si costruisce riguardo alla terapia, all’intervento del terapeuta e al proprio ruolo nel processo di cura.

 

Esaminando il primo elemento scopriamo che in molti casi, nell’incontro con chi si rivolge a noi, il concetto di trattamento terapeutico viene rivestito di un significato medico, all’interno del quale la funzione principale è svolta dalle competenze del “dottore”, dalla sua tecnica e dalla teoria che la sostiene; il paziente si aspetta una risposta ma non solo, la attende giusta, corretta. Non è raro che di fronte alla nostra spiegazione, auspichiamo sintetica, delle caratteristiche principali della terapia, egli cerchi di ottenere un rimando il più preciso possibile, che escluda i casi particolari, l’uso della parola “dipende” e fornisca indicazioni attendibili anche sulla durata del trattamento.

Tecniche terapeutiche: la bacchetta magica - Immagine: © Ekler - Fotolia.com
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Nella rappresentazione del paziente, la possibilità da parte del terapeuta di accedere a un vasto insieme di tecniche e strumenti applicabili con rigore alla risoluzione del problema clinico, implica sia possibile stilare un programma di cura, prevedere i tempi e i modi. In questi casi la terapia è considerata un’esperienza asimmetrica, nella quale la figura medica ha il compito di insegnare ciò che il paziente non può apprendere in autonomia; la competenza del terapeuta è perciò l’elemento discriminante in base al quale il paziente struttura la propria domanda di cura, affidandosi al depositario della tecnica e aspettandosi in tempi relativamente brevi il frutto benefico di quella competenza alla quale ha deciso di attingere.

 

E’ chiaro come questo approccio, non infrequente peraltro, vada sottoposto a immediata revisione critica, pena l’insorgere di aspettative irrealistiche nel paziente e l’impossibilità di strutturare il lavoro clinico nella forma di un processo di sviluppo collaborativo, che non si fonda sulla presenza di un personaggio attivo e uno passivo ma sulla condivisione di un percorso capace di sostanziarsi nel tempo mediante gli atti comunicativi di entrambi gli attori della relazione.

La letteratura clinica afferma da molti anni che i principali fattori di cambiamento in terapia sono l’accordo sugli scopi e sui compiti e la creazione di una buona alleanza col paziente (Bordin, 1979); diventa perciò fondamentale individuare quali sono le credenze, le teorie naives che il soggetto richiedente la cura esprime riguardo all’origine della propria sofferenza nonché le convinzioni che egli nutre circa le reali possibilità di generare un cambiamento (Lorenzini, Sassaroli, 2000). Utilizzando la Naif Ideas Survey (Caroso et al., 2000) sono state individuate cinque teorie attraverso le quali i pazienti rintracciano la causa del proprio malessere (Sassaroli, Lorenzini, Ruggiero, 2006):

  • teoria dell’incapacità;
  • teoria del malfunzionamento biochimico e del sistema nervoso;
  • teoria delle cause esterne impersonali;
  • teoria relazionale;
  • teoria cognitivo-comportamentale.
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Ai fini della nostra trattazione è particolarmente interessante il primo punto. Il paziente che mostra di aderire alla teoria dell’incapacità ritiene di non riuscire a raggiungere gli scopi percepiti come desiderabili a causa di fattori interni, scarse abilità relazionali ad esempio, oppure una carente conoscenza dell’ambiente, difetti caratteriali, demotivazione. Ne scaturisce perciò l’aspettativa che il terapeuta intervenga attraverso l’insegnamento di capacità particolari che il soggetto non possiede o abilità più generali che fino ad allora sono state utilizzate con un grado di efficacia insoddisfacente. In questo caso il lavoro clinico non si orienta verso la pianificazione di strategie migliori bensì persegue la comprensione delle credenze sottese a tali strategie; non offre al paziente la prescrizione di azioni da considerarsi oggettivamente giuste, ma una consapevolezza più profonda circa il ruolo svolto dalle sue credenze nell’insorgenza degli stati d’animo problematici e nella messa in atto dei comportamenti disfunzionali.

 

La terapia deve invalidare la teoria dell’incapacità e le aspettative di chi chiede aiuto: un intervento esterno che riduca il dialogo con le risorse del paziente, giudicate carenti da quest’ultimo, per imporre una soluzione tecnica, si risolve nella conferma delle credenze già rivelatesi disfunzionali.

 

… e cosa temono?

Quando parliamo di timori del paziente riguardo alla terapia, è necessario procedere ad alcune precisazioni. In primo luogo ci riferiamo unicamente alle resistenze esplicitate dal soggetto, e in particolare a quelle che nella fase iniziale del trattamento possono comprometterne la prosecuzione. Come terapeuti cognitivisti riteniamo di doverci soffermare su ciò che l’individuo si rappresenta in termini di pensiero cosciente; siamo perciò convinti che le resistenze inconsce descritte dalla letteratura psicoanalitica, pur costituendo un tema di interesse per tutti coloro che operano nella clinica, non possano considerarsi l’oggetto centrale di un processo di cura, in virtù della loro essenza sfuggente e non dimostrabile.

Anger - © ioannis kounadeas - Fotolia.com
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Nella nostra esperienza clinica alcuni pazienti intraprendono la terapia mostrando un repertorio piuttosto scarno di teorie e credenze in merito ad essa, si tratta per lo più di coloro che come descritto in precedenza si affidano passivamente alle competenze del dottore, mentre altri esprimono un proprio sistema di significati personali connessi al processo di cura. La nostra trattazione intende esaminare alcuni di tali costrutti, muovendo da un’osservazione: se da un lato le successive fasi della terapia possono far emergere credenze nuove delle quali il soggetto non era inizialmente consapevole, dall’altro è fondamentale chiarire e discutere i timori coscienti che accompagnano l’avvio di ciò che potrà diventare un percorso di cambiamento.

 

In particolare abbiamo focalizzato l’attenzione su quei soggetti che intravedono nella terapia un possibile e temuto attacco critico alle figure più significative della loro vita, e parallelamente alle esperienze più importanti che li hanno condotti fino a noi. Nella rappresentazione di questi pazienti la terapia non è tanto un processo di sviluppo di risorse rimaste fino a quel momento imprigionate all’interno di credenze disfunzionali su di sé e sul mondo, quanto piuttosto un faticoso esercizio di messa in discussione senza sbocchi apparenti, nel quale un ruolo preponderante potrà essere assunto dal rimprovero ruminativo nei confronti della propria origine.

Rumination - © Johan van Beilen - Fotolia.com
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Per questi soggetti, che l’osservazione clinica coglie reduci da esperienze di significativo criticismo genitoriale, la terapia è un sentiero minaccioso diretto al passato e l’emozione di paura che viene espressa durante i colloqui riguarda l’eventualità di dover ridipingere a tinte fosche l’operato dei propri genitori o di altre figure rilevanti. Siamo di fronte a pazienti estremamente polarizzati per i quali analizzare i life events significa attribuire delle colpe ineludibili, che essi hanno sempre rivolto e sentito rivolgere alle proprie azioni e che ora la terapia potrebbe riversare in modo altrettanto assoluto su altri attori.

 

Seguendo tale costrutto l’individuo si interroga sulle modalità di un possibile cambiamento e finisce sovente per immaginarselo come il risultato di un insegnamento o di una tecnica che il terapeuta saprà trasmettere; si percepisce incapace di attingere a risorse personali autonome e tende a concepire la terapia come un percorso che potrà progredire solo in due, alternative direzioni: creando un nuovo soggetto rimproverante, il paziente che processa coloro dai quali veniva in precedenza processato, o applicando tecniche nuove, nuovi strumenti di gestione delle emozioni ai contesti attuali. Solo il superamento di questa dicotomia, nell’ambito della quale il secondo scenario viene ritenuto un’evoluzione desiderabile mentre il primo minaccia il paziente col peso del proprio significato assoluto, può permettere alla terapia di approfondire realmente ciò che viene definito cambiamento.

 

BIBLIOGRAFIA:

  • Bordin, E. S. (1979). The generalizability of the psychoanalytic concept of the working alliance. Psychotherapy: Theory, Research and Practice, 16, pp. 252-260.
  • Caroso, M., Ottavi, P., Scarinci, A., Vicino, S., Tresca E. (2000). Strumenti di indagine delle teorie psicologiche naives in terapia in Lorenzini, R., Sassaroli, S., La mente prigioniera. Strategie di terapia cognitiva. Raffaello Cortina, Milano.
  • Lorenzini, R., Sassaroli, S. (2000). La mente prigioniera. Strategie di terapia cognitiva. Raffaello Cortina, Milano.
  • Sassaroli, S., Lorenzini, R., Ruggiero, G. M. (2006). Psicoterapia cognitiva dell’ansia. Rimuginio, controllo ed evitamento. Raffaello Cortina, Milano.

 

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Blogga che ti passa: i benefici psicologici del diario online

– Rassegna Stampa –

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze PsicologicheSecondo una recente ricerca, pubblicata dalla American Psychological Association, il blogging può indurre benefici psicologici negli adolescenti che soffrono di ansia sociale e disagio emotivo, migliorare la loro autostima e aiutarli a comprendere meglio i loro amici, aumentando anche il numero di comportamenti prosociali.

“La ricerca ha dimostrato che scrivere un diario personale e altre forme di scrittura espressiva sono un ottimo modo per liberare lo stress emotivo o anche solo sentirsi meglio”, ha detto l’autore principale dello studio, Meyran Boniel-Nissim, PhD, della University of Haifa, Israele. “Gli adolescenti comunque passano molto tempo on-line, quindi il blog permette la libera espressione e facilita la comunicazione con gli altri.”

In particolare gli studenti più tormentati, che normalmente esprimono le loro ansie e le preoccupazioni sociali in un diario, hanno goduto degli effetti benefici del blogging, che si sono rivelati maggiori rispetto all’uso del tradizionale diario privato; anche la possibilità di ricevere commenti da parte della comunità on-line ha intensificato questi benefici. “Nonostante il cyberbullismo e gli abusi on-line siano comuni, abbiamo notato che quasi tutte le risposte ricevute ai messaggi pubblicati sul blog dai partecipanti allo studio, sono state positive e di supporto”, ha detto il co-autore dello studio, Azy Barak, PhD.

L’unico limite dello studio è stato, secondo gli stessi ricercatori, la mancanza di proporzione tra i partecipanti dei due sessi (124 femmine e 37 maschi). Tuttavia, i ricercatori hanno analizzato i risultati separatamente per sesso e hanno scoperto che i ragazzi e le ragazze hanno reagito in modo simile alle situazioni sperimentali e che non c’erano grandi differenze nei risultati; la ricerca futura dovrebbe comunque verificare sperimentalmente eventuali differenze di genere.

 

BIBLIOGRAFIA:

Coppia: Chi si somiglia si piglia? Sarà vero?

 

La coppia: chi si somiglia si piglia? - Immagine: © Jan Will - Fotolia.com - Vi è mai capitato di osservare in giro una coppia di fidanzati dai comportamenti molto simili e, spesse volte, anche dai tratti somatici affini, tanto da pensare: “è proprio vero, chi si somiglia si piglia!”. Strana affermazione, perché nell’immaginario collettivo si è soliti pensare che gli opposti si attraggono. Infatti, basta guardarsi intorno per verificare che si è attorniati da elementi dai poli opposti incastrati perfettamente, ad esempio due calamite, le batterie del telecomando, la chiave nella toppa, lui alto lei è bassa, lei è loquace e lui parla poco, e potremmo andare avanti per ore.

Allora, quale delle due affermazioni è vera o si tratta semplicemente di dicerie popolari da strapazzo?  Cosa è che realmente spinge a compiere determinate scelte in una relazione di coppia?

Secondo un recente studio la scelta di partner molto diversi è determinata dalla presenza di un gene, l’MHC, detto complesso di istocompatibilità.  Le persone con un MHC simile sono meno attratte l’una dall’altra, e di conseguenza inclini al tradimento (Garner et al, 2010).  Quindi, ancora una volta vale il detto: gli opposti si attraggono. Ma guardando con occhio più attento, le relazioni con persone troppo diverse sono destinate a finire oppure a indurre uno dei due a perpetuare ciclicamente l’ossessione di voler portare avanti una relazione fallimentare.

Conflitti, Devitalizzazioni e Tempeste: tracce di una coppia in crisi. - Immagine: © laurent hamels - Fotolia.com -
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La scelta di partner con caratteristiche molto diverse è spesso mediata dall’attrazione fisica e dalla bellezza in generale, caratteristiche che tendono a diminuire con l’età. Coppie in cui i membri hanno caratteristiche opposte tendono a rimanere unite per un lasso di tempo inferiore rispetto a coloro che condividono interessi comuni.

 

Ciò che davvero cementa le coppie dopo diversi anni, più che l’attrazione fisica, è dunque la similarità complessiva.

In linea di massima il successo nelle relazioni a lungo termine richiede cooperazione e pariteticità: la ricerca psicologica ha dimostrato che le coppie durature sono marcate da un’elevata similarità per quanto riguarda l’intelligenza, i valori, le caratteristiche di personalità e gli interessi.

E’ stato dimostrato empiricamente in coppie sposate da molto tempo che esistono relazioni molto alte tra il livello d’intelligenza, valori condivisi, opinioni politiche, religione e stile di vita da condurre (Schmitt et al., 2004).

Inoltre, alcune caratteristiche di personalità, come l’estroversione o l’introversione, sono molto affini fra i due membri della coppia. Infatti, si preferisce scegliere come partner una persona incline alla vita sociale se si è estroversi, oppure una persona che ama la vita tranquilla e ritirata se si è introversi. Mentre, persone che mostravano tratti di personalità diversi, hanno maggiori probabilità di separarsi. Quindi, esistono o meno gli incastri perfetti in amore?

A volte si verificano, ma sono delle trappole patologiche, lui carnefice e lei vittima, oppure lui scappa e lei lo insegue, o, come diceva Bion (1975) ansioso contro depresso, insomma, si tratta di storie che spesse volte fanno cronaca.

Essere simili ad una persona, per certi aspetti, vorrebbe dire anche provenire dallo stesso ambiente socio familiare? A questo punto il problema si ingarbuglia ed è necessario dipanare il bandolo della matassa.

Solitamente  non si scelgono mai persone che abitano nell’ambiente in cui si è cresciuti o con le quali si e condiviso uno spazio per lungo tempo. Infatti, non ci si fidanza quasi mai, salvo rarissime eccezioni, con l’amico o l’amica d’infanzia. Le persone con le quali si cresce non sono considerate, nella nostra mente, come oggetti del desiderio, ma come qualcuno con cui condividere delle confidenze o vivere delle esperienze più o meno formative. Come mai? Perché questo meccanismo ha un chiaro scopo volto alla sopravvivenza, induce ad evitare i rapporti con gente con cui si potrebbe condividere lo stesso bagaglio genetico, non mettendo a rischio la vita della prole.

Mogli e buoi dei paesi tuoi? I buoi sì, ma le mogli no! Quindi, chi si somiglia si piglia!

 

 

BIBLIOGRAFIA:

  • Bion, W. R. Cogitations-Pensieri. Armando Editore (2010).
  • Garner, S.R., Bortoluzzi, R.N., Heath, D.D., Neff, B.D. (2010). Sexual conflict inhibits female mate choice for major histocompatibility complex dissimilarity in Chinook salmon. Proc Biol Sci, 22, 277- 289.
  • Schmitt D. P. et al. (2004), Patterns and universals of adult romantic attachment across cultural regions: Are models of self and of other pancultural construets?, «Journal of Cross-Cultural Psychology, 35, 367-402.

 

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“Dottore, ora ho paura di non ruminare più come prima…”

 

Ruminazione - Immagine: Fotolia.comNei gruppi MBCT (Mindfulness-Based Cognitive Therapy; Segal, Williams & Teasdale, 2001) di prevenzione delle ricadute per i pazienti che hanno avuto una storia clinica di depressione mi colpiscono e affascinano i commenti e le discussioni che spesso emergono. Ma uno in particolare, mi ha incuriosito e arricchito molto. Durante una sessione, circa a metà del percorso MBCT, un paziente alza la mano e dice: “Vorrei dire una cosa. Il percorso che sto facendo mi sta servendo molto. Sto meglio, riesco a riconoscere quando parto con le mie ruminazioni (ricordo che le ruminazioni sono “un insieme di pensieri su una stessa tematica che si presentano anche quando non vi è una necessità immediata o una richiesta ambientale che giustifichi tali pensieri” e sono riferiti al passato, NdA), riesco abbastanza bene a non seguirle troppo… però, ho paura di una cosa: adesso che non perdo così tanto tempo a ruminare, ho paura, perché non so cosa fare, è come se temessi che qualcosa di brutto stesse per accadere!

Nell’ascoltare questo commento nella mia mente, e nella mia pancia, si sono aperti tanti cassetti che mi hanno fatto pensare alla necessità, nota in psicoterapia cognitiva, di fornire ai pazienti strategie alternative, ai vantaggi secondari che tutti i disagi per loro natura portano con sé, al messaggio, anche non verbale, che questo paziente stava mandando in cui esortava ad andare con lui “con i piedi di piombo”, al fatto che un cambiamento, anche se positivo, richiede tempo per essere digerito, alla paura per lo sconosciuto che, per quanto adattivo e funzionale, rimane sconosciuto, e quindi fa paura. Tutto questo ha anche rafforzato la mia convinzione che, qualsiasi sia la tipologia di persona che incontriamo nei nostri studi, sia di fondamentale importanza fornire strumenti e strategie alternative. Lorenzini e Sassaroli, alcuni anni fa parlavano di “costruzione dell’ombra” (in omaggio a C.G. Jung, a cui sono particolarmente affezionato…) cioè “costruire alternative praticabili alle vecchie modalità di pensare e di essere” (Lorenzini, Sassaroli, 2000, p. 74).

Come o Perché? E le conseguenze per il pensiero.
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Bene, questo paziente stava chiedendo al terapeuta di aiutarlo a scoprire altre strategie più funzionali da sostituire alle ruminazioni. Ma stava anche chiedendo, a mio parere, di dargli il tempo di abituarsi a “stare” con un po’ di paura, a tollerare un po’ di incertezza e ad “accettare” quel “nuovo se stesso” che non perde più interminabili ore a chiedersi “perché così.. perché a me… perché è successo… perché sempre a me… perché, perché, perché” (i noti Why di cui parlavo in un altro articolo di State of Mind). Conclusa questa fase, avrebbe potuto concentrarsi e occuparsi di sé, dei propri scopi di vita e, per dirla con le parole dell’ACT, ai propri valori (Harris, 2011).

 

 

BIBLIOGRAFIA:

  • Harris R. (2011). Fare ACT. Una guida pratica per professionisti all’Acceptance and Commitment Therapy. Franco Angeli: Milano.
  • Lorenzini R., Sassaroli S. (2000). La mente prigioniera. Strategie di terapia cognitiva. Raffaello Cortina: Milano.
  • Watkins E. (2008). Constructive and unconstructive repetitive thought. Psychological Bulletin. 134(2). pp. 163-206.

 

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Alcol, ebbrezza e gli errori che ci concediamo.

– Rassegna Stampa –

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

Ubriacarsi offusca la mente e questo, si sa, porta a commettere errori grossolani; chi è sotto l’effetto di alcol si accorge degli errori che commette…però se ne frega! È quanto scoperto in una ricerca condotta alla University of Missouri-Columbia.

Anche se questo non è il primo studio che indica che l’alcol altera il comportamento di coloro che lo consumano, è il primo a mostrare che a chi beve non importa di star commettendo degli errori, dice Bartholow, professore associato di psicologia e ricercatore a capo dello studio. Sembra che l’alcool inibisca l’attivazione di un meccanismo cerebrale che, in condizioni di sobrietà, impone di mettere un freno quando ci si rende conto che si stanno facendo degli errori. Quando questo meccanismo è attivo le persone normalmente rallentano l’azione per cercare di non ripetere l’errore o di adottare misure correttive; sotto l’effetto dell’alcol invece è probabile che il segnale di stop venga deliberatamente ignorato.

I risultati di questo studio hanno un rovescio della medaglia: una piccola quantità di alcol infatti può aiutare le persone con disturbi d’ansia a concedersi di commettere errori, sostiene Bartholow, ma attenzione a non utilizzare l’alcol come ansiolitico abituale, sarebbe una rischiosa abitudine che potrebbe portare a gravi problemi, tra cui l’alcolismo.

 

BIBLIOGRAFIA:

 

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Conflitti, Devitalizzazioni e Tempeste: tracce di una coppia in crisi

 

Conflitti, Devitalizzazioni e Tempeste: tracce di una coppia in crisi. - Immagine: © laurent hamels - Fotolia.com - Nel DSM-IV-TR (APA, 2000), le difficoltà di coppia non sono considerate un ‘disturbo psicologico’ ma sono relegate nella categoria delle ‘altre condizioni che potrebbero essere centro di attenzione clinica’. Eppure si può facilmente sostenere che le difficoltà nelle relazioni affettive generino sofferenza mentale e possano originare, esacerbare e complicare altri disturbi psicologici come ansia e depressione.

Questa è la ragione per cui gli approcci psicologici e psicoterapeutici pongono sempre più attenzione alle dinamiche di coppia. Le coppie rappresentano per il terapeuta una sfida per certi versi più ardua dell’intervento con il singolo individuo, poiché chiamano in causa un sistema di interazioni più numerose e complesse.

La prima di queste sfide riguarda riconoscere e valutare le coppie in difficoltà, un passaggio reso necessario dalla mancanza di un sistema di classificazione quale appunto quello del DSM-IV-TR che è concentrato sui sintomi emotivi e comportamentali dell’individuo.

Una delle prime e più immediate classificazioni si fonda sulle caratteristiche dei comportamenti interpersonali che si realizzano con maggior frequenza tra i componenti della coppia. In generale, possiamo distinguere comportamenti positivi e comportamenti negativi. I primi hanno come risultato la costruzione di un rapporto di cooperazione, supporto reciproco e coltivano un clima emotivo di benessere psicologico. Tra questi ritroviamo tutti quei comportamenti che esprimono cura e affetto, mostrano il piacere di stare con l’altro, mostrano che stare con l’altro ha un significato importante per l’individuo e forniscono varie forme di supporto (emotivo, di stima o anche solo un aiuto concreto nel risolvere un problema).

I comportamenti negativi rappresentano invece una sorta di virus che tende ad espandersi e a generare una modalità di interazione sempre più rigida e negativa, caratterizzata da difese, fughe e contrattacchi (Jacobson et al., 1998). Le forme dei comportamenti negativi sono principalmente quattro:

Tradimento: terapia di copppia. - Immagine: © Maria Aloisi - Fotolia.com -
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(1) creare una costante atmosfera negativa (lamentosità, insoddisfazione), (2) attaccare il valore dell’altro (criticare, svalutare, denigrare, umiliare, rimproverare), (3) attaccare importanti assunti della coppia (adulterio, violenza, mancanza di investimento), (4) creare irritazione (provocare, prendere in giro, sfidare, minimizzare con sarcasmo).

 

Epstein e Baucom (2002) sintetizzano tre macrocategorie di coppie in difficoltà, sulla base della presenza e frequenza di questi comportamenti.

Le coppie conflittuali sono caratterizzate da molti comportamenti negativi e pochi comportamenti positivi; sono coppie ormai erose da una cronica tendenza al reciproco attacco. Ritirarsi dall’attacco o esprimere atteggiamenti positivi vuol dire accettare per primi la resa e spesso nessuno dei due componenti è disposto a farlo. Anzi la tendenza è ormai quella di attendersi un attacco da parte dell’altro. Ci si avvicina alla relazione con già le armi spianate e se possibile si tende ad alzare il tiro fino a scenari che possono rasentare le famose esagerazioni narratene  “La Guerra dei Roses”.

Costruttori d'amore  - Autore dell'immagine: Costanza Prinetti
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Esistono poi le coppie devitalizzate, quelle in cui l’interazione è scarsa su ogni fronte. Non ci sono comportamenti positivi ma neanche comportamenti negativi, regna il grigiore e un profondo disinvestimento. La percezione individuale è caratterizzata dal regnare della routine, dal rimanere assieme senza trovarvi più né senso né particolare piacere nonché da una forma di evitamento di qualsiasi turbamento, anche solo per la fatica di sostenere lo stress che ne conseguirebbe.

 

Infine, la terza categoria è quella delle coppie tempestose dove l’espressione emotiva è accesa ed estrema su tutti i fronti. Sono le coppie caratterizzate da numerosi momenti di intensa passione, condivisione, affetto e intesa e altrettanti momenti di forti e distruttivi contrasti. Il passaggio tra una modalità positiva e una negativa è spesso rapido e incontrollato da parte di entrambi mentre manca l’equilibrio e la stabilità.

Certo le componenti cognitive ed emotive delle coppie in difficoltà non si possono sintetizzare in queste descrizioni, avremo modo di approfondire in futuro l’argomento. Tuttavia il comportamento resta la parte più evidente di un problema, quanto meno per divenire coscienti dell’esistenza di una difficoltà. Quindi valutiamo: c’è qualcosa di troppo conflittuale, devitalizzato o tempestoso nelle nostre relazioni?

 

BIBLIOGRAFIA:

  • Epstein, N.B. & Baucom, D.H. (2002). Enhanced Cognitive-Behavioral Therapy for Couples. A Contextual Approach, Washington DC: APA.
  • Jacobson, N.S., Jacobson, S. & Christense, A. (1998). Acceptance and Change in Couple Therapy: A Therapist’s Guide to Trasforming Relationships. W W Norton & Co.

 

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La Felicità? E’ un piacere semplice.

Simona Meroni.

La Felicità? E' una cosa semplice - Immagine: © chesterF - Fotolia.com In tempi in cui il PIL (Prodotto Interno Lordo) sembra essere l’unico indice di rilevanza nazionale, il primo ministro britannico David Cameron ha messo a punto, in collaborazione con l’Ufficio nazionale di statistica, una lista di fattori di felicità, sui quali si baserà – appunto – l’Indice generale di benessere (General Wellbeing Index, GWB).

La ricerca dell’essenza della felicità sembra, a quanto pare, un cruccio anglo-americano: nel 2009, il Professor Ryan Howell (San Francisco State University), dopo un’accurata indagine, ha stabilito che la felicità può essere definita come “un piacere semplice”, composto più che altro da ricordi, non tanto da oggetti materiali.

La ricerca prosegue affermando che le persone che scelgono di investire il proprio denaro in “semplici piaceri” (quali un’uscita a cena, uno spettacolo teatrale), sono mediamente più felici di coloro che spendono alte cifre in beni più materiali (un’auto sportiva o una collana costosa, ad esempio). Questo perché, continua il Professor Howell, i ricordi delle esperienze aiutano l’essere umano a “sentirsi vivo”, ben più degli oggetti di cui si circonda.
La ricerca, condotta su un campione di 154 studenti con un’età media di 24 anni, chiedeva agli intervistati di descrivere un oggetto recentemente acquistato, o un’esperienza trascorsa da poco. In seguito, i ricercatori hanno rilevato il “livello di felicità” degli studenti, scoprendo – come anticipato – che i livelli di felicità erano più elevati in coloro che avevano speso il proprio denaro per cene, teatri o viaggi, piuttosto che in coloro che avevano acquistato vestiti o televisori.

Troppo semplice e anche un po’ scontata la domanda che sorge spontanea leggendo i risultati: cos’è dunque la felicità? Si può dare una risposta universalmente valida? Che cosa ci ha detto, inoltre, che già non sapevamo o non avevamo intuito con la nostra esperienza, questa ricerca?
Domande più che legittime, risposte invece alquanto difficili.

Una risposta articolata è quella fornita da Martin Seligman, il papà della “Psicologia Positiva”, una corrente di pensiero che studia come promuovere il benessere soggettivo, che può essere appreso a qualunque età.

La felicità autentica, infatti – secondo Seligman – deriva dall’identificare e coltivare le proprie potenzialità e dall’usarle quotidianamente nel lavoro, nell’amore, nelle attività ricreative. Tutti gli esseri umani sono dotati di determinate potenzialità che li rendono unici e che, una volta riconosciute, possono essere utilizzate per produrre felicità autentica e gratificazione.

Seligman propone una formula della felicità: H = S + C + V, in cui si mescolano la quota genetica di felicità permanente presente in ognuno di noi (Happiness); una porzione fissa di felicità (Set range); le Circostanze della vita che influenzano il nostro livello di felicità (ricchezza/povertà, matrimonio, vita sociale, età, salute, genere, fede etc.) ed infine il controllo Volontario, ossia tutti quei fattori che dipendono dalle nostre decisioni.

La felicità è negli occhi di chi guarda © Konstantin Sutyagin - Fotolia.com
Articolo consigliato: “La felicità è negli occhi di chi guarda”

I primi due fattori S e C sono impossibili o difficili da cambiare mentre possiamo lavorare su molte circostanze interne (le nostre emozioni, ad esempio) per utilizzarle nell’aumentare il nostro livello permanente di felicità.

 

La felicità nel presente è composta dai piaceri -sensazioni gradevoli momentanee-, e dalle gratificazioni che invece ci impegnano a fondo, durano più a lungo e derivano dall’esercizio delle nostre potenzialità.
Seligman insiste molto sul concetto di potenzialità e lo ritiene uno degli strumenti principe per ottenere una vita soddisfacente. Si potrebbe dire che, dunque, gli strumenti per essere felici risiedono nelle nostre mani, o nella nostra mente, e non tanto nella carta di credito. Nel prossimo contributo prederemo in considerazione l’approccio di Daniel Kahneman al costrutto della felicità.

 

 

BIBLIOGRAFIA:

  • Gray R., Jamieson A., Happiness? It’s just a simple pleasure, The Telegraph Group Limited, London, 2009.
  • Howell R., Rodzon K., How happy can you be? The Journal of Positive Psichology, 2009 (in press). Available at: http://bss.sfsu.edu/rhowell/Publications.htm.
  • Kahneman D., Economia della felicità, Il Sole 24 Ore Libri, 2007.
  • Kahneman D., Diener E., Diener E., Well-being: the Foundations of Hedonic Psychology. Russell Sage Foundation Publications, 1999.
  • Seligman, M., Imparare L’Ottimismo, Free Press, New York, 1998.

 

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Le basi biologiche della depressione maggiore

– Rassegna Stampa –

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze PsicologichePer descrivere la depressione si fa generalmente uso di definizioni soggettive dell’esperienza di essere depresso e di scale che quantificano i sintomi depressivi. Negli ultimi due decenni, la ricerca ha sviluppato anche altri sistemi per descrivere le basi biologiche della depressione, come l’osservazione delle alterazioni strutturali e funzionali del cervello, misurate con la risonanza magnetica, l’individuazione di schemi di espressione genica nelle cellule bianche del sangue e l’analisi post-mortem del tessuto cerebrale in di persone depresse.

Il Dr. David Glahn e i suoi colleghi, della Yale University e dell’Hartford Hospital’s Institute of Living, combinando e incrociando i diversi tipi di dati raccolti, hanno cercato di identificare il gene, o i geni, in grado di spiegare il “quadro completo”. Si sono chiesti se ci fosse un modo per collegare queste misure biologiche al rischio di sviluppare la malattia psichiatrica; per far questo hanno stabilito due obiettivi: identificare un nuovo sistema di classificazione delle misure relative alla struttura e alla funzionalità del cervello sulla base della loro rilevanza genetica rispetto a una malattia, e identificare un gene candidato per la depressione maggiore. Hanno così localizzato il gene RNF123, che potrebbe effettivamente avere un ruolo nella depressione maggiore. Anche se RNF123 non è mai stato collegato direttamente alla depressione, è stato però mostrato come sia in grado di influenzare l’ippocampo, una parte del cervello che risulta alterata nelle persone affette da depressione maggiore.

 

BIBLIOGRAFIA:

 

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CAPITAN SENNO DI POI

La Psicantria: Manuale di Psicopatologia Cantata

La Psicantria è un libro-CD con prefazione di Francesco Guccini, che contiene 13 canzoni che raccontano il mondo del disagio psichico in modo inusuale, a volte tragico, a volte ironico, come potrebbe raccontarlo un cantautore (anzi in questo caso due cantautori…).

Psicantria - Copertina disco -

Psicantria non è solo un libro-CD, è anche un progetto musicale più ampio che promuove l’uso dello strumento canzone in ambito terapeutico, educativo e sociale.

Dobbiamo alla Scuola Bolognese di Psicoterapia Cognitiva l’origine del nostro incontro, caratterizzato, all’inizio, dai ruoli assegnati d’ufficio (uno tutor e l’altro psicoterapeuta in formazione) e, più tardi, dalla passione per lo scrivere canzoni. Entrambi coltivavamo un piccolo sogno cantautorale, ovvero ciò che si può chiamare “raccontare se stessi e il mondo attraverso la musica”, e avevamo avviato progetti musicali indipendenti, con percorsi distinti.

Fu così che tra seminari, simulate, trascritti, lezioni teoriche si insinuò una chitarra e contemporaneamente la voglia di “ascoltare” l’uno il mondo sonoro dell’altro. Complice lo stile e la matrice cantautorale comune dalla quale traeva origine la nostra storia musicale, la sintonia creatasi ha fatto sì che spesso, dopo le lezioni, i momenti dedicati alla musica aumentassero, fino a condividere, più di una volta, uno stesso palco con in braccio una chitarra.

La musica ha ampliato così il rapporto “tutor-allievo” e si è trasformata in una “base sicura”, trainante la relazione, che ha arricchito lo scambio verbale con la propria estetica e il proprio linguaggio.

L’idea di realizzare un “Manuale di psicopatologia cantata” è nata dall’intenzione di “trasformare” la nostra professionalità e le nostre conoscenze in canzoni, nel tentativo d’integrare il mondo musicale con la complessità del sistema psichiatria/sofferenza mentale, a cui diamo il nome di “psicomondo”.

Per quanto ne sappiamo non siamo in tanti ad avere scritto psicocanzoni. Il primo esempio è costituito dall’album “Songs for couch and consultation” del 1961 della folksinger americana Katie Lee, una sorta “psicosatira” con finalità soprattutto di divertissment. Successivamente il grande psicoterapeuta americano Albert Ellis (1977) creò canzoni psicoterapeutiche, adattando testi scritti ad hoc a melodie conosciute, con l’obiettivo di aumentare la consapevolezza e la presa di distanza dai problemi psicopatologici dei propri pazienti. Questa interessante esperienza è stata poi ripresa dallo psicoterapeuta italiano Aquilar (2000), che ha proposto versioni italiane di alcuni brani di Ellis, oltre a comporne di nuovi. L’utilizzo della canzone per parlare di psicopatologia ci è sembrato interessante e stimolante, perché può dare la possibilità di rappresentare contenuti scientifici, tradizionalmente presentati solo attraverso la parola orale o scritta, con melodia, ritmo e armonia.

La canzone, attraverso il testo, la musica e l’interpretazione, ha il pregio dell’immediatezza, della sintesi estrema, e del forte potere comunicativo. La canzone è potente, quando “arriva” può avere effetti davvero forti sul piano emotivo, evocativo, dei sistemi di memoria e narrativo.

Difficilmente in quattro minuti si riesce a spiegare la complessità di certe situazioni esistenziali, ma riteniamo che la canzone possa avere un effetto perturbativo (Vittorio Guidano definiva lo psicoterapeuta “perturbatore strategicamente orientatato”), stimolante e capace di insinuarsi nelle nostre vite infrangendo quel muro d’indifferenza e talvolta di ostilità (il cosiddetto stigma) che si erge intorno alla malattia mentale.

Nella composizione musicale dei brani è stato proprio il tema trattato (depressione, disturbo bipolare, schizofrenia, ecc.) che ci ha orientato nell’utilizzo di un genere musicale piuttosto che un altro, di certe timbriche, melodie, armonie rispetto ad altre. I personaggi delle canzoni e i loro vissuti ci hanno così stimolato a cercare forme musicali che potessero arricchire la complessità della loro storia individuale, e ci hanno portato durante la composizione a creare una sorta di “musicognomica”, tipica di ogni brano.

Per la realizzazione del libro sono state coinvolte diverse figure professionali: psichiatri, psicologi, psicoterapeuti, musicoterapeuti, una corale nata nell’ambito della riabilitazione psichiatrica, musicisti, pazienti, associazioni di familiari di pazienti psichiatrici, ecc. Tutte queste voci hanno contribuito alla realizzazione “corale” di questo scritto, caratterizzato da una poliedrica gamma di interventi, che crediamo possa rappresentare metaforicamente la complessità dello “psicomondo”.

 

BIBLIOGRAFIA:

 

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Differenze di personalità tra uomini e donne. Un nuovo modo per misurarle.

– Rassegna Stampa –

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze PsicologicheUn nuovo interessante studio pubblicato su PLoS ONE sostiene, empiricamente, che ci siano sostanziali differenze di personalità tra maschi e femmine. Le differenze di genere, considerate quasi un ovvietà dal senso comune, sono state negli anni oggetto di molte discussioni in ambito scientifico: da una parte l’hp della “somiglianza tra i generi” di Hyde, per cui maschi e femmine sarebbero, per maggior parte delle variabili psicologiche, più simili gli uni agli altri che diversi; all’altra estremità dello spettro teorico, invece, gli psicologi evoluzionisti hanno sottolineato come le differenze psicologiche tra i sessi siano da attribuire all’effetto di pressioni selettive diverse. Secondo questo approccio le differenze sessuali maggiori si riscontrano nei tratti di personalità e nei comportamenti che riguardano l’accoppiamento e la genitorialità; secondo l’hp di Hyde invece le diversità maggiori si concentrerebbero nelle aree della sessualità e dell’aggressività e in alcuni comportamenti motori.

Dato il contrasto tra le previsioni derivate dalla teoria evolutiva e quelle basate sull’ipotesi delle somiglianze di genere, c’è, secondo i ricercatori dell’Università di Torino, una pressante necessità di stime empiriche accurate. Il compito di quantificare le differenze di genere nella personalità affronta una serie di importanti sfide metodologiche e, secondo gli autori della ricerca in questione, tutti gli studi eseguiti finora soffrono, a vari livelli, di limiti che in ultima analisi conducono ad una sottostima sistematica dell’effetto di alcune dimensioni. Marco del Giudice, autore principale dello studio, descrive in questo lavoro un nuovo metodo per misurare e analizzare le differenze di personalità che sostiene essere più accurato rispetto ai metodi precedenti. I ricercatori hanno usato le misurazioni di personalità provenienti da un campione di 10.000 persone (metà uomini e metà donne). Il test della personalità comprendeva 15 scale, comprendenti tratti come il calore, la sensibilità, e il perfezionismo. Quando uomini e donne sono stati messi a confronto nei profili di personalità complessiva la differenza tra i sessi è stata evidente; le differenze invece sembrano molto più piccole nel caso in cui ogni tratto venga considerato separatamente.

 

BIBLIOGRAFIA:

 

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Le donne con alta autostima sono meno desiderabili!

Le donne con alta autostima sono meno desiderabili??

Le donne con alta autostima sono meno desiderabili. Immagine: © Marco Lensi - Fotolia.com Mostrare di avere un elevata autostima ha un impatto rilevante sulla desiderabilità di una persona agli occhi dell’altro sesso, e questo impatto è diverso per uomini e donne. Una serie di studi di recente pubblicazione (Zeigler-Hill & Myers, 2011) riporta che gli uomini che mostrano un elevata autostima sono mediamente percepiti come più “desiderabili” per instaurare una relazione di coppia. Viceversa mostrare un’autostima elevata per un donna riduce il livello di desiderabilità.

Se le donne preferiscono l’uomo che mostra un’elevata autostima, gli uomini sceglierebbero come partner donne con livelli di autostima moderata. L’elemento responsabile di questa curiosa differenza sembra essere la tendenza da parte degli uomini a considerare le donne con alta autostima come meno ‘accoglienti’ da un punto di vista affettivo e meno ‘affidabili’ nella costruzione di un rapporto a lungo termine.

Nonostante questo tema non sia direttamente collegato al mondo della psicologia clinica, ci suggerisce ancora una volta come il lo stile di giudizio sia continuamente influenzato da associazioni automatiche di cui non siamo consapevoli (es: l’associazione tra autostima manifesta e inaffidabilità relazionale). Queste regole che governano valutazioni e decisioni sono definite in termini tecnici euristiche, strategie semplificate del pensiero che non si basano su un ragionamento puramente logico ma di tipo probabilistico e si formano sulla base a esperienze e informazioni che quotidianamente riceviamo dalle nostre figure educative e dal mondo culturale che ci circonda (Kahneman, Slovic & Tversky, 1982).

Queste regole possono sostenere molti disturbi psicologici, pensiamo per esempio all’associazione tra magrezza e perfezionismo. Spesso la terapia è un percorso che conduce a riconoscere le proprie euristiche più dannose, valutarne l’infondatezza e assumere rispetto ad esse una posizione di distanza critica.

 

BIBLIOGRAFIA:

  • Kahneman, Slovic & Tversky (1982). Judgement under uncertainty: Heuristics and biases. Cambridge University Press.
  • Zeigler-Hill & Myers (2011). Evolutionary Psychology, 9(2), 147-180.

 

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Perchè Why è meglio di How nei problemi quotidiani dei pazienti depressi?

Effetti disfunzionali del pensiero ripetitivo e effetti negativi della focalizzazione sul depressive mood (Ingram & Smith, 1984; Carver & Scheier, 1990; Watkins & Teasdale, 2001; Watkins, 2004)

 

INTUITIVE HEURISTIC BINDING PERFECTIONISM, CONTROL AND BODY SHAPE BELIEFS

Eating Disorder as illusory compensation to the sense of lack of control and obsession for a self-esteem perceived as perfectionistically inadequate; this illusory compensation gets displaced onto controlling eating and body shape (Fairburn, Shafran, & Cooper, 1999).

Perché non possiamo fare a meno di sbadigliare?!

Quando gli animali sbadigliano assumono un volto umano. [Karl Krauss]

Sbadigliare - Immagine: © Eric Isselée - Fotolia.comDi fronte allo sbadigliare, le spiegazioni ingenue che ci diamo possono essere tante: dal sonno alla fame, dalla cattiva digestione alla noia, dal tentativo di “risvegliarsi” ed essere più vigili al messaggio, più o meno implicito, al nostro interlocutore che non si ha più voglia di ascoltare.

Tuttavia non esiste, ad oggi, una spiegazione univoca sulla funzione di questo riflesso. Secondo i ricercatori Gary Hack e Andrew Gallup, questo comportamento potrebbe avere una funzione di controllo nella regolazione della temperatura del cervello. Il cervello, così come il computer, funzionerebbe meglio se “raffreddato”. Ma come è possibile? Sbadigliare permetterebbe alle pareti del seno mascellare di espandersi e contrarsi come un soffietto, immettendo così aria nel cervello abbassandone di conseguenza la temperatura.

Dai dati raccolti in un recente studio condotto da Gallup su due gruppi di volontari, si evince che si sbadiglia sensibilmente meno in estate che in inverno. Questi dati spiegherebbero la funzione di controllo della temperatura del cervello: quando, infatti, la temperatura esterna è inferiore a quella corporea, cioè d’inverno, gioverebbe lo sbadiglio: l’aria fresca inalata sarebbe un toccasana per il cervello che, scambiando aria con l’esterno, si “sentirebbe” immediatamente rigenerato; quando invece la temperatura è simile non ci sarebbero particolari vantaggi e l’organismo inibirebbe questo comportamento.

In un altro studio condotto sui ratti, Gallup ha scoperto che la temperatura cerebrale s’innalzava poco prima dello sbadiglio e poi iniziava a calare fino a raggiungere la temperatura pre-sbadiglio, il che suggerisce che lo sbadiglio sia attivato da un incremento della temperatura cerebrale e che ne favorisca il raffreddamento. Gli stessi dati sono stati ritrovati anche in uno studio condotto su due donne che soffrono di attacchi di continuo sbadiglio. Se consideriamo buona questa funzione dello sbadiglio, allora non ci dovremmo meravigliare quando non possiamo fare a meno di sbadigliare anche in assenza di un reale motivo.

I ricercatori sottolineano anche gli importanti risvolti medici che possono avere questi dati; infatti, lo sbadiglio troppo ricorrente in soggetti che soffrono di emicrania può essere prodromo del dolore e in soggetti che soffrono di epilessia può anticipare gli attacchi epilettici. Il numero di sbadigli potrebbe essere, quindi, un ulteriore indice da considerare per la valutazione del quadro sintomatologico dei pazienti. “L’eccessivo sbadigliare sembra essere sintomatico in condizioni che fanno aumentare la temperatura del cervello e/o del cuore, come ad esempio danni al sistema nervoso centrale e la privazione del sonno”, sottolinea Gallup. Tuttavia gli stessi ricercatori sono prudenti ed evidenziano che, nonostante i dati raccolti, ci si muove ancora in un territorio per gran parte inesplorato.

Questa, infatti, è solo una delle ricerche sulle funzioni dello sbadiglio e forse viene anche spontaneo a questo punto chiedersi come spiegare il “fenomeno” del contagio dello sbadiglio. Infatti, se vediamo o sentiamo qualcuno sbadigliare, difficilmente riusciamo a resistere alla tentazione di lasciarci prendere da un lungo e rumoroso sbadiglio. Ma perché? Uno studio condotto da Elisabetta Palagi e Ivan Norscia ha evidenziato che il contagio dello sbadiglio è associato al legame empatico tra le persone. Lo studio mostra che il contagio e la risposta allo sbadiglio, in termini di tempo di latenza, è direttamente proporzionale alla vicinanza affettiva; quindi è maggiore nei parenti e negli amici stretti fino ad arrivare ad una risposta quasi nulla negli sconosciuti. Il contagio sembra essere ridotto nei soggetti che presentano disturbi legati alla sfera dell’empatia.

Ma forse anche la lettura di questo articolo ha provocato in voi il desiderio di un lungo e “ristoratore” sbadiglio… e chissà, magari vi ritroverete nel paese delle meraviglie con Alice.

 

BIBLIOGRAFIA:

  • Norscia I.,Palagi E.. Yawn contagion and empathy in Homo sapiens. PLoS ONE 2011, 6(12): e28472.
  • Shoup-Knox M., Gallup A.C., Gallup G.G. & McNay E.C. (2010). Yawning and stretching predict brain temperature changes in rats: support fot the thermoregulatory hypothesis. Frontiers in evolutionary neuro science,2.
  • Gallup, A. C., & Gallup, G. G. Jr. (2008). Yawning and thermoregulation. Physiol. Behav. 95, 10–16.
  • Gallup, A. C., and Gallup, G. G. Jr. (2007). Yawning as a brain cooling mechanism: nasal breathing and forehead cooling diminish the incidence of contagious yawning. Evol. Psychol. 5, 92–101.

 

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Saggezza infantile: i benefici del pensiero positivo e l’ottimismo dei genitori

– Rassegna Stampa –

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze PsicologicheAnche i bambini sanno che pensare in modo positivo e ottimista fa stare meglio. E il grado di ottimismo dei genitori gioca un ruolo rilevante nella comprensione che i figli hanno del legame tra pensieri ed emozioni. Un nuovo studio in fase pubblicazione sulla rivista Child Development lo conferma.

Un campione di 90 bambini di età compresa tra i 5 e i 10 anni hanno ascoltato sei storie in cui due personaggi vivevano una situazione generalmente positiva (ricevere in regalo un peluche), negativa (rovesciare accidentalmente un bicchiere di latte), o ambigua (incontrare una nuova insegnante). In seguito a ciascuna esperienza, un personaggio aveva pensieri ottimisti che coloravano l’evento di una luce positiva, mentre l’altro personaggio aveva un pensiero pessimista che quindi metteva l’evento in una luce negativa: i pensieri venivano descritti esplicitamente a livello verbale.

Ai bambini è stato in seguito chiesto di prevedere le emozioni di ciascun personaggio e di cercare di spiegare le motivazioni alla base di tali emozioni. Inoltre, ai bambini e ai loro genitori sono stati somministrati questionari per misurare il loro livello di ottimismo e speranza.

Ecco i risultati: già dall’età di cinque anni i bambini sono in grado di prevedere che le persone si sentono meglio quando pensano in modo più positivo rispetto a quando sono presenti pensieri negativi. In particolare tale evidenza si è dimostrata più saliente nelle situazioni ambigue. La questione si complica invece in relazione a situazioni generalmente negative: i bambini avrebbero più difficoltà a comprendere come un pensiero positivo possa influenzare le emozioni nel vivere e nell’affrontare eventi negativi come il cadere e farsi male.

E’ in relazione a questi eventi negativi che i livelli di speranza e ottimismo del bambino e ancor di più dei genitori giocano un ruolo differenziale nella capacità di comprendere la potenzialità del pensiero positivo.

 

BIBLIOGRAFIA:

 

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L’ansia sociale rende più vulnerabili all’uso di cannabis

– Rassegna Stampa –

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

Gli individui con un elevato livello di ansia sociale sembrano essere particolarmente vulnerabili a problemi con l’uso di cannabis. Uno studio pubblicato pochi giorni fa su Journal of Anxiety Disorders ha esaminato le relazioni tra ansia sociale, craving, ansia di stato, variabili situazionali e uso di cannabis in situazioni di vita quotidiana utilizzando la modalità di assessment EMA -Ecological Momentary Assessment.

L’approccio EMA implica un campionamento ripetuto dei comportamenti degli individui nel momento presente e delle loro esperienze in real-time all’interno di situazioni di vita quotidiana. La ricerca ha coinvolto 49 individui attualmente utilizzatori di cannabis. Dai dati raccolti durante le due settimane di rilevazione EMA è emerso che l’ansia sociale interagisce significativamente con il craving e predice l’uso di cannabis.

Nello specifico individui con punteggi più elevati di ansia sociale e craving più facilmente usavano cannabis. Inoltre è stato riscontrata un’interazione tra ansia sociale, ansia di stato e situazione sociale in cui anche le persone intorno utilizzano: quando gli altri (amici o conoscenti che condividono una certa situazione) usavano cannabis, gli individui con elevati punteggi sia nell’ansia di tratto (ansia sociale) che nell’ansia di stato utilizzavano cannabis con una maggiore probabilità.

 

BIBLIOGRAFIA:

     

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