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Stimoli Erotici in uomini e donne: CULTURA VS EVOLUZIONE

CULTURA VS EVOLUZIONE: torniamo sul vecchio dibattito riguardo a cosa influisca di più nei nostri comportamenti: in questo caso nelle reazioni di fronte agli stimoli erotici.

Stimoli Erotici in uomini e donne: CULTURA vs EVOLUZIONE - Immagine: © Jeffrey Sinnock - Fotolia.com - Una delle maggiori differenze tra uomini e donne a livello comportamentale riguarda la ricerca degli stimoli erotici. Fino a qualche tempo fa questa diversità veniva spiegata invocando prevalentemente ragioni culturali. Si riteneva che fosse soprattutto per questioni di pudore che le donne non ricercassero materiale erotico o assumessero comportamenti marcatamente provocatori quanto gli uomini.

L’avvento di internet ha invece permesso di verificare questa ipotesi. Infatti, è stato possibile accertare come l’enorme differenza tra maschi e femmine nella fruizione di materiale erotico sia rimasta invariata. Si è verificato come l’86% degli uomini, contro il 14% di donne, abbia visitato per più di una volta siti erotici. La stessa differenza è stata riscontrata in modo ancor più marcato nel noleggio di video pornografici attraverso distributori automatici (Cooper, 2002).

Alla luce di questi dati non è plausibile spiegare la differenza solo in termini culturali. Allora, cosa c’è dietro? In uno studio sperimentale si è osservata l’attivazione delle aree cerebrali in soggetti maschi e femmine durante l’esposizione a tre tipi di stimoli: nudi maschili, nudi femminili e immagini neutre (Costa, Braun e Birbaumer, 2003). I maschi polarizzavano molto i loro giudizi, valutando attraenti solo i nudi femminili, mentre le femmine esprimevano giudizi meno polarizzati, stimando attraenti tanto i nudi maschili quanto, sebbene in misura inferiore, quelli femminili. Questa differenza evidenzia un interesse diverso delle donne nei confronti della fisicità e degli stimoli erotici, che porta ad un maggiore distacco emotivo per gli stessi.

Sex stereotypes - © Elnur - Fotolia.com
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La visione di immagini erotiche nei maschi, rispetto alle femmine, determina una maggiore attivazione dell’amigdala, dell’ipotalamo, e dei cosiddetti centri del piacere, responsabili della percezione di gratificazione sensoriale. Ciò spiega due fenomeni interessanti. Il primo è costituito dal fatto che gli stimoli erotici tendono a produrre una reazione a feedback positivo, cioè portano ad un’amplificazione della risposta di piacere. Quindi, chi visita siti pornografici tende a vederne sempre di più e sempre con maggior frequenza. Non è quindi vera l’opinione comune secondo cui la visione degli stimoli pornografici porterebbe a una sorta di saturazione che diminuirebbe la ricerca di rapporti sessuali. La seconda conseguenza è che la visione degli stimoli erotici, in modo simile a certe sostanze psicoattive, producono una sorta di dipendenza: stimoli sessualmente eccitanti provocano un forte rilascio di dopamina e serotonina. La maggiore attivazione cerebrale maschile è specifica per le immagini a contenuto sessuale e non è generalizzata a tutte le immagini che evocano emozioni. Sembra dunque accertato il fatto che gli stimoli erotici attivino molto più i maschi delle femmine.

 

L’interpretazione evoluzionistica.

Ma qual è la ragione che sta alla base di questo fenomeno? E per quale motivo nelle donne non si verifica tutto questo? Si potrebbe azzardare una risposta in ambito evoluzionistico. Infatti, durante la ricerca del partner uomini e donne utilizzano strategie diverse che massimizzano le probabilità di sopravvivenza e di riproduzione. Per il maschio la riproduzione può risolversi, in teoria, nel solo nell’atto sessuale non avendo costi di gravidanza e di allattamento. Ne consegue che la strategia migliore per assicurarsi una buona discendenza è quella di massimizzare il numero di rapporti sessuali con partner diversi e giovani, visto la durata biologica della fertilità femminile (Attili, 2001).

L’Inguaribile ottimismo degli uomini in fatto di sesso! - Immagine: Fotolia
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Nelle donne, al contrario, il costo biologico della riproduzione è notevolmente più elevato. Devono investire nella gravidanza e nell’allattamento, trovandosi  in una posizione di estrema vulnerabilità e dipendenza dagli altri. Quando una donna, nel passato evoluzionistico, sceglieva un maschio che successivamente l’abbandonava, oppure che non aveva abbastanza risorse per aiutarla nella gravidanza e nell’allevamento della prole, le probabilità di sopravvivenza diminuivano molto, sia per lei che per il figlio (Attili, 2004). Pertanto le donne hanno avuto maggiori probabilità di sopravvivenza quando hanno scelto selettivamente uomini che presentano un profilo comportamentale caratterizzato dalla disponibilità ad accudire e proteggere, oltre che, ovviamente, dall’effettiva capacità di farlo.

 

Non a caso uno degli stimoli che evoca maggiore preferenza da parte delle donne è tipicamente quello dove si vede un uomo che interagisce in modo amichevole e affettuoso con un bambino (Schmitt et al., 2004). In culture del mondo fra loro molto diverse le donne tendono a impostare relazioni a lungo termine con uomini più anziani di loro, perché laddove non vi è assistenza sociale la spinta a ricercare partner protettivi e maturi è chiaramente più accentuata. Infatti, i maschi disoccupati hanno minori probabilità di trovare partner a lungo termine rispetto a maschi occupati.  Le femmine non ricercano partner altamente aggressivi, tant’è che un’esagerata mascolinità si traduce in una minore percezione di bellezza.

Lovers - © George Mayer - Fotolia.com
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Maschi eccessivamente muscolosi o con la barba, che ostentano caratteristiche ipermascoline, spesso non vengono percepiti dalle donne come belli o non sono scelti, spesse volte, per poter costruire un futuro insieme, ma solo come compagnia per un breve e limitato periodo. Attraverso queste particolari scelte estetiche le donne esprimono la preferenza per partner che hanno un atteggiamento protettivo, accudente o, come si è abituati ad affermare correntemente: romantico . Nel caso in cui la scelta della donna ricadesse su persone non romantiche, comincia a muoversi in un territorio minato in cui lotta costantemente e incessantemente per cambiare la testa dell’altro. Attenzione, in questo caso è possibile incappare in una relazione ossessiva in cui l’uomo esaspera la sua natura di cacciatore e non protettore evitante e la donna per ottenere quello che vuole, ovvero un figlio, prova disperatamente e modificare la testa del partner. Si genera in questo modo un circolo vizioso che vede la sua fine nella rottura delle relazione.

 

Ma tutto questo sarà vero? Vi identificate in questa visione evoluzionistica della donna?

A voi la parola e la scelta.


BIBLIOGRAFIA:

  • Attili G. (2004),  Attaccamento e Amore, Bologna, Ii Mulino.Cooper A. (Ed., 2002), Sex And Thè Internet: A Guidebookfor Clinicians,New York, Brunner-Routledge.
  • Costa M., Braun C, Birhaumer N. (2003), Gender Differences in Responsc To Pictures of nudes: A Magnetoencephalographic Study, Biological Psychology, 63, 129-147.
  • Sabatinelli D., Flaisch T., Bradley M. M., Fitzsimmons J. R., Lang P.J. (2004), Affective picture perception: Gcnder Differenceces in Visual Cortex?, Neuroreport, 15, 1109-1112.

 

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Parents’ Words and Anxiety Disorders – Part 7

Parents’ Words and Anxiety Disorders – Part 7 – Summing up:

Parents' words and anxiety disorders part 7 - Immagine: Fotolia.com
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As we arrive at the seventh installment of this series, I feel it is appropriate to recapture the major points that have been explored thus far. First, why study anxiety disorders? Well, anxiety in adults and children is more prevalent than most people think. It also affects the lives of individuals greatly and persistently. Compared to healthy individuals, those who suffer from anxiety disorders tend to have cognitions characterized by higher levels of threat interpretation. We know that anxiety disorders run in families and that parents exhibit stereotypical behavior in the context of anxiety.

Furthermore, compared to children’s behavior prior to conversations with their parents, anxious children display more avoidant behavior following them. Complimenting these findings, a series of experimental studies have shown that the use of negative words can induce avoidance in children in both non-social and social situations. This line of reasoning has leaded us to investigate whether anxiety affects parental word choice during discussions with their children.

So can maternal trauma and/or anxiety affect the way that parents speak? The answer appears to be yes. Mothers who have experienced emotional and physical trauma have difficulty encouraging their children to explore their own emotions. Regarding anxiety, it appears that the mothers of anxious children speak less, and are less positive and more discouraging during emotional discussions. This also appears to be true for fathers of anxious children.

So what can we do to correct distortions in cognitive style?

One way proven to alter individuals’ cognitions is video feedback therapy. Over the next few installments of this series, I will be discussing the therapeutic benefits of video feedback therapy in various populations. These populations include families with adopted children, parents with eating disorders, and children with behavioral problems. I will conclude this series by discussing the possible benefits of video for parent-child conversations.


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Chi è insicuro non chiede scusa.

– Rassegna Stampa –

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze PsicologichePerchè alcune persone chiedono facilmente scusa e altre no? Quali tratti della loro personalità sono legati a questa propensione? Una ricerca apparsa su Scientific American si è occupata proprio di questo. Lo psicologo Andrew Howell e i suoi colleghi della Grant MacEwan University di Edmonton hanno elaborato un questionario per misurare la propensione a dire “mi dispiace” dei partecipanti allo studio e hanno poi incrociato i punteggi ottenuti con i risultati relativi alla valutazione della personalità.

Come previsto dai ricercatori, chi è compassionevole e accondiscendente è più propenso alle scuse di chi non lo è. L’esperimento però ha dato anche risultati inaspettati: chi ha una bassa autostima, per esempio, è meno incline a chiedere scusa di chi ha invece una buona autostima e si sente sicuro di sè.

Sembra infatti che chi ha una bassa autostima dopo un conflitto provi più facilmente vergogna e dispiacere per sé stesso, più che colpa e dispiacere per la persona che ha offeso. Anche chi possiede tratti narcisistici, che tradizionalmente compensano bassa autostima e sentimenti di profonda vergogna, sembra essere eccessivamente egocentrico e troppo assorbito da sé per chieder scusa all’altro. Un altro risultato che ha sorpreso i ricercatori è quello relativo alla scarsa propensione a dire mi dispiace in chi ha un forte senso della giustizia; sembra infatti che la filosofia dell’ “occhio per occhio e dente per dente” sia incompatibile con il sincero pentimento: riconciliarsi può anche mettere fine a un conflitto ma non per questo riuscire a fare giustizia! (it may end a conflict, but it cannot always settle a score)

 

BIBLIOGRAFIA:

  • Andrew J. Howell, Raelyne L. Dopko, Jessica B. Turowski, Karen Buro, “The disposition to apologize“, Department of Psychology, Grant MacEwan University, Edmonton, Alberta, Canada T5J 4S2

PSICO-ECONOMIA – Stress Finanziario e Finanza Comportamentale

– Rassegna Stampa – PSICOECONOMIA (Realizzata in Collaborazione con Ifanews.it)

State of Mind: Rassegna Stampa - Finanza Comportamentale - Immagine: © tiero - Fotolia.com

Learning by doing – Consulenti, gli effetti negativi dello stress finanziario sulla famiglia e sul lavoro

[Scritto per Ifanews.it da Gianluca D’Aronzo, formatore comportamentale e coach per professionisti della finanza]

Sarà la mia passione per i numeri, ma a volte pare che qualcuno guidi il mio indice destro facendomi cliccare su dati che, come per magia, si cercano e si ritrovano in configurazioni che lasciano ampi spazi di riflessione. Eccone alcuni:

• Quando nascono problemi finanziari, i loro effetti emergono in primis sul posto di lavoro. (Keller & Nolf)

• Una ricerca su un significativo campione di dipendenti, dimostra che il 40% di essi attribuisce il calo di produttività allo stress legato a problemi di finanza personale. (Garman, Leech & Grable)

• Lo stress finanziario è la causa numero uno della bassa produttività dei dipendenti, del loro basso morale ed incide fino al 70% di tutti i costi sostenuti per cure mediche. (Glenn Carnathan – USA Today)

• I lavoratori trascorrono oltre 20 ore di lavoro al mese pensando a problemi di danaro. (Dr. Thomas Garman)

• L’indebitamento medio delle famiglie italiane a fine 2010 è pari a 19.000 Euro (+20% nell’ultimo anno); è riconducibile a mutui, prestiti, credito al consumo e finanziamenti per la restrutturazione di beni immobili (Cgia – Mestre). Negli Usa è pari a 45.000 $ per famiglia (Money Consumer Reports Book)

Per non parlare poi dell’impatto che lo stress finanziario produce all’interno della famiglia… CONTINUA A LEGGERE SU IFANEWS.it

 

Le Distorsioni Cognitive dei Mercati

[Scritto per Bluerating.com da Biagio Campo]

Cognitivismo ed Economia - John Stuart Mill - Licenza d'uso: Creative Commons - Owner: http://www.flickr.com/photos/oxfordshire_church_photos/
Articolo Consigliato: "Cognitivismo ed Economia"

L’incapacità di spiegare il funzionamento dei mercati finanziari e delle scelte degli investitori ha portato negli ultimi anni “a rivedere vari aspetti della scienza economica secondo una nuova ottica, in cui il fattore psicologico degli operatori ha un ruolo nuovo e molto più importante”. In quest’ottica osserviamo la crescente affermazione della finanza comportamentale che in sintesi “può essere definitiva come la scienza che studia il funzionamento dei mercati e il comportamento degli operatori utilizzando conoscenze e strumenti propri delle scienze umane, per avere una visione il più realistica possibile del complesso mondo finanziario”; la finanza comportamentale “contiene maggiore novità nel metodo di studio piuttosto che nel contenuto”.

 

Il primo “lavoro importante sul tema è l’opera di H. Simon A Behavioral Model of Rational Choice del 1955, sul modello comportamentale di scelta razionale, ma il vero grande precursore della materia è lo psicologo P. Slovic”… CONTINUA A LEGGERE SU BLUERATING

 


La lotta all’AIDS non è più cool. Ma se non lo conosci non lo eviti.

-1 Dicembre: GIORNATA MONDIALE CONTRO L’ AIDS –

Se lo conosci, lo eviti, ricordate questo motto? Da tempo è di uso comune, percolato nella lingua di tutti i giorni, tutti lo utilizzano nei contesti più disparati, ma molti hanno anche dimenticato a chi era inizialmente riferito. AIDS: se lo conosci, lo eviti!

Giornata Mondiale contro l'AIDS - HIV RibbonQuesta mattina, leggendo un quotidiano, mi ha colpito un articolo: “AIDS, la guerra dimenticata dalle istituzioni. Troppi giovani non sanno cos’è l’HIV”. A vent’anni dalle ultime grandi campagne di informazione, oggi poco si fa per la prevenzione. Un malato su 4 non sa di esserlo. Ma quello che principalmente mi turba è che i giovani ne sanno pochissimo. Come mai? Quando ero adolescente, ricordo, la televisione ci bombardava di pubblicità progresso, in particolare ce n’era una sull’AIDS dalla musica inquietante, bastava ascoltare la prima nota e già si era terrorizzati, indicatore di dover stare attenti a questa brutta malattia. Ora, invece, il nulla! Certo passare dal TERRORE al SILENZIO è un grosso salto nel vuoto. Prova ne sia, facendo un giro al centro di Milano non c’è nessuno che ne parli , nessun gazebo, nessun ragazzo che prova a fermarti, NESSUNO! Anzi, qualcuno in giro c’è ma si tratta di Greenpeace. Allora, perché Greenpeace è presente e la lega italiana per la lotta contro l’AIDS no. Eppure siamo a Milano, città mondana e nevralgica, nel giorno indetto alla lotta contro questa malttia!

Tutto questo buio sceso sull’infezione da HIV contribuisce a sostenere l’idea terribilmente sbagliata che l’AIDS sia ormai solo un problema dei paesi del terzo mondo, e quindi distante da noi. Sbagliatissimo! In realtà assistiamo a una diminuzione delle morti per AIDS e al contestuale aumento del numero di persone sieropositive. Un sieropositivo su 4 non sa di esserlo, finché la malattia si manifesta con virulenza, allora è troppo tardi per limitare i danni. Il contagio è in aumento. Perché si è abbassata la guardia?

Per rispondere a questa domanda è necessario fare un salto cronologico, visto l’ incremento di malattia tra gli adolescenti. Questi ultimi considerano le precauzioni nei rapporti un optional, ” …tanto ci sono i farmaci!”. Ma come, anziché fare dai passi aventi si è tornati in dietro di decenni? I farmaci: migliorano la qualità della vita, ma non guariscono dalla malattia.

Tutto questo implica la necessità di potenziare gli interventi preventivi mirati ai diversi gruppi di popolazione, autoctoni e non, tutti in egual modo soggetti a infettarsi in assenza di comportamenti sicuri. Parallelamente assistiamo a un aumento della domanda da parte delle persone con HIV di consulenze, sostegno psicologico e psicoterapia, sia per problemi di adattamento alla malattia, che per qualunque altro disturbo mentale.

Oggi, come è noto, una diagnosi di infezione da HIV non rappresenta più una condanna a morte come invece accadeva nei primi anni dell’epidemia. Grazie all’introduzione e alla diffusione nei paesi sviluppati dei nuovi trattamenti farmacologici, dimostratisi sempre più efficaci, assistiamo a una considerevole riduzione di morbilità e mortalità tra le persone sieropositive e alla trasformazione dell’infezione in una malattia cronica. Questo, tuttavia, non vuol dire che si siano parallelamente risolti i problemi di chi con questo virus deve convivere.

Infatti, proprio in quanto malattia cronica, essa richiede controlli periodici e trattamento farmacologico proiettati a lungo termine e, di conseguenza, una serie di compiti adattativi per il paziente con i quali è difficile confrontarsi e da cui possono derivare uno stress notevole e dei disturbi psicologici di gravità variabile.

I nodi che generalmente si affrontano nell’intervento psicologico clinico riguardano l’accettazione della malattia, della nuova condizione e l’adattamento alla convivenza con il virus, la rivelazione della sieropositività ad altri significativi, l’adozione di comportamenti sicuri nei riguardi di sé e degli altri (Spizzichino, 2008).

L’adattamento, in ogni caso, non è una conquista stabile a causa della natura intrinsecamente evolutiva dell’infezione da HIV: si pensi, infatti, allo stress dei controlli clinici e laboratoristici per monitorarne la progressione, alla comparsa di una qualsivoglia sintomatologia, alla necessità di iniziare il trattamento farmacologico.

Per questi pazienti si potrebbe parlare di sindrome di Prometeo, dal nome del titano che Zeus fece incatenare alla cima più alta del Caucaso. Essa è caratterizzata da senso di sradicamento, vissuto di perdita, isolamento, impotenza, perdita di fiducia nel futuro nonostante l’aspettativa di sopravvivenza, ansia, tristezza, depressione. Si sentono incatenati, impossibilitati a far ritorno nel paese di origine, pena l’interruzione del trattamento salvifico. Continuando a seguire il filo del mito, il riferimento a Prometeo assume un significato ulteriore poiché egli venne posto in quella dolorosa situazione senza speranza – Zeus giurò che non lo avrebbe mai liberato – per punirlo di aver ridato il fuoco agli uomini. E il tema della punizione ricorre spesso nel lavoro clinico con le persone con HIV, che sentono la malattia come una punizione di Dio per una “cattiva” condotta, per i comportamenti rischiosi o incoscienti avuti.

E tu, cosa sai dell’HIV?

 

 

BIBLIOGRAFIA:

  • Giuliano, M., & Vella, S. (2007). Inequalities in health: access to treatment for HIV/AIDS. Annali dell’Istituto Superiore di Sanità, 43 (4), 313-6. Retrieved June 22, 2009
  • Nachega, J.B., Hislop, M., Dowdy, D.W., Chaisson, R.E., Regensberg, L., & Maartens, G. (2007). Adherence to no nucleoside reverse transcriptase inhibitor–based HIV therapy and virologic outcomes. Annals of Internal Medicine, 146 (8), 564-73.
  • Spizzichino L. (2008). Counselling e psicoterapia nell’infezione da HIV. Dall’intervento preventivo al sostegno psicologico. Roma: Franco Angeli.
  • World Health Organization/UNAIDS/UNICEF (2007). Towards universal access. Scaling up priorities HIV/AIDS interventions in the health sector. Progress Report, April 2007. Geneva, Switzerland: World Health Organization. Retrieved June 22, 2009, from http://data.unaids.org/pub/Report/2007/20070925_oms_progress_report_en.pdf

 

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Tecniche terapeutiche: la bacchetta magica

La Bacchetta Magica in psicoterapia: aggirare una resistenza dialettica.

Tecniche terapeutiche: la bacchetta magica - Immagine: © Ekler - Fotolia.com La scuola di psicoterapia è un percorso particolare, diviso fra il piacere di condividere un’atmosfera formativa, di complicità umana fra gli allievi, e la gestione delle proprie aspettative, dei propri timori circa una professione che attende a poca distanza e può tuttavia sembrare lontana.

Queste rappresentazioni, che ogni allievo declina in modo peculiare e che rispecchiano tratti significativi della sua personalità, si riferiscono in particolare alle grandi domande ‘saprò essere un buon terapeuta?’, ‘come si fa il terapeuta?’, e la ricerca di una risposta si svolge su più fronti: lo studio della teoria, gli insegnamenti che si possono attingere dall’esperienza dei didatti, la riflessione sui protocolli che ognuno sente più vicini alla propria maniera di intendere la terapia.

Vi è dapprima la necessità di individuare regole solide, di legarsi a tecniche terapeutiche che strutturino senza incertezze la pratica clinica, e solo in seguito ogni allievo impara gradualmente a maneggiare con flessibilità tali tecniche, ad incastrarle in un mosaico che tenga in considerazione le caratteristiche particolari del paziente, la sua modalità di relazionarsi, il funzionamento cognitivo e metacognitivo che ci mostra.

LA BACCHETTA MAGICA

Coloro i quali hanno avuto come insegnante Piefrancesco Vinai non possono aver dimenticato la celebre tecnica della bacchetta magica, da lui utilizzata con sobria maestria. Il mio desiderio di capire cosa avvenisse in uno studio di psicoterapia allorché il lavoro veniva condotto da un professionista esperto, trovava risposte intriganti quando Vinai scioglieva nodi complessi chiedendo al paziente ‘cosa farebbe se avesse la bacchetta magica?‘. Inizialmente rimanevo sorpreso, condizionato forse dal mio pezzettino individuale di immaginario collettivo secondo il quale la psicoterapia, da molti non addetti ai lavori ancora associata alla psicoanalisi e non a caso, vive di interpretazioni enigmatiche che sfuggono ai più.

Vinai poneva al paziente una domanda che appariva facilmente aggirabile, ma aveva intuito che nel racconto appena ascoltato ‘qualcosa non tornava’, per usare un’altra sua espressione ricorrente. Aspetti di fondo o piccoli dettagli che in quel preciso contesto, in relazione alle altre informazioni disponibili risuonavano incoerenti: era in quegli angoli della terapia che andava a distendersi la bacchetta magica.

Una moglie che non lascia il marito perché non riuscirebbe a mantenersi, un uomo che non confida le proprie sofferenze ai familiari per non farli preoccupare, e molte altre scene cliniche analizzate a lezione: denominatore comune, la rinuncia ad interpretazioni che escludano il contributo reale del paziente. Al contrario, lasciando a quest’ultimo il compito di svelare il proprio vissuto emotivo nei termini in cui di fatto lo percepisce, creando un contesto comunicativo sospeso nel quale non si parla di ciò che bisogna fare ad ogni costo ma di ciò che sarebbe bello fare se alcune condizioni psicologiche o ambientali fossero diverse, si può aprire uno scenario alternativo. La possibilità di rappresentare unicamente nel proprio immaginario un cambiamento sentito come pericoloso rassicura il paziente; compito del clinico sarà imboccare efficacemente la strada aperta dalla bacchetta magica, partendo dalla caduta di una resistenza prima di tutto dialettica.

Alcune domande semplici e dirette costituiscono uno strumento fondamentale per la terapia cognitiva specie quando, pur mantenendo la loro forza penetrativa, si dimostrano gestibili per il paziente. La bacchetta magica ne è un esempio perfetto e nella pratica clinica non è difficile sperimentare la sua validità, ricevendo risposte che diradano la fitta boscaglia di alcuni passaggi faticosi. Il suo utilizzo è semplice poiché non espone il paziente al pericolo di una consapevolezza indotta dal terapeuta attraverso l’autorità del ruolo; ciò che può distinguere il clinico esperto dai colleghi più giovani è semmai la capacità di riconoscere gli scambi comunicativi nei quali il ricorso a quella domanda può risultare più fertile: si definisce esperienza. Godiamoci l’apprendimento!

Sistema immunitario: Se il corpo è malato, la mente vigila!

L’attivazione del sistema immunitario influenza la percezione degli stimoli esterni potenzialmente dannosi.

Sistema immunitario - Immagine: © DPix Center - Fotolia.comInteressanti i risultati di un recente studio pubblicato su Psychological Science, condotto dai ricercatori dell’Università del Kentucky di Lexington e coordinati da Saul Miller, secondo i quali chi è stato recentemente ammalato farebbe particolare attenzione agli agenti esterni che potrebbero mettere nuovamente a rischio la propria salute. Sembrerebbe che l’attivazione del sistema immunitario di difesa, appena sollecitato da una malattia, in un qualche modo influenzi il comportamento dell’individuo inducendolo a prestare maggior attenzione agli stimoli esterni potenzialmente pericolosi per la salute.

Il disegno di ricerca prevedeva che tutti i partecipanti allo studio compilassero alcuni questionari che, tra le altre domande, indagavano se nei giorni precedenti erano stati ammalati e raccoglievano le loro credenze rispetto alla malattia.

I ricercatori hanno poi condotto due esperimenti: nel primo esperimento venivanopresentati in sequenza 80 volti, alcuni dei quali erano di persone sane altre di persone visibilmente malate (ad esempio visi sfigurati da eruzioni cutanee o intenti a starnutire) . Ai partecipanti veniva chiesto di osservare il volto e, quando scompariva dallo schermo, di associare ad esso la forma di una figura geometrica, quadrato o cerchio, premendo un tasto il più velocemente possibile. I risultati indicano che chi era stata malato da poco tempo registrava maggiori tempi di latenza nelle risposte relative a volti malati, dimostrando quindi di prestare particolare attenzione a questo tipo di stimoli; i tempi di risposta degli altri partecipanti all’esperimento erano invece sovrapponibili per entrambi i tipi di stimolo proposto.

Nel secondo esercizio i partecipanti dovevano, tramite un joystick, individuare i volti normali ed eliminare quelli malati. Anche in questo caso non sono emerse differenze significative nei soggetti “sani”, mentre chi era reduce da una malattia risultava più sensibile ai visi “malati”, riuscendo a scartarli più rapidamente.

Secondo Miller, una delle implicazioni di questo studio potrebbe dipendere dal fatto che quando si è malati si hanno maggiori pregiudizi rispetto alle persone tipicamente portatori di un disagio, anche quando questi non sono effettivamente una possibile fonte di contagio. Di fatto, dopo una malattia, il nostro modo di proteggerci è quello di stare alla larga da chi potenzialmente potrebbe rimetterci a letto con il termometro e la borsa dell’acqua calda! Il rischio nascosto sarà forse quello dell’ipercontrollo?

 

BIBLIOGRAFIA:

Farmaci antipsicotici: nuove evidenze per capirne il funzionamento.


Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze PsicologicheFino ad ora non si conosceva nello specifico il meccanismo molecolare attraverso cui gli attuali trattamenti farmacologici per la schizofrenia ottenessero i loro attesi effetti antipsicotici.

Un team multidisciplinare di ricercatori afferenti al Mount Sinai School of Medicine, Virginia Commonwealth University e University of Maryland School of Pharmacy ha recentemente identificato il pattern di segnali cellulari indotti da farmaci antipsicotici in uno specifico complesso di due recettori associati alla schizofrenia.

Lo studio ha analizzato gli effetti dei farmaci antipsicotici su due recettori associati alla schizofrenia: il recettore per il glutammato mGlu2 e il recettore per la serotonina 5-HT2A. I ricercatori hanno dimostrato che i farmaci antipsicotici aumentano significativamente il livello di attività nei recettori del glutammato e diminuiscono il livello di attività dei recettori della serotonina; utilizzando invece farmaci allucinogeni, per indurre uno dei principali sintomi della schizofrenia, si verificava invece l’effetto opposto. Anche se il rapporto ideale rimane ancora sconosciuto, negli individui sani vi sarebbero livello maggiori di attività nel recettore per il glutammato e livelli di attività minori nel recettore per la serotonina, mentre nei soggetti con diagnosi di schizofrenia tale relazione sarebbe inversa.

I passi successivi in termini di ricerca prevedono quindi lo studio e la sperimentazione di trattamenti che consentano di raggiungere il bilanciamento ottimale nell’attivazione dei due recettori in questione, e cioè nel complesso dei recettori glutammato-serotoninergici. I risultati sono stati pubblicati sul numero del 23 novembre di Cell.

LINK: Researchers Discover Clues to Developing More Effective Antipsychotic Drugs

 

I comportamenti aggressivi dei bambini: ma è sempre colpa dei genitori? – parte 2

Il secondo articolo della serie dedicata allo studio dei comportamenti aggressivi dei bambini in relazione allo stile genitoriale applicato.

I comportamenti aggressivi dei bambini: ma è sempre colpa dei genitori? PARTE 2 - Immagine: © olly - Fotolia.comIn questa seconda parte vedremo in che modo e perché lo stile genitoriale influisce direttamente sul comportamento aggressivo dei figli. Anche se il luogo comune “E’ sempre colpa dei genitori” è effettivamente limitativo e i fattori in gioco nella crescita di un figlio sono tanti, non si può ignorare che i genitori svolgano, indipendentemente dalle altre variabili, un ruolo determinante nello sviluppo cognitivo, emotivo e sociale del bambino.

Un recente studio pubblicato sulla rivista Child Development dimostra proprio questo: 260 diadi madre-bambino sono state osservate dalla nascita del bambino fino alla prima elementare. Dal primo mese di vita fino ai tre anni, le misure di valutazione includevano l’osservazione diretta della diade da parte di uno psicologo accompagnate ai resoconti della madre; successivamente, i ricercatori hanno osservato e codificato i comportamenti delle madri in situazioni create ad hoc, come ad esempio il dare un compito che mettesse in difficoltà il bambino e che richiedesse l’aiuto della madre; durante il primo anno di scuola, infine, i comportamenti dei bambini venivano rilevati in classe dalle insegnanti e a casa dai genitori.

I Comportamenti aggressivi dei bambini - Immagine: © Pixlmaker - Fotolia.com
Articolo consigliato: "I comportamenti aggressivi dei bambini - PARTE 1"

I risultati dello studio parlano chiaro: ciò che conta nell’insorgenza di problematiche comportamentali aggressive, più del temperamento del bambino o dell’ambiente esterno, è lo stile genitoriale negativo. Nello specifico, quando il genitore esprime emozioni negative dirette al proprio figlio e quando vi siano presenti conflitti tra la mamma e il bambino, si creerebbe un circolo vizioso in cui la negatività della madre suscita alti livelli di rabbia, nervosismo e ostilità nel piccolo, il quale a sua volta, così facendo, stimola più ostilità nella madre stessa. I bambini, con il passare del tempo, diventerebbero incapaci di regolare le proprie emozioni negative quando queste si manifestano nel gruppo dei pari, portando quindi all’insorgenza del comportamento aggressivo.

Connesso a questa problematica è lo stile genitoriale autoritario, caratterizzato da bassa responsività ai bisogni del bambino, poco calore nella relazione parentale ed elevato controllo coercitivo, espresso attraverso punizioni anche fisiche, ostilità verbale e mancanza di spiegazioni date ai figli relativamente ai comportamenti sbagliati che hanno portato alla punizione.

Tale modalità nel relazionarsi favorirebbe l’insorgenza di comportamenti oppositivi e aggressivi per svariati motivi: prima di tutto per un basico meccanismo di apprendimento, in cui il bambino utilizza la disciplina imparata dal genitore anche con il gruppo dei pari. In secondo luogo, vi è il motivo menzionato sopra, ovvero un’emotività negativa e ostile nei confronti del figlio che non fa altro che suscitare nel bambino stesso emozioni altrettanto negative, e quindi lo renderebbe meno capace di focalizzarsi su altri modi di risolvere i problemi e di programmare attività diverse. E quando queste capacità sono sotto-stimolate, diventano presto anche sotto-sviluppate.

Questi dati devono farci riflettere a livello clinico, sia per orientare l’intervento il più precocemente possibile, addirittura nei primi mesi di vita del bambino, sia per sottolineare ancora una volta come il lavoro vada pensato prima di tutto rivolto ai genitori e alla famiglia.

La prossima settimana vedremo come si può lavorare su problematiche comportamentali di questo tipo, sia a livello genitoriale sia scolastico.

 

 

BIBLIOGRAFIA:

 

 

CRITICHE? CONSIGLI? DOMANDE? IDEE? LASCIACI LA TUA OPINIONE!

E vissero “per un certo periodo di tempo” felici e contenti: la fine della relazione.


La fine della relazione sentimentale e le sue conseguenze per la psiche e la percezione che abbiamo di noi stessi.

Separazione - Immagine: © Athanasia Nomikou - Fotolia.com -

All’interno di una relazione di coppia, il concetto che ognuno ha di sé, è necessariamente influenzato dalla presenza dell’altro nella propria vita. Quando si è coinvolti in un rapporto d’amore, la vita si coniuga in prima persona plurale: il noi diventa l’imperativo che commuta l’io in una pluralità capace di dissolvere il confine tra il sé e l’altro. Conseguentemente, la condivisione diventa la regola e i partner si spartiscono amici, attività, piaceri e interessi, costruendo, in tal modo, idee condivise su sé stessi, l’altro e la loro relazione.

Ma cosa accade ai due nel momento in cui la relazione finisce?

Molte persone tendono ad assumersi tutta la responsabilità della rottura, criticando se stessi e colpevolizzando i propri atteggiamenti, altre invece, reagiscono al dolore con rabbia, accusando l’altro di tutto e infangando la memoria di una relazione che, nonostante l’epilogo, avrà indubbiamente avuto anche aspetti positivi.

La perdita della figura amata comporta numerose conseguenze psicologiche, tra cui la tendenza a cambiare il contenuto della propria visione di sé stessi (Slotter et al, 2010); sembrerebbe, in altri termini, che molte persone soffrano non solo per aver perso l’altro, ma anche per aver perso un po’ di sé.

La sofferenza spinge alcuni individui a chiudersi in sé stessi e il pensiero che mai più si potrà vivere una relazione del genere o trovare una persona speciale come quella perduta, spiana la strada verso la depressione. Analogamente, si muovono nella stessa direzione, anche coloro che fingono di non soffrire e raccontano a loro stessi che in fin dei conti, quella persona non era così importante o così rara come pensavano. In sintesi, le più comuni risposte psicologiche conseguenti alla fine di un rapporto sembrano essere: paura, disprezzo, rabbia, senso di vuoto, rancore, timore del rifiuto, autocommiserazione e riduzione dell’autostima.

Quindi come affrontare in modo “sano” la rottura di una relazione?

Innanzitutto non bisogna mai pensare che una relazione terminata, corrisponda a “tempo perso”. Un popolare proverbio francese sostiene che il tempo può distruggere solamente ciò che si è costruito senza tempo, dunque più le relazioni sono state durature e importanti, più consentono a chi le ha vissute, di crescere, arricchirsi ed evolversi, diventando parte indissolubile del proprio essere. Le relazioni permettono agli individui di scoprire parti di loro stessi che non conoscevano prima, di comprendere cosa si vuole ritrovare in un nuovo rapporto e che cosa ci si augura di non ripetere.

In secondo luogo, per superare una rottura, è necessario prendersi cura di sé stessi, soffermandosi su ciò che si vuole nel “qui e ora”, in modo tale da poter vivere appieno il presente, lasciando aperto il cuore al futuro e a progetti di vita prima non realizzati.

Dunque, rimuginare sulla causa della rottura, al fine di trovare necessariamente un colpevole, conduce, solo a una riduzione della chiarezza del concetto di sé. Le relazioni, di qualunque natura esse siano, sono frutto di una co-costruzione, di conseguenza, un’eventuale rottura, è ineluttabilmente dettata dalla co-responsabilità di entrambi i membri della coppia.

Tuttavia, lo stress emozionale che gli individui sperimentano in seguito alla rottura di un rapporto, il più delle volte, non permette di ragionare con tanta lucidità, se non altro, non nell’immediato. Sarà allora vero che il tempo è l’unica soluzione? Baudelaire suggerisce che il solo modo di dimenticare il tempo è impiegarlo e dunque impieghiamolo questo tempo, ma in maniera propizia e senza esagerare, si rischia altrimenti di rimanere imprigionati in un loop maniacale!

 

 

BIBLIOGRAFIA:

  • Slotter, E.B.; Gardner, W.L.; Finkel, E.J. (2010). Who Am I Without You?  The Influence of Romantic Breakup on the Self-Concept. Personality and Social Psychology Bulletin, 2010; 36 (2).
  • Bergmann S.M. (1992). “Anatomia dell’ amore” . Einaudi, Torino, 1992.

 

CRITICHE? CONSIGLI? DOMANDE? IDEE? LASCIACI LA TUA OPINIONE!

A 50 anni il picco di competitività.

– Rassegna Stampa –

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze PsicologicheSembrerebbe che la nostra inclinazione a rivaleggiare con gli altri e la competitività, al posto di scemare con l’età aumenti nel corso della vita arrivando al proprio culmine intorno intorno ai 50 anni. Il senso comune, cosi come alcune evidenze scientifiche, portavano a speculare proprio sul contrario, dalla riduzione del testosterone, alla maggiore predisposizione a comportamenti prosociali, fino a una minore fiducia nelle proprie abilità cognitive con l’aumentare dell’età.

Uno studio pubblicato in questi giorno da Psychology and Aging ha chiesto a circa cinquecento partecipanti, di età compresa tra i 25 e i 75 anni di risolvere mentalmente equazioni matematiche il più velocemente possibile, in modo da poter accumulare punti che poi si traducevano in premi monetari. Dopo una serie di rounds di questo tipo, nell’ultima prova i partecipanti potevano scegliere se continuare a competere con sè stessi oppure gareggiare contro uno sfidante. Mentre non si sono riscontrate differenze significative nella qualità delle performance, è’ risultato un significativo effetto dell’età: quasi il 70% dei soggetti di età compresa tra 45 e54 anni hanno scelto di competere con uno sfidante, contro il 50% di coloro che avevano un’età tra i 25 e i 34 anni. Gli autori speculano che una potenziale spiegazione di questo effetto potrebbe essere legata all’incremento dei punteggi di “dominanza sociale” proprio intorno ai 50 anni: approcciare in modo vincente alle competizioni sarebbe cruciale per stabilire la dominanza sociale, e si spiegherebbe quindi gusto della competizione per gli individui di mezza età.

Un limite della ricerca si riscontra nella tipologia di studio effettuando trattandosi di uno studio cross-sezionale.Chi ci dice infatti che le differenze significative tra giovani e vecchi testati nell’anno 2011 non siano in realtà effetto dell’età in sé, quanto piuttosto un effetto legato alla nostra evoluzione culturale e al passaggio da generazioni differenti vissute in contesti socio-politico-culturali profondamente diversi?

E Voi quanto siete competitivi? E in quale ambito della vostra vita affiora di più il desiderio di primeggiare?

 

BIBLIOGRAFIA:

Psicopatologia del tradimento in amore.

L’infedeltà nell’amore: dalle origini alla psicopatologia del tradimento.

Il tradimento: dalle origini alla Psicopatologia - Immagine: © hultimus - Fotolia.com Una vecchia canzone recitava: “Quasi, quasi lo farei … Quasi, quasi dimmelo… quasi, quasi ti ho tradito e mi sono divertito.. “. Ma sarà vero o il tradimento miete morti e feriti?

Molte persone intraprendono una psicoterapia in seguito ad un tradimento, sia che l’abbiano subito, perché per loro è un trauma sia che l’abbiano agito, poiché di solito ne segue una crisi coniugale e di conseguenza individuale, sia che siano stati l’oggetto del tradimento, perché perseguono un rapporto inesistente. L’80% dei tradimenti vengono scoperti, ma nel 70% dei casi le coppie ufficiali sopravvivono all’intrusione di una terza persona e non si separano, a causa della dipendenza affettiva (De Bac, 2006).

Il tradimento è un uragano che sradica tutto ciò che si è costruito, portando con sé un senso di morte, lacera quelle vite di coppia che hanno un urgente bisogno di un radicale rinnovamento, pena il lento decadimento affettivo dell’unione e dei singoli individui.

Persino Cristo è stato tradito dai suoi amici, Pietro prima e Giuda poi. Da questo episodio deriva l’attuale connotazione negativa del termine “tradire”. Infatti, nella lingua latina esso aveva tutt’altro senso, significava “consegnare”, “svelare”, “insegnare”, “trasmettere ai posteri”. Prima del cristianesimo, il “traditore” era colui che compiva un passaggio di informazioni importanti. Andando indietro nel tempo, tutto l’Antico Testamento è disseminato di tradimenti, Caino e Abele, Giacobbe ed Esaù, Labano, Giuseppe venduto dai fratelli, le promesse mancate dal faraone, l’adorazione del vitello d’oro alle spalle di Mosè, Saul, Sansone, Giobbe, le ire di Dio verso il suo popolo: il diluvio universale… insomma, Israele, si sa, è stata una sposa infedele ma Dio, tuttavia, non ha mai cessato di cercarla e di amarla in modo straordinario e unico (Hillman 1967).

Nella cultura greca, il tradimento era un evento molto frequente, ma vissuto con una certa leggerezza e spesso non giudicato come “peccato”, sembrava una cosa naturale, umana e possibile.

La coppia regale Zeus ed Era, era senza dubbio quella più tormentata dal tradimento. In questo famoso matrimonio le numerose scappatelle del marito suscitavano le ire della consorte, ma senza mettere mai in discussione il rapporto. Malgrado tutto, né Zeus né Era hanno rinunciato mai l’uno all’altra, perché legati da un vincolo d’amore potente e indissolubile.

In questo viaggio a ritroso alle radici del tradimento ci imbattiamo inevitabilmente nel tradimento originario, quello di Adamo ed Eva verso Dio. Il serpente edenico, instillando la curiosità, indusse Adamo ed Eva a cedere alla tentazione di mangiare il frutto dell’albero della conoscenza, perdendo così i benefici di un mondo incantato, senza problemi, senza dolore, né sofferenza, né morte. Quindi, violando la fiducia di Dio, il tradimento come un uragano sradica tutto ciò che avevano costruito, portando con sé un senso di perdita e di peccato che anche oggi attanaglia la felicità delle coppie dei nostri giorni.

All’inizio della relazione clandestina c’è una sorta di regressione ‘adolescenziale’. Lo schema sentimentale ricorda appunto quell’età caratterizzata da amori fortemente passionali accompagnati da un turbinio d’emozioni. A differenza di quegli amori, questa volta ci saranno conseguenze imprevedibili, che si tende a sottovalutare e sorvolare, si preferisce non vedere. Il tradimento mantiene sempre la relazione “tre metri sopra il cielo”, perché  non presenta  litigi, quotidianità e preoccupazioni tipiche del  matrimonio o della convivenza.

Perché si tradisce? Forse, per cercare un altro al di fuori dall’ equilibrio familiare, o per sfuggire alla tristezza, all’insoddisfazione, alla mancanza di gratitudine, ad emozioni che rimandano un senso di inutilità, di poca desiderabilità, di solitudine, di costrizione. In questo modo, non essendo liberi di esprimersi, di sentirsi se stessi, prevale la paura, l’ansia in cui, purtroppo, si perde anche la stima, l’amore e la dignità dell’altro. Il traditore è spesso privo di capacità di fondare la propria esistenza intorno ad un proprio centro interiore e ha la compulsione a riempire i vuoti con punti di riferimento esterni, col partner prima e, quando questo non corrisponde più ai suoi bisogni, con altri partner, oppure con il lavoro, con sostanze, con il gioco, con l’alcool, in una fuga continua da sé stesso. E’ una persona che non appartiene a nulla e nulla mai gli apparterrà totalmente, se non l’inutilità e il vuoto del suo essere evanescente. Quindi, mentre il traditore nega e scappa, perché non riesce a stare in ascolto di sé, il tradito pretende e attanaglia l’altro a causa della sua insicurezza e, d’altra parte, l’amante rincorre e sogna il mondo che non c’è. Nessuno dei tre, in definitiva, è presente a sé stesso e nessuno è in grado di rimanere da solo, di fare i conti con la propria incapacità di bastare a se stesso.

Ciò che è importante imparare dalle nostre vite è la certezza di poter attraversare anche la solitudine. Quando questa fiducia interiore viene meno, il tradimento è in agguato. La nostra psiche è la natura stessa, è una sua scintilla, è colei che crea e nutre, ma sa essere anche potentemente violenta, se necessario, e spesso, è costretta ad esserlo per salvarci dal peggio.

L’individualità richiede il coraggio di essere soli e di opporsi a un mondo che tradisce e banalizza (Carotenuto 1991).

 

BIBLIOGRAFIA:

  • Aldo Carotenuto (2000), Amare tradire, Bompiani Editore
  • De Bac Margherita (2006), Fedeli solo tre coppie su dieci, ED mondadori
  • Gemma Gaetani (2010). Elogio al tradimento, Vallecchi sezione avamposti
  • Hillman James (1967), Saggio sul Tradimento, in “Puer Aeternus” ED.

Un giorno di ordinaria Psicosi: I Sintomi Psicotici delle persone sane.

I Sintomi Psictici delle persone sane. - © rolffimages - Fotolia.com Un recente articolo pubblicato sul British Journal of Clinical Psychology ci rassicura sul fatto che noi tutti nella vita abbiamo avuto o avremo, con discreta probabilità, sintomi psicotici di lieve o media entità. Sintomi simil-psicotici quali le voci, sensazioni extra-corporee, visioni religiose o allucinazioni d’altro tipo, non sembrano essere così rari tra la popolazione generale.

Si stima infatti che il 10% di tutti noi senta voci che non esistono, mentre solo una piccola minoranza di questo 10% riceve una diagnosi clinica precisa. Si tratta di un problema sotto-diagnosticato o è possibile non sviluppare un patologia conclamata in presenza degli stessi sintomi?

Charles Heriot-Maitland e colleghi si sono proposti di approfondire questo dato, molto carente in letteratura, intervistando 6 pazienti affetti da psicosi e 6 soggetti non-clinici che avevano però riferito esperienze inusuali di questo tipo. I ricercatori hanno poi sottoposto a tutti i partecipanti delle domande aperte per approfondire, ad esempio, le circostanze legate alle loro esperienze ‘bizzarre’, il vissuto personale ed emotivo legato a queste esperienze e come i loro amici e parenti considerassero questo tipo di fenomeni.
Utilizzando il metodo dell’Analisi Fenomenologica Interpretativa hanno identificato alcuni temi ricorrenti nelle risposte dei partecipanti. In entrambi i gruppi, le esperienze bizzarre sono iniziate a seguito di un periodo emotivamente negativo e difficile, spesso accompagnato da sentimenti di isolamento e profonda contemplazione rispetto al significato della vita. Mentre i due gruppi sono risultati diversi nel modo di percepire e rispondere alle proprie esperienze. Il gruppo “sano” ha mostrato un maggiore tendenza a dare interpretazioni non-mediche ai propri sintomi, a considerarli di passaggio e talora desiderabili e le persone che hanno vicino tendono a considerarli nello stesso modo.

La Psicosi e Roman Polanski: formazione per terapeuti.
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Al contrario, i pazienti hanno rivelato una maggiore tendenza a dare interpretazioni mediche delle loro esperienze e mostrato una ridotta capacità di accettare le loro esperienze bizzarre come normali e di inserirle nella routine di vita, sociale e lavorativa.
Lungi dal trarre conclusioni affrettate, Heriot-Maitland e colleghi affermano la necessità di un approccio più rigoroso allo studio delle psicosi, capace di distinguere tra fattori di rischio e fattori di vulnerabilità clinica, sottolineando tuttavia come dai loro dati emerga il dato forte che “..minore è l’attitudine delle persone a riconoscere la loro transitorietà, piacevolezza e benefici, maggiore sarà la probabilità che abbiano conseguenze cliniche dannose”.

 

Sembra dunque di enorme utilità clinica la conclusione dei ricercatori: “La presenza di queste esperienze bizzarre dovrebbe essere normalizzata e le persone con psicosi dovrebbero essere aiutate a ricollegare il significato delle loro esperienze ‘non-ordinarie’ alle emozioni e preoccupazioni esistenziali che le hanno immediatamente precedute”. Insomma, si tratta di costruire un ABC sulle esperienze psicotiche?

Forse non era nelle intenzioni dei ricercatori, ma il panorama cognitivista offre attualmente protocolli e tecniche validate scientificamente, per la cura e gestione dei sintomi psicotici, e appare interessante come la normalizzazione dell’esperienza vissuta e la validazione emotiva, comunemente utilizzate in clinica, siano considerate mezzi potenti anche per questo tipo di patologie.

La speranza per la ricerca futura è di sperimentare nuove metodologie di trattamento in un ambito spesso lasciato nell’isolamento anche da noi clinici, vittime della “credenza dell’incurabilità” per psicopatologie che appaiono così complesse da sembrare incomprensibili, prima ancora che incurabili.

Concludo con le parole di Stanghellini (2008): “La mia tesi è che le voci siano disturbi della coscienza di sé, i cui caratteri fenomenici e la cui genesi divengono più comprensibili se considerati come un modo particolare di emergere alla coscienza del dialogo interiore. […] Laddove in condizioni normali esso è il medium per la rappresentazione di sé, le ‘voci’ nascono dalla sua oggettivazione morbosa: nel fenomeno allucinatorio, il dialogo interiore emerge dallo sfondo della coscienza al suo proscenio e si manifesta in maniera concreta sotto forma di voci aliene”.

 

 

BIBLIOGRAFIA:

 

 

CRITICHE? CONSIGLI? DOMANDE? IDEE? LASCIACI LA TUA OPINIONE!

Un fattore genetico regola la durata del sonno

-Rassegna Stampa –

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze PsicologicheLa leggenda/la storia narra che a napoleone bastassero non più di quattro ore di sonno a notte. …come evitare i sensi di colpa per coloro cui dieci ore di sonno sono il minimo per sentirsi ben riposati? Anzitutto, la durata del nostro sonno è influenzata da diversi fattori, tra cui l’età, il genere, e da un caratteristico “cronotipo”, gufo o allodola. Ma non basta. Un team di ricercatori guidati da Till Roenneberg e Karla Allebrandt dell’Università di Monaco, ha recentemente identificato la prima variante genetica che avrebbe un effetto significativo proprio sulla durata del sonno. Più di 4000 persone di sette paesi europei sono state coinvolte nello studio; dalle analisi dei dati comportamentali e genetici è emerso che individui con due copie di una specifica variante comune del gene ABCC9 generalmente dormono per un periodo di tempo più breve rispetto a individui con due copie della variante alternativa. Il gene in questione codifica per una specifica proteina che a sua volta svolgerebbe una funzione regolatoria dei canali di potassio nelle membrane cellulari. Quindi niente sensi di colpa se non avete un sonno napoleonico!

Abstract dell’articolo

Placebo ed effetto Placebo

Psicopedia - Proprietà di State of MindI termini “placebo” ed “effetto placebo”, sebbene da tempo siano entrati nel comune lessico professionale del medico, continuano ad indicare gli aspetti intriganti e misteriosi di ogni terapia, farmacologica o non farmacologica, essendo rispettivamente i fattori ed i processi incontrollati che confondono la dinamica della guarigione e ne mascherano la causa specifica.

Nella cultura medica occidentale il placebo e l’effetto placebo non godono generalmente di buona fama, nonostante in passato la sola medicina veramente efficace per ogni malattia fosse il placebo.

Risale al 1811 la traduzione letterale “piacerò” dell’Hoopers Medical Dictionary che all’epoca definì il placebo come “Medicamento dato più per compiacere il paziente che per fornirgli beneficio”. Da allora i passi avanti sono stati molti, tanto che è ragionevole ipotizzare che il placebo rappresenti il medicinale maggiormente studiato e conosciuto per l’enorme mole di lavori, che nel corso dei decenni, l’hanno confrontato con le più svariate molecole, sulla base del metodo sperimentale basato sui controlli. Ma di che cosa si tratta?

È il confronto tra l’efficacia di un nuovo farmaco o un nuovo procedimento applicato su un gruppo di pazienti, rispetto a una sostanza neutra e innocua, il placebo appunto, somministrata a un altro gruppo altrettanto numeroso di pazienti. Sia i pazienti sia il medico sperimentatore devono, ovviamente, ignorare fino alla conclusione dell’esperimento, a quale gruppo saranno assegnati i diversi soggetti (metodo “doppio cieco”). La necessità di un gruppo di controllo è proprio legata all’esistenza dell’effetto placebo, in base al quale determinate malattie possono migliorare o guarire con la somministrazione di sostanze innocue e fasulle purché prescritte al paziente quali medicine.

Lancet (1994), ha identificato in un lavoro una serie di fattori che annullano o rinforzano l’effetto placebo, legittimandone così l’esistenza:

  1. le iniezioni sono più efficaci delle compresse a parità di dosaggio e le compresse più grosse sono più efficaci di quelle piccole;

  2. la fiducia del paziente nel medico aumenta l’effetto placebo, come pure gli attestati appesi alle pareti dello studio del medico;

  3. l’effetto aumenta se si spiega al paziente il supposto meccanismo d’azione del farmaco;

  4. l’effetto placebo è migliore nei pazienti ansiosi e in quelli dotati di scarsa capacità critica.

Il placebo, dunque, è definito nella letteratura scientifica come una sostanza priva di una attività farmacologica specifica, somministrata come controllo nei test clinici, oppure ad un particolare paziente per stimolarne potenziali benefici psicologici. La realtà dell’effetto placebo è accettata da gran parte della comunità scientifica. Nelle sperimentazioni cliniche, l’efficacia di una terapia è spesso valutata utilizzando, come controllo, elementi privi di princìpi attivi o procedure ritenute inefficaci, ed i progressi, nei soggetti non trattati, sono attribuiti proprio al placebo. Quindi, il placebo è rappresentato da una sostanza innocua o qualsiasi altra terapia o provvedimento non farmacologico (un consiglio, un conforto, un atto chirurgico) che, pur privo di efficacia terapeutica specifica, sia somministrato alla persona facendole credere che sia un trattamento necessario.

Per effetto placebo si intende una serie di reazioni che l’organismo mette in atto in risposta ad una terapia, ma corrispondono alle aspettative che l’individuo ha nei confronti della stessa. In altre parole, l’effetto placebo è una conseguenza del fatto che il paziente, specie se favorevolmente condizionato dai benefici di un trattamento precedente, si aspetta o crede che la terapia funzioni, indipendentemente dalla sua efficacia “specifica”. L’effetto placebo contribuisce all’efficacia di una terapia specificamente attiva: per discriminare tra queste due componenti si progettano gli studi clinici controllati contro placebo che quando possibili anche sotto il profilo etico sono considerati il gold standard della ricerca clinica. L’effetto placebo è fortemente influenzato da una serie di variabili soggettive quali la personalità e l’atteggiamento del medico (iatroplacebogenesi) nonché le aspettative del paziente.

Nella sperimentazione clinica, un nuovo farmaco si giudica efficace solo se dà risultati significativamente diversi da un placebo. La sperimentazione circa l’effetto placebo avviene in doppio cieco, dove né chi compie il test – medico – né il paziente sono al corrente di quale sia il farmaco e quale il placebo. Il meccanismo alla base dell’effetto placebo è psicosomatico nel senso che il sistema nervoso, in risposta al significato pieno di attese dato alla terapia placebica prescrittagli, induce modificazioni neurovegetative e produce una serie numerosa di endorfine, ormoni, mediatori, capaci di modificare la sua percezione del dolore, i suoi equilibri ormonali, la sua risposta cardiovascolare e la sua reazione immunitaria. In una certa misura possono confondersi con l’effetto placebo anche la guarigione spontanea di un sintomo o di una malattia, così come pure il fenomeno della regressione verso la media. In altre parole il paziente si rivolge al medico “quando proprio non ne può più” e poi i suoi disturbi rientrerebbero comunque nella media. Questo ritorno ai livelli normali del disturbo può essere scambiato per effetto placebo. I risultati dell’effetto Placebo potrebbero essere coadiuvati da un numero di variabili intervenienti, tra cui:

In definitiva, il placebo, può essere inteso come un insieme di fattori extrafarmacologici capaci di indurre modificazioni dei processi, anche biologici, di guarigione intervenendo a livello del sistema psichico: non per nulla molti autori considerano quasi sinonimi i termini placebo e suggestione.

Effetto nocebo

E’ necessario fare un distinguo, nel momento in cui un atto terapeutico provoca un effetto negativo su di un sintomo o una malattia indipendentemente dalla sua specifica efficacia viene chiamato nocebo (il futuro del verbo latino nocere, letteralmente “nuocerò”). Può essere spesso ricondotto ad un atteggiamento ansiogeno da parte del medico o, più in generale, ad un rapporto medico-paziente impostato in modo non corretto. D’altra parte è necessario considerare la componente “nocebo” in una terapia farmacologicamente attiva e validamente testata, qualora ci si trovi in presenza di effetto psicosomatico negativo dovuto a scarsa fiducia nel farmaco o nel medico curante.

Neuroimaging funzionale in utero: misurabili le attivazioni cerebrali già nel feto.

– Rassegna Stampa –

Neuroimaging funzionale in utero: misurabili le attivazioni cerebrali già nel feto.

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze PsicologicheUn gruppo di ricercatori della MedUni’s Clinical Department of Neuroradiology and Musculoskeletal Radiology di Vienna per la prima volta è riuscito a misurare lo sviluppo cerebrale, in termini funzionali, e non solo strutturali, di un feto utilizzando tecniche di neuroimaging.

Lo studio ha esaminato 16 feti tra la ventesima e la trentaseisima settimana di gravidanza, misurando in particolare le attivazioni legate al default mode network. Il default mode network è un’insieme di regioni cerebrali che si attivano quando semplicemente il cervello è in stato di veglia pur essendo l’individuo non impegnato in alcun compito o attività in particolare. “Per la prima volta abbiamo dimostrato che tale rete di attivazioni, anche chiamate resting-state networks, sono già formate e attive nei feti in utero, e che tali attivazioni possono essere visualizzate e misurate mediante le tecniche di neuroimaging funzionale” spiega Schöpf, componente del gruppo di ricercatori della MedUni di Vienna. Di nuovo quindi, progressi all’orizzonte in termini di misurazione dell’attività funzionale e dello sviluppo cerebrale del feto aprendo nuove prospettive per lo sviluppo della diagnosi prenatale.

Convegno internazionale di Psiconeuroendocrinoimmunologia: Intervista al Prof. Bottaccioli

Società Italiana di Psiconeuroendocrinoimmunologia - bannerSu iniziativa della SIPNEI dal 27 al 30 ottobre, Orvieto ha ospitato il Convegno Internazionale di Psiconeuroendocrinoimmunologia. Tema del congresso è stato “Stress e la vita”. Tema che è stato analizzato da molti punti di vista: dallo stress cellulare fino allo stress da lavoro, emozionale, cognitivo. Infine sono state anche proposte ricerche e indagini sulle ricadute che esso può avere sulla patologia umana.

La splendida Orvieto fa da cornice al Convegno Internazionale di Psiconeuroendocrinoimmunologia e vede riuniti medici, biologi, psicologi, fisiologi, filosofi, ricercatori e terapeuti di differenti orientamenti per tentare di proporre un modello integrato dell’individuo. Per comprendere meglio questo approccio ho incontrato il Prof. Francesco Bottaccioli, presidente onorario della SIPNEI.

 

-Come definirebbe in breve l’approccio della Psiconeuroendocrinoimmunologia o PNEI?

La PNEI è la disciplina che studia le relazioni bidirezionali tra psiche e sistemi biologici. Nella PNEI convergono, all’interno di un unico modello, conoscenze acquisite a partire dagli anni Trenta del XX sec. dall’endocrinologia, dall’immunologia, dalle neuroscienze e dalla psicologia.

 

-Durante questo congresso si è spesso detto che per poter parlare veramente di salute, bisognerebbe considerare l’uomo come un network. Potrebbe spiegare questo concetto?

Con la PNEI viene a profilarsi un modello di ricerca, di interpretazione della salute e della malattia che vede l’organismo umano come una unità strutturata e interconnessa, dove i sistemi psichici e biologici si condizionano reciprocamente. Ciò fornisce la base per prospettare nuovi approcci integrati alla prevenzione e alla terapia delle più comuni malattie, soprattutto di tipo cronico. Al tempo stesso, configura la possibilità di andare oltre la storica contrapposizione filosofica tra mente e corpo nonché a quella scientifica, novecentesca, tra medicina e psicologia, superandone i rispettivi riduzionismi, che assegnano il corpo alla prima e la psiche alla seconda

 

-Il tema del congresso è stato “Stress e vita”, due concetti spesso legati indissolubilmente. Da dove nasce l’idea di questo tema?

Nasce intanto da una suggestione di Hans Selye, il padre della ricerca sulla neurobiologia dello stress: uno dei suoi libri più famosi si intitola “Stress of Life”. Noi abbiamo pensato di correggere una possibile immagine negativa che potrebbe venire dalla locuzione “Lo Stress della vita” rimarcando invece come lo stress non è di per sé negativo, anzi, come diceva lo stesso Selye, è l’essenza della vita, permea la vita stessa fin dalla cellula. Per questo, le letture e le sessioni congressuali sono andate dallo stress cellulare fino allo stress da lavoro, da terremoto, da malattia ma anche da premio.

 

-Qual è l’approccio PNEI allo stress?

Telomeri e Psicoterapia
Articolo consigliato: “Telomeri e Psicoterapia”

Pensiamo che sia necessario lavorare per rivedere la scienza dello stress unificando le due grandi tradizioni di ricerca: quella neurobiologica che parte da Selye e giunge fino a Besedovsky e Chrousos (entrambi relatori al nostro congresso) e quella psicologica che parte da Lazarus e che al congresso è stata rappresentata da molti studiosi italiani (Lazzari, Bertini) e stranieri (Stan Maes). Selye aveva ragione nel dire che gli stressors possono essere di varia natura, fisica, biologica, psicologica, e che tutti attivano l’asse dello stress. Al tempo stesso Lazarus aveva ragione nel sottolineare l’aspetto cognitivo che individualizza la ricezione degli stressors psicosociali. La PNEI con il suo modello a network, che contempla la psiche come dimensione emergente dal livello biologico ma con una sua relativa autonomia in grado di retroagire sul cervello modificandolo, è in grado di operare questa sintesi.

 

 

-Tra i diversi approcci proposti al convegno si è parlato anche della meditazione PNEI. Quali sono le ricerche empiriche in atto? Potrebbe spiegare in estrema sintesi il protocollo della PNEIMED?

Si tratta di un metodo che combina lo studio della fisiologia PNEI e quindi delle relazioni tra psiche e sistemi biologici al fine di aumentare la consapevolezza di sé come organismo vivente, con i principi filosofici essenziali della tradizione orientale (in particolare buddista mahayana) corredati da una sintesi originale di esercizi antistress e meditativi (concentrazione, respirazione, visualizzazioni) esposti in diversi testi a firma Bottaccioli, Carosella. Al congresso abbiamo presentato uno studio su un campione di 125 soggetti sani, allievi dei nostri corsi PNEIMED, testati con il metodo test – re-test sia sul piano psicologico (con il test SRT composto da 4 scale: ansia, depressione, stima di sé, somatizzazione) sia su quello biologico (misura del cortisolo salivare). I risultati mostrano una riduzione statisticamente significativa sia della sintomatologia psicologica sia del livello del cortisolo basale. Il paper è in corso di sottomissione per la pubblicazione in una rivista internazionale.

 

 

-Per concludere, nell’ultima giornata del convegno si è parlato di epistemologia della salute. Qual è per lei la differenza tra scienza della salute e scienza della malattia? E la salute andrebbe considerata più come un processo, come un obiettivo o come una meta?

La salute è “una condizione di intrinseca adeguatezza”, per dirla come il filosofo Gadamer o di “autoefficacia”, per usare le parole dello psicologo Bandura, o di “equilibrio adattativo” coniato da un medico sperimentale, Selye. La medicina contemporanea non contempla questo orizzonte essendo basata su una fisiopatologia e una nosologia che non prevede la persona in temporaneo disequilibrio, né l’attivazione delle risorse individuali come fattori di salute e di guarigione e che invece fonda la salute all’esterno della persona, confidando essenzialmente nel potenziale farmacologico del medico. La nostra missione è cambiare il paradigma di riferimento delle scienze della cura per rimettere in primo piano il soggetto senza abdicare alla spiegazione scientifica e tantomeno ai presidi pratici che essa offre. Nel 2012 questo sarà il centro del nostro lavoro come società scientifica: diffondere suggestioni e modelli di cure integrate delle principali patologie umane. Siamo aperti al contributi di tutti.

 

Lascio Orvieto e la sua buona cucina con nuovi ed interessanti spunti di riflessione sia per una terapia che per una ricerca orientata ad un approccio più olistico, che integri tutte le discipline che si occupano della cura dell’uomo.

 

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CRITICHE? CONSIGLI? DOMANDE? IDEE? LASCIACI LA TUA OPINIONE!

L’interazione con una donna provoca un calo nelle funzioni cognitive.

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Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze PsicologicheSecondo uno studio pubblicato sugli Archives of Sexual Behavior sembra che negli uomini eterosessuali si verifichi un calo nelle prestazioni cognitive ogniqualvolta avvenga un’interazione con una donna; addirittura il fenomeno è stato registrato anche con la sola anticipazione mentale dell’incontro con l’altro sesso, anche se lei non è altro che un nome sullo schermo di un computer. Il disegno di ricerca infatti prevedeva che i partecipanti allo studio sarebbero stati informati della presenza di un assistente, maschio o femmina, con il quale avrebbero comunicato solo tramite chat durante l’esecuzione di compiti sperimentali; successivamente veniva misurato il loro livello di funzionamento cognitivo. Le presunte interazioni via chat, che in realtà avvenivano grazie a un programma automatizzato, provocavano un declino nelle funzioni cognitive di tutti i partecipanti maschi quando a questi veniva detto che l’assistente era di sesso femminile, ma non quando l’assistente assegnato per lo svolgimento del compito era, virtualmente, dello stesso sesso.

Secondo i ricercatori questi risultati si spiegano grazie all’effetto della pressione evolutiva, che ha storicamente premiato gli uomini che hanno ridotto al minimo il rischio di perdere una opportunità di accoppiamento, investendo le risorse cognitive nelle interazioni con l’altro sesso. Il declino cognitivo potrebbe anche essere causato o aggravato dagli effetti del testosterone, o dalla socializzazione tipica maschile. Prossimo step verificare se il fenomeno del declino cognitivo si verifica anche in soggetti omosessuali.

 

BIBLIOGRAFIA:

 

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