Uomini alle prese con le emozioni di altri uomini: quali differenze tra il vedere un uomo o una donna esprimere emozioni?
– Rassegna Stampa –
Uno studio pubblicato sul numero di dicembre di Emotion analizza le attivazioni cerebrali di uomini e donne in risposta a fotografie di persone di genere maschile e femminile che esprimono emozioni: sembrerebbe che gli uomini utilizzino maggiormente l’emisfero cerebrale destro per riconoscere le emozioni espresse da volti maschili rispetto a quando si trovino alle prese con le stesse emozioni espresse da donne.
L’autore dello studio, che ha coinvolto un centinaio di soggetti, Qazi Rahman della Queen Mary’s School of Biological and Chemical Sciences, afferma: “Uomini cui venivano mostrate emozioni di gioia, tristezza e rabbia espresse a livello facciale da altri uomini, presentavano attivazioni cerebrali esclusivamente a carico dell’emisfero destro, mentre utilizzavano entrambi gli emisferi quando venivano loro presentate volti di donne che esprimevano emozioni”.
In particolare, le risposte neurali più intense si sono rilevate quando agli uomini venivano presentate espressioni facciali maschili di collera e sorpresa; questo potrebbe essere spiegato da una maggiore propensione a cogliere indizi di allerta o minaccia in altri uomini rispetto a quando espresse da donne.
La ricerca pone nuove sfide a due principali teorie riguardanti le attivazioni cerebrali legate al riconoscimento emotivo: i risultati disconfermano da una parte la teoria secondo cui l’emisfero destro è esclusivamente implicato nel riconoscimento di tutte le emozioni, dall’altra la teoria che sostiene che le emozioni positive sarebbero elaborate dall’emisfero destro e le negative da quello sinistro. Dai dati di questo lavoro, emerge l’importanza di superare queste semplificazioni e di prendere in considerazione dettagli non irrilevanti quali il genere sia di chi è chiamato a riconoscere un’emozione sia del volto che esprime quell’emozione, nonché le rispettive concordanze, per definire le funzioni di emisfero destro e sinistro nel processo di riconoscimento emotivo.
Che cosa è cambiato dall’uomo di Neanderthal a oggi: evoluzione dei lobi temporali e dei bulbi olfattivi
– Rassegna Stampa –
L’aumento del quoziente di encefalizzazione è una premessa essenziale per l’evoluzione culturale della specie Homo. In uno studio pubblicato questa settimana su Nature Communications è stata utilizzata una sofisticata tecnica di medical imaging per analizzare le strutture interne di crani fossili di umani.
Questa procedura implica l’utilizzo di un metodo 3D per quantificare la forma e la dimensione di strutture cerebrali a partire dalla morfologia della base del cranio. I risultati mostrano che i lobi temporali del cervello umano, così importanti per funzioni quali il linguaggio, la memoria, e altre funzioni sociali, e i bulbi olfattivi sono significativamente più grandi (di circa il 12%) nell’Homo Sapiens Sapiens rispetto all’uomo di Neanderthal.
La dimensione dei bulbi olfattivi è correlata alla capacità di rilevare e discriminare i diversi odori. L’olfatto è la modalità sensoriale evolutivamente più antica, e i circuiti neurali deputati all’olfatto coincidono con il sistema limbico – roccaforte di memoria ed emozioni. Le informazioni olfattive vengono trasmesse alle regioni cerebrali deputate alla memoria e al processamento delle emozioni, della motivazione, del piacere e dell’attrazione.
Sulla base di queste evidenze i neuroscienziati hanno coniato il termine “funzioni olfattive superiori” per definire gli aspetti funzionali che combinano la cognizione (memoria, percezione, ragionamento), le emozioni e l’olfatto. La maggiore dimensione dei bulbi olfattivi e dei lobi temporali nell’Homo Sapiens Sapiens rispetto alle altre varianti della specie Homo porta a speculare sulla possibilità che si sia sviluppato nell’uomo moderno un senso dell’olfatto profondamente diverso legato all’evoluzione delle funzioni cognitive e sociali superiori.
Credit Score: Impazienza e Insolvenza finanziaria -Economia Comportamentale-
– Rassegna Stampa –
Il Credit Score misura il comportamento legato al debito e al credito degli individui considerati come attori economici.
C’è una spiegazione psicologica del perché alcune persone che, a parità di reddito hanno acceso un mutuo sono poi insolventi?
Un nuovo studio, che verrà pubblicato a breve su Psychological Science, ha scoperto che persone con difficoltà a mantenere i propri impegni finanziari sono in qualche modo definite “impazienti” e cioè più portate a scegliere ricompense immediate rispetto a differire nel tempo la loro gratificazione per avere una maggiore ricompensa ma in un momento futuro.
Gli autori dell’articolo, Stephan Meier (Columbia University) e Charles Sprenger (Stanford University) sono due economisti che ai tempi della progettazione della ricerca e della raccolta dei dati lavoravano presso il Federal Reserve’s Center for Behavioral Economics and Decisionmaking di Boston.
LO STUDIO: 437 individui con reddito medio-basso sono stati coinvolti nello studio: a ciascuno è stato chiesto di compilare un questionario in cui dovevano scegliere tra ricompense piccole ma immediate oppure premi di maggiore entità ma fruibili solo in tempi successivi. Le domande prevedevano diverse quantità e diversi ranges temporali. Nel contempo, con il consenso dei partecipanti, gli studiosi hanno valutato per ciascun soggetto un indice definito “credit score” (punteggio di credito): tale indice si basa su comportamenti legati al debito e credito finanziario avuti in passato, quali per esempio mancanze e inadempienze nel pagare bollette, o insolvenze di mutui e prestiti. Un basso indice di credito sta ad indicare difficoltà nel passato nell’adempiere in generale ai propri impegni finanziari. Dai dati è emerso che individui che al questionario risultavano preferire ricompense di breve entità ma immediate, quindi con difficoltà a differire temporalmente la gratificazione, erano anche coloro che dimostravano minori credit scores.
Ovviamente, l’inadempienza finanziaria e l’insolvenza di un mutuo non sono sempre scelte deliberate o legate a proprie caratteristiche psicologiche, è ovvio dire che si può essere insolventi, per esempio perché si perde il lavoro. Vale la pena sottolineare che la ricerca presenta i dati raccolti su un campione di cittadini statunitensi: generalizzare questi risultati a un campione europeo o italiano è rischioso poiché è molto probabile che esistano modelli culturali profondamente diversi che regolano il rapporto con il denaro, con il risparmio, e le modalità di accesso al credito.
L’insostenibile Leggerezza del Bugiardo Patologico
FENOMENOLOGIA DEL BUGIARDO PATOLOGICO.
Vostro marito o vostra moglie, il vostro compagno o la vostra compagna, o degli amici dicono tante bugie, spesso senza avere un risvolto pratico? Beh, escludendo ogni patologia a carico del destinatario della menzogna, è possibile si possa avere a che fare con un bugiardo patologico.
Prima di entrare nel vivo del discorso è opportuno comprendere la differenza fra bugiardi patologici e bugiardi compulsivi.
Il bugiardo compulsivo non mente per raggiungere un fine specifico, ma semplicemente per abitudine e soprattutto perché mentire lo fa stare meglio rispetto a quando racconta la verità. Essere sinceri per queste persone diventa un’impresa psicologicamente difficile, così mentono su qualsiasi cosa. La bugia diventa una risposta automatica ed irrefrenabile, compulsiva appunto. Questo tipo di bugiardo, non è manipolativo o almeno non lo è apertamente. Mentre, il bugiardo patologico è colui che mente incessantemente per ottenere qualcosa e lo fa senza curarsi delle conseguenze emotive e comportamentali che questo atteggiamento può avere sugli altri.
In questo caso l’abitudine alla menzogna è vista come meccanismo per affrontare la realtà. Il bugiardo patologico è in genere manipolativo, autocentrato e ben poco empatico rispetto alla dimensione psicologica delle altre persone.
La persona che mente ha interiorizzato da così tanto tempo il meccanismo della menzogna che riesce a conviverci in modo egosintonico e difficilmente percepisce il suo modo di fare come patologico.
La manipolazione delle madri: il linguaggio Mammese
Il primo passo da realizzare è quindi l’autoconsapevolezza, ovvero rendersi conto di avere un problema su cui lavorare. In seconda battuta va sottolineato che, come ogni altro comportamento che offre comfort e fuga dallo stress, la menzogna può creare dipendenza e assuefazione, quindi si tratta di un qualcosa difficile da disimparare. Come per le tossicodipendenze, se non c’è una forte motivazione a smettere, è difficile che si possa approdare a cambiamenti strutturali per la persona. I bugiardi sono tanto abituati a mentire che, spesse volte, non riescono a distinguere più la realtà dalla fantasia. E’ come se la bugia andasse a sostituire la verità con dei contenuti compensatori che completano perfettamente il puzzle della realtà. Infine, la realtà stessa assume una connotazione di falsità e la bugia diventa la realtà.
La prima caratteristica che connota un bugiardo patologico è dichiararsi sostenitori della sincerità e dei valori. Si tratta di persone severamente malate, anche se appaiono normali in superficie, e il loro disturbo può provocare gravissime conseguenze a chi sta loro vicino.
Sono persone che non hanno consapevolezza della loro malattia e credono che mentire sia giusto al fine di proteggere il proprio ego per guadagnare dei benefici. Gli altri, naturalmente, ricevono dai danni gravi in risposta ai comportamenti spietatamente manipolatori, e mendaci messi in atto dal bugiardo. Fondamentalmente, si tratta di persone che sono in grado di inscenare una pantomima della realtà fino ad apparire sinceri al più attento osservatore. A molti capita di incontrare e conoscere persone con tale disturbo; essi si presentano con grande attorialità, ipocrisia (“ipocrita”, in greco significa attore) e astuzia come persone buone e sincere, quindi utilizzano questa maschera come copertura al fine di poter mentire e raggirare con maggior efficacia. Perciò è molto difficile riconoscerli e si può facilmente diventarne vittima nelle relazioni di amicizia, di lavoro e sentimentali.
MENTIRE L’AMORE
A rendere ancora più complicata la situazione è la presenza di un pervasivo disturbo di personalità, in genere narcisistico, nei mentitori patologici. I narcisisti amano troppo se stessi per riuscire ad amare gli altri. Secondo uno studio statunitense, pubblicato sul “Journal of Personality and Social Psychology”, non sono in grado di mantenere relazioni sentimentali felici e durature. Per il “narciso”, l’amore è un gioco in cui si deve fare sempre la “parte del leone”, per mantenere sempre il potere anche a costo di mentire, tradire e umiliare il partner. La personalità narcisistica è risultata incompatibile con la possibilità di stabilire relazioni sentimentali soddisfacenti, durature e affettivamente importanti. Infatti, nonostante sia vero che per amare gli altri bisogna prima di tutto amare se stessi, i narcisisti, in realtà, non amano veramente se stessi, ma si sopravvalutano continuamente, a spese di chi sta loro vicino. Lo studio mette poi in guardia chi cerca un partner: “attenzione a non confondere il narcisismo con l’autostima”, perché l’autostima si concilia benissimo con la capacità di amare, il narcisismo implica necessariamente lo sfruttamento e l’umiliazione del partner. Certo, spesso i narcisisti sono estremamente affascinanti e sfuggenti, ma alla “prova del cuore” rivelano gradualmente la loro vera natura: egoisti, infedeli, manipolatori, prepotenti.
Il manipolatore relazionale è egocentrico; un vampiro psico-affettivo che si nutre dell’essenza vitale delle sue prede. Critica, disprezza, colpevolizza, ricatta, ricordando agli altri i principi morali o il perseguimento della perfezione, ma questo solo quando gli torna utile. E per raggiungere i suoi scopi ricorre a ragionamenti pseudo-logici che capovolgono le situazioni a suo vantaggio.
Spesso la sua comunicazione è paradossale: messaggi opposti in double bind, a cui è impossibile rispondere senza contraddirsi, oppure deforma il significato del discorso. Si auto-commisera, si deresponsabilizza, non formula richieste esplicite e chiare. Non tollera i rifiuti, vuol sempre avere l’ultima parola per trarre le sue conclusioni, pur non condivise. Muta opinioni e decisioni. Soprattutto mente, insinua sospetti, riferisce malintesi . Simula somatizzazioni ed autosvalutazioni, ma dimostra sostanzialmente disinteresse affettivo. Si tratta, insomma, di personalità disturbate e disturbanti, con cui ci si può legare sentimentalmente per venire immancabilmente destabilizzati dalla loro perfida influenza.
Concludo citando Kundera ne “L’insostenibile leggerezza dell’essere”: quello che scegliamo e apprezziamo come leggero non tarda a rivelare il proprio peso insostenibile. Forse solo la vivacità e la mobilità dell’intelligenza sfuggono a questa condanna. Chi è pesante non può fare a meno di innamorarsi perdutamente di chi vola lievemente nell’aria, tra il fantastico e il possibile, mentre i leggeri sono respinti dai loro simili e trascinati dalla ‘compassione’ verso i corpi e le anime possedute dalla pesantezza. Era la vertigine. L’ottenebrante, irresistibile desiderio di cadere. La vertigine potremmo anche chiamarla ebbrezza della debolezza. Ci si rende conto della propria debolezza e invece di resisterle, ci si vuole abbandonare a essa: la bugia.
BIBLIOGRAFIA:
Vazire, S. & Gosling, S. D. (2004). e-Perceptions: Personality impressions based on personal websites. Journal of Personality and Social Psychology, 87, 123-132.
Vazire, S., Naumann, L. P., Rentfrow, P. J., & Gosling, S. D. (2008). Portrait of a narcissist: Manifestations of narcissism in physical appearance. Journal of Research in Personality, 42, 1439-1447.
Giuseppe Maria Silvio Ierace, (2004). Solstizio D’Estate. Arnoldi editore.
Milan Kundera, (2003). L’insostenibile leggerezza dell’essere, Adelphi
Le dispercezioni sensoriali nei disturbi dello spettro autistico possono influenzare la quotidianità, con effetti rilevanti sulla socialità e sull’autonomia personale
La coppia narcisistica borderline (2023) di Joan Lachkar esplora le complesse dinamiche emotive e relazionali tra personalità narcisistiche e borderline
Secondo una recente ricerca, le persone con tratti di narcisismo grandioso tendono a essere e a percepirsi come escluse più frequentemente rispetto agli altri
Il libro La vergogna del terapeuta (2023) indaga con profondità e coraggio il ruolo delle emozioni nascoste portando al centro la vulnerabilità del terapeuta
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The effectiveness of video-feedback therapy
Parents’ Words and Anxiety Disorders – Part 8 – The effectiveness of video-feedback therapy
Video-feedback therapy effectively alters the distorted cognitions of individuals in various populations. While this form of therapy is used in attachment based therapy with children, it is also used to increase parental sensitivity in populations with adopted children. There is evidence that the communication of adopted children within their adopting families is different from that of non-adopted children (Juffer & van IJzendoorn, 2005).
As adopted children grow into adolescence, they are at a higher risk for developing behavioral and psychiatric problems (Verhulst, Althaus & Versluis-den Beiman, 1990). Increasing maternal sensitivity to their children’s distorted signals has been investigated for possible benefits for adopted children’s behavior.
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In a study investigating the effect of video feedback on mother-infant interaction, Juffer, Hoksbergen, Riksen-Walraven and Kohnstamm (1997) aimed to increase maternal sensitivity during interactions with their adopted children. Three groups of mothers of adopted children (assessed at age five, six, nine and 12 months of age) were examined longitudinally: two groups were provided treatment and one control group was not (n = 30 in each). The first treatment group received a personal book (which promoted positive parenting), and the second treatment group received the personal book and three sessions of video feedback based on a series of free play interactions between the mothers and their children which occurred when the child was six and nine months of age. The three sessions of video feedback were characterized by the interveners showing the mothers the videos of the mother-child interactions and providing positive reinforcement when the mothers provided sensitive comments and responses to their children. The results at six months demonstrated that there was no significant difference between groups on ratings of maternal sensitivity or cooperation and infant exploration, at 12 months, mothers who were provided with the personal book as well as the three sessions of video feedback showed significantly more improvement in maternal sensitivity and infant competence than both the control group and the group who just received the personal book.
Within this study, mothers who struggled to accurately perceive their children’s signals heightened their sensitivity to their children’s behavior. Additionally, infants’ responded to their mothers’ heightened sensitivity by showing heightened competence themselves. Finally, the personal book treatment option was unable to alter maternal sensitivity to their children.
It could be argued that this is because the personal book treatment did not provide mothers with insight into their own behavior, and did not provided support. These results demonstrate the ability of video feedback to heighten maternal sensitivity within the context of adoption. More recent research has examined the effect of video feedback on mothers with psychopathology. In the second installment of this sub-series I will be exploring the effectiveness of video-feedback on parent-child relationships in the context of psychopathology.
A collection of interventions aim to promote maternal sensitivity through the review of taped parent-child interactions and written materials. The interventions can also be expanded to include the parents’ internal working models and/or sensitive disciplinary practices.
BIBLIOGRAPHY:
Juffer, F., Bakermans-Kranenburg, M. J., & van IJendoorn, M. H. (2008). Promoting Positive Parenting: An Attachment-Based Intervention. New York; Psychology Press.
La percezione di un cambiamento possibile. Concentrandosi sui lati negativi
– Rassegna Stampa –
Se si vuol cambiare qualcosa, per riuscire nell’impresa è necessario concentrarsi su ciò che non va; le persone inoltre prestano attenzione alle informazioni negative quando ritengono lo status quo possa cambiare, in altre parole è la percezione di una possibilità di cambiamento che permette di concentrarsi su ciò che non va. Questa è l’idea alla base di un nuovo studio che sarà pubblicato su Psychological Science, una rivista della Association for Psychological Science.
Chi desidera migliorare sul lavoro, per esempio, è disposto a prendere in considerazione informazioni negative su di sé, se è convinto che questa penosa presa di coscienza porterà a un miglioramento a lungo termine. Ma funziona così anche quando pensiamo alla società che ci circonda?
“Perché le persone sentano di poter fare effettivamente qualcosa per influenzare il mondo sociale, devono poter vedere il mondo come mutevole“, dice India Johnson, uno studente laureato alla Ohio State University che ha condotto questo studio con il professor Kentaro Fujita. Vedere una possibilità di cambiamento è il perno attorno a cui ruota la possibilità di cambiamento stessa: “Se si vuole che la gente sia in grado di fare quel salto, bisogna prima che arrivi a questo. Poi le persone saranno disposte a cercare le informazioni negative. Naturalmente, ci sono diversi passi da compiere per cambiare il sistema, non solo scoprire cosa c’è di sbagliato in esso. Anche dopo aver ottenuto le informazioni negative, si potrebbe pensare che c’è troppo da fare per cambiare le cose e decidere che non ci si può fare niente”, dice Johnson, che ha in programma di fare ulteriori ricerche sui passi necessari a produrre un cambiamento sociale.
Gabriele Casellia, c, Marta Ferlae, Clarice Mezzalunad, Francesco Rovettoe, Marcantonio M. Spadaa, b
aLondon South Bank University and bNorth East London NHS Foundation Trust, London, UK; ‘Studi Cognitivi’, Cognitive Psychotherapy School, cMilan and dSan Benedetto del Tronto, and eUniversity of Pavia, Pavia, Italy
DOI: 10.1159/000333601
ABSTRACT:
Objective: Desire thinking is a voluntary cognitive process involving verbal and imaginary elaboration of a desired target. Recent research has highlighted the role of desire thinking in predicting addictive behaviours independent of other psychological constructs including negative affect and craving. The goal of this research project was to explore the role of desire thinking across the continuum of drinking behaviour.Methods: A sample of alcohol-dependent drinkers (n = 43), problem drinkers (n = 59), and social drinkers (n = 68) completed self-report instruments of desire thinking, negative affect, craving and drinking behaviour. Results: Analyses revealed that alcohol-dependent drinkers and problem drinkers scored higher than social drinkers on imaginal prefiguration, and that alcohol-dependent drinkers scored higher than problem drinkers who in turn scored higher than social drinkers on verbal perseveration. A multi-group discriminant analysis showed that craving, imaginal prefiguration and verbal perseveration loaded on a first function whilst age loaded on a second function. The variables correctly classified 75.9% of cases. Conclusions: The findings suggest that desire thinking may be a risk factor across the continuum of drinking behaviour and that treatment may benefit from specifically targeting this cognitive process.
Craving – Pensiero Desiderante – Definizione da Psicopedia
STILI DI PENSIERO E VARIABILI PSICOFISIOLOGICHE
Uno studio per approfondire il legame tra mente e corpo, in relazione a diverse modalità di pensiero.
E’ stato ipotizzato che il rimuginio svolga numerose funzioni, quali prepararsi all’eventualità di eventi negativi (“prepararsi al peggio”; Sassaroli & Ruggiero, 2003) e mantenere sotto controllo l’arousal fisiologico legato all’ansia (Borkovec, Lyonfields, Wiser, & Diehl, 1993). A favore di questa funzione adattiva del rimuginio esistono in letteratura prove del fatto che soggetti “rimuginatori” risultino caratterizzati dall’assenza di iper-reattività simpatica che costituisce per loro un vantaggio importante tale da portarli a mantenere questa strategia nel tempo.
Attualmente è considerata adattiva la capacità di reagire agli eventi stressanti quando questi si presentano, tuttavia un’iper-reattvità diventa disadattiva se si mantiene costante anche quando la fonte di stress non è più presente (Brosschot, Gerin, & Thayer, 2006). Vi sono oramai numerose prove a favore del fatto che l’attivazione prolungata nel tempo sia più dannosa per la salute rispetto ad un picco di reattività più intenso ma di breve durata (Brosschot, Pieper, & Thayer, 2005).
Il lavoro di ricerca condotto dal nostro gruppo si è occupato di approfondire i correlati fisiologici associati a diversi stili di pensiero, al fine di proporre un protocollo che permetta di inserire la misurazione di questi indici sia in fase di valutazione psicodiagnostica che di follow up, da affiancare ai tradizionali strumenti di valutazione. Le ipotesi specifiche di questa ricerca sono state di dimostrare:
1) il ruolo adattivo a breve termine del rimuginio ansioso nel suo essere associato ad una ridotta reattività fisiologica in risposta a stressor ambientali e
2) le sue conseguenze disadattive a lungo termine legate alla presenza di picchi di attivazione meno intensi, a fronte di un arousal costantemente maggiore nel lungo periodo.
PROTOCOLLO:
Il protocollo scelto prevedeva la registrazione di alcuni indici fisiologici legati all’arousal del sistema nervoso autonomo, durante le 3 condizioni scelte per indurre nei soggetti sperimentali (31 patologici e 36 controlli) diversi stili di pensiero:
Rimuginio (“pensi intensamente ad un evento che la preoccupa molto nell’imminente futuro”),
Reappraisal (“ripensi allo stesso evento per cui si è preoccupato precedentemente in chiave positiva”).
Distrazione (“unisca i puntini nel disegno seguendo la numerazione in ordine crescente”).
La distrazione è stata studiata in base ad altre ricerche raccolte in letteratura, per riprodurre una condizione di “pensiero neutro” e con un basso carico cognitivo. Durante tutti e tre i compiti veniva somministrato uno stimolo stressogeno (rumore bianco, 105dB, durata 550 ms) ad intervalli irregolari così da non poterne prevedere l’arrivo, al fine di valutare la reattività fisiologica e le capacità di adattamento allo stress nelle tre condizioni sperimentali.
Gli indici fisiologici utilizzati per misurare la reattività simpatica e il funzionamento autonomico sono stati: conduttanza cutanea, che misura la micro-sudorazione corporea ed è un indice che permette di misurare in modo rapido il livello di attivazione del sistema nervoso simpatico, e la variabilità interbattito (Heart Rate Variability), un indice di buon balance autonomico tra componente simpatica e parasimpatica. Dall’analisi HRV vengono estratti alcuni indici usati poi nell’analisi dell’attivazione delle due componenti (separatamente). All’inizio della procedura sperimentale sono stati somministrati inoltre dei questionari psicometrici per un assessmento completo di ansia, depressione, rimuginio e disturbi psicosomatici (Penn State Worry Questionnaire, State-Trait Anxiety Inventory, Intolerance of Uncertainty Scale, Anxious Control Questionnaire, Beck Depression Inventory, General Health Questionnaire, Questionario psicofisiologico, Metacognition Questionnaire).
RISULTATI:
I risultati ottenuti hanno confermato entrambe le ipotesi sperimentali: dalle analisi condotte emerge infatti una correlazione significativa tra livelli di arousal durante il compito di rimuginio e i punteggi relativi alle somatizzazioni e i sintomi depressivi (QPFR e BDI), segnalando che chi rimugina di più è più depresso e mostra un maggior numero di lamentele fisiche (mal di testa, gastriti, dolori muscolari, formicolio,..).
Dall’analisi dei valori di variabilità interbattito (HRV) è emerso inoltre che controlli e patologici funzionano in modo significativamente diverso nella condizione di rimuginio: i controlli mostrano una minore attivazione simpatica media rispetto ai patologici durante la condizione di rimuginio, a fronte di una riduzione del tono vagale (componente parasimpatica) maggiore nei patologici che risultano quindi meno capaci di “spegnere” l’attivazione fisiologica suscitata dalla combinazione di stimolo stressante e rimuginio.
Questo ci ha permesso di ipotizzare che il rimuginio, come stile di pensiero stabile e molto frequente nei disturbi d’ansia, possa produrre nel lungo periodo un cronico squilibrio autonomico tra sistema componente simpatica e parasimpatica e avere un impatto negativo sulla salute cardiovascolare.
Rispetto ai valori di conduttanza cutanea inoltre, i soggetti con una più alta propensione al rimuginio mostrano un maggior picco di attivazione alla presentazione dello stimolo stressante rispetto ai controlli: rimuginare quindi non li aiuta a spaventarsi meno, né sembra ridurre l’arousal fisiologico a fronte di eventi imprevisti e percepiti come pericolosi e fuori controllo. Controlli e patologici hanno infine un’attivazione simile nel reappraisal: dal punto di vista clinico questo dato ci segnala che insegnare ai pazienti un modo di pensiero diverso abbassa i livelli generali di attivazione e riduce il rischio cardiovascolare.
CONCLUSIONI:
Concludendo, i dati ottenuti sembrano confermare il dato, già molto presente in letteratura, che ridurre il rimuginio attraverso la psicoterapia permette di diventare buoni “reappraisers” rispetto ad eventi negativi e..soprattutto di fare prevenzione sullo sviluppo di patologie cardiovascolari future legate alla cronicizzazione di uno stato di arousal costante ed eccessivo cui l’ansia spesso conduce.
BIBLIOGRAFIA:
Borkovec, T. D., Lyonfields, J. D., Wiser, S. L., & Diehl, L. (1993). The role of worrisome thinking in the suppression of cardiovascular response to phobic imagery. Behaviour Research and Therapy, 31, 321_/324.
Brosschot, J. F., Pieper, S., & Thayer, J. F. (2005). Expanding stress theory: Prolonged activation and perseverative cognition. Psychoneuroendocrinology, 30, 1043–1049.
Brosschot, J. F., Gerin, W., & Thayer, J. F. (2006). The perseverative cognition hypothesis: a review of worry, prolonged stress-related physiological activation and health. Journal of Psychosomatic Research, 60, 113–124.
Porges, S.W.(2007). The polyvagal perspective. Biological Psychology, 74 (2), 116–143.
Sassaroli, S., & Ruggiero, G. M. (2003). La psicopatologia cognitiva del rimuginio (worry). Psicoterapia Cognitiva e Comportamentale , 9, 31-45.
La signorina Annie Almond che abita nel Sistema Limbico – sulla (dis)regolazione emotiva
Sistema Limbico, disturbo di personalità borderline e approcci neurobiologici radicali.
“Annie Almond (amigdala) vive a Midtown, vicino al raffinato Sage Seahorse (ippocampo). Le loro case si trovano ai piedi del bianco e scosceso Butterfly Cliffs (sfenoide), che segna il confine tra Cephalton (encefalo) Uptown e Midtown. Come Sage, anche Annie ha una memoria di ferro, ma la sua è specializzata nelle emozioni. Lei sente le cose sinceramente, pazzamente e profondamente, non riuscendo sempre ad avere il tempo per comprendere perché prova quel che sente o per utilizzare le parole per esprimere le sue potenti passioni. Annie giudica le persone e le situazioni in modo veloce e di solito abbastanza bene, vista la sua lunghissima esperienza.
Annie ascolta tutto ciò che la sua amica Felicity Fellall (talamo) le dice. Lei trasmette nell’immediato ad Annie il senso di quello che sta accadendo fuori da Cephalton nello stesso istante in cui Felicity riceve queste informazioni dai suoi numerosi pazienti della Polisensory Clinic. Annie ascolta con lo scopo di registrare qualsiasi cosa possa minacciare Cephalton e la Contea fuori dalle mura.
Uma Underbridge (ipotalamo) e il suo partner, Horace Hormone (ghiandola pituitaria) sono i più fedeli e leali seguaci di Annie. Uma e Horace cercano di leggere Annie molto da vicino e rispondono in base a come lei si sente. Se Annie è arrabbiata, Uma entra subito in azione e raduna gli amici (il sistema nervoso autonomo) e mobilita tutta la città. Uma fa ciò che Annie vuole, senza far troppe domande.
Gli altri amici di Annie, Frederick Foresight (i lobi frontali), Rochelle Ringbond (giro del cingolo), Brenda Bridgehead (insula) e Sage cercano tutti insieme di essere d’aiuto ad Annie e di evitare che lei reagisca in modo esagerato prima di capire di cosa sia preoccupata.
Sage sta sempre molto vicino ad Annie, sapendo che lei talvolta potrebbe esagerare con le reazioni. Quando lei è sotto pressione, o quando si sente sottotono, è preda dei pensieri, delle immagini e delle esperienze passate legate a pericoli o minacce, non è riesce a sbarazzarsene o a dimenticarne la sofferenza. Talvolta, di notte si sveglia di soprassalto urlando in preda al panico, con il cuore che batte all’impazzata e tutto il corpo in preda alla paura e non riesce a ricostruire i perché di quel panico. Quando non sta bene, Annie può reagire quando non c’è nessuna minaccia intorno a sé ma solo una piccola memoria di un evento passato. In questi casi, Annie fallisce nel riconoscere quando c’è una vera minaccia e tutti a Cephalton sono disorientati. Quando le cose si mettono davvero male, si rifiuta di mangiare, si nasconde da tutto e da tutti e sposta tutti i suoi pensieri verso il lato negativo e triste della sua relazione con Sage.” [NDA: libera traduzione dell’autore dal libro di Nunn et al. riportato in bibliografia]
Questa breve e simpatica descrizione di Nunn e colleghi ci racconta cosa succede all’interno del nostro sistema nervoso centrale, in particolare a sud dell’encefalo, nella zona nota come “sistema limbico”. Il sistema limbico è una serie di strutture cerebrali che includono l’amigdala, l’ippocampo, i nuclei del talamo e la corteccia limbica. Semplificando, potremmo definire il sistema limbico come il nostro “cervello emotivo”. Tra le funzioni principali di tali strutture ricordiamo il riconoscimento delle emozioni, la loro espressione e regolazione.
Leggendo il libro di Nunn e colleghi, mi sono venute in mente alcune riflessioni sul peso che alcuni deficit di tale sistema possano avere sul funzionamento relazione degli individui. Ma è mai possibile sia veramente solo una questione di chimica e malfunzionamenti, come peraltro alcuni sostengono da un po’, come gli esponenti degli approcci neurobiologici radicali?
Ho preso, quindi, in mano i lavori di Marsha Linehan sul Disturbo Borderline di Personalità. Il nucleo della teoria della Linehan è che alla base delle caratteristiche psicopatologiche dei pazienti borderline vi sia proprio un deficit del sistema di regolazione delle emozioni. A causare tale deficit, entrano in gioco variabili di temperamento (che portano i soggetti a reagire in modo intenso e imprevedibile) e variabili di “apprendimento” del valore e del significato delle emozioni.
Articolo consigliato: Marsha Linehan e l’approccio dialettico per affrontare i propri demoni
Le esperienze relazionali che queste persone fanno durante la propria vita li porta (ahimè) a sperimentare ciò che la Linehan chiama “le invalidazioni delle esperienze emotive”. L’individuo dà senso a sé e agli altri in modo tale da “svestire” la propria esperienza emotiva di valore e significato (Linehan, 2011).
Entra, quindi, in gioco, un’altra competenza che questi pazienti non hanno (o hanno scarsamente) sviluppato durante la propria vita: Il monitoraggio metacognitivo, ovvero la capacità di:
“comprendere la natura contestuale, relazionale e transitoria delle emozioni (come pure di tutti gli altri stati mentali);
costruire una “teoria” efficiente della relazione fra emozioni e precisi eventi ambientali;
Quindi, ridurre tutto il processo di regolazione emotiva ad un solo malfunzionamento del sistema limbico mi sembra semplicistico, riduttivo e anche un po’ rischioso. Certo, però, leggerne in Who’s who of the brain è davvero affascinante.
Un gruppo di ricercatori, dal 1991 ad oggi, ha intervistato più di 1300 neo-mamme, completando l’indagine nel corso dei 10 anni successivi con ulteriori interviste e osservazioni. La variabile lavoro è stata declinata in tre diverse condizioni: il lavoro a tempo pieno, il part-time (max 32 ore settimanali) e l’assenza di lavoro.
L’analisi dei risultati indica che la condizione di lavoratrice part-time, rispetto al full-time, coincide con una maggiore opportunità di partecipazione alla vita familiare e permette anche di ridurre l’eventuale conflitto tra lavoro e famiglia, ma nel complesso non è stata registrata una differenza significativa nel benessere di mamme con lavoro full-time o part-time; sembra infatti che a fare la differenza sia proprio la presenza o l’assenza della vita lavorativa in aggiunta a quella familiare, indipendentemente dalla quantità di ore che impegna.
Le madri lavoratrici infatti hanno un migliore stato di salute generale e minori sintomi depressivi delle madri casalinghe; nessuna differenza invece tra lavoratrici part-time e full-time per quanto riguarda percezione del proprio lavoro come sostegno per la famiglia, incluso l’essere un genitore migliore.
Il limite della ricerca, secondo gli stessi ricercatori, sta nell’aver considerato solo le mamme con figlio unico e di aver preso in esame solo il numero di ore lavorative. In futuro la ricerca dovrà essere raffinata differenziando ulteriormente le condizioni lavorative da esaminare in relazione al benessere, includendo per esempio il livello professionale, la flessibilità, l’impegno richiesto e l’orario dei turni lavorativi.
Lavati e non ci pensi più. Ma i processi mentali restano lì.
Lady Macbeth in un dipinto di George Cattermole
‘Bimbo bestemmia e le maestre gli fanno lavare la bocca col sapone: denunciate”. Questo il titolo di un articolo apparso quest’anno sul Corriere. L’intervento formativo viene giudicato eccessivo dalla madre dell’imprecatore che sporge denuncia contro le insegnanti che avrebbero invitato l’alunno a sciacquarsi la bocca dopo aver rivolto loro una bestemmia. La dirigente scolastica non ha invece la minima intenzione di allontanare le insegnanti che si sono sempre dimostrate a suo parere competenti e professionali.
E a quanto pare l’intervento delle insegnanti, che a una prima analisi sembrerebbe rasentare la crudeltà delle pratiche punitive medioevali, ha un fondamento teorico secondo quanto pubblicato da Spike W.S. Lee e Norbert Schwarz, ricercatori presso l’Università del Michigan.
L’autorevole fonte sostiene infatti che l’esperienza corporea di rimuovere lo sporco dal proprio corpo induca nell’erronea credenza di rimuovere anche i contenuti mentali.
Gli autori hanno riscontrato che le persone tendono a giudicare il comportamento immorale degli altri con maggior severità se posti in ambienti sciatti o maleodoranti piuttosto che se seduti in camere pulite e confortevoli. Anche il giudizio sul nostro stesso comportamento immorale scaturisce minor senso di colpa se, dopo aver commesso il fattaccio, ci si deterge con una salviettina disinfettante.
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La cosa davvero interessante, e capace di scagionare le severe inquisitrici, è che la preferenza per la parte del corpo da pulire allo scopo di rimuovere gli spiacevoli residui mentali, dipende dal luogo ritenuto responsabile del peccato. La ricerca dimostra infatti che chi ha mentito a parole preferisce lavarsi la bocca anzichè le mani, mentre chi ha mentito via mail mostra la tendenza opposta.
Ecco spiegato perchè Lady Macbeth, dopo aver indotto il marito a commettere un omicidio, non riesca a togliersi l’immaginaria macchia di sangue dalle mani: il peccato è stato commesso dalle parole uscite dalla sua bocca e non dalle sue mani.
Forse, se in quell’epoca fossero esistiti gli spazzolini, avrebbe avuto un alito più gradevole e soprattutto si sarebbe tormentata di meno!
I Comportamenti Aggressivi dei Bambini: ma è sempre colpa dei genitori? – Parte 4
Bambini e aggressività: che cosa possiamo fare? Alcuni suggerimenti pratici.
Sul numero di Settembre di Child Development troviamo una guida su come impostare un lavoro con bambini che hanno comportamenti aggressivi. A fornirci questi spunti, riassunto di ricerche internazionali e di casi clinici, sono il medico Angela Luangrath, del Royal Children’s Hospital di Melbourne e Harriet Hiscock, pediatra e ricercatrice presso l’Università di Melbourne.
LE LINEE GUIDA:
(1)Incoraggia i comportamenti positivi: anche se può sembrare contro-intuitivo, le punizioni servono a poco e soprattutto non fungono da deterrente per il comportamento aggressivo futuro. Ciò che invece diventa determinante è il rinforzo dei comportamenti positivi, ad esempio sottolineando e lodando il bambino quando si comporta in maniera appropriata. Si possono dare dei piccoli “punti” per ogni comportamento adeguato, come ad esempio delle figurine, e al raggiungimento di un certo numero di punti si può stabilire il guadagno di un premio.
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(2)Sii costante nei comportamenti con il tuo bambino: è fondamentale che il bambino sappia che a un determinato comportamento seguirà una certa conseguenza. È altrettanto importante che si renda conto che il genitore terrà una linea costante e coerente nell’educazione (rispetto delle regole, che cosa fare nel caso vengano infrante, come stabilire le eccezioni ecc…), in modo da non essere confuso e da poter stabilmente prevedere cosa è concesso e cosa è vietato. Sarebbe molto utile che venisse tenuta una linea comune tra famiglia e scuola. Sono molto frequenti, infatti, i casi in cui i bambini sembrano “degli angeli” in classe e a casa “fanno disperare”. Questo problema potrebbe proprio essere dovuto a una mancanza di coerenza che il bambino percepisce nell’ambiente domestico, dove magari vengono applicare regole troppo flessibili e poco chiare.
(3)Stabilisci dei limiti chiari e crea delle aspettative: i bambini, soprattutto i più piccoli, dovrebbero avere una chiara comprensione di ciò che ci si aspetta da loro e tali aspettative vanno loro spiegate con precisione, ad esempio il condividere un giocattolo.
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(4)Stabilisci che cosa fare di fronte ai comportamenti aggressivi: ovviamente in questo caso dipende dall’età e dal tipo di comportamento aggressivo messo in atto da bambino. In generale è importante che i genitori abbiano chiaro che cosa fare nel momento in cui si verifichi un problema e che tengano una linea comune e costante nel tempo. Una strategia generalmente usata è quella di ignorare il comportamento problematico o di distrarre il bambino – se si tratta di aggressività “minore”, ovvero che non implichi pericolo per sé o per gli altri. È utile che i genitori, al posto di arrabbiarsi a loro volta, spieghino con calma le conseguenze delle azioni del bambino. Anche per i comportamenti aggressivi più importanti è bene ricordare di non alzare il tono di voce e di porre fine al comportamento aggressivo e lasciare calmare il bambino – in queste situazioni, infatti, solitamente il bambino proverà a rimettere in atto il comportamento più volte e sarà troppo attivato per comprendere una spiegazione. È bene quindi allontanarlo dalla situazione in caso di pericolo, se ad esempio sta lanciando oggetti contro la sorella, e dargli il tempo il calmarsi. Anche se può sembrare a prima vista difficile, è molto importante lodare sempre il proprio bambino quando smette il comportamento-problema, proprio per andare a rafforzare il comportamento positivo.
Ossitocina: l’ormone che facilita la vita sociale.
– Rassegna Stampa –
Gli eventi legati alla vita sociale, come gli appuntamenti galanti, le feste, gli aperitivi, ma anche i colloqui di lavoro e le relazioni tra colleghi, se per molti sono occasioni di svago e divertimento, per i più timidi e introversi, possono rappresentare momenti estremamente stressanti.
Un aiuto per affrontare con più spensieratezza e fiducia i momenti di socializzazione viene da una ricerca della Concordia University e pubblicata su Psychofarmacology che ha identificato nell’ossitocina, l’ormone naturalmente rilasciato durante e dopo il parto, un facilitatore della vita sociale: sembra che sotto l’effetto dell’ossitocina ci si senta più estroversi, più aperti a nuove idee e più fiduciosi.
Lo studio in questione ha messo a confronto due gruppi di soggetti, un gruppo ha inalato ossitocina e l’altro del placebo; i soggetti di entrambi i gruppi non dovevano avere assunto farmaci, soffrire di un disturbo mentale attuale o pregresso, fare uso di droghe o essere fumatori; 90 minuti dopo l’assunzione dell’ossitocina o del placebo tutti i partecipanti alla ricerca sono stati testati con scale per il nevroticismo, l’estroversione, l’apertura a nuove esperienze, l’amabilità e la coscienziosità.
I risultati rivelano che chi aveva inalato ossitocina ha poi ottenuto punteggi maggiori nelle scale di estroversione e apertura alle esperienze rispetto a coloro che avevano assunto un placebo, in particolare l’assunzione di questo ormone ha amplificato alcuni tratti della personalità come il calore, la fiducia, l’altruismo e l’apertura verso l’esterno.
Tradimento: un percorso in 9 STEP da utilizzare in terapia di coppia.
“Sono sposato da 11 anni con una donna della quale non posso che parlar bene, con la quale ho due figli e mi è sempre stata accanto, nel bene e nel male, proprio come comanda il matrimonio. E’ mia coetanea, colta, bella, intelligente. Eppure 6 anni fa l’ho tradita e ho portato avanti quella relazione per quasi 3 anni. Lei non ha mai saputo nulla, sono stato bravo a mentire. Perché l’ho tradita? Solo perché ho conosciuto una ragazza più giovane, più bella, più interessante. Il matrimonio non era in crisi, non mi mancava nulla, ma quella ragazza aveva qualcosa a cui non sapevo resistere”.
La vita di coppia può essere sconvolta da eventi non prevedibili, come il tradimento, che possono generare una vera e propria frattura difficile da tollerare e dolorosa da affrontare. Quando si scopre un tradimento, spesso si mettono in atto delle modalità relazionali che minano la stabilità di ogni membro: stress, reazioni aggressive,comportamenti caotici, incapacità nella gestione della propria rabbia, senso di frustrazione e umiliazione, smarrimento, pensieri ossessivi. Ogni partner attribuisce all’altro degli atteggiamenti irrazionali, la comunicazione diventa problematica e incomprensibile, l’altro viene percepito come un estraneo in quanto attua condotte insolite e indecifrabili. La frattura, nella coppia, è dovuta soprattutto alla sensazione che siano venute meno le premesse di base su cui si fonda una relazione. Il tradimento ha minacciato la stabilità, la sicurezza, la fiducia, la reciprocità, il progetto comune, le certezze costruite insieme, la lealtà.
A volte i partner si stupiscono delle loro stesse reazioni: coloro che, all’inizio della relazione di coppia, avevano giurato che se avessero subito un tradimento avrebbero sciolto il legame, ora invece, davanti al fatto compiuto, non riescono ad andarsene; coloro che, all’inizio della storia, affermavano che la loro relazione era più importante di qualsiasi scappatella, ora invece, alla scoperta dell’infedeltà, se ne vanno di casa senza esitazione.
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Gli agenti che possono portare al tradimento, riguardano modalità relazionali che, nel corso del tempo, possono aver gravato sulla costruzione di un rapporto autentico, intimo, comprensivo e paritetico. Ad esempio: la tendenza a lasciare i conflitti aperti e irrisolti; il sacrificio dell’autenticità o delle proprie esigenze personali allo scopo di dare vita ad un’unione ideale che, in apparenza, rasenta la perfezione; l’evitamento dei conflitti o del disaccordo perché convinti che possano logorare il rapporto; l’insoddisfazione protratta nei rapporti sessuali che vengono vissuti come poco gratificanti o assenti; l’evitamento dell’intimità che, di conseguenza, ostacola la condivisione e la complicità e favorisce l’alienazione dalla vita di coppia; l’assenza di solidi confini che preservino la coppia da ingerenze esterne (amicali o familiari); l’assenza di specifici spazi e tempi che appartengano solo alla coppia, lontani dall’intromissione costante di pensieri rivolti ai figli o al lavoro.
La terapia di coppia, in questi casi, fornisce un adeguato spazio di contenimento ed elaborazione dei molteplici fattori che portano alla spaccatura della coppia. A volte il tradimento può costituire un elemento che, per quanto doloroso, permette una rinegoziazione delle regole all’interno del rapporto, aprendo nuovi canali comunicativi tra i partner e favorendo la tendenza ad attingere a nuove risorse del legame.
La relazione può fare un salto di qualità, sia nel caso in cui si decida di restare insieme, sia nel caso contrario. La terapia di coppia aiuta ogni membro ad esprimere le proprie autentiche esigenze e ad accogliere in modo nuovo quelle dell’altro, costruendo un rapporto basato su una reciprocità più genuina, fondata su scelta e responsabilità.
Ma in che modo nella pratica clinica si possono applicare questi assunti al cambiamento?
Ecco alcune istruzioni che consentiranno di valutare le vostre interpretazioni. L’applicazione dei principi della terapia cognitiva per il miglioramento e cambiamento della vita di coppia richiede una certa progressione. Di seguito quella che Beck chiama la terapia dei 9 passi. Ogni step comporta determinati esercizi che alle coppie sono utilissimi per affrontare le idee fuorvianti e frustranti.
PRIMO PASSO: COLLEGARE LE REAZIONI EMOTIVE AI PENSIERI AUTOMATICI. In questo caso è necessario individuare una reazione emotiva derivante da una situazione, allo scopo di determinare un collegamento tra le due cose. Quindi, attraverso la tecnica dell’ABC si evidenziano dei collegamenti che ai pazienti possono non essere immediati. Ad esempio: una moglie che si arrabbia o diventa ansiosa, o un marito che non torna a casa per tempo, sono situazioni assolutamente comuni, ma è l’interpretazione delle stesse che crea sentimenti ed emozioni non adeguate.
SECONDO PASSO: USARE L’IMMAGINAZIONE PER INDIVIDUARE I PENSIERI. Immaginare una scena, raffigurarsi una situazione può aiutare a portare alla luce una serie di pensieri automatici che potrebbero creare delle emozioni non del tutto comprensibili di primo acchito. Alla fine del processo immaginativo è utile inserire su un foglio diviso in due colonne i pensieri automatici (interpretazioni) avute durante la visualizzazione della scena e le emozioni derivate. Quindi, bisogna rileggere quanto scritto per rendere consapevoli se stessi dei propri pensieri.
TERZO PASSO: ESERCITARSI AD INDIVIDUARE I PENSIERI AUTOMATICI. Concentrandosi, si possono individuare i pensieri automatici nel momento in cui si profilano all’orizzonte della consapevolezza. Questi messaggi interiori innescano reazioni emotive, come la rabbia o la tristezza, o il desiderio di punire il coniuge. Per lo più le emozioni scaturiscono direttamente dalla situazione: non si presta attenzione ai pensieri fuggevoli che collegano la situazione alle emozioni e ai desideri. Imparando a conoscere i propri pensieri automatici si acquisisce maestria nel padroneggiarli perfettamente.
QUARTO PASSO: USARE LA TECNICA DEL REPLAY. Rivedere mentalmente l’evento che ci ha turbato aiuta a rivivere la situazione e a individuare l’evento che l’ha scatenato. L’interrogativo da porre è: “Che cosa sta avvenendo in questo istante nella mia mente?“
QUINTO PASSO: VERIFICARE L’ATTENDIBILITA’ DEI PENSIERI AUTOMATICI. Per stabilire se i pensieri automatici siano esagerati è necessario rispondano a degli interrogativi:
che prove ci sono a favore e contro la mia interpretazione?
dalle azioni del mio partner seguono logicamente delle motivazioni fondate al suo comportamento?
SESTO PASSO: USARE RISPOSTE RAZIONALI. La risposta razionale, e non rimuginativa, valuta la ragionevolezza dei pensieri automatici. Trovare la risposta razionale aiuta a vedere i propri pensieri automatici in prospettiva: come reazione e interpretazione, non come la verità.
SETTIMO PASSO: VERIFICARE LE VOSTRE PREVISIONI. Portare la persona a verificare che le ipotesi fatte corrispondano alla realtà e non alla fantasia. “Che dati ho a conferma delle mie ipotesi?”.
OTTAVO PASSO: RICONFIGURAZIONE DEL RAPPORTO. Le valutazioni malevole attribuite al coniuge ingigantiscono le problematiche. La riconfigurazione consiste nel riconoscere in una luce diversa queste caratteristiche negative, valutare le alternative.
NONO PASSO: DEFINIRE LE PROPRIE DISTORSIONI. In questa fase si passa alla individuazione delle distorsioni cognitive che sono applicate ai pensieri.
Per concludere, dopo aver acquisito una certa esperienza nelle analisi delle proprie reazioni emotive è possibile capire che direzione potrebbe prendere la propria relazione.
Andare avanti e tollerare, o concludere scegliendo altro?
BIBLIOGRAFIA:
Beck, A.T. (2003). L’amore non basta. Come risolvere i problemi del rapporto di coppia con la terapia cognitiva. Astrolabio, Roma.
Psicologia: gli occhi puntati sul social network: 130 pubblicazioni accademiche in 3 anni.
La recente crescita esponenziale dei social network come Facebook e la rilevanza che stanno assumendo a livello mondiale ha coinvolto anche il mondo della ricerca in psicologia e psicoterapia. Negli ultimi tre anni sono state pubblicate oltre 130 ricerche su riviste scientifiche e psicologiche riguardo Facebook.
La maggior parte delle ricerche ha cercato di verificare diversi miti e pregiudizi legati ai social network o di esplorarne le potenzialità dal punto di vista del benessere psicologico.
Innanzitutto pare infondata la credenza che la presenza sui social network produca una riduzione delle relazioni interpersonali faccia-a-faccia.
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Al contrario, sono proprio gli estroversi ad essere più presenti e ad usare questo strumento come estensione della propria socialità in vivo più che come un suo sostituto (Kujath, 2011). Le persone introverse invece possono usare facebook come strumento di facilitazione dei contatti interpersonali da cui potrebbero essere esclusi, certo in questo caso non rappresenta la soluzione ottimale ma può ridurre la sensazione di isolamento.
Un secondo vantaggio di Facebook sembra essere un rilevante sostegno alla propria autostima. Molti ritengono che il confronto con altri profili possa aumentare un senso di inadeguatezza. Invece la possibilità di selezionare le modalità di autopresentazione nei profili di Facebook (es: cosa scrivere, cosa pubblicare ecc…) e la cura della propria immagine online sembrano conferire più soddisfazione e senso di autoefficacia sociale (Gonzalez & Hancock, 2011).
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Infine, Facebook è risultato essere un buon strumento di supporto sociale. Le persone tendono a esprimere maggiormente i propri sentimenti di malessere online rispetto a quanto non facciano nella vita quotidiana e parallelamente ricevono più supporto dai commenti di amici e di altre persone e sentono gli altri più vicini e accoglienti. In questa direzione Facebook potrebbe rappresentare una nuova via per combattere lo stigma solitamente associato alla sofferenza psicologica (Moreno et al., 2011).
BIBLIOGRAFIA:
Kujath, Cyberpsychology, Behavior and Social Networking, 2011, 14:75-78
Gonzalez & Hancock, Cyberpsychology, Behavior and Social Networking, 2011, 14:79-83
Moreno et al., Depression and Anxiety, 2011, in press.
La tecnica ABC, ben descritta nei lavori di Ellis (1957) e successivamente da Beck (1975), è utile per aiutare il paziente a prendere coscienza di come si sviluppano i propri episodi emozionali, a partire da un evento che accade nel qui ed ora.
La tecnica ABC non solo è uno schema teorico utile per concettualizzare le variabili fondamentali connesse alla condotta dell’individuo, ma è anche una procedura tramite la quale può essere concretamente attuata una valutazione, una formulazione del caso, una sua pianificazione, ed un trattamento.
La struttura logica connessa alla tecnica ABC può essere immaginata come uno schema a tre colonne:
A -Activating event- identifica le condizioni antecedenti, gli stimoli, gli eventi, le situazioni.
B -Belief system- indica il sistema di credenze, il pensiero, il ragionamento, le attività mentali che formano il Bagaglio o la Base cognitiva dell’individuo.
C -Consequences- definisce le conseguenze di queste attività mentali ed identifica reazioni emotive e comportamentali (De Silvestri 1981).
L’aspetto centrale dell’interesse cognitivista per il funzionamento mentale riguarda la distinzione delle attività e dei processi cognitivi rappresentati e focalizzati dal B. Classicamente sono prese in considerazione le seguenti attività psichiche: immagini, inferenze, valutazioni, assunzioni personali, schemi.
Le immagini, attività sensoriali e mnestiche, sono prese in considerazione in quanto parte integrante delle rappresentazioni soggettive riguardanti la interpretazione di un dato evento. Esse riflettono direttamente il significato attribuito dal soggetto ad un dato evento e il contributo dei processi di elaborazione più automatici (regole, assunzioni personali, inferenze, pensieri).
I pensieri sono ipotesi che attengono alla presenza o assenza di condizioni fattuali, cioè di eventi attesi nell’A. Alcuni sono elaborati in modo quasi-automatico, e quindi il soggetto non è immediatamente cosciente, tanto che Beck (1975) li ha definiti pensieri automatici, oppure possono essere predizioni su ciò che accadrà, sta accadendo o è accaduto; ad ogni evento il soggetto attribuisce delle caratteristiche e delle cause, ma tali attribuzioni sono guidate dalla propria base conoscitiva.
A tutto questo segue un’emozione, C, derivante direttamente dal pensiero, e un comportamento che il soggetto mette in atto per far fronte a quanto ne consegue.
BIBLIOGRAFIA:
Ellis, A. (1957). Rational psychotherapy and individual psychology. Journal of Individual Psychology, 13, 38-44.
Beck, A.T. Cognitive Therapy and the Emotional Disorders. Intl Universities Press, 1975.
De Silvestri, C. (1981). I fondamenti teorici e clinici della terapia razionale emotiva, Astrolabio, Roma, 1997.
La consapevolezza cosciente: Necessaria o Accessoria?
Lo strano caso della scacchiera infornata: il ruolo della consapevolezza percettiva nell’elaborazione delle informazioni.
Esiste una funzione della nostra consapevolezza cosciente (conscious awareness) nel processamento dell’informazione oppure è soltanto un sottoprodotto epifenomenico, certamente significativo, ma senza alcun ruolo funzionale? La questione da sempre ha portato a dibattere psicologi, filosofi e neuroscienziati. Un nuovo studio della Hebrew University di Gerusalemme e pubblicato su Psychological Science si avventura nella questione, ponendosi l’obiettivo di verificare se la funzione cardine della consapevolezza cosciente percettiva sia quella di integrare diversi input percettivi, quali un insieme di caratteristiche e oggetti costituenti una scena complessa, verso una esperienza percettiva unitaria, coerente e significativa.
Per verificare tale ipotesi, è stata utilizzata una tecnica di rivalità binoculare per indurre una “soppressione percettiva”: ai partecipanti venivano presentate a un occhio alcune fotografie di azioni umane, mentre contemporaneamente l’altro occhio vedeva lo sfarfallio di colori che distoglieva l’attenzione del soggetto, così che non fosse consapevole per diversi secondi delle scene che venivano presentate al primo occhio. Entro due condizioni sperimentali, sono state mostrate in un caso fotografie di scene raffiguranti azioni umane abituali, come per esempio un giocatore di basket che salta al canestro con in mano una palla; nell’altro caso i soggetti venivano presentate immagini più inusuali, per esempio un giocatore di basket che salta al canestro con in mano un’anguria. I soggetti a loro volta dovevano indicare, il più velocemente possibile, il riconoscimento di qualche porzione o dettaglio delle scene loro proposte. Tale procedura ha consentito la misurazione del tempo con cui le scene, siano esse normali e insolite, “vincevano la competizione” contro lo sfarfallio colorato presentato all’altro occhio, sfondando quindi il muro della consapevolezza visiva conscia.
Dai risultati è emerso che le scene inusuali – una casalinga che inforna una scacchiera- sfuggivano prima alla soppressione percettiva, accedendo quindi più rapidamente alla consapevolezza cosciente rispetto a scene normali e abituali – la nostra casalinga che inforna una torta.
Quindi, anche prima che i partecipanti fossero consapevoli dell’esistenza della scena stessa, la relazione semantica tra le diverse componenti della scena complessa era già stata elaborata: sembrerebbe che l’integrazione percettiva degli oggetti all’interno di una scena complessa, non sia prerogativa della consapevolezza percettiva ma possa essere raggiunta anche senza di essa.
Possiamo relegare dunque la consapevolezza conscia a mero epifenomeno, bene di lusso non strettamente necessario? Estremamente rischioso, dato che tale i risultati della ricerca ci dicono che quando ci troviamo di fronte a esiti non previsti e anomali di tale integrazione, quali eventi, situazioni, scene semanticamente insolite e sconosciute, a livello percettivo la consapevolezza conscia entra in gioco rapidamente per rendere conto dell’enigma.