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Utilizzo di MDMA (Ecstasy) e neurotossicità.

– Rassegna Stampa –
Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze PsicologicheL’MDMA, più comunemente conosciuto come l’ecstasy, è la sostanza più usata nei “rave” e in generale nelle discoteche perchè in grado di provocare forti sensazioni di euforia e calore emotivo.
Nel corso di un indagine condotta nel 2010 negli Stati Uniti, 15,9 milioni di americani hanno dichiarato di aver fatto uso di ecstasy nel corso della loro vita e 695.000 persone avevano fatto uso di ecstasy nel mese prima di essere esaminati da un gruppo di ricercatori della Vanderbilt University.
I risultati dello studio, pubblicati negli Archives of General Psychiatry, mostrano che l’uso di ecstasy produce neurotossicità a lungo termine negli esseri umani; l’effetto si rileva a livello dei recettori della serotonina, un neurotrasmettitore che ha un ruolo importante nei processi di regolazione del tono dell’umore, dell’appetito, del sonno, di apprendimento e memoria. I ricercatori hanno usato la PET per rilevare i livelli dei recettori di serotonina in diverse aree del cervello in due gruppi di donne, che avevano fatto uso di MDMA e che non l’avevano mai usato.
Le rilevazioni mostrano che l’uso di ecstasy ha prodotto un aumento del numero di recettori della serotonina, a compensazione della perdita cronica di serotonina provocata dall’uso della sostanza.
Sembra però che l’MDMA possa anche avere effetti terapeutici nel trattamento, attualmente in fase di sperimentazione, del disturbo post-traumatico da stress e nell’ansia associati al cancro. Questi dati sostengono la necessità di stabilire a quali dosaggi questa sostanza risulta tossica e se esistono fattori di vulnerabilità alla tossicità.

Il metodo della monetina in Psicoterapia. Testa o Croce?

Elena Ponzio.

Il Metodo della Monetina in Psicoterapia: Testa o Croce? - Immagine: © ra3rn - Fotolia.com Recentemente la mia attenzione è stata catturata da un interessante articolo sul misterioso strumento terapeutico noto come “la Bacchetta Magica”. Per utilizzarlo e scoprirne l’insospettabile e versatile efficacia non è necessario tuttavia essere un mago, né aver letto tutti i libri di Harry Potter; basta infatti aver frequentato, come citato dal collega Frazzoni, le lezioni di psicoterapia del Dr Vinai. E se la bacchetta magica stimola la creatività del paziente e permette di aggirare gli ingorghi della diatriba verbale e della razionalità, mi sembra particolarmente importante la sua capacità di svelare preferenze o aspirazioni che spesso restano inaccessibili.

Nell’ambito dunque dei rimedi homemade, trucchi, trucchetti e stratagemmi per la terapia e per la vita, vorrei riproporre in chiave psicoterapica l’antico sistema della monetina.

Quando è difficile scegliere tra due possibilità, quando pensando e ripensando proprio non si giunge ad una conclusione, ecco venire in nostro soccorso la classica monetina. Dal sesterzio fino all’euro questo facile e casuale metodo di scelta ha sempre dato risultati chiari e definiti (non si conoscono infatti molti casi di monetine rimaste in bilico di taglio) e tuttavia l’arbitrio affidato al caso dirime da tiranno le questioni irrisolte e configura una strategia forse un po’ primitiva e sicuramente molto spesso insoddisfacente.

 

Ma è proprio in quest’ultima parola – insoddisfacente – che risiede a mio avviso il potenziale della moneta! Con un semplice e leggero sforzo metacognitivo si può insegnare al paziente a far sì che da tiranna la moneta diventi geniale consigliera: se infatti sono insoddisfatto del risultato ottenuto, voilà, la soluzione sarà chiara davanti a me!

Imparare a porre attenzione e a riconoscere gli stati emotivi o i pensieri che rapidissimi attraversano la mente in un dato istante e per un dato evento è sicuramente uno degli obiettivi della psicoterapia. Così quel fugace: “testa!! Accidenti, no, preferivo croce!!!” può svelare ciò che ad una prima riflessione non era chiaro circa la propria preferenza, o i propri desideri. Una volta conquistata la consapevolezza della preferenza nascosta e ricordando a noi stessi che siamo per fortuna esseri liberi di scegliere, sapremo che direzione dare alle nostre azioni con buona pace della monetina. La difficoltà della scelta infatti non dovrebbe oscurare il valore inestimabile della possibilità stessa di scegliere e della libertà!

E a chi potrebbe obiettare che svelato il trucco trovato l’inganno, insomma, che se sai che la monetina non comanda allora a cosa serve tirarla, rispondo: “Ma davvero avete mai pensato di affidare la vostra vita ad una monetina??!!” E poi, quanti di voi avranno giocato almeno una volta al super enalotto sognando milioni quando tutti sanno che è più probabile venire colpiti da un meteorite portando a spasso il cane piuttosto che azzeccare la combinazione vincente?!!

L’uomo è sempre stato un po’ superstizioso, il caso e la fortuna si accompagnano ancora oggi ai progressi della scienza e un po’ di irrazionale trova spazio in ognuno di noi: la differenza la si fa prendendone atto e usandola a nostro vantaggio! E allora, davvero voglio pubblicare questo articolo?

Testa o croce?

 

Il Tamponico (o Mammese): una strana lingua. (Bruno Osimo, Dizionario affettivo della lingua ebraica)

L’invenzione più divertente di questo bel libro (Bruno Osimo: Dizionario affettivo della lingua ebraica. Marcos Y Marcos editore), è il “tamponico” lingua materna che implica il tamponare, attutire, manipolare la realtà con fini che avvolgono il figlio in una perenne confusione, in dubbi eterni, in titubanze e incertezze.
Mammese o Tamponico. Autore: Costanza Prinetti

 

Lei parla mammese, detto anche tamponico. Questa lingua non è ancora stata analizzata, ma consiste fondamentalmente nel fatto che non si descrive la realtà come appare, ma come apparirebbe se non facesse paura. Se non mettesse in imbarazzo. Se non facesse provare dei sentimenti. Più che una lingua, è una difesa. È uno smorzamento, un ammosciamento. È un’attenuazione. È un materasso, un respingente, un tampone.

 

Questa bella invenzione/definizione linguistica mi ha fatto venire voglia di definire meglio l’attività manipolativa nelle relazioni interpersonali.

MANIPOLAZIONE:

  1. Una persona ha un’idea che considera giusta sulla realtà, sugli altri, sul mondo.
  2. Ha il desiderio o l’urgenza che questa lettura venga accettata da altri.
  3. Non ha voglia, desiderio o capacità di affrontare un dialogo tra pari che potrebbe portare a risultati incerti.
  4. Si adopera ad una rilettura della realtà in modo che l’altro non comprenda, non si orienti, accetti il suo punto di vista come vero e necessario.

Nella sua versione severa questa patologia ovviamente tocca la perversione. Nella sua versione quotidiana e meno severa, genera però danni sia in chi tampona (chi utilizza il linguaggio tamponico) sia in chi ne è vittima. Ad esempio alcune persone manipolano in modo consapevole, altre non conoscono altro modo di comunicare. Infatti la distinzione tra “mi conviene” e “non so fare altro” è importante dal punto di vista clinico perché ci porta a interventi differenti.

 

DANNI IN CHI MANIPOLA (TAMPONA):

  • Il manipolatore / tamponatore non impara a confrontarsi in modo maturo e forte con gli altri.
  • Non si abitua ad ascoltare ed esplorare punti di vista diversi, nuovi, creativi.
  • L’onnipotenza manipolativa è un’illusione che nel tempo mostra i suoi limiti nella scarsa propensione a mettersi in gioco su partite grandi e complesse e dal risultato incerto.

DANNI NEL MANIPOLATO (TAMPONATO):

  • Il manipolato / tamponato perde chiarezza sui propri scopi personali.
  • Disimpara a fare i conti e a leggere in modo fine le proprie emozioni.
  • A volte si irrita se si rende conto di essere oggetto di manipolazione.
  • I suoi scopi si disorganizzano e nel tempo diviene per lui difficile fidarsi di portare avanti progetti complessi con determinazione.
  • Diviene passivo, a volte depresso, apatico, malinconico.

 

ESEMPIO DI EVENTO MANIPOLATORIO (TAMPONICO):

  1. Una madre di una figlia adolescente, odia certe scarpe leopardate e bizzarre che la ragazza ha comprato, le ritiene brutte e non conformi ai suoi gusti. La figlia resiste e le difende con forza e determinazione. Un giorno la figlia si assenta da casa e tornando la madre le dice: “Sorpresa! Ho messo a posto la tua stanza, ti ho comprato una nuova coperta per il letto e ho buttato alcuni vecchi ciaffi che avevi in giro!”
  2. La figlia si sente contenta, è anche grata.
  3. Poi va a cercare le sue scarpe e non le trova. La madre le dice: “ah scusa, mettendo ordine forse le ho gettate…”
  4. La figlia entra in confusione: da un lato deve essere grata alla gentilezza della madre che le ha messo a posto la stanza, dall’altro è arrabbiata e triste della perdita delle sue scarpe. Se dimostra irritazione viene considerata ingrata, se tace si sente sconfitta.
  5. L’esito nel lungo periodo: tristezza, confusione, rabbia, passivizzazione. Desiderio, spesso irrealistico, di essere ascoltata.

La cocaina, Sigmund Freud e la lezione dei maestri

Recentemente sulla New York Review of Books si è parlato degli effetti –positivi e negativi- che ebbe il consumo di cocaina sulla produzione creativa di Sigmund Freud. L’occasione è la recensione di un libro di Howard Markel che racconta meticolosamente un fatto noto ma spesso taciuto: che Freud fu per circa 15 anni assiduo consumatore di cocaina.

Markel suggerisce che parte delle più audaci elaborazioni di Freud, quali le inferenze più acrobatiche sul significato metaforico dei sogni, la propensione a percepire le sue meditazioni in coppia con Wilhelm Fliess come illuminazioni messianiche, e anche la sua tendenza a giudicarsi circondato da nemici, tutte derivino dal consumo alto, forte e continuo di cocaina.

Nonostante alcuni tratti irritanti delle argomentazioni del recensore Crews, dalle quali emerge una certa antipatia verso la psicoanalisi (argomentazioni non sempre condivise dall’autore del libro, Markel, più prudente e benevolo verso Freud), alcuni punti fanno pensare. A quanto pare, in concomitanza con il consumo di cocaina, a un certo punto degli anni novanta dell’ottocento Freud comincia a mostrare segni di pensiero magico: strani giochi di numerologia con Fliess, applicazioni della numerologia di Fliess al timing delle mestruazioni maschili (avete letto bene: maschili; si tratta di un’idea un po’ fantasiosa di Fliess).

E’ vero che mentre fa questo Freud continua a scrivere anche sull’afasia in maniera scientificamente inappuntabile. Non ha perso completamente la testa, ma è di questo periodo anche una modalità di pensiero “associativa, autoconfermativa, visionaria e capace di spiegare tutto”  che si allontana dai fondamenti del pensiero scientifico dell’epoca. “Nel 1894 comincia a sentirsi un eroe solitario” e questi stati d’animo abbassano la severità del suo rigore empirico. Crews sostiene che la abbassano, ma non lo demoliscono perché Freud mantiene fino alla fine la capacità di muoversi da una modalità più scientifica all’altra più vaga e autoconfermativa. E sostiene che “l’altra” fu fortemente influenzata dalla cocaina.

 

Il pericolo di autoreferenzialità e ortodossia nel percorso del sapere scientifico

Ci interessa tutto questo a noi che non siamo psicanalisti e non abbiamo riferimenti teorici ai quali richiamarci o da proteggere? Sì, ci interessa perché una certa abitudine all’isolamento autoreferenziale nel mondo psicanalitico è rimasta, una certa compiacenza a isolarsi tra vicini di pensiero, a non confrontarsi con il pensiero diverso, a richiamarsi all’ortodossia.

E paradossalmente è stata proprio l’ortodossia la lama che ha poi spezzettato il movimento psicoanalitico in tante frammentate correnti e movimenti: se la protezione del pensiero conforme diviene lo scopo privilegiato, allora se non sono d’accordo su alcuni punti devo andar via, devo fondare un’eresia. Questa chiusura sta diminuendo in questi anni proprio perché la psicoanalisi ha incontrato il pensiero moderno e scientifico e si sta mettendo in relazione con nozioni provenienti da mondi differenti: le neuroscienze, la ricerca in psicoterapia, e anche la scienza cognitiva e la psicoterapia cognitiva.

 

Ortodossia ed eresie nel mondo della psicoterapia cognitiva attuale

Lasciamo ora il campo psicoanalitico e parliamo un po’ di analoghi fenomeni avvenuti nel mio mondo cognitivo. Forse un certo tipo di personalità debordante è tipica dei padri fondatori. Il triste commiato professionale di Albert Ellis ci dice quanto sia difficile uscire di scena, dover scomparire. Arte di pochi in ogni campo.

Anche in Italia non sempre il nostro padre fondatore, Vittorio Guidano, si dimostrò capace di essere un buon nutritore di giovani seguaci e talvolta mostrò la propensione a concentrarsi troppo su di sé e a divorare, come Crono, chi non seguiva il suo dettato. Ma lasciamo da parte questi tristi racconti e torniamo al presente. Le ultime evoluzioni del cognitivismo clinico hanno visto un fenomeno nuovo: l’emergere improvviso di personalità di padri fondatori che, invece di rimanere nel solco del lavoro già fatto per svilupparlo, tendono a fondare nuovi inizi rinnegando il passato.

Sono dei Maestri con la maiuscola, fondatori di nuove scuole: Hayes con la sua ACT, Wells con la sua Metacognition Therapy, Young con la Schema Therapy. Tutti e tre non si sono accontentati di essere solo terapeuti cognitivi, come del resto a suo tempo Guidano volle essere, aggiungendo l’aggettivo “post-razionalista” al suo cognitivismo. Ripeto: forse una certa componente narcisista e perfino paranoica è necessaria e inevitabile per indicare nuove direzioni. Fatto sta che però si paga anche un prezzo.

Il punto interessante è il nascere in persone creative, nel bel mezzo di una vita di studio e idee, di tratti di pensiero sconcertanti. Si comincia a sentirsi più unici, ma anche più splendidamente isolati. Insomma, gli altri ci invidiano. Le nostre idee sono le più importanti, e chi non è d’accordo è uno sciocco, un invidioso, forse perfino un immorale. Le critiche fatte al nostro pensiero sono risibili. Ci si sente bene solo nel gruppo di devoti che sono sempre d’accordo con noi. Scompare il dovuto rispetto alle idee dell’altro, scompare la curiosità. Diventa difficile un dibattito su cose concrete: “solo nel mio gruppo mi trovo veramente al sicuro e non vedo minacciate le mie idee”. E, per finire, è dunque giusto che io fondi un movimento, con un suo nome che cambierà per sempre e in modo radicale la storia della psicoterapia.

In realtà questa tendenza a rifondare sempre tutto è il problema della psicoterapia. Se smetto il confronto nutrendo disprezzo verso gli altri sono destinato nel tempo a ritrovarmi lontano dai luoghi dove il nuovo accade. E così le idee divengono marmoree, fissate in uno spazio atemporale. Ma se non ho il coraggio di una discussione franca e dura, emargino automaticamente le persone creative che se ne vanno, mi lasciano, per andare a discutere altrove.

Questi sono i cattivi maestri. Che con la loro brillantezza creano, ma generano anche problemi nel tempo. Ne parla George Steiner in “La lezione dei maestri”. Invece il vero maestro lascia crescere e maturare come Socrate e accetta l’indipendenza di giudizio nel quadro di una relazione che dura nel tempo.

Sarcasmo: cosa comprendono i bambini

– Rassegna Stampa –

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze PsicologicheGià a sei anni i bambini sono in grado di comprendere espressioni sarcastiche usate allo scopo di consolare o punzecchiare l’interlocutore.

Una logopedista della Kansas State University ha studiato proprio la comprensione del sarcasmo nei bambini di questa età e ha scoperto che non tutte le espressioni di sarcasmo sono ugualmente comprese nella loro ironia, ma solo quelle più convenzionali, cioè quelle comunemente usate, indipendentemente dal contesto del momento. L’ironia permette di esprimere indirettamente ciò che si sta pensando, e nel sarcasmo ciò che diciamo esprime tutto il contrario di ciò che stiamo pensando, per cui lo scollamento tra ciò che si dice e ciò che si pensa è particolarmente marcato.

Comprenderne l’intenzione comunicativa da parte di un interlocutore richiede quindi una certa quantità di lavoro extra, sia dal punto di vista linguistico che cognitivo, e per i bambini piccoli questo è un compito particolarmente difficile. A facilitarlo, secondo i risultati dello studio che è stato presentato al convegno annuale dell’American Speech-Language-Hearing, è l’opportunità da parte dei bambini piccoli di imparare il significato convenzionale delle più comuni espressioni sarcastiche. La logopedista e ricercatrice ha mostrato a bambini di 6 e 8 anni una vignetta dove un personaggio commentava sarcasticamente il fatto che un altro personaggio avesse bruciato tutti i biscotti nel forno, le frasi pronunciate erano due: “bel lavoro!”, considerata nella lingua inglese convenzionalmente sarcastica, e “che squisiti questi biscotti!”, con un ironia più legata al contesto del momento.

I risultati confermano che, indipendentemente dall’età, dal sesso e dalla presenza di un disturbo del linguaggio, i bambini comprendevano più facilmente l’ironia contenuta nella prima frase che nella seconda. Questa sembra essere un indicazione importante per logopedisti e adulti, affinchè lavorino insieme ai bambini sulla comunicazione e la pragmatica insegnando loro le frasi convenzionalmente più usate.

 

BIBLIOGRAFIA:

 

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Matrimonio gay: bambini felici con 2 mamme.

Articolo di Giovanni Maria Ruggiero.

Gay, Lesbo, Bisex e Transgender: l'approssimarsi della terza età. - Rassegna StampaDi fronte alle affermazioni di Scilipoti sull’orientamento sessuale di Paola Concia occorre essere onesti e confessare cosa c’è in ballo. In ballo c’è il timore del matrimonio gay. Ebbene, proprio l’onestà ci deve far prendere atto che le argomentazioni a sfavore di questo tipo di matrimonio scientificamente non reggono. Di queste, la principale argomentazione riguarda i figli. Matrimonio gay significa genitorialità gay. E cosa accade ai bambini che crescono in queste famiglie? Ebbene, va detto: nulla di grave. Nessun parametro psicologico o evolutivo ci ha mostrato numeri che dimostrino che per i bambini sia controindicato crescere con genitori omosessuali.

Questi sono i dati forniti in vari studi scientifici (Stacey e Biblarz, 2001; Biblarz e Stacey, 2010) e poi confermati nel 2005 da un rapporto ufficiale sulla genitorialità di lesbiche e gay dell’APA, la American Psychological Association.

Per i conservatori non è dunque il caso di fare i piagnucolosi. E da conservatore qual sono io, mi spiace che il fronte conservatore sia rappresentato da Scilipoti. Occorrerebbe semmai rispondere con un po’ di leggerezza. Per esempio, notando signorilmente che la scienza ha ormai dimostrato che i figli di coppie omosessuali non solo non soffrono di alcun svantaggio, ma addirittura stanno meglio, sono educati meglio e godono di una nutrita serie di vantaggi: minore frequenza di punizioni corporali; minor frequenza di alterchi, contrasti e litigi in famiglia (insomma, un ambiente familiare più sereno); migliore capacità di discutere i problemi emotivi con i figli; maggiore interessamento e coinvolgimento negli sforzi scolastici; minori “problemi comportamentali” (insomma, meno comportamenti strani, da fuori di testa); migliore percezione della propria “competenza cognitiva” (ovvero, i figli di genitori omosessuali si sentono più intelligenti); migliore percezione della propria “competenza fisica” (ovvero, i figli di genitori omosessuali si sentono più a loro agio con il loro corpo); minore aggressività; minore convinzione di superiorità del proprio sesso; minori pressioni al conformismo dei ruoli sessuali; maggiore tolleranza del non conformismo nei ruoli sessuali; minore aspirazione tra le ragazze a ruoli maschili; meno marcata identità eterosessuale nelle ragazze; maggiore flessibilità di genere tra i ragazzi.

Il quadro è abbastanza impressionante. A leggerlo, sembrerebbe inevitabile reagire pensando che nascere in una famiglia eterosessuale sia una mezza disgrazia, da accettare con leggerezza e ironia. La stessa ironia che consiglio a Scilipoti.

Giovanni M. Ruggiero, Medico Chirurgo, specialista in Psichiatria e in Psicoterapia Cognitiva. Dirige il giornale online di scienze psicologiche “State of Mind” (link www.stateofmind.it)

 

 

BIBLIOGRAFIA:

 

La lettura dei ricordi

– Rassegna Stampa –

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze PsicologicheLe testimonianze oculari sono da sempre trattate con scetticismo all’interno dei tribunali perché, a dispetto dell’assoluta certezza del ricordo da parte del testimone, spesso vengono smentite dalle prove scientifiche.

Un gruppo di ricercatori provenienti da diverse università americane si sono chiesti se esiste un modo per rendere più affidabile il processo di riconoscimento e la lettura dei ricordi: sembra proprio di si, monitorando i movimenti oculari infatti è possibile definire su cosa e per quanto tempo l’attenzione viene focalizzata e sulla base di questo operare una distinzione tra materiale noto e materiale nuovo, anche in assenza di resoconti accurati.

Il disegno sperimentale consisteva essenzialmente nel discriminare stimoli noti, precedentemente studiati dai partecipanti all’esperimento, da stimoli non noti e a volte somiglianti a quelli studiati. La scelta avveniva sia premendo un pulsante che attraverso una dichiarazione verbale. L’aspetto più interessante della ricerca riguarda il fatto che prima di premere il pulsante di scelta il target prescelto veniva osservato a lungo e molto attentamente rispetto agli altri target presentati contemporaneamente, tuttavia subito dopo aver compiuto la scelta i movimenti oculari mimavano la scelta fatta, indipendentemente dal fatto che fosse giusta o sbagliata.

In altre parole la pre-visualizzazione della risposta sembra riflettere l’esperienza reale, mentre la visualizzazione che segue la scelta sembra riflettere più che altro il processo decisionale; inizialmente l’esplorazione estesa e prolungata del target contribuisce ad aumentare la consapevolezza che lo si conosce, successivamente però i processi cognitivi di valutazione intervengono, permettendo di effettuare la scelta definitiva ma condizionando anche l’esplorazione visiva del materiale e quindi potenzialmente fuorviando la valutazione stessa e la decisione.

La tecnica di osservazione dei movimenti oculari, assicurano i ricercatori, bypassando i resoconti, potrebbe essere utilizzata per esaminare la memoria in alcuni pazienti psichiatrici e nei bambini, cioè con quei soggetti che possono avere problemi a comunicare ciò che ricordano.

Erezioni Virtuali: Porno Online e Impotenza

Erezioni virtuali: l’abuso di pornografia induce disfunzioni erettili e impotenza.

Erezioni virtuali - Immagine: © Blanca - Fotolia.com -Una recente ricerca condotta dalla Dott.ssa Robinson , collega impotenza e disfunzioni erettili alla troppa “attività” virtuale. Immagini erotiche, filmati, foto, sesso online renderebbero notevolmente inferiore la qualità del sesso “reale”: quando si dice il troppo stroppia.

Da un’analisi dei casi di impotenza giovanile, si evince che l’unica variabile, trasversale ai ragazzi che si rivolgono al medico per problemi di funzionalità erettile, è il frequentare assiduamente siti internet porno; nessun’altra caratteristica sembra fare la differenza, sia essa culturale o etnica, sia l’uso di cannabinoidi o l’abuso di alcolici…

Una conferma di questo dato emerge anche dal sondaggio dell’urologo Carlo Foresta (Società Italiana di Andrologia e Medicina Sessuale, Professore dell’Università di Padova). Il motivo principale che aveva spinto questo lavoro stava nella constatazione del fatto che un numero sempre maggiore di giovani si stava rivolgendo a consultori e specialisti riferendo di avere problemi di impotenza e un generale calo del desiderio sessuale, senza però presentare alcun problema psicologico o fisico. Da qui la SIAMS ha ritenuto necessario condurre un’analisi sul comportamento sessuale dei giovani italiani per andare a trovare l’origine di questo fenomeno. In particolare sono stati messi in relazione questi disturbi e la frequentazione della pornografia online. Si è quindi indagato quando e quanto 28 mila giovani italiani ricorressero alla pornografia online. Secondo i dati emersi, sarebbero 8 milioni i fedelissimi dei siti pornografici: il 70% sono uomini tra i 24 e i 44 anni e il 10% sarebbe costituito da minorenni.

“Dall’analisi” sostiene Foresta “emerge che la frequentazione dei siti pornografici comincia molto precocemente, tra i 15 e i 16 anni, e avviene quotidianamente anche per 3-4 anni”. Questo avrebbe poi una ripercussione importante sulla maturazione di una vita sessuale legata all’affettività, creando una sorta di assuefazione all’esperienza sessuale, anche quella più violenta, che porterebbe con se un disinteresse per la sessualità reale.

Tornando allo studio della Dott.ssa Robinson la spiegazione della perdita della libido e delle difficoltà erettili sarebbe correlata ad un eccesso di stimolazione della dopamina, il neurotrasmettitore che attiva la reazione del corpo al piacere sessuale, connesso al massiccio utilizzo di materiale pornografico. Il cervello, infatti, a causa dell’eccessiva ed elevata stimolazione dovuta alla dopamina, perde la sua capacità di rispondere ai segnali di questo neurotrasmettitore.

Una sorta di effetto paradosso. Gli internauti, quindi, necessitano di esperienze sempre più estreme per arrivare ad un’eccitazione sessuale normale. La Dott.ssa Robinson ha aggiunto: ”In alcuni soggetti la risposta della dopamina è così bassa che non riescono a raggiungere un’erezione senza ulteriori e costanti stimoli tramite internet”.

Che fare allora?

L’unica indicazione terapeutica che emerge dall’articolo “Porn-Induced Sexual Dysfunction is a Growing Problem” è il rimanere astinenti dalla stimolazione erotica di internet; un periodo di alcuni mesi (6-12 settimane) senza l’assidua frequenza ai siti porno permetterebbe al cervello di resettarsi e “disintossicarsi” dalla pornografia. Ovviamente come ogni periodo di astinenza successivo ad una dipendenza possono verificarsi momenti di irritabilità, disforia, insonnia, difficoltà di concentrazione. Ma forse, se la controparte è il recupero della funzionalità erettile, allora il gioco vale la candela.

 

 

BIBLIOGRAFIA:

Riconoscere i volti: il modello olistico e quello analitico.

 

– Rassegna Stampa –
Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze PsicologichePerchè alcune persone riconoscono facilmente volti già visti e altre fanno più fatica o addirittura falliscono del tutto?
Un nuovo studio, che verrà pubblicato sulla rivista Psychological Science, fornisce la prima evidenza sperimentale che le differenze individuali rispetto a questa importante abilità sociale sono radicate nel modo unico in cui la mente percepisce i volti.
Dallo studio risulterebbe infatti che gli individui che percepiscono i volti in modo olistico, cioè come un insieme integrato, siano facilitati nel riconoscimento facciale rispetto a quelli che invece hanno una percezione più analitica, cioè che si focalizza sui singoli elementi che compongono il viso.
Due sono le situazioni sperimentali a sostegno del fatto che la percezione olistica è il processo elettivo nella percezione di volti: in un primo esperimento i partecipanti dovevano riconoscere le immagini di volti che erano stati tagliati orizzontalmente e poi ricombinati tra loro; il riconoscimento si è dimostrato più semplice nel caso in cui le due metà rimanevano disallineate tra loro, rispetto a quando venivano presentate incollate insieme; in questa seconda condizione infatti il processo di elaborazione olistica delle informazioni spinge il cervello a combinare automaticamente le due parti in una nuova forma, che è percepita come diversa da quelle già viste. Il secondo esperimento prevedeva invece il riconoscimento di singole parti del viso in due diverse condizioni: insieme ad altre parti simili (ad esempio tutti nasi) o all’interno di un viso; anche in questo caso il riconoscimento è stato facilitato dalla condizione in cui le singole parti comparivano all’interno di un insieme integrato di elementi.
A sostegno del fatto che il processo di riconoscimento olistico è unico e indipendente i ricercatori sottolineano anche che non sono state trovate correlazioni con il livello di intelligenza dei partecipanti all’esperimento. Questi risultati potrebbero essere utili nel trattamento di disturbi come la prosopagnosia (cecità al viso) e l’autismo, allenando per esempio alla percezione olistica, con l’obiettivo di facilitare il riconoscimento dei volti familiari.
BIBLIOGRAFIA:

150 amici da contare di tre in tre!

150 amici organizzati in cerchie concentriche.

“Si narra che Noè ha contato gli animali dentro l’Arca a due a due. Probabilmente stava pensando in termini di riproduzione. Se avesse pensato in termini sociali avrebbe contato i suoi animali di tre in tre” (Dunbar, 2011).

150 amici in cerchie - Immagine: © alma_sacra - Fotolia.com - Nei precedenti articoli pubblicati su State of Mind e intitolati “150 Amici” e “I segreti per mantenerli” abbiamo imparato che possiamo avere 150 amici, ma questi 150 hanno tutti lo stesso valore? Proviamo a porre attenzione ai nostri 150 amici e alle nostre dinamiche relazionali; con facilità possiamo individuare differenti “cerchie di intimità”.

Non con tutte le persone sentiamo di avere lo stesso legame, infatti non a tutti raccontiamo tutto, ma scegliamo accuratamente con chi condividere i nostri segreti più intimi. All’interno del suo nuovo libro Dunbar ci spiega che in realtà esiste una regola matematica per identificare le differenti “cerchie”.

La “cerchia più interna” è costituita da tre – cinque, persone che costituiscono il nucleo degli amici più intimi: quelli a cui ci rivolgiamo nei momenti difficili per avere consigli e conforto. Insomma gli amici del cuore, quelli che non ci abbandonano mai e sanno praticamente tutto di noi. Oltre a questa cerchia se ne trova una leggermente più ampia costituita da altre dieci persone, solitamente sono amici meno intimi. Solitamente fanno parte di questa cerchia persone con le quali si ha piacere di condividere una serata ogni tanto, come per esempio fra compagni di classe, i compagni dei nostri amici oppure i colleghi di lavoro che ci stanno più simpatici. Oltre a questa seconda se ne trova una terza ancora più grande di approssimativamente trenta persone, che iniziano ad essere sempre più conoscenti e sempre meno amici, come per esempio l’amica dell’amica oppure i colleghi di lavoro, però quelli meno simpatici.

Dunbar ha notato che se si considera ciascuna cerchia comprensiva di tutte le più interne emerge un chiaro legame: esse sembrano formare una serie che cresce moltiplicando per tre: 5, 15, 50 e 150.Gli studiosi non sono ancora riusciti a scoprire a cosa facciano riferimento tutte le cerchie, tuttavia ciascuna sembra definire i criteri di due regole specifiche della relazione: la frequenza con cui si ricerca la compagnia della persona e il grado di intimità che si prova nei suoi confronti. Infatti si osserva che contattiamo gli appartenenti alla cerchia dei cinque almeno una volta alla settimana, almeno una volta al mese gli amici della cerchia dei quindici e almeno una volta all’anno quelli della cerchia dei 150. Inoltre abbiamo relazioni più intime con la rosa dei cinque, mentre i nostri sentimenti diventano progressivamente più “freddi” nei confronti dei livelli successivi.

Questa struttura in cerchie di amici sembrerebbe suggerire che esista un ulteriore limite al numero di persone che possiamo tenere in un certo grado di intimità, tanto che se nella nostra vita appare una persona nuova, qualcuno dovrà per forza scendere ad un livello più alto per far spazio alla new entry. Non ci sono molti posti liberi nella cerchia dei cinque. Si dia quindi il via alle nomination!!

 

BIBLIOGRAFIA:

  • Dunbar, R., Di quanti amici abbiamo bisogno? Frivolezze e curiosità evoluzionistiche. 2011, Milano: Raffaello Cortina. 284.Hill, R.A.,
  • Bentley, R.A., and Dunbar, R.I., Network scaling reveals consistent fractal pattern in hierarchical mammalian societies. Biol Lett, 2008. 4(6): p. 748-51.Dunbar, R., Psychology. Evolution of the social brain. Science, 2003. 302(5648): p. 1160-1.

MoodGYM e BluePages: programmi online per lo screening e la prevenzione di sintomi ansioso-depressivi

– Rassegna Stampa –

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze PsicologicheLou Farrer, dall’Australian National University, ha verificato l’efficacia di programmi di trattamento cognitivo-comportamentale (CBT) on-line per la prevenzione di sintomi ansioso-depressivi. MoodGYM e BluePages sono stati progettati e sviluppati dal gruppo di ricerca e-Mental Health Research and Development afferente all’Australian National University, con la finalità di prevenire i peggioramenti di un lieve malessere emotivo, e non come modalità di trattamento per sintomatologie ansioso-depressive clinicamente rilevanti.

“Gli utenti che contattavano il servizio sono stati selezionati sulla base di un’indagine iniziale della presenza di lievi sintomi di depressione e ansia;” dice Farrer “tali utenti sono poi stati suddivisi in tre gruppi: a un primo gruppo è stato chiesto di fruire e completare il programma MoodGYM e BluePages da soli; al secondo gruppo oltre alla fruizione del programma sono state assegnate telefonate settimanali di counseling; un terzo gruppo invece ha utilizzato soltanto il servizio di counseling telefonico.” La responsabile dello studio, non ancora però pubblicato su riviste scientifiche, afferma che i gruppi, con o senza supporto telefonico, che avevano utilizzato MoodGYM e BluePages hanno presentato una significativa e immediata riduzione dei già lievi sintomi depressivi, rispetto al gruppo che aveva ricevuto solo il counselling telefonico.

Il programma è accessibile dall’indirizzo http://moodgym.anu.edu.au, mentre le Blue Pages di stampo più informativo possono essere visualizzate qui http://bluepages.anu.edu.au

“Ricky And The Spider”: un videogame per bambini affetti da disturbo ossessivo-compulsivo

– Rassegna Stampa –

Ricky And The Spider è un nuovo Serious Game sviluppato dall’Università di Zurigo per il trattamento dell’OCD.

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze PsicologicheVideogames con finalità serie, anche definiti in termini tecnici Serious Games, vengono in aiuto agli psicoterapeuti nell’attuazione di trattamenti evidence-based per la cura del disturbo ossessivo-compulsivo. Il Center of Child and Adolescent Psychiatry presso l’ Università di Zurigo ha progettato e sviluppato il gioco digitale “Ricky and the Spider“. Il gioco include gli elementi chiave di un trattamento cognitivo-comportamentale, facilitando negli utenti la comprensione del disturbo delle sue conseguenze e del trattamento.

 

Progetto iSpectrum: un Serious Game per favorire l'inserimento nel mondo del lavoro di chi è affetto da autismo
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Nel gioco, un ragno cerca di costringere Ricky la Cavalletta e Lisa la Coccinella a fare cose che in realtà non vorrebbero fare. Per esempio, a Ricky è concesso di attraversare il prato solo saltellando secondo un particolare percorso e Lisa è costretta a contare i puntini neri sulle proprie ali ogni sera prima di andare a letto. Temendo il ragno cattivo, i due personaggi si ritrovano sempre più intrappolati nella rete del “DOC”, finché Ricky a un certo punto del gioco può chiedere aiuto al Dr. Owl.

 

Sam, un amico virtuale per i bambini autistici
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Veronika Brezinka, responsabile della progettazione, sottolinea che “Il gioco è finalizzato a incoraggiare i bambini con diagnosi di DOC a confrontarsi con il loro di disturbo all’interno di una cornice di trattamento con uno psicoterapeuta, e non invece come un gioco di auto-aiuto”.

 

BIBLIOGRAFIA:

Fumo in Gravidanza: i danni sempre più evidenti.

Fumo in gravidanza: a nuova ricerca ne evidenzia la portata dei danni neurologici.

Fumo in gravidanza - Immagine: © Alexei Nastoiascii - Fotolia.com Il fumo nuoce gravemente alla salute. Il fumo produce danni a te e a chi ti sta intorno e, ancora di più, al tuo bambino. Tutte informazioni ben note ai fumatori e le notizie delle ultime ricerche non sono certo incoraggianti. Anzi, secondo un recente studio pubblicato sul Journal of Human Capital, il fumo in gravidanza provocherebbe dei danni allo sviluppo neurologico del neonato ancora più importanti di quanto già si pensasse: il fumo, infatti, provocherebbe un rischio del 40% maggiore di incorrere in problemi dello sviluppo in bambini dai 3 ai 24 mesi dopo la nascita rispetto ai figli di madri che non fumano. Si tratta di risultati di uno dei più vasti studi in questo settore: 1600 diadi madre-bambino sono state selezionate in Argentina, Brasile e Cile. Dopo avere valutato le abitudini al fumo delle madri, i bambini sono stati sottoposti a test neuro-cognitivi e a valutazione delle abilità di comunicazione. A un anno, i bambini di madri che avevano fatto uso di sigarette in gravidanza mostravano punteggi significativamente minori a tutti i test. Data la numerosità del campione, è stato possibile osservare che questi dati rimangono validi anche a prescindere da altre variabili, come il concomitante uso di alcool o lo status socio-economico.

Questi dati sono preoccupanti, poiché mentre in passato le ricerche si sono focalizzate principalmente sugli effetti sul feto del fumo in gravidanza, queste nuove evidenze ci informano sui possibili effetti a lungo termine di questa rischiosa abitudine: l’esposizione al fumo in fase prenatale può infatti portare all’aumento di rischio di insorgenza di sintomi psichiatrici nei bambini fino alla comparsa di veri e propri disturbi durante l’adolescenza (Fergusson et al., 1998; Markussen et al., 2006). Tra i rischi più comuni citiamo i problemi del comportamento, le condotte antisociali, la delinquenza, l’abuso di alcool e di altre sostanze (Button et al., 2005).

Al di là della validità di queste ricerche e dell’innegabile effetto dannoso che il fumo ha sul bambino, dal punto di vista psicologico è doveroso sottolineare che donne che decidono di continuare a fare uso di sigarette in gravidanza potrebbero essere caratterizzate da minore consapevolezza dei rischi legati al fumo e, viceversa, degli aspetti benefici legati allo smettere di fumare, così come potrebbero essere persone che richiedono meno aiuto e sostegno durante la gravidanza. Ci sono, infatti, tutta una serie di ricerche che mettono in evidenza proprio la differenza nella personalità e nello stile di vita di fumatori e non – più bassa soglia di auto-regolazione, basso rendimento scolastico e livello di educazione raggiunto, diete non equilibrate ecc…).

Nonostante le numerose campagne antifumo e l’aumento della consapevolezza dei danni conseguenti, le percentuali delle fumatrici in gravidanza rimangono sorprendentemente alte: oltre il 12% delle donne americane e oltre il 9% di quelle italiane riferisce di avere continuato a fumare anche in gravidanza.

“Data l’importanza di un ottimale sviluppo neuro-cognitivo del bambino per il suo futuro benessere”, commenta il professor George Wehby dell’Università del Iowa negli Stati Uniti coordinatore dello studio, “sarebbe fondamentale progettare degli interventi mirati per ridurre il fumo in gravidanza e, a lungo termine, per il benessere dei bambini e dell’intero capitale umano”.

 

BIBLIOGRAFIA:

 

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150 Amici: e i segreti per mantenerli.

Dopo aver postulato il numero aureo dei 150 amici, ecco la ricetta: un mix di contatto fisico, fiducia, risate e buona musica.

150 Amici - Immagine: © aroas - Fotolia.com Robin Dunbar dopo aver indagato sul numero di amicizie che un individuo può tenere a mente, 150 appunto, continua chiedendosi in che modo sia possibile raggiungere questo scopo. Il primo aspetto preso in considerazione dall’antropologo è il tatto, il senso che più ci lega agli altri ed esprime meglio ciò che proviamo per loro. Anche nel mondo animale le effusioni tattili sono importanti, ad esempio tra le scimmie esiste la pratica del grooming una sorta di spulciamento, che oltre a togliere pulci o sporcizia, serve da vero e proprio massaggio.

Tutte le stimolazioni fisiche inducono la produzione di endorfine, sostanze che regolano il senso di benessere e di rilassatezza nell’organismo, agendo anche sul circuito del dolore con un’azione naturale, simile a quella provocata da oppio e morfina.

Il contatto corporeo con gli altri regola le nostre vite in modi di cui non siamo completamente consapevoli; non trattandosi di un canale verbale, che per i linguisti consiste nel 90% della comunicazione, verrebbe percepito solo a livello profondo, preverbale, dall’emisfero destro: il cervello delle emozioni, quello evoluzionisticamente più antico. Mentre i centri del linguaggio, più recenti, si trovano nell’emisfero sinistro.

 

150 Amici - Social Network - © TheSupe87 - Fotolia.com - Articolo
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Un altro aspetto fondante il sistema sociale è la fiducia, caratterizzata dalla reciprocità: “io gratto la schiena a te, tu la gratti a me”. La sua base chimica sarebbe l’ossitocina, una sostanza che contribuisce a generare una sensazione di attaccamento e la cui presenza sembrerebbe differenziare le specie monogame dalle altre: viene prodotta infatti in grandi quantità durante l’allattamento, i rapporti sessuali e appunto quando si esperisce fiducia.

 

Quello che Dunbar suggerisce non è che la nostra vita sia interamente regolata da processi chimici, ma che le sostanze chimiche ci renderebbero sensibili a certi segnali inviati dall’ambiente. Un esempio dal mondo animale, è la reazione chiamata “attacco/fuga” in situazioni di pericolo, innescata dall’adrenalina. Nell’uomo il rilascio di questo ormone predispone il corpo all’azione, ma come si comporterà l’individuo dipende in larga parte dalla lettura che darà della situazione.

Dunbar riflette sul fatto che nelle situazioni a carattere sociale ciò che predispone ad “attaccar bottone” è ridere insieme, perchè ciò crea un senso di coesione e cameratismo, sia che si tratti di un noioso meeting di affari o di uno spettacolo comico in teatro. La risata non solo ha il potere di far sentire rilassati e carichi di energia allo stesso tempo, ma anche in pace col mondo e più propensi ad aprirci all’altro.

L’ultima caratteristica sociale trattata dallo studioso è la musica, considerata per molto tempo un “di più” evolutivo dalla scienza, qualcosa di non strettamente necessario per la sopravvivenza della nostra specie. La spiegazione per un fenomeno a cui la nostra specie assegna tanta importanza per Darwin sarebbe che la musica ha la stessa funzione della coda nel pavone: una forma di pubblicità sessuale. In altre parole la destrezza in quest’arte mostrerebbe la qualità dei geni di chi la esegue, rendendo il soggetto più appetibile durante il corteggiamento. Lo psicologo Geoffrey Miller (Miller 2000) studiando le vite di alcuni compositori, ha effettivamente notato che la fase più creativa corrispondeva a quella sessualmente più attiva e la fase meno produttiva si verificava in coincidenza delle unioni amorose. Questo senza dubbio spiegherebbe il fascino che le pop star hanno sempre avuto sui fan nel corso del tempo!

 

 

BIBLIOGRAFIA:

 

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I Comportamenti Aggressivi dei Bambini: ma è sempre colpa dei genitori? – Parte 3

I Comportamenti aggressivi dei bambini: allora diteci che cosa fare! (Parte 3)

I comportamenti aggressivi dei bambini. Immagine: © elisabetta figus - Fotolia.com Nella parte 1 e parte 2 della serie abbiamo visto che uno dei fattori predisponenti all’aggressività del bambino è lo stile genitoriale. Genitori che reagiscono alla rabbia dei figli con altrettanta rabbia e aggressività o che usano la minaccia e toni di voce molto elevati hanno possibilità marcatamente maggiori di avere figli aggressivi rispetto a genitori che utilizzano, invece, strategie positive (Weiss et al., 1992). Anche la sola aggressione verbale è associata allo sviluppo di comportamenti aggressivi nei bambini, così come la delinquenza e i problemi interpersonali dall’età pre-scolare fino all’adolescenza (Vissing et al., 1991).

Se è vero che i genitori hanno una così forte influenza nel modellare i comportamenti dei figli, non dobbiamo disperarci. Anzi, proprio per questo motivo, i suggerimenti provenienti da pediatri e terapeuti ci dicono di utilizzare proprio il comportamento di mamma e papà per cambiare quello del bambino.

I comportamenti aggressivi dei bambini: ma è sempre colpa dei genitori? PARTE 2 - Immagine: © olly - Fotolia.com
Articolo consigliato: "I comportamenti aggressivi dei bambini: ma è sempre colpa dei genitori? PARTE 2"

Prima di iniziare qualsiasi intervento, il primo passo da compiere è quello di individuare con precisione gli episodi di comportamenti aggressivi del bambino e il contesto in cui questi si manifestano. Una delle metodologie più semplici e diffuse è quella dell’ “ABC- Antecedent, Behaviour, Consequences” comportamentale (attenzione a non confonderlo con l’ABC usato nella terapia cognitiva):

 

A- antecedente: quali sono stati gli eventi che hanno preceduto i comportamenti aggressivi?

B- comportamento: in che cosa consiste precisamente i comportamenti aggressivi?

C- conseguenze: che cosa hanno fatto i genitori per risolvere la situazione?

 

Questa fase serve per avere una descrizione il più precisa possibile del comportamento-problema; per questo sarebbe utile, anche attraverso griglie osservative che possono utilizzare insegnanti o specialisti, informarsi sulla frequenza e i luoghi in cui icomportamenti aggressivi si manifestano, ad esempio sia a casa che a scuola o solamente a casa. Solitamente, infatti, più un comportamento è pervasivo e generalizzato a situazioni diverse, più è indice di problematicità e indica la necessità richiedere un parere specialistico. Inoltre, quando si vanno a osservare i comportamenti aggressivi, bisogna considerare, ad esempio, la modalità con cui la famiglia stabilisce delle regole chiare e come si impegna per farle rispettare.

I Comportamenti aggressivi dei bambini - Immagine: © Pixlmaker - Fotolia.com
Articolo consigliato: "I comportamenti aggressivi dei bambini - PARTE 1"

Se infatti, un bambino è sempre aggressivo a casa e mai nel contesto scolastico, si potrebbe ipotizzare un problema specifico del setting casalingo, dove per esempio vi potrebbero essere regole poco chiare.

 

Una volta escluse cause mediche o legate a disturbi dello sviluppo (che richiedono l’intervento più complesso di diversi specialisti con procedure appropriate al disturbo specifico) i genitori possono provare a mettere in pratica delle strategie alternative di gestione del problema.

Nella prossima parte di questa serie verranno elencati alcuni suggerimenti per le famiglie riconosciuti a livello internazionale da terapeuti e pediatri.

 

 

BIBLIOGRAFIA:

 

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Allucinare i colori? Basta volerlo!

-Rassegna Stampa –

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze PsicologicheUno studio pubblicato questa settimana su Consciousness and Cognition ha dimostrato che alcune persone sono in grado di allucinare i colori secondo il loro desiderio anche senza il supporto di ipnosi. Con “alcune persone” si intende un gruppo di persone selezionate che si sono dimostrate altamente suggestionabili all’ipnosi: nell’ambito dell’esperimento, a questi soggetti è stato chiesto di guardare una serie di disegni monocromatici e di visualizzare dei colori in essi. Testati sia in una condizione di ipnosi che in una condizione “normale” riportavano in entrambi i casi la capacità di visualizzare i colori a differenza dei soggetti non suggestionabili.

Al di là dei report soggettivi in relazione al compito sperimentale, i partecipanti sono stati sottoposti a risonanza magnetica funzionale con la finalità di evidenziare eventuali differenze nei patterns di attivazione cerebrale di soggetti suggestionabili rispetto ai non-suggestionabili in tale compito di visualizzazione dei colori. Dai dati sono emersi cambiamenti significativi nell’attivazione cerebrale delle aree deputate alla percezione visiva soltanto tra i soggetti altamente suggestionabili.

Quindi sembrerebbe che le persone altamente suggestionabili, a differenza del senso comune che tende a etichettarle negativamente come più circuibili e meno razionali, siano portatrici di maggiori opportunità quanto meno in termini di possibilità di modulare le proprie esperienze percettive. Certo non è esente da rischi tale opportunità, se dovesse sfuggire di mano il grado di flessibilità e capacità di modificare le esperienze percettive.

Ad ogni modo, pensando alla modalità di funzionamento della nostra mente che oltre a elaborare simboli astratti e amodali, è anche una mente simulativa, si potrebbe speculare che la suggestionabilità possa essere un variabile che possa discriminare tra menti più o meno simulative?

 

BIBLIOGRAFIA:

 

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La violenza nel cinema secondo Michael Haneke

Parlare di violenza nel cinema è un esercizio quantomai attuale; molte produzioni ricercano un impatto emotivo sullo spettatore attraverso il ricorso ripetuto a scene nelle quali predomina l’aggressività fisica dei protagonisti, l’energia distruttiva di forze che si contrappongono e sono spesso caratterizzate da segni valoriali opposti, il bene e il male. Spesso tendiamo a identificarci con una delle due parti, solitamente con chi si batte per ripristinare la giustizia e la legalità, sia esso un poliziotto sulle tracce di un serial killer o un muscoloso soldato dei corpi speciali alle prese con sgradevoli ospiti alieni.

 

La violenza nel cinema di Michael Haneke non è nulla di tutto ciò ed è più violento di tutto ciò. Il cinema di Michael Haneke esprime la violenza psicologica dei personaggi, la potenza ricattatoria di un abuso, attraverso frammenti silenziosi: una donna che prima di cenare con la madre, fra le onde di un rapporto gelido e incestuale, si attarda in bagno per infliggersi piccoli tagli nelle parti intime – accade ne La pianista -, un uomo che si recide la gola davanti a colui che alcuni decenni prima gli aveva arrecato un trauma difficilmente riparabile, è l’agghiacciante epilogo di “Niente da nascondere”, oppure gli sguardi atterriti delle vittime che in “Funny games” accompagnano le atrocità dei carnefici, raccontate non con la descrizione visiva della violenza ma con l’immersione nella paura da essa generata.

Cosa vuole comunicare Michael Haneke? A mio parere i suoi obiettivi sono molteplici; in primo luogo il regista non conclude mai con verità assolute, limitandosi a chiudere la trama narrativa e non i possibili significati che lo spettatore è in grado di costruire autonomamente. Il secondo aspetto fondamentale è il silenzio della violenza, che non viene mai utilizzata in modo strumentale.

 

La pianista (2001) di Michael Haneke TRAILER:

 

 

La violenza nel cinema di Michael Haneke

Michael Haneke scuote profondamente lo spettatore ma vi riesce mostrandogli la normalità di emozioni che chiunque potrebbe provare: rabbia, invidia, noia esistenziale, crudeltà familiare. Il trauma nasce da una violenza inaspettata eppure tremendamente vicina, da relazioni che gli attori hanno contribuito a forgiare secondo quelle modalità che si sono poi trasformate in tragedia. La violenza è presente già prima del dramma manifesto, è un sottile e latente egoismo, un cinismo sempre più capace di respingere qualunque tentativo di empatia, o nella forma più semplice, una memoria che non dimentica le ferite e investe ogni energia nella vendetta.

Nei film di Michael Haneke non possiamo prendere davvero le distanze dal male, nemmeno quando esso è puro sfogo di malvagità annoiata come in Funny games. Le nostre reazioni sono lì a dimostrarlo: non urliamo per un mostro col volto tumefatto, non guardiamo un giustiziere distante e scontato che ammazza dai titoli di apertura a quelli di coda, bensì rimaniamo raggelati da un essere umano che agisce emozioni conosciute anche da noi, probabilmente più intense e disregolate ma non differenti nell’essenza ultima.

 

Funny Games (2007) di Michael Haneke TRAILER:

 

Il nastro bianco, non a caso, tratteggia alcune linee fondamentali dell’educazione tedesca fra le due guerre mondiali, spiegandoci il processo che ha trasformato dei bambini perfettamente uguali agli altri nei peggiori criminali della storia. Ogni film di Michael Haneke sembra chiederci: cosa ne pensate? Siete così sicuri che il male abiti lontano da voi e assuma sempre forme aliene?

 

Il nastro bianco (2009) di Michael Haneke TRAILER:

 

Il giudizio morale: una Questione di Stomaco.

Due ricerche esplorano il meccanismo di funzionamento del giudizio morale, spostando l’attenzione dal razionale all’irrazionale e dalla corteccia prefrontale all’amigdala.

Giudizio morale: una questione di stomaco. Immagine: © Andy Dean - Fotolia.com - La moralità e l’etica sono tematiche sempre state appannaggio della filosofia e delle scienze cosiddette “speculative”, che cioè teorizzano funzionamenti e situazioni, senza la velleità di trovarvi spiegazioni o proporre modalità di funzionamento specifiche.  Da qualche anno, però, il ragionamento morale è sfuggito a questa oligarchia e ha iniziato a essere maggiormente osservato sotto la lente della psicologia, che ha cercato di capire meglio quale potesse essere il funzionamento alla base delle scelte fatte dalle persone quando sono poste di fronte a un “dilemma morale”.

Quindi, non smentendo mai la paternità cartesiana, le indagini sono iniziate con la classica contrapposizione tra “razionalità” e “emozione/biologia”, intesi come parte “intelligente” e “animalesca, arcaica” dell’essere umano. A un primo sguardo, non vi sarebbero dubbi: un “giudizio” morale, lo dice la parola stessa, implica per forza un’azione volontaria e razionale della persona, una procedura per così dire “pensata”. Del resto, lo si può osservare rispetto qualunque fatto di cronaca: in un qualsiasi posto di ritrovo, a partire dai bar, quante persone stanno a teorizzare a lungo sulle notizie del TG, apportando argomentazioni a favore di una e dell’altra parte, per poi giungere alla sentenza finale?

E invece si è dimostrato non essere proprio così: in contrapposizione a questa visione del giudizio morale “razionale” si è schierato il modello intuizionista, secondo cui il giudizio morale sarebbe risultato non di un processi di ragionamento e riflessione, bensì di valutazioni automatiche e veloci. Uno dei maggiori supporter di questo secondo modello è Haidt, che in una famosa ricerca (Haidt 2001) ha deciso di tirare davvero la corda, della serie “se giudizio morale deve essere, che lo sia fino in fondo”. Ha immaginato scenari piuttosto forti, che toccassero le corde della morale occidentale trasmessa nei secoli, che però non ammettessero razionalizzazioni complesse e sofisticate.

Scenario e Giudizio Morale:

Uno di questi scenari si  presentava così: durante una vacanza in Francia, una sorella e un fratello decidono di avere un rapporto sessuale. Specificando, si scopre che questo rapporto è stato consenziente, protetto al limite dell’ossessività e apprezzato da entrambi alla luce della maggiore intimità che ha permesso di raggiungere. Tuttavia, i ragazzi hanno deciso che questo rimarrà un loro segreto e che questa esperienza non si ripeterà più.

Una volta posti di fronte a questa breve scenetta e interrogati sul proprio giudizio di “giusto” o “sbagliato”, i partecipanti alla ricerca si sono schierati prepotentemente nella seconda fazione. E fin qui niente di stupefacente, certo. Ma davanti alla fatale domanda di Haidt che suonava come “ok, ma perché secondo lei questo comportamento è sbagliato?”, i partecipanti si sono limitati a addurre motivazioni pretestuose e vaghe, una volta escluse le motivazioni di origine “medica” (il rapporto era protetto) e relative alla libertà di scelta (il rapporto era stato consenziente da parte di entrambi). Penso che chiunque di noi possa sentire un urto allo stomaco, indicativo della “non correttezza” di questo atto, ma penso anche che, se volessimo essere davvero sinceri con noi stessi, tutt’ora faremmo fatica a formulare motivazioni che non suonassero come delle scuse. È come il bambino che giustifica la spinta data al compagno con la dinamica temporale secondo cui “ha iniziato prima lui”, pur sapendo che questo non diminuisce la scorrettezza della propria azione. Dicevamo di questi tentativi fallimentari di giustificare la scorrettezza del rapporto sessuale tra i due fratelli portato come esempio da Haidt.

E perché allora, una volta smontate pezzo per pezzo tutte le motivazioni apportate attraverso l’analisi più attenta dei dati di realtà, non limitarsi a correggere il proprio giudizio e a dire “ok, allora forse in fin dei conti non è stata una cosa così sbagliata”? Sicuramente in parte per una necessità di coerenza dei propri giudizi, per cui se una cosa mi ha stretto così tanto lo stomaco non sarò molto disposto ad accettarla come corretta dieci minuti dopo.

Corteccia prefrontale o Amigdala?

Sembra quindi che la parte del corpo deputata al giudizio, per noi, non sia il cervello, ma lo stomaco. O meglio, non sia la corteccia prefrontale (area deputata alla decisione, alla pianificazione e all’adattamento), ma siano aree dell’amigdala (una delle parti del nostro cervello più antiche dal punto di vista evolutivo). Questo almeno hanno scoperto i neurologi del Karolinska Institute di Stoccolma, che hanno proposto a una serie di volontari di cimentarsi in giochi di ruolo e, contemporaneamente, sottoporsi a una risonanza magnetica funzionale. Hanno osservato appunto come il cervello, di fronte a una situazione ingiusta, reagisca attivando aree dell’amigdala arcaica e non, come si pensava, la corteccia prefrontale, evolutivamente molto più recente.

Disgust-© snaptitude - Fotolia.com
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A conferma del dato, si è verificato che, nel momento in cui l’attività dell’amigdala viene inficiata dalla somministrazione di benzodiazepine, le reazioni di fronte a una situazioni ingiusta sono meno nette, e cresce nei soggetti sperimentali la disponibilità ad accettare evidenti ingiustizie.

Questo sembra essere il meccanismo di funzionamento del giudizio morale: una valutazione bottom-up, guidata dalle sensazioni “a pelle” e giustificata post-hoc con motivazioni razionalizzate e riportate a profusione, nel tentativo spasmodico di poter assecondare e avvalorare la tesi promossa dalla nostra amigdala. A quanto pare la parte emotiva, arcaica, ancestrale del nostro cervello, che tanto tendiamo a snobbare, ha capito da subito l’importanza di rispettare alcune regole morali di base che permettano davvero alla specie di non estinguersi.

Ad esempio la “lotta mortale” tra conspecifici è un’attitudine squisitamente umana, presente solo nelle creature che hanno sviluppato questa sorta di cervello “intelligente”, che nel mondo animale lascia il posto a un combattimento ritualizzato, che difficilmente si conclude con la morte di uno dei partecipanti, quando intrapreso tra esemplari della stessa specie. Ancora una volta l’istinto è più conservativo della ragione, più tutelante nei confronti di noi stessi, almeno quando si parla di questioni “pesanti”, questioni che implicano scelte importanti per la sopravvivenza della specie.

 

BIBLIOGRAFIA:

 

 

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