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Narcisismo e Leadership: gli svantaggi delle apparenze.

Il binomio Narcisismo e Leadership: una ricerca olandese ne mette in luce i limiti e i pericoli per l’efficienza.

Narcisismo e Leadership: gli svantaggi delle apparenze. - Immagine di Costanza PrinettiLe notizie di questi giorni sulla situazione europea mi hanno fatto riflettere sulle caratteristiche psico(pato?)logiche dei leader mondiali e sulle qualità che un leader autorevole (forma di leadership che la psicologia sociale ritiene più adatta e funzionale) dovrebbe avere e su chi si arroga l’arduo compito di riconoscere nell’altro tali qualità.

I narcisisti, è ahimè noto, scalano la società. Questo perché, tra altre motivazioni, gli altri li ritengono self-confident, dominanti, autoritari e con un buon livello di autostima e in questo modo contribuiscono a vestirli dei gradi di “buon leader”.

L’insostenibile pesantezza dei secondi. Narcisismo, ossessioni e un pianista irraggiungibile
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Ma è davvero così? Barbora Nevicka e i suoi colleghi della Università di Amsterdam, Femke Ten Velden, Annebel De Hoogh e Annelies Van Vianen hanno svolto una interessante ricerca che rivela che la realtà sembra essere ben altra. Lo studio, che è stato pubblicato sul numero di ottobre della rivista APA Psychological Science, ha rilevato che la preoccupazione narcisistica circa le proprie sfavillanti capacità sembra, di fatto, inibire un elemento fondamentale per il lavoro di gruppo in termini di presa di decisione e performance: lo scambio libero e creativo di informazioni e idee.

 

L’esperimento:

Hanno partecipato a questa ricerca 150 soggetti, divisi in gruppi di tre. Un persona è stata assegnata in modo casuale al ruolo di “leader del gruppo”. A tutti i partecipanti è stato detto di avere la libertà di consigliare il leader e che la decisione finale sarebbe comunque spettata a lui. Ai gruppi è stato chiesto di svolgere un task: selezionare il candidato adatto per un lavoro. Per ogni candidato erano disponibili quarantacinque dati informativi sulle esperienze del candidato, sul suo percorso, sulle qualità possedute soltanto da lui/lei. Alcune di queste informazioni erano conosciute da tutti e tre i membri del gruppo, altre soltanto da una persona del gruppo. Questo il disegno di ricerca: se la scelta del candidato viene fatta solo utilizzando le informazioni condivise da tutti e tre i membri del gruppo (escluse quindi quelle possedute solo dal leader) tale scelta ricade su un soggetto di “minor valore” tra i candidati; se invece, vengono utilizzate tutte le informazioni (e quindi il leader le condivide con gli altri membri anche le sue “info segrete”…) viene scelto il candidato più “adatto” a ricoprire il lavoro richiesto. I ricercatori si aspettavano, quindi, che il condividere le informazioni (anche quelle “segrete”) con tutti i membri del gruppo avrebbe portato alla scelta migliore.

I partecipanti hanno dunque compilato alcuni questionari. Il “leader” ha compilato questionari sul narcisismo, mentre gli altri due membri del gruppo di lavoro hanno compilato questionari su autorità ed efficacia del leader. È stato poi chiesto ai soggetti di indicare quali, tra le quarantacinque informazioni sul candidato, conoscessero e di che entità è stato il grado di condivisione all’interno del gruppo.

Risultati:

Il risultato più interessante è stato che i membri dei gruppi di leader narcisisti hanno ritenuto il proprio leader come molto efficace. Peccato che si siano sbagliati! I gruppi con i leader maggiormente narcisisti hanno scelto i candidati peggiori. “I leader narcisisti hanno apportato un effetto negativo sulla performance del gruppo. La loro “centratura su di sé” e il loro “autoritarismo” hanno inibito le comunicazione”, fonte di idee e creatività”, sostiene Neviska, al timone dello studio.

In stati di emergenza, i leader narcisisti potrebbero ridurre l’incertezze e il distress negli altri membri del gruppo. Le persone credono che un persona forte e dominante possa mantenere il controllo della situazione e fare “la cosa giusta”, e spesso questo avviene. Ma nella vita di tutti i giorni, la condivisione di informazioni, di prospettive, di conoscenze e di idee sono essenziali per prendere decisioni adeguate. Il buon leader facilita la comunicazione, pone domande agli altri e “tiene le fila” del discorso, sintetizzando ciò che viene detto.

Credo siano molto incisive le parole di Nevicka, come riportato da PsyPost:

“Narcissists are very convincing. They do tend to be picked as leaders. There’s the danger: that people can be so wrong based on how others project themselves. You have to ask: Are the competencies they project valid, or are they merely in the eyes of the beholder?”

 

BIBLIOGRAFIA:

 

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Violenza sulle donne: dinamiche di vittimizzazione

In occasione della giornata mondiale della violenza sulle donne, parliamo delle dinamiche di vittimizzazione.

Violenza sulle donne e dinamiche di vittimizzazione - Immagine: © olly - Fotolia.com Il 19 novembre all’Università Cattolica di Milano si è tenuta la prima conferenza della Società Italiana per lo Studio dello Stress Traumatico (SISST); il tema principale della mattinata, decisamente troppo breve, è stato il disturbo post traumatico da stress, semplice e complesso, di cui si è parlato in una tavola sullo stato dell’arte del trattamento del PTSD. E’ seguita poi una lezione magistrale, come sempre eccellente, di Giovanni Liotti su attaccamenti traumatici e disturbi dissociativi e l’intervento di Chris Brewin su PTSD e memoria.

4 i workshop in programma nel pomeriggio, di uno in particolare, tenuto da Teresa Bruno e Carla Maria Xella, vorrei raccontare oggi, nella giornata mondiale contro la violenza sulle donne. Il tema riguarda dinamiche di vittimizzazione, sempre presenti nei casi di relazioni altamente disfunzionali nel corso delle quali hanno luogo i maltrattamenti.

Innanzi tutto i dati nazionali, visionabili da chiunque sul sito dell’istat (Scarica il PDF): più del 30% delle donne italiane ha subito violenza fisica e/o sessuale, il campione riguarda le donne tra 16 e 70 anni, nella maggior parte dei casi le violenze sono domestiche, avvengono cioè all’interno di relazioni significative, e rimangono taciute; lo stupro, inoltre, è più probabile e frequente da parte di conoscenti che di sconosciuti.

Questi dati inquietanti, mettono ancora una volta in primo piano la relazione, quella significativa, dove l’amore si mescola alla paura, al dolore, all’impotenza, alla colpa. Lavorare sul trauma con le vittime di violenza, ci ricorda Teresa Bruno, psicoterapeuta e direttrice e responsabile del Centro Antiviolenza Artemisia di Firenze, significa lavorare sulla relazione.In questi casi, ancora più che in altri, il terapeuta diventa parte di una relazione significativa, alternativa a quella abusante, e fortemente riparatoria. Il terapeuta che osserva la violenza è sempre chiamato a prendere una posizione, dice Judith Herman “nell’osservare il trauma non è possibile rimanere neutrali. Si deve prendere posizione“.

Definirsi, schierarsi contro la violenza è il punto di partenza; spesso infatti ciò che nuoce è confuso e sfumato, legittimato, sia nella testa di chi subisce che nella testa di chi abusa, frequentemente a sua volta vittima di violenza nell’infanzia: il processo di costruzione della vittima, ci ricorda Françoise Sironi , è simile al processo di costruzione del persecutore. Condannare l’atto lesivo, anche a livello giuridico, e definire la necessità di proteggere la vittima è il primo passo necessario del terapeuta, ma anche di una società civile. Per questo motivo spesso i centri antiviolenza dispongono di residenze con indirizzo segreto in cui le donne maltrattate e i loro bambini possono rifugiarsi e cominciare un percorso protetto per la riappropriazione di sé. La violenza infatti trasforma. La donna che arriva ai servizi, dopo mesi, spesso anni, di abusi è spesso una persona completamente diversa da come era prima che entrasse nel ciclo di vittimizzazione. Nessuno nasce vittima, chiunque può diventarlo, con il “trattamento” giusto. Il trattamento è un vero e proprio processo di manipolazione interpersonale che avviene per gradi, tre gli ingredienti fondamentali: seduzione, manipolazione, condizionamento.

Inizialmente il rapporto è gratificante, positivo, la futura vittima è felice delle attenzioni che riceve, si sente amata, voluta, si fida. Pian piano il futuro abusante incomincia a dare regole molto rigide che hanno lo scopo di definire un universo di riferimento unico, nel quale l’aggressore chiede alla vittima di appartenere. E’ la fase in cui amici e parenti vengono progressivamente esclusi dalla propria vita, vengono definiti come intrusi scomodi in quell’universo privato, che pian piano si fa desolato e soffocante e diventa l’unico punto di riferimento accessibile. L’isolamento sociale apre la strada alla fase successiva, in cui la relazione si fa apertamente violenta. La violenza è una dinamica relazionale in cui qualcuno ha il controllo sull’altro grazie alla messa in atto di strategie. Vediamole:

  • Aggressioni: fisiche, ma anche minacce e disumanizzazioni, come obbligo di compiere pratiche sessuali degradanti e dolorose

  • Privazioni: di cure, di privacy, di movimento, di contatto con l’esterno

  • Controllo e coercizione: ordine e controllo ossessivo da parte del persecutore nei confronti della vittima

  • Punizioni

  • Perversione logica: ridere del dolore delle vittime, proporre scelte tra opzioni impraticabili, dare messaggi paradossali, obbligare la vittima ad azioni in contrasto con i suoi valori, alternare in modo casuale gentilezza e violenza

  • Influenza: trasformare il mondo interno della vittima attraverso l’effrazione psichica e l’influenza del persecutore. In questo modo tutto ciò che la vittima sente e pensa è legato all’altro, a come l’altro lo percepisce.

Nel caso in cui siano presenti i figli, punizioni e controllo esercitati sul genitore maltrattato da parte del genitore maltrattante hanno l’effetto di privarlo ai loro occhi di rispetto e autorevolezza. La relazione tra madre e figli passa da un piano verticale, gerarchico, a un piano orizzontale, di pericolosa uguaglianza in cui il divario generazionale cessa di esistere e si è tutti vittime senza protezione.

Le strategie di vittimizzazione hanno l’effetto di mantenere il persecutore l’oggetto privilegiato di attenzione della vittima: l’universo mentale della vittima diventa quello del persecutore, la vittima è espropriata del proprio sé, della propria capacità di giudizio rispetto agli eventi nella quale è coinvolta: può arrivare a chiedersi se 50 euro sono una cifra di risarcimento adeguata per avere rotto un bicchiere dentro casa…, senza rendersi conto dell’assurdità del pensiero che sta facendo.

L’attenzione delle vittime è sempre sull’altro, il persecutore, a cosa pensa, cosa vuole, nel tentativo disperato di aderire alla sua griglia mentale. I fenomeni dell’impotenza appresa, del pensiero binario e l’espropriazione del proprio universo mentale spiegano la passività estrema di queste persone, che spesso suscitano in chi tenta di aiutarle reazioni di rabbia e frustrazione, perché non reagiscono, non agiscono, fanno fatica ad assumere una posizione attiva e protettiva nei confronti di loro stesse e dei loro figli. Perché questi sentimenti non lascino spazio alla colpevolizzazione della vittima (“se l’è voluta, non vuole tirarsene fuori, istiga l’aggressore”) perpetuando il ciclo di vittimizzazione, è necessario ricordare sempre che si tratta persone che hanno subito un processo di trasformazione profondo e sono state isolate a lungo, private di punti di riferimento sociale e affettivo.

Vediamo cosa fanno i servizi preposti alla presa in carico di queste difficili situazioni?

Il primo passo è valutare la sicurezza della vittima, capire se è in pericolo e se ci sono minori in pericolo. In questa fase non ci si occupa assolutamente della psicopatologia, questo verrà poi. L’azione chiara di protezione del terapeuta legittima e permette lo svelamento della violenza da parte della vittima.

Quindi in primo luogo è necessaria la valutazione del rischio (con strumenti oggettivi appropriati, in grado di bypassare la percezione soggettiva delle vittime); successivamente si agisce sulla riduzione del rischio, facendo leva, quando possibile, sulle possibilità di autoprotezione e sulle risorse della persona. Per capire se questo è attuabile è necessaria una precoce valutazione degli aspetti dissociativi, che comprometterebbero chiaramente le azioni autoprotettive, rendendo quindi necessario l’allontanamento immediato da casa. Nei casi in cui questo non avviene si può iniziare a lavorare con la vittima perché incominci a ritagliare un piccolo spazio fisico e mentale in cui stare senza il persecutore, in cui possa incominciare a riappropriarsi di sè, ad avere dei segreti, piccoli momenti in cui ciò che domina dentro di lei non è la mente dell’altro.

Il percorso procede poi con lo svelamento del gioco relazionale dell’aggressore: la vittima deve poterlo comprendere, pian piano acquisire di un punto di vista esterno alla dinamica relazionale che la domina e, grazie a questa presa di coscienza incominciare il distanziamento emotivo dal persecutore, questo apre alla possibilità di ricominciare a fare scelte autonome.

Nella costruzione dell’alleanza con il terapeuta, ancor più del solito, gioca un ruolo fondamentale il sentire da parte della vittima che questo può sopportare il carico di ciò che verrà raccontato; in questi casi è utile esplicitare che esiste una rete di relazioni professionali in grado di sostenere il peso della situazione: il paziente potrà appoggiarsi al terapeuta sapendo che questo a sua volta può contare su un sostegno per sé. Quest’immagine di persone che si sostengono a vicenda ripropone nella vita del paziente l’idea e la possibilità di una rete sociale affidabile che va a contrapporsi al desolante scenario relazionale a cui ormai è abituato.

Una volta costruita l’alleanza il lavoro psicoterapeutico che segue procede per fasi e obiettivi:

  • Ricostruzione della storia personale

  • Affrontare le memorie traumatiche

  • Elaborazione del lutto

  • Ricostruzione di legami affettivi

  • Imparare a combattere

  • Riconciliarsi con sé stessi

 

BIBLIOGRAFIA:

 

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Progetto iSpectrum: favorire l’inserimento lavorativo per chi è affetto da autismo

Antonio Ascolese.

Nasce il Progetto iSpectrum: un Serious Game dedicato alle persone affette da un disturbo dello spettro autistico (ASD)

Progetto iSpectrum:  un Serious Game per favorire l'inserimento nel mondo del lavoro di chi è affetto da autismoNel regno Unito ci sono 332.600 persone in età lavorativa affette da un disturbo dello spettro autistico (DSA) e solo il 6% di loro ha un lavoro a tempo pieno; in Germania sono 164.849; in Bulgaria 15.035. E in Italia? Nel nostro paese non è semplice raccogliere dati precisi sui disturbi dello spettro in età adulta ma sicuramente si può arrivare ad affermare che ci sono più di 116 mila persone affette da DSA in età evolutiva. In tutta l’Unione Europea il tasso di disoccupazione delle persone affette da DSA è stimato essere superiore al 90%!

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Tra le cause di tale problematica di inserimento nel mondo del lavoro, ci sono certamente le difficoltà a livello di comunicazione, di integrazione sociale e di immaginazione sociale che caratterizzano la maggior parte delle persone affette da disturbi dello spettro autistico. In questo contesto, seguire un corso di formazione professionale, trovare opportunità di lavoro e mantenere un lavoro diventano ostacoli spesso insormontabili. Inoltre, i potenziali datori di lavoro, i possibili colleghi e tutti gli operatori DSA, di frequente, non hanno una formazione specifica che possa facilitare l’avvio di un impiego lavorativo.

 

Da queste esigenze, nasce il progetto iSpectrum, con lo scopo di migliorare le capacità di interazione sociale nei contesti lavorativi delle persone affette da un disturbo dello spettro autistico (DSA) e con altri bisogni specifici, addestrandole utilizzando ambienti di lavoro virtuali, che li aiutino ad aumentare le loro possibilità di trovare un impiego.

Per raggiungere questo obiettivo, i partner provenienti da Regno Unito, Germania, Italia e Bulgaria stanno lavorando insieme alla realizzazione di un Serious Game specifico per le persone affette da DSA basato su tre diversi ambienti di lavoro virtuali: un ufficio IT, un negozio e un vivaio. Gli utenti potranno giocare, imparare, capire e sperimentare diversi ruoli sociali, come dipendenti, in questi ambienti di lavoro virtuali: da un lato, gli operatori DSA impareranno come si possono integrare i mondi virtuali nella formazione e, dall’altro, i datori di lavoro potranno beneficiare di una manodopera più diversificata.

Imaginary, partner italiano del progetto, è responsabile dell’ideazione e dello sviluppo tecnico del Serious Game che sarà finalizzato a promuovere la comprensione del linguaggio del corpo e delle espressioni del viso, le relazioni sociali, le abilità di conversazione e la comprensione di concetti astratti nei soggetti con diagnosi di autismo.

Il Serious Game, costruito ad hoc per questo target, permetterà agli utenti di confrontarsi  attivamente con una versione semplificata della realtà, simulando i comportamenti in un ambiente protetto, favorendo così i processi di apprendimento simulativo. Infatti, tutte le informazioni e le sensazioni vissute, rimanendo fortemente impresse, permettono al giocatore di affinare percezione, attenzione e memoria, favorendo modifiche comportamentali attraverso il cosiddetto learning by doing.

 

BIBLIOGRAFIA:

  • Anolli, L., Mantovani, F., Confalonieri, L., Ascolese, A., Peveri, L. (2010). Emotions in Serious Games: From Experience to Assessment, Vol 5 2010: Special Issue: Creative Learning with Serious Games, International Journal of Emerging Technologies in Learning (iJET).
  • Gee, J. P. (2003).What video games have to teach us about learning and literacy. Computers in Entertainment (CIE), 1, 1 1-4.
  • Michael, D. R., Chen, S. L. (2005). Serious Games: Games That Educate, Train, and Inform. Muska & Lipman/Premier-Trade.

LINKS:

  • Imaginary.itL’innovazione nel Training, nel Marketing e nella Comunicazione Sociale: Serious Games e Simulazioni personalizzati
  • iSpectrum – sito ufficiale
  • Autism Europe – sito ufficiale

 

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LINEE GUIDA PER L’AUTISMO: Cosa sì e cosa no.

 

Linee Guida per l'Autismo: cosa sì e cosa no. Immagine: © puckillustrations - Fotolia.com - L’incidenza di disturbi di tipo autistico tra i bambini italiani si aggira intorno ai 2-6 individui su mille. Le nuove e primissime linee guida nazionali, varate il mese scorso dal Ministero della Salute, rispondono finalmente all’esigenza espressa da molti familiari di questi bambini di essere aiutati nella scelta del trattamento più idoneo per i propri figli. E infatti ogni metodo, ogni percorso psico-educativo e ogni intervento farmacologico, sono stati analizzati con criticità per discriminare tra tutte le proposte ciò che si è dimostrato essere scientificamente valido da ciò che invece ha costituito, fino a prova contraria, una moda del momento.

Vediamo innanzitutto cosa sembra funzionare:

  • Interventi a supporto della comunicazione, come quelli che utilizzano le immagini a supporto della verbalità. Tra tutti il più noto è il PECS (Picture Exchange Communication Siystem), le cui prove di efficacia risultano però ancora parziali.

  • Tra i programmi educativi il TEACCH (Treatment and Education of Autistic and Communication Handicaped Children) ha dimostrato di produrre miglioramenti negli ambiti delle abilità motorie, delle performance cognitive, della comunicazione e del funzionamento sociale.

  • Interventi a supporto della comunicazione sociale e dell’interazione, che prevedono soprattutto un adattamento funzionale dell’ambiente.

  • Tra i vari programmi comportamentali, l’ABA (Applied Behavior Analysis), si è dimostrato efficace nell’incrementare il punteggio di QI, nel promuovere il linguaggio e i compotamenti adattivi.

  • La terapia cognitivo comportamentale, praticabile con soggetti aventi un QI non inferiore a 69, è efficace nel trattamento dei disturbi d’ansia e per promuovere strategie di gestione della rabbia nei soggetti con Asperger.

 

Linee Guida per l'Autismo - Fotografia: © Nathan Allred - Fotolia.com
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Risultano invece non raccomandati, per insufficienza o assenza di dati a dimostrazione di efficacia, L’AIT (Auditory Integration Training), la Musicoterapia, la Comunicazione Facilitata e la Terapia con Ossigeno Iperbarico.

 

Nell’ambito degli interventi biomedici e nutrizionali:

  • si raccomanda di eliminare l’assunzione di glutine e/o caseina solo nei casi di accertate intolleranze o allergie alimentari e di evitare l’assunzione di integratori.

  • L’uso della melatonina per i disturbi del sonno è raccomandato solo dopo il fallimento di un trattamento comportamentale che prevede la compilazione di un diario del sonno e l’utilizzo delle misure di igiene del sonno.

Ciò che rimane dalla lettura di tutto il documento è però soprattutto un’unica raccomandazione: una valutazione clinica caso specifica del bambino che tenga in considerazione i punti di forza accanto alle aree problematiche e costanti valutazioni di efficacia del trattamento prescelto. Questa soprattutto per quei professionisti che intendono vicariare, con il riferimento alle linee guida, la propria competenza e responsabilità professionale.

Il prossimo aggiornamento nel 2015.

 

BIBLIOGRAFIA:

  • “Il trattamento dei disturbi dello spettro autistico nei bambini”. Sistema Nazionale per le Linee Guida – SCARICA IL PDF

 

 

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Hic et Nunc: i benefici della meditazione

-Rassegna Stampa –

Il Neuroimaging ha svelato nuovi effetti benefici della meditazione.

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze PsicologicheSecondo un nuovo studio condotto dai ricercatori dell’università di Yalela meditazione porterebbe alla disattivazione di alcune aree cerebrali (corteccia mediale prefrontale e del cingolo posteriore) associate sia al “sognare ad occhi aperti” che a disturbi psichiatrici come l’autismo e la schizofrenia.

Questo effetto, indipendentemente dal tipo di meditazione attuata, è stato osservato nei meditatori esperti ma non in quelli novizi. Tale risultato si spiega con il fatto che i primi, ma non i secondi, riescono facilmente e costantemente a monitorare e reprimere sia l’emergere di pensieri autoriferiti che la tendenza della mente a “vagare” e abbandonarsi a stati mentali che, in forma patologica, sono associati a disturbi come l’autismo e la schizofrenia.

Infatti, diversamente da ciò che accade in molte forme di malattia mentale dove la preoccupazione per i propri pensieri è centrale, l’attitudine quasi automatica a mantenere la consapevolezza sul momento presente è così sviluppata nei meditatori esperti che rimane attiva anche durante il semplice riposo.

 

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L’iperattività nei Disturbi del Comportamento Alimentare – DIABO-SISDCA 2011

Venerdì 18 novembre del DIABO 2011 si è svolta una sessione dedicata all’iperattività fisica nei disturbi del comportamento alimentare (DCA).

DIABO 2011 Bologna Sesto Congresso Nazionale SISDCA

Sono intervenuti al simposio la Dott.ssa Todisco, la Dott.ssa Pozzato e la Dott.ssa Carli che operano presso il centro DCA della Casa di Cura Villa Margherita di Vicenza, e il Dott. Miottello afferente alla Neuropsichiatria Infantile dell’Ospedale San Bassiano di Bassano del Grappa.

Ha introdotto l’argomento la Dott.ssa Todisco che ha sottolineato in particolare come l’iperattività sia un sintomo egosintonico, su cui è difficile lavorare, sintomo avente la duplice funzione di controllo  del peso e di regolazione emotiva. Si può riscontrare un’iperattività evidente o nascosta, come ad esempio le contrazioni muscolari da seduti o lo stare in piedi; non tutti i pazienti ne sono affetti, ma se presente influenza significativamente la qualità della vita e la prognosi.

I Disturbi dell'alimentazione: resoconto di un convegno - SISDCA 2011 - Immagine: © DURIS Guillaume - Fotolia.com
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La Dott.ssa Pozzato si è focalizzata sui modelli di trattamento, dalla review della letteratura alle problematiche aperte al trattamento. La relatrice ha sottolineato come l’iperattività sia un sintomo difficile da trattare ed un predittore delle ricadute. Ecco una breve sintesi di quanto emerso dalla presentazione della dott.ssa Pozzato. Inizamo con Meyer il quale ha proposto un modello che andasse a esplorare le aree strettamente connesse a tale sintomo quali l’area relazionale, cognitiva, emotiva, comportamentale e biologica. Yates ha invece indagato il circolo di mantenimento di tale sintomo e una correlazione negativa secondo cui ad una minore assunzione di calorie corrisponde una maggior attività fisica. Epling ha identificato l’Activity Anorexia, un trattamento prettamente comportamentale finalizzato a far mantenere nell’arco di una giornata un periodo di attività fisica della durata di 20 minuti; nell’applicazione di questo protocollo viene coinvolta la famiglia al fine di diminuire l’attività fisica senza proibirla del tutto, e affinché si attivi una responsabilità del paziente.

Infine secondo Fairburn si è passati da un’iperattività come strategia per far fronte all’intolleranza emotiva ad un sintomo egosintonico difficile da trattare. Un possibile trattamento è costituito da esercizi fisici gentili al fine di rompere i circoli viziosi di mantenimento affiancati ad una terapia CBT tesa ad aumentare le abilità di coping, la consapevolezza dell’esercizio e le abilità di gestione di questo.

Disturbi Alimentari - Alpbach Bologna 2011 - Immagine: © waterlilly - Fotolia.com -
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Passiamo all’iperattività nei DCA in età evolutiva con l’intervento del Dott. Miottello. Lo studio presenta un campione di pazienti di età compreso tra i 4 e i 14 anni. In presenza di anoressia nervosa l’esercizio fisico non è diverso nei soggetti pre-menarca rispetto a quelli post-menarca; Da considerare che più l’iperattività è presente e precoce, più condiziona l’esito negativo della terapia. È stato riscontrato come in anoressia nervosa il neuropeptide della leptina diminuisce all’aumentare della malnutrizione, la leptina a sua volta controlla l’iperattività ed è responsabile (insieme ad altri neuro peptidi) dell’aumentare di questa. Il relatore ha quindi sottolineato come l’iperattività nei soggetti in età evolutiva con diagnosi di DCA non è legata ad un uso consapevole e finalistico di tale sintomo allo scopo di controllare il peso.

 

La Dott.ssa Carli ha successivamente trattato il tema di anoressia nervosa e iperattività presentando i dati relativi a un campione di pazienti in regime di ricovero. Lo studio si è focalizzato sulle motivazioni che spingono un soggetto affetto da disturbo del comportamento alimentare allo sviluppo dell’iperattività. Emerge come i fattori collegati all’iperattività e al suo mantenimento siano la gestione emotiva, il controllo del peso, l’evitamento, il non pensare e il “sentirsi capaci e forti. Inoltre in presenza di elevata iperattività parimenti si riscontrano una maggiore gravità della patologia e maggiori difficoltà legate al riconoscimento delle emozioni.

Infine la Dott.ssa Todisco, in assenza della Dott.ssa Casarotto, ha presentato la modalità di intervento sull’iperattività in un programma riabilitativo psico-nutrizionale residenziale: il passaggio importante dall’iperattività fisica all’attività fisica. Partendo da una visione che ritiene importante non bloccare l’iperattività sulla base del modello di Feldenkrais che propone una educazione al movimento con il fine di sviluppare le capacità di percezione e consapevolezza del corpo. Il protocollo prevede che vengano svolti due incontri settimanali nei quali si attua un training corporeo a basso consumo energetico e con caratteristiche ludiche. Il programma si compone di quattro fasi: innalzamento della temperatura corporea; Stretching e flessibilità muscolare; allenamento delle capacità forza e mobilità; defaticamento e rilassamento. Il beneficio di tale programma è quello di contribuire a migliorare il rapporto con il proprio corpo.

Da queste presentazione emerge l’importanza di non bloccare l’iperattività nei DCA ma di renderla flessibile, più consapevole al fine di raggiungere una maggior conoscenza del corpo e ridurre le difficoltà legate al riconoscimento delle emozioni.

 

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Postura e Decision Making: quando a sinistra si sottostima l’ignoto…

Nuovi studi dimostrano il ruolo inconsapevole della postura nel decision making quando si deve approssimare una valutazione.

Postura e Decision Making - Immagine: © olly - Fotolia.com - Non sempre ci rendiamo conto delle modalità e delle istanze che intervengono nel momento in cui dobbiamo prendere delle decisioni e valutare approssimativamente qualcosa di cui non abbiamo certezza. Sulla scia degli attuali trends scientifici inneggianti alla cosiddetta grounded cognition, il legame tra percezione, azione e cognizione viene ogni volta riconfermato dalle più diversificate evidenze empiriche in relazione a diverse funzioni cognitive.

Per non andar lontano, nell’ambito di State of Mind tornano alla mente diversi contributi, dall’articolo del trio Di Carlo, Catenazzi, Della Morte “Sofferenza e bassa autostima? Colpa della postura” “Sofferenza e bassa autostima? Colpa della postura” all’articolo di Fiore “La vescica piena influenza le vostre decisioni”. Così, sembrerebbe che un importante fattore in gioco proprio nei momenti in cui siamo impegnati a prendere una decisione, nel cosiddetto processo di presa di decisione, sia non tanto e non solo la nostra mente quanto il nostro corpo.

Sofferenza e bassa autostima? Colpa della postura
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Il processo di decision-making, così come altri processi cognitivi, di fatto chiama in causa un’integrazione di più fonti di informazione più o meno consapevoli, da informazioni mnestiche, a esiti di processi immaginativi e simulativi, fino ad arrivare a informazioni derivanti dal nostro corpo, come ad esempio quelle relative alla postura. In un nuovo studio, Anita Eerland, Tulio Guadalupe e Rolf Zwaan hanno scoperto che manipolando a livello sperimentale l’inclinazione del corpo si può influenzare la stima soggettiva delle quantità, come per esempio la valutazione di dimensioni, numeri e percentuali.

Anzitutto, quando noi pensiamo ai numeri, generalmente ci rappresentiamo mentalmente i numeri più piccoli sulla sinistra e i numeri più grandi sulla destra del nostro campo immaginativo. I ricercatori partendo da questo presupposto hanno ipotizzato che la stessa postura del corpo, lievemente più inclinata da una parte o dall’altra, potrebbe portare inconsapevolmente le persone a sovra o sottostimare ciò che viene loro richiesto.

La vescica piena influenza le vostre decisioni? - Immagine:  © piai - Fotolia.com -
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Per verificare questa ipotesi, a 33 studenti universitari è stato chiesto di stare in piedi su una pedana bilanciata che impercettibilmente ne manipolava la postura come lievemente più inclinata verso destra o verso sinistra; nello stesso tempo veniva loro chiesto di dare una stima, cioè una valutazione approssimativa, di alcuni elementi che apparivano su uno schermo. Nello studio sperimentale le stime richieste riguardavano diversi aspetti in termini di quantità, come per esempio, l’altezza della Tour Eiffel, la percentuale di alcool nel whiskey oppure il numero di nipoti della Regina Beatrice d’Olanda…

 

Questa singolare e curiosa manipolazione sperimentale ha assecondato le aspettative dei ricercatori: i soggetti partecipanti al test fornivano stime più conservative, cioè numeri e percentuali più basse nella condizione in cui “pendevano” lievemente con il corpo verso sinistra rispetto a quando stavano inclinati più verso destra oppure stavano ben eretti: in altre parole la Tour Eiffel era considerata più bassa da chi si ritrovava un po’ più flesso verso sinistra!

D’altro canto, dalla ricerca emerge che, se si conosce esattamente la risposta del quesito, e quindi non ci si trova a dover approssimare, la postura ovviamente non influenza la correttezza della risposta.

Quindi la postura del corpo può influenzare in qualche modo le stime soggettive di qualcosa che non conosciamo precisamente, ma sicuramente non arriva a “sovrascrivere” l’esatta conoscenza di per sé. Non vi preoccupate quindi se durante un quiz a premi o un compito in classe state scomposti e non ben eretti, a meno che non vi troviate costretti ad approssimare la risposta: non fidatevi troppo del vostro corpo, delle sue posture e dei suoi movimenti… i processi cognitivi e i loro esiti ne sono strettamente legati!

 

 

BIBLIOGRAFIA:

 

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Agenti di Polizia e PTSD: Evitare l’Insorgere del Disturbo Post Traumatico da Stress

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze PsicologicheNonostante siano continuamente esposti a esperienze potenzialmente molto traumatiche, gli agenti di polizia hanno un rischio di PTSD (disturbo post traumatico da stress) inferiore a quello del resto della popolazione.

È quanto emerge dai risultati di un originale studio pubblicato dall’ Institut de recherche Robert-Sauvé en santé et en sécurité du travail (Quebec) sui fattori di rischio e di protezione allo stress traumatico negli agenti di polizia. Tra i partecipanti alla ricerca, il 64% ha dovuto estrarre la pistola durante il servizio, 11% ha dovuto sparare, mentre il 28% ha usato un’altra arma. L’ 80% degli agenti di polizia ha sperimentato senso di impotenza, e il 59% ha provato un’emozione di intensa paura. Più della metà degli agenti di polizia ha dichiarato di aver provato rabbia, il 17% colpa, e il 2% vergogna durante l’esperienza traumatica.

Il rischio di sviluppare sintomi tipici del PTSD può essere evitato o attenuato grazie a specifici interventi di supporto e elaborazione critica dell’evento da effettuare nelle settimane successive all’esperienza traumatica. I risultati della ricerca rivelano che il supporto sociale tra colleghi, la possibilità di condividere con gli altri le emozioni legate all’esperienza traumatica e il partecipare ad attività ricreative, sembrano essere gli elementi di protezione e prevenzione più importanti rispetto al rischio di sviluppare un PTSD.

I risultati di questo studio potrebbero essere significativi anche per altre figure professionali con un rischio elevato di esperienze traumatiche sul luogo di lavoro, come vigili del fuoco, paramedici, soccorritori in situazioni di emergenza.

 

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La Concreteness Training (CNT) di Watkins

-Rassegna Stampa –

Concreteness Training (CNT) - Immagine: © twixx - Fotolia.com - Chi soffre di depressione ha la tendenza a pensare in modo astratto e a generalizzare pensieri negativi, questo rende la riflessione penosa, oltre che estremamente inefficace dal punto di vista del problem solving. Secondo un nuovo studio inglese condotto dal professor Edward Watkins è possibile, nell’arco di soli due mesi ridurre significativamnente la depressione con la CNT “concreteness training”, una forma di terapia cognitivo-comportamentale che, una volta appresa, può essere usata dai pazienti anche come terapia di auto-aiuto.

Questo approccio, comparato a quelli abituali, si è rivelato particolarmente efficace nella riduzione dei pensieri negativi tipici nella depressione.

Come o Perché? E le conseguenze per il pensiero.
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La CNT infatti mira proprio a modificare lo stile di pensiero negativo e disfunzionale tipico di questa patologia, grazie a un allenamento alla riflessione puntuale e specifica: questo approccio faciliterebbe una visione prospettica dei problemi, aumentandone le capacità di risoluzione e riducendo le preoccupazioni, il rimuginio e l’umore depresso. Lo studio sperimentale condotto alla University of Exeter dimostra l’efficacia di questo trattamento nel ridurre sia i pensieri negativi che l’umore depresso, anche distanza di tre mesi. Watkins addirittura sostiene che il “training alla concretezza” possa essere fornito con minimo di contatto faccia a faccia con un terapeuta, e che anche la formazione possa quindi essere accessibile on-line, con l’uso di CD o addirittura attraverso le applicazioni degli smartphone. Questo avrebbe il vantaggio di una forma relativamente a buon mercato di trattamento, accessibile anche a un gran numero di persone…

 

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I Disturbi dell’alimentazione: resoconto di un convegno – SISDCA 2011

Il Convegno sui disturbi dell’alimentazione SISDCA 2011 si è concluso portando via con sé una serie di concetti, di esperienze e di dubbi.

I Disturbi dell'alimentazione: resoconto di un convegno - SISDCA 2011 - Immagine: © DURIS Guillaume - Fotolia.com Il clima respirato era tranquillo ed accogliente, tante persone, molta gente nota. Si inizia a parlare di Disturbi dell’Alimentazione presentandoli in veste psicoanalitica. Si pone l’accento principalmente su istinti, identificazione proiettiva e meccanismi di difesa messi in atto. E anche su come ci si relaziona alla patologia alimentare da un punto di vista sistemico relazionale, costruttivista e infine cognitivo comportamentale. Particolare attenzione è rivolta al Binge Eating Disorder e all’Obesità poiché costituiscono un serio problema nella società occidentale contemporanea, si spiega molto bene chi sono questi pazienti da un punto di vista antropo-biologico-ancestrale. Naturalmente, non poteva mancare il nuovissimo DSM V presentato in pompa magna in un simposio, cosa resta e cosa sparisce per sempre, le new entry e i capisaldi in ambito clinico alimentare.

In particolare, il leitmotiv dell’intero evento era la multidisciplinarità ovvero approcciarsi ai disturbi dell’alimentazione a tutto tondo attraverso diverse figure di riferimento e lavorando su aspetti differenti della stessa patologia. Per questo, è necessario comprendere la genesi della patologia alimentare, quali sono i fattori premorbosi che entrano in gioco. A tal proposito si parla largamente del ruolo svolto dai genitori, di quali sono le responsabilità in ambito patologico sopratutto della figura materna. Fin qui nulla di nuovo, fiumi di letteratura sono stati spesi per affermare quanto un rapporto “malato” possa determinare e mantenere un disturbo alimentare. Nasce, dunque, l’esigenza di sostenere e informare la famiglia su come relazionarsi ad un figlio con un disturbo alimentare.

Disturbi Alimentari - Alpbach Bologna 2011 - Immagine: © waterlilly - Fotolia.com -
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Per curare un paziente con disturbo dell’alimentazione è necessario che figure diverse si susseguano come integerrimi soldatini per poter creare maggiore benessere fisico e psichico. Medici, nutrizionisti, endocrinologi tutti pronti a lavorare su piccoli pezzi inerenti al malessere riferito. In sostanza, questi pazienti sono sostenuti nelle strutture ospedaliere ed ambulatoriali, e qui sono presentati infiniti modelli che ognuno applica nel proprio centro e da diversi punti di vista. Emerge una particolare attenzione al disturbo da un punto di vista medico e nutrizionale. Domanda: ma le diete sono necessarie sempre? Non è detto, dipende dalla psicopatologia del paziente, quindi da quali sono i meccanismi di difesa messi in atto e da come agisce l’istinto di morte, la risposta. Quindi, è importante che ci siano tante figure professionali, ma la psiche di un malato alimentare appare, per un momento, subordinata al resto. Si parla, inoltre, dell’obsolescenza della chirurgia bariatrica e si spiega scientificamente cosa succede a livello neurotrasmettitoriale nei disturbi alimentari. Quindi tutto dovrebbe dipendere da uno scompenso neurotrasmettitoriale che andrebbe ad alterare il meccanismo che regola il rapporto di fame e sazietà. Ne deriva un quadro psicopatologico poco chiaro: tantissimi modelli teorici e poca psiche.

Cosa è necessario fare in terapia con i disturbi alimentari e come funziona la mente di queste persone?

C’è chi sostiene che se si operasse un intervento motivazionale sicuramente si avrebbero maggiori esiti positivi. Altri, invece, parlano di andare dritti al sintomo comportamentale, e il terapeuta deve essere più empatico, ovvero stare nella stessa emozione del paziente. Ancora, si sostiene che pur non avendo risultati positivi il farmaco è indispensabile e si parla di come integrare teorie cognitivo-comportamentali di seconda generazione a quelle di terza ondata, come la mindfulness che porta alla autoregolazione interna come presupposto dell’accettazione delle emozioni, parte fondamentale dell’esperienza umana.

In un altro simposio si presenta la famosissima terapia di Fairburn, elettiva per tale patologia; si parte dalla terapia standard e si arriva al modello transteorico. Dalle Grave afferma che più una persona restringe, più il controllo aumenta e più la sintomatologia peggiora. Sostiene che il controllo, nell’ottica del modello avanzato di Fairbun, rappresenta un fattore di mantenimento della patologia. Qui sorge un dubbio, se il controllo rappresenta un fattore atto a mantenere il sintomo per quale motivo nessuno lavora sul controllo? perché quando si parla di controllo nel modello di Fairburn, alla fine, è come se tutti perdessero il controllo, nel senso che nessuno lavora su questa credenza cognitiva? Se non si lavora sul controllo, su cosa si lavora? Certo, sugli altri fattori di mantenimento: perfezionismo patologico, bassa autostima, intolleranza alle emozioni negative, relazioni interpersonali, ma per mantenere tutto questo modello è necessario venga esercitato un meticoloso controllo su tutto, sul cibo in questo caso.

Esiste in generale poca scientificità, sono stati presentati esigui dati empirici e scarse ricerche evidence based. Si parla di grandi modelli, di epidemiologia, di incidenza del disturbo sulla popolazione e di come poter approcciarsi a questi pazienti, ma nella pratica clinica cosa è utile fare? Alla fine, come facciamo ad utilizzare tutta questa teoria, come possiamo applicare praticamente le infinite teorie che sono emerse da questi tre giorni di convegno?

Nessuno lo esplicita, nessuno dice realmente cosa fare nel momento in cui ci si trova faccia a faccia con una persona che si distrugge la vita ingozzandosi di cibo o eliminandolo fino a non alimentarsi più. Quindi, ai posteri l’ardua sentenza.

That’s all folks!

 

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I comportamenti aggressivi dei bambini: ma è sempre colpa dei genitori?

 

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I Comportamenti aggressivi dei bambini - Immagine: © Pixlmaker - Fotolia.com I comportamenti aggressivi dei bambini in età scolare, soprattutto nelle società occidentali, costituiscono un problema a più livelli, sia per la problematicità del comportamento stesso e della sua gestione, sia a lungo termine, per il fatto che i bambini “aggressivi” presentano più frequentemente difficoltà relative al rendimento scolastico (Rubin et al., 1998) e alle competenze sociali, con conseguenze che si ripercuotono negli anni, come lo sviluppo di comportamenti criminali, l’abuso di sostanze e comportamenti che mettono a rischio la propria salute e incolumità fisica.

Ma in cosa consiste esattamente un comportamento aggressivo e come si differenzia da altre forme di condotte problematiche come, per esempio, quelle antisociali? Si può generalmente affermare che l’aggressività viene considerata come sotto-cateogoria del più ampio comportamento antisociale (Coie & Dodge, 1998). In particolare, scale che misurano i comportamenti aggressivi nei bambini includono la disobbedienza alle insegnanti, inventarsi storie mai accadute e mentire, mettersi nei guai, attuare comportamenti che infastidiscono gli altri e iniziare uno scontro sia fisico che verbale con i compagni.

Il Bullo, il Maschio Alpha e la lotta per lo Status Sociale - Immagine: © Kimsonal - Fotolia.com
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In generale, per considerare aggressivo un comportamento, il bambino deve agire con l’intenzione di creare disagio agli altri – sia ai pari che agli adulti; anche se spesso questi atteggiamenti vengono segnalati dalla scuola primaria, numerose ricerche longitudinali hanno mostrato che l’insorgenza di comportamenti aggressivi si collochi addirittura in età pre-scolare (Loeber & Stouthamer-Loeber, 1998): uno studio longitudinale di Trembley (1999) nel Quèbec che ha considerato tali problematiche in ragazzi fino ai 17 anni, indica che l’80% degli adolescenti considerati aggressivi, aveva mostrato una qualche forma di aggressività già prima dei 2 anni di età, secondo quanto riportato retrospettivamente dalle madri.

 

Che cosa succede allora in adolescenza, quando oltre il 40% di questi bambini vengono segnalati dalla scuola per la prima volta, rendendo consapevoli i genitori di tale problema? La risposta è semplice: succede che questi bambini, oramai cresciuti, iniziano a mettere in atto comportamenti fisicamente violenti o rischiosi per sé e per gli altri con intenzionalità e in maniera eclatante. Questo dato ha una grande importanza dal punto di vista clinico e della prevenzione, per la credenza ancora diffusa di sovrapporre l’aggressività alla violenza fisica e alla “serietà” del comportamento aggressivo: per chiarire, se un bambino della scuola materna ripetutamente risponde male alle maestre o dà un pizzicotto ai compagni, verrà più facilmente giustificato o non considerato propriamente aggressivo. Questo è dovuto a un errore negli adulti di ignorare tutti i segnali “aggressivi” del bambino più piccolo giustificandoli come “non intenzionali”, “non gravi”, “senza la volontà di fare davvero del male” e di sottovalutare tutte le forme di aggressività non fisica, come quella verbale o indiretta (Cynader & Frost, 1999). Come a dire: se una mamma riceve uno schiaffetto dal suo bimbo di 5 anni o se riceve un “no” deciso, non lo considererà comportamento aggressivo perché, nella mente del genitore, il piccolo “non sa quel che fa”, mentre il discorso è diverso se ad alzare le mani o ad opporsi è un ragazzino di 12 anni.

Quali sono allora le cause di questi comportamenti, che ruolo giocano i modelli, la società e la famiglia in tutto ciò? Anche se rimane indubbiamente vero che l’esposizione a modelli violenti sia nei mass media che nel mondo reale rappresentano una parte centrale nel creare una struttura cognitiva ed emotiva nel bambino favorevole allo sviluppo e al mantenimento di comportamenti aggressivi (Huesmann, 1998), il ruolo chiave ce l’hanno sempre i genitori. Ebbene sì. Sembrerebbe che ancora una volta la “colpa” o, meglio, la responsabilità di tutto ciò, cada su mamma e papà.

La prossima settimana vedremo in che modo la famiglia e lo stile genitoriale influiscono direttamente sulla comparsa e sullo sviluppo dell’aggressività nei bambini già dai primi anni di vita.

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BIBLIOGRAFIA:

  • Coie, J.D., & Dodge, K.A. (1998). Aggression and antisocial behavior. In W. Damon &N. Eisenberg (Eds.), Handbook of child psychology: Social, emotional, and personality development (Vol. 3, pp. 779–862). Toronto: Wiley.
  • Cynader, M., & Frost, B. (1999). Mechanisms of brain development: Neuronal sculpting by the physical and social environment. In D. Keating & C. Hertzman (Eds.), Developmental health and the wealth of nations: Social, biological, and educational dynamics (pp. 153–184). New York: Guilford Press.
  • Huesmann, L.R. (1998). An information processing theory for understanding the interaction of emotions and cognitions in the development and instigation of aggressive behavior. Presidential Address, International Society for Research on Aggression. Ramapo College, NJ.
  • Loeber, R., & Stouthamer-Loeber, M. (1998). Development of juvenile aggression and violence. Some common misconceptions and controversies. American Psychologist, 53, 242–259.
  • Rubin, K.H., Hastings, P., Chen, X., Stewart, S., & McNichol, L. (1998). Intrapersonal and maternal correlates of aggression, conict, and externalizing problems in toddlers. Child Development, 69, 1614–1629.
  • Tremblay, R. E., (2000), The development of aggressive behaviour during childhood: What have we learned in the past century?, International Journal of Behavioral Development, 24 (2), 129–141.
  • Tremblay, R.E., Japel, C., Pe´ russe, D., Boivin, M., Zoccolillo, M., Montplaisir, J., & McDuff, P. (1999). The search for the age of ‘‘onset’’ of physical aggression: Rousseau and Bandura revisited. Criminal Behavior and Mental Health, 9, 8–23.

 

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Passare da una stanza all’altra ci fa dimenticare

-Rassegna Stampa-

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze PsicologicheUna bizzarra ricerca che ci arriva dall’Università Notre Dame e dal professore di psicologia Gabriel Radvansky sembra confermare empiricamente il comune fenomeno per cui quando passiamo da una stanza all’altra a volte ci dimentichiamo il motivo per cui lo abbiamo fatto! Lo studio è stato recentemente pubblicato su Quarterly Journal of Experimental Psychology.

In tre esperimenti, condotti sia in ambienti reali che in ambienti virtuali, ai soggetti sperimentali è stato chiesto di cimentarsi in compiti di memoria sia mentre attraversavano una singola stanza sia mentre passavano da una stanza ad un’altra, passando attraverso una porta. Radvansky ha scoperto che i soggetti presentavano prestazioni mnestiche peggiori, avevano cioè maggiori dimenticanze, quando si trovavano a dover passare da una stanza all’altra attraverso una porta rispetto a quando camminavano nella stessa stanza.

Passando da una stanza all’altra il nostro cervello identifica ogni stanza come una sorta di nuovo evento e elabora una nuova traccia mnestica per trattenerlo in memoria” dice l’autore dello studio “proprio come un segnalibro alla fine di un capitolo, i vani delle porte segnalerebbero al nostro cervello la fine di vecchi episodi e l’inizio di nuovi rendendo così più difficoltoso il recupero di vecchie memorie in qualche modo già archiviate”.

Il suggerimento dell’autore è quello di portare fisicamente un promemoria riguardante la vostra intenzione “Per esempio, se vuoi andare dal salotto alla cucina per prendere una forbice, è semplice, tieni dito indice e medio a forma di forbice mentre passi da una stanza all’altra: ti aiuterà a mantenere intatta la memoria della tua intenzione formulata mentre ti trovavi nell’altra stanza”.

 

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Habemus Schema Therapy!

S, Giuri, A. Brugnoni, A. Gemelli, M.P. Boldrini

Workshop Internazionale Schema Therapy Roma

Si è svolto questo fine settimana a Roma il Workshop Internazionale sulla Schema Therapy (ST) per i Disturbi di Personalità e per il Disturbo Borderline di Personalità, condotto dal Dr. Jeffrey Young , promosso e organizzato  dalla S.i.s.t (Società Italiana per la Schema Therapy),dalla ISC (Istituto di Scienze Cognitive), da Humanitas (Scuola di Psicoterapia Cognitiva Comportamentale Integrata) e dall’Università Cattolica del Sacro Cuore.

Il primo giorno è stato dedicato interamente alla presentazione degli Schemi Maladattivi precoci, definiti come aspetti generali e pervasivi (che comprendono ricordi, emozioni, cognizioni e reazioni neurobiologiche) relativi sia alle valutazioni di sé sia alle relazioni con gli altri:

“Uno Schema è una struttura conoscitiva organizzata, che si sviluppa durante l’infanzia e si manifesta in alcuni comportamenti, sentimenti e pensieri (Arntz, Kuipers, 1998),(…)  si sviluppano Schemi Funzionali (sani) quando i bisogni primari di un bambino sono soddisfatti, questo permette lo sviluppo di immagini positive nei confronti delle altre persone, di se stessi e del mondo intero”.

Gli Schemi maladattivi sono 18, divisi in quattro macrocategorie:

  • Distacco e Rifiuto (Abbandono/Instabilità, Sfiducia/Abuso, Deprivazione emotiva, Inadeguatezza/Vergogna, Esclusione sociale),
  • Mancanza di Autonomia e di Abilità (Dipendenza, Vulnerabilità, Invischiamento, Fallimento), Mancanza di Regole (Grandiosità, Insufficiente Autocontrollo),
  • Orientamento all’altro (Sottomissione, Autosacrificio, Ricerca di approvazione),
  • Ipercontrollo e Inibizione (Negatività, Inibizione emotiva, Standard severi/Ipercriticismo, Punitività)

Hanno origine da esperienze negative nell’infanzia e nell’adolescenza, unite al temperamento e alle influenze culturali. Successivamente sono stati introdotti gli Stili di Coping (Resa, Evitamento e Ipercompensazione)  tre modalità con cui le persone si adattano e reagiscono all’ambiente esterno, “meccanismi che consentono di fronteggiare gli schemi disadattavi (…) di fronte all’attivazione di uno schema (che equivale a una minaccia) un individuo può reagire attraverso una di queste tre risposte: immobilità, fuga e attacco.”

Analisi Critica della Schema Therapy - Immagine: © robodread - Fotolia.com
Leggi l'articolo: "Un'analisi critica della Schema Therapy"

Probabilmente essendo già in possesso di conoscenze  sull’argomento, l’illustrazione di ogni singolo Schema è sembrata a tratti ridondante, ma fiduciosi e motivati alla scoperta, ci siamo lasciati coinvolgere in un primo esercizio immaginativo, durante il quale avremmo dovuto ricordare e immaginare, dapprima un luogo sicuro, e poi un episodio della nostra infanzia emotivamente doloroso con una figura genitoriale. Con occhi chiusi, luci soffuse e tono di voce basso del conduttore … l’aula, per dieci minuti, si è ammutolita.  Tutti a conclusione dell’esercizio si erano riconosciuti in almeno uno dei quattro primi schemi maladattivi,  che, a detta del Dr. Young, sono quelli più disfunzionali; infatti, senza ostentare imbarazzi tutte le mani si sono alzate, anche più di una volta, forse (…  speriamo) complice la stanchezza.

 

La giornata si conclude con il concetto di Chimica dello Schema (per cui le persone tendono a perpetuare uno schema all’interno delle relazioni sentimentali), fino a giungere ai concetti di Amore Amichevole e Amore Passionale, per i quali, nostra culpa, qualcuno di noi ha evidentemente agito lo schema nella propria coppia, e qualcun altro si è perso a fantasticare a mo’ di cronaca rosa.

Il secondo giorno si entra nel vivo e vengono presentati i due approcci al trattamento. Il primo è il Modello originale della ST che comprende l’intervento sugli schemi, è caratterizzata da due fasi: Assessment ed Educazione (con l’illustrazione del questionario per l’individuazione degli Schemi) e la Fase del Cambiamento che comprende quattro strategie, quelle cognitive, quelle focalizzate sulle Emozioni, quelle sulla relazione terapeutica e quelle volte alla rottura dei pattern comportamentali.

L’ultimo giorno, è stato illustrato il secondo modello, quello sui MODE (pensato per i pazienti più gravi) “modalità espressiva dello schema, è un insieme di schemi e processi che, in alcune situazioni prevale sui pensieri, sui sentimenti e sulle azioni del paziente a scapito di altri schemi”; quindi specifiche emozioni,  cognizioni e comportamenti che sono attivi nell’individuo qui e ora, uno stato predominante in cui ci si trova in un determinato momento. I mode includono qualsiasi schema, risposta di coping, reazioni funzionali attive in uno specifico momento, i pazienti passano da un mode all’altro in risposta a stimoli interni ed esterni. Si  identificano anche qui 4 macrocategorie:

  • Modalità Infantili/Innate,
  • Modalità di Coping Maladattive,
  • Modalità genitoriali non adattive
  • Modalità dell’adulto sano.
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Leggi l'articolo: I “Mode” della Schema Therapy e la Terapia Cognitiva.

L’intervento è volto all’individuazione e condivisione con il paziente  durante la seduta del Mode attivo nel dato momento , attraverso gli esercizi immaginativi e strategie di Limited Reparenting .

 

Sono anche stati presentati i risultati delle ricerche: un Trial Randomizzato che mette a confronto la ST con la Psicoterapia Focalizzata sul Transfert  di Kenberg (A. Arntz, J. Giesen-Bloo et al., Archives of General Psychiatry , June 2006) dal quale emerge un “affidabile e significativo cambiamento” nei sintomi del DBP (66% nella ST, 43% nella TFP) quindi una maggiore efficacia, nonostante la lunghezza del trattamento; un Trial Randomizzato Controllato (Farrel, Shaw & Webber,  Journal of Behavior Therapy & Experimental Psychiatry, 2009) , dal quale emerge che alla fine del trattamento il 94% dei pazienti trattati con la ST + terapia individuale non soddisfano più i criteri diagnostici per il DBP contro il 16% dei paziento trattati solo individualmente. Risultati indubbiamente importanti, in merito ai quali lo stesso Young ha espresso dubbi sulla replicabilità.

Il tutto è stato accompagnato da audio-video di simulate che mettevano in luce le varie fasi dell’intervento.

L’obiettivo di questo resoconto, non è essere esplicativo ed esaustivo dell’intero workshop, tanto meno della teoria della ST, ma è condividere alcune riflessioni tra giovani terapeuti “cognitivisti”… e scrivo “cognitivisti”, perché la sensazione, almeno da noi condivisa in alcuni momenti,  era di estraneità: ma di quale cognitivismo sta parlando? Il Dr. Young ha detto di essere stato allievo del Dr. Beck, ma ci chiediamo,  in questi anni ha monitorato il resto del Cognitivismo Internazionale?

EABCT 2011: Arntz sulla Schema Therapy di Jeffrey Young
Leggi l'articolo: "EABCT 2011: Arntz sulla Schema Therapy di Jeffrey Young"

Prima siamo stati tacciati di razionalismo estremo, di mancanza di interesse alle emozioni dei nostri pazienti, di essere schiavi di protocolli e scadenze predefinite ma poi, quando finalmente, a ridosso di un primo video, una collega, ravvivando gli animi di noi insensibili  cognitivisti, chiede il motivo di una mancata richiesta da parte del terapeuta di quale fosse lo stato emotivo del paziente, evidentemente attivato dolorosamente, la risposta alla domanda è stata una domanda, che pressappoco diceva “Ma lei, chiederebbe ad un suo amico, che conosce bene e che sta piangendo perché sta piangendo?” asserendo che il mode della persona era stato considerato ovvio, dato che era in terapia da anni con il terapeuta del video (lo stesso Young).

Inoltre, in alcuni momenti, durante le spiegazioni accurate del modello e degli aspetti teorici che lo sostengono, la sensazione costante era di essere su un terreno a noi familiare, noto,  e di cui già pensiamo di aver raccolto  i frutti, dai fecondi e ancora floridi terreni italiani.

Da qui si sono palesati in varie zone della sala momenti di perplessità a seguito delle indicazioni che il Dr. Young ha fornito, come ad esempio sulla relazione terapeutica. Su quest’ultimo fronte la sua indicazione è stata di utilizzare interventi di self-disclosure per “familiarizzare” il paziente al terapeuta, condividendo con lei/lui vissuti analoghi alla sua esperienza, come se si dovesse fargli capire che siamo in grado di capirlo, non perché siamo psicoterapeuti professionisti, ma sulla base di una relazione tra “reduci” degli stessi malanni.

Come vedete siamo tornate a casa con tante domande (alle quali speriamo di stimolare risposte) ma soddisfatte e contente di aver partecipato all’evento, in nome anche solo dell’importanza alla formazione, al confronto e alla necessità di integrazione che ci è stata insegnata; crediamo che il Dr. Young abbia compiuto un lodevole lavoro di integrazione e organizzazione (l’unica dell’evento ?) di tecniche, contributi, teorie e strumenti, utili alla nostra pratica clinica.

Certo, una minore autoreferenzialità che ha regnato sovrana per tre giorni sarebbe stata apprezzata, tanto più che eravamo nella Capitale … “diamo a Cesare ciò che è di Cesare”.

 

BIBLIOGRAFIA:

  • La Schema Therapy per il Disturbo Borderline di Personalità, Arnold  Arntz, Hannie  van Genderen, 2009, Raffaello Cortina Editore

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Un’analisi critica della Schema Therapy

Analisi Critica della Schema Therapy - Immagine: © robodread - Fotolia.comDopo aver riflettuto per qualche settimana sulle idee emerse durante il workshop sulla Schema Therapy (ST) tenutosi a Roma, l’obiettivo è provare a dare forma e sostanza ad alcuni miei dubbi attraverso una breve analisi.

L’argomento è interessante rappresentando una strada, quella intrapresa da Young, che propone un’integrazione tra cognitivismo standard e teoria dell’attaccamento. La natura stessa del concetto di mode, inteso come insieme di schemi e relativi comportamenti di coping attivi nel soggetto in un determinato momento (Young, Klosko e Weishaar, 2003) ha il grande vantaggio della chiarezza comunicativa di un elemento centrale nella psicopatologia che viene colto con semplicità dal paziente aiutandolo a mettere i primi mattoni della metacognizione, aspetto nucleare nei disturbi di asse II. Il mio personale dubbio nasce dalla sua applicazione in terapia.

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Young infatti attribuisce estrema importanza al piano esperenziale, in cui si stimola il paziente a dialogare attivamente con i propri mode. Identificare propri“mode” e riflettere su di essi implica un enorme sforzo di autoriflessività, che per  un paziente di asse II rappresenta un obiettivo a lungo termine per le sue difficoltà in questa area (Semerari e Dimaggio, 2003). Nella ST tutto questo avviene da subito lasciandoci con l’interrogativo di capire cosa sia successo all’interno della terapia affinché il paziente abbia saputo colmare questo deficit.Lo stesso dubbio riguarda la modalità relazionale iper-accudente del terapeuta nei confronti del paziente e dei suoi bisogni non soddisfatti nell’infanzia.

 

Essendo presente, per esempio nel disturbo borderline, una difficoltà a regolare le emozioni collegate con il sistema d’attaccamento, che può venir attivato dall’atteggiamento accudente del terapeuta sin dalle primissime sedute, rimane il dubbio di come queste possano venir gestite in terapia. Evocare sempre in fase di assessment, attraverso le tecniche immaginative, esperienze d’attaccamento potrebbe diventare quindi molto rischioso non essendosi ancora costruita una relazione terapeutica e non avendo ancora il paziente gli strumenti per regolare le emozioni che tali esperienze traumatiche attivano.

EABCT 2011: Arntz sulla Schema Therapy di Jeffrey Young
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I pazienti borderline con cui possiamo lavorare con questo approccio terapeutico sono forse coloro che hanno una scarsa impulsività ed un buon funzionamento metacognitivo. Le tecniche immaginative sono molto interessanti, anche se alcuni limiti come scritto precedentemente potrebbero essere legati alla difficoltà di proporle ad un paziente in asse II sin dalle primissime sedute. Viceversa, potrebbero diventare uno strumento estremamente efficace quando la terapia ha aiutato il paziente a gestire l’attivazione di emozioni per lui estremamente dolorose.

 

 

BIBLIOGRAFIA:

  • “Schema Therapy. La terapia cognitivo-comportamentale integrata per i disturbi della personalità” di J.E.Young, J.S.Klosko e M.E.Weishaar. Edizione italiana a cura di A.Carrozza, N.Marsigli e G. Melli. Ed. Eclipsi, Firenze, (2007)
  • “I disturbi di personalità. Modelli e trattamento” a cura di A.Semerari e G. Dimaggio. Ed. Laterza, Roma ,(2003).

 

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Giuliano Ferrara, psicologia di un comunista

Conclusa (forse) la parabola di Berlusconi, riflettiamo ora sul percorso psicologico di un suo compagno di strada, Giuliano Ferrara.

Giuliano Ferrara - Licenza Creative Commons - Autore: http://commons.wikimedia.org/wiki/User:Stef_MecLa visione politica di Ferrara è stata sempre hegeliana e togliattiana, nel bene e nel male. Nel bene per la concezione disincatata a anti-moralistica del potere. Concezione propria, malgrado le apparenze, di alcune correnti del vecchio PCI, correnti che combinavano l’eredità idealistica a quella marxista e leninista. Ma anche Marx era cresciuto hegeliano e quindi si ispirava a una filosofia che intende non giudicare la realtà ma comprenderne le ragioni, anche a rischio di giustificarla (e qui arriviamo al male). In Marx la redenzione proletaria della storia non doveva avvenire in obbedienza a un principio morale ma storico. L’unica etica era quella della storia, di quel che avviene che è sempre storicamente razionale…Continua a leggere su Affaritaliani

Benefici della Psicoterapia: valutare le evidenze scientifiche.

Alberto Chiesa

Benefici specifici e non specifici della psicoterapia: sappiamo davvero valutare le evidenze scientifiche?

Benefici della psicoterapia, valutare le evidenze scientifche. Immagine: © gunnar3000 - Fotolia.comMary Poppins diceva “basta un poco di zucchero e la pillola va giù e tutto brillerà di più!” e questo bastava. Se un ricercatore di oggi avesse potuto intervistarla le avrebbe chiesto: “Ms. Poppins, ma come fa ad essere sicura che sia proprio la pillola a far brillare tutto di più?”. In altre parole tutti gli studi che valutano l’efficacia di un trattamento, hanno lo stesso peso?

In un articolo recentemente pubblicato su State of Mind, Zoppi e Blasi hanno sollevato un’interessante questione: cosa capita a quel circa 40% di pazienti che, secondo gli studi attuali, non rispondono pienamente alle attuali psicoterapie? Da una breve revisione della letteratura gli autori concludevano che in alcuni pazienti la psicoterapia potrebbe avere degli effetti iatrogeni e che addirittura certe terapie potrebbero avere effetti più dannosi che benefici. Quest’articolo è un indice di come oggi, grazie ai numerosi studi che sono stati condotti per valutare l’efficacia dei trattamenti, siamo in grado di affinare gli interventi aumentandone sempre di più efficacia e specificità. Tuttavia leggendo gli studi d’efficacia ci si può domandare: ma quali prove abbiamo che tale efficacia sia specificamente attribuibile all’approccio utilizzato piuttosto che ad altri fattori aspecifici?

Le psicoterapie che non funzionano: il punto di vista della ricerca empirica - Immagine: © Athanasia Nomikou - Fotolia.com
Clicca per leggere: "Le psicoterapie che non funzionano: il punto di vista della ricerca empirica" di Alessia Zoppi e Stefano Blasi

Per esempio, supponiamo che un individuo inizi a sentire un dolore di una certa intensità. Per farlo cessare assume un medicinale perché pensa che potrebbe ricevere un certo beneficio. Dopo circa 30 minuti il dolore si attenua. Verrebbe spontaneo ipotizzare un’associazione tra l’assunzione del farmaco e l’attenuarsi del dolore. Tuttavia uno sguardo più attento e critico ci porta a chiederci: ma nello stesso arco di tempo il dolore avrebbe potuto attenuarsi da sé, senza alcun intervento? Per capire se il trattamento è stato veramente efficace, per prima cosa dobbiamo quindi escludere che il beneficio osservato non sia semplicemente dovuto alla storia naturale di quel dato disturbo.

Come farlo? Ad esempio si potrebbero confrontare i dati un gruppo di soggetti trattato con un determinato approccio, con quelli di un secondo gruppo di soggetti (gruppo controllo), che soffrono della stessa problematica, ma che non ha ricevuto il trattamento. Un metodo migliore sarebbe quello di indirizzare in maniera randomizzata (per appianare al minimo possibili differenze tra gruppi al baseline) una metà del campione al trattamento e l’altra metà in una lista d’attesa. Se il beneficio si mantiene, possiamo concludere che l’approccio sotto indagine è significativamente più efficace del non somministrare alcunché.

Tuttavia prendere queste precauzioni non basta. Infatti negli ultimi decenni, sempre maggiori evidenze hanno mostrato come ogni sostanza, o contesto, che sia in grado di suscitare l’aspettativa di un beneficio possa portare ad una significativa riduzione dei sintomi in un grande numero di individui (Price et. al 2008). Questo effetto, noto come “effetto placebo”, per quanto affascinante possa essere, purtroppo rappresenta un grosso fattore che confonde negli studi scientifici sull’efficacia, per questo motivo bisognerebbe prestare particolare attenzione a come viene strutturato il gruppo di controllo a cui l’intervento da testare andrebbe comparato. Ciò è particolarmente vero per gli studi sull’efficacia della psicoterapia. In questo ambito è importantissimo riuscire a controllare l’effetto placebo per poter avere dei risultati più precisi. Idealmente, il gruppo di controllo per un intervento psicoterapeutico dovrebbe essere uguale al trattamento sotto indagine per tutti i fattori “placebo”, come, ad esempio, l’aspettativa di un beneficio, la credibilità, la fiducia nel terapeuta e la relazione terapeutica. Se il trattamento psicoterapeutico studiato si rivela più efficace di quello di controllo così costruito, allora si può ragionevolmente concludere che l’efficacia sia dovuta ai suoi fattori specifici (ad es. ristrutturazione cognitiva, esposizione) che si sommano a quelli non specifici, comuni a tutti i trattamenti, e alla semplice storia naturale del disturbo.

Quindi se già gli studi che usano gruppi di controllo che non riescono a generare i fattori placebo non sono in grado di fornirci dati sull’efficacia reale del trattamento studiato, allora cosa fare di tutti gli studi di psicoterapia senza gruppo di controllo? Dovremmo forse cestinarli? No, ma dovremmo comprendere che, sebbene tali studi possano essere utili, quando si vuole introdurre un nuovo approccio o una particolare tecnica, è solo quando si hanno a disposizione studi più rigorosi con un adeguato gruppo di controllo; solo in quel caso si dovrebbero trarre conclusioni più definitive sulla specifica efficacia di una particolare tecnica o protocollo. Dopotutto, non è anche grazie al rigore con cui è stata studiata che la CBT si è imposta su altre terapie?

 

BIBLIOGRAFIA:

 

 

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Chemioterapia e funzioni cognitive

-Rassegna Stampa-

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze PsicologicheUno studio pubblicato sul numero di novembre di Archives of Neu­rol­ogy da un gruppo di ricerca della Stan­ford Uni­ver­sity School of Med­i­cine dimostra che pazienti con diagnosi di tumore al seno e sottoposti a chemioterapia mostrano significativi cambiamenti nell’attività cerebrale misurata mediante la risonanza magnetica funzionale.

L’obiettivo dello studio era quello di esaminare le dif­fer­enze nell’attivazione dell’area prefrontale e nella deficitarietà della funzione esecutiva, a livello comportamentale, tra pazienti con diagnosi di tumore al seno in remissione con e senza una storia terapeutica di chemioterapia confrontati con un terzo gruppo di controllo di pazienti sane.

Dalla ricerca è risultato che le donne con diagnosi di tumore al seno (seppur in fase di remissione) presentavano una ridotta attivazione della corteccia dorso-laterale prefrontale e della corteccia premotoria rispetto alle donne sane, mentre nello specifico nel gruppo di donne sottoposto a chemioterapia è stata rilevata una riduzione significativa della corteccia prefrontale laterale e una maggior deficitarietà della funzione esecutiva nel task sperimentale proposto (maggior frequenza di errori perseverativi e una ridotta velocità di processamento cognitivo) rispetto a entrambi i gruppi di confronto. Tale diminuzione di attivazione nella corteccia laterale prefrontale presente nelle donne sottoposte a trattamenti chemioterapici correla positivamente con la gravità della patologia e con la deficitarietà della funzione esecutiva. Pertanto la corteccia laterale prefrontale sembra essere una regione cerebrale particolarmente vulnerabile agli effetti della chemioterapia, oltre che della gravità patologica in sé.

 

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Alpbach e Bologna: due congressi non anglofoni sui disturbi alimentari.

Disturbi Alimentari - Alpbach Bologna 2011 - Immagine: © waterlilly - Fotolia.com -Nell’ultimo mese ho partecipato a due congressi sui disturbi alimentari. Il 20-22 ottobre ero ad Alpbach nel Tirolo austriaco. Alpbach è acquattato in una valle poco dopo Innsbruck. È un paesino dove ogni anno si svolge il congresso in lingua tedesca (il mio tedesco è elementare, ma le diapositive le comprendo) dei disturbi alimentari. Il secondo a Bologna in questi giorni dal 18 al 20 novembre, ed è il congresso della società italiana dei disturbi alimentari, la SISDCA.

Il congresso SISDCA, come quello di Alpbach, è un congresso di clinici. Professionisti che provengono da un’intera area linguistica, germanofona o italofona, per parlare di casi clinici. Non si parla in inglese perché non si condividono dati, o non troppi dati. Bensì si condivide sapienza clinica, per la quale è necessario potersi esprimere colloquialmente e non si può usare l’inglese afono dei congressi internazionali.

Occorre riflettere sul valore di questo tipo di congressi. Essi rischiano di essere messi troppo in ombra dai grandi congressi internazionali anglofoni. In quei prestigiosi congressi si mette in mostra la grande ricerca internazionale, quantitativa e generalizzante. Nomi famosi salgono sulle pedane a parlare. Ad Alpbach e a Bologna arrivano colleghi più oscuri che lavorano con i pazienti e che vogliono ascoltare e condividere l’esperienza del paziente singolo. Si cerca una sapienza più empirica e meno rigorosa perché si tratta di professionisti che devono trattare pazienti singoli, persone singole. Senza contrapporsi alla scienza generalizzante e quantitativa. Si tratta di un diverso bisogno.

Sia qui a Bologna che ad Alpbach i clinici usano un linguaggio psicodinamico (soprattutto a Bologna) o sistemico (ad Alpbach). Tuttavia tutti hanno un’infarinatura delle tecniche cognitive e ne danno per scontata l’utilità, anche se però dell’intervento cognitivo se ne parla poco. Le tecniche cognitive? Tutti sia ad Alpbach che a Bologna ammettono che vengono usate in quella che loro chiamano “la fase iniziale”. Certo, da buoni psicodinamici questi clinici le considerano “superficiali”, e spesso le conoscono male, affidandole a colleghi cognitivisti specializzati (tra cui i nostri allievi) e le giudicano propedeutiche a un cosiddetto lavoro “profondo”. La cosa può farci sorridere o infastidirci, ma è anche vero che qui ci sono professionisti che prendono in carico pazienti gravi e cronici e se li portano dietro per anni. Dalla loro trincea il protocollo cognitivo di 6 o 12 sedute è davvero solo l’inizio.

Ad esempio, tra le varie relazioni c’era quella di un kleiniano molto ortodosso, che ha parlato inizialmente di pulsione di morte. Concetti discutibili, certo. Eppure, passata la buriana kleiniana, costui ha descritto un paio di casi clinici con espressività, interesse e raccontandoci varie cose che lui sa dire ai suoi pazienti. Nulla di trascendentale, eppure molto di utile. Per esempio, ha raccontato che molte delle sue pazienti saranno sempre sottopeso, e ha quasi simulato una seduta nei pochi minuti che aveva a disposizione, tutta giocata sul “va bene, rimanga secca però sana e contenta. Come può esserlo? Come possiamo ottenerlo? È davvero necessario essere non solo magre, ma anche tristissime? Ma perché?” Non male, soprattutto dal vivo.

A questo punto qualcuno potrebbe obiettare che però nei paesi di lingua inglese questa sfasatura non dovrebbe esserci. Non lo so. Io ho l’impressione che il mondo clinico anglo-sassone è un continente ignoto e sommerso, coperto dalla pellicola sfavillante della grande ricerca in lingua inglese, che naturalmente in quei paesi copre ancor di più di quanto accada da noi o in Germania il linguaggio quotidiano, comune e più impreciso dei clinici. Ma un segnale l’ho percepito. Ad Alpbach in plenaria si parlava inglese. E relazionavano un paio di inglesi (anche due tedeschi, di cui uno solo parlava inglese; l’altro si esprimeva in tedesco). Tra gli inglesi, interessante la relazione di Dasha Nicholls, del gruppo scozzese di Brian Lask. Costei ha presentato dati sull’interazione tra ricerca e clinica. La domanda era: quanti clinici nel Regno Unito effettivamente applicano i protocolli? Ebbene, pochissimi. Non vorrei sbagliare, ma forse meno di venti su un campione di quasi settecento. Questo non vuol dire che i protocolli cognitivi non siano conosciuti e usati. Solo che sono usati come da noi in Italia o in Germania: come fonti di tecniche, interventi, strumenti e (perché no?) trucchi. Ma il protocollo dettagliato e per filo e per segno, quello quasi nessuno lo applica. Nemmeno in Inghilterra.

La conclusione? Nulla di catastrofico. Ma una cosa è certa: i protocolli cognitivi vanno ripensati in termini di applicabilità concreta. Oppure no. Forse vanno bene così come sono, come manuali di idee che nessuno si sognerebbe di applicare alla lettera. La lettera uccide, in fondo.

 

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