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Lo psicoterapeuta e la sua voce

L’importanza del fattore voce nella psicoterapia.

Ciro Imparato
Ciro Imparato - Doppiatore e Voice Trainer

Giorni, mesi, anni ad ascoltare mia moglie che mi rimproverava certi miei toni di voce grigi e inespressivi: ma come fai a far lezione con questa voce? E terapia? Li farai dormire tutti! E io pensavo infastidito: ma questa qui che vuole? La psicoterapia è un fatto mentale, e poi non sono un attore! E poi: controllare la propria voce non è finzione? Eppure un’altra voce mi diceva che poteva esserci del vero negli sberleffi della mia consorte.

Infine accadde che mia moglie, la quale condivide o quasi il mio mestiere essendo una psichiatra (ma lei è tutta farmacologia, mentre io sono tutto psicoterapia) un giorno se ne torna a casa tutta giuliva e trionfante. “Ho fatto un corso per migliorare la voce!” “Ma sei impazzita?” “Calma, è una cosa seria, un corso specifico per psichiatri approvato dal servizio sanitario”. Taccio, di fronte all’autorità dello Stato.

Insomma, mia moglie ha fatto un corso per migliorare il proprio controllo vocale con un cosiddetto voice trainer professionista, Ciro Imparato, che è un noto doppiatore e presentatore. Ma è anche il collega Imparato, dato che ha studiato pedagogia indirizzo psicologico. E ha ideato un corso di addestramento vocale degno di ricevere maggiore attenzione scientifica.

E così ho fatto il corso. Beninteso, me lo ha regalato mia moglie. Ma sono rimasto soddisfatto. E ho capito perché Imparato organizza corsi non solo per animatori turistici, attori, venditori, cantanti e intrattenitori di vario tipo, ma anche per psichiatri e psicoterapeuti. Lungi dal limitarsi a insegnare la solita voce squillante e motivante degli intrattenitori da villaggio vacanze, Imparato insegna a emettere un tono di voce che sa essere tranquillo e accogliente senza diventare inavvertitamente grigio e monotono. La differenza è minima e non così facile da padroneggiare, ed è per questo che così facilmente la nostra voce diventa inespressiva. Ma questa differenza è formalizzabile in parametri, e Imparato -secondo me- è riuscito a formalizzarla, giocando sul tono, il ritmo, il tempo, le pause, il volume e anche il sorriso. E insegnando a gestirli consapevolemente.

Riflettiamo ora come terapeuti. La voce, ammettiamolo, è uno dei nostri strumenti di lavoro. Ai nostri pazienti parliamo. Scambiamo informazioni anche con il tono di voce. Comprendere quanto facilmente e involontariamente il nostro tono di voce può diventare grigio e inespressivo è importante. Io ho avuto la fortuna di una moglie che me lo ha fatto capire (con una certa insistenza).

Non si tratta tanto di motivare, ma di coinvolgere e accogliere il paziente. È quello che Imparato chiama ‘tono di voce verde’. Ma anche, al momento opportuno, saper sfoderare un tono di voce ottimista e attivante (voce gialla) o autorevole (voce blu). Certo, occorre attenzione. Occorre anche non esagerare. Eppure, malgrado le diffidenze di noi psico-operatori, ritengo che ci sia qualcosa da imparare da questi corsi di competenza vocale. E anche qualcosa su cui riflettere in termini clinici e di ricerca scientifica. In letteratura c’è veramente poco e datato. Un solo articolo del 1985 ho trovato, almeno finora.

Ce ne sarebbe di ricerca da fare. Si potrebbe confermare, ad esempio, che la voce verde tranquillizza il cliente, facilita un battito cardiaco più lento e un tono muscolare più rilassato. Oppure può aiutare a calibrare bene i momenti di passaggio dalla voce verde e accogliente a quelli in cui è necessario un certo entusiasmo e autorevolezza per poter smuovere e scuotere il paziente. Cose che in fondo noi psico-operatori già facciamo. Si tratta solo di apprendere a farlo con maggiore consapevolezza.

 

BIBLIOGRAFIA:

Bady, S.L. (1985). The Voice as a Curative Factor in Psychotherapy. Psychoanalatyc Review, 72, 479-490.

Imparato, C. (2011). La Voce Verde della Calma. Con audio CD. Milano: Sperling & Kupfer.

 

 

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Il capo ti maltratta? La tua relazione di coppia può risentirne

– Rassegna Stampa –

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze PsicologicheAvere un capo maltrattante non solo ha un impatto negativo sulla quotidianità lavorativa ma può portare a tensioni relazionali nella nostra vita privata, secondo quanto riportato da uno studio della Baylor University. Lo studio ha evidenziato come stress e tensioni causate da un capo maltrattante sul lavoro abbiano un impatto sul partner del lavoratore “maltrattato” e che a sua volta influenza la relazione di coppia.

Cerchiamo di capire come sono state indagate tali variabili e in che modo si è giunti a tale risultato.

Anzitutto, con il termine maltrattamento da parte di un principale, gli autori si riferiscono a una serie di scatti di’ira, comportamenti stizzosi, criticismo in pubblico, e comportamenti sconsiderati e maleducati. Lo studio ha coinvolto 280 lavoratori full-time (sia donne che uomini) e i loro partners, con un’età media di 36 anni, con circa 5 anni di impiego nel loro attuale lavoro, e mediamente relazioni di coppia della durata di 10 anni. I lavoratori sono stati selezionati da pubbliche organizzazioni, aziende private e organizzazioni no-profit ed è stato loro chiesto di compilare una survey on-line. Lo studio ha evidenziato che i soggetti che riportavano più frequentemente comportamenti maltrattanti da parte del loro capo, erano proprio coloro i cui partners riferivano maggiori tensioni e conflitti relazionali nella coppia.

Al di là dell’esito varrebbe la pena capire cosa media o modera tale processo: le variabili deliziosamente psicologiche, riguardanti ad esempio l’abitudine alla condivisione emotiva, le diverse strategie di regolazione emotiva, il perfezionismo patologico, la resilienza (solo per citarne alcune), sono escluse dall’indagine e quindi anche da una spiegazione empiricamente fondata che vada oltre la speculazione.

Al di là dei futuri obiettivi di ricerca, voi che ne pensate? Per dirla in parole più semplici, siete i tipi che ritornati da lavoro ricercate nel partner un “contenitore emotivo” in cui svuotare tutte le vostre frustrazioni raccontando l’accaduto quotidiano oppure silenziosamente sopprimente le emozioni, vi distraete, rileggete la situazione da punti di vista diversi oppure evitate cognitivamente e discorsivamente l’argomento? Pensate che queste diverse modalità di regolazione e condivisione emotiva di ciò che di maltrattante vi accade sul lavoro possano influenzare la vostra vita di coppia?

 

BIBLIOGRAFIA:

 

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Dexter lo psicopatico e la mentalizzazione degli stati emotivi.

La genesi del serial killer Dexter e il suo profilo psicopatologico capace di cambiare ed evolvere.

Dexter - Immagine di proprietà di © 2011 - Showtime Da diversi anni assistiamo alla proliferazione di serie televisive per lo più americane incentrate su tematiche piuttosto ricorrenti, una delle quali, forse la più esplorata, è la criminologia. Sono ormai innumerevoli le produzioni che ci raccontano vicende poliziesche, indagini legali, ricerche di spietati assassini o intrighi nei quali si intersecano aspetti criminali e politici. Il pubblico è interessato a scoprire cosa si cela dietro l’immagine, spesso mitizzata, delle grandi organizzazioni americane contro il crimine, la Cia, l’Fbi, i dipartimenti di polizia e i nuclei investigativi che si occupano di ricostruire in termini scientifici le dinamiche dei fatti delittuosi. Naturalmente le serie tv tendono ad offrire un ritratto che conferma le aspettative degli spettatori, presentando il volto più efficiente ed energico della lotta all’illegalità.

Tra i filoni che descrivono il dietro le quinte delle attività investigative ottiene un successo costante l’indagine scientifica sulla scena del crimine. Portata alla ribalta da Csi e successivamente ripresa da molte altre serie, questa modalità utilizza i contributi di scienze come la chimica, la biologia e la fisica per interpretare il significato delle tracce rinvenute sul luogo del delitto. Per estensione, analizza i reperti che anche in fasi successive possono essere trovati in seguito a perquisizioni o a nuove scoperte investigative. Gli esami scientifici vengono poi correlati ad elementi più strettamente criminologici, ossia si cerca di ricostruire la personalità e il modus operandi del presunto assassino avvalendosi dei segni che egli ha lasciato dietro di sé.

Psicopatia - Immagine: © Gina Sanders - Fotolia.com -

I serial killer sono il soggetto preferito per molte di queste narrazioni, poiché uniscono efficacemente le due componenti considerate; l’assassino seriale tende infatti a riprodurre il proprio sistema d’azione, lasciando indizi ridondanti che sovente corrispondono ad un linguaggio il cui scopo è comunicare con la polizia, sfidarla e talvolta indicarle la strada giusta per la soluzione del mistero, allorché l’omicida coltivi il desiderio nemmeno troppo inconscio di essere scoperto e di porre termine ad una fuga emotivamente logorante che non riesce più a sostenere. Le serie tv di argomento criminologico sono spesso ben fatte, seppure in alcuni casi appaiano un po’ forzate; non è raro infatti che alcuni aspetti della trama prevalgano in misura evidente su altri, ad esempio quando gli esercizi di logica deduttiva volti alla descrizione della mente dell’assassino si rivelano troppo didascalici, soggiogati all’utilizzo di criteri diagnostici rigidamente attinti dalle classificazioni psichiatriche.

 

Oppure quando la voce della scienza diventa un percorso schematico che esclude le variabili psicologiche. Nella terra di mezzo, confermando la sentenza latina “in medio stat virtus”, si colloca Dexter, il serial killer dei serial killer. Ben pochi aspetti di questo telefilm si mostrano approssimativi: Dexter è uno dei personaggi meglio rappresentati sul piano psicologico, arrivando a sfiorare sfumature hichtcockiane.

La sua storia criminale nasce da un trauma subito nella prima infanzia, quando la madre viene brutalmente assassinata in un container ed egli assiste all’omicidio rimanendo immobile e impotente ad osservare il lago di sangue che lo bagna. Portato via da un poliziotto che diventerà il suo padre adottivo, Dexter tradisce ben presto una natura inquietante, colma di aggressività. E’ a quel punto che il padre gli insegna il Codice, un insieme di regole con le quali Dexter potrà seguire il proprio istinto omicida rivolgendolo però verso comportamenti in qualche modo riparatori. Il Codice gli impedisce di aggredire persone innocenti: nascerà così un giustiziere dei criminali, attento a verificare l’effettiva colpevolezza delle vittime prima di passare all’azione.

Come in un destino che non può non seguire precise regole, il Dexter adulto torna a convivere col sangue e non solo facendolo sgorgare da coloro che sopprime; nella vita normale di Miami, prima delle notti umide in cui cresce la brama predatoria, lavora per la polizia analizzando le tracce ematiche sulle scene del crimine. La trama si sviluppa perciò su un doppio binario: la luce del giorno e il passeggero oscuro – come Dexter definisce il proprio irrefrenabile impulso -, gli omicidi e le acrobazie necessarie a mascherarli che spesso consistono nella diretta manipolazione delle prove.

La Psicosi e Roman Polanski: formazione per terapeuti.
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Ciò che più di tutto affascina di questo telefilm è la raffinatezza con cui viene delineato il personaggio principale: Dexter avverte un gelo emotivo che lo rende perfetto nel compito che è chiamato a svolgere, un’incapacità assoluta di entrare realmente in relazione col prossimo. Tali caratteristiche vengono distribuite nella narrazione come un costante stillicidio, sia attraverso la voce narrante di Dexter che espone i propri vissuti nelle notti trascorse sulle tracce della vittima prescelta, sia con l’approfondimento dei normali eventi di vita: l’inizio della relazione con una donna e l’impossibilità di provare vicinanza emotiva, l’osservazione degli altri esseri umani mentre mettono in atto comportamenti di condivisione sociale che a Dexter risultano impossibili da imitare spontaneamente, il rapporto coi figli della compagna.

 

E proprio nell’apparente ineluttabilità di questo destino la serie diventa ancora più sorprendente, poiché Dexter comincia a scegliere. Comincia a ragionare su esperienze correttive reali o potenziali, l’amore lo cambia e senza seguire strade retoriche; si confronta col passato, mette in discussione le certezze imposte dal padre, sempre meno idealizzato nel corso dell’intreccio narrativo, riguardo all’immodificabilità aprioristica delle pulsioni violente, e intravede lo spazio della volontà cosciente, della riflessione su scopi alternativi.

Carnage (locandina) - Proprietà di Sony Pictures
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Intravede la necessità di proteggere la normalità che si profila all’orizzonte. Senza svelare troppo della trama si può dire che il passaggio dalla totale assenza di empatia, peculiare di una personalità psicopatica, all’emergere di un approccio caro a noi cognitivisti, nel quale la mentalizzazione degli stati emotivi contribuisce a modificarli, è tratteggiato con un rigore concettuale e una sensibilità notevoli.

 

E’ significativa inoltre la complessità evolutiva di Dexter, che non abbandona il primo stato per generare il secondo, bensì modifica il significato primario del passeggero oscuro per riuscire ad integrarlo con i nuovi desideri, i nuovi progetti esistenziali che vengono alla luce. Continua ad uccidere e sarebbe poco credibile il contrario, data la natura strutturante della patologia che lo accompagna, ma i suoi gesti attraversano uno spettro variegato di tonalità emotive e attribuzioni cognitive, lasciando spazio anche a semplici ricadute con cui egli regredisce ad organizzazioni di coscienza più primitive. Una grandissima serie, da seguire nella versione inglese per apprezzare la profondità della voce originale.

 

 

Psicopatia, PTSD e genesi di condotte antisociali.

Psicopatia, comportamento criminale ed esperienze traumatiche. Rischio e recidiva.

Psicopatia - Immagine: © Gina Sanders - Fotolia.com - In occasione della  prima conferenza della Società Italiana per lo Studio dello Stress Traumatico (SISST), tenutasi il 19 Novembre presso l’Università Cattolica di Milano e di cui si è parlato nell’articolo “Violenza sulle donne: dinamiche di vittimizzazione”, uno dei workshop pomeridiani, tenuto da Vittoria Ardino, Vincenzo Caretti e Caterina Zaiontz, ha riguardato le sindromi post-traumatiche e dell’adattamento in contesti forensi.

Il lavoro dei tre relatori ha evidenziato come le sindromi post-traumatiche possano costituire un importante fattore di rischio per il comportamento criminale e una barriera per la riabilitazione degli autori di reato e come il ciclo trauma-disturbi dell’adattamento (incluso l’adattamento al contesto carcerario) sia un elemento fondamentale nel mantenimento della recidiva. Vorrei qui soffermarmi su uno degli aspetti emersi da questo interessante workshop: il ruolo delle esperienze traumatiche nello sviluppo di “carriere” criminali con particolare attenzione alla discussa diagnosi di psicopatia.

La psicopatia è un disturbo deviante dello sviluppo. Se lo sviluppo è un processo dinamico, frutto di traiettorie  diverse, complessità di incontri tra fattori di rischio e fattori di protezione, la psicopatia è un  processo verso la perdita definitiva del sentimento umano, del sentimento di essere nel mondo degli umani.

Le persone che commettono atti antisociali non sono necessariamente psicopatiche, così come è sbagliata l’idea che tutti gli psicopatici siano dei folli assassini. Certamente gli psicopatici hanno gravi impulsi antisociali ai quali danno corso non curandosi delle conseguenze delle loro azioni e molti dei serial killer che affollano le cronache nere possono a pieno titolo essere annoverati in questa categoria. La maggior parte degli psicopatici, tuttavia, appare al mondo come un modello di normalità: sono molto abili a mascherare il loro mondo interiore ed a costruirsi una vita all’apparenza felice e bene adattata. Non è detto che queste persone commettano delitti o reati efferati: la maggior parte di loro conduce un’esistenza al di fuori dei circuiti penali, ma riuscendo a stabilire solo rapporti di sfruttamento e manipolazione, mancando completamente di principi morali.

Sono predatori intraspecie, sfruttano chi li circonda, approfittando dei punti deboli delle persone per manipolarle a proprio vantaggio. Le altre persone sono viste come oggetti. Sono incapaci di mettersi nei panni degli altri, così come un serpente è incapace di immedesimarsi nelle proprie prede. A differenza del disturbo antisociale di personalità, ciò che caratterizza la psicopatia è la presenza di freddezza emotiva, un vero e proprio deficit affettivo ed interpersonale, insieme a comportamenti manipolatori, predatori, malvagi e violenti. Anche gli antisociali sono manipolativi, tuttavia sono impulsivi in maniera evidente, con frequenti acting out e aggressività manifesta.

Gli psicopatici trattengono gli impulsi, li congelano e li mettono in atto al momento opportuno.  Hanno una forte propensione alla noia e bisogno di stimoli sempre più forti, elemento che può diventare una forte motivazione a commettere delitti. Alcuni studi di neuroimaging, riportati da Vincenzo Caretti, rilevano in questi soggetti un deficit nel cervello “morale”: insensibilità di fronte al dolore altrui, ridotta attivazione del sistema limbico, dell’amigdala, e della corteccia orbitale (coinvolta nel ragionamento etico).

Cleckley (1941) descrive gli psicopatici come persone incapaci di provare senso di colpa, egocentriche, con un estremo senso della propria importanza, incapaci di autentico affetto, in cui è assente il rimorso, che mancano di introspezione psicologica e incapaci di apprendere dall’esperienza. Dotati di fascino superficiale e bravi parlatori, utilizzano questa loro capacità per manipolare l’interlocutore, sfruttando per questo scopo la loro capacità di leggere perfettamente gli stati mentali altrui. Manca loro, invece, la capacità di mentalizzare i propri stati emotivi e non presentano segni di sofferenza psichica: nel racconto di violenze subite, spesso presenti nelle loro storie di vita, c’è una totale assenza di emozioni. Proprio per questa ragione, a differenza di persone con disturbo antisociale di personalità, sono insensibili alle punizioni e di questo è necessario tenere conto negli eventuali programmi di trattamento.

Tuttavia sono estremamente vulnerabili all’umiliazione, tanto che i picchi di violenza, utilizzata come estrema strategia di gestione, si registrano proprio nei momenti in cui questi soggetti sperimentano maggiormente tale emozione.

Che relazione ha tutto questo con il trauma?

Il primo dato importante riportato da Vittoria Ardino nella sua relazione è che l’esposizione precoce a traumi familiari o di comunità sono correlati positivamente con un maggiore rischio di comportamenti criminali. Il secondo dato importante è che gli autori di reato hanno più elevati livelli di Disturbo da Stress Post-Traumatico (PTSD) e che il comportamento criminale è correlato con la gravità del PTSD (nelle popolazioni forensi la percentuale di PTSD è molto maggiore rispetto alla popolazione generale). Tuttavia i meccanismi specifici sono poco esplorati in letteratura.

Ci sono fattori ed esperienze che determinano queste traiettorie fin dall’infanzia, dando origine alla “carriera” criminale: comportamenti antisociali nell’infanzia, devianza nell’adolescenza e comportamenti criminali nell’età adulta. Non ci sono individui predisposti naturalmente all’antisocialità, ma esistono alcune circostanze che rendono gli individui più vulnerabili ad essa. Il trauma è un importante fattore che aumenta questa vulnerabilità. Il costante stato di allarme e le aspettative di maltrattamento tipiche del PTSD complesso generano  una sregolazione emotiva, in particolare della rabbia: a fronte di ciò la strategia di coping preferenziale è la messa in atto di comportamenti violenti per proteggersi, acquisire un certo controllo sulla situazione ed uscire dal ruolo di vittima.

Questi meccanismi sono aspetti fondamentali nella genesi delle condotte antisociali. Diversi studi mostrano come gli offender, rispetto alla popolazione generale, abbiano alti livelli di rabbia, impulsività, traumi e dissociazioni (esperienze frequenti nel PTSD complesso). Gli psicopatici, in particolare, rispetto ad altri offenders, hanno traumi più frequenti, traumi infantili più precoci e maggiori esperienze dissociative.  L’insensibilità al dolore dello psicopatico ricorda il congelamento dovuto all’attivazione del nucleo vagale-dorsale di cui parla Porges (2001) nella sua analisi del sistema di difesa.

L’umiliazione, legata alla vergogna, è un’emozione che caratterizza fortemente il vissuto di chi ha subito un trauma.

Sembra, dunque, che il trauma ed i disturbi ad esso correlati siano un ambito di indagine clinica e di ricerca davvero importante per una migliore comprensione del comportamento criminale e per una strategia efficace di trattamento, riabilitazione degli autori di reato e prevenzione della recidiva. In particolare, per quanto riguarda gli psicopatici, è opportuno tenere conto della maggiore gravità delle storie traumatiche che caratterizzano il loro sviluppo e degli specifici meccanismi coinvolti,  con particolare attenzione all’insensibilità al dolore, e dunque alle punizioni, ed ai vissuti di umiliazione che possono condurre ad un drammatico inasprimento della violenza.

 

 

BIBLIOGRAFIA:

  • Cleckley, H. The mask of sanity. Emily S. Cleckley, Augusta, GA, 1941
  • Hare, R.D. La psicopatia. Valutazione diagnostica e ricerca empirica. Astrolabio, Roma, 2009

  • Porges SW. The polyvagal theory: phylogenetic substrates of a social nervous system. Int J Psychophysiol 2001; 42:123–146.

  • Simon, R.I. I buoni lo sognano, i cattivi lo fanno. Raffaello Cortina Editore, Milano, 1997

 

 

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L’opera del politico Napolitano dietro lo stile tecnocratico di Monti

Articolo di Giovanni Maria Ruggiero pubblicato su Affaritaliani.

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze PsicologichePer conquistare il potere occorrono talenti diversi da quelli richiesti per ben governare. Sia in democrazia che non. Non si scappa da questo dilemma. La conquista del potere, anche non democratica, è arte della convinzione e della persuasione, vicina all’illudere e all’indulgere. Il governare è invece arte del deludere e, nonostante questo, del saper mantenere il timone nonostante le delusioni inflitte. Non si sfugge a questa ironia della realtà (o- se si vuole- di Dio, supremo ironista).
E sempre così sarà. Non esiste governo tecnico, governo che cioè non debba aver convinto e mediato opposte passioni. Il confliggere degli interessi non può generare scelte disinteressate. Occorre convincere, non dimostrare. In situazioni eccezionali si scelgono governi cosiddetti tecnici, e così pare sia il governo Monti. O forse non è così…CONTINUA A LEGGERE SU AFFARITALIANI

Psicopatia

Psicopedia - Proprietà di State of MindScomparsa dai manuali diagnostici negli anni ’80, quando il DSM-III la mutò in favore della diagnosi di disturbo antisociale di personalità, la definizione di psicopatia ha continuato ad essere utilizzata per indicare una costellazione di caratteristiche affettive, intrapersonali e comportamentali che includono egocentrismo, impulsività, irresponsabilità, emozioni superficiali, assenza di empatia, senso di colpa o rimorso, mentire patologico, manipolazione e persistente violazione di norme e aspettative sociali.

In particolare si deve a Robert Hare l’analisi approfondita di questo disturbo mentale e la diagnosi differenziale rispetto al disturbo antisociale di personalità: egli sottolinea, infatti, come a caratterizzare i soggetti psicopatici sia, accanto a comportamenti antisociali, violenti e manipolatori,  la freddezza emotiva, un vero e proprio deficit affettivo ed interpersonale.

 

BIBLIOGRAFIA:

  • Cleckley, H. 1976: The Mask of Sanity. St. Louis: Mosby

  • Hare, R. 1993: Without Conscience: The Disturbing World of Psychopaths among Us. NewYork: Pocket Books.

Multitasking: uomini e donne a confronto.

– Rassegna Stampa –

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze PsicologicheIl multitasking è ormai una realtà diffusa tra lavoratori di tutte le età e di entrambi i sessi; la American Sociological Review ha pubblicato i risultati di un ampio studio che ha trovato importanti differenze nella percezione, e nella tolleranza, che madri e padri hanno allo svolgimento di più lavori contemporameamente. Indovinate un po..?!  I risultati mostrano che sono le donne, le mamme, e non i papà, quelle che più frequentemente svolgono più di un lavoro e che rispetto agli uomini vivono il multitasking più negativamente. Le differenze riscontrate tra mamme e papà sembrano dipendere non solo alla quantità di compiti svolti ma soprattutto alla qualità di questi. Le mamme infatti, con una media di 48,3 ore settimanali, lavorano su più fronti per ben 10 ore a settimana in più dei papà (39,9), cioè svolgono almeno due attività contemporaneamente per più dei 2/5 del tempo in cui sono sveglie. Ma la vera differenza tra madri e padri sta in come il multitasking viene vissuto, infatti per la maggior parte delle donne il multitasking è un’esperienza negativa e stressante, che le fa sentire in conflitto sopratutto quando lavorano sia fuori che dentro casa. Per i padri invece è quasi sempre un esperienza positiva. Infatti quando le donne hanno più di un lavoro, e lo svolgono da casa, è più probabile che finiscano anche per occuparsi delle faccende di casa e della cura dei figli, attività che richiedono un grosso sforzo. I padri invece, quando lavorano da casa, si lasciano più facilmente coinvolgere in altri tipi di attività, come parlare con qualcuno o occuparsi di sé stessi, attività chiaramente meno impegnative. Quando i compiti svolti riguardano anche la cura dei figli e della casa, le mamme sono anche più esposte al giudizio sociale sul loro ruolo di “brava mamma” di quanto non lo siano i padri, che invece sono socialmente considerati il principale sostegno della famiglia in termini economici.La chiave del benessere emotivo delle mamme, concludono i ricercatori, sta nel comportamento dei papà che dovrebbero condividere maggiormente gli impegni domestici e partecipare di più alla routine della famiglia, grazia anche a una maggiore flessibilità negli impegni e negli orari lavorativi…

 

BIBLIOGRAFIA:

 

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The dark side of creativity: la correlazione tra creatività e disonestà

– Rassegna Stampa –

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze PsicologicheUna ricerca apparsa sull’ultimo numero del Journal of Personality and Social Psychology suggerisce che le persone più creative siano meno oneste e più propense a barare di chi dimostra meno creatività.

Il disegno sperimentale prevedeva un primo screening del campione in osservazione per identificare, con apposite misure, gli individui più creativi; in un secondo momento tutti i partecipanti venivano sottoposti a 5 set di esperimenti per i quali venivano tutti ugualmente ricompensati con una piccola somma di denaro, che sarebbe stata maggiore per quelli che si fossero dimostrati disposti a barare, così da falsare i risultati dell’esperimento. I risultati della ricerca dimostrano che le personalità più creative erano significativamente più propense all’inganno delle loro controparti meno creative e che la creatività è predittiva di comportamenti disonesti più dell’intelligenza; inoltre i più disonesti si sono dimostrati anche i più abili nel giustificare la loro disonestà.

i ricercatori concludono che una maggiore creatività aiuta le persone risolvere compiti difficili in molti settori, ma può portare gli individui a prendere strade poco etiche nella ricerca di soluzioni ai problemi; per questo motivo chi lavora in ambienti che promuovono il pensiero creativo potrebbe essere il più a rischio quando si trova ad affrontare dilemmi etici.

Gli autori, tuttavia, sottolineano un limite importante della ricerca, cioè il fatto gli incentivi a barare sono tutti monetari; suggeriscono inoltre che futuri studi dovrebbero esaminare in che misura la creatività influenza il soddisfacimento di desideri e bisogni immediati e quali sono le differenze rispetto alla realizzazione di ambizioni e aspirazioni a lungo termine, per le quali è necessaria buona capacità di autocontrollo.

 

BIBLIOGRAFIA:

 

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La percezione del corpo e l’illusione della mano di gomma.

L’esperimento della mano di gomma conferma la minore abilità dei soggetti schizofrenici a percepire il proprio corpo.

Esperimento della mano di gomma - Immagine di proprietà di: John Russell / Vanderbilt University
La ricercatrice Lindsey McIntosh mentre efffettua una dimostrazione dell’esperimento di illusione sensoriale. (John Russell / Vanderbilt University)

Ormai sono tante le evidenze scientifiche a favore del fatto che la pratica di un esercizio fisico costante nel tempo, portando l’attenzione sul corpo, possa aiutare ad alleviare i sintomi della schizofrenia, andando anche a migliorare la qualità della vita dei pazienti stessi. Già è noto che questo disturbo porti con sé la presenza di allucinazioni e deliri; inoltre nello studio condotto dai neuro scienziati della Vanderbilt University, ci viene illustrato che include anche la difficoltà di percepire le sensazioni reali ed effettive del proprio corpo. In questo studio, infatti, emerge che una ridotta percezione del proprio corpo sia caratteristica comune nei soggetti schizofrenici.

 

La dott.ssa Sohee Park ha valutato la percezione del proprio corpo di 55 soggetti (21 soggetti di controllo e 24 pazienti con diagnosi di schizofrenia) testandone la vulnerabilità alla “illusione della mano di gomma”.

Questa illusione sensoriale fu identificata nel 1998 e da allora viene utilizzata in campo scientifico. Consiste nel toccare contemporaneamente una mano del soggetto testato, che quest’ultimo non può vedere, e una mano di gomma che invece entra nel campo visivo del soggetto stesso.

Esperimento della mano di gomma 2 - Immagine di proprietà di: John Russell / Vanderbilt University
Test di taratura della posizione percepita della mano nascosta. Il test viene effettuato sia prima che dopo l’esperimento e le variazioni nella stima del soggetto in esame forniscono una misura quantitativa della forza dell’illusione. (John Russell / Vanderbilt University)

I ricercatori affermano che dopo poco tempo i pazienti schizofrenici tendono a sentire come propria la mano di gomma, che è nel loro campo visivo, e rinnegano la propria che invece non vedono; anche alcuni soggetti del campione di controllo subiscono questa illusione, ma in modo molto meno intenso e molti non ne sono per nulla influenzati. I soggetti sani che vengono influenzati dall’illusione della mano di gomma hanno anche punteggi più alti alla scala per valutare la schizotimia, che viene somministrata prima dell’esperimento vero e proprio. Per valutare l’intensità relativa all’illusione, i ricercatori hanno chiesto ai soggetti di stimare, prima e dopo la stimolazione, la posizione del dito indice della mano toccata: più è alto il potere dell’illusione e più la stima dei soggetti viene spostata verso la mano di gomma.

 

Tra l’altro, l’illusione della mano di gomma avrebbe anche un correlato fisiologico: infatti, quando la persona ne sperimenta l’illusione, la temperatura della mano nascosta scende di qualche decimo proprio come se non facesse più parte del corpo del soggetto stesso.

L’importanza di questa ricerca sta nel fatto che la percezione corporea, insieme alla sensazione di essere ”padroni” delle proprie azioni vanno a costituire la consapevolezza di sé. Da qui la constatazione che i pazienti schizofrenici, risultando più vulnerabili all’illusione della mano di gomma, hanno una percezione più debole e flessibile di sé, rispetto ai soggetti del gruppo di controllo.

Ritorna, nelle conclusioni della ricerca, l’importanza dell’esercizio fisico come strumento per migliorare la percezione corporea e in seconda battuta la qualità della vita dei pazienti schizofrenici. A supporto di questo anche una ricerca del 2008, che riporta come un breve training fisico di 12 settimane avesse alleviato alcuni sintomi negativi e migliorato il comportamento di un piccolo gruppo di pazienti con schizofrenia rispetto al gruppo di controllo che, a parità di diagnosi, non faceva alcun training fisico. Il suggerimento finale è quello di considerare l’esercizio fisico, e soprattutto quelle discipline che coinvolgono un preciso controllo del corpo, come lo yoga e alcuni tipi di danza, come un ulteriore ingrediente nel trattamento di questi pazienti, ovviamente in accordo con il curante in relazione a specifici obiettivi terapeutici.

Comportamenti antisociali e punizioni: Evoluzione, Autoconservazione

– Rassegna Stampa –

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze PsicologicheUn nuovo studio dell’ University of British Columbia e pubblicato su Proceedings of National Academy of Sciences suggerisce che I bambini di appena otto mesi siano a favore di punizioni o comportamenti negativi nei confronti di chi si comporta in modo antisociale e provino invece antipatia per chi è tenero con i “cattivi”.
L’esperimento:
100 bambini hanno partecipato alla ricerca, nel corso della quale dovevano esprimere la loro preferenza per alcuni pupazzi che punivano o premiavano dei burattini definiti dai ricercatori “cattivi”; quando è stato chiesto ai bambini di scegliere i loro personaggi preferiti, questi hanno scelto proprio quei pupazzi che avevano punito i burattini cattivi rispetto a quelli che li avevano premiati.
In un esperimento simile bambini poco più grandi, di 21 mesi, hanno premiato comportamenti prosociali e punito comportamenti antisociali.
Considerazioni:
Questo studio aiuta a rispondere alle domande che hanno assillato per decenni gli psicologi evoluzionisti, dice il Prof. Kiley Hamlin: “come siamo sopravvissuti come creature intensamente sociali se la nostra socialità ci rende vulnerabili a essere sfruttati e truffati?”
La risposta suggerita dai risultati della ricerca è che già a partire da otto mesi di età facciamo attenzione alle persone che potrebbero metterci a rischio e preferiamo vedere i comportamenti antisociali regolamentati, come dire quindi che la tendenza a costruire alleanze per proteggersi socialmente ha le sue radici evolutive in meccanismi di autoconservazione.

Tecnica del Video Feedback

La tecnica del Video Feedback è nata verso la fine del secolo scorso in ambito Psicoanalitico e Gestaltico.

Psicopedia - Proprietà di State of MindIl video è lo strumento che caratterizza, forse più di ogni altra cosa, la nostra società ed i nostri modelli culturali. Esso può essere strumento della psicoterapia per la sua capacità di mostrare, ad ognuno, se stesso. Il lavoro psicoterapico mediato dal video rappresenta, quindi, l’articolazione di un procedimento (chiedersi chi si è, come si è, etc.) che è di tutti, e che per tutti ha valore e importanza. La tecnica del Video Feedback dà al partecipante un’opportunità di osservare direttamente il comportamento che egli stesso ha agito nella situazione specifica, favorendo quel cambiamento, che si verifica nei processi di comprensione e di attribuzione, che può realizzarsi nel momento in cui la persona passa da una prospettiva di attore ad una prospettiva di osservatore.

Il Video Feedback è definito come una tecnica di osservazione dell’interazione attraverso l’uso di un addestramento assistito (McDonough, 1993). L’ambito applicativo di tale prospettiva è soprattutto quello della psicologia dello sviluppo, della clinica e della ricerca, ambienti in cui si è interessati ai cambiamenti nei comportamenti di cura, piuttosto che al cambiamento più generale delle capacità di auto-valutazione o all’esame dei comportamenti agiti dai bambini “problematici” verso i genitori o gli altri adulti che ne hanno cura (Juffer, Bakermans-Kranenburg e van IJzendoorn, 2005).

L’effetto più drammatico è la reazione che il paziente ha nel momento in cui si osserva nel video, si ottengono dei risultati terapeutici impressionanti. Per questo motivo il video – feedback rappresenta una potente tecnica da usare in terapia o nella ricerca. Infatti, la visione della propria immagine determina rapidi cambiamenti nelle condizioni psicotiche e psicopatologiche, perché indica un maggiore contato con la realtà.

Vedere se stessi in veste di osservatore, come se ci guardassimo allo specchio, pone maggiore attenzione agli aspetti che giocano un ruolo fondamentale nel comportamento (ad esempio ci concentriamo su quello che consideriamo essere particolarmente bello, brutto o strano).

E’ noto che nella ripresa delle immagini, la destra e la sinistra sono invertite. Questo cambio di posizione gioca un ruolo fondamentale nella propria auto-percezione e nel proprio auto-apprezzamento e può essere vissuta sia come minaccioso sia come piacevole dal paziente, a seconda di come questi ha costruito la sua identità personale. Inoltre, il coinvolgimento legato ad una immagine video può essere trovato nella connessione tra corpo-immagine e concetto di sé. Sentire le sensazioni del proprio corpo e le informazioni propriocettive sono una base importante per la struttura della propria identità.

Con l’utilizzo del Video Feedback, il terapeuta può utilizzare il linguaggio del corpo mostrato per far avere consapevolezza al paziente della risonanza che alcuni gesti possono avere sugli altri, inducendolo a produrre esso stesse delle risposte, quindi per meta-riflettere sui propri stati comportamentali e di conseguenza emotivi.

Tale tecnica offre la rara opportunità di auto-osservarsi per poter riflettere non sulla base di un proprio ricordo, quanto sulle informazioni tratte dalla visione diretta della registrazione del proprio comportamento. Questo processo è guidato e accelerato dagli insight che il terapeuta/ricercatore offre al paziente, portandolo a focalizzare la sua attenzione su alcune sequenze critiche particolarmente informative, accuratamente selezionate per lui. Tale lettura preventiva del materiale facilita e guida il passaggio di ogni partecipante dalla sua originale prospettiva di attore a quella successiva di osservatore e valutatore del proprio comportamento. Ciò al fine di favorire la possibilità di auto-correzione implicita in questa prassi di intervento.

Oltre a tale aspetto di facilitazione delle capacità spontanee di riflessività del paziente, il video-feedback offre anche utili elementi, che il terapeuta/ricercatore può utilizzare per realizzare un’intervista focalizzata. In questa intervista si possono esplorare ad hoc, nel corso del video-feedback stesso, gli elementi più cognitivi e interpretativi del fenomeno che si sta studiando, che possono essere suggeriti direttamente dal paziente (D’Errico, & Leone, 2006).

In sintesi, focalizzandosi sulle sequenze cruciali precedentemente individuate dal terapeuta/ricercatore, e osservando direttamente il comportamento che egli stesso ha messo in atto durante la registrazione, il paziente ha una base di partenza concreta, e non ricostruita o immaginata, per motivare e spiegare il modo in cui ha agito in quella situazione. Il punto critico di questa proposta risiede nella capacità di trasformare il momento dell’osservazione di un comportamento in un’occasione di auto-osservazione per chi ha messo in atto quello stesso comportamento, oggetto di interesse, di studio e approfondimento euristico. Tale passaggio sottolinea, inoltre, il ruolo attivo del paziente, laddove l’interazione con il terapeuta/ricercatore non è un elemento da limitare perchè fonte di disturbo, ma costituisce parte integrante della procedura clinica e sperimentale (Richeson, & Shelton, 2003).

 

 

BIBLIOGRAFIA:

  • D’Errico, F., Leone, G. (2006). Giocare ad aiutare. L’uso di un gioco di simulazione come possibilità di osservazione e di auto-valutazione del sovra-aiuto materno, in presenza di una malattia cronica infantile. Psicologia della salute,1, 91-106.
  • Juffer F., Bakermans-Kranenburg M.J. e van Ijzendoorn M. (2005). Promuovere lo sviluppo socioemotivo dei bambini. In R. Cassibba e M. van IJzendoorn (a cura di), L’intervento clinico basato sull’attaccamento. Promuovere la relazione genitore-bambino. Bologna: Il Mulino, pp. 39-77.
  • McDonough, S. (1993). Interaction guidance: Understanding and treating early infant-caregiver relationship disturbances. In Ch.H. Zenah (a cura di), Handbook of infant mental health. New York: Guilford Press.
  • Richeson, J. A., & Shelton, J. N. (2003). When prejudice does not pay: Effects of interracial contact on executive function. Psychological Science, 14, 287-290.

 

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Stimoli Erotici in uomini e donne: CULTURA VS EVOLUZIONE

CULTURA VS EVOLUZIONE: torniamo sul vecchio dibattito riguardo a cosa influisca di più nei nostri comportamenti: in questo caso nelle reazioni di fronte agli stimoli erotici.

Stimoli Erotici in uomini e donne: CULTURA vs EVOLUZIONE - Immagine: © Jeffrey Sinnock - Fotolia.com - Una delle maggiori differenze tra uomini e donne a livello comportamentale riguarda la ricerca degli stimoli erotici. Fino a qualche tempo fa questa diversità veniva spiegata invocando prevalentemente ragioni culturali. Si riteneva che fosse soprattutto per questioni di pudore che le donne non ricercassero materiale erotico o assumessero comportamenti marcatamente provocatori quanto gli uomini.

L’avvento di internet ha invece permesso di verificare questa ipotesi. Infatti, è stato possibile accertare come l’enorme differenza tra maschi e femmine nella fruizione di materiale erotico sia rimasta invariata. Si è verificato come l’86% degli uomini, contro il 14% di donne, abbia visitato per più di una volta siti erotici. La stessa differenza è stata riscontrata in modo ancor più marcato nel noleggio di video pornografici attraverso distributori automatici (Cooper, 2002).

Alla luce di questi dati non è plausibile spiegare la differenza solo in termini culturali. Allora, cosa c’è dietro? In uno studio sperimentale si è osservata l’attivazione delle aree cerebrali in soggetti maschi e femmine durante l’esposizione a tre tipi di stimoli: nudi maschili, nudi femminili e immagini neutre (Costa, Braun e Birbaumer, 2003). I maschi polarizzavano molto i loro giudizi, valutando attraenti solo i nudi femminili, mentre le femmine esprimevano giudizi meno polarizzati, stimando attraenti tanto i nudi maschili quanto, sebbene in misura inferiore, quelli femminili. Questa differenza evidenzia un interesse diverso delle donne nei confronti della fisicità e degli stimoli erotici, che porta ad un maggiore distacco emotivo per gli stessi.

Sex stereotypes - © Elnur - Fotolia.com
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La visione di immagini erotiche nei maschi, rispetto alle femmine, determina una maggiore attivazione dell’amigdala, dell’ipotalamo, e dei cosiddetti centri del piacere, responsabili della percezione di gratificazione sensoriale. Ciò spiega due fenomeni interessanti. Il primo è costituito dal fatto che gli stimoli erotici tendono a produrre una reazione a feedback positivo, cioè portano ad un’amplificazione della risposta di piacere. Quindi, chi visita siti pornografici tende a vederne sempre di più e sempre con maggior frequenza. Non è quindi vera l’opinione comune secondo cui la visione degli stimoli pornografici porterebbe a una sorta di saturazione che diminuirebbe la ricerca di rapporti sessuali. La seconda conseguenza è che la visione degli stimoli erotici, in modo simile a certe sostanze psicoattive, producono una sorta di dipendenza: stimoli sessualmente eccitanti provocano un forte rilascio di dopamina e serotonina. La maggiore attivazione cerebrale maschile è specifica per le immagini a contenuto sessuale e non è generalizzata a tutte le immagini che evocano emozioni. Sembra dunque accertato il fatto che gli stimoli erotici attivino molto più i maschi delle femmine.

 

L’interpretazione evoluzionistica.

Ma qual è la ragione che sta alla base di questo fenomeno? E per quale motivo nelle donne non si verifica tutto questo? Si potrebbe azzardare una risposta in ambito evoluzionistico. Infatti, durante la ricerca del partner uomini e donne utilizzano strategie diverse che massimizzano le probabilità di sopravvivenza e di riproduzione. Per il maschio la riproduzione può risolversi, in teoria, nel solo nell’atto sessuale non avendo costi di gravidanza e di allattamento. Ne consegue che la strategia migliore per assicurarsi una buona discendenza è quella di massimizzare il numero di rapporti sessuali con partner diversi e giovani, visto la durata biologica della fertilità femminile (Attili, 2001).

L’Inguaribile ottimismo degli uomini in fatto di sesso! - Immagine: Fotolia
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Nelle donne, al contrario, il costo biologico della riproduzione è notevolmente più elevato. Devono investire nella gravidanza e nell’allattamento, trovandosi  in una posizione di estrema vulnerabilità e dipendenza dagli altri. Quando una donna, nel passato evoluzionistico, sceglieva un maschio che successivamente l’abbandonava, oppure che non aveva abbastanza risorse per aiutarla nella gravidanza e nell’allevamento della prole, le probabilità di sopravvivenza diminuivano molto, sia per lei che per il figlio (Attili, 2004). Pertanto le donne hanno avuto maggiori probabilità di sopravvivenza quando hanno scelto selettivamente uomini che presentano un profilo comportamentale caratterizzato dalla disponibilità ad accudire e proteggere, oltre che, ovviamente, dall’effettiva capacità di farlo.

 

Non a caso uno degli stimoli che evoca maggiore preferenza da parte delle donne è tipicamente quello dove si vede un uomo che interagisce in modo amichevole e affettuoso con un bambino (Schmitt et al., 2004). In culture del mondo fra loro molto diverse le donne tendono a impostare relazioni a lungo termine con uomini più anziani di loro, perché laddove non vi è assistenza sociale la spinta a ricercare partner protettivi e maturi è chiaramente più accentuata. Infatti, i maschi disoccupati hanno minori probabilità di trovare partner a lungo termine rispetto a maschi occupati.  Le femmine non ricercano partner altamente aggressivi, tant’è che un’esagerata mascolinità si traduce in una minore percezione di bellezza.

Lovers - © George Mayer - Fotolia.com
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Maschi eccessivamente muscolosi o con la barba, che ostentano caratteristiche ipermascoline, spesso non vengono percepiti dalle donne come belli o non sono scelti, spesse volte, per poter costruire un futuro insieme, ma solo come compagnia per un breve e limitato periodo. Attraverso queste particolari scelte estetiche le donne esprimono la preferenza per partner che hanno un atteggiamento protettivo, accudente o, come si è abituati ad affermare correntemente: romantico . Nel caso in cui la scelta della donna ricadesse su persone non romantiche, comincia a muoversi in un territorio minato in cui lotta costantemente e incessantemente per cambiare la testa dell’altro. Attenzione, in questo caso è possibile incappare in una relazione ossessiva in cui l’uomo esaspera la sua natura di cacciatore e non protettore evitante e la donna per ottenere quello che vuole, ovvero un figlio, prova disperatamente e modificare la testa del partner. Si genera in questo modo un circolo vizioso che vede la sua fine nella rottura delle relazione.

 

Ma tutto questo sarà vero? Vi identificate in questa visione evoluzionistica della donna?

A voi la parola e la scelta.


BIBLIOGRAFIA:

  • Attili G. (2004),  Attaccamento e Amore, Bologna, Ii Mulino.Cooper A. (Ed., 2002), Sex And Thè Internet: A Guidebookfor Clinicians,New York, Brunner-Routledge.
  • Costa M., Braun C, Birhaumer N. (2003), Gender Differences in Responsc To Pictures of nudes: A Magnetoencephalographic Study, Biological Psychology, 63, 129-147.
  • Sabatinelli D., Flaisch T., Bradley M. M., Fitzsimmons J. R., Lang P.J. (2004), Affective picture perception: Gcnder Differenceces in Visual Cortex?, Neuroreport, 15, 1109-1112.

 

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Parents’ Words and Anxiety Disorders – Part 7

Parents’ Words and Anxiety Disorders – Part 7 – Summing up:

Parents' words and anxiety disorders part 7 - Immagine: Fotolia.com
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As we arrive at the seventh installment of this series, I feel it is appropriate to recapture the major points that have been explored thus far. First, why study anxiety disorders? Well, anxiety in adults and children is more prevalent than most people think. It also affects the lives of individuals greatly and persistently. Compared to healthy individuals, those who suffer from anxiety disorders tend to have cognitions characterized by higher levels of threat interpretation. We know that anxiety disorders run in families and that parents exhibit stereotypical behavior in the context of anxiety.

Furthermore, compared to children’s behavior prior to conversations with their parents, anxious children display more avoidant behavior following them. Complimenting these findings, a series of experimental studies have shown that the use of negative words can induce avoidance in children in both non-social and social situations. This line of reasoning has leaded us to investigate whether anxiety affects parental word choice during discussions with their children.

So can maternal trauma and/or anxiety affect the way that parents speak? The answer appears to be yes. Mothers who have experienced emotional and physical trauma have difficulty encouraging their children to explore their own emotions. Regarding anxiety, it appears that the mothers of anxious children speak less, and are less positive and more discouraging during emotional discussions. This also appears to be true for fathers of anxious children.

So what can we do to correct distortions in cognitive style?

One way proven to alter individuals’ cognitions is video feedback therapy. Over the next few installments of this series, I will be discussing the therapeutic benefits of video feedback therapy in various populations. These populations include families with adopted children, parents with eating disorders, and children with behavioral problems. I will conclude this series by discussing the possible benefits of video for parent-child conversations.


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Chi è insicuro non chiede scusa.

– Rassegna Stampa –

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze PsicologichePerchè alcune persone chiedono facilmente scusa e altre no? Quali tratti della loro personalità sono legati a questa propensione? Una ricerca apparsa su Scientific American si è occupata proprio di questo. Lo psicologo Andrew Howell e i suoi colleghi della Grant MacEwan University di Edmonton hanno elaborato un questionario per misurare la propensione a dire “mi dispiace” dei partecipanti allo studio e hanno poi incrociato i punteggi ottenuti con i risultati relativi alla valutazione della personalità.

Come previsto dai ricercatori, chi è compassionevole e accondiscendente è più propenso alle scuse di chi non lo è. L’esperimento però ha dato anche risultati inaspettati: chi ha una bassa autostima, per esempio, è meno incline a chiedere scusa di chi ha invece una buona autostima e si sente sicuro di sè.

Sembra infatti che chi ha una bassa autostima dopo un conflitto provi più facilmente vergogna e dispiacere per sé stesso, più che colpa e dispiacere per la persona che ha offeso. Anche chi possiede tratti narcisistici, che tradizionalmente compensano bassa autostima e sentimenti di profonda vergogna, sembra essere eccessivamente egocentrico e troppo assorbito da sé per chieder scusa all’altro. Un altro risultato che ha sorpreso i ricercatori è quello relativo alla scarsa propensione a dire mi dispiace in chi ha un forte senso della giustizia; sembra infatti che la filosofia dell’ “occhio per occhio e dente per dente” sia incompatibile con il sincero pentimento: riconciliarsi può anche mettere fine a un conflitto ma non per questo riuscire a fare giustizia! (it may end a conflict, but it cannot always settle a score)

 

BIBLIOGRAFIA:

  • Andrew J. Howell, Raelyne L. Dopko, Jessica B. Turowski, Karen Buro, “The disposition to apologize“, Department of Psychology, Grant MacEwan University, Edmonton, Alberta, Canada T5J 4S2

PSICO-ECONOMIA – Stress Finanziario e Finanza Comportamentale

– Rassegna Stampa – PSICOECONOMIA (Realizzata in Collaborazione con Ifanews.it)

State of Mind: Rassegna Stampa - Finanza Comportamentale - Immagine: © tiero - Fotolia.com

Learning by doing – Consulenti, gli effetti negativi dello stress finanziario sulla famiglia e sul lavoro

[Scritto per Ifanews.it da Gianluca D’Aronzo, formatore comportamentale e coach per professionisti della finanza]

Sarà la mia passione per i numeri, ma a volte pare che qualcuno guidi il mio indice destro facendomi cliccare su dati che, come per magia, si cercano e si ritrovano in configurazioni che lasciano ampi spazi di riflessione. Eccone alcuni:

• Quando nascono problemi finanziari, i loro effetti emergono in primis sul posto di lavoro. (Keller & Nolf)

• Una ricerca su un significativo campione di dipendenti, dimostra che il 40% di essi attribuisce il calo di produttività allo stress legato a problemi di finanza personale. (Garman, Leech & Grable)

• Lo stress finanziario è la causa numero uno della bassa produttività dei dipendenti, del loro basso morale ed incide fino al 70% di tutti i costi sostenuti per cure mediche. (Glenn Carnathan – USA Today)

• I lavoratori trascorrono oltre 20 ore di lavoro al mese pensando a problemi di danaro. (Dr. Thomas Garman)

• L’indebitamento medio delle famiglie italiane a fine 2010 è pari a 19.000 Euro (+20% nell’ultimo anno); è riconducibile a mutui, prestiti, credito al consumo e finanziamenti per la restrutturazione di beni immobili (Cgia – Mestre). Negli Usa è pari a 45.000 $ per famiglia (Money Consumer Reports Book)

Per non parlare poi dell’impatto che lo stress finanziario produce all’interno della famiglia… CONTINUA A LEGGERE SU IFANEWS.it

 

Le Distorsioni Cognitive dei Mercati

[Scritto per Bluerating.com da Biagio Campo]

Cognitivismo ed Economia - John Stuart Mill - Licenza d'uso: Creative Commons - Owner: http://www.flickr.com/photos/oxfordshire_church_photos/
Articolo Consigliato: "Cognitivismo ed Economia"

L’incapacità di spiegare il funzionamento dei mercati finanziari e delle scelte degli investitori ha portato negli ultimi anni “a rivedere vari aspetti della scienza economica secondo una nuova ottica, in cui il fattore psicologico degli operatori ha un ruolo nuovo e molto più importante”. In quest’ottica osserviamo la crescente affermazione della finanza comportamentale che in sintesi “può essere definitiva come la scienza che studia il funzionamento dei mercati e il comportamento degli operatori utilizzando conoscenze e strumenti propri delle scienze umane, per avere una visione il più realistica possibile del complesso mondo finanziario”; la finanza comportamentale “contiene maggiore novità nel metodo di studio piuttosto che nel contenuto”.

 

Il primo “lavoro importante sul tema è l’opera di H. Simon A Behavioral Model of Rational Choice del 1955, sul modello comportamentale di scelta razionale, ma il vero grande precursore della materia è lo psicologo P. Slovic”… CONTINUA A LEGGERE SU BLUERATING

 


La lotta all’AIDS non è più cool. Ma se non lo conosci non lo eviti.

-1 Dicembre: GIORNATA MONDIALE CONTRO L’ AIDS –

Se lo conosci, lo eviti, ricordate questo motto? Da tempo è di uso comune, percolato nella lingua di tutti i giorni, tutti lo utilizzano nei contesti più disparati, ma molti hanno anche dimenticato a chi era inizialmente riferito. AIDS: se lo conosci, lo eviti!

Giornata Mondiale contro l'AIDS - HIV RibbonQuesta mattina, leggendo un quotidiano, mi ha colpito un articolo: “AIDS, la guerra dimenticata dalle istituzioni. Troppi giovani non sanno cos’è l’HIV”. A vent’anni dalle ultime grandi campagne di informazione, oggi poco si fa per la prevenzione. Un malato su 4 non sa di esserlo. Ma quello che principalmente mi turba è che i giovani ne sanno pochissimo. Come mai? Quando ero adolescente, ricordo, la televisione ci bombardava di pubblicità progresso, in particolare ce n’era una sull’AIDS dalla musica inquietante, bastava ascoltare la prima nota e già si era terrorizzati, indicatore di dover stare attenti a questa brutta malattia. Ora, invece, il nulla! Certo passare dal TERRORE al SILENZIO è un grosso salto nel vuoto. Prova ne sia, facendo un giro al centro di Milano non c’è nessuno che ne parli , nessun gazebo, nessun ragazzo che prova a fermarti, NESSUNO! Anzi, qualcuno in giro c’è ma si tratta di Greenpeace. Allora, perché Greenpeace è presente e la lega italiana per la lotta contro l’AIDS no. Eppure siamo a Milano, città mondana e nevralgica, nel giorno indetto alla lotta contro questa malttia!

Tutto questo buio sceso sull’infezione da HIV contribuisce a sostenere l’idea terribilmente sbagliata che l’AIDS sia ormai solo un problema dei paesi del terzo mondo, e quindi distante da noi. Sbagliatissimo! In realtà assistiamo a una diminuzione delle morti per AIDS e al contestuale aumento del numero di persone sieropositive. Un sieropositivo su 4 non sa di esserlo, finché la malattia si manifesta con virulenza, allora è troppo tardi per limitare i danni. Il contagio è in aumento. Perché si è abbassata la guardia?

Per rispondere a questa domanda è necessario fare un salto cronologico, visto l’ incremento di malattia tra gli adolescenti. Questi ultimi considerano le precauzioni nei rapporti un optional, ” …tanto ci sono i farmaci!”. Ma come, anziché fare dai passi aventi si è tornati in dietro di decenni? I farmaci: migliorano la qualità della vita, ma non guariscono dalla malattia.

Tutto questo implica la necessità di potenziare gli interventi preventivi mirati ai diversi gruppi di popolazione, autoctoni e non, tutti in egual modo soggetti a infettarsi in assenza di comportamenti sicuri. Parallelamente assistiamo a un aumento della domanda da parte delle persone con HIV di consulenze, sostegno psicologico e psicoterapia, sia per problemi di adattamento alla malattia, che per qualunque altro disturbo mentale.

Oggi, come è noto, una diagnosi di infezione da HIV non rappresenta più una condanna a morte come invece accadeva nei primi anni dell’epidemia. Grazie all’introduzione e alla diffusione nei paesi sviluppati dei nuovi trattamenti farmacologici, dimostratisi sempre più efficaci, assistiamo a una considerevole riduzione di morbilità e mortalità tra le persone sieropositive e alla trasformazione dell’infezione in una malattia cronica. Questo, tuttavia, non vuol dire che si siano parallelamente risolti i problemi di chi con questo virus deve convivere.

Infatti, proprio in quanto malattia cronica, essa richiede controlli periodici e trattamento farmacologico proiettati a lungo termine e, di conseguenza, una serie di compiti adattativi per il paziente con i quali è difficile confrontarsi e da cui possono derivare uno stress notevole e dei disturbi psicologici di gravità variabile.

I nodi che generalmente si affrontano nell’intervento psicologico clinico riguardano l’accettazione della malattia, della nuova condizione e l’adattamento alla convivenza con il virus, la rivelazione della sieropositività ad altri significativi, l’adozione di comportamenti sicuri nei riguardi di sé e degli altri (Spizzichino, 2008).

L’adattamento, in ogni caso, non è una conquista stabile a causa della natura intrinsecamente evolutiva dell’infezione da HIV: si pensi, infatti, allo stress dei controlli clinici e laboratoristici per monitorarne la progressione, alla comparsa di una qualsivoglia sintomatologia, alla necessità di iniziare il trattamento farmacologico.

Per questi pazienti si potrebbe parlare di sindrome di Prometeo, dal nome del titano che Zeus fece incatenare alla cima più alta del Caucaso. Essa è caratterizzata da senso di sradicamento, vissuto di perdita, isolamento, impotenza, perdita di fiducia nel futuro nonostante l’aspettativa di sopravvivenza, ansia, tristezza, depressione. Si sentono incatenati, impossibilitati a far ritorno nel paese di origine, pena l’interruzione del trattamento salvifico. Continuando a seguire il filo del mito, il riferimento a Prometeo assume un significato ulteriore poiché egli venne posto in quella dolorosa situazione senza speranza – Zeus giurò che non lo avrebbe mai liberato – per punirlo di aver ridato il fuoco agli uomini. E il tema della punizione ricorre spesso nel lavoro clinico con le persone con HIV, che sentono la malattia come una punizione di Dio per una “cattiva” condotta, per i comportamenti rischiosi o incoscienti avuti.

E tu, cosa sai dell’HIV?

 

 

BIBLIOGRAFIA:

  • Giuliano, M., & Vella, S. (2007). Inequalities in health: access to treatment for HIV/AIDS. Annali dell’Istituto Superiore di Sanità, 43 (4), 313-6. Retrieved June 22, 2009
  • Nachega, J.B., Hislop, M., Dowdy, D.W., Chaisson, R.E., Regensberg, L., & Maartens, G. (2007). Adherence to no nucleoside reverse transcriptase inhibitor–based HIV therapy and virologic outcomes. Annals of Internal Medicine, 146 (8), 564-73.
  • Spizzichino L. (2008). Counselling e psicoterapia nell’infezione da HIV. Dall’intervento preventivo al sostegno psicologico. Roma: Franco Angeli.
  • World Health Organization/UNAIDS/UNICEF (2007). Towards universal access. Scaling up priorities HIV/AIDS interventions in the health sector. Progress Report, April 2007. Geneva, Switzerland: World Health Organization. Retrieved June 22, 2009, from http://data.unaids.org/pub/Report/2007/20070925_oms_progress_report_en.pdf

 

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Tecniche terapeutiche: la bacchetta magica

La Bacchetta Magica in psicoterapia: aggirare una resistenza dialettica.

Tecniche terapeutiche: la bacchetta magica - Immagine: © Ekler - Fotolia.com La scuola di psicoterapia è un percorso particolare, diviso fra il piacere di condividere un’atmosfera formativa, di complicità umana fra gli allievi, e la gestione delle proprie aspettative, dei propri timori circa una professione che attende a poca distanza e può tuttavia sembrare lontana.

Queste rappresentazioni, che ogni allievo declina in modo peculiare e che rispecchiano tratti significativi della sua personalità, si riferiscono in particolare alle grandi domande ‘saprò essere un buon terapeuta?’, ‘come si fa il terapeuta?’, e la ricerca di una risposta si svolge su più fronti: lo studio della teoria, gli insegnamenti che si possono attingere dall’esperienza dei didatti, la riflessione sui protocolli che ognuno sente più vicini alla propria maniera di intendere la terapia.

Vi è dapprima la necessità di individuare regole solide, di legarsi a tecniche terapeutiche che strutturino senza incertezze la pratica clinica, e solo in seguito ogni allievo impara gradualmente a maneggiare con flessibilità tali tecniche, ad incastrarle in un mosaico che tenga in considerazione le caratteristiche particolari del paziente, la sua modalità di relazionarsi, il funzionamento cognitivo e metacognitivo che ci mostra.

LA BACCHETTA MAGICA

Coloro i quali hanno avuto come insegnante Piefrancesco Vinai non possono aver dimenticato la celebre tecnica della bacchetta magica, da lui utilizzata con sobria maestria. Il mio desiderio di capire cosa avvenisse in uno studio di psicoterapia allorché il lavoro veniva condotto da un professionista esperto, trovava risposte intriganti quando Vinai scioglieva nodi complessi chiedendo al paziente ‘cosa farebbe se avesse la bacchetta magica?‘. Inizialmente rimanevo sorpreso, condizionato forse dal mio pezzettino individuale di immaginario collettivo secondo il quale la psicoterapia, da molti non addetti ai lavori ancora associata alla psicoanalisi e non a caso, vive di interpretazioni enigmatiche che sfuggono ai più.

Vinai poneva al paziente una domanda che appariva facilmente aggirabile, ma aveva intuito che nel racconto appena ascoltato ‘qualcosa non tornava’, per usare un’altra sua espressione ricorrente. Aspetti di fondo o piccoli dettagli che in quel preciso contesto, in relazione alle altre informazioni disponibili risuonavano incoerenti: era in quegli angoli della terapia che andava a distendersi la bacchetta magica.

Una moglie che non lascia il marito perché non riuscirebbe a mantenersi, un uomo che non confida le proprie sofferenze ai familiari per non farli preoccupare, e molte altre scene cliniche analizzate a lezione: denominatore comune, la rinuncia ad interpretazioni che escludano il contributo reale del paziente. Al contrario, lasciando a quest’ultimo il compito di svelare il proprio vissuto emotivo nei termini in cui di fatto lo percepisce, creando un contesto comunicativo sospeso nel quale non si parla di ciò che bisogna fare ad ogni costo ma di ciò che sarebbe bello fare se alcune condizioni psicologiche o ambientali fossero diverse, si può aprire uno scenario alternativo. La possibilità di rappresentare unicamente nel proprio immaginario un cambiamento sentito come pericoloso rassicura il paziente; compito del clinico sarà imboccare efficacemente la strada aperta dalla bacchetta magica, partendo dalla caduta di una resistenza prima di tutto dialettica.

Alcune domande semplici e dirette costituiscono uno strumento fondamentale per la terapia cognitiva specie quando, pur mantenendo la loro forza penetrativa, si dimostrano gestibili per il paziente. La bacchetta magica ne è un esempio perfetto e nella pratica clinica non è difficile sperimentare la sua validità, ricevendo risposte che diradano la fitta boscaglia di alcuni passaggi faticosi. Il suo utilizzo è semplice poiché non espone il paziente al pericolo di una consapevolezza indotta dal terapeuta attraverso l’autorità del ruolo; ciò che può distinguere il clinico esperto dai colleghi più giovani è semmai la capacità di riconoscere gli scambi comunicativi nei quali il ricorso a quella domanda può risultare più fertile: si definisce esperienza. Godiamoci l’apprendimento!

Sistema immunitario: Se il corpo è malato, la mente vigila!

L’attivazione del sistema immunitario influenza la percezione degli stimoli esterni potenzialmente dannosi.

Sistema immunitario - Immagine: © DPix Center - Fotolia.comInteressanti i risultati di un recente studio pubblicato su Psychological Science, condotto dai ricercatori dell’Università del Kentucky di Lexington e coordinati da Saul Miller, secondo i quali chi è stato recentemente ammalato farebbe particolare attenzione agli agenti esterni che potrebbero mettere nuovamente a rischio la propria salute. Sembrerebbe che l’attivazione del sistema immunitario di difesa, appena sollecitato da una malattia, in un qualche modo influenzi il comportamento dell’individuo inducendolo a prestare maggior attenzione agli stimoli esterni potenzialmente pericolosi per la salute.

Il disegno di ricerca prevedeva che tutti i partecipanti allo studio compilassero alcuni questionari che, tra le altre domande, indagavano se nei giorni precedenti erano stati ammalati e raccoglievano le loro credenze rispetto alla malattia.

I ricercatori hanno poi condotto due esperimenti: nel primo esperimento venivanopresentati in sequenza 80 volti, alcuni dei quali erano di persone sane altre di persone visibilmente malate (ad esempio visi sfigurati da eruzioni cutanee o intenti a starnutire) . Ai partecipanti veniva chiesto di osservare il volto e, quando scompariva dallo schermo, di associare ad esso la forma di una figura geometrica, quadrato o cerchio, premendo un tasto il più velocemente possibile. I risultati indicano che chi era stata malato da poco tempo registrava maggiori tempi di latenza nelle risposte relative a volti malati, dimostrando quindi di prestare particolare attenzione a questo tipo di stimoli; i tempi di risposta degli altri partecipanti all’esperimento erano invece sovrapponibili per entrambi i tipi di stimolo proposto.

Nel secondo esercizio i partecipanti dovevano, tramite un joystick, individuare i volti normali ed eliminare quelli malati. Anche in questo caso non sono emerse differenze significative nei soggetti “sani”, mentre chi era reduce da una malattia risultava più sensibile ai visi “malati”, riuscendo a scartarli più rapidamente.

Secondo Miller, una delle implicazioni di questo studio potrebbe dipendere dal fatto che quando si è malati si hanno maggiori pregiudizi rispetto alle persone tipicamente portatori di un disagio, anche quando questi non sono effettivamente una possibile fonte di contagio. Di fatto, dopo una malattia, il nostro modo di proteggerci è quello di stare alla larga da chi potenzialmente potrebbe rimetterci a letto con il termometro e la borsa dell’acqua calda! Il rischio nascosto sarà forse quello dell’ipercontrollo?

 

BIBLIOGRAFIA:

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