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Farmaci antipsicotici: nuove evidenze per capirne il funzionamento.


Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze PsicologicheFino ad ora non si conosceva nello specifico il meccanismo molecolare attraverso cui gli attuali trattamenti farmacologici per la schizofrenia ottenessero i loro attesi effetti antipsicotici.

Un team multidisciplinare di ricercatori afferenti al Mount Sinai School of Medicine, Virginia Commonwealth University e University of Maryland School of Pharmacy ha recentemente identificato il pattern di segnali cellulari indotti da farmaci antipsicotici in uno specifico complesso di due recettori associati alla schizofrenia.

Lo studio ha analizzato gli effetti dei farmaci antipsicotici su due recettori associati alla schizofrenia: il recettore per il glutammato mGlu2 e il recettore per la serotonina 5-HT2A. I ricercatori hanno dimostrato che i farmaci antipsicotici aumentano significativamente il livello di attività nei recettori del glutammato e diminuiscono il livello di attività dei recettori della serotonina; utilizzando invece farmaci allucinogeni, per indurre uno dei principali sintomi della schizofrenia, si verificava invece l’effetto opposto. Anche se il rapporto ideale rimane ancora sconosciuto, negli individui sani vi sarebbero livello maggiori di attività nel recettore per il glutammato e livelli di attività minori nel recettore per la serotonina, mentre nei soggetti con diagnosi di schizofrenia tale relazione sarebbe inversa.

I passi successivi in termini di ricerca prevedono quindi lo studio e la sperimentazione di trattamenti che consentano di raggiungere il bilanciamento ottimale nell’attivazione dei due recettori in questione, e cioè nel complesso dei recettori glutammato-serotoninergici. I risultati sono stati pubblicati sul numero del 23 novembre di Cell.

LINK: Researchers Discover Clues to Developing More Effective Antipsychotic Drugs

 

I comportamenti aggressivi dei bambini: ma è sempre colpa dei genitori? – parte 2

Il secondo articolo della serie dedicata allo studio dei comportamenti aggressivi dei bambini in relazione allo stile genitoriale applicato.

I comportamenti aggressivi dei bambini: ma è sempre colpa dei genitori? PARTE 2 - Immagine: © olly - Fotolia.comIn questa seconda parte vedremo in che modo e perché lo stile genitoriale influisce direttamente sul comportamento aggressivo dei figli. Anche se il luogo comune “E’ sempre colpa dei genitori” è effettivamente limitativo e i fattori in gioco nella crescita di un figlio sono tanti, non si può ignorare che i genitori svolgano, indipendentemente dalle altre variabili, un ruolo determinante nello sviluppo cognitivo, emotivo e sociale del bambino.

Un recente studio pubblicato sulla rivista Child Development dimostra proprio questo: 260 diadi madre-bambino sono state osservate dalla nascita del bambino fino alla prima elementare. Dal primo mese di vita fino ai tre anni, le misure di valutazione includevano l’osservazione diretta della diade da parte di uno psicologo accompagnate ai resoconti della madre; successivamente, i ricercatori hanno osservato e codificato i comportamenti delle madri in situazioni create ad hoc, come ad esempio il dare un compito che mettesse in difficoltà il bambino e che richiedesse l’aiuto della madre; durante il primo anno di scuola, infine, i comportamenti dei bambini venivano rilevati in classe dalle insegnanti e a casa dai genitori.

I Comportamenti aggressivi dei bambini - Immagine: © Pixlmaker - Fotolia.com
Articolo consigliato: "I comportamenti aggressivi dei bambini - PARTE 1"

I risultati dello studio parlano chiaro: ciò che conta nell’insorgenza di problematiche comportamentali aggressive, più del temperamento del bambino o dell’ambiente esterno, è lo stile genitoriale negativo. Nello specifico, quando il genitore esprime emozioni negative dirette al proprio figlio e quando vi siano presenti conflitti tra la mamma e il bambino, si creerebbe un circolo vizioso in cui la negatività della madre suscita alti livelli di rabbia, nervosismo e ostilità nel piccolo, il quale a sua volta, così facendo, stimola più ostilità nella madre stessa. I bambini, con il passare del tempo, diventerebbero incapaci di regolare le proprie emozioni negative quando queste si manifestano nel gruppo dei pari, portando quindi all’insorgenza del comportamento aggressivo.

Connesso a questa problematica è lo stile genitoriale autoritario, caratterizzato da bassa responsività ai bisogni del bambino, poco calore nella relazione parentale ed elevato controllo coercitivo, espresso attraverso punizioni anche fisiche, ostilità verbale e mancanza di spiegazioni date ai figli relativamente ai comportamenti sbagliati che hanno portato alla punizione.

Tale modalità nel relazionarsi favorirebbe l’insorgenza di comportamenti oppositivi e aggressivi per svariati motivi: prima di tutto per un basico meccanismo di apprendimento, in cui il bambino utilizza la disciplina imparata dal genitore anche con il gruppo dei pari. In secondo luogo, vi è il motivo menzionato sopra, ovvero un’emotività negativa e ostile nei confronti del figlio che non fa altro che suscitare nel bambino stesso emozioni altrettanto negative, e quindi lo renderebbe meno capace di focalizzarsi su altri modi di risolvere i problemi e di programmare attività diverse. E quando queste capacità sono sotto-stimolate, diventano presto anche sotto-sviluppate.

Questi dati devono farci riflettere a livello clinico, sia per orientare l’intervento il più precocemente possibile, addirittura nei primi mesi di vita del bambino, sia per sottolineare ancora una volta come il lavoro vada pensato prima di tutto rivolto ai genitori e alla famiglia.

La prossima settimana vedremo come si può lavorare su problematiche comportamentali di questo tipo, sia a livello genitoriale sia scolastico.

 

 

BIBLIOGRAFIA:

 

 

CRITICHE? CONSIGLI? DOMANDE? IDEE? LASCIACI LA TUA OPINIONE!

E vissero “per un certo periodo di tempo” felici e contenti: la fine della relazione.


La fine della relazione sentimentale e le sue conseguenze per la psiche e la percezione che abbiamo di noi stessi.

Separazione - Immagine: © Athanasia Nomikou - Fotolia.com -

All’interno di una relazione di coppia, il concetto che ognuno ha di sé, è necessariamente influenzato dalla presenza dell’altro nella propria vita. Quando si è coinvolti in un rapporto d’amore, la vita si coniuga in prima persona plurale: il noi diventa l’imperativo che commuta l’io in una pluralità capace di dissolvere il confine tra il sé e l’altro. Conseguentemente, la condivisione diventa la regola e i partner si spartiscono amici, attività, piaceri e interessi, costruendo, in tal modo, idee condivise su sé stessi, l’altro e la loro relazione.

Ma cosa accade ai due nel momento in cui la relazione finisce?

Molte persone tendono ad assumersi tutta la responsabilità della rottura, criticando se stessi e colpevolizzando i propri atteggiamenti, altre invece, reagiscono al dolore con rabbia, accusando l’altro di tutto e infangando la memoria di una relazione che, nonostante l’epilogo, avrà indubbiamente avuto anche aspetti positivi.

La perdita della figura amata comporta numerose conseguenze psicologiche, tra cui la tendenza a cambiare il contenuto della propria visione di sé stessi (Slotter et al, 2010); sembrerebbe, in altri termini, che molte persone soffrano non solo per aver perso l’altro, ma anche per aver perso un po’ di sé.

La sofferenza spinge alcuni individui a chiudersi in sé stessi e il pensiero che mai più si potrà vivere una relazione del genere o trovare una persona speciale come quella perduta, spiana la strada verso la depressione. Analogamente, si muovono nella stessa direzione, anche coloro che fingono di non soffrire e raccontano a loro stessi che in fin dei conti, quella persona non era così importante o così rara come pensavano. In sintesi, le più comuni risposte psicologiche conseguenti alla fine di un rapporto sembrano essere: paura, disprezzo, rabbia, senso di vuoto, rancore, timore del rifiuto, autocommiserazione e riduzione dell’autostima.

Quindi come affrontare in modo “sano” la rottura di una relazione?

Innanzitutto non bisogna mai pensare che una relazione terminata, corrisponda a “tempo perso”. Un popolare proverbio francese sostiene che il tempo può distruggere solamente ciò che si è costruito senza tempo, dunque più le relazioni sono state durature e importanti, più consentono a chi le ha vissute, di crescere, arricchirsi ed evolversi, diventando parte indissolubile del proprio essere. Le relazioni permettono agli individui di scoprire parti di loro stessi che non conoscevano prima, di comprendere cosa si vuole ritrovare in un nuovo rapporto e che cosa ci si augura di non ripetere.

In secondo luogo, per superare una rottura, è necessario prendersi cura di sé stessi, soffermandosi su ciò che si vuole nel “qui e ora”, in modo tale da poter vivere appieno il presente, lasciando aperto il cuore al futuro e a progetti di vita prima non realizzati.

Dunque, rimuginare sulla causa della rottura, al fine di trovare necessariamente un colpevole, conduce, solo a una riduzione della chiarezza del concetto di sé. Le relazioni, di qualunque natura esse siano, sono frutto di una co-costruzione, di conseguenza, un’eventuale rottura, è ineluttabilmente dettata dalla co-responsabilità di entrambi i membri della coppia.

Tuttavia, lo stress emozionale che gli individui sperimentano in seguito alla rottura di un rapporto, il più delle volte, non permette di ragionare con tanta lucidità, se non altro, non nell’immediato. Sarà allora vero che il tempo è l’unica soluzione? Baudelaire suggerisce che il solo modo di dimenticare il tempo è impiegarlo e dunque impieghiamolo questo tempo, ma in maniera propizia e senza esagerare, si rischia altrimenti di rimanere imprigionati in un loop maniacale!

 

 

BIBLIOGRAFIA:

  • Slotter, E.B.; Gardner, W.L.; Finkel, E.J. (2010). Who Am I Without You?  The Influence of Romantic Breakup on the Self-Concept. Personality and Social Psychology Bulletin, 2010; 36 (2).
  • Bergmann S.M. (1992). “Anatomia dell’ amore” . Einaudi, Torino, 1992.

 

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A 50 anni il picco di competitività.

– Rassegna Stampa –

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze PsicologicheSembrerebbe che la nostra inclinazione a rivaleggiare con gli altri e la competitività, al posto di scemare con l’età aumenti nel corso della vita arrivando al proprio culmine intorno intorno ai 50 anni. Il senso comune, cosi come alcune evidenze scientifiche, portavano a speculare proprio sul contrario, dalla riduzione del testosterone, alla maggiore predisposizione a comportamenti prosociali, fino a una minore fiducia nelle proprie abilità cognitive con l’aumentare dell’età.

Uno studio pubblicato in questi giorno da Psychology and Aging ha chiesto a circa cinquecento partecipanti, di età compresa tra i 25 e i 75 anni di risolvere mentalmente equazioni matematiche il più velocemente possibile, in modo da poter accumulare punti che poi si traducevano in premi monetari. Dopo una serie di rounds di questo tipo, nell’ultima prova i partecipanti potevano scegliere se continuare a competere con sè stessi oppure gareggiare contro uno sfidante. Mentre non si sono riscontrate differenze significative nella qualità delle performance, è’ risultato un significativo effetto dell’età: quasi il 70% dei soggetti di età compresa tra 45 e54 anni hanno scelto di competere con uno sfidante, contro il 50% di coloro che avevano un’età tra i 25 e i 34 anni. Gli autori speculano che una potenziale spiegazione di questo effetto potrebbe essere legata all’incremento dei punteggi di “dominanza sociale” proprio intorno ai 50 anni: approcciare in modo vincente alle competizioni sarebbe cruciale per stabilire la dominanza sociale, e si spiegherebbe quindi gusto della competizione per gli individui di mezza età.

Un limite della ricerca si riscontra nella tipologia di studio effettuando trattandosi di uno studio cross-sezionale.Chi ci dice infatti che le differenze significative tra giovani e vecchi testati nell’anno 2011 non siano in realtà effetto dell’età in sé, quanto piuttosto un effetto legato alla nostra evoluzione culturale e al passaggio da generazioni differenti vissute in contesti socio-politico-culturali profondamente diversi?

E Voi quanto siete competitivi? E in quale ambito della vostra vita affiora di più il desiderio di primeggiare?

 

BIBLIOGRAFIA:

Psicopatologia del tradimento in amore.

L’infedeltà nell’amore: dalle origini alla psicopatologia del tradimento.

Il tradimento: dalle origini alla Psicopatologia - Immagine: © hultimus - Fotolia.com Una vecchia canzone recitava: “Quasi, quasi lo farei … Quasi, quasi dimmelo… quasi, quasi ti ho tradito e mi sono divertito.. “. Ma sarà vero o il tradimento miete morti e feriti?

Molte persone intraprendono una psicoterapia in seguito ad un tradimento, sia che l’abbiano subito, perché per loro è un trauma sia che l’abbiano agito, poiché di solito ne segue una crisi coniugale e di conseguenza individuale, sia che siano stati l’oggetto del tradimento, perché perseguono un rapporto inesistente. L’80% dei tradimenti vengono scoperti, ma nel 70% dei casi le coppie ufficiali sopravvivono all’intrusione di una terza persona e non si separano, a causa della dipendenza affettiva (De Bac, 2006).

Il tradimento è un uragano che sradica tutto ciò che si è costruito, portando con sé un senso di morte, lacera quelle vite di coppia che hanno un urgente bisogno di un radicale rinnovamento, pena il lento decadimento affettivo dell’unione e dei singoli individui.

Persino Cristo è stato tradito dai suoi amici, Pietro prima e Giuda poi. Da questo episodio deriva l’attuale connotazione negativa del termine “tradire”. Infatti, nella lingua latina esso aveva tutt’altro senso, significava “consegnare”, “svelare”, “insegnare”, “trasmettere ai posteri”. Prima del cristianesimo, il “traditore” era colui che compiva un passaggio di informazioni importanti. Andando indietro nel tempo, tutto l’Antico Testamento è disseminato di tradimenti, Caino e Abele, Giacobbe ed Esaù, Labano, Giuseppe venduto dai fratelli, le promesse mancate dal faraone, l’adorazione del vitello d’oro alle spalle di Mosè, Saul, Sansone, Giobbe, le ire di Dio verso il suo popolo: il diluvio universale… insomma, Israele, si sa, è stata una sposa infedele ma Dio, tuttavia, non ha mai cessato di cercarla e di amarla in modo straordinario e unico (Hillman 1967).

Nella cultura greca, il tradimento era un evento molto frequente, ma vissuto con una certa leggerezza e spesso non giudicato come “peccato”, sembrava una cosa naturale, umana e possibile.

La coppia regale Zeus ed Era, era senza dubbio quella più tormentata dal tradimento. In questo famoso matrimonio le numerose scappatelle del marito suscitavano le ire della consorte, ma senza mettere mai in discussione il rapporto. Malgrado tutto, né Zeus né Era hanno rinunciato mai l’uno all’altra, perché legati da un vincolo d’amore potente e indissolubile.

In questo viaggio a ritroso alle radici del tradimento ci imbattiamo inevitabilmente nel tradimento originario, quello di Adamo ed Eva verso Dio. Il serpente edenico, instillando la curiosità, indusse Adamo ed Eva a cedere alla tentazione di mangiare il frutto dell’albero della conoscenza, perdendo così i benefici di un mondo incantato, senza problemi, senza dolore, né sofferenza, né morte. Quindi, violando la fiducia di Dio, il tradimento come un uragano sradica tutto ciò che avevano costruito, portando con sé un senso di perdita e di peccato che anche oggi attanaglia la felicità delle coppie dei nostri giorni.

All’inizio della relazione clandestina c’è una sorta di regressione ‘adolescenziale’. Lo schema sentimentale ricorda appunto quell’età caratterizzata da amori fortemente passionali accompagnati da un turbinio d’emozioni. A differenza di quegli amori, questa volta ci saranno conseguenze imprevedibili, che si tende a sottovalutare e sorvolare, si preferisce non vedere. Il tradimento mantiene sempre la relazione “tre metri sopra il cielo”, perché  non presenta  litigi, quotidianità e preoccupazioni tipiche del  matrimonio o della convivenza.

Perché si tradisce? Forse, per cercare un altro al di fuori dall’ equilibrio familiare, o per sfuggire alla tristezza, all’insoddisfazione, alla mancanza di gratitudine, ad emozioni che rimandano un senso di inutilità, di poca desiderabilità, di solitudine, di costrizione. In questo modo, non essendo liberi di esprimersi, di sentirsi se stessi, prevale la paura, l’ansia in cui, purtroppo, si perde anche la stima, l’amore e la dignità dell’altro. Il traditore è spesso privo di capacità di fondare la propria esistenza intorno ad un proprio centro interiore e ha la compulsione a riempire i vuoti con punti di riferimento esterni, col partner prima e, quando questo non corrisponde più ai suoi bisogni, con altri partner, oppure con il lavoro, con sostanze, con il gioco, con l’alcool, in una fuga continua da sé stesso. E’ una persona che non appartiene a nulla e nulla mai gli apparterrà totalmente, se non l’inutilità e il vuoto del suo essere evanescente. Quindi, mentre il traditore nega e scappa, perché non riesce a stare in ascolto di sé, il tradito pretende e attanaglia l’altro a causa della sua insicurezza e, d’altra parte, l’amante rincorre e sogna il mondo che non c’è. Nessuno dei tre, in definitiva, è presente a sé stesso e nessuno è in grado di rimanere da solo, di fare i conti con la propria incapacità di bastare a se stesso.

Ciò che è importante imparare dalle nostre vite è la certezza di poter attraversare anche la solitudine. Quando questa fiducia interiore viene meno, il tradimento è in agguato. La nostra psiche è la natura stessa, è una sua scintilla, è colei che crea e nutre, ma sa essere anche potentemente violenta, se necessario, e spesso, è costretta ad esserlo per salvarci dal peggio.

L’individualità richiede il coraggio di essere soli e di opporsi a un mondo che tradisce e banalizza (Carotenuto 1991).

 

BIBLIOGRAFIA:

  • Aldo Carotenuto (2000), Amare tradire, Bompiani Editore
  • De Bac Margherita (2006), Fedeli solo tre coppie su dieci, ED mondadori
  • Gemma Gaetani (2010). Elogio al tradimento, Vallecchi sezione avamposti
  • Hillman James (1967), Saggio sul Tradimento, in “Puer Aeternus” ED.

Un giorno di ordinaria Psicosi: I Sintomi Psicotici delle persone sane.

I Sintomi Psictici delle persone sane. - © rolffimages - Fotolia.com Un recente articolo pubblicato sul British Journal of Clinical Psychology ci rassicura sul fatto che noi tutti nella vita abbiamo avuto o avremo, con discreta probabilità, sintomi psicotici di lieve o media entità. Sintomi simil-psicotici quali le voci, sensazioni extra-corporee, visioni religiose o allucinazioni d’altro tipo, non sembrano essere così rari tra la popolazione generale.

Si stima infatti che il 10% di tutti noi senta voci che non esistono, mentre solo una piccola minoranza di questo 10% riceve una diagnosi clinica precisa. Si tratta di un problema sotto-diagnosticato o è possibile non sviluppare un patologia conclamata in presenza degli stessi sintomi?

Charles Heriot-Maitland e colleghi si sono proposti di approfondire questo dato, molto carente in letteratura, intervistando 6 pazienti affetti da psicosi e 6 soggetti non-clinici che avevano però riferito esperienze inusuali di questo tipo. I ricercatori hanno poi sottoposto a tutti i partecipanti delle domande aperte per approfondire, ad esempio, le circostanze legate alle loro esperienze ‘bizzarre’, il vissuto personale ed emotivo legato a queste esperienze e come i loro amici e parenti considerassero questo tipo di fenomeni.
Utilizzando il metodo dell’Analisi Fenomenologica Interpretativa hanno identificato alcuni temi ricorrenti nelle risposte dei partecipanti. In entrambi i gruppi, le esperienze bizzarre sono iniziate a seguito di un periodo emotivamente negativo e difficile, spesso accompagnato da sentimenti di isolamento e profonda contemplazione rispetto al significato della vita. Mentre i due gruppi sono risultati diversi nel modo di percepire e rispondere alle proprie esperienze. Il gruppo “sano” ha mostrato un maggiore tendenza a dare interpretazioni non-mediche ai propri sintomi, a considerarli di passaggio e talora desiderabili e le persone che hanno vicino tendono a considerarli nello stesso modo.

La Psicosi e Roman Polanski: formazione per terapeuti.
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Al contrario, i pazienti hanno rivelato una maggiore tendenza a dare interpretazioni mediche delle loro esperienze e mostrato una ridotta capacità di accettare le loro esperienze bizzarre come normali e di inserirle nella routine di vita, sociale e lavorativa.
Lungi dal trarre conclusioni affrettate, Heriot-Maitland e colleghi affermano la necessità di un approccio più rigoroso allo studio delle psicosi, capace di distinguere tra fattori di rischio e fattori di vulnerabilità clinica, sottolineando tuttavia come dai loro dati emerga il dato forte che “..minore è l’attitudine delle persone a riconoscere la loro transitorietà, piacevolezza e benefici, maggiore sarà la probabilità che abbiano conseguenze cliniche dannose”.

 

Sembra dunque di enorme utilità clinica la conclusione dei ricercatori: “La presenza di queste esperienze bizzarre dovrebbe essere normalizzata e le persone con psicosi dovrebbero essere aiutate a ricollegare il significato delle loro esperienze ‘non-ordinarie’ alle emozioni e preoccupazioni esistenziali che le hanno immediatamente precedute”. Insomma, si tratta di costruire un ABC sulle esperienze psicotiche?

Forse non era nelle intenzioni dei ricercatori, ma il panorama cognitivista offre attualmente protocolli e tecniche validate scientificamente, per la cura e gestione dei sintomi psicotici, e appare interessante come la normalizzazione dell’esperienza vissuta e la validazione emotiva, comunemente utilizzate in clinica, siano considerate mezzi potenti anche per questo tipo di patologie.

La speranza per la ricerca futura è di sperimentare nuove metodologie di trattamento in un ambito spesso lasciato nell’isolamento anche da noi clinici, vittime della “credenza dell’incurabilità” per psicopatologie che appaiono così complesse da sembrare incomprensibili, prima ancora che incurabili.

Concludo con le parole di Stanghellini (2008): “La mia tesi è che le voci siano disturbi della coscienza di sé, i cui caratteri fenomenici e la cui genesi divengono più comprensibili se considerati come un modo particolare di emergere alla coscienza del dialogo interiore. […] Laddove in condizioni normali esso è il medium per la rappresentazione di sé, le ‘voci’ nascono dalla sua oggettivazione morbosa: nel fenomeno allucinatorio, il dialogo interiore emerge dallo sfondo della coscienza al suo proscenio e si manifesta in maniera concreta sotto forma di voci aliene”.

 

 

BIBLIOGRAFIA:

 

 

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Un fattore genetico regola la durata del sonno

-Rassegna Stampa –

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze PsicologicheLa leggenda/la storia narra che a napoleone bastassero non più di quattro ore di sonno a notte. …come evitare i sensi di colpa per coloro cui dieci ore di sonno sono il minimo per sentirsi ben riposati? Anzitutto, la durata del nostro sonno è influenzata da diversi fattori, tra cui l’età, il genere, e da un caratteristico “cronotipo”, gufo o allodola. Ma non basta. Un team di ricercatori guidati da Till Roenneberg e Karla Allebrandt dell’Università di Monaco, ha recentemente identificato la prima variante genetica che avrebbe un effetto significativo proprio sulla durata del sonno. Più di 4000 persone di sette paesi europei sono state coinvolte nello studio; dalle analisi dei dati comportamentali e genetici è emerso che individui con due copie di una specifica variante comune del gene ABCC9 generalmente dormono per un periodo di tempo più breve rispetto a individui con due copie della variante alternativa. Il gene in questione codifica per una specifica proteina che a sua volta svolgerebbe una funzione regolatoria dei canali di potassio nelle membrane cellulari. Quindi niente sensi di colpa se non avete un sonno napoleonico!

Abstract dell’articolo

Placebo ed effetto Placebo

Psicopedia - Proprietà di State of MindI termini “placebo” ed “effetto placebo”, sebbene da tempo siano entrati nel comune lessico professionale del medico, continuano ad indicare gli aspetti intriganti e misteriosi di ogni terapia, farmacologica o non farmacologica, essendo rispettivamente i fattori ed i processi incontrollati che confondono la dinamica della guarigione e ne mascherano la causa specifica.

Nella cultura medica occidentale il placebo e l’effetto placebo non godono generalmente di buona fama, nonostante in passato la sola medicina veramente efficace per ogni malattia fosse il placebo.

Risale al 1811 la traduzione letterale “piacerò” dell’Hoopers Medical Dictionary che all’epoca definì il placebo come “Medicamento dato più per compiacere il paziente che per fornirgli beneficio”. Da allora i passi avanti sono stati molti, tanto che è ragionevole ipotizzare che il placebo rappresenti il medicinale maggiormente studiato e conosciuto per l’enorme mole di lavori, che nel corso dei decenni, l’hanno confrontato con le più svariate molecole, sulla base del metodo sperimentale basato sui controlli. Ma di che cosa si tratta?

È il confronto tra l’efficacia di un nuovo farmaco o un nuovo procedimento applicato su un gruppo di pazienti, rispetto a una sostanza neutra e innocua, il placebo appunto, somministrata a un altro gruppo altrettanto numeroso di pazienti. Sia i pazienti sia il medico sperimentatore devono, ovviamente, ignorare fino alla conclusione dell’esperimento, a quale gruppo saranno assegnati i diversi soggetti (metodo “doppio cieco”). La necessità di un gruppo di controllo è proprio legata all’esistenza dell’effetto placebo, in base al quale determinate malattie possono migliorare o guarire con la somministrazione di sostanze innocue e fasulle purché prescritte al paziente quali medicine.

Lancet (1994), ha identificato in un lavoro una serie di fattori che annullano o rinforzano l’effetto placebo, legittimandone così l’esistenza:

  1. le iniezioni sono più efficaci delle compresse a parità di dosaggio e le compresse più grosse sono più efficaci di quelle piccole;

  2. la fiducia del paziente nel medico aumenta l’effetto placebo, come pure gli attestati appesi alle pareti dello studio del medico;

  3. l’effetto aumenta se si spiega al paziente il supposto meccanismo d’azione del farmaco;

  4. l’effetto placebo è migliore nei pazienti ansiosi e in quelli dotati di scarsa capacità critica.

Il placebo, dunque, è definito nella letteratura scientifica come una sostanza priva di una attività farmacologica specifica, somministrata come controllo nei test clinici, oppure ad un particolare paziente per stimolarne potenziali benefici psicologici. La realtà dell’effetto placebo è accettata da gran parte della comunità scientifica. Nelle sperimentazioni cliniche, l’efficacia di una terapia è spesso valutata utilizzando, come controllo, elementi privi di princìpi attivi o procedure ritenute inefficaci, ed i progressi, nei soggetti non trattati, sono attribuiti proprio al placebo. Quindi, il placebo è rappresentato da una sostanza innocua o qualsiasi altra terapia o provvedimento non farmacologico (un consiglio, un conforto, un atto chirurgico) che, pur privo di efficacia terapeutica specifica, sia somministrato alla persona facendole credere che sia un trattamento necessario.

Per effetto placebo si intende una serie di reazioni che l’organismo mette in atto in risposta ad una terapia, ma corrispondono alle aspettative che l’individuo ha nei confronti della stessa. In altre parole, l’effetto placebo è una conseguenza del fatto che il paziente, specie se favorevolmente condizionato dai benefici di un trattamento precedente, si aspetta o crede che la terapia funzioni, indipendentemente dalla sua efficacia “specifica”. L’effetto placebo contribuisce all’efficacia di una terapia specificamente attiva: per discriminare tra queste due componenti si progettano gli studi clinici controllati contro placebo che quando possibili anche sotto il profilo etico sono considerati il gold standard della ricerca clinica. L’effetto placebo è fortemente influenzato da una serie di variabili soggettive quali la personalità e l’atteggiamento del medico (iatroplacebogenesi) nonché le aspettative del paziente.

Nella sperimentazione clinica, un nuovo farmaco si giudica efficace solo se dà risultati significativamente diversi da un placebo. La sperimentazione circa l’effetto placebo avviene in doppio cieco, dove né chi compie il test – medico – né il paziente sono al corrente di quale sia il farmaco e quale il placebo. Il meccanismo alla base dell’effetto placebo è psicosomatico nel senso che il sistema nervoso, in risposta al significato pieno di attese dato alla terapia placebica prescrittagli, induce modificazioni neurovegetative e produce una serie numerosa di endorfine, ormoni, mediatori, capaci di modificare la sua percezione del dolore, i suoi equilibri ormonali, la sua risposta cardiovascolare e la sua reazione immunitaria. In una certa misura possono confondersi con l’effetto placebo anche la guarigione spontanea di un sintomo o di una malattia, così come pure il fenomeno della regressione verso la media. In altre parole il paziente si rivolge al medico “quando proprio non ne può più” e poi i suoi disturbi rientrerebbero comunque nella media. Questo ritorno ai livelli normali del disturbo può essere scambiato per effetto placebo. I risultati dell’effetto Placebo potrebbero essere coadiuvati da un numero di variabili intervenienti, tra cui:

In definitiva, il placebo, può essere inteso come un insieme di fattori extrafarmacologici capaci di indurre modificazioni dei processi, anche biologici, di guarigione intervenendo a livello del sistema psichico: non per nulla molti autori considerano quasi sinonimi i termini placebo e suggestione.

Effetto nocebo

E’ necessario fare un distinguo, nel momento in cui un atto terapeutico provoca un effetto negativo su di un sintomo o una malattia indipendentemente dalla sua specifica efficacia viene chiamato nocebo (il futuro del verbo latino nocere, letteralmente “nuocerò”). Può essere spesso ricondotto ad un atteggiamento ansiogeno da parte del medico o, più in generale, ad un rapporto medico-paziente impostato in modo non corretto. D’altra parte è necessario considerare la componente “nocebo” in una terapia farmacologicamente attiva e validamente testata, qualora ci si trovi in presenza di effetto psicosomatico negativo dovuto a scarsa fiducia nel farmaco o nel medico curante.

Neuroimaging funzionale in utero: misurabili le attivazioni cerebrali già nel feto.

– Rassegna Stampa –

Neuroimaging funzionale in utero: misurabili le attivazioni cerebrali già nel feto.

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze PsicologicheUn gruppo di ricercatori della MedUni’s Clinical Department of Neuroradiology and Musculoskeletal Radiology di Vienna per la prima volta è riuscito a misurare lo sviluppo cerebrale, in termini funzionali, e non solo strutturali, di un feto utilizzando tecniche di neuroimaging.

Lo studio ha esaminato 16 feti tra la ventesima e la trentaseisima settimana di gravidanza, misurando in particolare le attivazioni legate al default mode network. Il default mode network è un’insieme di regioni cerebrali che si attivano quando semplicemente il cervello è in stato di veglia pur essendo l’individuo non impegnato in alcun compito o attività in particolare. “Per la prima volta abbiamo dimostrato che tale rete di attivazioni, anche chiamate resting-state networks, sono già formate e attive nei feti in utero, e che tali attivazioni possono essere visualizzate e misurate mediante le tecniche di neuroimaging funzionale” spiega Schöpf, componente del gruppo di ricercatori della MedUni di Vienna. Di nuovo quindi, progressi all’orizzonte in termini di misurazione dell’attività funzionale e dello sviluppo cerebrale del feto aprendo nuove prospettive per lo sviluppo della diagnosi prenatale.

Convegno internazionale di Psiconeuroendocrinoimmunologia: Intervista al Prof. Bottaccioli

Società Italiana di Psiconeuroendocrinoimmunologia - bannerSu iniziativa della SIPNEI dal 27 al 30 ottobre, Orvieto ha ospitato il Convegno Internazionale di Psiconeuroendocrinoimmunologia. Tema del congresso è stato “Stress e la vita”. Tema che è stato analizzato da molti punti di vista: dallo stress cellulare fino allo stress da lavoro, emozionale, cognitivo. Infine sono state anche proposte ricerche e indagini sulle ricadute che esso può avere sulla patologia umana.

La splendida Orvieto fa da cornice al Convegno Internazionale di Psiconeuroendocrinoimmunologia e vede riuniti medici, biologi, psicologi, fisiologi, filosofi, ricercatori e terapeuti di differenti orientamenti per tentare di proporre un modello integrato dell’individuo. Per comprendere meglio questo approccio ho incontrato il Prof. Francesco Bottaccioli, presidente onorario della SIPNEI.

 

-Come definirebbe in breve l’approccio della Psiconeuroendocrinoimmunologia o PNEI?

La PNEI è la disciplina che studia le relazioni bidirezionali tra psiche e sistemi biologici. Nella PNEI convergono, all’interno di un unico modello, conoscenze acquisite a partire dagli anni Trenta del XX sec. dall’endocrinologia, dall’immunologia, dalle neuroscienze e dalla psicologia.

 

-Durante questo congresso si è spesso detto che per poter parlare veramente di salute, bisognerebbe considerare l’uomo come un network. Potrebbe spiegare questo concetto?

Con la PNEI viene a profilarsi un modello di ricerca, di interpretazione della salute e della malattia che vede l’organismo umano come una unità strutturata e interconnessa, dove i sistemi psichici e biologici si condizionano reciprocamente. Ciò fornisce la base per prospettare nuovi approcci integrati alla prevenzione e alla terapia delle più comuni malattie, soprattutto di tipo cronico. Al tempo stesso, configura la possibilità di andare oltre la storica contrapposizione filosofica tra mente e corpo nonché a quella scientifica, novecentesca, tra medicina e psicologia, superandone i rispettivi riduzionismi, che assegnano il corpo alla prima e la psiche alla seconda

 

-Il tema del congresso è stato “Stress e vita”, due concetti spesso legati indissolubilmente. Da dove nasce l’idea di questo tema?

Nasce intanto da una suggestione di Hans Selye, il padre della ricerca sulla neurobiologia dello stress: uno dei suoi libri più famosi si intitola “Stress of Life”. Noi abbiamo pensato di correggere una possibile immagine negativa che potrebbe venire dalla locuzione “Lo Stress della vita” rimarcando invece come lo stress non è di per sé negativo, anzi, come diceva lo stesso Selye, è l’essenza della vita, permea la vita stessa fin dalla cellula. Per questo, le letture e le sessioni congressuali sono andate dallo stress cellulare fino allo stress da lavoro, da terremoto, da malattia ma anche da premio.

 

-Qual è l’approccio PNEI allo stress?

Telomeri e Psicoterapia
Articolo consigliato: “Telomeri e Psicoterapia”

Pensiamo che sia necessario lavorare per rivedere la scienza dello stress unificando le due grandi tradizioni di ricerca: quella neurobiologica che parte da Selye e giunge fino a Besedovsky e Chrousos (entrambi relatori al nostro congresso) e quella psicologica che parte da Lazarus e che al congresso è stata rappresentata da molti studiosi italiani (Lazzari, Bertini) e stranieri (Stan Maes). Selye aveva ragione nel dire che gli stressors possono essere di varia natura, fisica, biologica, psicologica, e che tutti attivano l’asse dello stress. Al tempo stesso Lazarus aveva ragione nel sottolineare l’aspetto cognitivo che individualizza la ricezione degli stressors psicosociali. La PNEI con il suo modello a network, che contempla la psiche come dimensione emergente dal livello biologico ma con una sua relativa autonomia in grado di retroagire sul cervello modificandolo, è in grado di operare questa sintesi.

 

 

-Tra i diversi approcci proposti al convegno si è parlato anche della meditazione PNEI. Quali sono le ricerche empiriche in atto? Potrebbe spiegare in estrema sintesi il protocollo della PNEIMED?

Si tratta di un metodo che combina lo studio della fisiologia PNEI e quindi delle relazioni tra psiche e sistemi biologici al fine di aumentare la consapevolezza di sé come organismo vivente, con i principi filosofici essenziali della tradizione orientale (in particolare buddista mahayana) corredati da una sintesi originale di esercizi antistress e meditativi (concentrazione, respirazione, visualizzazioni) esposti in diversi testi a firma Bottaccioli, Carosella. Al congresso abbiamo presentato uno studio su un campione di 125 soggetti sani, allievi dei nostri corsi PNEIMED, testati con il metodo test – re-test sia sul piano psicologico (con il test SRT composto da 4 scale: ansia, depressione, stima di sé, somatizzazione) sia su quello biologico (misura del cortisolo salivare). I risultati mostrano una riduzione statisticamente significativa sia della sintomatologia psicologica sia del livello del cortisolo basale. Il paper è in corso di sottomissione per la pubblicazione in una rivista internazionale.

 

 

-Per concludere, nell’ultima giornata del convegno si è parlato di epistemologia della salute. Qual è per lei la differenza tra scienza della salute e scienza della malattia? E la salute andrebbe considerata più come un processo, come un obiettivo o come una meta?

La salute è “una condizione di intrinseca adeguatezza”, per dirla come il filosofo Gadamer o di “autoefficacia”, per usare le parole dello psicologo Bandura, o di “equilibrio adattativo” coniato da un medico sperimentale, Selye. La medicina contemporanea non contempla questo orizzonte essendo basata su una fisiopatologia e una nosologia che non prevede la persona in temporaneo disequilibrio, né l’attivazione delle risorse individuali come fattori di salute e di guarigione e che invece fonda la salute all’esterno della persona, confidando essenzialmente nel potenziale farmacologico del medico. La nostra missione è cambiare il paradigma di riferimento delle scienze della cura per rimettere in primo piano il soggetto senza abdicare alla spiegazione scientifica e tantomeno ai presidi pratici che essa offre. Nel 2012 questo sarà il centro del nostro lavoro come società scientifica: diffondere suggestioni e modelli di cure integrate delle principali patologie umane. Siamo aperti al contributi di tutti.

 

Lascio Orvieto e la sua buona cucina con nuovi ed interessanti spunti di riflessione sia per una terapia che per una ricerca orientata ad un approccio più olistico, che integri tutte le discipline che si occupano della cura dell’uomo.

 

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L’interazione con una donna provoca un calo nelle funzioni cognitive.

– Rassegna Stampa –

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze PsicologicheSecondo uno studio pubblicato sugli Archives of Sexual Behavior sembra che negli uomini eterosessuali si verifichi un calo nelle prestazioni cognitive ogniqualvolta avvenga un’interazione con una donna; addirittura il fenomeno è stato registrato anche con la sola anticipazione mentale dell’incontro con l’altro sesso, anche se lei non è altro che un nome sullo schermo di un computer. Il disegno di ricerca infatti prevedeva che i partecipanti allo studio sarebbero stati informati della presenza di un assistente, maschio o femmina, con il quale avrebbero comunicato solo tramite chat durante l’esecuzione di compiti sperimentali; successivamente veniva misurato il loro livello di funzionamento cognitivo. Le presunte interazioni via chat, che in realtà avvenivano grazie a un programma automatizzato, provocavano un declino nelle funzioni cognitive di tutti i partecipanti maschi quando a questi veniva detto che l’assistente era di sesso femminile, ma non quando l’assistente assegnato per lo svolgimento del compito era, virtualmente, dello stesso sesso.

Secondo i ricercatori questi risultati si spiegano grazie all’effetto della pressione evolutiva, che ha storicamente premiato gli uomini che hanno ridotto al minimo il rischio di perdere una opportunità di accoppiamento, investendo le risorse cognitive nelle interazioni con l’altro sesso. Il declino cognitivo potrebbe anche essere causato o aggravato dagli effetti del testosterone, o dalla socializzazione tipica maschile. Prossimo step verificare se il fenomeno del declino cognitivo si verifica anche in soggetti omosessuali.

 

BIBLIOGRAFIA:

 

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Narcisismo e Leadership: gli svantaggi delle apparenze.

Il binomio Narcisismo e Leadership: una ricerca olandese ne mette in luce i limiti e i pericoli per l’efficienza.

Narcisismo e Leadership: gli svantaggi delle apparenze. - Immagine di Costanza PrinettiLe notizie di questi giorni sulla situazione europea mi hanno fatto riflettere sulle caratteristiche psico(pato?)logiche dei leader mondiali e sulle qualità che un leader autorevole (forma di leadership che la psicologia sociale ritiene più adatta e funzionale) dovrebbe avere e su chi si arroga l’arduo compito di riconoscere nell’altro tali qualità.

I narcisisti, è ahimè noto, scalano la società. Questo perché, tra altre motivazioni, gli altri li ritengono self-confident, dominanti, autoritari e con un buon livello di autostima e in questo modo contribuiscono a vestirli dei gradi di “buon leader”.

L’insostenibile pesantezza dei secondi. Narcisismo, ossessioni e un pianista irraggiungibile
Articolo consigliato: “L’insostenibile pesantezza dei secondi. Narcisismo, ossessioni e un pianista irraggiungibile”

Ma è davvero così? Barbora Nevicka e i suoi colleghi della Università di Amsterdam, Femke Ten Velden, Annebel De Hoogh e Annelies Van Vianen hanno svolto una interessante ricerca che rivela che la realtà sembra essere ben altra. Lo studio, che è stato pubblicato sul numero di ottobre della rivista APA Psychological Science, ha rilevato che la preoccupazione narcisistica circa le proprie sfavillanti capacità sembra, di fatto, inibire un elemento fondamentale per il lavoro di gruppo in termini di presa di decisione e performance: lo scambio libero e creativo di informazioni e idee.

 

L’esperimento:

Hanno partecipato a questa ricerca 150 soggetti, divisi in gruppi di tre. Un persona è stata assegnata in modo casuale al ruolo di “leader del gruppo”. A tutti i partecipanti è stato detto di avere la libertà di consigliare il leader e che la decisione finale sarebbe comunque spettata a lui. Ai gruppi è stato chiesto di svolgere un task: selezionare il candidato adatto per un lavoro. Per ogni candidato erano disponibili quarantacinque dati informativi sulle esperienze del candidato, sul suo percorso, sulle qualità possedute soltanto da lui/lei. Alcune di queste informazioni erano conosciute da tutti e tre i membri del gruppo, altre soltanto da una persona del gruppo. Questo il disegno di ricerca: se la scelta del candidato viene fatta solo utilizzando le informazioni condivise da tutti e tre i membri del gruppo (escluse quindi quelle possedute solo dal leader) tale scelta ricade su un soggetto di “minor valore” tra i candidati; se invece, vengono utilizzate tutte le informazioni (e quindi il leader le condivide con gli altri membri anche le sue “info segrete”…) viene scelto il candidato più “adatto” a ricoprire il lavoro richiesto. I ricercatori si aspettavano, quindi, che il condividere le informazioni (anche quelle “segrete”) con tutti i membri del gruppo avrebbe portato alla scelta migliore.

I partecipanti hanno dunque compilato alcuni questionari. Il “leader” ha compilato questionari sul narcisismo, mentre gli altri due membri del gruppo di lavoro hanno compilato questionari su autorità ed efficacia del leader. È stato poi chiesto ai soggetti di indicare quali, tra le quarantacinque informazioni sul candidato, conoscessero e di che entità è stato il grado di condivisione all’interno del gruppo.

Risultati:

Il risultato più interessante è stato che i membri dei gruppi di leader narcisisti hanno ritenuto il proprio leader come molto efficace. Peccato che si siano sbagliati! I gruppi con i leader maggiormente narcisisti hanno scelto i candidati peggiori. “I leader narcisisti hanno apportato un effetto negativo sulla performance del gruppo. La loro “centratura su di sé” e il loro “autoritarismo” hanno inibito le comunicazione”, fonte di idee e creatività”, sostiene Neviska, al timone dello studio.

In stati di emergenza, i leader narcisisti potrebbero ridurre l’incertezze e il distress negli altri membri del gruppo. Le persone credono che un persona forte e dominante possa mantenere il controllo della situazione e fare “la cosa giusta”, e spesso questo avviene. Ma nella vita di tutti i giorni, la condivisione di informazioni, di prospettive, di conoscenze e di idee sono essenziali per prendere decisioni adeguate. Il buon leader facilita la comunicazione, pone domande agli altri e “tiene le fila” del discorso, sintetizzando ciò che viene detto.

Credo siano molto incisive le parole di Nevicka, come riportato da PsyPost:

“Narcissists are very convincing. They do tend to be picked as leaders. There’s the danger: that people can be so wrong based on how others project themselves. You have to ask: Are the competencies they project valid, or are they merely in the eyes of the beholder?”

 

BIBLIOGRAFIA:

 

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Violenza sulle donne: dinamiche di vittimizzazione

In occasione della giornata mondiale della violenza sulle donne, parliamo delle dinamiche di vittimizzazione.

Violenza sulle donne e dinamiche di vittimizzazione - Immagine: © olly - Fotolia.com Il 19 novembre all’Università Cattolica di Milano si è tenuta la prima conferenza della Società Italiana per lo Studio dello Stress Traumatico (SISST); il tema principale della mattinata, decisamente troppo breve, è stato il disturbo post traumatico da stress, semplice e complesso, di cui si è parlato in una tavola sullo stato dell’arte del trattamento del PTSD. E’ seguita poi una lezione magistrale, come sempre eccellente, di Giovanni Liotti su attaccamenti traumatici e disturbi dissociativi e l’intervento di Chris Brewin su PTSD e memoria.

4 i workshop in programma nel pomeriggio, di uno in particolare, tenuto da Teresa Bruno e Carla Maria Xella, vorrei raccontare oggi, nella giornata mondiale contro la violenza sulle donne. Il tema riguarda dinamiche di vittimizzazione, sempre presenti nei casi di relazioni altamente disfunzionali nel corso delle quali hanno luogo i maltrattamenti.

Innanzi tutto i dati nazionali, visionabili da chiunque sul sito dell’istat (Scarica il PDF): più del 30% delle donne italiane ha subito violenza fisica e/o sessuale, il campione riguarda le donne tra 16 e 70 anni, nella maggior parte dei casi le violenze sono domestiche, avvengono cioè all’interno di relazioni significative, e rimangono taciute; lo stupro, inoltre, è più probabile e frequente da parte di conoscenti che di sconosciuti.

Questi dati inquietanti, mettono ancora una volta in primo piano la relazione, quella significativa, dove l’amore si mescola alla paura, al dolore, all’impotenza, alla colpa. Lavorare sul trauma con le vittime di violenza, ci ricorda Teresa Bruno, psicoterapeuta e direttrice e responsabile del Centro Antiviolenza Artemisia di Firenze, significa lavorare sulla relazione.In questi casi, ancora più che in altri, il terapeuta diventa parte di una relazione significativa, alternativa a quella abusante, e fortemente riparatoria. Il terapeuta che osserva la violenza è sempre chiamato a prendere una posizione, dice Judith Herman “nell’osservare il trauma non è possibile rimanere neutrali. Si deve prendere posizione“.

Definirsi, schierarsi contro la violenza è il punto di partenza; spesso infatti ciò che nuoce è confuso e sfumato, legittimato, sia nella testa di chi subisce che nella testa di chi abusa, frequentemente a sua volta vittima di violenza nell’infanzia: il processo di costruzione della vittima, ci ricorda Françoise Sironi , è simile al processo di costruzione del persecutore. Condannare l’atto lesivo, anche a livello giuridico, e definire la necessità di proteggere la vittima è il primo passo necessario del terapeuta, ma anche di una società civile. Per questo motivo spesso i centri antiviolenza dispongono di residenze con indirizzo segreto in cui le donne maltrattate e i loro bambini possono rifugiarsi e cominciare un percorso protetto per la riappropriazione di sé. La violenza infatti trasforma. La donna che arriva ai servizi, dopo mesi, spesso anni, di abusi è spesso una persona completamente diversa da come era prima che entrasse nel ciclo di vittimizzazione. Nessuno nasce vittima, chiunque può diventarlo, con il “trattamento” giusto. Il trattamento è un vero e proprio processo di manipolazione interpersonale che avviene per gradi, tre gli ingredienti fondamentali: seduzione, manipolazione, condizionamento.

Inizialmente il rapporto è gratificante, positivo, la futura vittima è felice delle attenzioni che riceve, si sente amata, voluta, si fida. Pian piano il futuro abusante incomincia a dare regole molto rigide che hanno lo scopo di definire un universo di riferimento unico, nel quale l’aggressore chiede alla vittima di appartenere. E’ la fase in cui amici e parenti vengono progressivamente esclusi dalla propria vita, vengono definiti come intrusi scomodi in quell’universo privato, che pian piano si fa desolato e soffocante e diventa l’unico punto di riferimento accessibile. L’isolamento sociale apre la strada alla fase successiva, in cui la relazione si fa apertamente violenta. La violenza è una dinamica relazionale in cui qualcuno ha il controllo sull’altro grazie alla messa in atto di strategie. Vediamole:

  • Aggressioni: fisiche, ma anche minacce e disumanizzazioni, come obbligo di compiere pratiche sessuali degradanti e dolorose

  • Privazioni: di cure, di privacy, di movimento, di contatto con l’esterno

  • Controllo e coercizione: ordine e controllo ossessivo da parte del persecutore nei confronti della vittima

  • Punizioni

  • Perversione logica: ridere del dolore delle vittime, proporre scelte tra opzioni impraticabili, dare messaggi paradossali, obbligare la vittima ad azioni in contrasto con i suoi valori, alternare in modo casuale gentilezza e violenza

  • Influenza: trasformare il mondo interno della vittima attraverso l’effrazione psichica e l’influenza del persecutore. In questo modo tutto ciò che la vittima sente e pensa è legato all’altro, a come l’altro lo percepisce.

Nel caso in cui siano presenti i figli, punizioni e controllo esercitati sul genitore maltrattato da parte del genitore maltrattante hanno l’effetto di privarlo ai loro occhi di rispetto e autorevolezza. La relazione tra madre e figli passa da un piano verticale, gerarchico, a un piano orizzontale, di pericolosa uguaglianza in cui il divario generazionale cessa di esistere e si è tutti vittime senza protezione.

Le strategie di vittimizzazione hanno l’effetto di mantenere il persecutore l’oggetto privilegiato di attenzione della vittima: l’universo mentale della vittima diventa quello del persecutore, la vittima è espropriata del proprio sé, della propria capacità di giudizio rispetto agli eventi nella quale è coinvolta: può arrivare a chiedersi se 50 euro sono una cifra di risarcimento adeguata per avere rotto un bicchiere dentro casa…, senza rendersi conto dell’assurdità del pensiero che sta facendo.

L’attenzione delle vittime è sempre sull’altro, il persecutore, a cosa pensa, cosa vuole, nel tentativo disperato di aderire alla sua griglia mentale. I fenomeni dell’impotenza appresa, del pensiero binario e l’espropriazione del proprio universo mentale spiegano la passività estrema di queste persone, che spesso suscitano in chi tenta di aiutarle reazioni di rabbia e frustrazione, perché non reagiscono, non agiscono, fanno fatica ad assumere una posizione attiva e protettiva nei confronti di loro stesse e dei loro figli. Perché questi sentimenti non lascino spazio alla colpevolizzazione della vittima (“se l’è voluta, non vuole tirarsene fuori, istiga l’aggressore”) perpetuando il ciclo di vittimizzazione, è necessario ricordare sempre che si tratta persone che hanno subito un processo di trasformazione profondo e sono state isolate a lungo, private di punti di riferimento sociale e affettivo.

Vediamo cosa fanno i servizi preposti alla presa in carico di queste difficili situazioni?

Il primo passo è valutare la sicurezza della vittima, capire se è in pericolo e se ci sono minori in pericolo. In questa fase non ci si occupa assolutamente della psicopatologia, questo verrà poi. L’azione chiara di protezione del terapeuta legittima e permette lo svelamento della violenza da parte della vittima.

Quindi in primo luogo è necessaria la valutazione del rischio (con strumenti oggettivi appropriati, in grado di bypassare la percezione soggettiva delle vittime); successivamente si agisce sulla riduzione del rischio, facendo leva, quando possibile, sulle possibilità di autoprotezione e sulle risorse della persona. Per capire se questo è attuabile è necessaria una precoce valutazione degli aspetti dissociativi, che comprometterebbero chiaramente le azioni autoprotettive, rendendo quindi necessario l’allontanamento immediato da casa. Nei casi in cui questo non avviene si può iniziare a lavorare con la vittima perché incominci a ritagliare un piccolo spazio fisico e mentale in cui stare senza il persecutore, in cui possa incominciare a riappropriarsi di sè, ad avere dei segreti, piccoli momenti in cui ciò che domina dentro di lei non è la mente dell’altro.

Il percorso procede poi con lo svelamento del gioco relazionale dell’aggressore: la vittima deve poterlo comprendere, pian piano acquisire di un punto di vista esterno alla dinamica relazionale che la domina e, grazie a questa presa di coscienza incominciare il distanziamento emotivo dal persecutore, questo apre alla possibilità di ricominciare a fare scelte autonome.

Nella costruzione dell’alleanza con il terapeuta, ancor più del solito, gioca un ruolo fondamentale il sentire da parte della vittima che questo può sopportare il carico di ciò che verrà raccontato; in questi casi è utile esplicitare che esiste una rete di relazioni professionali in grado di sostenere il peso della situazione: il paziente potrà appoggiarsi al terapeuta sapendo che questo a sua volta può contare su un sostegno per sé. Quest’immagine di persone che si sostengono a vicenda ripropone nella vita del paziente l’idea e la possibilità di una rete sociale affidabile che va a contrapporsi al desolante scenario relazionale a cui ormai è abituato.

Una volta costruita l’alleanza il lavoro psicoterapeutico che segue procede per fasi e obiettivi:

  • Ricostruzione della storia personale

  • Affrontare le memorie traumatiche

  • Elaborazione del lutto

  • Ricostruzione di legami affettivi

  • Imparare a combattere

  • Riconciliarsi con sé stessi

 

BIBLIOGRAFIA:

 

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Progetto iSpectrum: favorire l’inserimento lavorativo per chi è affetto da autismo

Antonio Ascolese.

Nasce il Progetto iSpectrum: un Serious Game dedicato alle persone affette da un disturbo dello spettro autistico (ASD)

Progetto iSpectrum:  un Serious Game per favorire l'inserimento nel mondo del lavoro di chi è affetto da autismoNel regno Unito ci sono 332.600 persone in età lavorativa affette da un disturbo dello spettro autistico (DSA) e solo il 6% di loro ha un lavoro a tempo pieno; in Germania sono 164.849; in Bulgaria 15.035. E in Italia? Nel nostro paese non è semplice raccogliere dati precisi sui disturbi dello spettro in età adulta ma sicuramente si può arrivare ad affermare che ci sono più di 116 mila persone affette da DSA in età evolutiva. In tutta l’Unione Europea il tasso di disoccupazione delle persone affette da DSA è stimato essere superiore al 90%!

Sam, un amico virtuale per i bambini autistici
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Tra le cause di tale problematica di inserimento nel mondo del lavoro, ci sono certamente le difficoltà a livello di comunicazione, di integrazione sociale e di immaginazione sociale che caratterizzano la maggior parte delle persone affette da disturbi dello spettro autistico. In questo contesto, seguire un corso di formazione professionale, trovare opportunità di lavoro e mantenere un lavoro diventano ostacoli spesso insormontabili. Inoltre, i potenziali datori di lavoro, i possibili colleghi e tutti gli operatori DSA, di frequente, non hanno una formazione specifica che possa facilitare l’avvio di un impiego lavorativo.

 

Da queste esigenze, nasce il progetto iSpectrum, con lo scopo di migliorare le capacità di interazione sociale nei contesti lavorativi delle persone affette da un disturbo dello spettro autistico (DSA) e con altri bisogni specifici, addestrandole utilizzando ambienti di lavoro virtuali, che li aiutino ad aumentare le loro possibilità di trovare un impiego.

Per raggiungere questo obiettivo, i partner provenienti da Regno Unito, Germania, Italia e Bulgaria stanno lavorando insieme alla realizzazione di un Serious Game specifico per le persone affette da DSA basato su tre diversi ambienti di lavoro virtuali: un ufficio IT, un negozio e un vivaio. Gli utenti potranno giocare, imparare, capire e sperimentare diversi ruoli sociali, come dipendenti, in questi ambienti di lavoro virtuali: da un lato, gli operatori DSA impareranno come si possono integrare i mondi virtuali nella formazione e, dall’altro, i datori di lavoro potranno beneficiare di una manodopera più diversificata.

Imaginary, partner italiano del progetto, è responsabile dell’ideazione e dello sviluppo tecnico del Serious Game che sarà finalizzato a promuovere la comprensione del linguaggio del corpo e delle espressioni del viso, le relazioni sociali, le abilità di conversazione e la comprensione di concetti astratti nei soggetti con diagnosi di autismo.

Il Serious Game, costruito ad hoc per questo target, permetterà agli utenti di confrontarsi  attivamente con una versione semplificata della realtà, simulando i comportamenti in un ambiente protetto, favorendo così i processi di apprendimento simulativo. Infatti, tutte le informazioni e le sensazioni vissute, rimanendo fortemente impresse, permettono al giocatore di affinare percezione, attenzione e memoria, favorendo modifiche comportamentali attraverso il cosiddetto learning by doing.

 

BIBLIOGRAFIA:

  • Anolli, L., Mantovani, F., Confalonieri, L., Ascolese, A., Peveri, L. (2010). Emotions in Serious Games: From Experience to Assessment, Vol 5 2010: Special Issue: Creative Learning with Serious Games, International Journal of Emerging Technologies in Learning (iJET).
  • Gee, J. P. (2003).What video games have to teach us about learning and literacy. Computers in Entertainment (CIE), 1, 1 1-4.
  • Michael, D. R., Chen, S. L. (2005). Serious Games: Games That Educate, Train, and Inform. Muska & Lipman/Premier-Trade.

LINKS:

  • Imaginary.itL’innovazione nel Training, nel Marketing e nella Comunicazione Sociale: Serious Games e Simulazioni personalizzati
  • iSpectrum – sito ufficiale
  • Autism Europe – sito ufficiale

 

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LINEE GUIDA PER L’AUTISMO: Cosa sì e cosa no.

 

Linee Guida per l'Autismo: cosa sì e cosa no. Immagine: © puckillustrations - Fotolia.com - L’incidenza di disturbi di tipo autistico tra i bambini italiani si aggira intorno ai 2-6 individui su mille. Le nuove e primissime linee guida nazionali, varate il mese scorso dal Ministero della Salute, rispondono finalmente all’esigenza espressa da molti familiari di questi bambini di essere aiutati nella scelta del trattamento più idoneo per i propri figli. E infatti ogni metodo, ogni percorso psico-educativo e ogni intervento farmacologico, sono stati analizzati con criticità per discriminare tra tutte le proposte ciò che si è dimostrato essere scientificamente valido da ciò che invece ha costituito, fino a prova contraria, una moda del momento.

Vediamo innanzitutto cosa sembra funzionare:

  • Interventi a supporto della comunicazione, come quelli che utilizzano le immagini a supporto della verbalità. Tra tutti il più noto è il PECS (Picture Exchange Communication Siystem), le cui prove di efficacia risultano però ancora parziali.

  • Tra i programmi educativi il TEACCH (Treatment and Education of Autistic and Communication Handicaped Children) ha dimostrato di produrre miglioramenti negli ambiti delle abilità motorie, delle performance cognitive, della comunicazione e del funzionamento sociale.

  • Interventi a supporto della comunicazione sociale e dell’interazione, che prevedono soprattutto un adattamento funzionale dell’ambiente.

  • Tra i vari programmi comportamentali, l’ABA (Applied Behavior Analysis), si è dimostrato efficace nell’incrementare il punteggio di QI, nel promuovere il linguaggio e i compotamenti adattivi.

  • La terapia cognitivo comportamentale, praticabile con soggetti aventi un QI non inferiore a 69, è efficace nel trattamento dei disturbi d’ansia e per promuovere strategie di gestione della rabbia nei soggetti con Asperger.

 

Linee Guida per l'Autismo - Fotografia: © Nathan Allred - Fotolia.com
Articolo Consigliato: "Linee Guida per l’Autismo. Finalmente!"

Risultano invece non raccomandati, per insufficienza o assenza di dati a dimostrazione di efficacia, L’AIT (Auditory Integration Training), la Musicoterapia, la Comunicazione Facilitata e la Terapia con Ossigeno Iperbarico.

 

Nell’ambito degli interventi biomedici e nutrizionali:

  • si raccomanda di eliminare l’assunzione di glutine e/o caseina solo nei casi di accertate intolleranze o allergie alimentari e di evitare l’assunzione di integratori.

  • L’uso della melatonina per i disturbi del sonno è raccomandato solo dopo il fallimento di un trattamento comportamentale che prevede la compilazione di un diario del sonno e l’utilizzo delle misure di igiene del sonno.

Ciò che rimane dalla lettura di tutto il documento è però soprattutto un’unica raccomandazione: una valutazione clinica caso specifica del bambino che tenga in considerazione i punti di forza accanto alle aree problematiche e costanti valutazioni di efficacia del trattamento prescelto. Questa soprattutto per quei professionisti che intendono vicariare, con il riferimento alle linee guida, la propria competenza e responsabilità professionale.

Il prossimo aggiornamento nel 2015.

 

BIBLIOGRAFIA:

  • “Il trattamento dei disturbi dello spettro autistico nei bambini”. Sistema Nazionale per le Linee Guida – SCARICA IL PDF

 

 

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Hic et Nunc: i benefici della meditazione

-Rassegna Stampa –

Il Neuroimaging ha svelato nuovi effetti benefici della meditazione.

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze PsicologicheSecondo un nuovo studio condotto dai ricercatori dell’università di Yalela meditazione porterebbe alla disattivazione di alcune aree cerebrali (corteccia mediale prefrontale e del cingolo posteriore) associate sia al “sognare ad occhi aperti” che a disturbi psichiatrici come l’autismo e la schizofrenia.

Questo effetto, indipendentemente dal tipo di meditazione attuata, è stato osservato nei meditatori esperti ma non in quelli novizi. Tale risultato si spiega con il fatto che i primi, ma non i secondi, riescono facilmente e costantemente a monitorare e reprimere sia l’emergere di pensieri autoriferiti che la tendenza della mente a “vagare” e abbandonarsi a stati mentali che, in forma patologica, sono associati a disturbi come l’autismo e la schizofrenia.

Infatti, diversamente da ciò che accade in molte forme di malattia mentale dove la preoccupazione per i propri pensieri è centrale, l’attitudine quasi automatica a mantenere la consapevolezza sul momento presente è così sviluppata nei meditatori esperti che rimane attiva anche durante il semplice riposo.

 

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L’iperattività nei Disturbi del Comportamento Alimentare – DIABO-SISDCA 2011

Venerdì 18 novembre del DIABO 2011 si è svolta una sessione dedicata all’iperattività fisica nei disturbi del comportamento alimentare (DCA).

DIABO 2011 Bologna Sesto Congresso Nazionale SISDCA

Sono intervenuti al simposio la Dott.ssa Todisco, la Dott.ssa Pozzato e la Dott.ssa Carli che operano presso il centro DCA della Casa di Cura Villa Margherita di Vicenza, e il Dott. Miottello afferente alla Neuropsichiatria Infantile dell’Ospedale San Bassiano di Bassano del Grappa.

Ha introdotto l’argomento la Dott.ssa Todisco che ha sottolineato in particolare come l’iperattività sia un sintomo egosintonico, su cui è difficile lavorare, sintomo avente la duplice funzione di controllo  del peso e di regolazione emotiva. Si può riscontrare un’iperattività evidente o nascosta, come ad esempio le contrazioni muscolari da seduti o lo stare in piedi; non tutti i pazienti ne sono affetti, ma se presente influenza significativamente la qualità della vita e la prognosi.

I Disturbi dell'alimentazione: resoconto di un convegno - SISDCA 2011 - Immagine: © DURIS Guillaume - Fotolia.com
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La Dott.ssa Pozzato si è focalizzata sui modelli di trattamento, dalla review della letteratura alle problematiche aperte al trattamento. La relatrice ha sottolineato come l’iperattività sia un sintomo difficile da trattare ed un predittore delle ricadute. Ecco una breve sintesi di quanto emerso dalla presentazione della dott.ssa Pozzato. Inizamo con Meyer il quale ha proposto un modello che andasse a esplorare le aree strettamente connesse a tale sintomo quali l’area relazionale, cognitiva, emotiva, comportamentale e biologica. Yates ha invece indagato il circolo di mantenimento di tale sintomo e una correlazione negativa secondo cui ad una minore assunzione di calorie corrisponde una maggior attività fisica. Epling ha identificato l’Activity Anorexia, un trattamento prettamente comportamentale finalizzato a far mantenere nell’arco di una giornata un periodo di attività fisica della durata di 20 minuti; nell’applicazione di questo protocollo viene coinvolta la famiglia al fine di diminuire l’attività fisica senza proibirla del tutto, e affinché si attivi una responsabilità del paziente.

Infine secondo Fairburn si è passati da un’iperattività come strategia per far fronte all’intolleranza emotiva ad un sintomo egosintonico difficile da trattare. Un possibile trattamento è costituito da esercizi fisici gentili al fine di rompere i circoli viziosi di mantenimento affiancati ad una terapia CBT tesa ad aumentare le abilità di coping, la consapevolezza dell’esercizio e le abilità di gestione di questo.

Disturbi Alimentari - Alpbach Bologna 2011 - Immagine: © waterlilly - Fotolia.com -
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Passiamo all’iperattività nei DCA in età evolutiva con l’intervento del Dott. Miottello. Lo studio presenta un campione di pazienti di età compreso tra i 4 e i 14 anni. In presenza di anoressia nervosa l’esercizio fisico non è diverso nei soggetti pre-menarca rispetto a quelli post-menarca; Da considerare che più l’iperattività è presente e precoce, più condiziona l’esito negativo della terapia. È stato riscontrato come in anoressia nervosa il neuropeptide della leptina diminuisce all’aumentare della malnutrizione, la leptina a sua volta controlla l’iperattività ed è responsabile (insieme ad altri neuro peptidi) dell’aumentare di questa. Il relatore ha quindi sottolineato come l’iperattività nei soggetti in età evolutiva con diagnosi di DCA non è legata ad un uso consapevole e finalistico di tale sintomo allo scopo di controllare il peso.

 

La Dott.ssa Carli ha successivamente trattato il tema di anoressia nervosa e iperattività presentando i dati relativi a un campione di pazienti in regime di ricovero. Lo studio si è focalizzato sulle motivazioni che spingono un soggetto affetto da disturbo del comportamento alimentare allo sviluppo dell’iperattività. Emerge come i fattori collegati all’iperattività e al suo mantenimento siano la gestione emotiva, il controllo del peso, l’evitamento, il non pensare e il “sentirsi capaci e forti. Inoltre in presenza di elevata iperattività parimenti si riscontrano una maggiore gravità della patologia e maggiori difficoltà legate al riconoscimento delle emozioni.

Infine la Dott.ssa Todisco, in assenza della Dott.ssa Casarotto, ha presentato la modalità di intervento sull’iperattività in un programma riabilitativo psico-nutrizionale residenziale: il passaggio importante dall’iperattività fisica all’attività fisica. Partendo da una visione che ritiene importante non bloccare l’iperattività sulla base del modello di Feldenkrais che propone una educazione al movimento con il fine di sviluppare le capacità di percezione e consapevolezza del corpo. Il protocollo prevede che vengano svolti due incontri settimanali nei quali si attua un training corporeo a basso consumo energetico e con caratteristiche ludiche. Il programma si compone di quattro fasi: innalzamento della temperatura corporea; Stretching e flessibilità muscolare; allenamento delle capacità forza e mobilità; defaticamento e rilassamento. Il beneficio di tale programma è quello di contribuire a migliorare il rapporto con il proprio corpo.

Da queste presentazione emerge l’importanza di non bloccare l’iperattività nei DCA ma di renderla flessibile, più consapevole al fine di raggiungere una maggior conoscenza del corpo e ridurre le difficoltà legate al riconoscimento delle emozioni.

 

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Postura e Decision Making: quando a sinistra si sottostima l’ignoto…

Nuovi studi dimostrano il ruolo inconsapevole della postura nel decision making quando si deve approssimare una valutazione.

Postura e Decision Making - Immagine: © olly - Fotolia.com - Non sempre ci rendiamo conto delle modalità e delle istanze che intervengono nel momento in cui dobbiamo prendere delle decisioni e valutare approssimativamente qualcosa di cui non abbiamo certezza. Sulla scia degli attuali trends scientifici inneggianti alla cosiddetta grounded cognition, il legame tra percezione, azione e cognizione viene ogni volta riconfermato dalle più diversificate evidenze empiriche in relazione a diverse funzioni cognitive.

Per non andar lontano, nell’ambito di State of Mind tornano alla mente diversi contributi, dall’articolo del trio Di Carlo, Catenazzi, Della Morte “Sofferenza e bassa autostima? Colpa della postura” “Sofferenza e bassa autostima? Colpa della postura” all’articolo di Fiore “La vescica piena influenza le vostre decisioni”. Così, sembrerebbe che un importante fattore in gioco proprio nei momenti in cui siamo impegnati a prendere una decisione, nel cosiddetto processo di presa di decisione, sia non tanto e non solo la nostra mente quanto il nostro corpo.

Sofferenza e bassa autostima? Colpa della postura
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Il processo di decision-making, così come altri processi cognitivi, di fatto chiama in causa un’integrazione di più fonti di informazione più o meno consapevoli, da informazioni mnestiche, a esiti di processi immaginativi e simulativi, fino ad arrivare a informazioni derivanti dal nostro corpo, come ad esempio quelle relative alla postura. In un nuovo studio, Anita Eerland, Tulio Guadalupe e Rolf Zwaan hanno scoperto che manipolando a livello sperimentale l’inclinazione del corpo si può influenzare la stima soggettiva delle quantità, come per esempio la valutazione di dimensioni, numeri e percentuali.

Anzitutto, quando noi pensiamo ai numeri, generalmente ci rappresentiamo mentalmente i numeri più piccoli sulla sinistra e i numeri più grandi sulla destra del nostro campo immaginativo. I ricercatori partendo da questo presupposto hanno ipotizzato che la stessa postura del corpo, lievemente più inclinata da una parte o dall’altra, potrebbe portare inconsapevolmente le persone a sovra o sottostimare ciò che viene loro richiesto.

La vescica piena influenza le vostre decisioni? - Immagine:  © piai - Fotolia.com -
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Per verificare questa ipotesi, a 33 studenti universitari è stato chiesto di stare in piedi su una pedana bilanciata che impercettibilmente ne manipolava la postura come lievemente più inclinata verso destra o verso sinistra; nello stesso tempo veniva loro chiesto di dare una stima, cioè una valutazione approssimativa, di alcuni elementi che apparivano su uno schermo. Nello studio sperimentale le stime richieste riguardavano diversi aspetti in termini di quantità, come per esempio, l’altezza della Tour Eiffel, la percentuale di alcool nel whiskey oppure il numero di nipoti della Regina Beatrice d’Olanda…

 

Questa singolare e curiosa manipolazione sperimentale ha assecondato le aspettative dei ricercatori: i soggetti partecipanti al test fornivano stime più conservative, cioè numeri e percentuali più basse nella condizione in cui “pendevano” lievemente con il corpo verso sinistra rispetto a quando stavano inclinati più verso destra oppure stavano ben eretti: in altre parole la Tour Eiffel era considerata più bassa da chi si ritrovava un po’ più flesso verso sinistra!

D’altro canto, dalla ricerca emerge che, se si conosce esattamente la risposta del quesito, e quindi non ci si trova a dover approssimare, la postura ovviamente non influenza la correttezza della risposta.

Quindi la postura del corpo può influenzare in qualche modo le stime soggettive di qualcosa che non conosciamo precisamente, ma sicuramente non arriva a “sovrascrivere” l’esatta conoscenza di per sé. Non vi preoccupate quindi se durante un quiz a premi o un compito in classe state scomposti e non ben eretti, a meno che non vi troviate costretti ad approssimare la risposta: non fidatevi troppo del vostro corpo, delle sue posture e dei suoi movimenti… i processi cognitivi e i loro esiti ne sono strettamente legati!

 

 

BIBLIOGRAFIA:

 

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