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Postura e Decision Making: quando a sinistra si sottostima l’ignoto…

Nuovi studi dimostrano il ruolo inconsapevole della postura nel decision making quando si deve approssimare una valutazione.

Postura e Decision Making - Immagine: © olly - Fotolia.com - Non sempre ci rendiamo conto delle modalità e delle istanze che intervengono nel momento in cui dobbiamo prendere delle decisioni e valutare approssimativamente qualcosa di cui non abbiamo certezza. Sulla scia degli attuali trends scientifici inneggianti alla cosiddetta grounded cognition, il legame tra percezione, azione e cognizione viene ogni volta riconfermato dalle più diversificate evidenze empiriche in relazione a diverse funzioni cognitive.

Per non andar lontano, nell’ambito di State of Mind tornano alla mente diversi contributi, dall’articolo del trio Di Carlo, Catenazzi, Della Morte “Sofferenza e bassa autostima? Colpa della postura” “Sofferenza e bassa autostima? Colpa della postura” all’articolo di Fiore “La vescica piena influenza le vostre decisioni”. Così, sembrerebbe che un importante fattore in gioco proprio nei momenti in cui siamo impegnati a prendere una decisione, nel cosiddetto processo di presa di decisione, sia non tanto e non solo la nostra mente quanto il nostro corpo.

Sofferenza e bassa autostima? Colpa della postura
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Il processo di decision-making, così come altri processi cognitivi, di fatto chiama in causa un’integrazione di più fonti di informazione più o meno consapevoli, da informazioni mnestiche, a esiti di processi immaginativi e simulativi, fino ad arrivare a informazioni derivanti dal nostro corpo, come ad esempio quelle relative alla postura. In un nuovo studio, Anita Eerland, Tulio Guadalupe e Rolf Zwaan hanno scoperto che manipolando a livello sperimentale l’inclinazione del corpo si può influenzare la stima soggettiva delle quantità, come per esempio la valutazione di dimensioni, numeri e percentuali.

Anzitutto, quando noi pensiamo ai numeri, generalmente ci rappresentiamo mentalmente i numeri più piccoli sulla sinistra e i numeri più grandi sulla destra del nostro campo immaginativo. I ricercatori partendo da questo presupposto hanno ipotizzato che la stessa postura del corpo, lievemente più inclinata da una parte o dall’altra, potrebbe portare inconsapevolmente le persone a sovra o sottostimare ciò che viene loro richiesto.

La vescica piena influenza le vostre decisioni? - Immagine:  © piai - Fotolia.com -
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Per verificare questa ipotesi, a 33 studenti universitari è stato chiesto di stare in piedi su una pedana bilanciata che impercettibilmente ne manipolava la postura come lievemente più inclinata verso destra o verso sinistra; nello stesso tempo veniva loro chiesto di dare una stima, cioè una valutazione approssimativa, di alcuni elementi che apparivano su uno schermo. Nello studio sperimentale le stime richieste riguardavano diversi aspetti in termini di quantità, come per esempio, l’altezza della Tour Eiffel, la percentuale di alcool nel whiskey oppure il numero di nipoti della Regina Beatrice d’Olanda…

 

Questa singolare e curiosa manipolazione sperimentale ha assecondato le aspettative dei ricercatori: i soggetti partecipanti al test fornivano stime più conservative, cioè numeri e percentuali più basse nella condizione in cui “pendevano” lievemente con il corpo verso sinistra rispetto a quando stavano inclinati più verso destra oppure stavano ben eretti: in altre parole la Tour Eiffel era considerata più bassa da chi si ritrovava un po’ più flesso verso sinistra!

D’altro canto, dalla ricerca emerge che, se si conosce esattamente la risposta del quesito, e quindi non ci si trova a dover approssimare, la postura ovviamente non influenza la correttezza della risposta.

Quindi la postura del corpo può influenzare in qualche modo le stime soggettive di qualcosa che non conosciamo precisamente, ma sicuramente non arriva a “sovrascrivere” l’esatta conoscenza di per sé. Non vi preoccupate quindi se durante un quiz a premi o un compito in classe state scomposti e non ben eretti, a meno che non vi troviate costretti ad approssimare la risposta: non fidatevi troppo del vostro corpo, delle sue posture e dei suoi movimenti… i processi cognitivi e i loro esiti ne sono strettamente legati!

 

 

BIBLIOGRAFIA:

 

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Agenti di Polizia e PTSD: Evitare l’Insorgere del Disturbo Post Traumatico da Stress

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze PsicologicheNonostante siano continuamente esposti a esperienze potenzialmente molto traumatiche, gli agenti di polizia hanno un rischio di PTSD (disturbo post traumatico da stress) inferiore a quello del resto della popolazione.

È quanto emerge dai risultati di un originale studio pubblicato dall’ Institut de recherche Robert-Sauvé en santé et en sécurité du travail (Quebec) sui fattori di rischio e di protezione allo stress traumatico negli agenti di polizia. Tra i partecipanti alla ricerca, il 64% ha dovuto estrarre la pistola durante il servizio, 11% ha dovuto sparare, mentre il 28% ha usato un’altra arma. L’ 80% degli agenti di polizia ha sperimentato senso di impotenza, e il 59% ha provato un’emozione di intensa paura. Più della metà degli agenti di polizia ha dichiarato di aver provato rabbia, il 17% colpa, e il 2% vergogna durante l’esperienza traumatica.

Il rischio di sviluppare sintomi tipici del PTSD può essere evitato o attenuato grazie a specifici interventi di supporto e elaborazione critica dell’evento da effettuare nelle settimane successive all’esperienza traumatica. I risultati della ricerca rivelano che il supporto sociale tra colleghi, la possibilità di condividere con gli altri le emozioni legate all’esperienza traumatica e il partecipare ad attività ricreative, sembrano essere gli elementi di protezione e prevenzione più importanti rispetto al rischio di sviluppare un PTSD.

I risultati di questo studio potrebbero essere significativi anche per altre figure professionali con un rischio elevato di esperienze traumatiche sul luogo di lavoro, come vigili del fuoco, paramedici, soccorritori in situazioni di emergenza.

 

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La Concreteness Training (CNT) di Watkins

-Rassegna Stampa –

Concreteness Training (CNT) - Immagine: © twixx - Fotolia.com - Chi soffre di depressione ha la tendenza a pensare in modo astratto e a generalizzare pensieri negativi, questo rende la riflessione penosa, oltre che estremamente inefficace dal punto di vista del problem solving. Secondo un nuovo studio inglese condotto dal professor Edward Watkins è possibile, nell’arco di soli due mesi ridurre significativamnente la depressione con la CNT “concreteness training”, una forma di terapia cognitivo-comportamentale che, una volta appresa, può essere usata dai pazienti anche come terapia di auto-aiuto.

Questo approccio, comparato a quelli abituali, si è rivelato particolarmente efficace nella riduzione dei pensieri negativi tipici nella depressione.

Come o Perché? E le conseguenze per il pensiero.
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La CNT infatti mira proprio a modificare lo stile di pensiero negativo e disfunzionale tipico di questa patologia, grazie a un allenamento alla riflessione puntuale e specifica: questo approccio faciliterebbe una visione prospettica dei problemi, aumentandone le capacità di risoluzione e riducendo le preoccupazioni, il rimuginio e l’umore depresso. Lo studio sperimentale condotto alla University of Exeter dimostra l’efficacia di questo trattamento nel ridurre sia i pensieri negativi che l’umore depresso, anche distanza di tre mesi. Watkins addirittura sostiene che il “training alla concretezza” possa essere fornito con minimo di contatto faccia a faccia con un terapeuta, e che anche la formazione possa quindi essere accessibile on-line, con l’uso di CD o addirittura attraverso le applicazioni degli smartphone. Questo avrebbe il vantaggio di una forma relativamente a buon mercato di trattamento, accessibile anche a un gran numero di persone…

 

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  • Interventi impliciti ed espliciti in psicoterapia cognitiva.
  • EABCT 2011: Sulla ruminazione e oltre.

 

 

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I Disturbi dell’alimentazione: resoconto di un convegno – SISDCA 2011

Il Convegno sui disturbi dell’alimentazione SISDCA 2011 si è concluso portando via con sé una serie di concetti, di esperienze e di dubbi.

I Disturbi dell'alimentazione: resoconto di un convegno - SISDCA 2011 - Immagine: © DURIS Guillaume - Fotolia.com Il clima respirato era tranquillo ed accogliente, tante persone, molta gente nota. Si inizia a parlare di Disturbi dell’Alimentazione presentandoli in veste psicoanalitica. Si pone l’accento principalmente su istinti, identificazione proiettiva e meccanismi di difesa messi in atto. E anche su come ci si relaziona alla patologia alimentare da un punto di vista sistemico relazionale, costruttivista e infine cognitivo comportamentale. Particolare attenzione è rivolta al Binge Eating Disorder e all’Obesità poiché costituiscono un serio problema nella società occidentale contemporanea, si spiega molto bene chi sono questi pazienti da un punto di vista antropo-biologico-ancestrale. Naturalmente, non poteva mancare il nuovissimo DSM V presentato in pompa magna in un simposio, cosa resta e cosa sparisce per sempre, le new entry e i capisaldi in ambito clinico alimentare.

In particolare, il leitmotiv dell’intero evento era la multidisciplinarità ovvero approcciarsi ai disturbi dell’alimentazione a tutto tondo attraverso diverse figure di riferimento e lavorando su aspetti differenti della stessa patologia. Per questo, è necessario comprendere la genesi della patologia alimentare, quali sono i fattori premorbosi che entrano in gioco. A tal proposito si parla largamente del ruolo svolto dai genitori, di quali sono le responsabilità in ambito patologico sopratutto della figura materna. Fin qui nulla di nuovo, fiumi di letteratura sono stati spesi per affermare quanto un rapporto “malato” possa determinare e mantenere un disturbo alimentare. Nasce, dunque, l’esigenza di sostenere e informare la famiglia su come relazionarsi ad un figlio con un disturbo alimentare.

Disturbi Alimentari - Alpbach Bologna 2011 - Immagine: © waterlilly - Fotolia.com -
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Per curare un paziente con disturbo dell’alimentazione è necessario che figure diverse si susseguano come integerrimi soldatini per poter creare maggiore benessere fisico e psichico. Medici, nutrizionisti, endocrinologi tutti pronti a lavorare su piccoli pezzi inerenti al malessere riferito. In sostanza, questi pazienti sono sostenuti nelle strutture ospedaliere ed ambulatoriali, e qui sono presentati infiniti modelli che ognuno applica nel proprio centro e da diversi punti di vista. Emerge una particolare attenzione al disturbo da un punto di vista medico e nutrizionale. Domanda: ma le diete sono necessarie sempre? Non è detto, dipende dalla psicopatologia del paziente, quindi da quali sono i meccanismi di difesa messi in atto e da come agisce l’istinto di morte, la risposta. Quindi, è importante che ci siano tante figure professionali, ma la psiche di un malato alimentare appare, per un momento, subordinata al resto. Si parla, inoltre, dell’obsolescenza della chirurgia bariatrica e si spiega scientificamente cosa succede a livello neurotrasmettitoriale nei disturbi alimentari. Quindi tutto dovrebbe dipendere da uno scompenso neurotrasmettitoriale che andrebbe ad alterare il meccanismo che regola il rapporto di fame e sazietà. Ne deriva un quadro psicopatologico poco chiaro: tantissimi modelli teorici e poca psiche.

Cosa è necessario fare in terapia con i disturbi alimentari e come funziona la mente di queste persone?

C’è chi sostiene che se si operasse un intervento motivazionale sicuramente si avrebbero maggiori esiti positivi. Altri, invece, parlano di andare dritti al sintomo comportamentale, e il terapeuta deve essere più empatico, ovvero stare nella stessa emozione del paziente. Ancora, si sostiene che pur non avendo risultati positivi il farmaco è indispensabile e si parla di come integrare teorie cognitivo-comportamentali di seconda generazione a quelle di terza ondata, come la mindfulness che porta alla autoregolazione interna come presupposto dell’accettazione delle emozioni, parte fondamentale dell’esperienza umana.

In un altro simposio si presenta la famosissima terapia di Fairburn, elettiva per tale patologia; si parte dalla terapia standard e si arriva al modello transteorico. Dalle Grave afferma che più una persona restringe, più il controllo aumenta e più la sintomatologia peggiora. Sostiene che il controllo, nell’ottica del modello avanzato di Fairbun, rappresenta un fattore di mantenimento della patologia. Qui sorge un dubbio, se il controllo rappresenta un fattore atto a mantenere il sintomo per quale motivo nessuno lavora sul controllo? perché quando si parla di controllo nel modello di Fairburn, alla fine, è come se tutti perdessero il controllo, nel senso che nessuno lavora su questa credenza cognitiva? Se non si lavora sul controllo, su cosa si lavora? Certo, sugli altri fattori di mantenimento: perfezionismo patologico, bassa autostima, intolleranza alle emozioni negative, relazioni interpersonali, ma per mantenere tutto questo modello è necessario venga esercitato un meticoloso controllo su tutto, sul cibo in questo caso.

Esiste in generale poca scientificità, sono stati presentati esigui dati empirici e scarse ricerche evidence based. Si parla di grandi modelli, di epidemiologia, di incidenza del disturbo sulla popolazione e di come poter approcciarsi a questi pazienti, ma nella pratica clinica cosa è utile fare? Alla fine, come facciamo ad utilizzare tutta questa teoria, come possiamo applicare praticamente le infinite teorie che sono emerse da questi tre giorni di convegno?

Nessuno lo esplicita, nessuno dice realmente cosa fare nel momento in cui ci si trova faccia a faccia con una persona che si distrugge la vita ingozzandosi di cibo o eliminandolo fino a non alimentarsi più. Quindi, ai posteri l’ardua sentenza.

That’s all folks!

 

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I comportamenti aggressivi dei bambini: ma è sempre colpa dei genitori?

 

PARTE 1  – PARTE 2PARTE 3PARTE 4

I Comportamenti aggressivi dei bambini - Immagine: © Pixlmaker - Fotolia.com I comportamenti aggressivi dei bambini in età scolare, soprattutto nelle società occidentali, costituiscono un problema a più livelli, sia per la problematicità del comportamento stesso e della sua gestione, sia a lungo termine, per il fatto che i bambini “aggressivi” presentano più frequentemente difficoltà relative al rendimento scolastico (Rubin et al., 1998) e alle competenze sociali, con conseguenze che si ripercuotono negli anni, come lo sviluppo di comportamenti criminali, l’abuso di sostanze e comportamenti che mettono a rischio la propria salute e incolumità fisica.

Ma in cosa consiste esattamente un comportamento aggressivo e come si differenzia da altre forme di condotte problematiche come, per esempio, quelle antisociali? Si può generalmente affermare che l’aggressività viene considerata come sotto-cateogoria del più ampio comportamento antisociale (Coie & Dodge, 1998). In particolare, scale che misurano i comportamenti aggressivi nei bambini includono la disobbedienza alle insegnanti, inventarsi storie mai accadute e mentire, mettersi nei guai, attuare comportamenti che infastidiscono gli altri e iniziare uno scontro sia fisico che verbale con i compagni.

Il Bullo, il Maschio Alpha e la lotta per lo Status Sociale - Immagine: © Kimsonal - Fotolia.com
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In generale, per considerare aggressivo un comportamento, il bambino deve agire con l’intenzione di creare disagio agli altri – sia ai pari che agli adulti; anche se spesso questi atteggiamenti vengono segnalati dalla scuola primaria, numerose ricerche longitudinali hanno mostrato che l’insorgenza di comportamenti aggressivi si collochi addirittura in età pre-scolare (Loeber & Stouthamer-Loeber, 1998): uno studio longitudinale di Trembley (1999) nel Quèbec che ha considerato tali problematiche in ragazzi fino ai 17 anni, indica che l’80% degli adolescenti considerati aggressivi, aveva mostrato una qualche forma di aggressività già prima dei 2 anni di età, secondo quanto riportato retrospettivamente dalle madri.

 

Che cosa succede allora in adolescenza, quando oltre il 40% di questi bambini vengono segnalati dalla scuola per la prima volta, rendendo consapevoli i genitori di tale problema? La risposta è semplice: succede che questi bambini, oramai cresciuti, iniziano a mettere in atto comportamenti fisicamente violenti o rischiosi per sé e per gli altri con intenzionalità e in maniera eclatante. Questo dato ha una grande importanza dal punto di vista clinico e della prevenzione, per la credenza ancora diffusa di sovrapporre l’aggressività alla violenza fisica e alla “serietà” del comportamento aggressivo: per chiarire, se un bambino della scuola materna ripetutamente risponde male alle maestre o dà un pizzicotto ai compagni, verrà più facilmente giustificato o non considerato propriamente aggressivo. Questo è dovuto a un errore negli adulti di ignorare tutti i segnali “aggressivi” del bambino più piccolo giustificandoli come “non intenzionali”, “non gravi”, “senza la volontà di fare davvero del male” e di sottovalutare tutte le forme di aggressività non fisica, come quella verbale o indiretta (Cynader & Frost, 1999). Come a dire: se una mamma riceve uno schiaffetto dal suo bimbo di 5 anni o se riceve un “no” deciso, non lo considererà comportamento aggressivo perché, nella mente del genitore, il piccolo “non sa quel che fa”, mentre il discorso è diverso se ad alzare le mani o ad opporsi è un ragazzino di 12 anni.

Quali sono allora le cause di questi comportamenti, che ruolo giocano i modelli, la società e la famiglia in tutto ciò? Anche se rimane indubbiamente vero che l’esposizione a modelli violenti sia nei mass media che nel mondo reale rappresentano una parte centrale nel creare una struttura cognitiva ed emotiva nel bambino favorevole allo sviluppo e al mantenimento di comportamenti aggressivi (Huesmann, 1998), il ruolo chiave ce l’hanno sempre i genitori. Ebbene sì. Sembrerebbe che ancora una volta la “colpa” o, meglio, la responsabilità di tutto ciò, cada su mamma e papà.

La prossima settimana vedremo in che modo la famiglia e lo stile genitoriale influiscono direttamente sulla comparsa e sullo sviluppo dell’aggressività nei bambini già dai primi anni di vita.

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BIBLIOGRAFIA:

  • Coie, J.D., & Dodge, K.A. (1998). Aggression and antisocial behavior. In W. Damon &N. Eisenberg (Eds.), Handbook of child psychology: Social, emotional, and personality development (Vol. 3, pp. 779–862). Toronto: Wiley.
  • Cynader, M., & Frost, B. (1999). Mechanisms of brain development: Neuronal sculpting by the physical and social environment. In D. Keating & C. Hertzman (Eds.), Developmental health and the wealth of nations: Social, biological, and educational dynamics (pp. 153–184). New York: Guilford Press.
  • Huesmann, L.R. (1998). An information processing theory for understanding the interaction of emotions and cognitions in the development and instigation of aggressive behavior. Presidential Address, International Society for Research on Aggression. Ramapo College, NJ.
  • Loeber, R., & Stouthamer-Loeber, M. (1998). Development of juvenile aggression and violence. Some common misconceptions and controversies. American Psychologist, 53, 242–259.
  • Rubin, K.H., Hastings, P., Chen, X., Stewart, S., & McNichol, L. (1998). Intrapersonal and maternal correlates of aggression, conict, and externalizing problems in toddlers. Child Development, 69, 1614–1629.
  • Tremblay, R. E., (2000), The development of aggressive behaviour during childhood: What have we learned in the past century?, International Journal of Behavioral Development, 24 (2), 129–141.
  • Tremblay, R.E., Japel, C., Pe´ russe, D., Boivin, M., Zoccolillo, M., Montplaisir, J., & McDuff, P. (1999). The search for the age of ‘‘onset’’ of physical aggression: Rousseau and Bandura revisited. Criminal Behavior and Mental Health, 9, 8–23.

 

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Passare da una stanza all’altra ci fa dimenticare

-Rassegna Stampa-

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze PsicologicheUna bizzarra ricerca che ci arriva dall’Università Notre Dame e dal professore di psicologia Gabriel Radvansky sembra confermare empiricamente il comune fenomeno per cui quando passiamo da una stanza all’altra a volte ci dimentichiamo il motivo per cui lo abbiamo fatto! Lo studio è stato recentemente pubblicato su Quarterly Journal of Experimental Psychology.

In tre esperimenti, condotti sia in ambienti reali che in ambienti virtuali, ai soggetti sperimentali è stato chiesto di cimentarsi in compiti di memoria sia mentre attraversavano una singola stanza sia mentre passavano da una stanza ad un’altra, passando attraverso una porta. Radvansky ha scoperto che i soggetti presentavano prestazioni mnestiche peggiori, avevano cioè maggiori dimenticanze, quando si trovavano a dover passare da una stanza all’altra attraverso una porta rispetto a quando camminavano nella stessa stanza.

Passando da una stanza all’altra il nostro cervello identifica ogni stanza come una sorta di nuovo evento e elabora una nuova traccia mnestica per trattenerlo in memoria” dice l’autore dello studio “proprio come un segnalibro alla fine di un capitolo, i vani delle porte segnalerebbero al nostro cervello la fine di vecchi episodi e l’inizio di nuovi rendendo così più difficoltoso il recupero di vecchie memorie in qualche modo già archiviate”.

Il suggerimento dell’autore è quello di portare fisicamente un promemoria riguardante la vostra intenzione “Per esempio, se vuoi andare dal salotto alla cucina per prendere una forbice, è semplice, tieni dito indice e medio a forma di forbice mentre passi da una stanza all’altra: ti aiuterà a mantenere intatta la memoria della tua intenzione formulata mentre ti trovavi nell’altra stanza”.

 

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Habemus Schema Therapy!

S, Giuri, A. Brugnoni, A. Gemelli, M.P. Boldrini

Workshop Internazionale Schema Therapy Roma

Si è svolto questo fine settimana a Roma il Workshop Internazionale sulla Schema Therapy (ST) per i Disturbi di Personalità e per il Disturbo Borderline di Personalità, condotto dal Dr. Jeffrey Young , promosso e organizzato  dalla S.i.s.t (Società Italiana per la Schema Therapy),dalla ISC (Istituto di Scienze Cognitive), da Humanitas (Scuola di Psicoterapia Cognitiva Comportamentale Integrata) e dall’Università Cattolica del Sacro Cuore.

Il primo giorno è stato dedicato interamente alla presentazione degli Schemi Maladattivi precoci, definiti come aspetti generali e pervasivi (che comprendono ricordi, emozioni, cognizioni e reazioni neurobiologiche) relativi sia alle valutazioni di sé sia alle relazioni con gli altri:

“Uno Schema è una struttura conoscitiva organizzata, che si sviluppa durante l’infanzia e si manifesta in alcuni comportamenti, sentimenti e pensieri (Arntz, Kuipers, 1998),(…)  si sviluppano Schemi Funzionali (sani) quando i bisogni primari di un bambino sono soddisfatti, questo permette lo sviluppo di immagini positive nei confronti delle altre persone, di se stessi e del mondo intero”.

Gli Schemi maladattivi sono 18, divisi in quattro macrocategorie:

  • Distacco e Rifiuto (Abbandono/Instabilità, Sfiducia/Abuso, Deprivazione emotiva, Inadeguatezza/Vergogna, Esclusione sociale),
  • Mancanza di Autonomia e di Abilità (Dipendenza, Vulnerabilità, Invischiamento, Fallimento), Mancanza di Regole (Grandiosità, Insufficiente Autocontrollo),
  • Orientamento all’altro (Sottomissione, Autosacrificio, Ricerca di approvazione),
  • Ipercontrollo e Inibizione (Negatività, Inibizione emotiva, Standard severi/Ipercriticismo, Punitività)

Hanno origine da esperienze negative nell’infanzia e nell’adolescenza, unite al temperamento e alle influenze culturali. Successivamente sono stati introdotti gli Stili di Coping (Resa, Evitamento e Ipercompensazione)  tre modalità con cui le persone si adattano e reagiscono all’ambiente esterno, “meccanismi che consentono di fronteggiare gli schemi disadattavi (…) di fronte all’attivazione di uno schema (che equivale a una minaccia) un individuo può reagire attraverso una di queste tre risposte: immobilità, fuga e attacco.”

Analisi Critica della Schema Therapy - Immagine: © robodread - Fotolia.com
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Probabilmente essendo già in possesso di conoscenze  sull’argomento, l’illustrazione di ogni singolo Schema è sembrata a tratti ridondante, ma fiduciosi e motivati alla scoperta, ci siamo lasciati coinvolgere in un primo esercizio immaginativo, durante il quale avremmo dovuto ricordare e immaginare, dapprima un luogo sicuro, e poi un episodio della nostra infanzia emotivamente doloroso con una figura genitoriale. Con occhi chiusi, luci soffuse e tono di voce basso del conduttore … l’aula, per dieci minuti, si è ammutolita.  Tutti a conclusione dell’esercizio si erano riconosciuti in almeno uno dei quattro primi schemi maladattivi,  che, a detta del Dr. Young, sono quelli più disfunzionali; infatti, senza ostentare imbarazzi tutte le mani si sono alzate, anche più di una volta, forse (…  speriamo) complice la stanchezza.

 

La giornata si conclude con il concetto di Chimica dello Schema (per cui le persone tendono a perpetuare uno schema all’interno delle relazioni sentimentali), fino a giungere ai concetti di Amore Amichevole e Amore Passionale, per i quali, nostra culpa, qualcuno di noi ha evidentemente agito lo schema nella propria coppia, e qualcun altro si è perso a fantasticare a mo’ di cronaca rosa.

Il secondo giorno si entra nel vivo e vengono presentati i due approcci al trattamento. Il primo è il Modello originale della ST che comprende l’intervento sugli schemi, è caratterizzata da due fasi: Assessment ed Educazione (con l’illustrazione del questionario per l’individuazione degli Schemi) e la Fase del Cambiamento che comprende quattro strategie, quelle cognitive, quelle focalizzate sulle Emozioni, quelle sulla relazione terapeutica e quelle volte alla rottura dei pattern comportamentali.

L’ultimo giorno, è stato illustrato il secondo modello, quello sui MODE (pensato per i pazienti più gravi) “modalità espressiva dello schema, è un insieme di schemi e processi che, in alcune situazioni prevale sui pensieri, sui sentimenti e sulle azioni del paziente a scapito di altri schemi”; quindi specifiche emozioni,  cognizioni e comportamenti che sono attivi nell’individuo qui e ora, uno stato predominante in cui ci si trova in un determinato momento. I mode includono qualsiasi schema, risposta di coping, reazioni funzionali attive in uno specifico momento, i pazienti passano da un mode all’altro in risposta a stimoli interni ed esterni. Si  identificano anche qui 4 macrocategorie:

  • Modalità Infantili/Innate,
  • Modalità di Coping Maladattive,
  • Modalità genitoriali non adattive
  • Modalità dell’adulto sano.
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Leggi l'articolo: I “Mode” della Schema Therapy e la Terapia Cognitiva.

L’intervento è volto all’individuazione e condivisione con il paziente  durante la seduta del Mode attivo nel dato momento , attraverso gli esercizi immaginativi e strategie di Limited Reparenting .

 

Sono anche stati presentati i risultati delle ricerche: un Trial Randomizzato che mette a confronto la ST con la Psicoterapia Focalizzata sul Transfert  di Kenberg (A. Arntz, J. Giesen-Bloo et al., Archives of General Psychiatry , June 2006) dal quale emerge un “affidabile e significativo cambiamento” nei sintomi del DBP (66% nella ST, 43% nella TFP) quindi una maggiore efficacia, nonostante la lunghezza del trattamento; un Trial Randomizzato Controllato (Farrel, Shaw & Webber,  Journal of Behavior Therapy & Experimental Psychiatry, 2009) , dal quale emerge che alla fine del trattamento il 94% dei pazienti trattati con la ST + terapia individuale non soddisfano più i criteri diagnostici per il DBP contro il 16% dei paziento trattati solo individualmente. Risultati indubbiamente importanti, in merito ai quali lo stesso Young ha espresso dubbi sulla replicabilità.

Il tutto è stato accompagnato da audio-video di simulate che mettevano in luce le varie fasi dell’intervento.

L’obiettivo di questo resoconto, non è essere esplicativo ed esaustivo dell’intero workshop, tanto meno della teoria della ST, ma è condividere alcune riflessioni tra giovani terapeuti “cognitivisti”… e scrivo “cognitivisti”, perché la sensazione, almeno da noi condivisa in alcuni momenti,  era di estraneità: ma di quale cognitivismo sta parlando? Il Dr. Young ha detto di essere stato allievo del Dr. Beck, ma ci chiediamo,  in questi anni ha monitorato il resto del Cognitivismo Internazionale?

EABCT 2011: Arntz sulla Schema Therapy di Jeffrey Young
Leggi l'articolo: "EABCT 2011: Arntz sulla Schema Therapy di Jeffrey Young"

Prima siamo stati tacciati di razionalismo estremo, di mancanza di interesse alle emozioni dei nostri pazienti, di essere schiavi di protocolli e scadenze predefinite ma poi, quando finalmente, a ridosso di un primo video, una collega, ravvivando gli animi di noi insensibili  cognitivisti, chiede il motivo di una mancata richiesta da parte del terapeuta di quale fosse lo stato emotivo del paziente, evidentemente attivato dolorosamente, la risposta alla domanda è stata una domanda, che pressappoco diceva “Ma lei, chiederebbe ad un suo amico, che conosce bene e che sta piangendo perché sta piangendo?” asserendo che il mode della persona era stato considerato ovvio, dato che era in terapia da anni con il terapeuta del video (lo stesso Young).

Inoltre, in alcuni momenti, durante le spiegazioni accurate del modello e degli aspetti teorici che lo sostengono, la sensazione costante era di essere su un terreno a noi familiare, noto,  e di cui già pensiamo di aver raccolto  i frutti, dai fecondi e ancora floridi terreni italiani.

Da qui si sono palesati in varie zone della sala momenti di perplessità a seguito delle indicazioni che il Dr. Young ha fornito, come ad esempio sulla relazione terapeutica. Su quest’ultimo fronte la sua indicazione è stata di utilizzare interventi di self-disclosure per “familiarizzare” il paziente al terapeuta, condividendo con lei/lui vissuti analoghi alla sua esperienza, come se si dovesse fargli capire che siamo in grado di capirlo, non perché siamo psicoterapeuti professionisti, ma sulla base di una relazione tra “reduci” degli stessi malanni.

Come vedete siamo tornate a casa con tante domande (alle quali speriamo di stimolare risposte) ma soddisfatte e contente di aver partecipato all’evento, in nome anche solo dell’importanza alla formazione, al confronto e alla necessità di integrazione che ci è stata insegnata; crediamo che il Dr. Young abbia compiuto un lodevole lavoro di integrazione e organizzazione (l’unica dell’evento ?) di tecniche, contributi, teorie e strumenti, utili alla nostra pratica clinica.

Certo, una minore autoreferenzialità che ha regnato sovrana per tre giorni sarebbe stata apprezzata, tanto più che eravamo nella Capitale … “diamo a Cesare ciò che è di Cesare”.

 

BIBLIOGRAFIA:

  • La Schema Therapy per il Disturbo Borderline di Personalità, Arnold  Arntz, Hannie  van Genderen, 2009, Raffaello Cortina Editore

LINK:

 

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Un’analisi critica della Schema Therapy

Analisi Critica della Schema Therapy - Immagine: © robodread - Fotolia.comDopo aver riflettuto per qualche settimana sulle idee emerse durante il workshop sulla Schema Therapy (ST) tenutosi a Roma, l’obiettivo è provare a dare forma e sostanza ad alcuni miei dubbi attraverso una breve analisi.

L’argomento è interessante rappresentando una strada, quella intrapresa da Young, che propone un’integrazione tra cognitivismo standard e teoria dell’attaccamento. La natura stessa del concetto di mode, inteso come insieme di schemi e relativi comportamenti di coping attivi nel soggetto in un determinato momento (Young, Klosko e Weishaar, 2003) ha il grande vantaggio della chiarezza comunicativa di un elemento centrale nella psicopatologia che viene colto con semplicità dal paziente aiutandolo a mettere i primi mattoni della metacognizione, aspetto nucleare nei disturbi di asse II. Il mio personale dubbio nasce dalla sua applicazione in terapia.

Mode - Schema Therapy - Terapia Cognitiva - © Web Buttons Inc
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Young infatti attribuisce estrema importanza al piano esperenziale, in cui si stimola il paziente a dialogare attivamente con i propri mode. Identificare propri“mode” e riflettere su di essi implica un enorme sforzo di autoriflessività, che per  un paziente di asse II rappresenta un obiettivo a lungo termine per le sue difficoltà in questa area (Semerari e Dimaggio, 2003). Nella ST tutto questo avviene da subito lasciandoci con l’interrogativo di capire cosa sia successo all’interno della terapia affinché il paziente abbia saputo colmare questo deficit.Lo stesso dubbio riguarda la modalità relazionale iper-accudente del terapeuta nei confronti del paziente e dei suoi bisogni non soddisfatti nell’infanzia.

 

Essendo presente, per esempio nel disturbo borderline, una difficoltà a regolare le emozioni collegate con il sistema d’attaccamento, che può venir attivato dall’atteggiamento accudente del terapeuta sin dalle primissime sedute, rimane il dubbio di come queste possano venir gestite in terapia. Evocare sempre in fase di assessment, attraverso le tecniche immaginative, esperienze d’attaccamento potrebbe diventare quindi molto rischioso non essendosi ancora costruita una relazione terapeutica e non avendo ancora il paziente gli strumenti per regolare le emozioni che tali esperienze traumatiche attivano.

EABCT 2011: Arntz sulla Schema Therapy di Jeffrey Young
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I pazienti borderline con cui possiamo lavorare con questo approccio terapeutico sono forse coloro che hanno una scarsa impulsività ed un buon funzionamento metacognitivo. Le tecniche immaginative sono molto interessanti, anche se alcuni limiti come scritto precedentemente potrebbero essere legati alla difficoltà di proporle ad un paziente in asse II sin dalle primissime sedute. Viceversa, potrebbero diventare uno strumento estremamente efficace quando la terapia ha aiutato il paziente a gestire l’attivazione di emozioni per lui estremamente dolorose.

 

 

BIBLIOGRAFIA:

  • “Schema Therapy. La terapia cognitivo-comportamentale integrata per i disturbi della personalità” di J.E.Young, J.S.Klosko e M.E.Weishaar. Edizione italiana a cura di A.Carrozza, N.Marsigli e G. Melli. Ed. Eclipsi, Firenze, (2007)
  • “I disturbi di personalità. Modelli e trattamento” a cura di A.Semerari e G. Dimaggio. Ed. Laterza, Roma ,(2003).

 

CRITICHE? CONSIGLI? DOMANDE? IDEE? LASCIACI LA TUA OPINIONE!

Giuliano Ferrara, psicologia di un comunista

Conclusa (forse) la parabola di Berlusconi, riflettiamo ora sul percorso psicologico di un suo compagno di strada, Giuliano Ferrara.

Giuliano Ferrara - Licenza Creative Commons - Autore: http://commons.wikimedia.org/wiki/User:Stef_MecLa visione politica di Ferrara è stata sempre hegeliana e togliattiana, nel bene e nel male. Nel bene per la concezione disincatata a anti-moralistica del potere. Concezione propria, malgrado le apparenze, di alcune correnti del vecchio PCI, correnti che combinavano l’eredità idealistica a quella marxista e leninista. Ma anche Marx era cresciuto hegeliano e quindi si ispirava a una filosofia che intende non giudicare la realtà ma comprenderne le ragioni, anche a rischio di giustificarla (e qui arriviamo al male). In Marx la redenzione proletaria della storia non doveva avvenire in obbedienza a un principio morale ma storico. L’unica etica era quella della storia, di quel che avviene che è sempre storicamente razionale…Continua a leggere su Affaritaliani

Benefici della Psicoterapia: valutare le evidenze scientifiche.

Alberto Chiesa

Benefici specifici e non specifici della psicoterapia: sappiamo davvero valutare le evidenze scientifiche?

Benefici della psicoterapia, valutare le evidenze scientifche. Immagine: © gunnar3000 - Fotolia.comMary Poppins diceva “basta un poco di zucchero e la pillola va giù e tutto brillerà di più!” e questo bastava. Se un ricercatore di oggi avesse potuto intervistarla le avrebbe chiesto: “Ms. Poppins, ma come fa ad essere sicura che sia proprio la pillola a far brillare tutto di più?”. In altre parole tutti gli studi che valutano l’efficacia di un trattamento, hanno lo stesso peso?

In un articolo recentemente pubblicato su State of Mind, Zoppi e Blasi hanno sollevato un’interessante questione: cosa capita a quel circa 40% di pazienti che, secondo gli studi attuali, non rispondono pienamente alle attuali psicoterapie? Da una breve revisione della letteratura gli autori concludevano che in alcuni pazienti la psicoterapia potrebbe avere degli effetti iatrogeni e che addirittura certe terapie potrebbero avere effetti più dannosi che benefici. Quest’articolo è un indice di come oggi, grazie ai numerosi studi che sono stati condotti per valutare l’efficacia dei trattamenti, siamo in grado di affinare gli interventi aumentandone sempre di più efficacia e specificità. Tuttavia leggendo gli studi d’efficacia ci si può domandare: ma quali prove abbiamo che tale efficacia sia specificamente attribuibile all’approccio utilizzato piuttosto che ad altri fattori aspecifici?

Le psicoterapie che non funzionano: il punto di vista della ricerca empirica - Immagine: © Athanasia Nomikou - Fotolia.com
Clicca per leggere: "Le psicoterapie che non funzionano: il punto di vista della ricerca empirica" di Alessia Zoppi e Stefano Blasi

Per esempio, supponiamo che un individuo inizi a sentire un dolore di una certa intensità. Per farlo cessare assume un medicinale perché pensa che potrebbe ricevere un certo beneficio. Dopo circa 30 minuti il dolore si attenua. Verrebbe spontaneo ipotizzare un’associazione tra l’assunzione del farmaco e l’attenuarsi del dolore. Tuttavia uno sguardo più attento e critico ci porta a chiederci: ma nello stesso arco di tempo il dolore avrebbe potuto attenuarsi da sé, senza alcun intervento? Per capire se il trattamento è stato veramente efficace, per prima cosa dobbiamo quindi escludere che il beneficio osservato non sia semplicemente dovuto alla storia naturale di quel dato disturbo.

Come farlo? Ad esempio si potrebbero confrontare i dati un gruppo di soggetti trattato con un determinato approccio, con quelli di un secondo gruppo di soggetti (gruppo controllo), che soffrono della stessa problematica, ma che non ha ricevuto il trattamento. Un metodo migliore sarebbe quello di indirizzare in maniera randomizzata (per appianare al minimo possibili differenze tra gruppi al baseline) una metà del campione al trattamento e l’altra metà in una lista d’attesa. Se il beneficio si mantiene, possiamo concludere che l’approccio sotto indagine è significativamente più efficace del non somministrare alcunché.

Tuttavia prendere queste precauzioni non basta. Infatti negli ultimi decenni, sempre maggiori evidenze hanno mostrato come ogni sostanza, o contesto, che sia in grado di suscitare l’aspettativa di un beneficio possa portare ad una significativa riduzione dei sintomi in un grande numero di individui (Price et. al 2008). Questo effetto, noto come “effetto placebo”, per quanto affascinante possa essere, purtroppo rappresenta un grosso fattore che confonde negli studi scientifici sull’efficacia, per questo motivo bisognerebbe prestare particolare attenzione a come viene strutturato il gruppo di controllo a cui l’intervento da testare andrebbe comparato. Ciò è particolarmente vero per gli studi sull’efficacia della psicoterapia. In questo ambito è importantissimo riuscire a controllare l’effetto placebo per poter avere dei risultati più precisi. Idealmente, il gruppo di controllo per un intervento psicoterapeutico dovrebbe essere uguale al trattamento sotto indagine per tutti i fattori “placebo”, come, ad esempio, l’aspettativa di un beneficio, la credibilità, la fiducia nel terapeuta e la relazione terapeutica. Se il trattamento psicoterapeutico studiato si rivela più efficace di quello di controllo così costruito, allora si può ragionevolmente concludere che l’efficacia sia dovuta ai suoi fattori specifici (ad es. ristrutturazione cognitiva, esposizione) che si sommano a quelli non specifici, comuni a tutti i trattamenti, e alla semplice storia naturale del disturbo.

Quindi se già gli studi che usano gruppi di controllo che non riescono a generare i fattori placebo non sono in grado di fornirci dati sull’efficacia reale del trattamento studiato, allora cosa fare di tutti gli studi di psicoterapia senza gruppo di controllo? Dovremmo forse cestinarli? No, ma dovremmo comprendere che, sebbene tali studi possano essere utili, quando si vuole introdurre un nuovo approccio o una particolare tecnica, è solo quando si hanno a disposizione studi più rigorosi con un adeguato gruppo di controllo; solo in quel caso si dovrebbero trarre conclusioni più definitive sulla specifica efficacia di una particolare tecnica o protocollo. Dopotutto, non è anche grazie al rigore con cui è stata studiata che la CBT si è imposta su altre terapie?

 

BIBLIOGRAFIA:

 

 

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Chemioterapia e funzioni cognitive

-Rassegna Stampa-

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze PsicologicheUno studio pubblicato sul numero di novembre di Archives of Neu­rol­ogy da un gruppo di ricerca della Stan­ford Uni­ver­sity School of Med­i­cine dimostra che pazienti con diagnosi di tumore al seno e sottoposti a chemioterapia mostrano significativi cambiamenti nell’attività cerebrale misurata mediante la risonanza magnetica funzionale.

L’obiettivo dello studio era quello di esaminare le dif­fer­enze nell’attivazione dell’area prefrontale e nella deficitarietà della funzione esecutiva, a livello comportamentale, tra pazienti con diagnosi di tumore al seno in remissione con e senza una storia terapeutica di chemioterapia confrontati con un terzo gruppo di controllo di pazienti sane.

Dalla ricerca è risultato che le donne con diagnosi di tumore al seno (seppur in fase di remissione) presentavano una ridotta attivazione della corteccia dorso-laterale prefrontale e della corteccia premotoria rispetto alle donne sane, mentre nello specifico nel gruppo di donne sottoposto a chemioterapia è stata rilevata una riduzione significativa della corteccia prefrontale laterale e una maggior deficitarietà della funzione esecutiva nel task sperimentale proposto (maggior frequenza di errori perseverativi e una ridotta velocità di processamento cognitivo) rispetto a entrambi i gruppi di confronto. Tale diminuzione di attivazione nella corteccia laterale prefrontale presente nelle donne sottoposte a trattamenti chemioterapici correla positivamente con la gravità della patologia e con la deficitarietà della funzione esecutiva. Pertanto la corteccia laterale prefrontale sembra essere una regione cerebrale particolarmente vulnerabile agli effetti della chemioterapia, oltre che della gravità patologica in sé.

 

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Alpbach e Bologna: due congressi non anglofoni sui disturbi alimentari.

Disturbi Alimentari - Alpbach Bologna 2011 - Immagine: © waterlilly - Fotolia.com -Nell’ultimo mese ho partecipato a due congressi sui disturbi alimentari. Il 20-22 ottobre ero ad Alpbach nel Tirolo austriaco. Alpbach è acquattato in una valle poco dopo Innsbruck. È un paesino dove ogni anno si svolge il congresso in lingua tedesca (il mio tedesco è elementare, ma le diapositive le comprendo) dei disturbi alimentari. Il secondo a Bologna in questi giorni dal 18 al 20 novembre, ed è il congresso della società italiana dei disturbi alimentari, la SISDCA.

Il congresso SISDCA, come quello di Alpbach, è un congresso di clinici. Professionisti che provengono da un’intera area linguistica, germanofona o italofona, per parlare di casi clinici. Non si parla in inglese perché non si condividono dati, o non troppi dati. Bensì si condivide sapienza clinica, per la quale è necessario potersi esprimere colloquialmente e non si può usare l’inglese afono dei congressi internazionali.

Occorre riflettere sul valore di questo tipo di congressi. Essi rischiano di essere messi troppo in ombra dai grandi congressi internazionali anglofoni. In quei prestigiosi congressi si mette in mostra la grande ricerca internazionale, quantitativa e generalizzante. Nomi famosi salgono sulle pedane a parlare. Ad Alpbach e a Bologna arrivano colleghi più oscuri che lavorano con i pazienti e che vogliono ascoltare e condividere l’esperienza del paziente singolo. Si cerca una sapienza più empirica e meno rigorosa perché si tratta di professionisti che devono trattare pazienti singoli, persone singole. Senza contrapporsi alla scienza generalizzante e quantitativa. Si tratta di un diverso bisogno.

Sia qui a Bologna che ad Alpbach i clinici usano un linguaggio psicodinamico (soprattutto a Bologna) o sistemico (ad Alpbach). Tuttavia tutti hanno un’infarinatura delle tecniche cognitive e ne danno per scontata l’utilità, anche se però dell’intervento cognitivo se ne parla poco. Le tecniche cognitive? Tutti sia ad Alpbach che a Bologna ammettono che vengono usate in quella che loro chiamano “la fase iniziale”. Certo, da buoni psicodinamici questi clinici le considerano “superficiali”, e spesso le conoscono male, affidandole a colleghi cognitivisti specializzati (tra cui i nostri allievi) e le giudicano propedeutiche a un cosiddetto lavoro “profondo”. La cosa può farci sorridere o infastidirci, ma è anche vero che qui ci sono professionisti che prendono in carico pazienti gravi e cronici e se li portano dietro per anni. Dalla loro trincea il protocollo cognitivo di 6 o 12 sedute è davvero solo l’inizio.

Ad esempio, tra le varie relazioni c’era quella di un kleiniano molto ortodosso, che ha parlato inizialmente di pulsione di morte. Concetti discutibili, certo. Eppure, passata la buriana kleiniana, costui ha descritto un paio di casi clinici con espressività, interesse e raccontandoci varie cose che lui sa dire ai suoi pazienti. Nulla di trascendentale, eppure molto di utile. Per esempio, ha raccontato che molte delle sue pazienti saranno sempre sottopeso, e ha quasi simulato una seduta nei pochi minuti che aveva a disposizione, tutta giocata sul “va bene, rimanga secca però sana e contenta. Come può esserlo? Come possiamo ottenerlo? È davvero necessario essere non solo magre, ma anche tristissime? Ma perché?” Non male, soprattutto dal vivo.

A questo punto qualcuno potrebbe obiettare che però nei paesi di lingua inglese questa sfasatura non dovrebbe esserci. Non lo so. Io ho l’impressione che il mondo clinico anglo-sassone è un continente ignoto e sommerso, coperto dalla pellicola sfavillante della grande ricerca in lingua inglese, che naturalmente in quei paesi copre ancor di più di quanto accada da noi o in Germania il linguaggio quotidiano, comune e più impreciso dei clinici. Ma un segnale l’ho percepito. Ad Alpbach in plenaria si parlava inglese. E relazionavano un paio di inglesi (anche due tedeschi, di cui uno solo parlava inglese; l’altro si esprimeva in tedesco). Tra gli inglesi, interessante la relazione di Dasha Nicholls, del gruppo scozzese di Brian Lask. Costei ha presentato dati sull’interazione tra ricerca e clinica. La domanda era: quanti clinici nel Regno Unito effettivamente applicano i protocolli? Ebbene, pochissimi. Non vorrei sbagliare, ma forse meno di venti su un campione di quasi settecento. Questo non vuol dire che i protocolli cognitivi non siano conosciuti e usati. Solo che sono usati come da noi in Italia o in Germania: come fonti di tecniche, interventi, strumenti e (perché no?) trucchi. Ma il protocollo dettagliato e per filo e per segno, quello quasi nessuno lo applica. Nemmeno in Inghilterra.

La conclusione? Nulla di catastrofico. Ma una cosa è certa: i protocolli cognitivi vanno ripensati in termini di applicabilità concreta. Oppure no. Forse vanno bene così come sono, come manuali di idee che nessuno si sognerebbe di applicare alla lettera. La lettera uccide, in fondo.

 

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Reappraisal di un volto collerico: è possibile allenarsi?

-Rassegna Stampa-

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze PsicologicheAlcuni ricercatori di Stanford, tra cui il famoso studioso di regolazione emotiva James J. Gross,  hanno recentemente indagato l’efficacia e la velocità del processo di reappraisal, e cioè di ri-valutazione di espressioni facciali della  collera. Nello studio venivano mostrate ai soggetti diverse serie di volti in diverse condizioni sperimentali e venivano quindi valutate le loro reazioni emotive. Per esempio, in un caso, veniva detto ai partecipanti di considerare che le persone ritratte avevano avuto una terribile giornata, quindi rendendo più saliente per i soggetti che l’emozione espressa dai volti non fosse diretta a loro. Dai risultati è emerso che questa semplice manovra cognitiva “facilitava” le persone ad essere meno infastidite ad una successiva visione di quell’espressione collerica; d’altra parte, quando ai soggetti veniva semplicemente detto di vivere l’emozione che suscitava loro la visione di un volto collerico, continuavano ad esserne infastiditi.  Alla misurazione dell’attività elettrica cerebrale si è evidenziato che il processo di re-appraisal facilitato letteralmente cancella dalla rilevazione di attività elettrica i segnali tipici delle emozione negative che invece erano presenti non appena appariva il volto collerico. La ricerca suggerisce che, se le persone vengono in qualche modo preparate e “allenate”, il processo di re-appraisal può essere più efficace, veloce e significativo. La ricerca verrà pubblicata a breve su Psychological Science.

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Estrogeni Menopausa e funzioni Cognitive: una “magra consolazione”

Estrogeni Menopausa e Funzioni Cognitive - Immagine: © meletver - Fotolia.com

Diamo per scontato che una condizione di sovrappeso, soprattutto in post-menopausa, sia per le donne un fattore di rischio per diverse patologie tra cui il cancro, il diabete e malattie dell’apparato cardiocircolatorio; ma forse a fronte di tanti svantaggi la ricerca ha oggi rintracciato un vantaggio nell’essere in sovrappeso. Pare che sia protettivo rispetto al declino delle funzioni cognitive: le donne che hanno maggior presenza di estrogeni nelle cellule adipose rischiano meno rispetto alle normopeso.

Lo studio è stato condotto dai ricercatori della Scuola di Farmacia e Biochimica, Dipartimento di Fisiologia, e dall’istituto Cardiovascolare di Buenos Aires. La dott.ssa Ziberman, coordinatrice dello studio, ha coinvolto nella ricerca 300 donne in post-menopausa (età media 60 anni).

La divisione nei due gruppi è stata realizzata utilizzando il BMI (Body Mass Index): 158 partecipanti sono state considerate in sovrappeso, mentre le restanti sono entrate nel gruppo delle normopeso. L’intero campione è stato sottoposto a una serie di test per valutare le funzioni cognitive e in particolare venivano valutate la memoria, la capacità di problem solving, il ragionamento verbale e le funzioni esecutive.

I risultati, mostrati alla Physiology of Cardiovascular Disease Gender Disparities Conference (University of Mississippi), evidenziano che il valore del BMI correla positivamente con alti livelli nelle funzioni cognitive. La Ziberman spiega questi dati partendo dall’ipotesi che gli estrogeni possano essere protettivi della funzione cognitiva e mettendo in relazione questo dato al fatto che dove vi è un aumento del tessuto adiposo vi è un aumento di estrogeni. Da qui la possibilità che gli ormoni sessuali femminili possano essere un aiuto naturale per mantenere inalterate le facoltà cognitive. Questo sarebbe per altro in linea con il fatto che molti istituti di ricerca hanno raccomandato gli estrogeni come intervento preventivo in caso di demenza o alterazione cognitiva.

Tuttavia, considerando gli svantaggi e i fattori di rischio del sovrappeso, non ci si potrà nascondere dietro l’alibi del cucchiaio di nutella o della fetta di sacher salva memoria. E così, conclude la Ziberman, la condizione ideale sarebbe avere un peso nella norma ed eventualmente integrare la presenza di ormoni, ovviamente sotto consiglio medico.

 

BIBLIOGRAFIA:

 

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Effetto Stroop

Psicopedia - Proprietà di State of Mind

Uno dei fenomeni più noti in psicologia sperimentale è l’effetto Stroop. Prende il nome da J. Ridley Stroop, che scoprì questo fenomeno nel 1935, e lo fece conoscere a tutti attraverso l’articolo Studies of interference in serial verbal reactions nel Journal of Experimental Psychology. Tuttavia, tale compito sperimentale è stato pubblicato per la prima volta da Jaensch nel 1929 in Germania, e successivamente è stato ripreso nelle opere di James McKeen Cattell e Wilhelm Wundt nel diciannovesimo secolo. L’articolo originale è stato uno dei lavori più citati nella storia della psicologia sperimentale.

Durante l’esperimeno di Stroop al soggetto vengono mostrate delle parole scritte con colori diversi. Il compito consiste nel pronunciare a voce alta il colore dell’inchiostro cui è scritta la parola. Quindi, il colore è l’informazione rilevante per lo svolgimento del compito, mentre il significato della parola (che non deve essere letto) è l’informazione non rilevante.

Gli stimoli presentati nel compito di Stroop possono essere di tipo neutro, congruente e incongruente. Si parla di neutri quando si visualizza solo il testo o solo colore. Mentre, si ha congruenza quando la parola «rosso» è scritta in rosso, e incongruenza quando la parola «rosso» è scritta in verde. Si ricordi che la risposta richiesta è il nome del colore, cioè rosso nel primo caso e verde nel secondo. Stroop (1935) notò che i partecipanti sottoposti al compito di denominazione presentavano tempi di risposta più lenti se il colore dell’inchiostro era diverso dal significato della parola scritta, nonostante fossero istruiti affinché non tenessero conto del significato della parola. L’effetto Stroop, dunque, consiste nel produrre una risposta avente latenza più lenta nel caso della condizione incongruente e più veloce nel caso della condizione congruente.

Lo scopo è quello di creare una interferenza cognitiva e semantica: in questo caso ad esempio, la mente tende a leggere meccanicamente il significato della parola (ad esempio legge la parola “rosso” e pensa al colore “rosso”, ma l’inchiostro usato è di colore diverso). Per questo motivo, il test di Stroop rappresenta una consolidata procedura sperimentale per lo studio dell’attenzione selettiva.

Esistono due teorie in grado di spiegare l’effetto Stroop:

1. Teoria della Velocità di elaborazione: l’interferenza si verifica perché le parole sono lette più velocemente rispetto all’individuazione del colore con cui sono state scritte.

2. Teoria dell’Attenzione selettiva: l’interferenza si verifica a causa dei nomi dei colori che richiedono una maggiore attenzione rispetto alla lettura delle parole.

Il paradigma di Stroop è stato largamente utilizzato per studiare le funzioni cerebrali attraverso le tecniche di imaging cerebrale. Il test è stato modificato includendo diverse per studiare l’effetto del bilinguismo o per indagare l’effetto dell’interferenza cognitiva sulle emozioni. Inoltre, è stato utilizzato per studiare la velocità di elaborazione di uno stimolo, le funzioni esecutive, la memoria di lavoro e lo sviluppo cognitivo in diversi settori. La ricerca sull’età evolutiva che utilizza lo Stroop dimostra che il tempo di reazione diminuisce sistematicamente dalla prima infanzia fino all’inizio dell’età adulta. Questi cambiamenti suggeriscono che la velocità di elaborazione aumenta con l’età e che il controllo cognitivo diventa sempre più efficiente. I cambiamenti di questi processi con l’età sono strettamente associati allo sviluppo nella memoria di lavoro e a vari aspetti del pensiero.

Ci sono diverse varianti del test che comunemente sono usate in ambito clinico con soggetti con lesioni cerebrali, affetti da demenze, da malattie neurodegenerative, da deficit di attenzione iperattività o con disturbi mentali, come la schizofrenia, le diverse forme di dipendenza e la depressione.

L’Elettroencefalogramma e il Neuroimaging funzionale hanno evidenziato durante lo svolgimento di un compito di Stroop l’attivazione nel lobo frontale e più specificamente del cingolo anteriore e della corteccia prefrontale dorsolaterale , due strutture responsabile del monitoraggio e della risoluzione dei conflitti. Di conseguenza, i pazienti con lesioni frontali ottengono punteggi inferiori nel test di Stroop rispetto a quelli con lesioni più posteriori.

Infine, sono stati realizzati dei video game che utilizzano come base il paradigma di Stroop, ad esempio il Brain Age: Train Your Brain in Minutes a Day software prodotto da Ryuta Kawashima per il Nintendo DS , e il Nova utilizzato per rilevare i cambiamenti della flessibilità mentale in relazione all’altitudine per coloro che scalano le montagne.

 

BIBLIOGRAFIA:

  • Stroop, J. R. (1935).Studies of interference in serial verbal reactions. Journal of Experimental Psychology 18, 643–662.
  • Jaensch, E.R. (1929). Grundformen menschlichen Seins. Berlin: Otto Elsner.
  • van Maanen L, van Rijn H, Borst JP (2009). Stroop and picture-word interference are two sides of the same coin. Psychon Bull Rev, 16, 987–99.
  • Kaufmann, L., Ischebeck, A., Weiss, E., (2008). An fMRI study of the numerical Stroop task in individuals with and without minimal cognitive impairment. Cortex , 44, 1248–55.
  • Roberts, K.L., Hall, D.A. (2008). Examining a supramodal network for conflict processing: a systematic review and novel functional magnetic resonance imaging data for related visual and auditory stroop tasks. Journal of cognitive neuroscience, 20, 1063–78.
  • Rosselli M, Ardila A, Santisi MN, et al. (September 2002). Stroop effect in Spanish-English bilinguals. Journal of the International Neuropsychological Society, 8, 819–27.

 

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LGBT e terza età: nuova ricerca USA

-RASSEGNA STAMPA-

Gay, Lesbo, Bisex e Transgender: l'approssimarsi della terza età. - Rassegna StampaGay, Lesbian, Bisex e Transgender all’approssimarsi della terza età: una ricerca statunitense finanziata dal National Institute Health

Lo studio, presentato il 16 novembre da Karen Fredriksen-Goldsen e colleghi della University of Washington’s School of Social Work, segnala specificità di bisogni, condizioni e risorse di individui di omosessuali, bisessuali e transessuali che invecchiando raggiungono la soglia della terza età. La survey è stata condotta su 2.560 adulti omosessuali, bisessuali e trans-sessuali di età compresa tra i 50 e i 95 anni residenti negli Stati Uniti. I risultati dello studio evidenziano come, rispetto a un campione di controllo di adulti eterosessuali, gli anziani non-eterosessuali presentino punteggi più elevati di disabilità, depressione, solitudine e abuso di alcool; a livello sociale è più frequente che vivano soli, non coniugati rispetto ai coetanei eterosessuali, e spesso senza l’appoggio di figli. La buona notizia tuttavia è che gli anziani omosessuali e bisessuali sarebbero più resilienti, più proattivi nel prendersi cura di sé e più attivi nel costruire e mantenere attive le loro comunità. Dallo studio emerge che il 91% degli intervistati praticano attività sportive e meditative, e provano sentimenti positivi riguardo l’appartenenza a una specifica comunità: nello specifico le connessioni sociali con i pari risultano decisamente più solide, supportive e assistenziali rispetto a quanto accade per i coetanei eterosessuali.

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Anxiety and Emotional Conversations between Mothers, Fathers and Children.

Parents’ words and anxiety disorders – Part 6

Anxiety and Emotional Conversations between Mothers, Fathers and Children - Fotografia: © James Steidl - Fotolia.comThroughout this series, there has been a focus on the importance of mothers rather than fathers in the transmission of anxiety. There are many reasons for this; research has shown that mothers do in fact play a more central role in their children’s development than fathers. Other less scientific factors are also in play, for example, fathers are less likely to participate in research. As I mentioned in the fourth installment of this series, in this part I will cover one study in particular, which investigated the impact of mothers and fathers on these conversations. Importantly, this study also examined the differences in male and female children.

Suveg, Sodd, Barmish, Tiwari, Hudson and Kendall (2008) examined emotional socialization in anxious (n = 28) and control (n = 28) children and their families, including fathers. Diagnoses were assessed using a popular structured clinical interview. Like the previous study, parents were asked to have five minute emotion discussions with their children concerning times when children felt anxious, angry and happy.

  • Parental speech was examined for total number of words, discouragement of emotion, explanation of emotion, tone, and emotion regulation in each discussion.
  • Child speech was examined for attempts at problem solving and maladaptive, avoidant behavior.

The results were discussed examining maternal, paternal and child discourse style. Compared to fathers of control children, fathers of children with an anxiety disorder displayed less positive affect, more negative affect, less explanatory discussions of emotion, and more overall emotion when interacting with their sons. Similar results appeared when examining maternal discourse. With their sons, mothers of control children discussed more emotion during anxious situations than mothers of anxious children. Mothers of control children also showed more positive affect than mothers with anxious children. Finally, mothers of anxious children showed more negative affect than mothers of control children across all three discussions. Across all emotion discussions, control children showed more positive affect than children with anxiety disorders. Finally, compared to control children, children with anxiety disorders were 5.25 and 15.23 times more likely to express maladaptive versus adaptive responses during anxious and angry scenarios, respectively.

Therefore, like previous studies, those reviewed in part 4 of this series and the current one display that both parental and child psychopathology affect seemingly all aspects of these individual lives. This includes everything from their quality of life through simple and complex conversations these groups share. In the next installment of this series I will summarize the findings discussed up to this point and begin to discuss possible interventions.

 

BIBLIOGRAPHY:

 

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Linee Guida per l’Autismo. Finalmente!

Il sottosegretario alla salute Francesca Martini ha commentato con queste parole l’emanazione da parte dell’Istituto Superiore della Sanità delle prime linee guida nazionali sull’autismo:

Linee Guida per l'Autismo - Fotografia: © Nathan Allred - Fotolia.com”Dall’inizio del mio mandato mi sono impegnata fortemente per la messa in atto di un confronto scientifico ai più alti livelli che permettesse al nostro Paese di dotarsi dilineeguida nazionali per il trattamento dei disturbi dellospettroautistico nei bambini e negli adolescenti e oggi provo grande soddisfazione nel testimoniare che attraverso il lavoro sviluppato dall’istituto Superiore di Sanità, in collaborazione con le migliori esperienze territoriali, questo e’ stato possibile”.

Lavoro con i bambini e ragazzi autistici da dieci anni e inevitabilmente ho condiviso il mio operare con gli altri professionisti, o sedicenti tali, che promettevano di dare un contributo significativo nel superamento delle difficoltà che questi pazienti manifestavano.

Autismo - Linee Guida Nazionali
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Quando nel 2000 ho incontrato la famiglia del mio primo paziente autistico è iniziata insieme a loro la ricerca disperata di trattamenti efficaci e dal momento che allora, meno ancora di oggi, il servizio pubblico non sembrava garantire un intervento sufficientemente intensivo e specializzato, il settore privato era l’ambito in cui cercare risposte.

E così mi sono ritrovata ad assistere a trattamenti che, ad oggi, mi sento di definire perlomeno bizzarri.

Ricordo in particolare due episodi. Un pomeriggio mi ritrovo a casa della famiglia di un bambino autistico che aveva messo a disposizione il proprio domicilio per ospitare un’esperta americana nell’ambito delle intolleranze alimentari. La diagnosi avveniva tramite l’ascolto della reazione della linfa vitale all’avvicinamento del prodotto alimentare sospetto. Ho praticamente passato il pomeriggio a intrattenere i piccoli finchè fosse il loro turno di adagiarsi sul lettino e vedersi appoggiare sul braccio la manona di una rassicurante americana di 200 chili mentre il genitore gli si avvicinava prima con pacchetti di prosciutto cotto, poi con dei pomodori e quant’altro, non ricordo secondo quale criterio, fosse ritenuto responsabile di eventuali disordini intestinali.

Il secondo episodio mi vede spettatrice di un convegno organizzato da un’associazione di genitori che, tra le altre cose, incoraggiava l’uso della camera iperbarica per il trattamento dell’autismo. Anche in questo caso a consigliare la pratica erano dei dottori americani. Da lì a poco ho saputo di diverse famiglie che hanno prosciugato il conto in banca per potersi permettere l’acquisto di quella miracolosa bara. Un investimento che hanno cercato di recuperare offrendo trattamenti a basso costo anche ad altri bambini. Non è difficile immaginare la reazione di molti di questi bambini quando si sono ritrovati costretti all’interno di un angusto abitacolo, senza avere la capacità di comprenderne le ragioni.

Forse a molti di voi questi genitori potrebbero sembrare ingenui o addirittura stupidi, ma anche io allora, alle prime armi nel settore, non sapevo come giudicare tutte queste proposte. Quello che il sistema sanitario offriva allora erano sedute di psicomotricità e se si era meno fortunati, un posto nella graduatoria.

I genitori, disperati e saggiamente convinti che per i loro figli si potesse pretendere di più, si affacciavano avidi al mercato del privato e, senza nessuna raccomandazione da parte del sistema sanitario nazionale, senza che qualcuno si fosse mai preso la responsabilità di dire loro, io compresa, cosa costituisse un valido intervento e cosa semplicemente un’ottima campagna di marketing, hanno fatto quello che anche noi, al posto loro, probabilmente faremmo: le hanno provate tutte.

Per fortuna la maggior parte di questi genitori hanno saputo col tempo vedere e capire da soli quale tipo di intervento fosse più utile per i loro figli, al prezzo però di innumerevoli delusioni e col peso di una responsabilità che dovrebbe essere condivisa con chi possiede le competenze per aiutarli in questo percorso.

Pochi giorni fa sono uscite le Linee Guida per il Trattamento dell’Autismo e come madre e come professionista mi sento di dire GRAZIE.

 

 

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