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L’abito (non) fa il monaco

Lonely - © Vibe Images - Fotolia.comQualche giorno fa mi è capitato di vedere in televisione un dibattito in occasione del compleanno delle gemelline Schepp scomparse lo scorso Febbraio. Ricordiamo che delle due bambine di 6 anni si è persa traccia dopo il suicidio del padre alla stazione di Cerignola, in Puglia. Uno dei temi centrali della discussione riguardava la figura paterna: uomo distinto, laureato, mai dato segni di squilibrio, al di sopra di ogni sospetto, tanto che la ex moglie gli aveva permesso di portare via le figlie per qualche tempo. La domanda chiave veniva ripresa più volte dagli ospiti della trasmissione: è possibile che quest’uomo non avesse mai dato un qualche segno di instabilità, debolezza, di stranezza? È possibile che fosse ritenuto affidabile e responsabile e un minuto dopo compiva un atto del genere?

Questi sono discorsi che spesso sentiamo in occasione di eventi come questo: il fidanzato premuroso, una famiglia perfetta, degli zii affettuosi, tutte persone normali che, in maniera inspiegabile, arrivano a compiere atti terribili inaspettatamente. Ma che cosa possiamo dire di come reagisce la mente umana di fronte alla gelosia, alla frustrazione, al dolore insopportabile di un matrimonio finito? Nel caso delle gemelle Schepp siamo davanti al dolore e alla disperazione di un uomo e di un padre che vede davanti a sé probabilmente soltanto la paura di avere perso i suoi punti di riferimento, i suoi legami affettivi, la paura di dovere per forza fare i conti con questo dolore. E  -annebbiato dalla disperazione e dal vuoto- che cosa faccio? Cancello ogni traccia, ogni legame, proprio come qualcuno ricordava, fece Medea nei confronti di Giasone nella celebre tragedia di Euripide, compiendo l’atto più infangante, cancellandone la stirpe, uccidendo i figli.

Io non so se di fronte a situazioni simili ci siano segnali “premonitori” oppure no, anche se credo sia difficile che i fulmini arrivino a ciel sereno. Molti incolpano la società: viviamo in un mondo frenetico, dove tutto va veloce e non c’è tempo per soffrire e ripartire, non abbiamo legami estesi alla comunità, come invece era più frequente un tempo, non sentiamo il supporto di un gruppo e nel dolore siamo spesso lasciati soli – e perciò nessuno si accorge dei cosiddetti “segnali” che, probabilmente in maniera non trasparente, ci sono.

A questo proposito mi sembrano molto adatte le parole di Francesco Alberoni: “L’apparenza inganna, l’abito non fa il monaco. Proverbi stupidi che invitano alla pigrizia perchè tutto ciò che noi siamo si oggettiva all’esterno. I nostri sentimenti, i nostri valori, i nostri vizi, le nostre virtù si stampano sul nostro volto, traspaiono nei nostri gesti, nel nostro linguaggio, nel nostro abbigliamento, nelle cose che leggiamo o non leggiamo, nell’arredamento della casa, dell’ufficio, nella scelta dei nostri amici, dei nostri collaboratori. Noi siamo dei libri aperti. Ma la gente o ha gli occhi chiusi, o non sa leggere o non lo legge con attenzione”.

Analisi dei sogni: non solo psicoanalisi

Federica Vannozzi.

Dream-© Vladimir Melnikov - Fotolia.comUn approccio all’analisi e all’uso del sogno può essere molto utile se concentrato sul contenuto emotivo del sogno stesso che emerge prepotentemente durante il sonno, rimane attivo al risveglio e a volte anche durante il giorno. Durante il colloquio, io e il mio paziente applichiamo l’ABC al sogno che viene raccontato secondo il tipico percorso: A – C – B. Credo sia importante aprire una piccola parentesi sul B: sarebbe a mio parere molto interessante capire se la valutazione – dell’evento A sogno – sia una valutazione effettuata durante il sogno oppure a posteriori ovvero al risveglio o nel momento esatto in cui il terapeuta chiede al paziente “Che cosa ha pensato mentre durante il sogno cadeva nel vuoto?”.

Una volta esplicitata in seduta l’emozione provata durante il sogno, chiedo al paziente se negli ultimi giorni abbia provato la stessa emozione in fase di veglia per creare un ponte importante con la realtà. Se il paziente trova difficoltà, chiedo se la stessa emozione sia stata vissuta da piccolo o comunque in un tempo più remoto e in che circostanza.

Il mio paziente evitante, pochi giorni prima di affrontare un primo colloquio con lo psichiatra, sogna la sua prima seduta con lui “Ero seduto davanti al dottore, ad un tratto prende la mia mano come per rassicurarmi e improvvisamente comincia a stringerla fortissimo e a tirarla verso di lui. Il viso era diventato spaventoso”. Immediatamente dopo il racconto, affrontiamo il sogno con un ABC partendo dall’emozione chiaramente di paura. Ricollega immediatamente il sogno a sua madre soprattutto per la caratteristica spaventante dell’imprevedibilità del comportamento della donna (elemento in comune con il sogno). Trattandosi di un paziente evitante, è stato facile collegare il sogno anche alla sua enorme paura di affrontare una qualsiasi relazione (dunque non solo terapeutica) vissuta come fagocitante e pericolosa.

Altro esempio: un mio paziente aveva difficoltà ad immaginare cosa sarebbe successo se un giorno avesse perso il controllo in casa con i suoi familiari. Dopo un paio di sedute dedicate in parte a questo argomento, mi racconta il suo sogno “Sono in salotto, sollevo un posacenere, lo tiro e distruggo la vetrinetta con i soprammobili in cristallo di mia madre. Lei entra, prende un pezzo di vetro affilato e cerca di tagliarmi il braccio mentre il suo volto diventava mostruoso”. E’ evidente come il paziente abbia trovato la risposta alla mia domanda tramite questo sogno. Io stessa posso raccontare un sogno ricorrente negli anni: prima di ogni esame universitario sognavo di perdere i denti. Segue l’ABC: Emozione provata: vergogna, imbarazzo; Pensiero: “se mi vedono in questa condizione sprofonderò sotto terra. Non posso più sorridere”. Il passo seguente è stato quello di collegare l’emozione all’evento dell’esame insieme ad un B: “Ho paura di fare una figuraccia davanti al professore se non sapessi rispondere alle sue domande”.

Esistono inoltre dei sogni che rappresentano l’emozione sottoforma di una figura, di un’immagine, quasi fosse una “materializzazione” in toto delle emozioni. Riporto come esempio un sogno sempre fatto da me: “Sono nel buio, non c’è soffitto, non c’è pavimento, non c’è spazio. Davanti a me in penombra, c’è una donna con i capelli rossi ricci e arruffati fino alle spalle. Indossa un abito da clown giallo e rosso. E’ davanti a me immobile ad attendere un mio movimento perché non appena muovo un dito, mi graffia tutto il corpo per poi tornare immobile al aspettare senza mai svelare il viso”. Credo che questa figura inquietante racchiuda in sé tutte le caratteristiche dell’ansia: l’attesa, il controllo, l’ambiguità, l’imprevedibilità, il pericolo sempre pronto ad attaccare, la paura che immobilizza. Forse, analizzare il sogno concentrandosi sul contenuto emotivo, può essere utile soprattutto in pazienti alessitimici.

Attacchi di Panico: Il Protocollo di Andrews.

Intervista alla Dottoressa Leveni, esperta di Disturbo d’Ansia.

Panic Attack - © Scanrail - Fotolia.comCirca il 28% della popolazione almeno una volta nella vita sperimenta un occasionale ed inaspettato attacco di panico, tuttavia solo nel 3-5-% della popolazione insorge il terrore di poterlo sperimentare nuovamente. Terrore che a sua volta innesca il circolo vizioso dell’ansia fino a dare origine a un Disturbo da Attacchi di Panico. Questo disturbo è caratterizzato dalla presenza di attacchi di panico che, sebbene durino pochi minuti, provocano un disagio molto intenso e possono lasciare l’individuo prostrato per molte ore. Questo disturbo, se non curato, non solo tende a cronicizzarsi rapidamente, ma riduce anche l’autonomia personale, l’efficienza lavorativa e scolastica, la qualità della vita compromettendo le relazioni familiari e sociali di chi ne è affetto.

Nel tempo sono stati studiati differenti trattamenti per questo disturbo e, grazie a questa linea di ricerca, quelli attualmente disponibili  sono altamente validi, tanto che oltre l’80% dei soggetti può imparare a tenere sotto controllo questo problema. La maggior parte dei trattamenti psicoterapici proposti si basa sulla Terapia Cognitivo Comportamentale (Cognitive Behaviour Therapy- CBT) che si è dimostrata essere altamente efficace e per questo motivo viene raccomandata dalle linee guida delle maggiori organizzazioni scientifiche mondiali. Gli interventi CBT si basano su protocolli strutturati che devono essere seguiti durante la terapia. Uno dei protocolli più utilizzati e più studiati per il trattamento del Disturbo di Attacchi di Panico è quello messo a punto dal prof. Andrews a Sidney. Questo protocollo si struttura secondo 7 punti (psicoeducazione, monitoraggio del panico, tecniche di gestione dell’ansia, ristrutturazione cognitiva, esposizione graduale alle situazioni, esposizione graduale alle sensazioni fisiche, prevenzione delle ricadute) ed è stato pensato principalmente per il trattamento di gruppo. Tuttavia, come del resto tutti i protocolli, anche questo presenta vantaggi e svantaggi. Ne parliamo con la Dott.ssa Leveni responsabile del Centro per il Trattamento dei Disturbi d’Ansia del DSM di Treviglio Caravaggio (BG) che ha personalmente studiato, applicato ed approfondito questo protocollo.

 

Riguardo al protocollo sviluppato da Andrews, quali sono secondo Lei i Pro e i Contro del trattamento?

 

Un primo aspetto positivo è che si riduce considerevolmente la durata in termini di tempo del trattamento e la fatica in generale. Questo perché c’è una guida, un percorso da seguire, con l’aiuto di un professionista ed inoltre i pazienti sono anche agevolati dal manuale che possono consultare e che li aiuta a fissare nella memoria quanto è stato affrontato durante la seduta. Questa è una cosa molto apprezzata. Un altro aspetto positivo è che anche come terapeuti si è più tranquilli rispetto all’errore. Seguendo il manuale si può tranquillamente applicare la terapia “basic”, che è efficace di per sé. Poi si possono aggiungere altre parti a seconda delle competenze che un terapeuta possiede così il trattamento può apportare anche altri benefici, essere ancora più efficace.

 

Quali sono gli svantaggi di un protocollo simile?

 

Gli svantaggi di questi manuali è che bisogna imparare a personalizzarli, perché c’è il rischio di leggerli in modo un po’ meccanico … del tipo “questa è l’indicazione se una cosa la fai bene, sennò non so che dirti”. Semplificare un po’ troppo, diventare un po’ troppo “comportamentisti”. In altre parole la difficoltà è esplicitare lo stesso concetto a seconda del paziente che si ha davanti. Quando seguo il manuale anche se faccio la stessa cosa, è come se lo riscrivessi per dirla in modo nuovo e significativamente utile per quella persona. È questa un po’ la sfida.”

 

Il protocollo è pensato per una terapia di gruppo. Nella sua esperienza Lei ha avuto l’opportunità di lavorare sia con pazienti in gruppo che con il paziente singolo. Dal suo punto di vista quale dei due interventi è migliore? Anche rispetto al bisogno di personalizzare il trattamento.

 

Alcuni aspetti sovraordinati non possono essere modificati in una condizione di gruppo. Per esempio il rapporto genitore-figlio, in base al quale quella persona ha imparato quel costrutto o quella credenza che non può essere modificata in un contesto di gruppo perché richiede di focalizzarsi su altri concetti di base. Oppure negli Attacchi di Panico la paura per il giudizio altrui, come nella fobia sociale. E’ anche vero che il trattamento viene preparato prima e quindi il clinico, con un minimo di esperienza, riesce a capire come il disturbo si declina in quella persona e, ad esempio, quando interviene nella discussione di gruppo sapendo già che vive quell’aspetto di cui si sta parlando, il clinico cerca di riportarlo al suo caso. Ovviamente non andando troppo in profondità o spaziando troppo, bisogna rimanere aderenti, ma qualcosa si può fare. E’ capitato che alcuni pazienti dopo aver partecipato al gruppo e aver risolto il “corto circuito” per cui erano arrivati, chiedessero dei trattamenti individuali per parlare di problemi che agivano come fattori predisponenti. Il trattamento individuale è un po’ un minestrone c’è un po’ di tutto, l’importante è seguire il canovaccio.”

 

 

References:

 

Andrews G., Creamer M., Crino R., Hunt C., Lampe L., Page A. (2003) Trattamento dei disturbi d’ansia. Guide per il clinico e manuali per chi soffre del disturbo. Edizione italiana a cura di Guidi A., Leveni D., Lussetti M., Morosini L., Piacentini D., Rossi G.

 

www.cetrada.it

Rassegna Stampa: Venerdì 04-11-2011

rassegna stampaNon servono parole: sono emozioni!

La comprensione delle emozioni dipende dalla lingua che parliamo, o la nostra percezione è la stessa indipendentemente dal linguaggio e dalla cultura? Un nuovo studio condotto in Germania dai ricercatori del Max Planck Institute for Evolutionary Anthropology per la psicolinguistica e per l’antropologia evolutiva, conferma la tesi che per comprendere un emozione sul viso di qualcuno non c’è bisogno di avere parole per descriverla. I ricercatori hanno confrontato le capacità di discriminazione delle emozioni di disgusto e rabbia di due gruppi di diversa lingua madre: il tedesco e una lingua maya, parlata da alcuni abitanti della penisola dello yucatan; a questi ultimi manca un vocabolo per descrivere il disgusto. Nonostante questo, durante i compiti sperimentali di riconoscimento e discriminazione delle emozioni di rabbia e disgusto questa emozione è stata comunque correttamente identificata; le due emozioni venivano puntualmente differenziate anche dai parlanti la lingua maya, nonostante nella lingua parlata ci fosse un unica parola per definire entrambi gli stati emotivi.

I risultati dello studio, pubblicati su Emotions, rivista della American Psychological Association, sostengono l’idea che le emozioni si sono evolute come un insieme di meccanismi umani di base, in cui le categorie emozionali come la rabbia e il disgusto esistono indipendentemente dal fatto che ci siano parole adatte a descriverle.

 

Livello di istruizione e incidenza del divorzio.

Una nuova ricerca condotta dal National Centre for Family and Marriage Research mostra che vi è una sostanziale variazione nella percentuale di divorzio quando questa è ripartita per razza e livello di istruzione. Alcuni dati sono addirittura a sostegno del fatto che la laurea avrebbe un effetto protettivo contro il divorzio in tutti i paesi. I risultati rivelano che la riduzione della probabilità di divorzio al primo matrimonio in gran parte riflette un aumento della stabilità coniugale tra i coniugi più istruiti. La correlazione tra livello di istruzione e probabilità di divorzio è curvilinea: i tassi più bassi di divorzio sono associati a coppie con al massimo la licenza media o ai laureati, i tassi più alti riguarderebbero quindi gli individui con diploma superiore ma senza laurea. Per quanto riguarda le etnie sembra invece che siano le coppie asiatiche le più stabili, con un tasso di probabilità di divorzio dell’1%; a seguire le coppie di razza caucasica (1,6%) ed ispanica (1,8%), e infine quelle afroamericane con una probabilità di divorzio al primo matrimonio del 3%. La correlazione tra tasso di divorzio e livello di istruzione si differenzia ulteriormente a seconda dell’etnia: tra le donne afro-americane e quelle ispaniche minori tassi di divorzio sono associati ai livelli di istruzione più bassi. Le donne di razza caucasica invece mostrano poche differenze in relazione ai livelli di istruzione, ma quelle laureate hanno tassi di divorzio più bassi rispetto a qualsiasi altro gruppo.

 

Ipertensione: Come vivere in una chat senza vedere le emoticon :(

secondo uno studio recentemente condotto dal prof McCubbin della Clemson University sembrerebbe che le persone affette da ipertensione abbiano una capacità ridotta di riconoscere le emozioni e discriminare i passaggi di registro nel corso delle comunicazioni con gli altri. “E ‘come vivere in un mondo di e-mail senza faccine sorridenti”, dice McCubbin,”Questo può portare a problemi di comunicazione, a scarse prestazioni sul lavoro e una maggiore disagio psicosociale”. Infatti in situazioni sociali complesse, come ad esempio gli ambienti lavorativi, la gente fa affidamento sulle espressioni facciali, verbali ed emotive per interagire adeguatamente con gli altri; un deficit nel riconoscimento delle emozioni rende difficile la comprensione degli altri durante le interazioni sociali, favorendo un clima di diffidenza nel quale è facile sentirsi minacciati dagli altri, che risultano quantomai imprevedibili. Il legame tra scarsa capacità di riconoscimento emotivo e l’alta pressione può essere responsabile nello sviluppo di patologie come l’ipertensione arteriosa e le malattie coronariche, ma anche avere un ruolo nei disturbi dell’umore, bipolari e depressivi. Ancor più infelicemente sembra che il deficit di riconoscimento delle emozioni si manifesti anche in presenza di emozioni positive, limitando quindi gli effetti benefici delle relazioni affettive felici, delle vacanze e degli svaghi in generale.

Cellule Staminali: nuovo passo avanti, restaurando telomeri.

Stem cell - © Elena Pankova - Fotolia.comL’elisir di lunga vita potrebbe non essere più solamente  un’utopia o un buon argomento per la trama di un film fantasy,  infatti da qualche giorno rimbalza sui quotidiani di tutto il mondo e sulle riviste di settore una notizia che ha dello stupefacente: un gruppo di ricercatori ha individuato la “pozione magica” per garantire l’eterna giovinezza.

Ma veniamo ai dettagli e per farlo partiamo dal 2007 anno in cui il gruppo di ricerca giapponese  guidato dal  dottor Shinya Yamanaka dell’università di Kyoto individuò il metodo per riprogrammare alcune cellule staminali adulte in cellule staminali pluripotenti (iPS) cioè in grado di differenziarsi in quasi tutti i tessuti di un individuo adulto. La “magia” avvenne grazie all’inserimento nel DNA originario di quattro geni chiamati Oct3/4, Sox2, Klf4 e c-Myc  espressi normalmente nelle cellule staminali.

Nonostante la grande scoperta i risultati non furono quelli sperati, infatti il protocollo non portò mai ad un riscontro positivo con cellule di persone anziane, ovviamente le più bisognose di terapie staminali. L’insuccesso sembra da attribuire alla senescenza cellulare, il naturale processo che innesca la morte della cellula (apoptosi) quando questa non è più in grado di duplicarsi correttamente a causa della degradazione della porzione terminale del cromosoma, il telomero.

I telomeri, composti da sequenze ripetute di DNA e da alcune proteine, hanno la funzione di proteggere le terminazioni dei cromosomi impedendone la degradazione progressiva e quindi il rischio di perdita di informazione a cui si andrebbe incontro ogni volta che essi si replicano. Di contro, fungendo da capsula protettiva, tendono a degradarsi loro stessi ogni volta in cui avviene il processo di mitosi (duplicazione cellulare); si pensa quindi che essi agiscano come una sorta di orologio biologico: quando viene raggiunto un numero massimo di mitosi, e la la cellula risulta troppo vecchia per essere mantenuta in vita, prende allora la via dell’apoptosi.

Ed è qui che entra in gioco l’équipe del dottor Jean-Marc Lemaître dell’Istituto di Genomica Funzionale dell’Università di Montepellier. L’innovazione rispetto allo studio giapponese è consistita nell’aggiungere alle cellule adulte, oltre ai quattro geni standard, due nuovi elementi, ovvero i fattori di trascrizione NANOG e LIN28, proteine in grado di legarsi al DNA regolandone l’espressione.

In sintesi i fattori di trascrizione hanno contribuito a restaurare i telomeri, a modificare l’espressione di alcuni geni, e ad abbassare il livello di stress ossidativo promuovendo il funzionamento dei mitocondri (organelli in cui si genera l’energia di cui necessita la cellula per funzionare).

La nuova formula magica ha permesso di cancellare i marcatori dell’età delle cellule creando cellule staminali pluripotenti in grado di produrre cellule funzionali di ogni tipo capaci di proliferare e vivere a lungo, tutto questo partendo da cellule di donatori anziani con un range di età dai 74 ai 101 anni.

Traducendo il tutto in applicazione pratiche questa nuova scoperta permetterebbe un enorme balzo avanti nella cura di malattie neurologiche come le varie demenze, in primis la Malattia di Alzheimer, ma anche Parkinson, diabete, artrosi e molte altre patologie comuni nell’anziano.

Per diventare dei futuri hightlander però bisognerà avere  prima avere una bella dose di pazienza, passare dalla teoria alla pratica iniettando nei pazienti cellule ripotenziate richiede tempi lunghi, le prime applicazioni mediche arriveranno infatti all’incirca fra vent’ anni…nell’attesa procursarsi un buon antirughe.

 

BIBLIOGRAFIA:

 

Your first day of school will be scary!

Parents’ words and anxiety disorders – part 5

Anxiety - © Ilike - Fotolia.comThroughout this series I have explained that parents of anxious children tend to behave in stereotyped ways. In part four of this series, I highlighted the potential impact of fear inducing words on children. This installment will investigate the conversations that mothers have with their children in the context of clinical levels of psychopathology. In doing so, perhaps we can shed some light on the idea of parents communicating, or not communicating, anxiogenic thoughts to their children. To my knowledge only three studies have investigated this question. I will be reviewing the findings from the first two studies in this part of the series, and finishing up the third paper in the next installment.

The first study examined mother-child conversations in the light of sexual, physical and emotional maternal trauma. Although specific words were not investigated in this study and there was no control group, the results are still noteworthy. Dialogues demonstrated maternal difficulty in supporting their children’s exploration of emotional experiences (Koren-Karie, Oppenheim & Getzier-Yosef, 2004). Thus, it appears that in the context of maternal trauma, mothers might be unable to encourage their children’s exploration of their own experiences regarding emotion.

Suveg, Zeman, Flannery-Schroeder and Cassano (2005) extended this avenue of research by examining emotion socialization in families of children with an anxiety disorder. Twenty-six children with an anxiety disorder and 26 non-clinical children between the ages of eight and 12 participated in an emotion interaction task. Parents and children discussed a situation in which the child felt worry, sadness and anger. Each discussion lasted five minutes. The conversations were investigated for the frequency of mother and child use of positive and negative emotion words, the discussion and facilitation of emotion, and the total number of words spoken by the mother and child, together and individually. The results demonstrated that mothers of children with an anxiety disorder spoke less frequently than mothers of control children. Mothers of anxious children also used significantly fewer positive emotion words, and discouraged their children from discussing emotions more than mothers of control children. Mothers and their non-clinical children also displayed higher amounts of emotional expressiveness than mothers and their anxious children.

Therefore, in the context of maternal trauma, it appears that mothers have difficulty encouraging their children’s discussion of emotion. Similarly, compared to non-anxious mother-child groups, the mothers of anxious children speak less and are less positive and more discouraging during emotional discussions. In the next part of this series I will discuss the third study investigating this topic. Interestingly, this study also includes fathers during family discussions.

 

BIBLIOGRAPHY:

  • Koren-Karie, N., Oppenheim, D., & Getzier-Yosef, R. (2004). Mother who were severely abused during childhood and their children talk about emotions: Co-construction of narratives in light of maternal trauma. Infant Mental Heath Journal, 25, 4, 300 – 317.
  • Suveg, C., Zeman, J., Flannery-Schroeder, E., & Cassano, M. (2005). Emotional socialization in families of children with and anxiety disorders. Journal of Abnormal Child Psychology, 33, 2, 145 – 155.

Psicologia Ambientale

environmental_psychology© rolffimages - Fotolia.comNata all’inizio degli anni Settanta, la psicologia ambientale è una disciplina relativamente giovane che abbraccia diverse prospettive ed aree di ricerca, accomunate dall’interesse per il rapporto tra le persone e il rispettivo entourage socio-fisico.

Per coloro che ricercano in questo campo, il termine “ambiente” fa riferimento sia ad ambienti costruiti, come case, scuole, uffici e strade, che a quelli naturali, come parchi e territori selvaggi. In entrambi i casi, però, l’ambiente è un fattore critico e non viene considerato come un semplice sfondo o come un palco sul quale gli individui si muovono ed interagiscono. Per esempio, scrivono David Uzzell e Gabriel Moser, non è possibile capire l’architettura e la configurazione spaziale di una chiesa, di una moschea o di una sinagoga senza far riferimento ai relativi precetti liturgici che, inevitabilmente, influenzano i vari design, così come non è possibile capire nessun paesaggio senza far riferimento ai differenti sistemi sociali, economici e politici e alle ideologie che li fanno comprendere.

Poiché l’ambiente ha delle ripercussioni concrete sulle vite degli individui, cosa che conduce alla produzione di significati, la prospettiva adottata esalta gli aspetti transazionali del medesimo. Inoltre, esso incarna le psicologie di coloro che vi risiedono, non solo perché conferisce significati ed identità, ma anche perché consente di determinare le persone da un punto di vista culturale, sociale ed economico.

Dato il suo oggetto di indagine, la psicologia ambientale è stata principalmente una psicologia dello spazio, tuttavia, in tempi più recenti, gli studiosi di questo settore hanno esteso le loro analisi anche alle comunità e alle problematiche ad esse connesse. In questo contesto sono rilevanti gli studi sulla sostenibilità che cercano di promuovere i comportamenti ecologici, nonché una gestione consapevole (ovvero intenzionalmente attenta) delle risorse naturali.

Attualmente, in Italia la psicologia ambientale è ancora poco conosciuta e rimane confinata in piccoli centri (il principale ha sede a Roma) che operano a livello internazionale. Tuttavia, l’attenzione agli aspetti multidisciplinari e la rilevanza dei temi trattati dovrebbero portare ad una maggiore considerazione ed ad un ampio sviluppo in un prossimo futuro.

 

BIBLIOGRAFIA:

  • Baroni, M. R. (2008). Psicologia ambientale. Il Mulino, Bologna.
  • Koger, S. M., Winter, D. D. (2010). The Psychology of Environmental Problems: Psychology for Sustainability. Psychology Press, New York.
  • Moser, G., Uzzell, D. (2003). Environmental Pychology. In: T. Million, M. J. Lerner (Eds.), “Comprehensive handbook of psychology” (Vol. 5, pp. 419-45), Personality and Social Psychology, John Wiley & Sons, New York.

NEURO-PSICOTERAPEUTI: la naturale evoluzione?

Neuroscienze e psicoterapia tra sacro e profano

Neuroscienze - © Ben Chams - Fotolia.com“Un’importante differenza tra chi pensa che l’intelligenza sia flessibile e chi pensa che sia cristallizzata sta nel modo in cui reagiscono agli errori!”, sostiene Jason S. Moser dell’Università del Michigan.

In altre parole chi pensa di poter imparare dai propri errori avrebbe un’attivazione neurale differente, rispetto a chi pensa che l’intelligenza sia fissa e immodificabile, questo quello che l’autore pubblicherà sul prossimo numero di Psychological Science.

In questo periodo di timori che la macchina delle neuroscienze investa mortalmente le psicoterapie ad una velocità sfrenata (per quanto cognitive siano!), mi colpisce l’esito di questa ricerca che sembra riportare l’attenzione sul legame tra attivazione neurale e credenze disfunzionali, a favore di un intervento su queste ultime, inequivocabile campo d’azione di noi psicoterapeuti.

Numerosi studi hanno evidenziato che le credenze principali di chi pensa che l’intelligenza sia flessibile siano “Quando le cose diventano difficili, mi impegno di più per affrontarle!”, “Se commetto errori, cerco di imparare e risolvere la situazione”. Al contrario, le persone che pensano di non poter fare meglio non credono che si possa imparare dai propri errori.

L’esperimento condotto da Moser e colleghi, prevede l’utilizzo di un compito in cui sia molto facile commettere errori: è richiesto ai partecipanti di identificare la lettera centrale in una stringa di 5 lettere (ed es: “MMMMM” oppure “NNMNN”), mentre viene registrata in continuum la loro attività neurale. I ricercatori parlano di due segnali differenti che il cervello invia quando viene commesso un errore: un primo segnale che chiamano “oh crap response” – che indicherebbe (chiarissimamente!) che qualcosa sta andando storto – e un secondo segnale legato ad una elaborazione più consapevole dell’errore, subito seguita dal tentativo di rimediare. Entrambi gli eventi si verificherebbero entro un quarto di secondo dall’errore!

Dall’attività registrata i ricercatori si propongono di prevedere quali soggetti siano più inclini a pensare di poter imparare dagli errori e quali no.

I risultati hanno mostrato come i soggetti con attitudine ad imparare dagli errori, migliorino la loro performance a seguito dello sbaglio – in altre parole, l’attività corticale si riduce più rapidamente dopo la “oh crap’ response” – e mostrano invece un secondo segnale maggiore rispetto ai soggetti meno inclini ad imparare dagli errori, che sembra legato, secondo Moser, ad un pensiero del tipo “Mi sono accorto di aver fatto un errore, ora farò più attenzione!”. Le conclusioni degli autori confermano che Il cervello di chi pensa di poter imparare dai propri sbagli è sintonizzato su una maggiore attenzione agli errori e quindi più capace di migliorare. I ricercatori propongono infine la possibilità di “allenare” le persone alla credenza che possano lavorare più duramente e imparare di più, mostrando loro come il loro cervello possa reagire agli errori.

Più che i risultati in sé, per i quali attendiamo la pubblicazione ufficiale sulla rivista, l’aspetto che può risultare illuminante per gli psicoterapeuti è la possibilità introdurre nella pratica clinica metodologie e strumenti che possano misurare l’impatto delle nuove credenze modificate in terapia non solo attraverso la nostra valutazione clinica, ma perché no, anche attraverso la misurazione dell’attività cerebrale!

Senza bisogno di diventare freddi cyber-psicologi in un futuro alla Philip K. Dick, credo sarebbe utile rispondere alla velocità con cui lavorano le neuroscienze, iniziando a guardare con una maggiore curiosità e minor timore all’introduzione di nuove tecniche nell’assessment e nei follow up delle nostre terapie.

Non vorrei mai che ci affezionassimo troppo al setting terapeutico tradizionale!

 

BIBLIOGRAFIA:


Rassegna Stampa: Mercoledì 02-11-2011

 

rassegna stampaBambini, working memory e il supporto genitoriale.

Il buon funzionamento della memoria di lavoro, quella che permette di conservare temporaneamente le informazioni utili allo svolgimento di un compito, è fondamentale nel problem solving e nell’apprendimento. un ampio studio in via di pubblicazione su Development and Psychopathology rivela che lo stress cronico elevato,provocato da situazioni di estrema povertà, favorisce deficit in questo tipo di memoria nei bambini. la responsività materna si è rivelata essere cruciale nel limitare gli effetti dello stress sul sistema mnestico, questa è misura della capacità del genitore di cooperare, aiutare il figlio, di adattarsi ai suoi stati d’animo a alle sue inclinazioni, ma anche di quanto un bambino si sente aiutato dal genitore o quanto questo si è mostrato disponibile a parlare e a fornire consigli quando necessario. il poter contare su un genitore attento e sensibile sembra essere un fattore protettivo potente, in grado di limitare significativamente gli effetti degli stressors ambientali sulla memoria di lavoro.

 

The face of love! Espressioni accomodanti e regolazione della tensione sociale.

Un interessante studio condotto da due ricercatori olandesi, sulla regolazione spontanea delle emozioni sociali si è occupata di stabilire se l’arrendevolezza, intesa come la tendenza a inibire consapevolmente una reazione negativa in risposta al comportamento aggressivo, può manifestarsi anche spontaneamente e in quali condizioni. durante i protocolli sperimentali i partecipanti alla ricerca hanno sorriso spontaneamente quando veniva mostrata la faccia arrabbiata del partner; i visi arrabbiati di sconosciuti invece venivano imitati, suscitando una spontanea reazione di disapprovazione. il livello di vicinanza interpersonale si è quindi rivelato un fattore importante nel promuovere il comportamento in esame, ma anche stili relazionali tipici dei partecipanti allo studio sembrano essere mediatori importanti: infatti le persone che si percepiscono parte della comunità, e tendono a percepire gli scambi interpersonali in modo collaborativo, mostrano spontaneamente maggiore mitezza e arrendevolezza nelle relazioni con gli altri, diversamente da quanto avviene in coloro che vivono le relazioni in termini di “do ut des”, cioè in modo maggiormente utilitaristico.


Zen or Revolution? Accettiamo ciò che è inevitabile, ma ci ribelliamo se si intravede una via d’uscita

Gli autori di un nuovo studio, che sarà pubblicato in un prossimo numero di Psychological Science, hanno indagato il perché le persone rispondono diversamente all’imposizione di regole e limiti. Da cosa dipende l’accettazione e il rispetto di una regola o di un limite? Perché a volte siamo disposti ad accettare una restrizione e altre lottiamo e protestiamo perché si giunga a una rettifica? La risposta sembra essere nella rigidità e immodificabilità della restrizione stessa. quando una regola viene percepita come immutabile, granitica, inevitabile, è più facile che venga accettata, cioè, se proprio dobbiamo convivere con una restrizione, meglio farla nostra che combatterla; quando  invece capiamo che una regola imposta non è definitiva ci riesce difficile accettarne i limiti, in questo caso trasgredire e lottare per un cambiamento dello status quo è una possibilità percorribile e non una perdita di tempo ed energia. Questo processo è responsabile inoltre della ristrutturazione cognitiva che investe anche i giudizi personali sulla positività o negatività della restrizione subita: ciò che è inevitabile finisce addirittura per essere considerato una buona idea!


Felicità = Salute?

Nell’ambito dello studio longitudinale inglese sull’invecchiamento  I ricercatori Andrew Steptoe e Jane Wardle hanno esaminato i dati raccolti in un un unico giorno, considerato una giornata tipo. A un gruppo di quasi 4000 persone, di età compresa tra i 50 e gli 80 anni, è stato chiesto fino a che punto si sentivano felici, eccitati, soddisfatti, preoccupati, ansiosi e timorosi su una scala da 1 a 4 e  in diversi momenti della giornata. Le misure di felicità, eccitazione e soddisfazione sono state combinate per ottenere il punteggio di buon umore, mentre le misure di preoccupazione, ansia e paura quelle di cattivo umore. a questo punto i partecipanti sono stati suddivisi in tre gruppi a seconda del loro quoziente di buon umore; a distanza di 5 anni i ricercatori hanno voluto verificare il tasso di mortalità del campione e confrontarlo con i punteggi di buon e cattivo umore ottenuti: la relazione inversa tra il punteggio di buon umore e il tasso di mortalità è stata così evidente da aver addirittura impressionato i ricercatori che hanno concluso affermando che la ricerca della felicità ha effetti diretti e incontestabili sulla salute fisica.


 

Craving – Pensiero Desiderante

Psicopedia - Proprietà di State of MindIl craving è descritto come un’esperienza soggettiva che motiva gli individui a cercare e raggiungere un oggetto o praticare un’attività (target) allo scopo di ottenere certi effetti (Marlatt, 1987). Per molti autori è considerato il cuore delle dipendenze patologiche e il processo nucleare che guida verso la perdita di controllo del proprio comportamento. Per queste ragioni è considerato un oggetto d’intervento chiave nel trattamento delle dipendenze patologiche (Kavanagh, Andrade & May, 2004).

Una domanda che resta aperta è: qual è il funzionamento cognitivo che alimenta o sostiene questa sensazione di desiderio e impulso incontrollabile (craving)? Recentemente alcuni studi hanno esplorato il modo in cui individui con disturbi da dipendenze patologiche e controllo degli impulsi pensano agli oggetti del proprio desiderio e hanno individuato uno stile di pensiero con specifiche caratteristiche. Il pensiero desiderante, questo è il suo nome tecnico, è una forma di elaborazione cognitiva volontaria di informazioni riguardanti oggetti e attività piacevoli e positive che avviene a due livelli interagenti (Caselli & Spada, 2010):

Verbal Perseveration: pensieri ripetitivi e automotivanti circa il bisogno di ottenere l’oggetto o di svolgere l’attività (es: devo farlo al più presto, ho bisogno di un bicchiere, devo provare a usare quella macchinetta)

Imaginal Prefiguration: immagini mentali multisensoriali dell’oggetto o attività desiderata e del contesto in cui l’individuo lo può realizzare o lo ha realizzato in passato (es: immagino il sapore del fumo nella bocca, mi immagino tutto ciò che ho dentro al frigorifero).

Gli studi preliminari non solo mostrano che il pensiero desiderante risulta un eccessivo in molti individui con problemi di controllo degli impulsi, ma sostengono che abbia caratteristiche trasversali e indipendenti dalla natura dell’oggetto del desiderio (cibo, alcool, fumo, gioco d’azzardo, attività sessuale ecc…). Questi risultati suggeriscono che certe modalità di usare il pensiero rispetto ai nostri desideri (quelle appunto identificate dal pensiero desiderante) possono influire sull’intensità dei nostri impulsi e sulle nostre capacità di autocontrollo.

 

BIBLIOGRAFIA:

  • Caselli, G., & Spada, M.M. (2010). Metacognition in Desire Thinking: A Preliminary Investigation. Behavioural and Cognitive Psychotherapy, 38, 629-637.
  • Kavanagh, D.J., Andrade, J, & May, J. (2004). Beating the urge: Implications of research into substance-related desires. Addictive Behaviors, 29, 1399-1372.
  • Marlatt, G.A. (1987). Craving notes. British Journal of Addiction, 82, 42-43.

 

Ansia

Psicopedia - Proprietà di State of Mind

Emozione caratterizzata da sensazioni di tensione, minaccia, preoccupazioni e modificazioni fisiche, come aumento della pressione sanguigna.
Le persone con Disturbi d’Ansia solitamente presentano pensieri ricorrenti e preoccupazioni. Inoltre, possono evitare alcune situazioni come tentativo di gestire (o non affrontare) le preoccupazioni. I sintomi fisici dell’ansia più frequenti sono sudorazione, tremolio, tachicardia e vertigini/capogiri.
voce adattata da: APA’s Encyclopedia of Psychology.

 

La rappresentazione della Psicosi in Roman Polanski: L’inquilino del terzo piano (1976)

L’inquilino del terzo piano di Roman Polanski: sull’onda di ciò che è stato detto e scritto riguardo a Carnage, certamente un film straordinario, vorrei parlarvi di un altro film dello stesso regista, pardon dello stesso Maestro, che affronta il tema della malattia mentale in modo quantomai chirurgico e sconvolgente.

Si tratta de L’inquilino del terzo piano, che insieme a “Repulsion” e a “Rosemary’s baby” completa la trilogia dedicata da Polanski al lato oscuro, ai meandri orrorifici della mente umana, sebbene gran parte della sua produzione possa a mio avviso ricondursi ad inquietudini sottili e morbose che l’essere umano sperimenta nella propria esperienza.

L’inquilino del terzo piano inizia e termina con la stessa scena, un paio di occhi che spuntano da un corpo quasi interamente bendato e ingessato. E l’urlo di chi riconosce il proprio carnefice ma non può indicarlo. Nella prima scena il letto d’ospedale è occupato da una ragazza, l’inquilina del terzo piano precedente all’arrivo di Roman Polanski – il regista dà il volto al proprio personaggio – che precipitando da una finestra in circostanze incomprensibili lascia la vita e l’appartamento. Polanski va a trovarla in ospedale, un’impeccabile visita di cortesia che il film ci suggerisce essere l’incontro tra un assassino e la sua vittima. Agli antipodi del film, quando cala il sipario, è Polanski a giacere immobile sul letto dopo essersi buttato per due volte dalla finestra maledetta ed è… Polanski ad osservare gli occhi che urlano.

 

La psicosi ne L’inquilino del terzo piano

Tra i due fotogrammi, una pellicola che illustra il processo dello scompenso psicotico con una straordinaria raffinatezza concettuale unita ad una potenza visiva a tratti difficile da sopportare. Polanski, il suo personaggio, che non sappiamo quanto sia distante dal padre artistico data la sconcertante precisione di ogni dettaglio e l’interpretazione a dir poco diabolica, si insedia nell’appartamento e inizia un progressivo ritiro nella follia: allucinazioni e deliri sono dapprima accennati allo spettatore sotto forma di piccoli dubbi, impercettibili perdite di controllo dinanzi ad un ambiente che sembra modificarsi per ragioni che il protagonista non comprende, poi prende forma sempre più consistente il ruolo dei vicini, irritati per i rumori sempre più intollerabili che provengono dall’appartamento del terzo piano.

Sono i rumori della follia, di Polanski, barricato in casa per sventare l’attacco dei persecutori che si moltiplicano; nulla è sufficiente, nemmeno trascinare i mobili contro la porta e rifugiarsi negli angoli più remoti della psiche. Gli occhi iniettati d’odio dei nemici entrano dappertutto e il protagonista può solo fuggire in un baratro sempre più profondo. La disperazione diventa quasi satanica e si avventa sull’identità sessuale del protagonista, Polanski inizia a travestirsi, a truccarsi e osserva con sanguigno compiacimento la propria opera notturna mentre la compie. Il risveglio, nelle vesti di una signora allo sbando, è terrificante e incomprensibile. Nella sua vestaglia l’uomo si trascina alla finestra, aprendola per l’ultimo rimedio. L’impatto è tremendo ma non fatale, Polanski si rialza con le poche ossa che possiamo immaginare siano rimaste sane e risale le scale davanti allo sguardo attonito dei vicini. Il secondo schianto, pochi istanti dopo, lo ridurrà sul letto d’ospedale ad osservare la propria agonia.

Si è rimproverato a molti film sulla patologia mentale di non essere realistici, di non trattare il tema con la dovuta accuratezza concettuale. L’inquilino del terzo piano va oltre il valore di una pellicola ben fatta, perché descrive i passaggi clinici di una patologia psichiatrica ma non li pone al centro della vicenda in modo didattico; si serve in primo luogo della pazienza narrativa, senza rifilare alla platea la figura immediata e grezza del matto Napoleone-dipendente. La mente folle è una mente travolta da emozioni insopportabili, da occhi che si infilano dappertutto, come il dolore che al contempo percepisce. E la realtà normale diventa nel film una delle diverse realtà possibili; bastano alcuni oggetti fuori posto, alcuni sguardi strani a modificarla di un frammento, generando nel protagonista un malessere al quale egli riesce ad attribuire significato solo elaborando un delirio.

Come spettatori del film e come addetti ai lavori della salute mentale assistiamo alla medesima scena, la sottile perdita di controllo di una diade spirito-materia che non si riconosce più. La mia seconda visione del film di Polanski, nel minuscolo e buio cinema Azzurro Scipioni – storica sala romana di cinema e di cultura in cui mi sono ritrovato in totale solitudine durante la proiezione – è stata qualcosa che Freud avrebbe incluso nel concetto di perturbante. Ma poiché siamo cognitivisti basterà il commento di un collega entrato nel cinema a pochi minuti dall’epilogo:

“L’ho visto un sacco di volte e ogni volta mi mette la stessa paura”.

 

L’inquilino del terzo piano (1976) di Roman Polanski, TRAILER:

Se mi lasci ti cancello: dalla fantacommedia alla realtà.

Memory - © marek_usz - Fotolia.comIl film di Michel Gondry Eternal sunshine of the spotless mind – Se mi lasci ti cancello (2004) potrebbe oggi rappresentare non più uno scenario fantascientifico per psicologi e visionari, ma una meta sempre più raggiungibile.

Un gruppo di neuroscienziati dell’Università di New York, guidati da Cristina Alberini, ha scoperto il meccanismo che sta alla base del consolidamento di specifici ricordi. L’applicazione clinica di questo meccanismo potrebbe essere, da un lato il rafforzare la memoria quando a causa di malattie degenerative, come ad esempio la demenza, va a deteriorarsi, e dall’altro il cancellare le memorie di eventi traumatici quali abusi, esperienze di guerra, incidenti, andando trasversalmente ad inibire lo sviluppo di un secondario disturbo post traumatico da stress.

Nel corso della VII Conferenza “The Future of Science” tenutasi a Venezia, la neuroscienziata presenta i dati di questo studio, finora condotto solo sui topi: ”Perché una memoria diventi a lungo termine – spiega – serve un certo livello emotivo, di stress ed eccitazione”. Tuttavia, se lo stress diventa troppo elevato, “si crea un deficit, si interrompe il processo di apprendimento e il ricordo non si consolida”. Alcune memorie, come quelle negative associate alla paura, sono ”legate al rilascio di ormoni, quali il cortisolo e l’adrenalina. Noi abbiamo visto – precisa – che si può intervenire per ridurre una memoria negativa, ad esempio legata al disturbo post-traumatico da stress o alla dipendenza da droghe, o invece aumentarla, nel caso ci si trovi a che fare con il decadimento indotto da demenze”.

La neuroscienziata parla di una specifica finestra temporale in cui è possibile intervenire con alcuni farmaci, da un lato bloccando i recettori del cortisolo facendo diminuire la nitidezza del ricordo nel caso di eventi negativi, dall’altro aggiungendo il fattore di crescita insuline growfactor 2 (IGF2), quando si vuole rafforzare il consolidamento del ricordo. Infatti dopo il verificarsi di un evento, vi è un lasso di tempo in cui è possibile agire farmacologicamente sul suo fissaggio sfruttando nella memoria. Solo successivamente avviene il consolidamento del ricordo. Dopo questa prima sperimentazione sui topi, i ricercatori verificheranno l’eventuale tossicità di questa procedura e proseguiranno gli studi sui primati non umani.

 

BIBLIOGRAFIA:

  • Chen, D.Y., Stern, S. A., Garcia-Osta, A., Saunier-Rebori, B., Pollonini, G., Bambah-Mukku, D., Blitzer, R. D. & Alberini, C. M. (2011). A critical role for IGF-II in memory consolidation and enhancement. Nature, 469, 491–497.

Telefoniamoci… e la nostra autostima cresce

Sabrina Cattaneo, Virna Graffeo.

Telephone - © Tomasz Wojnarowicz - Fotolia.comInternet, gli smartphone e i nuovi media operano un’influenza sempre crescente su alcuni processi psicologici quali lo sviluppo dell’identità, l’autostima, i comportamenti aggressivi; inoltre, in quest’epoca multimediale, sono cambiate molto le modalità con cui ci relazioniamo agli altri, sia in famiglia che nella società. Di questo tratta  la cyberpsicologia che si occupa di indagare le interazioni tra individui e ambienti profondamente pervasi dalla tecnologia e di studiare il nostro comportamento in relazione ai nuovi media.

Studiando l’effetto delle nuove tecnologie sugli adolescenti, alcuni autori (Ling, 2007; Stald, 2008) hanno osservato come l’uso del cellulare sembri influenzare in modo determinante lo sviluppo della loro identità tanto da parlare di “mobile identity”. Tale espressione infatti, non solo sottolinea l’influenza dei nuovi supporti tecnologici sullo sviluppo dell’identità, ma evidenzia anche la “fluidità” di tale costrutto che cambia da momento a momento e che vede gli adolescenti costantemente impegnati nel negoziare la propria immagine.

Le nuove tecnologie inoltre assumono  un significato sociale in quanto permettono ai ragazzi di sperimentare nella condivisione dei valori e delle norme proprie del loro gruppo sociale diventando così importanti mediatori di significati ed emozioni.

Questa importante funzione mediatrice emerge anche all’interno delle relazioni familiari. Weisskirch (2011) ha voluto indagare come l’uso del telefono cellulare influenzi le relazioni tra genitori e figli adolescenti. Studiare le diverse motivazioni che spingono genitori e adolescenti a comunicare è importante per comprendere la natura delle chiamate, i genitori infatti telefonano ai figli soprattutto per monitorare le loro attività, viceversa gli adolescenti sono più motivati dal bisogno di ottenere un “supporto sociale” inteso come ricerca di un consiglio, sostegno a fronte di vissuti emotivi negativi quali rabbia e paura o condivisione di momenti di gioia.

Da questo studio emerge che la frequenza con cui gli adolescenti chiamano per cercare supporto sociale dai genitori è un buon predittore di una migliore autostima nei ragazzi, al contrario, le chiamate che i figli ricevono da genitori turbati o arrabbiati sembrano predire negli adolescenti livelli di autostima più bassi.

Prendendo invece in considerazione l’autostima dei genitori la ricerca evidenzia come questa sia correlata positivamente a due tipologie di comunicazioni: da un lato quelle dei figli che chiamano o inviano messaggi per informare su dove si trovano o su cambi di programmi, o per chiedere il permesso di fare qualcosa e dell’altro quelle dei genitori stessi che usano il telefono per monitorare l’andamento scolastico e seguire i figli nei compiti. Viceversa, l’autostima dei genitori sembra calare notevolmente se i figli chiamano perché emotivamente turbati o in preda a emozioni negative quali rabbia o paura.

Le tipologie di chiamate così delineate sembrano essere correlate all’affermazione o negazione dell’identità genitoriale in quanto rispondere alle domande dei figli e interessarsi degli aspetti scolastici riflette l’immagine di un genitore che assolve al proprio ruolo e ai propri compiti, il che ovviamene incrementa l’autostima.

Alla luce di ciò sarebbe meglio evitare di chiamare i figli quando si è alterati o turbati, mentre ricevere una telefonata del figlio che chiede sostegno in un momento di difficoltà emotiva, rappresenta un segnale positivo in quanto offre una buona occasione per aiutare l’adolescente nella sua gestione emotiva, uno dei compiti fondamentali di un genitore.

 

BIBLIOGRAFIA:

  • Ling, R. (2007). Children, youth and mobile communication. Journal of Children and Media, 1(1), 60 – 67.
  • Stald, G. (2008) Mobile Identity: Youth, Identity, and Mobile Communication Media. Youth, Identity, and Digital Media, 143–164.
  • Weisskirch, R. (2011) No Crossed Wires: Cell Phone Communication in Parent-Adolescent Relationships. Cyberpsychology, Behavior, and Social Networking, 14, 447 – 451.

Le esperienze di rottura nel terapeuta e nel paziente

Terapia - © Lisa F. Young - Fotolia.comLa rivista della SPR (Society for Psychotherapy Research) di settembre ha pubblicato uno studio qualitativo molto interessante sulle rotture dell’alleanza terapeutica. Le rotture dell’alleanza terapeutica sono state definite come “momenti di tensione o breakdown nell’alleanza tra il terapeuta e il paziente, che generano emozioni intense negative” (Safran & Muran, 2000). In questa ricerca, Jeremy Safran con alcuni colleghi americani della University of Maryland e altri portoghesi dell’Universidade do Minho di Braga ha indagato le esperienze di rottura dell’alleanza terapeutica, sia dal punto di vista dei terapeuti che da quello dei propri pazienti, avvenute nelle prime quindici sedute di otto differenti psicoterapie con pazienti con disturbi di personalità (tre pazienti con diagnosi di Disturbo Borderline, due Disturbo Istrionico, un Disturbo Evitante, un Disturbo Paranoide e uno Ossessivo).

I ricercatori hanno preso in considerazione due tipi di rottura dell’alleanza: la withdrawal (WD – in cui il paziente si “allontana” dal terapeuta, tramite risposte corte e minime oppure spostando il focus della risposta verso un tema diverso da quello della domanda) e la confrontation (CF – in cui il paziente “attacca” il terapeuta, esprimendo rabbia o insoddisfazione nei suoi confronti).

Tutte le sedute sono state videoregistrate e valutate tramite il Rupture Resolution Rating System (Eubanks-Carter et al., 2009). Alcuni giorni dopo che una rottura dell’alleanza era stata rilevata dalle registrazioni, sia il paziente sia il terapeuta vengono intervistati (separatamente) in merito ai seguenti argomenti: cause della rottura, evoluzione conseguente all’interno della relazione terapeutica, impatto sulla terapia e esperienza emotiva durante la rottura. Le interviste sono state valutate da cinque “giudici” differenti, utilizzando il metodo qualitativo CQR (Hill, 2011).

Dall’analisi delle interviste dei terapeuti emerge che le cause delle rotture sarebbero da attribuire alla presenza di “un precedente” (“era già successo, allo stesso modo”), a eventi di vita del paziente e alle caratteristiche di personalità del singolo paziente (che lo portano a “preferire” una modalità piuttosto che un’altra di espressione conseguente alla rottura). In particolare, i terapeuti che hanno avuto più rotture WD hanno attribuito la rottura a difficoltà del paziente a processare e a esprimere le emozioni negative e nell’affermazione di sé. I terapeuti hanno riferito di essersi sentiti confusi, ambivalenti, colpevoli o incompetenti (in particolare di fronte a rotture “d’attacco” come le CF). Sembra che i terapeuti, una volta avvenuta e riconosciuta la rottura, abbiamo modificato la propria strategia terapeutica, optando per interventi di validazione emotiva, di comprensione dell’esperienza del paziente “nel momento presente” e di promozione dell’insight nel paziente dei propri pattern interpersonali. In merito alle credenze riguardanti l’impatto che la rottura ha avuto sul paziente, sono emerse alcune differenze tra i terapeuti che hanno avuto più rotture WD o più rotture CF: i terapeuti della prima categoria hanno ritenuto che i loro pazienti abbiamo integrato nella propria esperienza l’evento di rottura come un normale momento di difficoltà relazionale, nonostante abbiamo concluso la seduta sentendosi a disagio; i terapeuti “più inclini” alle rotture CF, hanno ritenuto invece che i loro pazienti abbiamo concluso la seduta sentendosi invalidati e/o rifiutati.

Ora veniamo ai risultati raccolti con le interviste dei pazienti. Non sembrano emergere categorie chiare in merito alle risposte date sulla loro esperienza di rottura dell’alleanza. Ciononostante, i pazienti che hanno vissuto maggiori rotture WD, hanno descritto l’esperienza come un momento molto poco soddisfacente, già accaduto in passato nella stessa terapia, causato da eventi personali accaduti negli stessi giorni con un familiare o un amico. I pazienti hanno riferito di essersi sentiti tristi, confusi e ambivalenti e di aver provato sensazioni di helplessness (“ero così triste che non c’era niente che il terapeuta avesse potuto dire in quel momento”). Per quanto riguarda, invece, le rotture CF, i pazienti hanno riferito di essersi sentiti abbandonati o criticati dal terapeuta, contrariamente ai pazienti che hanno vissuto maggiori rotture WD, i quali hanno riferito di essersi sentiti disperati o angosciati (“avevo paura di perdere il controllo”). In merito alla valutazione dell’intervento del terapeuta, i pazienti hanno riferito che, nei casi di rotture WD, non hanno tratto alcun beneficio dall’intervento del terapeuta e che non avevano alcuna aspettativa rispetto all’agire del terapeuta in quel momento. Nei casi di rotture CF, invece, i pazienti hanno riferito di essersi aspettati che il terapeuta cambiasse strategia e facesse qualcosa di diverso. La stessa aspettativa del paziente, probabilmente, ha influenzato l’agire terapeutico del momento. Rispetto all’impatto delle rotture sulla terapia, nel caso delle rotture CF, i pazienti hanno riferito un impatto negativo, che ha portato anche a casi di drop-out. Nel caso delle rotture WD, invece, i pazienti hanno riferito di aver concluso la seduta sentendosi vulnerabili, nervosi, stanchi o scoraggiati. Al contrario, le rotture CF hanno suscitato nei pazienti emozioni di rabbia e disapprovazione nei confronti del terapeuta.

Il risultato interessante riguarda l’impatto che le esperienze di rottura hanno avuto nei pazienti. Quelli che hanno vissuto maggiori rotture di tipo WD non hanno riferito alcun cambiamento significativo nel proprio processo terapeutico. Dalla ricerca sembra non emergere in modo chiaro se anche i pazienti che hanno esperito maggiori rotture CF non abbiamo riportato alcun cambiamento nel processo terapeutico.

Probabilmente a causa del numero relativamente esiguo di soggetti, gli autori non hanno preso in considerazione la eventuale prevalenza di un tipo di rottura in relazione alla diagnosi del paziente che le ha esperite. Sarebbe, comunque, interessante riflettere e discutere su come (e se) i tratti di personalità influenzino le “preferenze” dei pazienti verso una modalità di reazione alla rottura dell’alleanza piuttosto che un’altra.

Nonostante molteplici dati emersi da questa ricerca, l’aspetto più interessante risiede nel fatto che, sebbene l’alleanza terapeutica sia un tema studiato e approfondito in letteratura (nonché, a parere di chi scrive, molto affascinante), per la prima volta vengono confrontati i vissuti del terapeuta e del paziente durante questi intensi momenti relazionali. Tale approccio potrebbe fungere da trampolino di lancio per approfondire ancora di più la comprensione dell’alleanza terapeutica, delle sue débâcle e dei molteplici punti da cui si può osservare.

 

BIBLIOGRAFIA:

  • Coutinho J., Ribeiro E., Hill C & Safran J. (2011). Therapists’ and clients’ experiences of alliance ruptures: A qualitative study. Psychotherapy Research. 12(5): p. 525-540.
  • Eubanks-Carter, C., Mitchell, A., Muran, J.C. & Safran, J.D. (2009). Rupture resolution rating system (3RS): Manual. Unpublished manuscript.
  • Hill, C.E. (Ed.) (2011). Consensual qualitative research: A practical resource for investigating social science phenomena. Washington DC: American Psychological Association.
  • Safran, J.D., & Muran, J.C. (2000). Negotiating the therapeutic alliance: A relational treatment guide. New York, NY: Guilford.

Il Cristo nero in Padania e Barbalbero in Emilia

Cristo_Morado - Licenza d'uso: Creative Commons - Proprietario: http://www.flickr.com/photos/congresoperu/Il Signore dei Miracoli, il Cristo di Pachacamilla, il Cristo viola, il Cristo delle Meraviglie, il Cristo bruno e il Signore dei terremoti (Señor de los Milagros, Cristo de Pachacamilla, Cristo Morado, Cristo de las Maravillas, Cristo Moreno e Señor de los Temblores) è stato celebrato domenica a Milano da quattromila peruviani in una festa sacra con una messa e una processione in piazza del Cannone, al Castello.

Il Cristo viola è il patrono del Perù, e da quest’anno è celebrato anche dalla comunità peruviana milanese. L’immagine originale del Cristo viola e bruno fu dipinta in Perù nell’anno 1651 da uno schiavo nero deportato dall’Angola. Ed è giusto che il Cristo nero venga adorato anche a Milano, che è la città più mescolata d’Italia. Questo Cristo così intenso e brunito potrebbe muovere qualcosa nel cuore mediterraneo dei tanti milanesi arrivati qui dal sud, e negli stessi milanesi che da sempre oscillano tra vocazione europea e radice italiana…. CONTINUA A LEGGERE SU AFFARI ITALIANI

Dimmi se ti disgusta e ti dirò chi voti.

Disgust-© snaptitude - Fotolia.comNonostante alla gente piaccia credere che le proprie convinzioni siano frutto di una scelta puramente razionale, un crescente corpo di ricerca ha trovato un’associazione tra le scelte politiche e le risposte neurofisiologiche di fronte a determinati stimoli.

I risultati della scoperta provengono da un recente studio effettuato su persone sottoposte alla visione di immagini raccapriccianti ad esempio, l’immagine di un uomo che sta mangiando dei vermi. I soggetti che si erano dichiarati come politicamente conservatori, hanno reagito con un disgusto particolarmente profondo, soprattutto coloro che avevano espresso la propria opposizione al matrimonio tra coppie gay.

Lo studio suggerisce che le predisposizioni neurofisiologiche delle persone contribuiscono a modellare i loro orientamenti politici, hanno dichiarato i ricercatori Kevin Smith e John Hibbing della University of Nebraska-Lincoln. Secondo gli autori quindi, la reazione istintiva e soggettiva del disgusto profondo ha probabilmente anche un effetto sulle convinzioni razionali senza che vi sia consapevolezza della sua influenza.

Figure 1 - Licenza d'uso: Creative Commons - Retrievable from: "Disgust Sensitivity and the Neurophysiology of Left-Right Political Orientations" - http://www.plosone.org/article/info%3Adoi%2F10.1371%2Fjournal.pone.0025552
Sopra: un esempio del tipo di immagine disgustosa mostrata ai partecipanti al test. Sotto: le differenze nella risposta di disgusto tra i sostenitori (a sinistra) e i contrari (a destra) al matrimonio gay. Immagini: Smith et al./PLoS One.

Le scoperte di Smith e Hibbing pubblicate il 19 Ottobre 2011 sul Public Library of Science One sono le ultime e più recenti di una serie di indagini sugli aspetti neurofisiologici della morale e della politica. Altri ricercatori in passato hanno dimostrato che gli individui politicamente conservatori tendono ad avere uno stile cognitivo più rigido e strutturato rispetto ai liberali, notoriamente riconosciuti come individui più aperti e disponibili alla accettazione delle ambiguità; è stato inoltre dimostrato che i conservatori hanno anche tempi di reazione più brevi di fronte ad uno stimolo potenzialmente pericoloso (sono cioè anche i più veloci nel sentirsi minacciati da qualcosa).

 

Il disgusto è particolarmente interessante per i ricercatori perché è un’emozione fondamentale, un elemento emotivo che ha caratteristiche primordiali. Sembra infatti che i sentimenti di ripugnanza morale traggano origine da processi neurobiologici paralleli alle emozioni di ripugnanza per il cibo avariato. In sintesi, negli studi effettuati tramite questionari, le persone inclini a profondi sentimenti di disgusto tendono a fare scelte politiche tipiche del versante conservatore.

I partecipanti al test (27 femmine e 23 maschi residenti di Lincoln, Nebraska, con un’età media di 41 anni, selezionati da un pool più ampio di 200 persone sottoposti ad un sondaggio politico) sono stati sottoposti alla visione di una serie di immagini “disgustose” e “non disgustose”. Tramite degli elettrodi applicati sulla loro pelle sono stati misurati i cambiamenti della conduttanza cutanea, uno tra gli indicatori fisiologici della risposta emotiva.

In linea con le precedenti osservazioni, si è visto che i conservatori politici reagivano con un disgusto significativamente superiore rispetto ai liberali politici. La presenza di convinzioni coscienti sulla legittimità o meno del matrimonio tra coppie gay, tema strettamente legato alle nozioni di purezza morale, sono risultate particolarmente predittive.

“È un grande esempio dell’esistenza di un ponte sempre più solido tra biologia e scienze politiche”, ha detto Jonathan Haidt, psicologo della New York University che studia il rapporto tra il disgusto e la moralità.

Smith e Hibbing sono stati attenti a sottolineare i limiti del loro lavoro. Il rapporto di causa ed effetto non è chiaro, ma il sospetto è che la popolazione graviti attorno alle convinzioni politiche che si adattano ai loro sentimenti. Potrebbe anche essere però che siano le stesse convinzioni politiche a modificare il modo in cui le persone percepiscano emozioni e sentimenti.

Riconoscere il ruolo della biologia significa evitare inutili ostilità e conflitti con le persone che non sono d’accordo con il nostro orientamento politico. Secondo questo punto di vista, sarebbe preferibile considerare le persone con convinzioni morali diverse dalle nostre non come semplicemente stupide o cattive, ma come influenzate da abitudini diverse radicate nella mente.

“Dopo tutto, se le differenze politiche sono riconducibili in parte al fatto che le persone variano nel modo in cui fisicamente hanno esperienza del mondo, la certezza che ogni particolare visione del mondo sia oggettivamente la più corretta può diminuire, riducendo l’arroganza che alimenta il conflitto politico”, scrivono Smith and Hibbing.

 

BIBLIOGRAFIA:

Assisi 2011: Ricordi del IV Forum sulla Formazione in Psicoterapia

IV Forum sulla Formazione in Psicoterapia - Assisi 14-16 Ottobre 2011 -Copyright immagine: © Roberto Zocchi - Fotolia.comIl convegno di Assisi si è concluso in un giorno in cui un vento caldo accarezzava la nostra pelle, ancora scoperta ai raggi del sole, e la flebile sensazione che ne scaturisce è simile a quella che ogni intervento realizzato dai partecipanti ha lasciato nelle nostri menti.

Un fiume di voci, di cori e di notizie scientifiche risuona nell’aria. Speranze, sogni, e lamenti: tutto questo è stato Assisi, IV Forum sulla formazione in psicoterapia. Molte ricerche sono state presentate, toccavano temi disparati, presentati attraverso slide dai mille colori, che con un tocco di fantasia facevano emergere i risultati più interessanti e curiosi.

Mille spunti clinici, milioni di ricerche e tanti volti. Proprio questi ultimi mi hanno colpito più di tutto; il terrore di affrontare una platea di gente affamata di conoscenza incuteva timore e ansia in coloro che avevano scelto di condividere con tutti il proprio lavoro, che sforzi e speranze aveva alimentato per lungo tempo.

Assisi 2011 - Autore: Francesca FioreOgnuno mostrava e offriva alla platea un’espressione diversa: chi sorrideva forzosamente, chi sudava e chi seriamente affrontava la situazione come un soldatino chiamato alle armi. Tanti argomenti, mille forme: dai disturbi dell’alimentazione al rimuginio, dalla schizofrenia alla depressione, dal disturbo ossessivo compulsivo ai processi cognitivi, dalla paura alla felicità.

Infatti, dopo aver esposto la propria ricerca e aver ricevuto plausi all’unisono i volti si rilassavano e dei sorrisi liberatori sbocciavano e fluivano come l’acqua del ruscello, ma la paura era in agguato e il rimuginio partiva: ed ora cosa potranno chiedermi? e se non riuscissi a rispondere? Alla fine tutto andava per il meglio e la felicità regnava sovrana.

Poi la sera, come per magia, con un tocco di bacchetta magica tutti cambiano e le angosce e le emozioni spariscono per dare spazio all’allegria, alla festa, alle risate, alla vita. Tutti allegri e spensierati, pronti a godersi i frutti dell’agognato lavoro.

Assisi, magica Assisi, regali sempre a tutti un arcobaleno di emozioni, che per sempre inebrieranno i nostri ricordi. Quella splendida e mistica città regala,con un tocco di mistero, una indicibile sensazione si soave pace che accompagna l’evento e unita alla bravura indiscussa dei partecipanti ci porta a dire un solenne e profondo grazie e arrivederci al prossimo forum.

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