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Storie di Terapie #5 – Simone l’Ossessivo.

STORIE DI TERAPIE: Una Rubrica di Casi Clinici di Psicoterapia a cura del Dott. Roberto Lorenzini. Caso #5 - Simone l'Ossessivo.

Di Roberto Lorenzini

Pubblicato il 16 Apr. 2012


Nei casi clinici che seguono, l’arrosto sostanzioso dei vari pazienti è condito con il sugo della fantasia, per rendere non identificabili le persone e la lettura più avvincente. Spesso ho condensato in un solo paziente più persone e, quasi sempre ci sono scappati pezzetti di me stesso.    Leggi l’introduzione    

 

 

#5 – Simone l’Ossessivo

Storie di Terapie #5 - Simone l'Ossessivo. - Immagine: © Oleksii Sergieiev - Fotolia.com

Aveva già tentato altre terapie e, fosse stato per lui, si sarebbe arreso e sopportato le pene della malattia come il suo correligionario Giobbe. Ma Sara non ne poteva più e, siccome era lei a comandare in famiglia, lo prese metaforicamente per un orecchio e lo portò da me. Presenziò a gran parte del primo incontro, perché voleva sincerarsi che Simone elencasse effettivamente tutti i sintomi, dei quali si vergognava moltissimo. Se non avesse accettato la cura e non fosse guarito lei lo avrebbe lasciato e se ne sarebbe andata con il piccolo Gioele che iniziava, a soli otto anni, a manifestare le stesse manie del padre.

Simone aveva trentacinque anni ed era ufficialmente diventato ossessivo nel giorno del suo trentesimo compleanno, quando il padre gli aveva affidato la gestione del negozio.

Il vecchio Aronne, compiuti i settantacinque anni, aveva deciso di chiudere la sua vita lavorativa. Diviso il patrimonio immobiliare tra i suoi tre figli maschi e una figlia femmina, aveva affidato la gestione del negozio importante a Simone ,con l’impegno che continuasse a mantenere lui e la madre dando loro il 20% degli utili e un altro 10% a ciascuno dei fratelli. Il restante 50% sarebbe stato tutto suo. Ad Aronne sembrava così di non dividere il patrimonio familiare e di garantire una buona rendita a tutti. Simone ebbe netta l’impressione di averlo preso per l’ennesima volta in tasca da quel padre padrone che temeva e odiava. A lui sarebbe spettata la quota maggiore degli utili, ma anche tutto il lavoro e la responsabilità. Inoltre, erano stati sufficienti pochi mesi per capire che il padre si era ritirato per modo di dire; tutte le mattine si recava in negozio, consigliava Simone sulle scelte imprenditoriali da fare e criticava quelle già fatte.

Storie di Terapie - © Athanasia Nomikou - Fotolia.com
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I commessi stessi continuavano a rivolgersi ad Aronne per le indicazioni di lavoro e, non bastasse, ogni tanto arrivava la madre, la signora Giuditta a dirgli davanti a tutti che ormai lui era il capo, che come tale doveva comportarsi e che non era più il garzoncello entrato a bottega quando aveva dodici anni, con una paghetta di centomila al mese. Lo aveva inteso o no che era diventato il capofamiglia e tutti dipendevano da lui?

I sintomi ossessivi si svilupparono in due direzioni: il negozio e la galera. Circa il negozio, Simone sentiva una responsabilità enorme e temeva di commettere errori nelle scelte, per cui ogni scelta diventava difficilissima, veniva procrastinata il più possibile e ciò comportava dei danni rispetto agli spietati concorrenti. La decisione sul campionario nuovo o sulla data dei saldi erano per Simone un tormento.

Soprattutto, il sintomo si manifestava al momento di chiudere il negozio la sera: usciva per ultimo, tirava giù la serranda blindata chiudeva in successione i cinque lucchetti di cui tre con la chiave e tre con la combinazione, attivava l’antifurto e chiamava la centrale dei metronotte per avvertirli che passava a loro la consegna. Con un telecomando accendeva le telecamere di sorveglianza.

Una sera pensò che, oltre alla comunicazione acustica via telefono, sarebbe stato più sicuro mandare anche un messaggio visivo, di passaggio delle consegne, all’operatore che stava in centrale ad osservare il video trasmesso dalle telecamere. Si posizionò di fronte alla telecamera e fece un inchino con la riverenza, come a dire “ ora tocca a te, buona guardia e attenzione!” Ma come poteva essere certo che l’operatore fosse effettivamente stato attento nel momento del cambio della guardia? Pensò che sarebbe stato meglio riproporre la riverenza più volte, almeno tre, numero perfetto, a distanza di dieci minuti l’una dall’altra.

Una sera, trascorsa la mezz’ora dedicata alle riverenze, ebbe un dubbio, non ricordava esattamente i gesti fatti per chiudere i cinque lucchetti. Non poteva andarsene senza controllare. Per essere più sicuro riaprì di nuovo i lucchetti e ricominciò, sforzandosi di tener a mente ogni gesto, per ricordarlo con sicurezza, quando il demonio del dubbio sarebbe tornato a tentarlo. Giù la serranda. Aprire e chiudere i cinque lucchetti. Inserire l’antifurto. Telefonare alla centrale. Accendere le telecamere e iniziare il ciclo delle tre riverenze. Quando stava per concludere con successo, un gatto schizzò da sotto una macchina e lo distrasse. A quel punto, non era più sicuro di aver ricordato con precisione tutti i passaggi fatti e, dunque, forse ne aveva tralasciati alcuni.

La telefonata di Sara, preoccupata per il ritardo, lo riscosse dallo stato di trance in cui era sprofondato alle 22.00, due ore e mezzo dopo la chiusura del negozio La posta in palio era un furto al negozio, che avrebbe portato alla rovina tutta la famiglia.

Nei giorni successivi il problema si ripropose con ritardi crescenti, Simone sviluppò un rituale standardizzato che prevedeva una serie di controlli e conteggi e chiamò il tutto “pacchetto chiusura” e, quando lo aveva completato, spostava il portafoglio dalla tasca sinistra alla tasca destra dei pantaloni. Quel gonfiore a destra dei genitali stava a ricordargli “pacchetto chiusura” a posto.

Un Giorno di Ordinaria Follia #1 - Posso bere la Candeggina? - Psichiatria - Immagine: © Mario - Fotolia.com
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Una sera, tornato a casa, si tolse i pantaloni dopo aver levato chiavi e portafoglio. Era già in pigiama quando dovette rivestirsi e tornare al negozio per ricominciare da capo. Sarà spiegò al figlio che il papà aveva dimenticato una cosa. Dieci giorni dopo, dovendo ri-uscire tutte le sere, spiegò lui stesso al figlio che non stava bene e si sarebbe fatto curare.

L’altro grande filone ossessivo era quello della galera. Da sempre Simone era stato scrupoloso e particolarmente attento al rispetto delle leggi perché temeva di essere arrestato. Faceva risalire questo timore all’esperienza vissuta dal padre e dal nonno dell’arresto improvviso e ingiustificato degli ebrei romani al tempo del nazifascismo. Pagava le tasse ed era irreprensibile verso tutti i doveri di legge, ma ora stava esagerando. Temeva in effetti che, se fosse stato arrestato, non solo avrebbe sofferto le pene della detenzione, la vergogna e la solitudine, ma il negozio, senza più una guida, sarebbe andato incontro a fallimento e tutta la sua famiglia in rovina. Le precauzioni non sembravano mai sufficienti, non assunse più personale di sesso femminile perché temeva di essere accusato ingiustamente di molestie sessuali e, in seguito, non assunse più nessuno, restando solo con i vecchi e fidati commessi, perché pensò che anche i maschi potevano rivolgergli tale accusa e comunque esisteva la più generica accusa di mobbing.

La guida della sua auto divenne un calvario e alla fine vi rinunciò, pensava che avrebbe potuto investire qualcuno senza accorgersene e, perciò, essere incriminato per omissione di soccorso. Tornava continuamente indietro a ripercorrere la strada già fatta per cercare le tracce dell’incidente di cui poteva non essersi accorto, poi pensava che l’incidente potesse averlo provocato proprio nel giro di controllo e, così, non c’era mai fine, solo il motorino gli dava più sicurezza in quanto gli sembrava più difficile uccidere qualcuno senza avvedersene.

La moglie lo portò da me quando tornò a casa a piedi, in preda ad una crisi d’ansia incontenibile e comunicò che non avrebbe più usato nemmeno il motorino. Aveva pensato, infatti, che una pellicina avrebbe potuto staccarsi dalle dita della sua mano (si mangiava le unghie) e finire, trasportata dal vento, nell’occhio di qualche motociclista che lo seguiva. Il malcapitato sarebbe caduto mettendosi di traverso, sul suo veicolo fermo si sarebbero poi schiantati autobus, macchine e mezzi di ogni sorta, facendo una carneficina di cui lui sarebbe stato il responsabile.

Abbandonato il motorino iniziò ad andare in giro in autobus e a piedi ma anche questo durò poco, temeva di spingere involontariamente e senza accorgersene qualcuno in terra e di causarne così colpevolmente la morte. Pretese per un periodo di essere accompagnato dalla moglie in tutti gli spostamenti, sarebbe stata lei a badare ad eventuali reati da lui commessi, di se stesso non si fidava. Ad un certo punto lei si rifiutò e lui vide concreta la possibilità di chiudere il negozio.

Resosi conto della gravità della situazione, accettò di buon grado la psicoterapia, si sentì molto compreso e condivise appieno la lineare spiegazione del disturbo.

Disputing Monografia
MONOGRAFIA: Il Disputing in Psicoterapia

Nel presente, quello che succedeva era il tentativo “costi quel che costi” di non essere responsabile della rovina della sua famiglia attuale e di quella di origine. Se ciò si fosse verificato per sua responsabilità, sarebbe stato cacciato dalla famiglia e avrebbe perso tutti i suoi affetti meritandosi, come condanna, la morte.

Si rendeva conto che il negozio principale di famiglia non era come gli altri negozi minori che lui e i fratelli avevano. Rappresentava la famiglia stessa, il suo valore, la posizione nella comunità, la loro dignità e il riscatto dalla povertà che li aveva un tempo afflitti. Chi lo gestiva era il patriarca della famiglia e, da quando aveva ricevuto le consegne dal padre, si era sentito schiacciato da una responsabilità enorme, un suo piccolo sbaglio avrebbe mandato in malora il lavoro di generazioni e il loro buon nome. Capiva anche che il padre gli aveva sì affidato un compito importante ma contemporaneamente, con la sua costante presenza e le intromissioni nella gestione, stava lì a dirgli che non era in grado di cavarsela da solo.

Riconobbe che questo era stato un motivo ricorrente nel suo rapporto con il padre, che lo aveva sempre chiamato a rispondere a grandi aspettative in quanto primogenito, ma gli aveva anche lasciato sempre intendere che era un incapace.

Un primo importante filone di lavoro con Simone fu dunque la sua separazione dalla famiglia d’origine ed in particolare dal padre padrone. Lui era diverso, voleva altre cose, aveva modi diversi di fare, gli voleva bene ma era un’altra persona.

Sentì necessario un riposizionamento anche nei confronti dei fratelli, che si aspettavano che continuasse il ruolo paterno, guidandoli come se fossero figli. Potè permettersi di sentire rabbia verso i genitori, che non avevano accolto i suoi bisogni di bambino e ragazzo per farne subito un uomo al servizio della causa familiare. Il padre lo aveva ossessionato con la sua severità e la madre non lo aveva mai protetto. Durante questo lavoro giunse alla decisione che avrebbe investito più risorse sul suo proprio negozio e meno su quello di famiglia.

Ragionammo insieme sui rituali di controllo che, provocatoriamente, gli definivo ogni volta come insufficienti, suggerendo possibili falle del sistema e capì che il traguardo della certezza assoluta era utopico e che in realtà il suo affaccendarsi era utile più per sentirsi la coscienza a posto che per scongiurare effettivamente quanto temuto. Era una sorta di penitenza sacrificale che offriva a un Dio in cui diceva di non credere.

Da buon commerciante fu facile fargli valutare quanto tutto questo lavorio e la procrastinazione delle scelte non fosse senza costi. Si rese conto che stava colpevolmente (per dirla secondo la sua ottica) sacrificando tempo e risorse. Dunque, paradossalmente, ciò che faceva per evitare la colpa lo portava a essere colpevole.

Iniziò con enormi sforzi a ridurre il massiccio apparato compulsivo con compiti concordati di seduta in seduta soprattutto quando si avvide che, come una droga, le ossessioni si rinforzavano continuamente a motivo dell’immediato sollievo che gli procuravano, ma stavano portando alla rovina la sua vita relazionale. Iniziò a pensare che, nonostante i suoi sforzi, non poteva tenere tutto sotto controllo ma ciò significava anche che non era responsabile di tutto. Capire di non essere Dio e di non averne tutti i doveri di gestione universale lo sollevò molto.

Il Controllo è il Problema, non la Soluzione. - Immagine: © somenski - Fotolia.com
Articolo consigliato: Il Controllo è il Problema, non la Soluzione.

Iniziammo ad affiancare, alla riduzione delle compulsioni, una serie di attività gratuite e ludiche che non avessero scopo produttivo, ma solo la scoperta e il raggiungimento del proprio piacere personale. Per Simone capire cosa davvero desiderasse fu molto difficile. Cosa voglio? Non era una domanda che si era mai posto, al contrario le domande che normalmente si poneva erano: cosa devo fare e cosa si aspettano da me? Indicatori esterni sull’andamento della terapia furono i crescenti ringraziamenti della moglie, liberata dal giogo degli accompagnamenti e le perplessità della famiglia d’origine che chiedevano quando, questa inutile e costosa terapia, si sarebbe conclusa. L’alleanza era ottima e non avevamo alcuna intenzione di chiudere la terapia ma, come avevamo lungamente argomentato con Simone, non tutto è sotto il nostro controllo.

Così, improvvisamente, una malattia acuta mi mise fuori gioco per circa dieci mesi.

Simone lo venne a sapere dagli altri colleghi del mio studio, con cui si tenne in contatto per avere mie notizie, ma non volle riprendere con loro la terapia, avrebbe provato da solo seguendo le mie indicazioni. Circa un anno dopo l’interruzione, mi telefonò per una seduta di bilancio e saluto che non avevamo avuto tempo di fare.

Mi ringraziò moltissimo per quanto avevo fatto per lui e mi disse che era completamente guarito. Fu interessante capire la spiegazione che si dava circa il mio intervento, a suo dire risolutivo per la guarigione.

Intanto bisogna fare una premessa: il negozio di famiglia era completamente andato distrutto in un incendio, un mese dopo la mia malattia e Simone costruì una teoria bizzarra e cioè che io ero certamente morto e dall’al di là gli avevo procurato l’incendio, sapendo che lo avrebbe guarito. La teoria in sé era facilmente confutata dalla mia presenza dietro la scrivania e, dunque, potevamo tornare a spiegazioni più terrene. Mi attribuiva un grande merito nella guarigione ma per qualcosa che, grazie a Dio, non avevo fatto.

Gli chiesi perché l’incendio fosse stato risolutivo e Simone mi spiegò che se l’incendio era avvenuto nonostante le sue esasperate precauzioni (numerosi impianti rilevatori del fumo, salvavita, controlli periodici dell’impianto elettrico) doveva proprio rassegnarsi che non poteva tenere tutto sotto controllo.

Gli chiesi anche perché, nel frattempo, mi avesse inviato altri pazienti, infatti era improbabile che io potessi morire ogni volta per organizzare dal paradiso un home work risolutivo per ciascun paziente. Allora mi spiegò, con pazienza, che era stato risolutivo il lavoro fatto insieme sulla responsabilità e l’impossibilità della certezza. Un tempo, di fronte all’evento incendio, si sarebbe detto che doveva controllare meglio e di più, non come aveva fatto questa volta rammentando il Magnifico e ripetendosi che “di doman non v’è certezza”.

Quando mi disse che Il nome del Magnifico gli era venuto in mente pensando al mio cognome e che forse questo era un segno, temetti di dover riprendere la psicoterapia o dargli dei farmaci per un altro disturbo che non avevo diagnosticato.

Lasciai perdere.

 

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