L’uso di meccanismi di difesa specifici (Rubbini Paglia e Di Giovanni, 2001; Soccorsi, Lombardi, Rubbini Paglia, 1984; Soccorsi, 1986; Soccorsi, Di Giovanni, Ruggiero, Rubbini Paglia, 2001) è stato osservato nelle famiglie dove a rischiare la morte sono i bambini. La malattia oncologica, ma non solo, e il rischio di morte che questo tipo di malattia porta con sé, spinge tutta la famiglia a reagire tempestivamente con un disperato tentativo di circoscrivere e incistare, quella massa estranea nella speranza di neutralizzarla (Soccorsi, Lombardi e Rubbini Paglia, 1984).
Il tempo si ferma, i rapporti tra le persone si cristallizzano, il bisogno di controllare l’evoluzione degli eventi porta all’immobilità; il tentativo è quello di fermare il ciclo vitale della famiglia al momento prima dell’insorgenza della malattia. Cristallizzare le relazioni, impedendo che i modi di rapportarsi gli uni agli altri si modifichino nel tempo, permette di esercitare un controllo sull’angoscia dell’ignoto, cioè sull’angoscia di morte: questa staticità è un’attualizzazione della morte stessa in quanto negare il cambiamento è negare l’espressione di processi vitali, ma fermare il tempo è anche garanzia di immortalità. Attualizzando la morte la famiglia si illude di poterla controllare.
Le autrici (Soccorsi, Lombardi e Rubbini Paglia, 1984; Soccorsi e Rubbini Paglia, 1989) hanno identificato due diversi gruppi di meccanismi di difesa: un primo gruppo comporta la abnorme redistribuzione dei ruoli all’interno della struttura familiare; un secondo gruppo riguarda invece le modificazioni radicali della struttura spazio-temporale della famiglia che arrivano a intaccare anche i confini individuali, fino alla fusione. Il passaggio dagli uni agli altri avviene senza soluzione di continuità.
Il primo livello di destrutturazione riguarda la cristallizzazione della dinamicità degli spazi: la famiglia si organizza al suo interno secondo rigide funzioni statiche, ruoli che sono funzionali a una reciproca protettività dall’angoscia di morte. Spesso nei bambini malati si osservano sintomi di infantilismo e adultismo (mentre nei fratelli sani è comune l’orfanità) grazie ai quali il bambino nega di “sapere” per evitare di aumentare l’angoscia dei genitori: in questo modo il bambino assume una funzione protettiva nei loro confronti, la barriera generazionale si infrange e il bambino si ritrova ad occupare la posizione generazionale dei nonni invece che quella di figlio (Role Reversing o Accudimento Invertito); in questo modo viene meno la possibilità di accogliere e contenere le sue angosce, che comunque permangono come fantasmi di cui è impossibile parlare.
Nelle famiglie che adottano questo meccanismo di difesa assume un particolare significato la somministrazione dei farmaci, infatti la terapia medica e i relativi controlli clinici comportano una somministrazione che scandisce il tempo e permette una ritualizzazione dell’evento. Se l’inversione dei ruoli genitoriali, l’infantilismo, l’adultismo e l’orfanità sono meccanismi nascosti e “non autorizzati”, l’uso del rito dei farmaci è invece legalizzato ed esplicito e allo stesso modo utilizzato per soddisfare il bisogno che la famiglia ha di cristallizzare lo spazio per negare lo scorrere del tempo e controllare l’angoscia. Nella fase iniziale del processo di guarigione, la sospensione della terapia farmacologia può essere un utile elemento terapeutico destabilizzante in grado di indurre una crisi e sbloccare la tendenza omeostatica della famiglia, per permettere la ripresa dell’evoluzione del ciclo vitale.
Con il protrarsi della malattia è possibile che la famiglia aumenti la rigidità dei meccanismi di difesa utilizzati perdendo ogni parametro spaziale. La rigidità aumenta favorendo processi fusionali che garantiscono il massimo grado di protettività omeostatica: ogni tentativo di separazione viene vissuto come pericolosissimo perché capace di provocare la morte propria e degli altri.
Spesso anche separarsi fisicamente per poco tempo gli uni dagli altri è intollerabile.
È a questo livello che, nel tentativo stesso di difendersi da essa, la famiglia attualizza la morte: la protettività garantisce l’omeostasi bloccando il ciclo vitale della famiglia e anticipando, paradossalmente, la morte stessa.
Il bisogno di fusionalità e l’impossibilità di definirsi come individui separati si esprime nel “fare finta”; questa modalità relazionale si manifesta nell’uso del linguaggio, che è una potente minaccia nei confronti della fusione: la parola detta ha un alto potere di definizione della realtà e di mediatore delle relazioni interpersonali, in quanto è difficile espropriare una parola del suo significato e scindere “chi” dice qualcosa da “cosa ha detto”. Gli effetti malefici e angosciosi della malattia sono scongiurati e negati dagli sforzi per evitare di pronunciare parole come leucemia o tumore o dall’uso di neologismi; spesso tra i membri della coppia cala il silenzio. In altri casi la famiglia ricorre a eccessive razionalizzazioni che hanno ugualmente la funzione di controllare l’angoscia di morte.
In queste famiglie la crisi indotta dalla sospensione dei farmaci non è sufficiente a produrre una destrutturazione tale da promuovere la ripresa dell’evoluzione del ciclo vitale. Il protrarsi di livelli elevati di angoscia di morte ha provocato “l’appiattimento di ogni affermazione di individualità”. In questo caso la famiglia può essere aiutata a ritrovare la parola ripercorrendo il cammino a ritroso: rompendo il silenzio e riappropriandosi del linguaggio verbale è possibile rincominciare a comunicare, a condividere e a ridefinirsi rispetto agli altri.
I meccanismi di difesa dall’angoscia di morte, individuali e familiari, fanno riflettere sul bisogno che tutti abbiamo di proteggerci dall’idea della nostra morte e di quella di chi amiamo; l’idea della fine è qualcosa che necessita di un tempo e di uno spazio, di ascolto e condivisione, per essere accettata o anche solo pensata. A questo proposito è importante sottolineare il concetto di “atto terapeutico”, che contrapponendosi al “processo terapeutico”, invita i terapeuti che lavorano nei reparti ospedalieri a “esserci” nel qui ed ora della relazione con i pazienti e la famiglia che si trova a fare i conti con le sue angosce di morte.
L’atto terapeutico, scavalcando il rigore del metodo e le regole del setting, che impongono uno spazio e un tempo definiti, consente al terapeuta di attualizzarsi nella relazione con la famiglia e di fornire un’occasione per veicolare una ridefinizione della relazione. Un aspetto che caratterizza l’atto terapeutico è il tempo: l’atto terapeutico è specifico per una fase avanzata della malattia, come a sottolineare che è necessario concedere alla famiglia di usare i suoi meccanismi di difesa durante la fase più critica del trattamento intensivo. Il bisogno che la famiglia ha di “fermare il tempo” la rende impossibilitata a utilizzare un rapporto psicoterapeutico di per sé processuale.
Il bisogno di difendersi e di prendere tempo “fermando il tempo” prima di poter utilizzare la crisi affinché la differenziazione, l’individuazione e la crescita dei suoi membri sia nuovamente possibile, è rispettato anche dal permettere che la famiglia sviluppi una dipendenza dal centro di cura. Dopo aver visto la morte così da vicino, dopo averla addirittura “attualizzata” attraverso la paralisi, per tornare a vivere è necessario rinascere: il centro di cura, permettendo alla famiglia di sperimentare una dipendenza-appartenenza da esso, si pone come contenitore delle angosce di morte e come una sorta di “base sicura” dalla quale è possibile separarsi per ricominciare a crescere.
BIBLIOGRAFIA:
- Rubbini Paglia P., Di Giovanni S. (2001) Relazione d’aiuto e accompagnamento alla morte al bambino oncologico e alla sua famiglia. In-formazione psicologia, psicoterapia, psichiatria. Anno 12, 43: 56-59.
- Soccorsi S., Di Giovanni S., Ruggiero A., Rubbini Paglia P. (2001) Percorso della famiglia tra appartenenza e separazione dal centro oncologico. Acta med. Rom., 39:82-86-
- Soccorsi S., Lombardi F., Rubbini Paglia P. (1984) La famiglia come risorsa nel trattamento del bambino oncologico. Terapia Familiare, 16: 47-66.
- Soccorsi S., Rubbini Paglia P. (1989) La malattia oncologica del bambino come incidente evolutivo della famiglia. Terapia familiare, 29: 5-15.