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Mindfulness o Detached Mindfulness? Questo è il problema.

Detached Mindfulness: una modalità di elaborazione delle informazioni antitetica alla CAS (Cognitive-Attentional Syndrome) T. Metacognitiva

Di Gabriele Caselli

Pubblicato il 13 Ago. 2011

Aggiornato il 07 Giu. 2012 12:36

DETACHED MINDFULNESS: differenze con il concetto di Mindfulness e impianto teorico

gabbiano

Nel panorama delle psicoterapie cognitive di terza ondata il concetto di mindfulness ha certamente assunto il ruolo di principale protagonista, elemento di riferimento intorno al quale ruotano tutte le molteplici varietà psicoterapeutiche di questi ultimi anni. Altri articoli si sono concentrati sul descrivere nel dettaglio il concetto di mindfulness e di mindfulness based therapy (MBT, Segal, Williams & Teasdale, 2006). Mi limito a riprendere brevemente la definizione di mindfulness come esercizio meditativo, una pratica di allenamento a una forma di attenzione consapevole, intenzionale, non-giudicante, nel momento presente.

Il potente ingresso nel mondo scientifico di questo complesso concetto filosofico/religioso  di sapore orientale ha generato molti punti di vista, anche all’interno dello schieramento di scienziati che si riconoscono entro il flusso delle terapie di terza ondata. Si sono generati negli ultimi anni due schieramenti: i radicalisti e gli integrazionisti. I radicalisti sono i puristi sostenitori di protocolli MBT dove la mindfulness equivale alla componente nucleare del processo di cura, se non addirittura l’unica. Gli integrazionisti, tra tutti Steven Hayes e Marsha Linehan, attribuiscono alla mindfulness un ruolo importante ma non sufficiente e forse nemmeno il più rilevante. La mindfulness per gli integrazionisti non garantisce da sola il processo di cura.

All’interno di questa diatriba c’è stato anche spazio per nuove prese di posizione. Tra tutte spicca la posizione di Adrian Wells e della sua Metacognitive Therapy (MCT, Wells, 2008), che rispetto alla mindfulness fa una scelta diversa: la prende, la modifica in linea con il pensiero teorico metacognitivo, la riadatta in una nuova versione all’interno dell’intervento con il nome di detached mindfulness. Questa manovra clinica e scientifica ha suscitato varie reazioni. I radicalisti hanno espresso moti di indignazione condito di velate accuse di appropriazione indebita di idee (la chiama diversamente ma in realtà è solo mindfulness). Gli integrazionisti invece sembrano strizzare l’occhio a questa scelta, perché in linea con l’idea di non considerare la mindfulness come unico perno del percorso di cura. Wells non si cala pienamente in queste diatribe e prende le distanze da entrambe le fazioni ma anche dallo stesso concetto di terapia cognitiva di terza ondata a cui sembra sostenere di non appartenere.

Ma cerchiamo di comprendere le differenze tra mindfulness e detached minsfulness e proviamo a distinguere diversi livelli di analisi. Per non annoiare i lettori non mi addentrerò nell’esposizione delle tecniche di mindfulness ben descritte in molti altri articoli ma cercherò di focalizzare l’attenzione sugli elementi che distinguono la versione della terapia metacognitiva.

 

Differenze nel substrato teorico.

Già il punto di partenza teorico è differente. La DM nasce su base teorica e non esperienziale, la cornice di riferimento è la S-REF Theory (Wells & Matthews) e successivamente la teoria metacognitiva dei disturbi emozionali. All’interno di quest’ultima la DM viene descritta come una modalità di elaborazione delle informazioni antitetica alla CAS (Cognitive-Attentional Syndrome). La CAS costituisce il processo psicopatologico nucleare della teoria metacognitiva fondato su un uso costante e percepito come incontrollabile di attenzione focalizzata sulla minaccia, processazione concettuale perseverante (nella forma di rimuginio o ruminazione) e comportamenti di controllo o evitamento. La mindfulness è la trasposizione teorica e clinica di una filosofia che per prima nasce fuori dai parametri scientifici ma dentro la pratica quotidiana. Non esiste una verifica empirica della teoria della mente e della teoria clinica della mindfulness e delle MBT, mentre esistono molti lavori scientifici sulla sua efficacia e sul processo di cambiamento che produce.

 

Differenze nella definizione.

Imparare una modalità DM sarebbe quindi competitiva e in contrasto al mantenimento della CAS.  Da qui le cinque caratteristiche fondamentali della DM per Adrian Wells:

  • Metaconsapevolezza: consapevolezza del flusso automatico di pensieri non intenzionali e di sensazioni che scorrono nella coscienza.
  • Decentramento cognitivo: comprensione degli eventi mentali e corporei come eventi e non come fatti che dicono qualcosa di reale sul mondo, sugli altri o su di sé.
  • Decentramento attentivo: attenzione  flessibile e ampia, priva di ancoraggio o di orientamento volontario a un contenuto.
  • Basso processamento concettuale: riduzione dell’attribuzione di significati agli eventi osservati, eliminate etichette verbali o riflessioni o del dialogo con sé stessi.
  • Scarsa tendenza verso obiettivi: il raggiungimento di un obiettivo (es: evitare una minaccia) non viene percepito come rilevante.

La differenza con la mindfulness di tipo classico non risulta immediata ma traspare già nel significato di queste componenti. I primi due punti sono generalmente simili e condivisi da entrambe le forme. Il terzo punto (decentramento attentivo) segna invece il divario più ampio. La DM non prevede un allenamento attentivo, il cosidetto processo di “accorgersi di dove siamo con la mente e riportare il pensiero al respiro o ad altre forme di ancoraggio”, nella DM non si riporta niente da nessuna parte, si osserva poiché già riportare è una forma di evitamento che da più salienza a ciò da cui ci si allontana. Non c’è, per esempio, la concettualizzazione di “rimanere sul momento presente”. Se la mente va sul futuro, la DM sta con la mente nel futuro in modo distaccato e non concettuale. Se la mente progetta, l’individuo non solo osserva la progettazione, la riconosce come tale ma non ritorna al momento presente, resta a osservare cercando di non intervenire con volizione per modificare attivamente cosa accade nella mente.  Il quarto punto sottolinea la necessità di abbandonare meta-valutazioni durante la modalità DM, tutto ciò che accade va bene e non è necessario fermarsi a riconoscere se la nostra mente ha emesso un giudizio o una considerazione o una paura, la tendenza è quella di ridurre al minimo il nostro intervento dentro il flusso della coscienza. Allo stesso modo il quinto punto sottolinea l’assenza di obiettivi, persino l’obiettivo di allenarsi al momento presente, alle sensazioni corporee, al contatto con la realtà  viene abolito, sono tutte cose che possono riattivare la CAS e ostacolare la pura passiva contemplazione.

In questo modo la DM assume forme ancora più puriste ed estreme rispetto la classica mindfulness. Certo, resta il dubbio che questi elementi non siano realmente sufficienti a fondare un costrutto e una tecnica significativamente diversi, piuttosto che un diverso uso dello stesso processo.  Probabilmente si entra nell’influsso di dinamiche di mercato e di politica scientifica, dove per dare risalto a un punto di vista differente è necessario marchiarlo di una definizione sintetica e riconoscibile.

 

Differenza di impatto clinico

Per le MBT la mindfulness rappresenta il motore centrale del cambiamento, mentre per la terapia metacognitiva la DM è una base utile per garantire l’efficacia di tutte le altre strategie adottate, un componente, se vogliamo una base fondamentale, ma non sufficiente a sciogliere la concettualizzazione psicopatologica del caso.

L’obiettivo della DM è creare uno spazio in cui le componenti della CAS (ricordiamo: attenzione sulla minaccia, necessità di un obiettivo, rimuginio o ruminazione) sono finalmente bloccate e ferme. In un secondo momento, attraverso altre tecniche, il terapeuta può guidare lo sviluppo nuovi piani di elaborazione delle informazioni. La mindfulness mira a sostenere una “modalità essere” come nucleo del benessere psicologico. Il fine della DM, questo punto mi pare importante, non è quello di promuovere una “modalità essere” come soluzione costante e definitiva, ma creare quello spazio di controllo (incremento di controllo esecutivo)  in cui è possibile inserire nuove “modalità fare”, più variegate e adatte a diverse situazioni contestuali e soprattutto diverse dalla CAS.

 

Differenze pratiche

Infine esistono anche differenze pragmatiche nell’implementazione della tecnica. Nel concreto della sessione terapeutica la DM non viene inserita come una pratica meditativa. Anzi, l’uso della DM ricorda maggiormente le pratiche di sperimentazione comportamentale. Inizialmente il paziente fa esperienza di DM in seduta con brevi esercizi esperienziali guidati dal terapeuta. Questi ultimi sono sostanzialmente composti da immagini evocative e da stimoli presentati al paziente assieme a istruzioni che descrivano e guidino l’assunzione di una prospettiva DM. Per esempio, Wells recupera l’uso delle associazioni libere di idee, ripete al paziente una serie di parole di uso comune, istruendolo contemporaneamente a osservare come le idee si associano tra loro in catene di pensieri e immagini, facendo “un passo indietro” rispetto all’essere attivamente coinvolti in quest’attività.  La pratica a casa viene suggerita, anch’essa solo per pochi minuti ogni giorno e come allenamento preliminare più che come un esercizio costante e continuo nel tempo. In una seconda fase l’esercizio di DM viene riportato su contenuti che (1) assumono valenza emotiva negativa e (2) dipendono dalla formulazione del caso specifica del paziente. La pratica della mindfulness nelle MBT è più lunga e impegnativa e certamente meno esplicita della DM. Al paziente viene presentata una descrizione del razionale iniziale ma successivamente l’impronta è sulla pratica e sulla riflessione riguardo la pratica. D’altra parte è anche vero che la mindfulness ha il vantaggio di poter trattare agevolmente molte persone attraverso percorsi terapeutici di gruppo mentre la DM, allo stato dell’arte attuale della terapia metacognitiva, non prevede applicazioni di gruppo anche per la sua più accentuata focalizzazione sul funzionamento del singolo paziente.

L’ultima differenza potrebbe guardare l’efficacia terapeutica dei due approcci, ma riguardo a quest’ultima i dati sono ancora pochi, incerti e soprattutto manca un confronto diretto tra terapie basate su mindfulness e terapia metacognitiva. Probabilmente potremmo valutare meglio tra qualche anno.

 

Bibliografia

Segal Z.V., Williams J.M., Teasdale J.D. (2006). Mindfulness. Al di là del pensiero, attraverso il pensiero. Bollati Boringhieri: Torino.

Wells, A. (2009). Metacognitive Therapy for Anxiety and Depression. New York, USA: Guilford Press.

Wells, A. & Matthews, G. (1994). Attention and Emotion. A Clinical Perspective. Hove, UK: Erlbaum.

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Gabriele Caselli
Gabriele Caselli

Direttore scientifico Gruppo Studi Cognitivi, Professore di Psicologia Clinica presso la Sigmund Freud University di Milano e Vienna

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