Sandra Sassaroli e Giovanni M. Ruggiero
L’articolo appena approvato dalla Commissione per la riforma della legge Basaglia fa già litigare molti (LINK Articolo su La Stampa). Si tratta dell’istituzione di un trattamento extra-ospedaliero senza consenso del paziente e prolungabile fino a un anno.
Gli schieramenti politici hanno già fatto esplodere il confronto, inevitabilmente con toni forti ed estremi. È vero che i rischi di una simile novità sono evidenti: il trattamento diventa definitivamente possibile senza il consenso del paziente e si può prolungare per tempi medio-lunghi, fino a un anno. È qualcosa che effettivamente può somigliare a una riapertura dei manicomi. È legittimo temere che possa essere un prima passo in quella direzione. Un rischio da cui guardarsi.
Però è anche vero che ogni operatore sa che questo tipo di ricovero prolungato per alcuni pazienti è inevitabile e che il consenso del paziente in questi casi non sempre è possibile. E stiamo parlando di pazienti che a volte rischiano la vita. Come ad esempio le pazienti anoressiche: le più gravi di loro, quelle che davvero sono a rischio vita, non sono consenzienti.
Inoltre il trattamento prolungato in strutture non territoriali (ovvero, senza lasciare il paziente a casa sua) nella pratica già esiste. Teoricamente esso avviene con il consenso volontariamente concesso dal paziente, almeno in termini legali. Ma da un punto di vista pratico esso prende piuttosto la forma di un dissenso non esplicito. Il paziente subisce il ricovero e le circostanze lo dissuadono dall’esporre il suo disaccordo. Paradossalmente questo può incrementare il margine di arbitrarietà, poiché il personale medico e giuridico non è obbligato a giustificare l’obbligatorietà del provvedimento di ricovero, dato che il consenso è dato per scontato. Una nuova cornice giuridica che ponga fine a questa ambiguità avrebbe un effetto positivo: obbligherebbe medici, sindaci e magistrati a dover giustificare giuridicamente in atti legali espliciti la loro decisione di ricoverare una persona contro la sua volontà.
Inoltre non dimentichiamo che gli abusi del manicomio erano legati a un servizio sanitario molto più degradato e inferiore di quello attuale e una società molto più feroce di quella odierna. Una società in cui era facile e comune liberarsi di un parente fastidioso ricoverandolo in manicomio. Oggi non è più così. Oggi si parla di ricoveri di non più di un anno in comunità terapeutiche di qualità e vivibilità immensamente superiori rispetto ai vecchi manicomi. Comunità in cui il paziente ha a disposizione mille attività ricreative e ha la possibilità di uscire e passeggiare in luoghi molto migliori dei quartieri degradati di periferia in cui spesso vive ed è cresciuto. Le comunità terapeutiche moderne sono localizzate in campagna e nella prossimità di piccoli paesi nei quali socializzano con i locali. Stiamo pensando all’esperienza delle comunità terapeutiche bergamasche, nelle quali uno degli autori di questo articolo ha potuto lavorare.
Questi sono i due corni del dilemma. Per ora non aggiungiamo altro, se non la nostra attonita perplessità di fronte alla complessità di questi problemi. Siamo consapevoli che in questi casi diventa troppo facile comprendere tutte le ragioni.
Concludiamo osservando che rimane comunque giusto conservare degli argini, morali e legali, contro i rischi di abuso del ricovero coatto.
BIBLIOGRAFIA:
- Amabile F. “Riaprono i manicomi”, scoppia la bagarre. La Stampa. 18/05/2012