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Lo stress, i livelli di cortisolo e gli effetti del litio sulla salute mentale

Uno studio recente condotto all’ Umeå University, in Svezia, ha messo in luce una correlazione tra sindrome bipolare e ipocortisolismo, cioè bassi livelli dell’ormone dello stress; bassi livelli di cortisolo nei pazienti bipolari sono stati anche associati a depressione, bassa qualità della vita, e cattive condizioni di salute fisica, come l’obesità, la dislipidemia (cioè grassi nel sangue, uno dei principali fattori di rischio cardiovascolare) e la sindrome metabolica.

I ricercatori hanno studiato la correlazione tra bassi livelli di cortisolo e cattive condizioni di salute psichiatrica e somatica in pazienti con depressioni ricorrenti o disturbo bipolare. I bipolari con alti o bassi livelli di cortisolo sono risultati essere depressi il doppio rispetto alle persone con una regolazione normale dello stress. Una bassa qualità della vita era tra le quattro e le sei volte più comune nei gruppi con bassa o alta attività del sistema di regolazione dello stress rispetto a chi regolava normalmente. Inoltre, nelle persone con depressioni ricorrenti, era presente anche una correlazione tra bassi livelli di cortisolo e telomeri corti. Questo è interessante poiché telomeri corti sono considerati un’indicazione di invecchiamento precoce e di un elevato accumulo di stress.

[blockquote style=”1″]Livelli di cortisolo elevati sono già stati associati a problemi di salute nelle persone con depressione o disturbo bipolare. La cosa interessante di nostri risultati è che anche bassi livelli di cortisolo sono risultati associati con un aumento considerevole di conseguenze negative sulla salute[/blockquote] dicono i ricercatori.

Depressioni ricorrenti si verificano in circa l’8% della popolazione e il disturbo bipolare, che è caratterizzato sia da depressioni ricorrenti che da episodi ipomaniacali / maniacali, si verifica in circa l’1% della popolazione. Chi ne soffre convive con sintomi depressivi o maniacali circa il 50% del tempo, ha una marcata diminuzione della qualità di vita e un’ aspettativa di vita di 10-15 anni inferiore a quella della popolazione generale, dovuta a una maggior prevalenza di suicidio e alla mortalità cardiovascolare.

Lo stress è uno dei molti fattori di rischio per la depressione e anche un fattore di rischio per i disturbi cardiovascolari. Inoltre lo stress provoca un aumento dell’attività del sistema ormonale che regola la secrezione di cortisolo. L’ipercortisolismo, infatti è comune nei pazienti con depressione. All’altra estremità dello spettro, ci sono esempi che mostrano che alti livelli di stress possono portare a ipocortisolismo a lungo termine. È possibile infatti che depressione e / o episodi maniacali ricorrenti, provocando un elevato accumulo di stress nel tempo, portino ad un esaurimento del sistema ormonale.

Questa ipotesi è supportata dall’osservazione di un gruppo di pazienti bipolari tra i quali i soggetti più anziani presentavano livelli di cortisolo più bassi, soprattutto quelli che non avevavo mai assunto farmaci per la stabilizzazione dell’umore. Al contrario non è stato osservato nessun incremento dell’ipocortisolismo tra i pazienti bipolari che erano stati trattati con il litio per gran parte della loro vita. Secondo i ricercatori, il trattamento precoce e continuo con il litio ha effetti positivi sul decorso della malattia che potrebbero in parte essere legati al fatto che l’assunzione di uno stabilizzatore dell’umore aiuta a prevenire lo sviluppo dell’ipocortisolismo.

Freud (forse) è morto, ma la psicoanalisi è viva e vegeta

Freud e Jung per psicoanalisi e terapie psicodinamiche sono come Giotto e Raffaello per l’arte, o Galileo e Newton per la fisica: un punto d’inizio che apre a molteplici possibilità. Da allora però la psicoanalisi è molto cambiata pur riconoscendo il suo debito verso i “padri fondatori”.

A chi fa ancora paura la psicoanalisi? Questa è la domanda che mi sono posto dopo aver letto gli interventi di Giovanni Maria Ruggiero pubblicati su State of Mind (Goodbye Freud, 29.01.2016 e Non è più il tempo dell’inconscio e dell’underground nella psicoterapia moderna, 30.10.2015). Ruggiero è uno studioso a cui non può mancare la conoscenza circa le rielaborazioni della psicoanalisi, già presenti nei numerosi rimaneggiamenti nel pensiero e nell’Opera di Freud che coprono un lasso temporale di circa mezzo secolo. La psicoanalisi ha poi continuato a ridefinirsi e svilupparsi sino ai nostri giorni in maniera pressoché incessante.

Immaginare la psicoanalisi attuale come una sorta di contenitore in cui un impassibile analista scavi nel passato con la speranza che il solo ricordare consenta il cambiamento, è proporre un’idea macchiettistica della psicoanalisi. Con questo non voglio negare che possano essere sopravvissuti alcuni psicoanalisti “dinosauri”, del tutto avulsi dalle evoluzioni che la psicoanalisi ha compiuto a livello teorico e clinico negli ultimi 100 anni, ma pensare che questi rappresentino “la psicoanalisi” è un po’ come credere che i terapeuti cognitivo-comportamentali che, ad esempio puniscono e premiano i pazienti con disturbi del comportamento alimentare impedendo loro di telefonare ai genitori durante il trattamento con rigide regole skinneriane, a tutt’oggi non annegati nella “terza onda”, siano paradigmatici della TCC attuale.

Già nel primissimo Freud, invero, vi è il superamento della prospettiva catartica ideata e messa a punto con Breuer, ossia il tramonto dell’idea che per cambiare possa essere sufficiente ricordare gli eventi traumatici del passato magari obliati nell’inconscio. In realtà già Freud comprese e mostrò che “conoscere ed essere coscienti di ciò che prima era inconscio non è sufficiente per cambiare”. Che la catarsi fosse insufficiente, non è certo una scoperta della “psicologia di oggi” come sostiene Ruggiero, ma un’evidenza che la psicoanalisi degli esordi aveva ben presto reso nota. L’idea che il passato fosse la causa delle nevrosi del paziente è stata già superata in Freud nel 1917 con il suo “Introduzione alla psicoanalisi”, dove veniva riportato il concetto di “nevrosi attuale”, per il quale il disagio psicologico poteva ben lungi dall’essere una cieca ripetizione di un passato relegato nell’inconscio: per questi motivi il presente nel rapporto terapeutico con l’analista divenne ben presto per Freud la vera relazione ristrutturante.

La rievocazione dei traumi del passato è peraltro, oggi, alla base di alcune metodiche terapeutiche contemplate in tecniche più vicine al mondo cognitivo-comportamentale che alla psicoanalisi, come ad esempio nel caso dell’EMDR per il trattamento dei disturbi post-traumatici da stress. Stupisce pertanto, in qualunque caso, un rifiuto che se non adeguatamente argomentato rischia di apparire aprioristico, circa l’esplorazione del passato, che in alcuni casi può essere utile e terapeutica.

Nella pratica psicoanalitica di oggi, ricordare ciò che era sepolto nell’inconscio, il far riemergere il passato, non è più considerato necessario, al contrario può risultare in alcuni casi persino fuorviante, se finalizzato all’evitamento da parte del paziente (o dell’analista) delle situazioni difficili attuali.

I lavori di Freud e Jung sulla traslazione e la contro-traslazione, la funzione metaforica dell’Edipo come elemento archetipico e non necessariamente come fatto concreto, la consapevolezza che molti dei racconti dei pazienti emersi durante l’analisi non erano ricordi di fatti realmente avvenuti ma elaborazioni della loro fantasia, erano già tutte riflessioni della prima psicoanalisi, ossia quella di Freud e Jung. Persino il re-orientamento in chiave relazionale era già “in nuce” nei lavori di Freud (Lutto e melanconia ad esempio) e certamente esso permea tutta l’opera di Jung, che con il suo concetto di “proiezione attiva” anticipò di molti anni alcune teorizzazioni della Klein come l’”identificazione proiettiva”. Le varianti delle teorie psicoanalitiche basate sulle relazioni oggettuali (Klein, Fairbairn, Winnicott, Bowlby), che hanno dato l’abbrivio alle prospettive relazionali (Mitchell, Greenberg), i tentativi di ricomposizione delle varie differenze teoriche operate da Bion e dai suoi allievi, sino alle più attuali concettualizzazioni della psicoanalisi del campo (Baranger, Ogden, etc.), sono solo alcuni dei filoni di dibattito teorico in ambito psicoanalitico.

Il pensiero psicoanalitico è particolarmente vivo e fecondo, al limite del conflitto tra orientamenti nella stessa psicoanalisi.

Altra cosa però, rispetto alla psicoanalisi, sono le terapie psicodinamiche che, pur provenendo dalla psicoanalisi, al di là dei vari orientamenti teorici, hanno in comune una più marcata propensione alla ricerca clinica, alla sperimentazione empirica. Ricerca scientifica e sperimentazione appaiono – su questo ha pienamente ragione Ruggiero – il vero anello debole della clinica terapeutica basata sulle teorie psicoanalitiche. Per troppo tempo, infatti, gli psicoanalisti hanno snobbato la ricerca scientifica svolta secondo i rituali standard della pratica Evidence Based e pagano oggi lo scotto di una lunga strada ancora tutta da recuperare. I risultati degli ultimi 15 anni, come ben saprà Ruggiero, sono però soddisfacenti e su questa strada occorre proseguire senza incertezze.

Le differenze con le terapie cognitivo-comportamentali, ad oggi, sono a mio avviso molto più teoriche ed epistemologiche che puramente cliniche, specialmente se si verifica l’operato quotidiano di terapeuti esperti con il disturbo psichico, indipendentemente dal modello di riferimento dei terapeuti. Resta ad ogni modo una profonda differenza circa il modo in cui la psicoanalisi e gli orientamenti cognitivo-comportamentali guardano all’uomo, alla psicopatologia, ai concetti di salute, malattia e guarigione e da ciò probabilmente anche la differente propensione a basarsi su agglomerati statistici (più tipica dei modelli cognitivo-comportamentali), oppure delle ricerche single case (più tipica dei modelli psicodinamici). Gli stessi concetti di efficacia ed efficienza vanno in tal senso contestualizzati. Una terapia è efficace (o meno efficace) rispetto a cosa? Per definire il nostro parametro di efficacia ci atteniamo alle statistiche dei vari DSM, che cambiano drasticamente di anno in anno, o abbiamo un’idea più complessa della psicopatologia e del vissuto soggettivo di chi soffre psicologicamente? Queste sono domande su cui vale la pena confrontarsi, avendo tuttavia cura, a volte, di distinguere il piano clinico da quello più teorico e speculativo.

Di fronte al paziente, al soggetto, in ogni caso, il più delle volte si azzerano gran parte delle differenze teoriche e restano i terapeuti nella loro esperienza e competenza, oltre che nella loro umanità. Anche per questo, nella pluralità dei modelli e dei possibili interventi proponibili, occorre sempre saperci porre con l’umiltà di chi sa di non sapere tutto sulla psiche e sulla complessità della mente umana.

 

Alessandro Raggi
Psicoterapeuta, psicoanalista,
Didatta Scuola di psicoterapia analitica AION
Responsabile nazionale Centri ABA
www.psicheanima.it

 

LEGGI LA RISPOSTA DI GIOVANNI M. RUGGIERO:
Freud è morto, la psicoanalisi vive

Parlare del più e del meno. Perché è così faticoso se sei introverso?

È esperienza comune della vita di molti di noi aver provato imbarazzo e malcelata insofferenza nel trovarci intrappolati in situazioni interpersonali di cui avremmo fatto volentieri a meno, con persone che non conosciamo bene o con cui non troviamo particolarmente stimolante scambiare opinioni e confidenze.
Per ovviare allo spiacevole disagio che tali situazioni portano con sé, spesso cerchiamo, con alterna convinzione ed efficacia, di imbastire faticosamente un dialogo estemporaneo per non apparire maleducati, disinteressati o per non doverci confrontare con l’”horror vacui” comunicativo che aumenta la nostra percezione di disagio.

Gli argomenti di discussione “passpartout” che estraiamo dal nostro cilindro e con i quali cerchiamo di scardinare la porta di imbarazzante silenzio con le persone vicine a noi sono ben noti: le condizioni metereologiche, il lavoro, la politica ecc.
Per le persone maggiormente introverse, trovarsi a parlare “del più e del meno” in situazioni di scarsa confidenza può essere una condizione ancora più spiacevole.
La giornalista Jennifer Granneman, in un articolo pubblicato sul sito Quite Revolution, ipotizza quali possano essere le motivazioni che mettono in crisi gli introversi davanti alle conversazioni spicciole, che non sarebbero colpevoli di metterli semplicemente in forte imbarazzo, ma anche di lasciarli con una sorta di sensazione di “batteria scarica”…

In reality, most introverts are drained by small talk because it feels fake and meaningless. When you exchange pleasantries or chat about the weather to avoid silence, you don’t learn anything new or gain a better understanding of your conversation partner. Psychologist Laurie Helgoe, author of Introvert Power: Why Your Inner Life Is Your Hidden Strength, argues that small talk actually blocks honest interaction. “Introverts do not hate small talk because we dislike people,” she writes in her book. “We hate small talk because we hate the barrier it creates between people.”

5 Ways to Make Small Talk More Meaningful

Consigliato dalla Redazione

Parlare del più e del meno. Quanta fatica se sei introverso

Do you dread small talk? Here are 5 surefire tips for introverts on how to survive small talk and turn it into something worthwhile. (…)

Tratto da: Quiet Revolution

 

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Il valore delle lacrime: l’esempio di Inside out

L’aspetto più educativo del film è sicuramente il ruolo di Tristezza, emozione che spesso cerchiamo di non sentire, di non ascoltare, di nascondere tra un lavoro e l’altro, di soffocare riempiendoci la vita di impegni o immergendoci in un videogioco o un Social network.

 

Arriva in questi giorni sulle principali PayTv il film Inside out della Pixar Animation Studios, dopo il suo debutto al cinema dello scorso autunno. Un’occasione per riscoprire le nostre emozioni grazie a un capolavoro dell’animazione digitale. Il film in qualche modo richiama la nota serie “Siamo fatti così – Esplorando il Corpo Umano” ma è focalizzato sul funzionamento della nostra mente, e in particolare delle emozioni e dei ricordi. Le emozioni sono rappresentate con dei personaggi come Gioia, Rabbia e Paura, i ricordi invece assumono la forma di sfere che portano il colore delle relative emozioni.

Nel film viene illustrata la mente come un luogo misterioso e molto vasto, dove gli abitanti stessi – le emozioni – non ne conoscono il funzionamento ma lo scoprono con il passare degli anni. L’universo della mente della protagonista, una bambina di nome Riley, ha un centro di controllo, il Quartiere Generale, dove vivono le emozioni; alcune aree dove si sviluppa la personalità della bambina grazie a quelli che vengono definiti “ricordi base”; le aree della memoria a lungo termine dove i ricordi vengono archiviati e infine, l’oblio, rappresentato come una sorta di discarica dove si perdono i ricordi. Si potrebbe pensare che la Pixar abbia in qualche modo semplificato o banalizzato la mente umana ma in realtà ciò che avviene nel nostro cervello è in effetti molto più simile alle vicende del film di quanto possiamo immaginare.

La storia di Riley si sviluppa attorno ad un’infanzia felice, quasi perfetta, dove le emozioni come paura, rabbia e soprattutto tristezza vengono messe in secondo piano dal personaggio Gioia, la quale è impegnata a rendere le giornate della bambina sempre perfette. Crescendo, in particolare in concomitanza con il trasloco della famiglia in una nuova casa, Gioia si rende però conto che non è più possibile tenere a bada le altre emozioni, nonostante quindi i suoi tentativi di circoscrivere Tristezza, i ricordi si mescolano e non diventano più solo perfettamente gioiosi, permettendo alla bambina di scoprire cosa si prova ad essere tristi.

Ciò che viene spiegato nel film è che è grazie alla tristezza, molto spesso, che possiamo scoprire la gioia, per dirlo con Gibran: [blockquote style=”1″]Quanto più in fondo vi scava il dolore, tanta più gioia voi potrete contenere.[/blockquote] (Gibran, 2014).

Il film è estremamente educativo, adatto a tutte le età, spiega come la vita sia una continua interazione tra emozioni e tra persone ma anche tra passato, presente e futuro; il tutto si mescola creando la meravigliosa avventura della vita umana.

L’aspetto più educativo del film è sicuramente il ruolo di Tristezza, emozione che spesso cerchiamo di non sentire, di non ascoltare, di nascondere tra un lavoro e l’altro, di soffocare riempiendoci la vita di impegni o immergendoci in un videogioco o un Social network. Ci sembra che la tristezza non debba esserci, riusciamo a tollerarla sempre meno, ne abbiamo paura. In realtà però, il benessere e l’equilibrio psicofisico può nascere solo dalla corretta interazione tra le emozioni, permettendoci di soffermarci su ognuna di esse, dandoci qualche volta anche l’occasione di stare in silenzio, spegnendo TV, smartphone e computer senza paura, ascoltando il suono delle nostre emozioni, accogliendo anche la tristezza. In questo modo impareremo a gestire i momenti difficili senza cadere nell’ansia, senza perdere il controllo, accettando e comprendendo che tutte le nostre emozioni hanno un ruolo e un senso nella nostra mente. Ecco allora il valore delle lacrime, che hanno il fascino di poter essere figlie sia di Gioia che di Tristezza, hanno la capacità di farci sentire sollevati aiutandoci a non tenerci tutto dentro.

Un consiglio va quindi a genitori, educatori e insegnanti: non impedite loro di essere tristi, non riempite la loro vita di impegni, educateli anche al silenzio, all’attesa, all’ascolto di se stessi, del proprio corpo e delle proprie emozioni, solo così potranno crescere sereni e in equilibrio.

 

PER SAPERNE DI PIU’:

Su State of Mind avevamo parlato della valenza psicoeducativa di Inside Out e di come il film utilizzi la teoria cognitiva della mente per spiegare le funzioni delle emozioni. Successivamente ci siamo concentrati sull’importanza della memoria e dei ricordi in Inside Out  e della valenza positiva della tristezza. Abbiamo inoltre analizzato Inside Out e il suo utilizzo come homework in psicoterapia- psicoeducazione. E’ stato pubblicato, infine, un articolo su come, grazie al film Disney, l’educazione emotiva abbia raggiunto il grande schermo (NdR).

La depressione bipolare (2007) di G. Graus – Recensione

Il libro di Gianfranco Graus, ormai alla seconda edizione, si rivolge ai familiari e ai pazienti che devono convivere con il disturbo bipolare, con lo scopo di amplificare le loro conoscenze, la loro consapevolezza, e se possibile evitare alcuni errori che spesso hanno un alto prezzo di vita.

 

Purtroppo il disturbo bipolare è fra le malattie psichiatriche meno curate, per cui solo un individuo su tre ha una diagnosi e una cura corrette. Il rischio lifetime di suicidio è del 15%, almeno tre volte più elevato quello per un tentato suicidio. È una patologia che causa una riduzione dell’attività produttiva di 14 anni rispetto alla popolazione generale. Il peccato è più grave se si pensa che ormai sono molte le soluzioni terapeutiche possibili, con una complessiva buona efficacia nella cura del disturbo.

L’autore spiega nel capitolo 1 in modo semplice ma completo le fasi del disturbo, con casi clinici che rendono la trattazione più immediata e chiara, mentre nel capitolo 2 si sofferma sulle difficoltà diagnostiche, così come sugli elementi personologici e psicologici che fanno da sfondo al disturbo e che spesso portano alla sottovalutazione del problema da parte dei diretti interessati e ad un errore diagnostico da parte degli addetti ai lavori.

Seguono i capitoli dedicati al trattamento del disturbo bipolare. Il capitolo 3 si sofferma sui trattamenti farmacologici, asse imprescindibile della terapia del disturbo bipolare. Ne espone le classi e si sofferma sul rapporto con i farmaci, che spesso risulta difficile e conflittuale. Chiarisce i ruoli delle figure professionali che gravitano introno al paziente e i setting di trattamento possibili (capitolo 4). Spiega e racconta il ruolo della psicoterapia, dà indicazioni sui tempi di trattamento, indica in che momento è meglio iniziare la psicoterapia e quali sono i tipi di psicoterapia efficaci per il disturbo, quali la psicoeducazione, la psicoterapia cognitivo-comportamentale, la psicoterapia focalizzata sulla famiglia e la psicoterapia interpersonale e dei ritmi sociali.

Nei capitoli 6 si spiega e si documentano le ipotesi circa la vulnerabilità biologica del disturbo, riportando le ipotesi principali, ma attraverso conversazioni cliniche e suggerimenti il lettore beneficia di una psicoeducazione al disturbo e al suo funzionamento.

I fattori psicologici vengono trattati nel capitolo 7 e 8. Vengono fornite, anche in questo caso, spiegazioni e consigli che risultano a tutti gli effetti degli strumenti terapeutici auto-gestibili, come la ricostruzione della storia degli episodi del disturbo, la registrazione dei sintomi prodromici, la registrazione degli ostacoli mentali, la promozione del rilassamento muscolare e della mindfulness.

I capitoli 9 e 10 raccolgono una serie di riflessioni e di raccomandazioni per familiari ed amici, oltre che una valutazione più generale sul concetto di patologia mentale al giorno d’oggi e di stigma sociale.

Non meno utile la nota finale sulle letture consigliate e sui siti internet specializzati sull’argomento, così come i riassunti alla fine dei capitoli, che focalizzano l’attenzione sui punti chiave.

Non c’è dubbio che il merito principale del libro sia quello di riportare l’attenzione sul disturbo bipolare, dopo anni di colpevole trascuratezza. Il disturbo è subdolo, ha una lunga latenza nella diagnosi e spesso prevede anni di trattamento prima di un’efficace stabilità.

Nel libro è chiaro il superamento anche di quell’antitesi tra trattamenti farmacologici e psicoterapia, o altre forme di trattamento, ormai del tutto pregiudiziale, ma ancora molto presente nella pratica clinica. Fornire elementi concreti e strumenti efficaci per la consapevolezza e la gestione di questo disturbo appare quindi di grande attualità.

L’effetto Placebo. Breve viaggio tra mente e corpo (2012) di F. Benedetti – Recensione

Un’utile introduzione alle attuali conoscenze sui meccanismi fisiologici e psicologici che presiedono al funzionamento dell’effetto placebo. Una lettura utilissima per chiunque si interessi di medicina, psicologia, filosofia della mente e bioetica.

Come diceva un grande filosofo dell’Ottocento, ciò che è notorio non è per questo conosciuto. In effetti, cosa sia a grandi linee l’effetto placebo è qualcosa di abbastanza notorio per qualunque medico e psicologo, oltre che probabilmente per qualunque persona mediamente colta: in determinate circostanze, per una percentuale sensibile di persone, un trattamento simulato può avere effetti paragonabili a quelli di un trattamento autentico.

Secondo una definizione corrente, l’effetto placebo è «un cambiamento del corpo o della mente che avviene come risultato del significato simbolico che viene attribuito a un evento o a un oggetto in ambito sanitario» (Howard Brody, cit. in Benedetti, 1912, p. 23).

L’esistenza dell’effetto placebo è ciò che rende necessario nella ricerca l’uso della tecnica del doppio cieco (double blind). Quando si effettua la sperimentazione di un nuovo farmaco, cioè, si scelgono due gruppi equivalenti ai quali vengono somministrati sia il prodotto vero che un prodotto inerte, dello stesso aspetto del primo, da parte di personale che non deve sapere a chi stia dando che cosa. In questo modo i membri dei due gruppi saranno condizionati da aspettative del tutto simili e le eventuali differenze di efficacia saranno integralmente da attribuire agli effetti del trattamento. All’inverso, anche gli eventuali effetti collaterali dovranno essere attribuiti al trattamento stesso: anche le aspettative negative possono influenzare l’organismo, inducendo in questo caso un peggioramento della propria condizione (si parla allora di effetto nocebo).

L’effetto placebo non è però una semplice curiosità o un artefatto della ricerca. Secondo Fabrizio Benedetti, in realtà, in primo luogo gran parte della storia della medicina prescientifica è storia dell’uso inconsapevole del placebo. Le prime istituzioni dove la medicina è stata praticata basandosi su reali conoscenze fisiologiche del funzionamento delle cure, peraltro, sono gli ospedali francesi del terzo decennio dell’Ottocento. Quindi per quasi tutta la sua storia, l’umanità sofferente si è affidata a medici (e prima a ciarlatani e sciamani) che si sono basati su innumerevoli cure assolutamente prive di fondamenti razionali. Eppure, vuoi per la regressione spontanea di alcune malattie, vuoi per la fiducia nella guarigione indotta dalle cure, dei miglioramenti potevano essere ottenuti. I miglioramenti ottenuti, d’altra parte, non potevano che rinforzare la fiducia dei successivi pazienti, mantenendo in vita tradizioni terapeutiche di per sé in teoria prive di efficacia.

In secondo luogo, l’uso dell’effetto placebo fa tuttora parte della pratica medica. Pochi ma rigorosi studi hanno mostrato che, in diversi paesi, i medici usano trattamenti placebo con relativa frequenza. In Usa, Danimarca e Israele percentuali tra il 60% e l’80% dei medici ha usato o usa placebo veri e propri (pillole di zucchero o iniezioni di acqua distillata, per esempio) oppure placebo attivi, cioè medicine vere e proprie ma inefficaci nel caso di specie, somministrate solo nell’intento di suscitare fiducia nel professionista e attesa di guarigione.

Un tipico esempio di placebo attivo è l’antibiotico prescritto per l’influenza virale, che non rappresenta minimamente una cura specifica, ma la cui assunzione può costituire un’alternativa assai meno frustrante della semplice passiva permanenza nel letto fino a decorso completo.

Lo studio dei meccanismi di funzionamento dell’effetto placebo risale a tempi abbastanza recenti e ha condotto a una serie di risultati di estremo interesse. Dal punto di vista dei meccanismi psicosociali, è stato anzitutto verificato che l’intervento di chi somministra il trattamento assume un’importanza rilevante ai fini dell’efficacia del trattamento stesso. Ciò significa che un medesimo farmaco sarà tendenzialmente più efficace se il medico usa parole rassicuranti e adotta un comportamento amichevole e non freddo: ciò vale sia nel caso del placebo, sia nel caso di un farmaco attivo e funzionante.

Anche altri aspetti del contesto di somministrazione sono importanti. Ad esempio se al placebo viene assegnato il nome di un farmaco conosciuto e gli viene attribuito un alto costo, tenderà a risultati migliori rispetto a quelli ottenuti con un nome sconosciuto e un prezzo teorico più basso. In ogni caso non esiste la possibilità di prevedere se l’effetto sarà o meno innescato in un singolo paziente, anche se è stato definitivamente provato che determinati caratteri genetici rendono in linea teorica determinate persone più predisposte di altre all’efficacia del placebo.

I meccanismi fisiologici del funzionamento del placebo sono a loro volta molteplici e intricati. Benedetti ricorda che, tra l’altro, è stato possibile indurre l’effetto placebo su animali, dai quali non ci si aspetterebbe l’attesa di una determinata azione da una sostanza. Eppure, per esempio, dopo aver iniettato a topi una sostanza che migliorava una performance motoria un certo numero di volte, si è osservato che un’ulteriore iniezione, di sostanza inattiva, consentiva ad alcuni di essi le stesse performance ottenute in precedenza inoculando il prodotto attivo.

In linea generale, però, sono due le strade attraverso le quali la mente influenza il corpo innescando l’effetto placebo, ovvero le aspettative e l’apprendimento. Le aspettative possono agire modulando l’ansia (per esempio l’ansia anticipatoria può aumentare la percezione soggettiva del dolore; una sedazione dell’ansia la può diminuire). Talora vengono coinvolte le regioni del cervello usualmente coinvolte nei meccanismi di ricompensa, in particolare il nucleus accubens che rilascia dopamina quando ottengono successo i comportamenti di ricerca di un premio o del piacere (attraverso cibo, sesso o obiettivi culturalmente acquisiti come denaro e droghe). Il miglioramento terapeutico è di per sé una forma di premio o di piacere e la sua attesa può attivare il nucleus accubens. Il conseguente rilascio di dopamina può influenzare a sua volta il rilascio di altri neurotrasmettitori: il risultato può essere l’inibizione del dolore, la diminuzione della depressione o persino il miglioramento dei sintomi nel morbo di Parkinson.

L’apprendimento può agire sotto la specie del condizionamento (abituarsi all’idea che una pillola tonda bianca migliori la propria condizione di salute può generare un’efficace aspettativa di guarigione anche quando all’aspirina presa originariamente viene sostituita una pasticca inerte della stessa forma). Anche l’apprendimento sociale, però può essere efficace (osservando che un determinato rituale terapeutico in un ospedale produce la guarigione ci si aspetta che lo stesso rituale produca anche in noi gli stessi effetti).

Benedetti prende in considerazione diversi ambiti dove l’effetto placebo entra o può entrare in funzione, dal doping sportivo alle medicine alternative alla vita di tutti i giorni. Dispiace però che l’unico capitolo che si può considerare poco interessante e riuscito sia quello sulle psicoterapie. L’autore parte dal dato di fatto dell’esistenza sul mercato di più di quattrocento psicoterapie, delle quali si conosce in qualche modo l’efficacia, per affermare che l’unico fattore in comune ad esse sia «una positiva interazione umana tra paziente e psicoterapeuta» e di conseguenza siano tutte assimilabili all’effetto placebo (Benedetti, 2012, p. 59).

È stato però ampiamente dimostrato dalla ricerca che, se è pur vero che in molti casi gli effetti di varie psicoterapie sono ugualmente positivi, essi sono comunque ben superiori sia all’effetto di terapie-placebo appositamente disegnate, sia (a maggior ragione) all’effetto del puro scorrere del tempo (cfr., p. es., Dazzi, Lingiardi e Colli, 2006).

Questo specifico neo però non cancella i molti meriti del libro, scritto da uno specialista di fama mondiale, in una forma sintetica, molto leggibile e assai efficace.

 

LEGGI ANCHE:

Effetto Placebo: un viaggio tra mente e corpo. Intervista a Fabrizio Benedetti

 

Mangiare bene: un’abitudine che si impara da piccoli

La strategia migliore sarebbe, secondo i ricercatori della La Trobe University, la promozione di un ambiente familiare in cui non si seguano rigidi parametri calorici o ponderali, ma al contrario, si instauri un clima di informazione e consapevolezza relativa a ciò che si mangia.

 

Buone abitudini alimentari e soddisfazione per il proprio corpo sono fattori fondamentali per la salute fisica e psicologica di ciascuno di noi, bambini inclusi. Essere insoddisfatti del proprio aspetto e in sovrappeso espone anche i più piccoli al rischio di una vita poco sana e, in alcuni casi, allo sviluppo di sintomi depressivi e veri e propri disturbi alimentari. Coinvolgere i genitori risulta quindi fondamentale per evitare l’emergere e il consolidarsi di pattern alimentari disfunzionali e tenere sotto controllo le aree di vulnerabilità. Nel corso del tempo sono stati messi a punto progetti di intervento di varia ispirazione e natura ma, in molti casi, si è tralasciato l’intervento preventivo limitandosi alla gestione dei sintomi e ponendo il focus sul peso piuttosto che sulla salute alimentare nel suo significato più ampio.

Così affermano i ricercatori della La Trobe University di Melbourne, Australia, che hanno messo a punto un intervento denominato Confident Body Confident Child (CBCC). Il programma, recentemente sottoposto a verifica sperimentale, ha carattere preventivo ed è dedicato ai genitori di bambini tra i 2 e i 6 anni d’età. Come affermano gli autori, il CBCC interviene prima di tutto sull’atteggiamento dei genitori nei confronti dell’aspetto fisico proprio e dei figli e sul ruolo attribuito al cibo nel modello educativo del nucleo familiare. I comportamenti a rischio possono essere talvolta difficili da individuare: se è intuitivo che l’assunzione di cibo ipercalorico e preconfezionato comporta il rischio di un aumento di peso e che la svalutazione da parte del genitore dell’aspetto dei figli li espone al pericolo dell’insoddisfazione per il proprio corpo, potrebbe risultare meno evidente che utilizzare il cibo come premio o punizione è altrettanto disfunzionale. In altre parole, contare le calorie serve a poco se si finisce con il ricompensare con un gelato un bambino che ha mangiato la frutta o si sospendono le merendine per un capriccio.

La strategia migliore sarebbe quindi, secondo i ricercatori della La Trobe University, la promozione di un ambiente familiare in cui non si seguano rigidi parametri calorici o ponderali, ma, al contrario, si instauri un clima di informazione e consapevolezza relativa a ciò che si mangia. Come? Proponendo ai genitori un percorso educativo di sei settimane nel corso delle quali si forniscano opuscoli, poster, libri per bambini, un sito internet cui poter accedere per chiarire i propri dubbi e un workshop per imparare come mettere in pratica ciò che si è appreso.

I risultati per ora sono incoraggianti e rivelano, al termine del programma, una maggiore consapevolezza da parte dei genitori relativa ai comportamenti che espongono i bambini al rischio di pattern alimentari disregolati e una minore intenzione di mettere in atto tali comportamenti. Ulteriori ricerche potranno chiarire se, sul lungo periodo, questo sia sufficiente per garantire abitudini alimentari sane e un peso nella norma. È forse il caso, sembra suggerire lo studio, di ripensare il modo in cui mangiamo, per tutelare noi stessi e i più piccoli dal rischio di sovrappeso e disturbi alimentari e garantire a tutta a famiglia un rapporto sereno e salutare con il cibo.

Terapia cognitivo-comportamentale di 2a e 3a generazione per i Disturbi Alimentari – Sandra Sassaroli conferenza a Milano

2 febbraio 2016 alle 20:15 presso la Casa della Psicologia in Piazza Castello 2 a Milano

La psicoterapia cognitivo comportamentale ha dimostrato la sua efficacia con i disturbi dell’alimentazione fin dai primi anni novanta. Il protocollo di Fairburn è oggi considerato il punto di riferimento per tutti gli interventi con pazienti bulimiche. Vi sono però alcuni problemi sia per quanto riguarda la disseminazione che per quanto riguarda l’applicazione del modello cbt standard all’anoressia e ai disturbi da alimentazione incontrollata.

Tra le terapie di terza generazione quelle che si rivolgono alla comprensione dei processi di pensiero (rimuginio, ruminazione) sembrano estremamente promettenti. Esse hanno arricchito la comprensione del funzionamento psicopatologico di pazienti con diversi disturbi di primo asse e si misurano oggi con i disturbi dell’alimentazione. Anche se queste ipotesi non hanno ancora superato il vaglio della sperimentazione di efficacia, costituiscono per i clinici un campo interessante e innnovativo per arricchire la comprensione di queste pazienti.

Ce ne parlerà Sandra Sassaroli psichiatra e psicoterapeuta cognitivo-comportamentale. Direttore della scuola di specializzazione in psicoterapia cognitiva “Studi Cognitivi” con sedi a Milano, San Benedetto del Tronto e Modena.Didatta SITCC dal 1981. E’ autrice di numerosi libri e di articoli pubblicati su riviste peer reviewed.

 

Vi aspettiamo il 2 febbraio alle 20:15 presso la Casa della Psicologia in Piazza Castello 2 a Milano, o alle 20:30 sulla piattaforma gotowebinar di OPL.

DBT, Skills training: il nuovo manuale di Marsha Linhean (2015) – Recensione

I moduli di abilità insegnate sono quelli conosciuti dall’impianto classico DBT: Abilità di mindfulness, Abilità di efficacia interpersonale, Abilità di regolazione emotiva, Abilità di tolleranza della sofferenza; se però già nell’impianto generale dello skills training ci sono novità sostanziali, anche nei contenuti insegnati si possono trovare delle modifiche rilevanti: sono stati rivisti al loro interno i singoli moduli e introdotte nuove abilità, compresa una sezione interamente nuova dedicata ai disturbi del sonno (protocollo sugli incubi e sull’igiene del sonno).

di Iacopo Camozzo Caneve

 

Dalla sua introduzione negli anni ’90 la Terapia Dialettico Comportamentale, all’inizio con un focus specifico per il disturbo Borderline e impulsività suicidaria, è andata sempre più differenziandosi al suo interno mostrando la sua utilità per un ampio numero di disturbi (disturbi alimentari, depressione resistente al trattamento e dipendenze in particolare), oltre che per popolazioni non cliniche, ma potendo giovarsi quasi sempre di consistenti prove di efficacia.

Parallelamente a questo spostamento, i gruppi di skills training (comportamenti da apprendere per poter gestire situazioni problematiche), che sembravano all’inizio essere di supporto alla terapia individuale, hanno mostrato sempre più essere l’aspetto centrale dell’intervento terapeutico e del cambiamento clinico, così come dimostrano le ricerche svolte in questi anni.

Per mettere a fuoco questi cambiamenti, e fare il punto sullo stato attuale dell’intervento DBT, M.Linehan ha pubblicato nel 2014 (arrivato da poco in Italia) un nuovo manuale; nuovo proprio perché riflette direttamente gli sviluppi appena ricordati: un intero manuale (più di 900 pagine tra teoria schede esercizi) dedicato unicamente allo skills training, e uno skills training modulare che si può declinare liberamente non solo a seconda del disturbo, ma anche delle esigenze del singolo paziente.

I moduli di abilità insegnate sono quelli conosciuti dall’impianto classico DBT: Abilità di mindfulness, Abilità di efficacia interpersonale, Abilità di regolazione emotiva, Abilità di tolleranza della sofferenza; se però già nell’impianto generale dello skills training ci sono novità sostanziali, anche nei contenuti insegnati si possono trovare delle modifiche rilevanti: sono stati rivisti al loro interno i singoli moduli e introdotte nuove abilità, compresa una sezione interamente nuova dedicata ai disturbi del sonno (protocollo sugli incubi e sull’igiene del sonno). La novità più rilevante è però rappresentata da un modulo mindfulness rinnovato e notevolmente ampliato, maggiormente in linea con il peso che la mindfulness ha all’interno del trattamento e con le necessità di approfondimento che ne derivano (lasciate in parte disattese nell’edizione precedente del manuale).

In sintesi, un’opera fondamentale nel panorama DBT, è un ‘opera importante per ogni clinico che voglia introdurre nei propri interventi l’insegnamento di abilità specifiche.
In un momento storico in cui sempre più al mondo della psicoterapia è richiesto un ancoraggio forte nella ricerca, e in cui le teorie hard abbondano mentre le prassi terapeutiche rimangono troppo spesso soft, il modo di procedere della Linehan rappresenta davvero un modello interessante: fa infatti del proprio aver “rubato” le proprie skills a terapie e modelli evidence-based più disparati (terapia cognitivo-comportamentale, psicologia sociale, psicologia cognitiva….) il punto di forza del proprio lavoro, fino ad andare a “pescare” direttamente dalla prassi clinica dei colleghi (al di là di quel che dice la teoria di riferimento) per costruire, dal basso, il corpus, peraltro davvero imponente, delle proprie skills.

Goodbye Freud. La psicologia abbandona la dimensione europea della ricerca intellettuale

Questo articolo è stato pubblicato da Giovanni Maria Ruggiero su Linkiesta il 9/01/2016

 

Si è persa fiducia nel potere taumaturgico della conoscenza. L’atto del conoscere, del sapere come è fatta una cosa, è considerato meno curativo e meno capace di mutare l’ordine delle cose per sola virtù propria.

I tempi cambiano, rapidamente. Anche nel campo della psicoterapia. Per qualche anno abbiamo sentito parlare molto di mindfulness, e forse abbiamo già scavalcato la cresta di quell’ondata di meditazione arrivata dall’oriente. Eppure, malgrado la possibile risacca degli esercizi di consapevolezza mentale, diventa sempre più condivisa e seguita una direzione ben precisa, una strategia di evoluzione della psicoterapia che, man mano che lievita, dimostra un interesse sempre più scarso e decrescente per l’esplorazione interiore, per lo scavo teso alla conoscenza del cosiddetto profondo.

Insomma, si è persa fiducia nel potere taumaturgico della conoscenza. L’atto del conoscere, del sapere come è fatta una cosa, è considerato meno curativo e meno capace di mutare l’ordine delle cose per sola virtù propria. È un secolo sempre più incredulo: dopo che il suo predecessore, il ‘900, aveva voltato le spalle alle grandi teologie in nome della conoscenza critica, questo nuovo tempo dissacra anche la conoscenza stessa, svalutandola a gioco intellettualistico. Non basta sapere per cambiare.

E perché mai un processo dovrebbe mettersi in moto dopo che la mente umana l’abbia conosciuto? Dopo la scuola del sospetto di Marx, Freud e Darwin, è l’ora di sospettare anche di costoro. Per la verità si sospetta più di Marx e Freud (e più Marx di Freud), mentre Darwin appare inattaccabile. In fondo quest’ultimo aveva ben poco a che fare con gli altri due, un britannico contro due mitteleuropei. I quali, con tutto il loro illuminismo, avevano cercato di rivelare un’essenza, una metafisica sia pure materialistica del mondo. Quanto di più lontano del pragmatismo del “basta che funzioni” anglo-americano. Cercavano una spiegazione definitiva che potesse cambiare il mondo una volta che si fosse rivelata alla mente umana. Mente Darwin si limitò a descrivere un modello, sia pure di grande respiro. Darwin descrisse delle funzioni, non cercò delle essenze.

Non si tratta di fare il solito Freud-bashing, di tirare le usuali randellate a Freud. Si tratta di prendere atto che oggi nessuno crede più nel potere taumaturgico del conoscere. Sapere, rendere cosciente ciò che prima era ignoto e perfino inconscio, incide poco sui fatti, o comunque molto meno di quel che si pensi. Sapere che la nostra vulnerabilità di oggi dipende da relazioni familiari difficili di ieri è solo un passetto verso il cambiamento. Nel ‘900 capire la psiche poteva sembrare una grande innovazione, e lo fu. Solo che era solo il primo passo e non portava automaticamente a risultati tangibili. In seguito la psicoterapia ha tardato a sviluppare modelli operativi facilmente descrivibili e di chiara efficacia. Sembra quasi che ci si sia divertiti a diminuire l’efficienza della psicoterapia per un bel po’ di anni, almeno fino agli anni ’50 e ’60. E tutto in nome dello scavo interiore infinito e alla lunga mortificante. Si è arrivati al limite di cinque sedute a settimana per anni, laddove Freud faceva terapie di pochi mesi.

Il nocciolo è che al volgere del millennio si è capito che le soluzioni stanno in un altrove rispetto all’esplorazione e alla comprensione. Capire le cose può essere importante, ma occorre farlo solo un po’, in economia. E poi, per trovare una soluzione pratica a ciò che non va si deve volgere il capo altrove. Questo è davvero un pezzo di ‘900 che muore. Se c’è stato un secolo convinto che tutto si risolvesse nel capire, questo è stato il ’900. Eppure anche in esso c’era il pensiero pragmatico, specialmente nei paesi di lingua inglese. Ma era un pensiero tra i pensieri, sommerso tra ermeneutica della comprensione continentale.

Dapprima c’è stato il crollo definitivo della cultura europea alla fine del ‘900, quando sono spariti gli ultimi dinosauri che ancor credevano che il francese fosse una lingua internazionale come l’inglese. Con essi è sparita l’ultima generazione di filosofi francesi, ovvero europei, di statura mondiale e da allora la cultura l’hanno fatta solo i paesi anglo-sassoni. Puntando non su Marx e Freud, idoli da studenti (specialmente il primo), ma su prodotti popolari e industriali di grande impatto, cinema in prima linea.

E infine l’ultima botta è stato proprio l’emergere del pensiero orientale. Il quale, a onta delle supposte differenze, ha rivelato una insospettata affinità con il pragmatismo anglo-sassone. Non è un mistero che il pensiero cinese sia del tutto allergico alle speculazioni sistematiche e metafisiche di stampo europeo. Confucio era un maestro di morale pratica, insomma un civilizzatore che insegnava le buone maniere al popolo. Ed è poi con il Buddha che si ha il matrimonio tra psicologia e pragmatismo anglo-sassone e orientale. Matrimonio forse d’amore che trasforma la psicoterapia rendendola una pratica meditativa in cui ci si addestra a governare la mente in maniera distaccata svalutando il momento della comprensione. È nato una sorta di paradigma anglo-indiano, o anglo tibetano, che ripudia definitivamente la passione europea per il speculazione intellettualistica a rischio di essere sempre fine a se stessa. Per questo la mindfulness, malgrado alcuni suoi limiti, rimane l’esempio culturale più vivo di questo cambiamento di stato. In psicoterapia questo movimento corrisponde all’emergere delle terapie di processo, terapie in cui oltre a capire cosa è accaduto ci si dedica molto ad esercitarsi, esercitarsi a cambiare attitudini e abitudini mentali.

Gli incontri tra seminatori e cercatori di tracce – Tracce del tradimento nr. 40

TRACCE DEL TRADIMENTOGli incontri tra seminatori e cercatori di tracce  (Nr. 40)

 

Cosa accade quando seminatori e cercatori professionisti si incontrano? Le combinazioni possibili secondo la nostra classificazione sarebbero 24 (6 x 4) ma ci limitiamo a segnalare le più “pericolose”.

I seminatori di tracce quando incontrano partner che non colludono con il loro gioco finiscono prima o poi per essere lasciati perché l’altro non accetta di vivere con il costante spettro del tradimento e quando si rende conto che non si tratta di un episodio ma di un modo costante di fare e si ritira in buon ordine. Anche i cercatori se all’inizio vengono accettati e il loro comportamento è letto come un interesse e una prova di affetto per il partner, a lungo andare diventano insopportabili e proprio quello che temono si verifica. Vengono lasciati proprio a causa dei comportamenti controllanti che hanno messo in atto per non essere lasciati: è il ben noto fenomeno delle profezie che si autoavverano.

Ma cosa accade quando seminatori e cercatori professionisti si incontrano?

Le combinazioni possibili secondo la nostra classificazione sarebbero 24 (6 x 4) ma ci limitiamo a segnalare le più “pericolose”.

Quando un seminatore codardo che cerca di chiudere il rapporto senza assumersene la responsabilità incontra un cercatore inquisitore che vuole colpevolizzare l’altro per poterlo lasciare, la partita è di breve durata. L’esito del rapporto è scontato perché, di fatto, entrambi vogliono porvi fine ed entrambi vogliono farlo senza assumersene la responsabilità. Tutto si conclude piuttosto rapidamente con uno strascico di accuse e colpe vicendevoli, ma il tono emotivo non è drammatico perché nessuno dei due ritiene di aver perso granché, si tratta solo di mettersi d’accordo se la colpa sia di chi tradiva (perché l’altro era asfissiante con i suoi controlli) o di chi controllava (perché l’altro non era fedele): insomma una questione da avvocati.

Diversa è la situazione quando in campo c’è un cercatore spaventato che ha un assoluto terrore di rimanere da solo: il livello delle emozioni è elevatissimo e drammatico. Egli è disposto a sopportare di tutto pur di non essere lasciato e finisce per trasformare qualsiasi categoria di seminatore in un terribile persecutore perché lo costringe ad inviare segnali sempre più forti in una continua escalation. Il codardo che non vuole fare del male all’altro ma che vuole comunque lasciarlo è costretto ad alzare continuamente il tiro e a dimostrarsi spietato. Se il cercatore spaventato incontra un narciso la coppia non durerà molto ma certo le sofferenze saranno elevate. La sicurezza di sé, la tendenza a muoversi nel mondo senza tenere conto delle emozioni del suo partner spaventato, infliggeranno grande dolore e quando il rapporto finirà sarà molto doloroso e preoccupante incominciare una nuova relazione per questo tipo di persone.

Il seminatore narciso viene rinforzato dalla disperazione che il cercatore spaventato mostra all’idea di perderlo, il bisogno che l’altro mostra di lui è ai suoi occhi una prova della sua grande importanza, del suo valore e gli da il permesso di tradire ancora di più tanto è sicuro che l’altro non lo lascerà mai. Più lo spaventato si aggrappa al narciso più quest’ultimo ha conferma della sua grandezza e acquista certezza del fatto che non sarà lasciato; di conseguenza tradirà ancora di più e l’altro si aggrapperà ancora di più. Il cercatore spaventato può diventare noioso alla fine per il partner e il presunto rivale perché non può neppure prendere in considerazione l’ipotesi della solitudine.

Tutt’altra faccenda è l’incontro tra un seminatore provocatore e un cercatore cacciatore: sono una coppia perfetta con l’unico difetto di aggravare con i loro litigi parenti e amici, almeno fino a quando non capiscono che il litigio è la forma del loro stare insieme e smettono di dare loro retta e di angosciarsi per le loro vicende. Entrambi vivono secondo la regola per cui ‘l’amore non è bello se non è tormentato’, uno semina e l’altro cerca ma possono scambiarsi le parti con grande soddisfazione. Nel loro gioco può essere previsto anche il ricorso ad uno psicoterapeuta ma si tratta solo di una mossa all’interno del gioco: non hanno nessuna intenzione di smettere di litigare ossessionarsi e tormentarsi e tanto meno di lasciarsi.

Il ricorso allo psicoterapeuta è soltanto un modo per segnalare la gravità della situazione, la drammaticità della loro sofferenza, ma in realtà se non hanno in mente nessuna modalità affettiva diversa e spesso una scarsa tendenza a trovarla. Sono rapporti solidi, duraturi e emotivamente caldi per tutta la loro durata; il prezzo lo pagano semmai le persone vicine e soprattutto i figli che vivono in una continua tensione.

Il cercatore inquisitore che cerca le colpe del partner per avere un buon motivo per tornare a stare da solo a volte lascia con un palmo di naso i seminatori che non avevano alcuna intenzione di porre fine al rapporto e invece si trovano improvvisamente lasciati. Il provocatore cercava solo di ravvivare il rapporto al quale si sentiva molto legato, in fondo scherzava, e non si dà pace della reazione del cercatore inquisitore che non accetta scuse, non tratta, condanna e punisce con l’abbandono.

Altrettanto imprevista appare la fine del rapporto al seminatore egocentrico che proprio non si rende conto di quali siano i capi d’accusa nei suoi confronti; ripete sempre il ritornello ‘ma cosa ho fatto di male? Di cosa l’ho privato?’ ma in fondo se la cava bene proprio grazie alla sua incapacità di mettersi nei panni dell’altro. Alla fine conclude che l’altro è strano, incomprensibile, in sostanza un po’ matto e prosegue per la sua strada.

Per il seminatore narciso invece è un brutto colpo: ‘come ha potuto farmi questo!‘ L’essere lasciato non è una possibilità contemplata nel suo sistema e dunque deve dedicarsi con molta foga a dimostrare agli altri l’inattendibilità della fonte da cui gli è giunta una tanto imprevista bocciatura. Gli altri non sono molto interessati ma per lui sono un pubblico sempre presente nello scenario mentale dal cui giudizio dipende la sua autoimmagine, di solito profondamente fragile. Queste persone di fronte all’abbandono possono diventare fortemente denigratorie, ostili e aggressive: il partner che ha lasciato è una minaccia per il proprio valore e l’abbandono viene visto come un atto di guerra estremamente distruttivo e malevolo.

Il seminatore egocentrico, come abbiamo già visto, non è mai molto colpito dai comportamenti altrui che gli appaiono sempre strani e inspiegabili. Non è molto messo in discussione dal cercatore inquisitore che lo lascia additandogli le sue colpe, né dal cercatore spaventato che si aggrappa disperatamente a lui. Si dice che sono strani e va oltre. Talvolta può entrare in una pericolosa escalation con il rifiutato arrabbiato che lo attacca perché entrambi si sentono ingiustamente offesi dall’altro e possono iniziare una guerra.

Il cercatore rifiutato arrabbiato è offeso dalle sue trascuratezze e disattenzioni e reagisce con rabbia e durezza, lui, che non vede ciò che lui fa all’altro, si sente ingiustamente attaccato e reagisce. E’ solo una questione di punteggiatura cronologica degli eventi: ognuno si sente vittima dell’aggressione altrui e le cose si possono decisamente complicare.

Il seminatore narciso crea un incastro perfetto con i cercatori rifiutati che ritengono di non valere niente: la definizione del rapporto che entrambi condividono è che il narciso è perfetto, ideale, stupendo ed estremamente buono a stare con il rifiutato che non vale e non si merita niente. Le due patologie si confermano e rinforzano reciprocamente.

 

RUBRICA TRACCE DEL TRADIMENTO

Il disturbo dello spettro autistico e la nuova prospettiva della cognizione motoria

Il disturbo dello Spettro Autistico viene definito come un disturbo del neurosviluppo caratterizzato da difficoltà nell’ambito socio-comunicativo e nel dominio motorio. Queste anomalie nel sistema motorio potrebbero avere un impatto anche nelle difficoltà di comprendere le azioni altrui.

Elena Villa e Luisa Bono – Open school Studi Cognitivi 

Sul disturbo dello spettro autistico: cenni storici e definizione

Il termine autismo fu impiegato per la prima volta da Bleuler (1916) nel 1908 nell’ambito della schizofrenia per indicare un comportamento rappresentato da chiusura, evitamento dell’altro ed isolamento dal mondo.

Successivamente Kanner (1943, 1973) nel 1943, adottò ufficialmente il termine ‘autismo precoce infantile‘ per indicare una specifica sindrome osservata in 11 bambini che manifestavano alcune caratteristiche peculiari. Kanner descrisse questi suoi pazienti come tendenti all’isolamento e poco reattivi in ambito relazionale. Alcuni di essi apparivano funzionalmente muti o con linguaggio ecolalico, altri mostravano una caratteristica inversione pronominale (il tu per riferirsi a loro stessi e l’io per riferirsi all’altro), facevano cioè uso dei pronomi così come li avevano sentiti. Molti di questi pazienti avevano una paura ossessiva che avvenisse qualche cambiamento nell’ambiente circostante, mentre altri presentavano specifiche abilità isolate incredibilmente sviluppate (per esempio la memoria per le date), accanto però ad un ritardo generale dello sviluppo. L’autore fece inoltre importanti riflessioni anche rispetto ai genitori dei bambini con autismo che a suo parere apparivano freddi e poco interessati alla relazione con le altre persone.

Quasi contemporaneamente, ma indipendentemente da lui, anche Asperger (1944, 1991) utilizzò un termine simile, psicopatia autistica, per descrivere il disturbo di pazienti sorprendentemente simili, nella sintomatologia, a quelli descritti da Kanner.

Per Asperger questi pazienti presentavano i seguenti sintomi:

  • Presenza di un eloquio scorrevole;
  • Difficoltà nell’esecuzione di movimenti grossolani;
  • Presenza di pensiero astratto

Fu così che si configurarono due quadri diagnostici differenti: l’autismo di Kanner e la Sindrome di Asperger, anche se le somiglianze tra le due posizioni erano talmente tante che più tardi, nel 1994, Happé si chiese se per caso la Sindrome di Asperger non fosse piuttosto un’etichetta per le persone autistiche con un quoziente intellettivo elevato.

Su questa linea, Bettelheim (1990) sostenne l’ipotesi secondo cui il bambino, percependo nella madre un desiderio reale o immaginario di annullamento nei suoi confronti, svilupperebbe il disturbo dello spettro autistico come meccanismo di difesa. Dopo gli anni ’60 questo modello psicodinamico fu però sempre più accusato di colpevolizzare ingiustamente i genitori dei bambini con autismo. Questi ultimi, infatti, non mostravano tratti patologici o di personalità significativamente diversi dai genitori di bambini non affetti da autismo. Fu B. Rimland, direttore dell’Autism Research Institute di San Diego, il primo a sostenere in modo sistematico che la causa dell’autismo non fossero i genitori, ma che il disturbo avesse basi biologiche.

La comprensione del disturbo dello spettro autistico cominciò così ad evolvere fino ad arrivare al 1980 quando comparve la prima definizione operativa nel DSM-III. Tale definizione fu poi rivista nel DSM IV (1994) e nell’ICD 10, dove l’autismo fu indicato come un disturbo generalizzato dello sviluppo ad insorgenza precoce, caratterizzato dalla compromissione nelle seguenti aree: interazione sociale, comunicazione e presenza di comportamenti ristretti e ripetitivi. L’ultima revisione del DSM, il DSM 5 (2013), elimina invece dalla definizione i sottotipi specificati nell’edizione precedente.

L’autismo (Autism Spectrum Disorder, ASD, APA 2013) è quindi considerato un disturbo del neurosviluppo caratterizzato da difficoltà nella comunicazione sociale e da interessi/attività ristretti e ripetitivi. Ad oggi viene utilizzato il termine di ‘Disturbo dello spettro autistico’ ed è caratterizzato dalla presenza dei sintomi sotto riportati.

  • Deficit persistenti della comunicazione sociale e dell’interazione sociale in molteplici contesti, come manifestato dai seguenti fattori, presenti attualmente o nel passato:
  1. Deficit della reciprocità socio-emotiva
  2. Deficit dei comportamenti comunicativi non verbali utilizzati per l’interazione sociale
  3. Deficit dello sviluppo, della gestione e della comprensione delle relazioni
  • Pattern di comportamento, interessi o attività ristretti, ripetitivi, come manifestato da almeno due dei seguenti fattori, presenti attualmente o nel passato:
  1. Movimenti, uso di oggetti o eloquio stereotipati o ripetitivi
  2. Aderenza alla routine priva di flessibilità o rituali di comportamento verbale o non verbale
  3. Interessi molto limitati, fissi che sono anomali per intensità o profondità
  4. Iper o iporeattività in risposta a stimoli sensoriali o interessi insoliti verso aspetti sensoriali dell’ambiente
  • I sintomi devono essere presenti nel periodo precoce dello sviluppo
  • I sintomi causano compromissione clinicamente significativa del funzionamento in ambito sociale, lavorativo o in altre aree importanti
  • Queste alterazioni non sono meglio spiegate da disabilità intellettiva o da ritardo globale dello sviluppo. La disabilità intellettiva e il disturbo dello spettro dell’autismo spesso sono presenti in concomitanza.
    (DSM 5, 2013)

Molti individui con disturbo dello spettro autistico presentano anche compromissione intellettiva e/o del linguaggio. Il divario tra abilità funzionali intellettive e adattive è spesso ampio. Sono frequenti deficit motori, compresi andatura stravagante, goffaggine e altri segni motori anomali. Nei bambini e negli adolescenti possono inoltre manifestarsi comportamenti di autolesionismo e comportamenti dirompenti/sfidanti. Il disturbo dello spettro autistico viene diagnosticato quattro volte di più nei maschi rispetto alle femmine. Nella pratica clinica le femmine tendono ad avere una maggiore probabilità di mostrare associazione a disabilità intellettiva, suggerendo che il disturbo nelle femmine senza compromissioni intellettive concomitanti con o senza ritardi del linguaggio può non essere riconosciuto, forse a causa della più tenue manifestazione delle difficoltà sociali e di comunicazione (DSM 5, 2013).

Disturbo dello spettro autistico: le teorie neurobiologiche

Numerosi sono gli studi che cercano di trovare una causa definitiva a questa patologia, ma ad oggi, sotto l’etichetta ‘autismo‘ vengono raggruppati disturbi con caratteristiche che si differenziano non solo dal punto di vista clinico, ma anche eziologico. Gli studi attualmente in corso riescono a spiegare solo una percentuale estremamente ridotta dei sintomi di tale patologia. Vediamo in seguito alcuni di questi studi.

M. Rutter et al. (1999) hanno condotto studi di genetica classica (concordanza nei gemelli e studio degli alberi genealogici) che hanno fornito sufficienti prove sulla presenza di basi genetiche del disturbo dello spettro autistico, anche se la complessità del quadro clinico suggerisce che i loci genici coinvolti siano numerosi e che tale vulnerabilità genetica interagisca con i fattori ambientali. La complessità clinica del disturbo dello spettro autistico fa ipotizzare, infatti, che una via patogenetica comune possa scaturire dalla combinazione di fattori genetici e ambientali diversi.

Alcune indagini di biologia molecolare (Koch C. et al., 1995) hanno poi identificato un legame fra disturbo dello spettro autistico e anomalie di geni legati al controllo del trasporto di serotonina. Eventuali disfunzioni dei sistemi neurotrasmettitoriali e della neuromodulazione sono state ipotizzate sulla base di dati empirici derivanti da esperienze neurofarmacologiche e sono state chiamate in causa diverse sostanze coinvolte nella modulazione delle funzioni corticali prefrontali, limbiche e striatali (Simon, 1985). Gli studi condotti nel campo della neurochimica lasciano tuttavia ancora numerose perplessità sul ruolo di una possibile disfunzione dei sistemi neurotrasmettitoriali: non appare infatti chiaro se le alterazioni rappresentino un fattore causale o un semplice epifenomeno (Lai, et al., 2014).

Il disturbo dello spettro autistico risulta essere quindi una patologia molto studiata che presenta però alcuni aspetti che devono essere ancora compresi. A questo proposito, di seguito verranno presentati una serie di studi svolti negli ultimi anni, i quali hanno indagato le aree maggiormente compromesse di questa patologia, per poi arrivare a riassumere, nell’ultimo paragrafo, le scoperte più recenti e innovative.

Presenza pervasiva di deficit motori

Teitelbaum et al. (1988) hanno analizzato video di infanti che poi sono risultati essere bambini con disturbo dello spettro autistico e hanno rilevato che questi bambini, di età dai 4 ai 6 mesi, presentavano disturbi nel movimento già a questa età. In questo studio è stato rilevato che i bambini con autismo presentano delle anormalità nel tono muscolare e nei riflessi, goffaggine, iperattività e movimenti stereotipati; inoltre, alcuni bambini possono presentare instabilità posturale, un cammino con passi molto corti o sulla punta dei piedi e una coordinazione del movimento degli arti molto scarsa. Questi pazienti presentano spesso un ritardo nell’iniziare, cambiare o arrestare una sequenza motoria e presentano volti inespressivi con piccoli movimenti spontanei, tutti sintomi caratteristici dei disturbi motori extrapiramidali. I bambini con disturbo dello spettro autistico mostrano, inoltre, disturbi di coordinazione che possono essere associati a disfunzioni cerebellari (Herbert MR, Ziegler DA, Makris N, et al., 2004).

Inoltre, analogamente agli studi condotti sulle scimmie, alcuni esperimenti rivelano che i bambini con disturbo dello spettro autistico falliscono nell’anticipare le conseguenze motorie dell’obiettivo finale dell’azione, sia quando l’azione è eseguita, sia quando è osservata. È stato quindi proposta l’idea che per i bambini con autismo, l’azione osservata o che deve essere eseguita non è rappresentata come intera nella funzione dell’intenzione motoria complessiva. Quindi, la difficoltà nel concatenamento degli atti motori in azioni globali può ulteriormente spiegare le difficoltà riportate nella pianificazione dell’azione (Hughes C. Brief, 1996).

Boria, Fabbri-Destro M, Cattaneo L, et al. (2009) in un loro studio hanno infine dimostrato che i bambini con disturbo dello spettro autistico hanno importanti difficoltà nel comprendere le intenzioni altrui quando devono fare affidamento solo su indizi motori.

Lo sviluppo cerebrale atipico

In molti bambini con disturbo dello spettro autistico è stato osservato un incremento della materia bianca, che sembra essere all’origine delle anomalie nelle dimensioni del loro cervello. Secondo la teoria della malformazione neurale, la precoce crescita del cervello nell’autismo è caratterizzato da una patologia di due fasi di crescita del cervello: una precoce crescita eccessiva del cervello all’inizio della vita e un rallentamento o arresto della crescita durante la prima infanzia. In alcuni individui, durante la preadolescenza, può essere presente una terza fase detta degenerazione che risulta essere presente in alcune regioni del cervello.

Questi dati sono stati confermati dagli studi di Hadjikhani et al. (2006) che considerano lo spessore celebrale della corteccia parietale superiore, temporale e frontale, particolarmente ridotto negli adolescenti con autismo. È interessante il fatto che queste regioni comprendano aree coinvolte nella cognizione sociale, nell’espressione del viso, nel riconoscimento facciale e le aree inerenti il meccanismo dei neuroni specchio.

Il danneggiamento sociale e le implicazioni nel meccanismo a specchio nel disturbo dello spettro autistico

Lo sguardo

I bambini con disturbo dello spettro autistico hanno difficoltà a selezionare i volti rispetto ad altri stimoli e hanno una minore capacità di farsi coinvolgere da essi a differenza di un bambino neurotipico. I soggetti autistici, generalmente, preferiscono una strategia di codifica frammentaria del volto rispetto a un processamento olistico e uno specifico evitamento della zona degli occhi, soprattutto rispetto alla direzione dello sguardo.

Zwaigenbaum e colleghi (2005) hanno dimostrato che entro i 12 mesi di età, i bambini che sono poi diagnosticati autistici, mostrano già un contatto visivo atipico e deviano l’attenzione dagli sguardi. Inoltre, mentre se per i bambini normotipici il fatto di afferrare un oggetto è influenzato automaticamente dallo sguardo degli altri, questo non accade per i bambini con disturbo dello spettro autistico (Becchio, 2007). Questi risultati confermano che un processamento visivo atipico e la codifica di stimoli sociali sono elementi caratterizzanti il disturbo dello spettro autistico e questi suggeriscono l’esistenza di anomalie a livello neurofisiologico.

Espressione e riconoscimento delle emozioni

La difficoltà nel riconoscere le espressioni facciali delle emozioni, presenti nelle persone con disturbo dello spettro autistico, è probabilmente collegata ad un processamento atipico dei volti, così come riportato in diversi studi. L’ipotesi è che ci sia un collegamento tra il processamento socio-emozionale nell’autismo e un collegamento neurale disfunzionale. Queste ipotesi sono supportate da diversi studi di imaging i quali hanno riportato un’attivazione atipica del giro fusiforme e una bassa attività dell’amigdala nelle persone con autismo coinvolte in compiti di valutazione sociale.

Le persone con disturbo dello spettro autistico comunemente trovano difficile esprimere, capire, regolare e condividere emozioni. Uno sguardo anormale, l’espressione delle emozioni e la consapevolezza emotiva in pazienti affetti da autismo potrebbero essere collegati ad alterazioni nella connettività funzionale delle cortecce insulari. La corteccia insulare è considerata come principale nodo di un meccanismo neurale che integra l’attivazione del corpo, le informazioni del sistema sensoriale e limbico, la memoria e le regioni motorie (Craig, 2002). Inoltre, una connessione funzionale compromessa tra l’insula e la corteccia somatosensoriale potrebbe alterare consapevolezza interocettiva e quindi le sensazioni soggettive. L’alterata capacità di comprendere e sentire le emozioni di altri individui potrebbe essere attribuito quindi alla compromissione di un meccanismo condiviso della consapevolezza emotiva.

Le abilità di comunicazione

Le problematiche nel dominio del linguaggio e della comunicazione fanno parte dei deficit di base osservati negli individui con disturbo dello spettro autistico. Bishop sottolinea che i bambini con autismo hanno disabilità comunicative non presenti in altri disturbi evolutivi del linguaggio. Gallese, Rochat e Berchio (2013) suggeriscono che, negli individui con ASD, un disfunzione nello stesso circuito coinvolto nella comprensione delle azioni potrebbe determinare simultaneamente un impoverimento nell’uso appropriato del linguaggio/comunicazione intenzionale.

L’imitazione

Nei soggetti con disturbo dello spettro autistico è particolarmente compromessa la capacità di imitare elementi simbolici come pantomime, gesti senza particolare significato o azioni non convenzionali con un oggetto comune. L’imitazione implica la capacità di tradurre il piano d’azione di colui che viene osservato, nella propria prospettiva personale.

Le prove a favore di un alterato processo di simulazione nell’autismo è stata contestata da diversi esperimenti che mostrano un meccanismo a specchio relativamente risparmiato quando l’azione osservata viene eseguito da un agente familiare e quando l’azione è diretta a un obiettivo, non accade invece quando si tratta di un obiettivo senza scopo e durante le attività di attivazione di mimetismo involontario. Gallese, Rochat e Berchio (2012) sostengono infatti l’ipotesi della coesistenza nei pazienti con disturbo dello spettro autistico di una rappresentazione motoria alterata dei movimenti intransitivi insieme ad una rappresentazione intatta delle azioni dirette a uno scopo.

Diversi studi hanno infatti dimostrato una ridotta attivazione del sistema motorio corticale in individui con disturbi dello spettro autistico durante l’osservazione di movimenti senza uno scopo preciso.

Il meccanismo dei neuroni a specchio permette quindi la diretta traduzione tra un atto percepito (visto, sentito e ascoltato) nella stessa rappresentazione motoria del suo relativo scopo. Questo meccanismo permette di comprendere direttamente le intenzioni altrui e i loro obiettivi, permettendo un collegamento tra gli individui. Essendo il meccanismo a specchio espressione funzionale del sistema motorio, questi studi suggeriscono l’importanza del sistema motorio alla cognizione sociale. È stato infatti ipotizzato che una compromessa comprensione delle intenzioni altrui, delle loro sensazioni ed emozioni riportate nel disturbo dello spettro autistico potrebbe essere quindi collegato a un alterazione del sistema a specchio in tutti questi domini.

In conclusione di questa parte, si sottolinea che oggi il disturbo dello Spettro Autistico viene definito come un disturbo del neurosviluppo caratterizzato da difficoltà nell’ambito socio-comunicativo e nel dominio motorio.

Tradizionalmente la letteratura scientifica ha indagato questi due aspetti separatamente, focalizzandosi da un lato sui supposti deficit della Teoria della mente e dall’altro sulle difficoltà nella coordinazione motoria. Recentemente, la scoperta di un meccanismo di ‘risonanza motoria’ mediato almeno parzialmente dal circuito parieto-frontale del meccanismo ‘mirror’ ha offerto nuove prospettive: infatti, anomalie nel sistema motorio potrebbero avere un impatto anche nelle difficoltà di ‘comprensione motoria dell’azione’ e quindi, a cascata, sulla capacità di comprendere le azioni altrui. Analizziamo meglio nel seguente paragrafo.

Nuove prospettive sul disturbo dello spettro autistico

I neuroni specchio (mirror neurons) sono stati scoperti inizialmente nella corteccia premotoria del macaco (area F5) da un gruppo di ricercatori italiani guidato dal prof. Giacomo Rizzolatti (Rizzolatti et al., 2010). Ulteriori ricerche hanno indicato come tali neuroni fossero presenti anche in network più estesi, facenti parte di un circuito parieto-frontale. Attraverso la tecnica del single neuron recording è stato dimostrato che questi neuroni si attivano non solamente quando il macaco esegue un’azione (es. afferrare una nocciolina), ma anche quando il macaco vede un altro macaco (o uno sperimentatore) compiere la stessa azione. Tali neuroni sono stati definiti mirror perché esiste una risonanza motoria tra l’azione eseguita in prima persona e quella osservata. Un dato molto importante dal punto di vista epistemologico è il seguente: tali neuroni specchio si attivano per una determinata azione eseguita/osservata (es. afferrare una caramella) indipendentemente dal fatto che tale azione sia eseguita con una presa di precisione (precision grip), una presa a mano aperta (whole hand grasping), la mano/zampa destra o la mano/zampa sinistra (Rochat et al., 2010). Questo risultato mostra come i neuroni specchio non si attivino in base alla cinematica dell’azione in senso stretto (cioè secondo specifici parametri di velocità, accelerazione o spazio), ma si attivino in concordanza con il significato dell’azione (es. afferrare una caramella).

Un ulteriore studio di Umiltà et al. (2008) ha portato ad aggiungere una evidenza a sostegno di questa ipotesi. Gli sperimentatori, dopo una lunga e complessa fase di training, chiesero al macaco di afferrare una nocciolina con due tipi diversi di pinze: la prima, detta pinza diretta, richiedeva che per afferrare l’oggetto avvenisse un movimento di pressione (chiudi per afferrare); la seconda, detta pinza inversa, richiedeva un movimento opposto (apri per afferrare). Attraverso la registrazione dell’attività dei neuroni mirror nell’area F5, gli sperimentatori hanno osservato che i neuroni si attivavano in corrispondenza della prensione dell’oggetto indipendentemente dal tipo di pinza utilizzata.

Questi dati, considerati insieme, indicano che i neuroni specchio si attivano indipendentemente dagli aspetti cinematici in senso stretto, ma scaricano in corrispondenza del significato dell’azione (afferrare). Questa dato è sorprendente se pensiamo alla lunga tradizione in campo neuroscientifico e neurofisiologico che ha sempre ipotizzato per il sistema motorio un ruolo di mero esecutore dell’azione. Questi dati ci indicano che il sistema motorio, almeno nel macaco, è molto più intelligente e teleologico di quanto pensassimo (cioè, per l’appunto, si attiva in base al fine dell’azione, in base al suo significato).

Partendo da queste evidenze sperimentali sul macaco, ottenute con la tecnica della registrazione del single neuron, si è poi dimostrata – attraverso l’uso di tecniche di neuroimaging, elettrofisiologiche e comportamentali –l’esistenza di un circuito con funzionalità del tutto simili anche nell’uomo (Rizzolatti e Sinigaglia, 2010). Tali studi hanno dimostrato come il circuito mirror, in particolare il circuito parieto-frontale del meccanismo mirror, possa giocare un ruolo cruciale nella comprensione dell’azione e del comportamento altrui. In questo senso, i neuroni specchio hanno assunto un ruolo importante nello studio della cognizione sociale.

Ma come questo network con proprietà mirror può aiutarci nel comprendere l’azione? Perché esso può aiutare a spiegare, almeno parzialmente, alcune difficoltà in ambito sociale nel disturbo dello spettro autistico? Per chiarire questi ed altri punti, è necessario fare un passo indietro.

Esistono diversi modi per comprendere il comportamento, le intenzioni e le azioni altrui. Noi possiamo fare complessi ragionamenti inferenziali, associazioni, deduzioni come ad esempio succede ogni qual volta cerchiamo di metterci nei panni degli altri. Una lunga e celebre tradizione nell’ambito della psicologia ha definito tali abilità come mindreading, o teoria della mente. Diversi studi hanno cercato di mappare un ipotetico network neurale per la teoria della mente, ottenendo però risultati contrastanti. La ragione di tali risultati è fondamentalmente legata alle difficoltà che si incontrano nel momento in cui si cerca di definire in maniera operazionale la nozione di teoria della mente. Tale risultato è tanto più problematico nel momento in cui la cosiddetta teoria della mente è considerata da molti, anche se le critiche non mancano, uno degli elementi centrali per spiegare le difficoltà sociali nei pazienti con disturbo dello spettro autistico.

La scoperta dei neuroni specchio apre una nuova ed interessante prospettiva, ovvero quella della cognizione motoria, che può essere spiegata molto semplicemente con un esempio. Quando ci troviamo ad un tavolo con molti commensali, noi non facciamo dei complessi ragionamenti logico-deduttivi per capire che l’amico di fronte a noi sta prendendo il bicchiere per bere. È vero che noi potremmo ipotizzare che, essendo stata piuttosto salata l’ultima portata ed essendo particolarmente buono il vino a nostra disposizione, il nostro amico abbia deciso di gustarsi un buon bicchiere di vino. Noi abbiamo sempre la possibilità di fare questi complessi ragionamenti ma, in maniera economicamente più conveniente, il nostro cervello (in particolare il sistema motorio) ci offre una via più parsimoniosa. Infatti, se io vedo l’amico afferrare il bicchiere lateralmente, io penserò subito che egli lo sta afferrando per prepararsi a bere. Se invece osservo qualcuno afferrare un bicchiere dall’alto, io subito capirò che questa persona sta per spostare il bicchiere (ma non per bere).

La possibilità di comprendere il significato dell’azione da semplici indicatori (cues) motori, ad esempio il tipo di prensione, è mediata dal meccanismo mirror. Offrendo infatti un’attivazione identica sia quando eseguiamo in prima persona sia quando osserviamo qualcun altro eseguire la stessa azione, tale meccanismo ci permette di capire quello che il nostro amico vuole fare in maniera diretta, motoria e pre-cognitiva. Il tipo di comprensione motoria dell’azione mediata dal meccanismo mirror è quindi un tipo di comprensione molto basilare (non ci aiuterà a scegliere il vestito per il nostro matrimonio o l’università), ma molto importante perché, in qualche modo, risolve in maniera quasi automatica molti dilemmi sociali (es. il nostro amico sta per bere o vuole passarmi il bicchiere?).

Recenti studi hanno dimostrato che nei bambini con diagnosi di disturbo dello spettro autistico i meccanismi neurali che sottendono la comprensione motoria dell’azione sono in qualche modo compromessi, come se loro avessero difficoltà nel fare affidamento a tale via motoria (e preferissero altre vie, magari più lunghe e complesse, come quelle legate ai processi inferenziali). In particolare, uno studio di Cattaneo et al. (2007) ha mostrato, attraverso una registrazione EMG (elettromiografia) che i pazienti con autismo non hanno attivazione del muscolo miloioideo (un muscolo necessario per la masticazione) quando veniva chiesto loro di osservare uno sperimentatore prendere una caramella per mangiarla, mentre i soggetti del gruppo di controllo (sviluppo tipico) mostravano una chiara attivazione del muscolo.

Tale risultato è stato intepretato come un’evidenza del malfunzionamento del sistema mirror nei pazienti con disturbo dello spettro autistico (Fogassi et al. 2005). Inoltre, insieme ad altre evidenze raccolte negli ultimi anni (Fabbri-Destro et al., 2009; Boria et al., 2009; Rochat et al. 2013,), tali dati sembrano indicare che nei pazienti con diagnosi di disturbo dello spettro autistico sussista una specifica difficoltà nell’ambito della cognizione motoria.

In questo senso, avere delle difficoltà nella comprensione motoria dell’azione avrebbe poi degli effetti a cascata sulla capacità di comprendere le interazioni sociali (come se i soggetti con autismo fossero portati a seguire vie complesse, e non riuscissero a beneficiare delle cosiddette vie dirette).

Ovviamente, ulteriori studi sono necessari per supportare tale ipotesi che al momento rimangono confinate prevalentemente in contesti di ricerca (e non clinici). Se tali dati venissero confermati da ulteriori studi, e se effettivamente i risultati sorprendenti ottenuti sui modelli animali venissero replicati (ovviamente con altre tecniche) anche nell’uomo, allora potremmo davvero ipotizzare un’applicazione clinica (in ambito diagnostico/riabilitativo) di questi risultati. Sebbene i progressi degli ultimi dieci anni siano stati, nell’ambito delle neuroscienze cognitive, incredibili, è bene essere prudenti e cauti, pur continuando a confidare nell’efficacia di tali strumenti d’indagine.

Come l’etnia del paziente cambia il comportamento del medico

Quando un medico si relaziona con un malato terminale può adottare comportamenti diversi a seconda dell’etnia del paziente. Questo è ciò che sembra emergere da un recente studio americano appena pubblicato su The Journal of Pain and Symptom Management, per opera del professor Barnato e colleghi della Pitt’s School of Medicine.

La necessità di questa ricerca, che per la prima volta osserva scientificamente le interazioni tra medici e pazienti a fine vita, è sorta proprio con l’intento di spiegare perché i malati terminali afroamericani scelgono di adottare – più spesso degli americani caucasici – cure straordinarie e invasive e perchè riportano spesso un peggior rapporto con il proprio medico.

Gli autori hanno selezionato un campione di 33 specializzandi in terapia intensiva e li hanno sottoposti ad una simulazione con attori che interpretavano la parte dei malati e dei familiari. Gli attori, afroamericani e caucasici, riportavano condizioni mediche simili (bassi parametri vitali a causa di tumori a stomaco o pancreas) e recitavano tutti un copione simile. I medici erano chiaramente a conoscenza del fatto che si trattasse di un esperimento, ma non erano minimamente consapevoli di cosa l’esperimento volesse misurare. Tutte le interazioni sono state registrate attraverso videocamere e microfoni ed è stata valutata la comunicazione verbale e non-verbale del medico sia nella qualità che nella quantità.

I risultati hanno confermato le ipotesi. Se la comunicazione verbale non ha subito alcun cambiamento significativo a seconda dell’etnia del paziente, le analisi quantitative della comunicazione non verbale hanno riportato un’interazione inferiore del 7% quando il paziente era afroamericano. Infatti, sebbene il dialogo tra medico e paziente fosse sempre il medesimo, sappiamo bene che la comunicazione non è fatta solo di parole, ma anche di contatto visivo, posizione del corpo, gestualità e contatto fisico.

[blockquote style=”1″]Una comunicazione non verbale piuttosto povera – di cui probabilmente il medico non è nemmeno consapevole – potrebbe dunque spiegare in maniera efficace perchè i pazienti afroamericani riportano una discriminazione nei loro confronti da parte dei medici[/blockquote] suggerisce il professor Barnato.

Dando un’occhiata anche alle analisi qualitative, inoltre, ci si rende subito conto del fatto che – come nella maggior parte dei casi – il come conta più del quanto: di fronte ad un paziente caucasico, infatti, i medici erano più portati a porsi accanto al suo letto e spesso ad offrire un contatto fisico di natura empatica; di fronte ad un paziente afroamericano, tuttavia, i medici si posizionavano più spesso vicino alla porta, cercando meno attivamente il contatto visivo e guardando, perlopiù, la cartella clinica del paziente.

Ora, è chiaro che un atteggiamento come quello appena descritto può portare il paziente a percepire il proprio medico come meno coinvolto e solidale nei confronti della propria condizione. Tale impressione iniziale può produrre quindi una serie di incomprensioni e distorsioni a cascata che inducono il paziente ad esitare nel richiedere cure straordinarie e invasive, proprio poiché questi dubita che il proprio medico (che gli ha consigliato cure più leggere) abbia davvero a cuore la sua vita. Analizzando la letteratura presente, emerge effettivamente da parte della popolazione afroamericana una leggera tendenza di natura culturale a richiedere cure terminali più aggressive ed invasive rispetto alla controparte caucasica. Vale la pena notare, però, che tale tendenza viene statisticamente raddoppiata quando il paziente afroamericano deve prendere questa decisione in ospedale!

In conclusione, sembra che il linguaggio non verbale del medico abbia un ruolo determinante nello sviluppo della fiducia (o della sfiducia) del paziente nei suoi confronti e dunque nelle scelte che questi compirà a proposito della sua vita. Lungi dal risuonare come una predica moralista, questo articolo ha il solo scopo di invitare il medico, da un lato, a porre maggior attenzione e consapevolezza anche al linguaggio non prettamente verbale e, dall’altro, a sincerarsi di trattare tutti i pazienti nella medesima maniera, così come richiesto innanzitutto dall’etica professionale. Dentro la propria mente ciascuno di noi è libero di pensare e discriminare chi vuole, al di fuori della propria mente decisamente no.

Efficacia della terapia metacognitiva nel trattamento dell’ansia e della depressione

La terapia metacognitiva

La terapia metacognitiva (o in inglese Metacognitive therapy – MCT) nasce alla fine del ventesimo secolo come un approccio innovativo nell’abito della psicopatologia e psicoterapia (Wells, 1995). Secondo Wells (2009) la metacognizione può essere semplicemente definita come “cognizione riguardo la cognizione” – in altre parole pensieri, credenze, valutazioni cognitive che abbiamo riguardo i nostri processi mentali. La metacognizione è un aspetto del funzionamento mentale che controlla i processi attentivi e di pensiero.
Il modello proposto dalla terapia metacognitiva si configura come transdiagnostico e sostiene che il mantenimento della psicopatologia e’ legato a uno stile di pensiero perseverativo – definto come sindrome attentiva cognitiva (in inglese cognitive attentional syndrome -CAS).

 

Che cosa e’ la sindrome attentiva cognitiva – CAS

La CAS consiste in un insieme di diverse forme di pensiero ripetitivo e perseverante, tra cui il rimuginio, la ruminazione, l’attenzione selettiva su stimoli minacciosi e strategie di coping disfunzionali, nonche’ da comportamenti autoregolatori maladattivi (ad esempio evitamento e soppressione dei pensieri). Secondo il modello della terapia MCT la CAS e’ causata e mantenuta dalle metacognizioni dell’individuo, e cioe’ credenze riguardo il controllo, la regolazione e il processamento dei pensieri e delle emozioni. Ad esempio, una credenza metacognitiva disfunzionale puo’ essere: “i miei pensieri sono incontrollabili”. Nel corso di una terapia metacognitiva la CAS viene identificata all’interno di una concettualizzazione del caso clinico e trattata attraverso l’identificazione e la modificazione delle credenze metacognitive disfunzionali. Tra le tecniche terapeutiche utilizzate a questo scopo ritroviamo i training attentivi, la detached mindfulness, e altre tecniche comportamentali.

 

Il rapporto tra terapia metacognitiva e altre terapie cognitive

Quale e’ il rapporto tra terapia metacognitiva e CBT standard? Rispetto alle forme di psicoterapia cognitivo-comportamentale standard, la terapia metacognitiva si focalizza sui processi di pensiero piuttosto che sui contenuti del pensiero. Secondo la terapia metacognitiva i pensieri negativi sarebbero normali nella misura in cui si presentano in modo transitorio, ma se non adeguatamente regolati possono innescare facilmente rimuginio e ruminazione. E’ dunque il modo con cui un individuo si relaziona ai propri pensieri che sarebbe discriminante in termini psicopatologici . Pur riconoscendo le proprie radici nell’approccio cognitivo, la terapia metacognitiva si considera una terapia distinta che utilizza una specifica formulazione del caso e un insieme di tecniche particolari. La TMC mostra somiglianze con le cosiddette terapie di terza ondata poiche’ si focalizza sul modo in cui la persona gestisce, osserva ed elabora i propri pensieri, ma rispetto a queste offre una particolare concettualizzazione della psicopatologia e del suo mantenimento, focalizzandosi appunto sulle metacognizioni.

 

Una meta-analisi dell’efficacia della terapia metacognitiva nel trattamento dell’ ansia e della depressione

Recentemente una interessante metanalisi di Normann e colleghi (2014) si e’ addentrata nella questione dell’ efficacia della terapia metacognitiva. In particolare l’analisi si e’ focalizzata su ansia e depressione, disturbi e sintomatologie ampiamente diffusi nella popolazione. Per ciascuno studio riscontrato in letteratura e’ stato considerato l’effetto della terapia metacognitiva sulla variabile di outcome principale e l’effetto sui sintomi di ansia e depressione. Inotre sono stati analizzati i cambiamenti nelle metacognizioni che sarebbero alla base del mantenimento dei disturbi psicopoatologici e che sembrerebbero avere una funzione di mediatori nell’ efficacia della terapia metacognitiva.

L’analisi della letteratura e’ esitata in 16 studi pubblicati sull’efficacia della terapia metacognitiva (e anche una serie di studi non ancora pubblicati al momento della review) e di questi 9 si possono definire trial controllati, per un totale di 384 soggetti trattati attraverso percorsi di terapia metacognitiva (individuale o di gruppo).

Per ciascuno studio e’ stata estratta una variabile di outcome principale (ad esempio i punteggi al Penn State Worry Questionnaire, o allo State-Trait-Anxiety Inventory- T ); in secondo luogo sono stati estratti i punteggi a test generalmente utilizzati per l’assessment della sintomatologia ansioso e depressiva, quali il Beck Anxiety Inventory e il Beck Depression Inventory. Infine dalla maggior parte degli studi e’ stato possibile considerare un’ulteriore variabile relativa alle credenze metacognitive attraverso i punteggi del Metacognition Questionnaire. Le analisi statistiche sono state effettuate aggregando la media della dimensione dell’effetto (effect size) all’interno di ogni singola condizione di trattamento (considerando i cambiamenti pre-post test nelle diverse variabili di outcome, nelle misure di ansia e depressione e nelle variabili metacognitive). Inoltre sono state analizzate le ampiezze dell’effetto tra gruppi – considerando i cambiamenti pre-post test nel confronto delle condizioni MCT (soggetti sottoposti a terapia metacognitiva), controllo (soggetti in lista d’attesa non sottoposti ad alcuna terapia) e CBT (soggetti sottoposti a terapia cognitiva standard).

Dalle analisi e’ emerso che la media aggregata della dimensione dell’effetto della terapia metacognitiva within group e’ elevata (ottentuta dai 16 studi pubblicati e considerati in questa metaanalisi) considerando i cambiamenti pre-post assessment nelle variabili di outcome e nelle misure dei sintomi ansioso-depressivi (non confrontati pero’ con altre condizioni di trattamento), a sostegno dell’ipotesi dell’efficacia della terapia metacognitiva, con un mantenimento degli effetti terapeutici anche nel follow up. Similmente, si e’ riscontrato un ampio effect size nel cambiamento nelle metacognizioni, tale per cui come ci si poteva attendere la terapia metacognitiva agisce proprio modificando le credenze metacognitive maladattive.

Riguardo il confronto tra condizioni di trattamento, le differenze maggiori in termini di ampiezza dell’effetto si riscontrano tra terapia metacognitiva e la condizione di assenza di trattamento, in cui si rileva un maggiore effetto aggregato della prima rispetto alla seconda condizione. Nel confronto tra terapia metacognitiva e terapia cognitiva standard, sembra esserci comunque un’ampiezza maggiore dell’effetto nella condizione della terapia metacognitiva rispetto alla condizione CBT (in misura piu’ contenuta rispetto al confronto terapia metacognitiva – assenza di trattamento), anche se gli studi che hanno paragonato le due tipologie di trattamento (e considerati in questa meta-analisi) sono ancora piuttosto esigui.

Dunque i risultati della meta-analisi dimostrano che la terapia metacognitiva e’ una terapia efficace nel trattamento dell’ansia e della depressione, e anche con una dimensione piu’ ampia dell’effetto rispetto ad altre terapie CBT standard. E’ importante pero’ essere cauti nel leggere e generalizzare questi primi risultati viste alcune debolezze degli studi inclusi in questa analisi, tra cui una limitata numerosita’ del campione e condizioni di controllo non sempre ideali (ad esempio, vi sono pochi studi in cui si analizza e si confronta la terapia metacognitiva con altre tipologie di terapie evidence-based). Ad ogni modo, a seguito dell’analisi aggregata di questi 16 studi presenti in letteratura, la terapia metacognitiva e’ definibile come una terapia dimostrata efficace nel trattamento dell’ ansia e della depressione, sia in termini di patologie principali riscontrabili nell’individuo che in qualita’ di sintomatologia presente in comorbilita’ con altre diagnosi principali.

 

Congresso di Terapia Metacognitiva Milano 2016

Il lato oscuro dell’amore: lo stalking – Intervista a Leonardo Abazia

Il lato oscuro dell’amore. Lo stalking: comprendere e riconoscere il fenomeno attraverso il racconto di storie vere”. Con questo testo Leonardo Abazia, psicologo psicoterapeuta e direttore dell’Istituto Campano di Psicologia Giuridica di Napoli, approfondisce, per la casa editrice Franco Angeli, la tematica complessa e difficile dello stalking, andando al di là della conoscenza mediatica del fenomeno, dando voce alle storie delle vittime e degli operatori, che si sono interfacciati con questo grave problema.

Il testo, prima lascia spazio al racconto di una storia d’amore, finita tragicamente in ossessione e omicidio, poi a un approfondimento scientifico e storico sulla tematica, e infine raccoglie le storie di chi questa esperienza l’ha vissuta in prima persona, portando per mano il lettore nel lato oscuro dell’amore.

Abbiamo incontrato l’autore del testo per meglio farci spiegare i contenuti di questo nuovo testo.

Da dove nasce l’idea di questo testo?

Potrei dire da molto lontano. Nel 2009, subito dopo un convegno organizzato dal mio Istituto e dall’ordine degli psicologi della Campania, all’indomani dell’approvazione del decreto Maroni sullo stalking. È un libro che ha visto diverse gestazioni e rielaborazioni in quanto nasceva come testo scientifico e solo successivamente, all’inizio di quest’anno, ho voluto trasformarlo in un libro di divulgazione che potesse essere fruibile anche dai non addetti ai lavori per sensibilizzare l’opinione della gente comune al tema della sopraffazione e della violenza psicologica.

Perché, a suo avviso, il fenomeno dello stalking è tanto diffuso?

Il fenomeno della sopraffazione del più forte sul più debole è un fenomeno che si perde nella notte dei tempi, ne sono fedele testimonianza sia i miti del passato che la storia, remota e attuale. Ciò che rende lo stalking un fenomeno percepito come in diffusione esponenziale è la sensibilità al diritto del più debole, che storicamente è stato identificato con le donne e i bambini, ad essere riconosciuto come tale e tutelato. Ma anche altri fattori contribuiscono alla percezione e al sostanziamento del fenomeno. L’accessibilità all’altro attraverso i media senza limiti spaziali e temporali contribuisce a creare una falsa intimità con l’altro e contestualmente alla possibilità di un maggiore controllo della potenziale vittima. Inoltre, non è da sottovalutare l’incapacità dell’uomo dei nostri tempi di tollerare la frustrazione dell’abbandono ma, soprattutto, la possibilità che sia l’altro, il debole, ad interrompere la relazione.

Che tipo di relazione si instaura tra vittima e persecutore?

La relazione è da immaginarsi come un puzzle in cui si incastrano aspetti personali di entrambi gli attori nella dinamica di coppia. Quest’ultima si configura come un campo di incontro-scontro dei desideri, dei bisogni e delle esigenze dei due esseri umani; il luogo in cui si incontrano anche le aspettative, gli ideali e i progetti di cui ognuno è portatore. Al contempo, lo stesso luogo può diventare l’incontro e l’incastro di patologie. Nel caso specifico dello stalking dove c’è stata una relazione precedente tra la vittima e il persecutore, possiamo indubbiamente parlare di un incastro di alcune caratteristiche personologiche della vittima con caratteristiche di personalità, a volte francamente patologiche, del persecutore. All’atto della separazione, spesso non voluta dallo stalker, tali caratteristiche di attaccamento insicuro e/o ambivalente si slatentizzano dando la stura ad una serie di comportamenti persecutori violenti sia psicologici che fisici.

Come ci si può difendere da uno stalker?

Innanzitutto c’è da evidenziare che la vittima si rende conto di essere tale in uno stato di persecuzione già avanzato, soprattutto nei casi di relazione sentimentale precedente con lo stalker, infatti inizialmente i comportamenti di quest’ultimo vengono scambiati per atti residuali d’amore e non vengono adeguatamente contrastati. È importante, quindi, riconoscere e interpretare correttamente quanto sta accadendo e non offrire possibilità di contatti e confronti che vengono inevitabilmente scambiate come segnali di interesse da parte dello stalker. Le strategie utilizzabili dalla vittima sono quanto più funzionali se basate sulle caratteristiche e sulle motivazioni dello stalker.

Come si potrebbe arginare questo fenomeno così diffuso socialmente? Che fine ha fatto l’amore?

Indubbiamente la legge sullo stalking ha costituito un argine a comportamenti vessatori, di molestie e di violenza psicologica che prima difficilmente potevano essere inquadrati e perseguiti come reati. Da un punto di vista sociale è importante la sensibilizzazione sull’argomento ed il sostegno alle vittime, senza che venga sottovalutato il fenomeno quando individuato.
Per quanto attiene poi il fenomeno particolare del cyberstalking, attualmente in grande aumento, possiamo sicuramente dire che è importante non confondere un senso di intimità reale con quello artificiale mediato dai social e porre attenzione ai rischi relativi ad una privacy sempre più violata e ad una condivisione massiccia di informazioni personali, alla mercè di chiunque.
Lei mi chiedeva che fine ha fatto l’amore. L’amore è l’ultimo sentimento che si può ritrovare in una relazione che viene attivata da un molestatore assillante. L’arroganza di vincere a tutti i costi, il voler ottenere ciò che si vuole anche contro la volontà dell’altro nulla ha a che vedere con il sentimento nobile dell’amore.

Il temperamento – Introduzione alla Psicologia

Il temperamento è un aspetto della personalità piuttosto trascurato dalla psicologia moderna e contemporanea. Questo deriva dal poco accordo esistente tra gli psicologi su che cosa si intenda per temperamento e su come esso si distingua dal carattere. 

INTRODUZIONE ALLA PSICOLOGIA RUBRICA DI DIVULGAZIONE SCIENTIFICA IN COLLABORAZIONE CON LA SIGMUND FREUD UNIVERSITY DI MILANO 

Il temperamento è un aspetto della personalità studiato marginalmente nella psicologia moderna e contemporanea.
Tuttavia, il concetto di temperamento ha origini molto antiche nella storia della medicina, poiché già in passato si era osservato che il temperamento era in grado di far comprendere al meglio le differenze individuali non solo nel campo della psicologia, ma anche della psicopatologia in generale.

Temperamento: etimologia del termine

Il termine temperamento deriva dal latino temperare, cioè mescolare, ovvero mettere insieme una serie di caratteristiche individuali. Il Temperamento rappresenta una serie di aspetti congeniti non mediati dalla cultura ed è la diretta esplicitazione di caratteristiche innate nell’individuo. Si dice: “hai un Temperamento da grande attore, sei nato per fare questo mestiere”, significa che chi manifesta questa capacità presenta una caratteristica innata che gli permette di calcare il palcoscenico senza troppe difficoltà.

Temperamento nella storia

La descrizione del temperamento umano risale ad Ippocrate, intorno al 400 a.C. Ne troviamo traccia nel Corpus Hippocraticum, l’insieme di opere attraverso cui il famoso medico greco diffuse le sue conoscenze.
Secondo Ippocrate, alla base dei temperamenti umani vi era la teoria dei quattro umori. Nel corpo circolano quattro umori: il flegma (la linfa), il sangue, la bile gialla e la bile nera. Se tra i quattro fluidi c’è equilibrio, si avrà uno stato di buona salute, altrimenti, si crea uno squilibrio che determina la tendenza a malattie. E non solo, la diversa concentrazione di un determinato umore porta alla presenza di un certo di temperamento. Si posso formare, così, quattro temperamenti diversi, visibili come carenza di armonia complessiva dei liquidi: flegmatico, sanguigno, bilioso e melancolico.

Recentemente, agli inizi del secolo scorso nell’ambito del movimento pedagogico Waldorf, fondato da Steiner in Germania, si individua una importante trattazione sui temperamenti umani. Steiner riprese e perfezionò ulteriormente la teoria dei quattro temperamenti ippocratici, sganciandola dalla anacronistica e obsoleta spiegazione dei quattro umori, e basandola sulla concezione che l’essere umano è tripartito, ovvero formato dalla unione dei tre elementi sostanziali, quali: corpo, anima, spirito.

I quattro temperamenti, secondo Steiner, diventano: flemmatico, sanguigno, collerico, malinconico. Anche per Steiner il temperamento è espressione di uno squilibrio, poiché nell’individuo equilibrato sono presenti in diversa misura tutte e quattro i temperamenti. Il temperamento, dunque, risulta essere pertanto una sorta di base caratteriale, dipendente dalla salute fisica del soggetto, che si mantiene per tutta la vita psichica dell’individuo.

Fenomenologicamente parlando il temperamento è definito da una coppia di parametri funzionali dell’organismo, che combinandosi tra loro determinano quattro tipologie temperamentali. I due parametri in questione sono: la sensibilità, ovvero ricettività al mondo esterno e la forza, capacità di manifestazione del proprio sé.
Si avrà così uno schema formato da quadranti e ogni individuo si disporrà al suo interno non come un punto, ma come un area che può apparire a cavallo di più quadranti. Ci sarà, di conseguenza, un temperamento dominante ed uno o due ausiliari o recessivi.

Analiticamente, si ottengono i seguenti temperamenti: il temperamento sanguigno, caratterizzato da interesse e sensibilità agli stimoli esterni, poca forza interna, mutabilità di interessi e propensione al cambiamento. Il temperamento flemmatico, scarsa forza e poca sensibilità agli stimoli esterni, tendenza alla pigrizia e all’ozio. Il temperamento collerico, rappresenta il più irruente dei temperamenti e chi lo ha manifesta elevata reattività, estrema sensibilità agli stimoli esterni, molta forza, impeto e impulsività.. Il temperamento malinconico, infine, si manifesta con forza e scarsa sensibilità agli stimoli esterni, scarsa capacità di tenere a freno i propri istinti e tenacia nel raggiungere i propri obiettivi senza farsi distrarre dagli eventi esterni.

Più recentemente Cloninger definisce la personalità come divisa in due distinte dimensioni psicobiologiche: il temperamento e il carattere (Cloninger,1993). Secondo questa teoria, definita bio-psicosociale, il temperamento riflette una base biologica e determina la spinta ad agire in diversi modi, il carattere, invece, sarebbe il risultato dell’interazione della persona, in base alle sue attitudini, con l’ambiente. Il temperamento, dunque, è individuabile già dall’infanzia e resta stabile per tutto il corso della vita poiché ha caratteristiche biologiche ereditabili (studi sui gemelli riportano un ereditabilità dei tratti compresa tra il 40 e il 60% e sono alla base dell’attivazione o dell’inibizione di un comportamento; Cloninger 1993).

Temperamento, carattere e personalità

Per un quadro più generale definiamo cosa si intende per carattere e personalità.
Il termine Carattere: deriva dal greco charakter che significa impronta, segno distintivo. Il Carattere di un individuo dipende fortemente dall’influenza che l’ambiente esercita durante la sua infanzia e la sua adolescenza ed è quindi legato alla storia presentata e al patrimonio culturale appreso durante lo sviluppo. Al Carattere, quindi, può essere assegnato il significato opposto a quello dato al Temperamento, non biologico ma appreso. Esempio: ‘Ha un Carattere troppo impulsivo‘, significa che la sua esperienza di vita l’ha portato ad assumere questa caratteristica.

Invece Personalità: deriva dal latino persona, cioè maschera dell’attore. La Personalità è l’immagine, il volto, che ognuno di noi mostra agli altri, che esprime o cela quanto avviene realmente nel suo essere. La Personalità, dunque, è la combinazione tra Temperamento e Carattere, per cui è da considerarsi un concetto tipicamente dinamico nell’arco di vita di una persona. Durante l’arco della vita si è costretti ad affrontare situazioni cruciali che inevitabilmente sfociano in una serie di tratti che caratterizzeranno i comportamenti agiti della persona. Quindi dire a qualcuno che è un narcisista significa che è una persona molto concentrata su se stesso, che crede molto nelle sue capacità, e che degli eventi significativi accaduti l’hanno indotto ad assumere tale atteggiamento o personalità o maschera.

RUBRICA: INTRODUZIONE ALLA PSICOLOGIA

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Crescere in un contesto di povertà: minore connettività cerebrale e più rischio depressione

Crescere in un contesto di povertà diminuisce la connettività cerebrale e predispone a sintomi depressivi.

Tra le molte conseguenze negative che si associano al crescere in un contesto economicamente povero, basandosi sulle conclusioni tratte dal team della Washington University St. Louis, vi è anche una ridotta connettività tra le aree del cervello.

Infatti, analizzando le scansioni fMRI di 105 bambini con età compresa tra i 7 e i 12 anni, i ricercatori hanno osservato come alcune strutture chiave nel cervello fossero connesse in modo differente nei bambini poveri rispetto ai bambini cresciuti in un contesto più ricco. Nel dettaglio, quanto più la famiglia e il contesto del bambino erano poveri, tanto più l’ippocampo e l’amigdala mostravano deboli connessioni con la corteccia frontale superiore, il giro linguale, il cingolo posteriore e il putamen. In aggiunta, i bambini cresciuti in una famiglia povera durante l’età prescolare avevano una probabilità maggiore di sviluppare sintomi depressivi all’età di 9 o 10 anni.

In passato, gli studi che hanno indagato le differenze neuroanatomiche associate ad un basso status socioeconomico dei bambini hanno riscontrato un volume ridotto dell’ippocampo e dell’amigdala.

Oggi, attraverso le conclusioni di tale studio, il team della dott.ssa Barch e del dott. Couch può affermare come anche la connettività di queste due strutture con il resto del cervello risulti più debole nei bambini poveri e, stando alle considerazioni del gruppo di ricerca, meno funzionale per la regolazione delle emozioni e dello stress.

Tuttavia, mentre le differenze nel volume cerebrale possono essere superate nel corso della crescita grazie ad un valido supporto genitoriale, ciò non vale per il miglioramento della connettività.

I bambini cresciuti in povertà tendono ad esibire peggiori capacità cognitive, un più basso livello educativo e sono più a rischio di sviluppare disturbi psichiatrici come depressione e comportamento antisociale. I ricercatori hanno ipotizzato che fattori come stress, l’esposizione ad un ambiente avverso (i.e: una dieta povera, fumo di sigaretta dei genitori, etc.) e una scarsa educazione, possano contribuire ai problemi che i bambini svilupperanno nella vita.

Le conclusioni di questo studio suggerirebbero, quindi, che la povertà durante l’infanzia influenzi in senso negativo lo sviluppo della connettività dell’ippocampo e dell’amigdala con le altre aree cerebrali, in maniera tale da predisporre a sintomi depressivi negli anni successivi.

Trauma: il corpo accusa il colpo! – Workshop di Van Der Kolk a Milano, Gennaio 2016

Tra aneddoti personali e rigorosissime analisi scientifiche, Bessel Van der Kolk ci porta a navigare, durate il lungo workshop organizzato dall’Istituto di Scienze Cognitive e tenutosi a Milano dal 15 al 17 gennaio, attraverso il complesso tema del trauma e dei trattamenti più moderni orientati alla cura di persone traumatizzate.
Il nostro cervello e il nostro corpo reagiscono, elaborano e superano situazioni stressanti, talora riuscendo a ripararle completamente e a trasformarle in esperienze positive di forza e resilienza, talora lasciando attivo uno stato di allerta prolungato, cui il corpo si adatta ma che mostra segni anche a distanza di anni.

Come si insinua il trauma nella mente dei pazienti

[blockquote style=”1″]Vivere a Boston può essere molto difficile! Può capitare di svegliarsi all’alba, prepararsi per andare a lavoro, uscire di casa e accorgersi che la propria auto è sepolta sotto un paio di metri di neve! La rabbia sale veloce come una vampata! Allora ci si rimprovera di non vivere in Florida e di essere stati stupidi a mettere radici in un posto così inospitale! In pochi attimi la rabbia cancella tutto quello che ci riempiva di energia, il buon umore sparisce! Ma il tempo scorre e bisogna risolvere il problema: non c’è altro da fare che prendere la pala e iniziare a spalare per liberare l’auto! Si spala con forza, nervosamente, maledicendo ogni gesto e ogni fiocco di neve caduto. Poi esce di casa un vicino che come noi ha trovato la sua auto sommersa. Poi un altro e in pochi minuti si diventa un piccolo gruppo. Tutti di pessimo umore, ma tutti che spalano. A poco a poco si inizia a cercare lo sguardo dell’altro, si inizia a scambiare qualche parola, a chiedere e offrire il proprio aiuto. Si inizia a condividere la frustrazione e persino a sorridere quando un ritardatario si aggiunge al gruppo. Solo allora la rabbia inizia lentamente a scendere, compaiono emozioni e sentimenti diversi. Empatia, solidarietà, compassione, accettazione. Alla fine ci si saluta e si sale in macchina. Lo sforzo fisico è stato molto intenso, ma finalmente è finito! Stanchi e infreddoliti ci si mette in viaggio verso il lavoro, ma soddisfatti di essere riusciti nell’impresa. Quello che pochi minuti prima è stato stressante, diventa ora un ricordo passato e si trasforma lentamente in un motivo di orgoglio, di conferma della propria forza e resistenza. Piano piano si affaccia poi nella mente un senso di appartenenza forte a quel gruppo, al quartiere, alla città. Può capitare allora di trovarsi a cena a raccontare di quanto si è orgogliosi di vivere a Boston, di quanto siano pigri e viziati quelli che in Florida non conoscono inverni così rigidi e non sanno cosa significhi spalare la neve appena svegli per andarsi a guadagnare da vivere! (Van Der Kolk 2015)[/blockquote]

Tra aneddoti personali e rigorosissime analisi scientifiche, Bessel Van der Kolk ci porta a navigare, durate il lungo workshop tenutosi a Milano dal 15 al 17 gennaio, attraverso il complesso tema del trauma e dei trattamenti più moderni orientati alla cura di persone traumatizzate.
Il nostro cervello e il nostro corpo reagiscono, elaborano e superano situazioni stressanti, talora riuscendo a ripararle completamente e a trasformarle in esperienze positive di forza e resilienza, talora lasciando attivo uno stato di allerta prolungato, cui il corpo si adatta ma che mostra segni anche a distanza di anni.

Affrontare l’inverno rigido di Boston, diventa allora la metafora perfetta di come il nostro cervello reagisce alle situazioni stressanti e di come ci siano diversi livelli di elaborazione, che attimo per attimo intervengono a regolare emozioni, comportamenti e pensieri. La prima condizione necessaria alla resilienza è dunque uno stato emotivo iniziale di quiete, di sufficiente sicurezza e fiducia nelle proprie capacità. Aver riposato, aver mangiato, essere in buona salute e vivere una condizione familiare e di vita sufficientemente buone. Poi arriva un evento avverso che altera questo stato di cose e intervengono rabbia, paura, ansia e il sistema limbico – la parte più antica del nostro cervello – entra in uno stato di emergenza: ci blocchiamo un attimo, congelati di fronte al brusco cambiamento e non sappiamo cosa fare. La rabbia è intensa, la paura cresce, ma se siamo abbastanza in salute o possediamo gli strumenti per reagire o riceviamo l’aiuto necessario, allora il sistema limbico riesce a trasformare le emozioni negative in azione comunicando con le cortecce prefrontali per organizzare un piano d’azione, e con il tronco dell’encefalo per guidare il corpo nei movimenti necessari a realizzarlo. Il funzionamento sincrono e flessibile di questi livelli di elaborazione, garantisce la possibilità di affrontare la situazione e risolverla, uscendo dall’emergenza indenni e forse anche con un’idea migliore di se stessi.

Le variabili che rendono la nostra capacità di elaborare situazioni stressanti inefficaci, possono tuttavia intervenire a tutti i livelli di elaborazione descritti e determinare diversi esiti a seconda del processo compromesso. Uscire di casa in uno stato emotivo negativo perché stiamo vivendo una situazione familiare difficile, conflittuale o di violenza, ci espone a reazioni emotive più intense. Potremmo poi non aver dormito o mangiato regolarmente o non essere in buona salute, tutto questo pone il nostro corpo e la nostra mente in condizioni di svantaggio e di fronte alle difficoltà potremmo sentirci subito sopraffatti e fuori controllo. Proviamo allora a chiedere aiuto a chi abbiamo vicino, ad attivare l’ingaggio sociale di cui abbiamo bisogno come specie, e se alla fine anche questo fallisce, il nostro sistema di emergenza può valutare la situazione come non-affrontabile.

Allora le normali emozioni di rabbia e paura, possono diventare soverchianti, e generare comportamenti impulsivi, distruttivi, non regolati dall’attività delle cortecce superiori – normalmente orientate alla riflessione e alla valutazione delle soluzioni -, e dunque non finalizzati alla soluzione del problema, ma che rispondono alla sola necessità di azione, insita nello stato di urgenza. Se infine neanche questo funziona, il sistema limbico attiva una reazione definitiva di “congelamento emotivo”, in cui non è più possibile agire, né pensare.

Qui intervengono la resa, la passività, l’impotenza.
Quando i tre livelli principali di elaborazione non riescono a funzionare in modo coordinato ed efficace, l’esperienza avversa può trasformarsi in esperienza traumatica, creando cioè una rottura tra un prima e un dopo quell’evento, caratterizzata da una discontinuità nella percezione di sé, degli altri e del mondo. Non essere riusciti o non aver potuto affrontare in modo efficace un evento negativo, risulta più traumatizzante dell’evento in sé e può lasciare nel cervello tracce del suo passaggio. A livello corticale può conservarsi un’idea di se stessi come persona debole, impotente, cattiva; al livello limbico può permanere a lungo una reazione emotiva di allerta, di rabbia o di terrore; a livello del talamo e del tronco encefalico possono restare attive sensazioni somatiche (dolore, formicolii, anestesie..) o risposte fisiologiche automatiche (enuresi, svenimento,..). In questi casi l’esito difficilmente sarà di sentirsi orgogliosi di se stessi, capaci, forti e in grado di sopravvivere. Più facilmente la mente si riorganizzerà intorno a quello che ha appreso dall’esperienza: domineranno paura, insicurezza, tendenza ad evitare situazioni di rischio, o passività, sentimenti di inadeguatezza, debolezza o impotenza. La rottura e la discontinuità generate dal trauma si manifestano dunque nell’impossibilità di integrare questi frammenti di pensieri, emozioni e sensazioni all’esperienza traumatica e di dare loro un senso nel presente.

Il trauma e il corpo

Qui si colloca il principio cardine delle riflessioni emerse in tutte le giornate del workshop: quando parliamo di pazienti traumatizzati, quale può essere il ruolo terapeutico delle parole laddove il corpo e la mente non sono integrati e connessi nell’esperienza stessa del raccontare? Secondo Van der Kolk, nessuno. Il motivo appare chiarissimo nella sua semplicità: quando si parla ad una persona traumatizzata, si parla ad un cervello e ad un corpo che vivono costantemente in uno stato di emergenza, in cui le parole e i significati saranno espressi senza mediazione delle cortecce e dunque senza alcuna possibilità di apprendimento ed elaborazione consapevole dei vissuti personali. Sentire e parlare diventano due attività indipendenti, o meglio dissociate, e le parole, le credenze, le idee di sé non riescono ad essere “incarnati” e connessi al corpo che li esprime.

I pensieri rischiano allora di restare fissi, rigidi e stereotipati, anche di fronte al migliore dei disputing! Nel trattamento di pazienti traumatizzati che hanno tracce mnestiche così vivide nel corpo, sarà inefficace utilizzare in prima istanza qualunque terapia basata solo sulla parola, senza un lavoro iniziale e progressivo sul corpo e sulla sua esplorazione.

L’intero lavoro di ricerca di Van der Kolk sembra orientato a riflettere proprio su questo dato e sulle sue fondamentali implicazioni cliniche: la necessità di organizzare protocolli di cura che rispettino innanzitutto la fisiologia della mente e poi come la mente e il corpo si riorganizzano a seguito di un trauma. L’interocezione precede qualunque accesso all’introspezione. Prima di ogni riflessione, sarà importante rendere il respiro fluido e regolare, aiutare il paziente a sentire il corpo in tutte le sue parti, a riconoscerne le sensazioni fisiche, i cambiamenti interni, le fluttuazioni emotive nel qui ed ora. Sarà poi importante sperimentare le possibilità di movimento, conoscere i propri confini corporei, le diverse capacità espressive e imparare ad osservare come la mente reagisce al movimento. Solo dopo tutto questo la parola può essere incarnata e ascoltata, può riuscire a stimolare uno stabile cambiamento di prospettiva, di credenze, di idee di sé, di comportamenti.

Nel suo ultimo libro “Il corpo accusa il colpo”, il Dr. Kolk offre una disamina puntuale, ricca e molto supportata dalle neuroscienze, dei principali trattamenti psicoterapici presenti nel panorama attuale e orientati alla cura del trauma. Dall’EMDR allo yoga, dall’Esposizione narrativa al Qi Gong, dalla Mindfulness al teatro, passando per le più moderne terapie orientate al corpo, come la Sensomotoria e il Tapping, il suo testo propone un’idea tanto semplice quanto convincente di come affrontare situazioni cliniche complesse:

[blockquote style=”1″]Se la memoria del trauma è codificata nelle viscere, nelle emozioni sconvolgenti, nei disturbi autoimmuni e nei problemi muscolo-scheletrici, e se la comunicazione viscere-mente-cervello è la via maestra della regolazione emotiva, ciò richiede un radicale mutamento nel nostro modo di concepire la terapia (Van Der Kolk 2015).[/blockquote]

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