Nella seconda giornata del congresso della European Society of Behavioural and Cognitive Therapies (EABCT), che si è svolto online ad Atene dal 3 al 5 settembre, ho assistito alle presentazioni di Anke Ehlers dell’Università di Oxford sul disturbo post traumatico da stress (PTSD) e di Janet Treasure del King’s College di Londra sull’anoressia nervosa.
Anke Ehlers sul disturbo da stress post traumatico
Due le idee più significative esposte dalla Ehlers, con solidità empirica: ha ribadito -dati alla mano- la superiorità della terapia cognitivo comportamentale (CBT) per il PTSD su ogni altra terapia, compresa l’Eye Movement Desensitization and Reprocessing (EMDR), e ha illustrato le nuove ipotesi sul reale meccanismo d’azione della CBT nel trauma, ipotesi legate a parallele scoperte sul meccanismo patologico del PTSD.
Ribadire la superiorità della CBT non è solo il frutto di una mera rivalità tra psicoterapie -CBT e EMDR- ma è anche lo sforzo di fornire ai pazienti linee guida affidabili sulle cure più specifiche per il PTSD. Come si sa, negli ultimi anni l’EMDR ha legittimamente avanzato la propria candidatura a terapia specifica e di scelta per il PTSD e per molti altri disturbi legati al trauma. Il merito di questa sfida alla CBT, che deteneva questo privilegio, è di aver generato una sana rivalità clinica sull’efficacia dei trattamenti che va a vantaggio della cura dei pazienti.
I dati di efficacia portati dalla Ehlers mostrano che entrambe le psicoterapie d’elezione, CBT e EMDR, sono molto più efficaci di ogni altra psicoterapia in termini di effect size e di varie altre misure statistiche (di cui ignoro gli arcani segreti tecnici) e che la CBT mostra un margine di superiorità rispetto all’EMDR. Quindi per il PTSD si raccomandano CBT ed EMDR di gran lunga rispetto a ogni altra terapia e si concede una significativa preferenza alla CBT. È una conclusione importante in tempi in cui il verdetto di Dodo, per altri casi affidabile (ad esempio i disturbi di personalità), rischia però, se abusato, di favorire un quadro scientifico e clinico stagnante in cui ogni cosa fatta in compagnia del paziente in una stanza più o meno funziona.
Accanto a questo risultato significativo a favore della CBT ma per certi versi non nuovo ma solo un po’ dimenticato, Ehlers ha offerto anche risultati, anch’essi empiricamente supportati, innovativi sul funzionamento della CBT. Anche in questo caso va riconosciuto un merito alla rivalità con l’EMDR: essa ha stimolato ricerche più approfondite sul meccanismo psicopatologico del PTSD e sul processo d’azione della CBT. Il modello clinico del PTSD proposto dalla Ehlers è più processuale e metacognitivo di quello classico del gruppo CBT di Oxford (gruppo a cui Ehlers peraltro appartiene a pieno titolo). È vero che la natura clinica del PTSD favoriva uno sguardo processuale già nel modello CBT classico: il malessere post traumatico non dipendeva da valutazioni distorte della realtà ma da una gestione disfunzionale di memorie traumatiche intrusive. Insomma, processi interni distorti e non distorte valutazioni dell’ambiente.
Questa intuizione processuale e metacognitiva già presente nella CBT classica è stata ulteriormente sviluppata da Ehlers che ha studiato a fondo il meccanismo intrusivo delle memorie traumatiche nel PTSD, dimostrando come esse si presentino alla coscienza con l’immediatezza di un’esperienza reale e prive del loro carattere di ricordi passati, di modo che il paziente che le vive attribuisce loro un valore di minaccia reale e immediata. La memoria degli episodi di pericolo è totalmente disgiunta (se vogliamo, dissociata) da tutte le altre memorie e per questo essa perde la sua qualità di ricordo. La conseguenza terapeutica è un lavoro metacognitivo e normalizzante di costruzione -faticosa e non spontanea- della consapevolezza del carattere di ricordi di queste memorie traumatiche. Costruzione faticosa, non spontanea e controintuitiva perché avviene malgrado e nonostante il presentarsi di queste memorie in forma di esperienza immediata e presente.
In tal modo tutta una serie di ipotesi passate sul PTSD basate sulla esplorazione degli episodi traumatici come un lavoro di scavo e di ricostruzione di informazioni dimenticate o addirittura rimosse si ribalta nel suo contrario: le memorie non sono affatto rimosse ma sono fin troppo ben presenti e immediate alla mente del paziente. Ma non si tratta della solita critica alla psicoanalisi; si tratta anche di ridimensionare la concezione di certi interventi immaginativi oggi di moda come rivisitazione vivida e intensa di un passato che condiziona perché semi dimenticato. Al contrario, si tratta di rivisitare il passato in una condizione di distacco emotivo che li renda meno vividi, meno immediatamente immaginati e per niente rivissuti con intensità. Invece è il distacco critico e razionale che favorisce la consapevolezza che si tratta di ricordi e non di esperienze presenti. Un lavoro quindi metacognitivo e, in un certo senso, anti-esperienziale se con questo termine intendiamo un contatto diretto con l’emotività del momento presente. Semmai si tratta di una esperienzialità metacognitiva, mediata e non immediata. E sia la CBT che l’EMDR al loro meglio sembrano funzionare in questa direzione.
Gli interventi CBT raccomandati dalla Ehlers si chiamano “updating trauma memories” e “discriminating triggers of reexperiencing (THEN and NOW)” e consistono in un lavoro di riconnessione delle memorie traumatiche con il contesto passato da cui si sono disgiunte e di riconoscimento degli stimoli del presente che scatenano le intrusioni in maniera imprevedibile per il paziente (anche se poi spesso ci sono delle associazioni inconsapevoli per analogia). Lavoro fondamentalmente consapevole e riflessivo, basato su una forte condivisione della formulazione del modello del PTSD che favorisca una gestione razionale (diciamolo) di stati mentali sgradevoli e non su una liberazione dalle memorie intrusive dopo una qualche esperienza emozionale correttiva.
Janet Treasure: keynote sull’anoressia nervosa
Dedico meno righe alla keynote della Treasure sull’anoressia perché si è trattato di una presentazione di taglio in buona parte più psichiatrico che cognitivo comportamentale, con molti dati sui fattori di rischio.
Interessanti tuttavia i dati sugli aspetti cognitivi e interpersonali dell’anoressia, empiricamente confermati (che è un grande merito) seppure non nuovi: si ribadisce il tratto criticista, copertamente conflittuale e iperprotettivo delle relazioni familiari dell’anoressica, che favoriscono nelle pazienti un atteggiamento evitante e poco propenso alla crescita personale e all’esplorazione e che si rifugia in un perfezionismo singolarmente ristretto, limitato al controllo del peso e dell’aspetto corporei.