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La vendetta della psicoanalisi non convince, e sembra un gioco pericoloso (per la salute delle persone)

La vendetta della psicoanalisi di Burkeman, mostra molti punti deboli e prova a giocare su 2 tavoli, un gioco pericoloso per la salute delle persone

Di Sandra Sassaroli

Pubblicato il 09 Feb. 2016

Non è facile per il giornalista stare su tutti i tavoli, quello del sorpasso dal punto di vista scientifico, pragmatico, empirico e contemporaneamente giocare sul tavolo dell’inno alla incommensurabile ineffabilità della mente umana. Questo è un percorso pericoloso per gli psicoterapeuti perché da un lato rischia di farci guardare allo sciamanesimo e dall’altro spinge i nostri pazienti nelle mani del rimedio farmacologico.

 

Il vecchio cognitivismo paragonato alla nuova psicanalisi

Ci sono alcune osservazioni da fare sull’interessante e provocatorio articolo uscito sull’Internazionale (“La rivincita di Freud” di Oliver Burkeman, traduzione italiana di un articolo apparso sul Guardian).

La prima è che si parla della terapia cognitivo-comportamentale nei termini dei suoi fondatori, Beck ed Ellis, i cui primi testi risalgono agli anni ’50 e ‘60. In questi protocolli di terapia, che reagivano all’assetto rigido e passivo della psicanalisi del tempo, vi era l’esasperazione razionalista dell’intervento elementare di disputa di credenze irrazionalmente dannose (Ellis) o semplicemente false (Beck) (“perché lo ritiene così terribile?” e ”mi dimostri questa sua affermazione”). In questo intervento si aveva come target principalmente il pensiero distorto o irrazionale, che -attraverso una lettura sbagliata della realtà- generava sofferenza, emozioni negative e comportamenti poco utili. Questo approccio ai tempi era tutto volto a intervenire sulla riduzione dei sintomi soprattutto ansiosi e depressivi. L’efficacia rivoluzionaria di questo approccio, pragmatico e molto attento alla sofferenza dell’individuo nel qui e ora, è stata poi confermata dalla produzione di una vastissima letteratura scientifica.

L’articolo trascura completamente lo sviluppo seguente della terapia cognitivo-comportamentale, complesso almeno quanto quello psicodinamico, dall’arrivo della diagnostica DSM e ICD-10 fino alla comparsa di un tipo di pazienti complessi dalle richieste non sempre facili da interpretare. Leggendo l’articolo si ha una rappresentazione caricaturale e banale della terapia cognitivo-comportamentale.

Al contrario, quando nell’articolo si parla di terapia psicoanalitica si evita ogni caricatura e semplificazione e si definiscono soprattutto gli sviluppi più moderni ed evoluti, basati sulla effettiva crisi della sua forma classica e sulle esperienze e ricerche in ambito relazionale ed evolutivo e adattati alla terapia del paziente grave: una psicoanalisi che non è più psicoanalisi, è terapia psicodinamica e si richiama alla psicanalisi classica solo per alcuni tratti ma se ne allontana in modo cruciale nel modo di concettualizzare e fare terapia.

Queste terapie psicodinamiche moderne sono profondamente innervate nella tradizione psicoanalitica ma se ne discostano moltissimo nella prassi clinica quotidiana dove si discute con il paziente, si analizza la relazione, si cercano alternative insieme, si fanno esperimenti. Ciò che resta della metapsicologia psicanalitica appare spesso come un rituale verbale più che la sostanza di ciò che realmente si fa. Pensiamo al divertente e interessante libro che descrive la transizione di un clinico psicanalitico ortodosso verso un approccio psicodinamico relazionale, sto parlando di “Sul lettino di Freud” di Irvin Yalom.

È vero che Otto Kernberg –un esempio di psicoanalista moderno- usa il termine pulsione ma la sostanza di ciò che lui fa è profondamente diversa, in alcuni momenti attiva e impegnativa per il cliente come quella di un coraggioso terapista cognitivo. Nell’ambito di un contratto molto rigido Kernberg gioca una sfida sui comportamenti disfunzionali del paziente in seduta che richiamano comportamenti e attitudini apprese in vecchie storie evolutive. Il meglio delle due terapie, cognitiva e psicodinamica.

L’articolo di Burkeman utlizza quindi una rappresentazione complessa della terapia psicodinamica (non più psicoanalisi) e semplicismo per la terapia cognitiva. È evidente che il gioco impostato così è impari.

Tutte le terapie sono profondamente cambiate negli ultimi due decenni seguendo la spinta delle ricerche di efficacia e dell’incontro negli studi degli psicoterapeuti con pazienti complessi con disturbi di personalità. Questo pregiudizio anti-cognitivo si vede anche alla fine dell’articolo in cui Pollens dice che molti vengono “a chiederci aiuto e subito dopo cercano di impedirci di aiutarli e la psicoanalisi è tutta qui”. Ecco i pazienti difficili con cui dobbiamo tutti dobbiamo confrontarci; perché solo la psicoanalisi? Tutte le terapie moderne si sono confrontate con i problemi dell’ alleanza terapeutica nei disturbi di personalità e sono molto cambiate. in campo psicodinamico ho già citato Kernberg e ora aggiungo Peter Fonagy; in area cognitivista ci sono Marsha Linehan, Jeffrey Young e Arnout Aarnzt. Tutte le vecchie teorie si sono dovute adeguare, i problemi relazionali sono entrati al centro del discorso clinico.

Per i cognitivisti è stato in parte più facile, più rapido e più indolore, non avevano tra i fondatori personaggi giganteschi e carismatici come Freud e Jung a cui pagare un pegno linguistico così forte.

 

La contraddizione dello scientismo e dell’intimismo all’interno della psicoanalisi

Un’altra contraddizione dell’articolo: nella parte iniziale si citano importanti ricerche in cui la terapia psicoanalitica nella sua versione psicodinamica più moderna si dimostra più efficace o più a lungo o con meno ricadute della terapia cognitivo-comportamentale. Questo dato è importante, un successo della spinta alla ricerca empirica che avvantaggia tutte le psicoterapie. Poi però a conclusione dell’articolo si scivola verso un inno all’incommensurabile specificità umana, alla sua incontrollabilità, all’ impossibilità di esemplificare e, in fondo, di condurre ricerca empirica: “dopotutto la psicanalisi incarna proprio quella umiltà su quanto poco potremo mai capire sul funzionamento della mente.

Io non spero che questa umiltà continui nel tempo, anzi confido in una curiosa arroganza che ci permetta di comprendere meglio, misurare, capire, curare in modo verificabile ed efficace, e mi sembra che questa direzione sia già stata adottata dalle aree più sensibili della terapia psicodinamica, non lasciando alla terapia cognitivo-comportamentale tutto il peso della scienza. Sarebbe un errore mortale per tutta l’area clinica che alla psicodinamica si riferisce.

Non è facile per il giornalista stare su tutti i tavoli, quello del sorpasso della terapia cognitivo-comportamentale da parte della terapia psicodinamica dal punto di vista scientifico, pragmatico empirico e contemporaneamente sul tavolo dell’inno alla incommensurabile ineffabilità della mente umana. Questo è un percorso pericoloso per noi psicoterapeuti perché da un lato rischia di farci guardare allo sciamanesimo e dall’altro spinge i nostri pazienti nelle mani dei farmacologi. Ricordo quando da giovani si disquisiva sulla psicoterapia come arte, ricordo il senso di confusione che questi discorsi davano. Nessuno desidera essere curato in modo artistico e individualistico, abbiamo bisogno di un buon incontro con persone ben informate e sapienti sugli aspetti scientificamente confermati del loro intervento sulla salute mentale.

 

Stare meglio uguale comprendere?

Proseguo il mio commento all’articolo di Oliver Burkeman per il Guardian, tradotto in italiano da Internazionale. Nella prima parte notavo come le due argomentazioni principali del lavoro di Burkeman fossero in contraddizione. Burkeman infatti notava che anche la psicoanalisi fa ricerca empirica (bene) e insieme che la ricerca empirica non sia adatta a comprendere la mente e per questo sia meglio seguire le profondità della psicoanalisi.

Qui prendo in esame altri aspetti dell’articolo. Un’altra argomentazione di Burkeman a favore della psicoanalisi è che che il fattore che fa stare meglio il paziente rimandi esclusivamente alla dolorosa e consapevole coscienza dei propri problemi. Questo è un altro dei punti deboli dell’articolo. La comprensione della propria storia, del proprio funzionamento è un importante atto terapeutico, la costruzione di narrazioni comuni sulla sofferenza tra paziente e terapista è fondamentale; tuttavia non si comprende perché venga sempre descritta in contraddizione con l’azione cognitiva, emotiva e comportamentale. Sicuramente siamo anche ricordi ed emozioni e non siamo solo pensieri e comportamenti. In terapia occorre saper lavorare sui diversi livelli.

Credo che non vi sia alcuna contraddizione tra questi due atti terapeutici, posso tentare di ridurre il panico o un disturbo bulimico adottando un protocollo efficace di poche sedute o regolarizzando l’alimentazione in collaborazione con una nutrizionista, e nel contempo comprendere meglio il funzionamento emotivo di un paziente costruendo un’alleanza che abbia forte valenza mutativa.

Sono apparse all’orizzonte nuove forme di terapie cognitive forti ed efficaci che si discostano radicalmente dall’archetipo dell’intervento razionalistico, e sto pensando ad esempio al lavoro di Adrian Wells, il cui protocollo sull’ansia sociale è oggi più forte di quello cognitivo comportamentale classico, da lui stesso costruito insieme a David Clark negli anni ‘90.

 

Terapia cognitivo-comportamentale e controllo sociale: Orwell?

L’interpretazione della terapia cognitivo-comportamentale come un fattore di stabilità sociale che ci richiama a Orwell mi sembra indifendibile. Abbiamo davvero bisogno che le persone abbiano sintomi a lungo e che soffrano per farne degli esseri vitali e ribelli della nostra società?

Sembra veramente un’argomentazione politica da ciclostilati anni ’70 che non ha mai trovato conferma in nessun testo scientifico degno di questo nome. La sofferenza sintomatica non genera ribellione, vitalità, creatività anzi abbatte le persone, fa perdere risorse e le rende passive. E se permane nel tempo danneggia, aggrava e peggiora le cose. Un’infelicità generale e malinconica, gestita in una buona relazione transferale con un analista senza prendere farmaci ha sicuramente un suo senso, mentre un sintomo alimentare che lede il corpo, lo indebolisce, lo fa ammalare, indebolisce i denti e li fa cadere, favorisce le ovaie policistiche ed è mantenuto in attesa che si sciolga tramite una consapevolezza lunga da raggiungere oggi è considerata una strategia terapeutica che non rispetta i dettami della deontologia.

 

Ancora una volta il verdetto di Dodo

Il verdetto di Dodo: tutte le terapie funzionano sostanzialmente allo stesso modo per le loro componenti aspecifiche, ad esempio la capacità di ascolto, la disponibilità, e così via. Questa è una argomentazione vecchia ormai di 40 anni. La verità è invece che le terapie non sono tutte di eguale efficacia, ma agiscono a differenti livelli di efficienza su differenti disturbi. L’indicazione della terapia cognitivo-comportamentale per l’area dell’ansia è incontestabile. Invece si può e si deve concedere alla nuova psicoanalisi un buon contributo alla comprensione e il trattamento dei disturbi di personalità grazie al lavoro di Fonagy e Kernberg. Senza però dimenticare che la terapia cognitiva ha dato anche qui il suo contributo con Young e Linehan. E infine sicuramente la tradizione psicodinamica ha dato il suo contributo maggiore nella comprensione dei meccanismi dell’alleanza terapeutica.

 

I difetti della terapia cognitivo-comportamentale

Nel Regno Unito la riforma di Richard Layard è stata un esperimento importante di tentativo di diffondere il lavoro psicoterapeutico su un approccio scientifico e su basi empiriche. Tuttavia è anche accaduto che la terapia cognitivo-comportamentale fosse insegnata in pochi mesi in una forma eccessivamente semplificata e affidata a operatori non troppo competenti e poco formati come infermieri e assistenti sociali. In questa forma la terapia cognitivo-comportamentale si è prestata a grandi critiche. Il successo della riforma di Layard rischia di essere stato un boomerang. Le critiche che oggi arrivano da ricercatori ci ricordano che la formazione alla psicoterapia non può essere unicamente un problema di aderenza a modelli semplificati per farne un oggetto formativo di massa. Occorre una rete complessa di informazioni e di formazione, di tipo tecnico, strategico e relazionale e deontologico.

 

Il calo di efficacia della terapia cognitivo-comportamentale

Interessante il problema del calo dei risultati di efficacia della terapia cognitivo-comportamentale nel tempo, dato sul quale anche noi si stava riflettendo. L’unica risposta che si da il giornalista è che questo calo di efficacia sia un problema di modello clinico; ma perché non fare altre ipotesi? E se fosse dovuto a un problema di calo di aderenza al protocollo? Di mancanza di strumenti diagnostici corretti? Di mancanza di adeguata formazione e supervisione? Della necessità che il lavoro psicoterapeutico sia fatto da psicoterapeuti e non da assistenti sociali, come avviene in Inghilterra?

 

L’inconscio è gigantesco

Ecco: il punto debole, veramente debole, dell’articolo è quando si dichiara: “Il nostro inconscio è gigantesco e controlla quasi tutto” spingendo le persone a credere che la complessità del funzionamento della mente è tale che qualsiasi assetto scientifico non possa che ridurne la portata.

A questa obiezione olistica aveva già risposto Popper in Miseria dello storicismo, ne aveva denunciato i rischi di anti-scientismo. È proprio la complessità del nostro funzionamento che ci chiede di misurarci in modo scientifico con la psicoterapia, per creare misure, avere regole, individuare punti deboli, così da renderci più forti nel mondo della cura.

Si, il modello medico semplifica, ma cura in modo forte e la spinta a mettere anche la psicoterapia sotto il modello medico non ha fatto che salvarla dall’oblio nel quale sarebbe caduta se si fosse fermata a pochi raffinati analisti chiusi nel loro studio. La terapia psicologica oggi è una pratica di massa e non un piccolo mondo selettivo ed elitario e deve affrontare i problemi di questa massificazione, che non possono essere un ritorno indietro ai tempi dell’isteria, ma una verifica sempre più stringente dei risultati, dei fattori di cura, delle variabili relazionali e affettive, e questo percorso oggi è praticato sia da psicodinamici moderni (anche in Italia) sia da terapisti cognitivo comportamentali moderni e più recentemente anche da ricercatori in area relazionale e sistemica.

Il nostro futuro non può essere quello di tornare ad un intimismo individualista e antiscientista ma arrivare a costruire protocolli di intervento integrato sempre più diagnosticamente orientati e capaci di andare a pescare nel vastissimo magma di tecniche, protocolli, interventi efficaci che ancora troppo spesso si presentano come oggetti monolitici, incapaci di dialogare tra di loro, e troppo sociologicamente orientati.

 

In sintesi

L’articolo di Burkeman non ci sembra un buon servizio alla psicanalisi per il suo tono competitivo e per alcune argomentazioni che rischiano di riportare indietro all’agonismo reciproco delle diverse scuole.

In area cognitiva, non dimentichiamoci che io sto parlando dall’Italia dove non è stato prodotto alcun protocollo randomizzato di efficacia, e dove un approccio scientifico, di rispetto di protocolli efficaci anche nell’area psicologica è arrivato da poco nelle regioni più evolute (ad esempio in Emilia-Romagna) e ancora costituisce una novità rivoluzionaria in quelle meno evolute.

La posizione corretta mi sembra oggi quella di non rinchiudersi in aree ideologiche ma di esplorare gli interventi delle diverse aree con l’attenzione al confronto con gli standard di efficacia. E questa sfida è di tutte le terapie, dalla psicoanalisi al costruttivismo, dalla sistemica alla gestaltista, e occorre muoversi con decisione lasciando a personaggi antichi, antiscientifici, la difesa di un vecchio castello di concetti ormai in rovina.

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Sandra Sassaroli
Sandra Sassaroli

Presidente Gruppo Studi Cognitivi, Direttore del Dipartimento di Psicologia e Professore Onorario presso la Sigmund Freud University di Milano e Vienna

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