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Omogenitorialità: questioni e temi connessi al rapporto tra genitorialità e omosessualità

Omogenitorialità: si toccano diversi temi interessanti come la definizione di famiglia, la natura dell’omosessualità e l’impossibilità biologica di concepire autonomamente un figlio. Si fa riferimento alla scienza (quasi parlando per essa) sostenendo che i bambini abbiano bisogno di entrambe le figure, altrimenti svilupperanno patologie e problematiche psicologiche. L’impressione è che ci si preoccupi davvero molto, forse perché ciò che non si conosce spaventa, e si dà per scontato che terrorizzi tutti.

Daniela Beltrami, Vania Galletti, OPEN SCHOOL STUDI COGNITIVI MODENA

 

Parafrasando gentilmente Umberto Eco: grazie ai social network tutti possono dire tutto, subito e senza filtri. Una scocciatura che può regalarci importanti spunti di riflessione.
Recentemente, su uno dei più utilizzati social network in Italia è comparsa una fotografia raffigurante una coppia che abbraccia il figlio appena nato, ancora imbarazzata nella presa, ma visibilmente emozionata; i neogenitori sono a petto nudo per “favorire il contatto della pelle del bimbo con la loro”. Un’immagine in bianco e nero, semplice, pulita, che ritrae l’immensità – non altrimenti descrivibile – dell’istante in cui un neonato prende contatto con gli occhi di coloro che lo spingeranno, porgendo soltanto un dito, a camminare, parlare, osservare e vivere. Niente di più bello e sorprendente, insomma, eppure il post è stato bombardato da una granata di commenti piuttosto coloriti di varia natura.

 

Omogenitorialità: le questioni e i dubbi

Nel tentativo di capire quale sia il dettaglio che ci sfugge, e che stimola diverse persone a vedere “schifo”, “paura”, “egoismo” (ecc.) in quell’immagine, proseguiamo la lettura dell’articolo di riferimento: innanzitutto Milo (così si chiama il neonato) è nato da una madre surrogata, pratica considerata illegale in Italia (anche se è lecito ricondurre in patria pargoli avuti di soppiatto all’estero); inoltre, la coppia di genitori ritratta, è composta da Bj e Frankie, due omosessuali canadesi, e l’articolo s’intitola “La commozione dei neopapà che abbracciano il figlio”. I commentatori contrari non si risparmiano e volano dichiarazioni interessanti: la famiglia è fatta da una madre e un padre (in realtà c’è chi sostiene che sia un “nucleo sociale rappresentato da due o più individui che vivono nella stessa abitazione e, di norma, sono legati tra loro col vincolo del matrimonio, con convivenza, o da rapporti di parentela e di affinità”, ma chiaramente l’interpretazione è libera; Fabietti & Remotti, 1997); ad un bambino servono entrambe le figure; l’uomo è disposto a tutto pur di soddisfare le sue voglie, ma se due uomini non possono procreare un motivo ci sarà; cosa diremo a quel bambino quando chiederà di sua madre? E così via.

Con l’ omogenitorialità si toccano diversi temi interessanti come la definizione di famiglia, la natura dell’omosessualità e l’impossibilità biologica di concepire autonomamente un figlio. Si fa riferimento alla scienza (quasi parlando per essa) sostenendo che i bambini abbiano bisogno di entrambe le figure, altrimenti svilupperanno patologie e problematiche psicologiche. Addirittura ci si preoccupa di rispondere in qualche modo alle domande che questi giovani potranno fare rispetto al genitore biologico mai conosciuto, più di quanto si sia mai fatto per le adozioni da parte di coppie eterosessuali.
Insomma, l’impressione è che ci si preoccupi davvero molto, forse perché ciò che non si conosce spaventa, e si dà per scontato che terrorizzi tutti. Considerando la “normalità” dal punto di vista numerico, le classi scolastiche multietniche che oggi popolano l’Italia fino a qualche anno fa erano considerate “anormali”. Del resto, già colpisce positivamente che non vi siano commenti omofobi: ben lungi da essere considerata “normale”, nel 2015 l’omosessualità è accettata senza giudizio (almeno dalle giovani leve).

 

Omogenitorialità in Italia

In Italia l’argomento omogenitorialità (anche detto omoparentalità o in inglese “gay parenting“) è piuttosto nuovo, ma nel mondo se ne parla già da un po’. Nel 2000, negli Stati Uniti, il 33% delle coppie lesbiche e il 22% di quelle gay dichiaravano di avere almeno un figlio minorenne; nel 2005 i figli di coppie omosessuali erano circa 270.313, nel 2010 oscillavano tra 600 mila e 4 milioni (Weber, 2010). Oggigiorno le coppie dello stesso sesso possono accedere all’adozione di minori in ben ventuno Paesi (Spagna, Francia, Regno Unito, Belgio, Paesi Bassi, Lussemburgo, Svezia, Norvegia, Danimarca, Austria, Islanda, Malta, Stati Uniti, Canada, Messico, Argentina, Brasile, Uruguay, Sudafrica, Australia e Nuova Zelanda), mentre possono adottare i figli del partner in Germania, Finlandia e Groenlandia.

In Italia la situazione è diversa: possono fare ricorso alle tecniche di fecondazione assistita solo persone coniugate o coppie di fatto (quindi esclusivamente eterosessuali); possono adottare solo persone coniugate (quindi eterosessuali). A differenza di ciò che accade in altre parti del mondo, le coppie omosessuali in Italia non sono riconosciute come famiglia e non sono legittimate ad avere figli, anche se oltre il 49% vorrebbe poter adottare un bambino (ricerca finanziata dell’Istituto Superiore di Sanità). Spesso per giustificare questa realtà, ci si appella alla scienza: ma cosa dice la scienza in proposito?

 

Le ricerche sulla omogenitorialità

Nel 2005 l’APA (associazione che rappresenta gli psicologi negli USA) sulla base delle ricerche condotte sulla omogenitorialità sentenzia: [blockquote style=”1″]Non esiste un solo studio che abbia rilevato che i figli di omosessuali sono svantaggiati in qualche aspetto significativo rispetto ai figli di genitori di eterosessuali [/blockquote](APA, 2005); nel 2012 ha confermato: [blockquote style=”1″]Non ci sono evidenze scientifiche che l’efficacia parentale sia correlata all’orientamento sessuale: i genitori omosessuali sono alla pari di quelli eterosessuali nel fornire un ambiente supportivo e sano ai loro bambini.[/blockquote] Sembrerebbe un epilogo piuttosto netto, eppure le critiche non tardano ad arrivare. Il problema principale è che molti degli studi considerati sono stati supportati da programmi politici e presentano importanti difetti metodologici (omogeneità dei campioni e assenza di adeguati gruppi di controllo, debole validità statistica, dati contradditori, assenza di studi longitudinali, ecc.; Belcastro et al., 1993; Patterson, 1995; Marks, 2012). Sulla base di questi limiti, Marks (Marks, 2012) afferma: [blockquote style=”1″]dichiarazioni forti, incluse quelle fatte dall’APA, non sono sperimentalmente giustificate.[/blockquote]

Prima di addentrarci nella letteratura scientifica, scandagliamo alcune delle problematiche sulla omogenitorialità sopra elencate:
– i campioni sono poco numerosi (Huggins, 1989; Bailey et al., 1995; Golombok & Tasker, 1996; Tasker & Golombok, 1995; Javaid et al., 1993), sono omogenei e dunque scarsamente rappresentativi della popolazione di riferimento; la maggior parte delle famiglie che prendono parte agli studi hanno a capo [blockquote style=”1″]madri lesbiche bianche, ben istruite, relativamente benestanti (…)[/blockquote] (Patterson, 1995);
– difficilmente si hanno a disposizione gruppi di figli adulti (quasi sempre si tratta di bambini o ragazzi) e scarseggiano gli studi longitudinali; questo impedisce considerazioni a lungo termine;
– capita che i figli inclusi nei gruppi sperimentali siano stati adottati e dunque siano più a rischio di sviluppare problematiche psicosociali (difficile è la costituzione di gruppi di controllo);
– spesso manca un gruppo di controllo adeguato: ad es. gli omosessuali che decidono di diventare genitori sono molto motivati, quindi non dovrebbero essere messi a confronto con genitori biologici;
– spesso vengono utilizzate misure “self-report” (questionari compilati dai genitori): spinti a dimostrare che gli omosessuali sono capaci di crescere bambini sani e felici, alcuni potrebbero desiderare di presentare se stessi e le loro famiglie nella miglior luce possibile (Gartrell, 1996); [blockquote style=”1″]secondo le madri, i figli delle madri lesbiche sono migliori a scuola e mostrano meno problemi rispetto ai pari[/blockquote] (Gartrell, 2010);
– è difficile controllare variabili quali l’instabilità di coppia e lo stress ambientale, fattori che non dipendono dalle scelte sessuali ma dal contesto; ecc.
Questi limiti sono spesso specificati al termine degli studi, e le conclusioni ne tengono conto, contestualizzando i risultati ed esprimendo la necessità di ulteriori ricerche. Analizziamo ora i risultati ottenuti.

 

Gli studi condotti sulla omogenitorialità (per lo più madri lesbiche con precedenti esperienze di famiglie etero; Gartrell & Bos, 2010; Stacey & Bilbarz, 2001) si sono focalizzati principalmente sulle abilità genitoriali e il benessere psicologico dei bambini (APA, 2005; Short et al., 2007).

 

a) Abilità genitoriali nelle famiglie omogenitoriali

La maggior parte delle ricerche (Perrin & Siegel, 2013) rivela che non vi sono differenze significative tra le abilità di parenting di coppie omosessuali ed eterosessuali (Bos et al., 2004; Morse et al., 2007; Patterson, 2007). Tuttavia, le coppie dello stesso sesso (per lo più lesbiche) riportano un livello d’impegno genitoriale più elevato e percepiscono la diade come maggiormente stabile (Baiocco et al., 2013), nonostante lo scarso sostegno da parte della famiglia d’origine (Kurdek, 2004); sono più propense a risolvere i problemi e ad affrontare tematiche conflittuali contribuendo a mantenere più alta la stabilità di coppia (Gottman et al., 2003), la genitorialità e le decisioni importanti (Farr & Patterson, 2013; Patterson, 2000).

Ciò che distingue i due gruppi, ma non dipende dalle abilità di parenting, é l’impatto del cosiddetto “minority stress” sul benessere individuale, dovuto alla stigmatizzazione subita dalla comunità LGBT (Lingiardi, 2012; Lingiardi et al., 2012). L’esposizione a tale stress risulta significativamente correlata a maggiori difficoltà rispetto all’esperienza dell’essere genitori (Armesto, 2002; DeMino et al., 2007). Infatti, le coppie omosessuali riferiscono sicurezza rispetto alle proprie competenze genitoriali, esprimendo la convinzione che l’aspetto importante risiede nella qualità della relazione e non nell’orientamento sessuale (Chan et al., 1998; Patterson, 2006), tuttavia riportano alcune difficoltà (Baiocco, 2013) tra cui: il mancato riconoscimento del partner (e dei suoi diritti) come genitore biologico del bambino e il bisogno di fornire spiegazioni rispetto alla propria famiglia; la sensazione di essere privati dallo Stato di alcuni fondamentali diritti (riconoscimento della coppia e matrimonio, tutela rispetto a discriminazioni lavorative e fiscali, maternità/paternità, ecc.).
Lesbiche e gay sentono la necessità di sensibilizzare le persone alla realtà omogenitoriale e agli effetti dell’omofobia. Tali richieste sono riportate in letteratura (APA, 2005; Patterson, 2009; Short et al., 2007) e sono motivate dalla paura che la discriminazione, da loro sperimentata, possa nuocere ai figli.

 

b) Benessere psicosociale dei figli di genitori omosessuali

In nessuna delle aree analizzate relativamente al benessere dei bambini (identità sessuale, sviluppo cognitivo, emotivo e psico-sociale) sono state rilevate differenze significative. La maggior parte dei figli di omosessuali si dichiara eterosessuale (APA, 2005; Gartrell et al., 2010), non presenta problemi psicologici, cognitivi o comportamentali (Bos, 2004; MacCallum & Golombok, 2004; Stacey & Biblarz, 2001; Tasker, 2010) e vive relazioni non problematiche (Patterson, 2009). Stacey & Biblarz (2001) evidenziano una maggior apertura mentale rispetto allo sviluppo psicosessuale (maggior desiderio di sperimentare rapporti omosessuali e minor aderenza ai tradizionali ruoli di genere). Nuovamente, sembra che un fattore in grado di far scricchiolare il benessere psicologico di questi giovani sia la stigmatizzazione sociale (Bos, 2004; MacCallum & Golombok, 2004; Short et al., 2007; Weber, 2010). Gli episodi di discriminazione preoccupano molto anche i genitori, soprattutto i papà (forse indeboliti dalla lotta con stereotipi squalificanti che li descrivono come meno portati alla genitorialità).
I bambini cresciuti da coppie dello stesso sesso, quindi, non svilupperebbero problematiche legate all’orientamento sessuale dei genitori, ma potrebbero soffrire a causa di esperienze dirette o indirette di stigmatizzazione omofobica (Van Gelderen, et al., 2015). Uno dei pochi studi che ha mostrato effetti negativi sul benessere dei figli (Regnerus, 2012) è stato fortemente criticato subito dopo la pubblicazione a causa di anomalie metodologiche.

 

c) Mamma e papà a confronto

Molti di coloro che si oppongono alla omogenitorialità sostengono che i bambini necessitino di un padre ed una madre per uno sviluppo ottimale (Biblarz & Savci, 2010).
Interessante, a tal proposito, è il Comunicato Stampa approvato dal Direttivo dell’Ammissibilità dell’adozione di minori da parte di una singola persona (2011):

[blockquote style=”1″]le affermazioni secondo cui i bambini per crescere bene avrebbero bisogno di madre e padre non trovano riscontro nella ricerca internazionale sul rapporto fra relazioni familiari e sviluppo psico-sociale. Ciò che è importante (…) è la qualità dell’ambiente familiare che i genitori forniscono, indipendentemente dal fatto che siano conviventi, separati, single, dello stesso sesso. I bambini hanno bisogno di adulti in grado di garantire cura e protezione, insegnare il senso del limite, favorire tanto l’esperienza dell’appartenenza quanto quella dell’autonomia, negoziare conflitti e divergenze, superare incertezze e paure, sviluppare competenze emotive e sociali. [/blockquote]

Gli studi non mostrano che, a confronto con altre forme di famiglia, quelle condotte da genitori biologici e sposati siano le migliori, ma che una coppia di genitori compatibili è meglio di un singolo genitore, indipendentemente dal sesso, dallo stato civile, dall’identità sessuale o biologica (Biblarz & Stacey, 2010).
Inoltre, sembra che mamme e papà omosessuali non possano essere sovrapposti a mamme e papà eterosessuali; una coppia genitoriale formata da due lesbiche non equivale ad una mamma sola, e lo stesso discorso può essere fatto per i papà. Vediamo in che modo.
Nel confronto con i padri, le mamme generalmente trascorrono più tempo con i figli (Brewaeys et al., 1997; Fulcher et al., 2008; Vanfraussen et al., 2003a), tendono a giocare di più e a disciplinarli di meno (Golombok e al., 2003), si mostrano maggiormente calorose e comunicative (Bos et al., 2007; Golombok et al., 1997).
La madre facente parte di una coppia lesbica è libera nell’espressione della femminilità (dunque incorpora le caratteristiche sopra elencate), ma è portata ad assumere tratti più maschili a livello di disciplina e finanza (Reinmann, 1998; Sullivan, 2004) scatenando liti più dure ma meno frequenti (Golombok et al., 1997; MacCallum & Golombok, 2004). All’interno della coppia omosessuale, la mamma biologica si assume più responsabilità rispetto al figlio e ottiene maggior intimità (Bos et al., 2007; Wainright et al., 2004), scatenando, a volte, la gelosia della partner (del resto è come se la coppia fornisse al pargolo una doppia dose di genitorialità femminile). Forse grazie alle figure maschili delle quali la madre si circonda, sembra che crescere senza un padre non impedisca lo sviluppo di caratteristiche mascoline, ma promuova quello di caratteristiche femminili e di una maggior flessibilità di genere (Fulcher et al., 2008; MacCallum & Golombok, 2004), scoraggiando la differenziazione tra maschi e femmine in termini di superiorità (Bos et al., 2006).

Gli studi sui gay, come già ampiamente ribadito, sono piuttosto rari. Possiamo comunque dire che i papà omosessuali non danno vita ad una coppia genitoriale caratterizzata da una doppia dose di mascolinità, bensì adottano pratiche più “femminili”. Il modo in cui un gay fa il genitore si avvicina maggiormente a quello di una lesbica piuttosto che a quello di un padre sposato (Biblarz & Stacey, 2010);

[blockquote style=”1″]essendo gay non sono una madre, ma mi sembra di avere più in comune con una mamma che con un papà. (…) In molti modi, nonostante sia uomo, sono un padre ma anche una madre (Mallon, 2004).[/blockquote]

Dato che il percorso che porta un gay a diventare papà necessita di molta più motivazione di quella di un etero o di una lesbica, i gay che decidono di diventare padri sono un gruppo selezionato e ristretto (Stacey, 2006).

Presi adeguatamente in considerazione i numerosi limiti metodologici e di campionamento degli studi riportati, possiamo concludere in questo modo: sembra che l’identità sessuale dei genitori non abbia effetti significativi sulla relazione genitore-figlio, sull’orientamento sessuale e sul benessere psicosociale e cognitivo del bambino (Crowl et al., 2008; Rosenfeld, 2010; Stacey & Biblarz, 2001; Tasker, 2005; Wainright & Patterson, 2008); anzi, i figli di coppie omosessuali (soprattutto lesbiche, che vengono viste più disponibili e supportive dal punto di vista emotivo; MacCallum & Golombok, 2004; Vanfraussen et al., 2003a), presentano addirittura più elevati livelli di benessere psicologico e atteggiamenti più liberi, flessibili e meno conformisti (Biblarz & Stacey, 2010); questo può essere dovuto al fatto che i genitori omosessuali sono un gruppo selezionato di individui estremamente motivati che si impegnano molto nel compito genitoriale, inventandosi un ruolo apparentemente in grado di sopperire alla mancanza della figura materna o paterna. Sicuramente sono necessari studi longitudinali e più appropriati dal punto di vista metodologico.

 

Conclusioni

Ad oggi l’unico dato che si pone a sfavore del omogenitorialità sembrerebbe essere rappresentato dall’impatto negativo che le esperienze di stigmatizzazione omofoba (che vedono omosessuali e prole più a rischio; Tasker, 2010) potrebbero avere sul benessere psicologico dei bambini. Tali esperienze, tuttavia, non dipendono strettamente dal omogenitorialità, ma dalla sensibilizzazione e dall’accettazione sociale.
Siccome questo pare essere l’unico rischio effettivamente rilevato da decenni di studi scientifici (altri dati contrastanti sono stati duramente criticati, etichettati come transitori o non riconducibili ad un effetto diretto della genitorialità; Vanfraussen et al. 2002; Bos et al., 2008; Tasker & Golombok, 1997; Golombok et al., 1997), è forse il caso di fare qualcosa? Se i nuclei familiari che si allontanano dal modello tradizionale (padre/madre/figlio) sono vissuti come pericolosi e destabilizzanti (Ciriello, 2000), è forse il caso di fare qualcosa?

Se nel Rainbow Europe Package 2015 (che valuta lo stato dei diritti delle persone LGBT in Europa rispetto a: eguaglianza/discriminazione, famiglia, libertà di associazione ed espressione, riconoscimento legale del genere e asilo), l’Italia si è posizionata al 34° posto su 49 paesi europei, è forse il caso di fare qualcosa?

Nonostante i dati parlino chiaro pur essendo ricavati da studi limitati, possiamo avere dubbi o perplessità, quantomeno perché, come detto all’inizio dell’articolo, si tratta di un ambito poco conosciuto, in corso di studio. Tuttavia, anche se l’Italia non riconosce l’ omogenitorialità le coppie omosessuali come famiglia e non permette l’adozione a coppie che non siano coniugate, dobbiamo tenere in considerazione l’evidenza che, di fatto, in Italia vivono figli di omosessuali. Nel 2005, il 17.7% dei gay e il 20.5% delle lesbiche con più di 40 anni aveva almeno un figlio. In virtù dell’obiettivo primario che è sempre “il bene superiore del minore”, dei minori che ci sono oggi prima di quelli che eventualmente popoleranno il domani, è nostro dovere combattere il rischio di stigmatizzazione con tutti gli strumenti possibili. E potremmo farlo con il totale supporto delle coppie omosessuali che sono, più di noi, terrorizzate dall’idea che la discriminazione possa nuocere ai loro figli.
Nel 2014, il Tribunale dei Minori di Roma, acconsentendo alla [blockquote style=”1″]www.studiolegalecarsana.eu[/blockquote](Lesbiche, Gay, Bisessuali, Transgender) tra due donne, ha lanciato sicuramente un primo messaggio positivo.

Per concludere le questioni sollevate dalla omogenitorialità, http://thekids.gabrielaherman.com/ è un interessante progetto di una fotografa di NY che ha scelto di incontrare persone cresciute con due madri, due padri o un solo genitore gay, e raccontare le loro storie:

[blockquote style=”1″]Forse è ora di chiederlo ai bambini. (The Kids)[/blockquote]

 

Amici veri o amici di facebook? 1 su 4 è sconosciuto

Un team di ricercatori della California State University e Yale University, ha recentemente scoperto che uno studente universitario medio conosce solo tre su quattro dei suoi “amici” di Facebook.

Ma 800 amici su facebook sono 800 amici veri? No, ovviamente no, ma quanti di questi lo sono? O meglio, di quanti di questi conosciamo il nome?

Un team di ricercatori della California State University e Yale University, ha recentemente scoperto che uno studente universitario medio conosce solo tre su quattro dei suoi “amici” di Facebook.
I ricercatori hanno creato un gioco di Facebook chiamato “What’s Her Face(book)”, in cui ai partecipanti sono state ripetutamente mostrate le immagini dei loro amici di Facebook per vedere quante ne avrebbero potute nominare in 90 secondi. Il gioco mostrava in modo casuale quattro foto dal profilo di un amico di Facebook e i partecipanti ne dovevano dire il nome, il cognome o il nome completo. Era anche possibile dire “Ho dimenticato” e passare al prossimo amico.

Più di quattromila persone hanno giocato al gioco, che può anche essere giocato più volte, per un totale di 174,615 congetture. L’età media dei partecipanti era di 24 anni.
L’analisi dei risultati ha rivelato che l’utente medio di Facebook ha circa 650 amici e che complessivamente il 72,7% delle risposte erano corrette. In altre parole, una persona con 650 amici può nominarne circa 472.
Le donne tendono ad essere più brave degli uomini (74,4% contro 71% degli uomini), ma tendono ad avere un po’ meno amici.

Il gioco ha anche mostrato che chi ha un minor numero di amici indovina più facilmente i loro nomi. Quelli con il minor numero di amici hanno indovinato l’80,1% dei nomi. Mentre tra quelli con il maggior numero di amici, la percentuale di risposte corrette scende al 64,7%.

E adesso viene spontaneo domandarsi: ma conoscere il nome di un viso su facebook basta a definire quella persona un amico…?

Terapia metacognitiva & trattamento del disturbo d’ansia generalizzato

La terapia metacognitiva si focalizza sui fattori che contribuiscono allo sviluppo del disturbo, tra cui le credenze negative riguardo la pericolosità e l’ incontrollabilità del rimuginio, le credenze metacognitive positive riguardo il rimuginio come modalità di coping efficace e alcuni aspetti comportamentali quali i tentativi di evitare il rimuginio e di controllo dei propri pensieri.

Che cosa e’ il disturbo d’ansia generalizzato

Il disturbo d’ansia generalizzato (in inglese Generalized Anxiety Disorder – GAD) è un disturbo psicopatologico caratterizzato da ansia eccessiva (sia in termini di intensità che di frequenza), preoccupazioni e rimuginio percepito dal soggetto come incontrollabile e dilagante (APA, 2000) e presente per almeno sei mesi. Per diagnosticare il disturbo devono essere presenti anche altri sintomi (almeno tre): difficoltà di concentrazione, insonnia, irritabilità e irrequietezza e generalmente una serie di sintomi fisici tra cui ad esempio facile affaticabilità, mal di testa, tensione muscolare, nausea, etc.

I sintomi possono oscillare – in termini di miglioramento o peggioramento – nei diversi periodi della vita della persona. Nel momento in cui la sintomatologia è medio-lieve il paziente con disturbo d’ansia generalizzato può avere un buon funzionamento sociale e lavorativo, mentre in altri casi gli evitamenti ansiosi e il rimuginio eccessivo possono compromettere la qualità della vita del soggetto (Lieb et al., 2005; Wittchen, 2002). Nei casi in cui il disturbo non venga trattato e si cristallizzi in modo cronico e grave la prognosi è negativa, nel senso che secondo alcuni studi (Kessler, 2002; Ballenger et al., 2001) il disturbo d’ansia generalizzato cronico e non trattato sarebbe un predittore dell’insorgenza del disturbo depressivo maggiore e di un peggioramento della sintomatologia fisica cronica connessa all’ansia.

 

 

La concettualizzazione metacognitiva del disturbo d’ansia generalizzato

I modelli più recenti nell’ambito della psicoterapia cognitiva enfatizzano l’evitamento degli stati affettivi interni nell’insorgenza e nel mantenimento del disturbo d’ansia generalizzato. Il modello metacognitivo (Wells, 1995) presuppone che alcuni processi cognitivi disfunzionali giochino un ruolo chiave in questo disturbo. In particolare, secondo il modello di Wells vi sarebbero delle credenze negative e maladittive (potremmo dire secondarie) riguardanti il rimuginio stesso e definibili come “metarimuginio” o “rimuginare sul proprio rimuginio” (ad esempio “Se non smetto di rimuginare e di preoccuparmi impazzirò”). Queste metacognizioni negative iniziano ad insinuarsi quando il rimuginio diventa inflessibile, rigido e persistente: i pazienti iniziano a preoccuparsi del fatto che sono spesso preoccupati e rimuginanti. Di conseguenza ciò innesca ulteriore ansia generalizzata e rimuginio, esitando in ultima analisi in alcune strategie di regolazione mentale controproducenti quali ad esempio i tentativi di soppressione dei pensieri e di evitamento. L’utilizzo di queste strategie è controproducente poichè rinforza le metacognizioni negative sul rimuginio, preclude la disconferma di esse, diminuendo la percezione di autoefficacia del paziente nel regolare i propri stati interni (Wells, 2005) e aumentando la quota di ansia esperita.

Il trattamento del disturbo d’ansia generalizzato: terapia metacognitiva (TMC) e terapia focalizzata sull’intolleranza dell’incertezza (IUT) a confronto

Un trial controllato olandese (van der Heiden, Muris & van der Molen, 2012) si è posto l’obiettivo di confrontare l’efficacia del modello della terapia metacognitiva (MCT) e del modello dell’intolleranza dell’incertezza (IUT) nel trattamento del disturbo d’ansia generalizzato. Lo studio ha coinvolto 126 soggetti con diagnosi di disturbo d’ansia generalizzato. I soggetti sono stati randomicamente assegnati a tre tipologie di trattamento ambulatoriale della durata di 14 sedute: terapia metacognitiva, terapia focalizzata sull’intolleranza dell’incertezza e condizione di assenza di trattamento (pazienti in lista d’attesa). Un aspetto rilevante di questo studio è che è stato condotto da un gruppo indipendente rispetto a coloro che hanno sviluppato i due approcci terapeutici a confronto.

La terapia metacognitiva si focalizza sui fattori che contribuiscono allo sviluppo del disturbo, tra cui le credenze negative riguardo la pericolosità e l’ incontrollabilità del rimuginio, le credenze metacognitive positive riguardo il rimuginio come modalità di coping efficace e alcuni aspetti comportamentali quali i tentativi di evitare il rimuginio e di controllo dei propri pensieri. Quindi non si trattano i contenuti dell’ansia e del rimuginio di per sè ma le proprie credenze sul rimuginio e sui propri stati interni. Le tecniche spaziano dalla ristrutturazione cognitiva verbale alla detached mindfulness, a esperimenti comportamentali sulle funzioni del rimuginio e su modalità alternative di gestione del rimuginio.

La terapia focalizzata sull’intolleranza dell’ incertezza interviene invece sulla diminuzione dell’ansia e del rimuginio aiutando i pazienti a migliorare la capacità di tollerare, affrontare e accettare l’inevitabile incertezza insista nella quotidianità (Dugas & Robichaud, 2007). Le strategie e le tecniche utilizzate includono ad esempio i training di consapevolezza dei propri stati ansiosi, le esposizioni in vivo e immaginative, le ristrutturazioni cognitive delle credenze irrazionali e gli esercizi di problem-solving.
Per la valutazione dell’efficacia dei diversi protocolli di trattamento sono state impiegati il Penn State Worry Questionnaire (PSWQ) e lo State Trait Anxiety Inventory (STAI-T).

Nella fase post-assessment e nel follow up (a sei mesi dal termine delle terapie) si sono registrati sostanziali miglioramenti in entrambe le condizioni di trattamento (terapia metacognitiva e terapia dell’intolleranza dell’incertezza) in tutte le variabili di outcome considerate. Cio’ significa che entrambi i protocolli hanno favorito un significativo e notevole miglioramento della sintomatologia del disturbo d’ansia generalizzato. Addirittura al termine della terapia il 91% dei pazienti trattati con terapia metacognitiva e l’80% dei pazienti sottoposti a terapia focalizzata sull’intolleranza all’incertezza non soddisfacevano più i criteri per la diagnosi di DAG nella fase di post-assessment.

Inoltre nel confronto tra le condizioni di terapia metacognitiva e terapia focalizzata sull’intolleranza all’incertezza i risultati indicano che la terapia metacognitiva avrebbe risultati anche migliori in termini di efficacia clinica, dimostrati da indici di effect size più elevati rispetto alla terapia sull’intolleranza all’incertezza sia nel post-assessment che nel follow-up.

 

Congresso di Terapia Metacognitiva Milano 2016

Complicati rapporti tra mezzi e fini – Ciottoli di Psicopatologia Generale Nr. 2

Gli studiosi seri che si avvalgono della ricerca hanno identificato vari possibili legami tra mezzi e fini.

CIOTTOLI DI PSICOPATOLOGIA GENERALE (RUBRICA) – LEGGI L’INTRODUZIONE

La distinzione tra le due categorie sembra intuitiva e offensivo per l’intelligenza del lettore, dedicarvi del tempo. Non è esattamente così. Tanto per cominciare ciò che è fine può essere a sua volta mezzo per qualcos’altro e così via. Ciò rimanda alla concezione degli scopi come una piramide organizzata gerarchicamente. Ai concetti non limpidissimi di scopi strumentali e scopi terminali e allo strumento del laddering up utile alla scalata verso l’alto e per la discesa in sicurezza in corda doppia nella sua versione di laddering down. Già vedo vacillare le precedenti esibite sicurezze di fronte alla classica domanda “dove ci si deve fermare nella salita?” Paradossalmente potremmo dire che uno scopo, un fine è terminale quando è completamente inutile. Lo sono ad esempio proprio la vita e l’uomo stesso in quanto inutili e senza un senso esterno. Continuando con questo livello astratto di riflessioni si rischiano, è risaputo, i bubboni sulla pelle, la cecità e l’inferno e dunque torno a ragionamenti più utili per il lavoro clinico.

 

Il legame Unifinality tra mezzi e fini

Gli studiosi seri che si avvalgono della ricerca hanno identificato vari possibili legami tra mezzi e fini che riassumo brevemente.
Il più semplice è chiamato “ unifinality”: un certo mezzo serve esclusivamente ad uno e un solo scopo. Questa modalità è poco efficiente perché comporta uno scarso utilizzo del mezzo stesso e dunque anche la probabile incapacità ad usarlo per il meglio e perché ci vogliono tanti , troppi mezzi per quanti sono gli scopi. Per averne una rappresentazione, immaginate un cassetto della cucina in cui si accumulano attrezzi per funzioni specifiche (il mestolo elettrico per la polenta di mais, l’incisore per la capsula di plastica che ricopre i tappi del vino, la guarnizione per la moka da due, ecc) oppure immaginate la cassetta degli attrezzi da lavoro ( la brucola del 6 serve solo ad una cosa e semmai a pulirsi pericolosamente le orecchie), per questo le cassette degli attrezzi o sono complete, pesanti e costose o meglio non averle per la propria salute mentale: gli strumenti sono monofunzionali. Unico esempio contrario il pappagallo che da solo sostituisce una intera gamma di chiavi inglesi.

Il vantaggio è solo per i produttori di tali strumenti, non certo per l’utilizzatore. Non a caso le aziende continuano a produrre caricabatterie con attacchi sempre diversi. Per tornare a noi un sistema “unifinality” necessita di molti mezzi che al momento della necessità magari non funzionano perché poco usati. L’attivazione del fine comporta automaticamente l’attivazione del mezzo strettamente connesso ed è dunque semplicemente inteso come privo della necessità di scegliere e dunque di conflitto ( quasi può fare a meno di un sistema cognitivo in quanto connessione rigida immodificabile).

Il difetto è che se il mezzo non funziona il fine non sarà raggiunto. Viene da pensare ad una situazione primitiva, paragonandola evolutivamente ai comportamenti istintuali immodificabili: se non funzionano l’animale è perduto e avanti un altro mutato. Possiamo immaginare che inizialmente tutti impariamo a perseguire un certo obiettivo attraverso una precisa e immodificabile sequenza di azioni. Poi, secondo la terminologia dei ricercatori del M.I.T. daje e daje ci si rende conto di due cose. Primo, se quel modo non funziona bisogna arrangiarsi e trovarne un altro per raggiungere lo stesso scopo ( le viti si avvitano anche con una solida pinza). Secondo con esso si possono fare anche altre inaspettate cose ( il cacciavite spuntato è ancora efficace come leva per aprire lo sportello incastrato del forno e può agevolmente cavare gli occhi al prepotente che sorpassa dalla corsia d’emergenza).

I sistemi “unifinality” possiamo immaginarli dunque come una situazione primitiva del rapporto mezzi e fini destinati ad evolversi. Sono molto semplici ma costosi, inefficienti e ad alto rischio di fallimento. Clinicamente troviamo modelli del genere nell’utilizzo perseverante di strategie fallimentari per il perseguimento di scopi nelle condizioni nevrotiche dove l’unico cambiamento è l’incremento dell’intensità o della frequenza della strategia senza che cambi il risultato ( sempre di più sempre lo stesso).

 

Il rapporto Multifinality tra mezzi e fini

La scoperta che uno stesso mezzo permette di raggiungere risultati differenti fa evolvere verso sistemi definiti “Multifinality” in cui un mezzo è al servizio di numerosi fini. Poiché nella norma sono molti i fini attivi contemporaneamente in un momento o in un periodo della vita di una persona è evidente che tale sistema è molto più efficiente. Essendo parecchi i mezzi attivabili in questa rete che collega tanti mezzi con tanti fini si pone un problema di scelta. Possiamo immaginare un algoritmo di calcolo molto semplice in cui si somma il valore dei singoli fini con una clausola di esclusione che elimina qualsiasi mezzo che danneggi uno degli scopi contemporaneamente attivi. In un sistema del genere il carattere strumentale dei mezzi è meno evidente e può accadere che un mezzo utilizzato di frequente al servizio di diversi fini diventi a sua volta un fine in sé “scopizzandosi”( mangiare la pastasciutta è chiaramente strumentale alla nutrizione>>>all’apporto calorico>>>>alla sopravvivenza, ma finisce per diventare uno scopo in sè per cui non si vuole aumentare la glicemia ma proprio mangiare la carbonara).

Per quanto riguarda la clinica troviamo situazioni del genere in cui un comportamento diviene abitudinario e se ne è perso il collegamento originariamente presente con un fine nel mantenimento di molti sintomi che si autonomizzano dalle cause iniziali automantenendosi. Il pensiero corre subito ai comportamenti protettivi dei disturbi d’ansia e alle compulsioni nel Doc in particolare: non si sa più perché ma soltanto che debbono essere fatte. Nei sistemi “multifinality” possiamo dire che la centralità riguarda i mezzi che perdono il loro ruolo strumentale per diventare fini essi stessi.

 

I sistemi di Counterfinality di mezzi e fini

Un caso particolare dei sistemi “multifinality” si ha quando un mezzo utile per uno o più fini rischia però di danneggiare un altro scopo importante anche se non attivo nel presente , potrebbe diventarlo. Si parla in questi casi di sistemi “counterfinality” ( es: un anticoncezionale che garantisce nell’immediato una certezza assoluta, come la vasectomia, ma esclude la possibilità anche futura di procreare, scopo non attivo attualmente ma che potrebbe diventarlo). In questo caso credo che l’algoritmo di calcolo sia più complicato perché deve mettere a confronto i vantaggi immediati e certi con possibili e incerti svantaggi futuri che appartengono ad un altro assetto motivazionale, difficile persino da immaginare. Se nei sistemi “Multifinality” la scelta riguardava il mezzo, in quelli “Counterfinality” la scelta riguarda il fine da privilegiare.

Infine la situazione primitiva di “unifinality” può evolvere verso la cosiddetta “Equifinality” in cui molteplici mezzi sono tutti al servizio dello stesso fine. Si tratta di sistemi estremamente finalizzati verso un unico scopo che rimanda, clinicamente a situazioni di fanatismo o persino di delirio. Il fine è centrale e può essere perseguito con mezzi estremamente diversi ed intercambiabili. Ciò riduce grandemente la probabilità di un fallimento e l’adattabilità a contesti mutevoli. Il fallimento, ancorchè improbabile, resta invece catastrofico proprio per la polarizzazione verso un unico scopo senza alternative.

Da un punto di vista terapeutico in primo luogo è importante evidenziare al soggetto ciò che per lui è fine ( scopo) e ciò che invece è mezzo ( strategia) e dei rispettivi possibili legami per rendere possibili scelte consapevoli. Successivamente è opportuno evolvere verso una situazione con molti scopi e un rapporto mezzi e fini del tipo “multifinality” economico, adattabile ed efficiente.

 

RUBRICA CIOTTOLI DI PSICOPATOLOGIA GENERALE

Vendetta o sepoltura di Freud? Il confronto salva le terapie psicodinamiche

Il 7 gennaio è uscito sul Guardian un articolo del giornalista Oliver Burkeman intitolato “Therapy Wars: Freud’s Revenge”. Come dice il titolo, il lavoro parla di una rivincita di Freud, anzi di una vendetta. Vendetta nei confronti di chi o di cosa? Della terapia cognitivo-comportamentale (TCC) che per tutto l’articolo si aggira come lo spettro dell’antagonista.

La terapia cognitivo-comportamentale negli ultimi decenni ha ottenuto –prima tra le psicoterapie- il rango di cura scientificamente fondata ed empiricamente efficace. Questo status si è spesso accompagnato a una velata e anche esplicita critica verso la psicoanalisi, considerata una terapia di dubbio valore scientifico e di non provata efficacia. Critica in parte fondata e in parte semplicistica, critica dapprima dei soli terapisti cognitivi e poi diffusasi nell’opinione pubblica.

Nell’articolo si accenna a come nel Regno Unito la terapia cognitivo-comportamentale abbia ottenuto una vera egemonia scientifica e culturale, egemonia che ha trovato il definito sigillo istituzionale nel programma Improving Access to Psychological Therapies (IATP) che dal 24 agosto 2008 ha permesso la diffusione del trattamento con terapia cognitivo-comportamentale nel servizio sanitario pubblico inglese. L’obiettivo, sostanzialmente raggiunto, era di formare 3.600 operatori sanitari che fornissero servizi per 900.000 persone. Anche di questo successo inglese della terapia cognitivo-comportamentale occorrerebbe parlarne a fondo, e lo faremo in un altro articolo.

Questo successo ha generato naturalmente anche disagi oggettivi e malumori soggettivi. Disagi e malumori che hanno determinato una reazione positiva grazie alla quale si è inaugurato un filone di ricerca empirica anche nel campo psicoanalitico, fino ad allora poco incline a misurarsi con studi di efficacia. Accanto a questa adesione al paradigma scientifico è però nata una reazione opposta e negativa: una rivolta antiscientifica che sostiene l’idea della psicoterapia come arte irriproducibile e sulla quale è inutile e perfino errato tentare di fare ricerca. Un’attività che può essere compresa più con le armi dell’ermeneutica che della validazione scientifica.

L’articolo di Burkeman da voce a entrambe le argomentazioni: esso sottolinea come la psicoanalisi abbia ottenuto a sua volta una validazione scientifica ed empirica e, al tempo stesso, esprime delle perplessità sul metodo scientifico e sulla sua adattabilità alla psicoterapia. In questo articolo affronteremo le argomentazioni scientifiche.

 

Psicoanalisi e Terapia Cognitivivo-Comportamentale nel trattamento dell’ansia

Le ricerche a favore della psicoanalisi ne hanno mostrato la validità da tempo. Un libro di Levy, Ablon e Kächele, appena tradotto in italiano e pubblicato da Raffello Cortina riporta con ricchezza questi dati favorevoli. Non è facile riassumere questi dati. Dato che l’articolo di Burkeman è impostato sulla rivalità con la terapia cognitivo-comportamentale, riporto per primi i dati che trattano l’efficacia delle terapie psicodinamiche (termine più moderno per designare le terapie di derivazione psicoanalitica) sui disturbi ansiosi, che sono da sempre il bersaglio d’elezione delle terapie cognitive. Il paragone non è del tutto corretto, perché significa far giocare la psicoanalisi in casa della TCC. D’altro canto è anche vero che il programma inglese IATP –che è uno dei bersagli di Burkeman sul Guardian- è stato pensato proprio per ansia e depressione e quindi contestarlo ispira la domanda: cosa hanno da offrire di alternativo le terapie psicodinamiche?

Slavin-Mulford e Hilsenroth in un capitolo specifico dedicato al trattamento dei disturbi d’ansia riportano con onestà dati in cui si può vedere una superiorità della terapia cognitiva rispetto alla psicodinamica. È significativo che questo riconoscimento venga da un libro sulla terapia psicodinamica.

Superiorità però con dei limiti. Ad esempio nei vari studi di Durham (1994, 1999, 2003) questa superiorità era presente, anche se poi essa spariva dopo che erano passati 8 anni dalla fine del trattamento. In ogni caso la terapia cognitivo-comportamentale dava suoi risultati positivi più rapidamente e il fatto che a 8 anni era in qualche modo raggiunta –ma non superata- in efficacia dalla terapia psicodinamica non significa che il benessere ottenuto più rapidamente non sia un valore positivo. Stare meglio con anni di anticipo non mi pare risultato da buttar via. Prendendo in considerazione altri studi Slavin-Mulford e Hilsenroth concludono che, per quanto riguarda l’ansia, a seconda delle interpretazioni e delle metodologie statistiche terapie cognitive e psicodinamiche si eguagliano oppure mostrano una certa superiorità della TCC. In conclusione, se hai l’ansia anche la psicoanalisi funziona ma la terapia cognitivo-comportamentale è un po’ meglio.

Per altri disturbi il quadro è più complesso e confuso. Ad esempio, nel campo dei disturbi di personalità mostrano efficacia sia terapie di derivazione cognitiva, come la terapia dialettico-comportamentale e la schema therapy, che terapie di derivazione psicodinamica come il trattamento basato sulla mentalizzazione di Fonagy e la terapia focalizzata sul transfert di Kernberg.

 

Transfert, inconscio e metacognizione

Ma il punto dove il libro di Levy, Ablon e Kächele è più intrigante è nel capitolo firmato dal ricercatore Jonathan Shedler che è poi la riproposizione parola per parola di un articolo del 2010 apparso su American Pychologist (The Efficacy of Psychodynamic Psychotherapy). Questo ricercatore è citato anche nell’articolo di Burkeman sul Guardian come studioso che ha ridato davvero fiato alla psicoanalisi come disciplina scientifica, o almeno alle terapie derivate dalla psicoanalisi. Shedler si chiede cosa sia davvero una terapia psicodinamica e cosa una terapia cognitiva nel concreto, al di là delle differenze di modello teorico.

Utilizzando varie metodiche esplorative Shedler individua in uno stile di colloquio aperto, non direttivo e teso ad analizzare le interazioni emotive tra terapeuta e paziente come modello conoscitivo delle relazioni problematiche esterne del paziente (il cosiddetto transfert) come caratteristiche specifiche dell’operare psicodinamico, mentre trova in uno stile più strutturato e direttivo e teso ad analizzare le valutazioni esplicite delle situazioni (le cosiddette credenze cognitive) sarebbero le caratteristiche specifiche dell’operare cognitivo. Ebbene, secondo Shedler l’adesione al primo gruppo di tecniche mostrerebbe maggiore efficacia, e questo malgrado l’orientamento soggettivo del terapista, che quindi può dichiararsi cognitivo e poi in realtà operare dinamicamente o fare il contrario.

Ebbene, se c’è una vendetta di Freud essa è posizionata qui, in agguato. Il dato di Shedler colpisce. Certo va elaborato. Quelle che Shedler denomina tecniche psicodinamiche sono piuttosto tecniche che incoraggiano il paziente a elaborare i suoi vissuti interpersonali e relazionali a un livello che noi chiameremmo metacognitivo, ovvero di osservazione mentale distaccata di altri stati mentali, da un secondo livello, un livello meta. Queste tecniche naturalmente, se lo si preferisce, possono chiamarsi psicodinamiche in contrapposizione a un razionalismo ingenuo che può essere attribuito al primo cognivitismo. Possono essere chiamate tecniche di esplorazione dell’inconscio solo a patto di chiamare inconscio quello che noi cognitivisti chiameremmo stati mentali procedurali e operativo-motori, impliciti se vogliamo, ma non inconsci. Ovvero inconsci, ma non nel senso freudiano.

In quell’implicito interpersonale si celano dolori che riguardano vari bisogni: esplorare, avere un legame di attaccamento, ottenere accudimento e socialità, esprimere agonismo e aspirare ad affermarsi.

La terminologia di Shedler, che chiama “impliciti” gli stati mentali gestiti in maniera disfunzionale, lo fa appartenere -suo malgrado- a un paradigma che ci pare più cognitivo che freudiano. Mi pare che Shedler paghi ancora una volta il pegno a una tradizione clinica, quella analitica post-freudiana, ricca di intuizioni cliniche compatibili con un moderno paradigma cognitivo, emotivo e interpersonale, ma condannata continuamente a utilizzare –sia pure sempre meno, e questo lo si vede anche nello scritto di Shedler- il gergo psicoanalitico dell’inconscio. Gergo che Shedler non usa: non si parla mai di castrazione e tantomeno di pulsioni per tutto il suo articolo.

L’inconscio di Schedler è cognitivo e, se vogliamo, anche dinamico (ci sono forze motivazionali, peraltro compatibili con il cognitivismo che esclude le forze pulsionali ma accetta le motivazioni chiamandole scopi) ma non freudiano. Vendetta o sepoltura di Freud?

Tuttavia sarebbe ingeneroso cavarsela solo rinfacciando a Shedler il suo doversi adattare a una particolare terminologia superata. Shedler ci fa anche notare che da un paradigma con alcune crepe teoriche come quello freudiano sono nate e cresciute delle competenze cliniche che paradossalmente non hanno potuto crescere in altri ambienti. Shedler parla di uno stile terapeutico propriamente psicoanalitico che è interpersonale, non direttivo e focalizzato sull’analisi della relazione terapista-paziente utilizzata come modello per la comprensione delle altre relazioni disfunzionali del paziente.

Insomma, il transfert come esposizione comportamentale in vivo a relazioni problematiche da rielaborare nel qui e ora in maniera più funzionale. Questo stile terapeutico è contrapposto a uno stile definito cognitivo, che sarebbe invece direttivo, pedagogico e meno esperienziale. Questo stile, come ho scritto alcune righe fa, dovrebbe corrispondere più o meno allo stile della terapia cognitiva standard in stile Beck. È interessante notare che Shedler definisca l’atmosfera emotiva della seduta dinamica come “experiencing”, ancora un volta contrapponendola a quella più astratta della seduta cognitiva. Eppure si potrebbe far notare che questo experiencing può corrispondere anche a un’esposizione comportamentale, a una tecnica cognitiva di guided imagery o a una qualunque seduta di terapia umanistico-esperienziale, per uscire dalla dicotomia psicodinamico/cognitivo.

Insomma, è inevitabile semplificare e Shedler semplifica riducendo la seduta cognitiva a un esercizio di pura astrattezza pedagogica. Forse ha ragione a restituirci pan per focaccia, dopo che noi cognitivisti a nostra volta abbiamo ridotto la rappresentazione della seduta psicodinamica a uno stereotipo.

Che sia un pregiudizio lo dimostra il fatto che negli ultimi anni la psicoterapia cognitiva si è evoluta in due direzioni. La prima esperienziale ed emotiva, cosiddetta bottom-up. Alcune sue filiazioni e cuginanze hanno sviluppato all’estremo l’aspetto relazionale ed esperienziale (come la Schema Therapy) fino ad arrivare al corporeo (terapia senso-motoria). È corretto dire che queste filiazioni hanno vendemmiato anche dalla vigna delle idee psicodinamiche? Probabilmente si, soprattutto per la Schema Therapy.

Un’altra direzione della terapia cognitiva è quella che approfondisce le funzioni metacognitive, in cui le emozioni non sono più controllate univocamente dalle cognizioni esplicite, ma sono ancora regolate a un secondo livello, il livello meta in cui alcuni stati mentali ne regolano altri, per lo più emotivi. Questa corrente probabilmente è la migliore erede del cognitivismo clinico standard più razionalista, poiché mantiene la sua fede nell’intervento esplicito.

Rimane ancora da riflettere. Le osservazioni di Shedler sono utili, anche se credo che lui chiami “psicodinamico” un modo di operare relazionale ed esperienziale che ormai è patrimonio comune ed è difficile volerlo attribuire alla sola terapia psicodinamica, anche se si può riconoscere che un certo tipo di esperienza terapeutica fortemente relazionale e transferale è frutto di quella tradizione e va riconosciuto. D’altro canto l’intervento esplicito, che Shedler svaluta nei suoi studi, rimane –e questo lo dice la ricerca empirica- l’intervento di prima scelta per i disturbi di area ansiosa e depressiva.

Questo basti per la vendetta scientifica di Freud. Ci sarebbe poi la vendetta anti-scientifica, di cui parleremo altrove.

It’s never over, Jeff! – L’arte di Jeff Buckley

Buckley ha qualcosa nella voce e nell’interpretazione dei suoi brani che vi sfido a trovare in altri.

 

Jeff Buckley nasce il 17 novembre, e già questo è un dato curioso: secondo varie credenze popolari, sia il giorno che il mese in questione, non sono proprio di buon auspicio. Se poi pensiamo che questo giovane e misterioso cantautore si è spento a soli 30anni, annegando di sua spontanea volontà lungo un affluente del fiume Mississippi, ci rendiamo conto della presenza di un’anima molto più che fragile.

Se non avete ancora ascoltato ‘Grace’, il suo unico disco completo, vi invito a farlo. Non è un album qualunque: non parla di amore, né di sofferenza, né di nostalgia. E’ un viaggio sensoriale verso la parte più emotiva di voi stessi, quella meno esposta che tenete ben nascosta da tutto il resto, e che non avete nessuna intenzione di mostrare al mondo.

Questo è stato reso possibile grazie all’associazione di molti fattori: Jeff era figlio d’arte (il papà era Tim Buckley), e nonostante la morte prematura del padre, fu indiscutibilmente portato per la carriera musicale; un’infanzia difficile e solitaria che lo resero un ragazzo vulnerabile e fortemente sensibile; l’amore per una donna e la fine di una storia, che portano spesso l’essere umano ad un viaggio introspettivo, alla messa in discussione di sé stessi.

Ma queste sono caratteristiche facilmente trovabili in qualsiasi cantante maledetto, vocalmente dotato, reso ancora più accattivante dall’abuso di alcool e droghe; Buckley figlio però ha qualcosa nella voce e nell’interpretazione dei suoi brani che vi sfido a trovare in altri.

Basta ascoltare il respiro iniziale della sua canzone più nota, la cover di Leonard Cohen ‘Hallelujah‘, quel sussulto prima che le corde della chitarra prendano vita, accompagnando l’immensità della sua vocalità; per non parlare di ‘Lover, you should’ve come over‘ che rappresenta con parole eccezionali l’amore puro.

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Jeff Buckley, Hallelujah

 

Io sostengo la musicoterapia, intesa come quella disciplina che attraverso la musica, permette di comunicare i propri pensieri in maniera alternativa; non occorre essere compositori, ma anche semplicemente ascoltando una singola canzone, possiamo avvertire emozioni, intese proprio come sensazioni fisiche e psicologiche intense. Un artista come Jeff Buckley offre a chi lo ascolta un’importante occasione di conoscenza profonda dei propri stati emotivi.

Non serve essere musicisti o cultori del genere per apprezzare le doti di Jeff Buckley: mi viene in mente Massimo Troisi, nel film ‘Il postino’, quando discutendo con Pablo Neruda sul ciglio della porta, lo accusa di averlo fatto innamorare di Beatrice, che sia tutta colpa delle sue composizioni, esclamando: ‘La poesia non è di chi la scrive, è di chi gli serve‘.

E aveva ragione quel postino impacciato: l’arte tutta ‘è di chi gli serve‘, e siamo in tanti quelli a cui serve ancora la musica e il genio di questo giovane ragazzo, che ha messo fine alla sua vita terrena, ma ha reso immortale quello che portava dentro.

Lo sviluppo della moralità nel bambino – Introduzione alla Psicologia

Lo sviluppo della moralità nel bambino comprende sia il giudizio morale sia il comportamento morale. Si tratta di un campo molto ampio che rientra più specificamente tra i processi di socializzazione, ma investe anche problemi che riguardano dimensioni più interne del funzionamento della persona, e in particolare le interazioni tra affetti, esperienza sociale e processi cognitivi che portano alla coscienza morale individuale.

INTRODUZIONE ALLA PSICOLOGIA RUBRICA DI DIVULGAZIONE SCIENTIFICA IN COLLABORAZIONE CON LA SIGMUND FREUD UNIVERSITY DI MILANO 

Lo sviluppo della moralità: introduzione

Lo sviluppo della moralità nel bambino rappresenta una tematica importante sia dal punto di vista psicologico che da quello sociale e comprende sia i meccanismi che sottendono la formazione della moralità sia i fattori che la influenzano. Capire come si genera la moralità nel bambino aiuta a comprendere meglio se stessi nell’interazione sociale e aiuta a orientare i criteri educativi quando si esercita il ruolo di genitore o di insegnante o, in generale, di educatore.

Lo sviluppo della moralità: definizione

Lo sviluppo morale nel bambino comprende sia il giudizio morale sia il comportamento morale. Si tratta di un campo molto ampio che rientra più specificamente tra i processi di socializzazione, ma investe anche problemi che riguardano dimensioni più interne del funzionamento della persona, e in particolare le interazioni tra affetti, esperienza sociale e processi cognitivi che portano alla coscienza morale individuale.

Gli studi sullo sviluppo della moralità

I primi studi sistematici in questo campo risalgono a Jean Piaget, che si è interessato prevalentemente alle forme e allo sviluppo del pensiero e del giudizio morale nel bambino. Inoltre, importanti contributi provengono dalla prospettiva psicoanalitica, fin dai tempi di Freud. In questo caso, ad essere indagati con particolare interesse erano i processi di ordine relazionale-affettivo che sono alla base dell’acquisizione del controllo morale e del comportamento.
Le odierne teorie della sociobiologia, sostengono che le emozioni alla base del comportamento altruistico o pro-sociale sarebbero il prodotto di un’evoluzione di forme di altruismo reciproco, praticate dagli uomini in rapporto alla necessità di difendersi, di proteggersi dai nemici e di condividere. Contributi rilevanti provengono anche dalla prospettiva comportamentista, che si è evoluta nella prospettiva del social learning.

Le prime due teorie sullo sviluppo della moralità

Due le prime principali teorie sullo sviluppo della moralità, che risultano essere per certi aspetti collegate: la teoria di Piaget e quella di Kohlberg, che si collocano nell’ampia prospettiva cognitivo-evolutiva.

 

Lo sviluppo morale secondo Piaget

Piaget si focalizzò sulla morale dei bambini studiando il modo in cui giocano per capire come si evolve il concetto di bene e di male. Scoprì, in questo modo, che la moralità può considerarsi un processo evolutivo: i bambini cominciano con lo sviluppo di una morale basata sulla stretta aderenza alle regole, dettata dalla convinzione che a un’azione errata segua automaticamente una punizione, e successivamente, attraverso l’interazione con altri bambini, scoprono che un comportamento strettamente aderente alle regole può talvolta essere problematico. Quindi, sviluppano uno stadio autonomo di pensiero morale caratterizzato dalla capacità di interpretare le regole criticamente e selettivamente basandosi sul mutuo rispetto e sulla cooperazione.

Piaget ritiene che il ragionamento morale esplicito del bambino sia una sorta di presa di coscienza dell’attività morale. Questa presa di coscienza va intesa come una ricostruzione delle nozioni già sviluppate effettuata anche in base alle nuove capacità cognitive.
Uno degli aspetti fondamentali di questa teoria è la distinzione tra due forme di moralità, che pur essendo prevalenti in successive fasi dello sviluppo, possono convivere in varie forme: il realismo morale e il relativismo morale.

La prima forma, il realismo morale, prevalente fino agli otto anni, collegata con una prospettiva egocentrica del mondo e con il predominare di un modo di pensare “realistico”: la validità dei principi, rigidi e immutabili, è determinata dall’autorità di chi li ha emanati ( es. i genitori), e dalla capacità di questi ultimi di far rispettare tali principi con adeguate sanzioni in caso si trasgressione.

In questa prospettiva i comportamenti sono giudicati o giusti o sbagliati, e i bambini ritengono che tutti debbano giudicarli in questo modo.
Invece, nella forma del relativismo morale, descritta anche come morale dell’autonomia, l’intenzione e il contesto assumono un ruolo importante nella valutazione dell’atto. Questa forma di moralità tende a prevalere dopo gli otto anni, anche se può coesistere con manifestazioni della morale eteronoma. I principi non sono più considerati immutabili, ma fondati e mantenuti dal consenso reciproco, e quindi modificabili in rapporto a situazioni e contesti diversi.

Per esempio, nei bambini in cui prevale il realismo morale la bugia è considerata ‘cattiva’ perché può comportare una punizione. Successivamente, per quegli stessi bambini la bugia diventa qualcosa di cattivo di per sé, anche se le punizioni venissero soppresse. Infine, è considerata negativa perché danneggia la fiducia reciproca, quindi la regola è stata internalizzata. Da quanto detto prevale un senso di giustizia derivante dal passaggio da una morale eteronoma ad una morale autonoma. Per questo, se il bambino vive con i fratelli o compagni una vita sociale che favorisce i suoi bisogni di simpatia e cooperazione, questo promuoverà una morale fondata sulla reciprocità e non sull’obbedienza.

 

Lo sviluppo della moralità secondo Kohlberg

Successivamente, la teoria di Kohlberg costituisce, in parte, un’estensione di quella di Piaget , con la quale condivide l’aspetto stadiale, la considerazione centrale dei processi di tipo cognitivo e l’interesse prevalente per il pensiero morale, piuttosto che per lo sviluppo della moralità nelle sue manifestazioni comportamentali. L’estensione consiste in un’articolazione degli stadi, che arrivano a coprire l’età adulta, e in una definizione precisa dei criteri che consentono di collocare le varie forme di giudizio morale nei successivi stadi.

Per Kohlberg è fondamentale il parallelismo tra gli stadi dello sviluppo intellettivo e quelli dello sviluppo del pensiero morale; il possesso delle competenze cognitive di uno stadio è una condizione necessaria ma non sufficiente perché siano presenti le corrispondenti caratteristiche del giudizio morale. Tale teoria si oppone alla concezione che lo sviluppo del pensiero morale sia il risultato di un apprendimento sociale, e ritiene che tale sviluppo derivi da un progressivo ampliamento della comprensione delle caratteristiche delle azioni sociali proprie e degli altri.

Kohlberg si è servito fondamentalmente di interviste in modalità analoghe a quelle di Piaget, proponendo ai suoi soggetti dei dilemmi morali, rappresentati da vicende nelle quali il protagonista può prender diverse decisioni. Kohlberg ha delineato, in questo modo, una serie di stadi di sviluppo morale molto articolati, dall’infanzia all’età adulta. La nozione di stadio è strettamente legata a quella di Piaget : lo sviluppo degli stadi va da un livello inferiore ad un livello superiore e ogni individuo passa da uno stadio a quello successivo (invarianza della sequenza); la sequenza ideata da Kolberg prevede 3 livelli di giudizio morale, ognuno dei quali è diviso in 2 stadi.

Livello preconvenzionale: in questo livello (sotto i 9-10 anni), si considerano le norme che possono comportare una punizione: la motivazione sulla quale si basa la valutazione è legata al rischio di ricevere una punizione, e quindi all’obbedienza all’autorità. La prospettiva socio-cognitiva è quella egocentrica.
Stadio 1: orientamento premio-punizione non si tiene conto di possibili differenze nei punti di vista dai quali si valuta un dilemma morale, né si considerano adeguatamente le intenzioni che determinano un comportamento (valutato soprattutto in rapporto alle sue conseguenze sul piano fisico).
Stadio 2: orientamento individualistico e strumentale: ciò che è giusto o sbagliato diventa più relativo, e non dipende più così radicalmente dalla sanzione dell’autorità.

Livello convenzionale: questo livello (dai 13/14 anni fino ai 20 anni) è caratterizzato dal rispetto di norme che sono state socialmente approvate, e non più dalle conseguenze immediate dell’azione individuale.
Stadio 3: orientamento del “bravo ragazzo”: assume importanza il rispetto delle norme in modo da rispondere alle aspettative positive della comunità della quale si condividono i valori.
Stadio 4: orientamento al mantenimento dell’ordine sociale: le relazioni interindividuali vengono considerate nel contesto di un sistema, le cui regole non devono essere infrante. Le norme morali non valgono soltanto in quanto legate ad un gruppo con il quale si hanno legami affettivi ma sono connesse con il proprio ruolo all’interno della società, le cui leggi vanno rispettate in quanto garantiscono l’ordine sociale.

Livello post-convenzionale (regolato da principi): le norme morali vanno al di là della società nella quale si vive, sono legate ad un sistema di principi astratti e di valori universali.
Stadio 5: orientamento del contratto sociale: le regole morali non sono fisse e immutabili ma sono create e quindi modificabili in base ad una sorta di contratto sociale.
Stadio 6: orientamento della coscienza e dei principi universali, che possono non essere scritti nelle leggi.

Lo sviluppo morale: conclusioni

Lo sviluppo della moralità avviene sostanzialmente attraverso degli stadi, veicolati dalla vita in famiglia e da quella nel gruppo dei pari. Ne consegue che la personalità dell’adulto riflette le caratteristiche sviluppate durante l’infanzia, anche negli aspetti della moralità. In quel periodo si forma la concezione morale degli individui e perciò della società.

RUBRICA: INTRODUZIONE ALLA PSICOLOGIA

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La mindfulness per combattere l’obesità nei bambini

La Mindfulness si è dimostrata efficace nell’aumentare l’inibizione e diminuire l’impulsività. Dal momento che l’obesità e i comportamenti alimentari non salutari sono associati ad uno squilibrio tra le connessioni nel cervello che controllano l’inibizione e l’impulso, la minfulness potrebbe contribuire a trattare o prevenire l’obesità infantile.

Una nuova ricerca condotta alla Vanderbilt University School of Medicine suggerisce che ci siano differenze negli equilibri neurali dei cervelli dei bambini normopesi e obesi, che inducono questi ultimi a mangiare troppo. Una perdita di peso stabile è difficile da raggiungere per questi bambini e questo può essere dovuto al fatto che richiede cambiamenti nel funzionamento cerebrale, oltre a cambiamenti di dieta e all’esercizio fisico. Secondo gli autori dello studio un modo per gestire in modo efficare il peso potrebbe essere quello di identificare precocemente i bambini a rischio per l’obesità e utilizzare la mindfulness per controllare l’impulsività a mangiare troppo.

La Mindfulness si è dimostrata efficace nell’aumentare l’inibizione e diminuire l’impulsività. Dal momento che l’obesità e i comportamenti alimentari non salutari sono associati ad uno squilibrio tra le connessioni nel cervello che controllano l’inibizione e l’impulso, la minfulness potrebbe contribuire a trattare o prevenire l’obesità infantile.

Chodkowski e il suo team hanno identificato tre aree del cervello che possono essere associate al peso e alle abitudini alimentari: il lobo parietale inferiore, associato all’inibizione, cioè alla possibilità di ignorare una risposta automatica (in questo caso mangiare); il lobo frontale, associato all’impulsività; e il nucleo accumbens, associato alla ricompensa.
I ricercatori hanno usato i dati raccolti dal Enhanced Nathan Kline Institute di 38 bambini di età compresa 8-13 anni. Cinque dei bambini sono stati classificati come obesi, e sei in sovrappeso. I dati inseriti riguardavano il peso dei bambini e le loro risposte all’Eating Behaviour Questionnaire, che descrive le abitudini alimentari nei bambini. I ricercatori hanno utilizzato anche la risonanza magnetica che ha evidenziato l’attivazione delle tre regioni del cervello interessate dallo studio.

I risultati hanno rivelato un legame preliminare tra peso, comportamento alimentare ed equilibrio nella funzionalità cerebrale. I bambini che si comportavano in modo da evitare di mangiare troppo presentavano maggiori connessioni nell’area cerebrale legata all’inibizione rispetto a quella legata all’impulsività. Al contrario, nei bambini che si comportavano in modo da mangiare troppo, era l’area associata all’impulsività ad essere maggiormente attivata rispetto a quella associata all’inibizione.

[blockquote style=”1″]Pensiamo che la minfulness potrebbe ricalibrare lo squilibrio nelle connessioni cerebrali associate all’obesità infantile[/blockquote] ha detto il dottor Cowan, della Vanderbilt University School of Medicine.

Amazzoni dentro: origini e cause dell’aggressività femminile

Solo nel Novecento la donna prende coscienza di un’oppressione che aveva avuto origine molti secoli prima e il risorgimento dell’ aggressività femminile ha permesso alla donna di avere uno strumento tra le mani per riportare a galla un diverso modo di essere e di pensare.

Nella cultura mediterranea i miti ci raccontano come l’aggressività femminile sia stata sempre repressa, e non solo, anche l’intero sistema ‘al femminile’ ha subito deformazioni, inganni e tabù.

La più antica figura mitologica è Inanna, una dea sumera che rappresentava il principio della fecondità e della trasformazione ciclica. Il pensiero ricettivo, la carica erotica, il potenziale trasgressivo. Inanna aveva accettato le regole del regno dei morti: viene fatta a pezzi dalla sua stessa sorella, davanti ai suoi occhi. Ciò che l’aveva spinta all’inferno fu la pietà, la stessa pietà che poi la farà risorgere tornando sulla terra, ma scoprirà di essere ripudiata da un pastore che grazie a lei e ai suoi poteri era diventato un dio-re. Fu allora che Inanna manifestò tutto il suo potere e tutta la sua collera.

Lilith, originariamente appariva nella Genesi accanto ad Adamo. Successivamente gli ebrei decisero di cancellarla dalla storia ma l’Arcangelo Gabriele, per ordine di Dio, cercò di convincerla a tornare accanto ad Adamo. Ella rifiutò, ma l’arcangelo fu irremovibile nell’imporle obbedienza e sudditanza all’uomo. Lilith rimase dov’era, e da quel momento è ricordata come la parte ripudiata dell’archetipo femminile.

Meti era la dea greca più sapiente e Zeus ne era intimorito. Un giorno Zeus decide di rapire Meti e imprigionarla tra le sue braccia sperando che tra l’unione dei due potesse nascere un figlio ancora più intelligente. Ci ripensò e decise di tenersi Meti come un possesso, mangiandola. Dopo nove mesi Zeus viene colto da un terribile mal di testa: ne uscì Atena, dagli occhi azzurri, lo sguardo intelligente e orgoglioso. Meti era diventata Atena attraverso un sacrificio per mano di Prometeo: la donna doveva essere alleata dell’uomo e doveva pensare con la propria testa.

Questi brevi scorci di mitologia ci illuminano a malapena sulla condizione reale in cui la donna si è trovata per molti secoli e che ad oggi ancora sembra presente, seppur in modo velato.

 

La repressione dell’ aggressività femminile

Come è iniziata la repressione dell’ aggressività femminile? La questione è importante non solo da un punto di vista antropologico, ma anche psicologico. Di fatti, come si è potuto reprimere quest’istinto? Non si può trovare una risposta solo focalizzandoci sulla storia personale di una donna. In realtà, è dall’intreccio tra coscienza e inconscio dell’umanità che si deve ricercare quel fenomeno chiamato ‘mutazione degli istinti’. Nel dover capire cosa è successo, ci addentriamo nei meandri della psicoanalisi sociale. Infatti è solo nel Novecento che la donna prende coscienza di un’oppressione che aveva origine molti secoli prima e il risorgimento dell’ aggressività femminile, ha permesso alla donna di avere uno strumento tra le mani per riportare a galla un diverso modo di essere e di pensare.

Secondo la prospettiva psicoanalista, il blocco di un istinto provoca dei danni, anche sotto la spinta dell’evoluzione. Se un istinto si ammala emergono dei meccanismi compensatori- le nevrosi- che si manifestano attraverso dei sintomi. Ad esempio, un attacco di panico in ascensore ci segnala che nella personalità del soggetto vi è un nucleo nevrotico. Evidenze dimostrano come l’aggressività rimossa tenda a trasformarsi in autoaggressività e per estensione sintomatologica frigidità, depressione, disordini alimentari, ansia di controllo e così via.

Queste osservazioni ribaltano l’idea secolare che donna sia uguale a ipoaggressività. Le cose, in natura non stanno così. La complessa repressione istintuale attuata ai tempi del nazismo attraverso l’internamento oppure attraverso l’inibizione sessuale ai tempi della regina Vittoria, comportò pulsioni violente, stati d’ansia, difficoltà di concentrazione e nei casi più gravi, deliri, allucinazioni e disperazione. Non a caso i più famosi casi di isteria sono rintracciabili proprio a cavallo tra Ottocento e Novecento. Gli istinti repressi per secoli sono riemersi in tutta la loro cattività nell’ambito di un grande mutamento sociale che fu l’avvento della società industriale.

Purtroppo il deficit aggressivo femminile non è stato analizzato a fondo dai padri fondatori della psicoanalisi, nonostante lo stesso Freud, nella seconda topica, parlasse di Thanatos come istinto di morte, o aggressività, che può portare un individuo ferito alla coazione a ripetere di azioni lesive, rimanendo così legato a ciò che lo fa star male (una sorta di masochismo inconscio). Tuttavia, nell’ambito della psicologia analitica di Jung vi è stato un superamento della teoria pansessuale freudiana, considerando la libido una pulsione vitale globale. In quest’ottica, il talento creativo, l’attivismo politico, il fervore intellettuale sono manifestazioni di un desiderio più profondo, più ampio, appartenente al patrimonio istintuale della nostra specie.

A partire dalle osservazioni junghiane, molte psicoanaliste si sono interessate a tutto ciò che le donne esperiscono costantemente: sensi di colpa, autodistruttività, senso del dovere e del sacrificio, inadeguatezza, rabbia. E’ emerso da diversi studi clinici, che nelle donne il senso di colpa (spesso ingiustificato) è radicato nel reato del ‘non essere’: donne e bambine che si sentono in colpa per aver subito violenze sessuali, tendono a reprimere la vergogna, a non parlare, a non esprimersi.

Ma la colpa si esprime anche in ambito lavorativo: colpa del desiderio di fare carriera ed essere madre allo stesso tempo, colpa del mettersi in mostra, colpa dell’essere troppo assertiva e così via. Il pensiero solitamente presente, seppur a livello inconscio è ‘Se non posso trovare senso nella mia identità e quindi nella mia vita, allora lo troverò sacrificandomi per l’identità altrui. Il mio senso sarà quello di essere vittima’.

Ad oggi, soprattutto nella società occidentale e progredita, si possono osservare molti cambiamenti nello stile di vita e nel pensiero femminile, così come in quello maschile. Più libertà di scelta (ad esempio, in vista di una realizzazione professionale), più libertà di espressione (attraverso lo studio, la scrittura, i media) e più opportunità dal punto di vista sociale. Tuttavia ancora molto cammino rimane da fare perché la donna prenda consapevolezza della sua energia interiore e delle sue potenzialità, così che la dolce amazzone che si trova dentro di sé possa riemergere in tutto il suo splendore.

Terapia cognitivo-comportamentale: imparare ad essere terapeuti di se stessi

Sono Cristina. Ho 26 anni e gli ultimi due li ho passati con la mia terapeuta. Al primo incontro mi ha detto che era cognitivo-comportamentale. Non sapevo cosa volesse dire. Mi disse: ‘Col tempo e gli homework capirai… fino a diventare terapeuta di te stessa’

Sono Cristina. Ho 26 anni e gli ultimi due li ho passati con la mia terapeuta. Al primo incontro mi ha detto che era cognitivo-comportamentale. Non sapevo cosa volesse dire. Me l’ha spiegato, ma le cose non erano troppo chiare: la storia delle distorsioni cognitive; le credenze di base; i pensieri che creano le emozioni… mi disse: ‘Col tempo e gli homework capirai… fino a diventare terapeuta di te stessa’. Bene pensai, almeno risparmio qualcosa!

Come dicevo sono passati due anni dall’inizio. Non vi dico nel dettaglio per quali motivi mi ritrovai in quello studio, a parte che c’entravano anche gli attacchi di panico, tanto ormai sono piuttosto comuni e non me ne vergogno.

Ma oggi ho iniziato a correre. A fare running, o jogging che fa più figo! Era facile a dirsi, complesso nell’attuarlo. Le scuse più assurde, una pigrizia certa, una resistenza infallibile. Inizialmente avevo optato per la palestra. Un mese per andare solo a chiedere informazioni. Un giorno mi decido, dopo una lunga ristrutturazione cognitiva (un pensiero ci fa soffrire? Bene, si cercano altri pensieri che possono almeno farci stare meno male!), e vado in due palestre. Una meno simpatica rappresentata da una Barbie bionda in carne (poca) ed ossa; l’altra invece gentile e alla mano quasi fossi iscritta lì da sempre (a pensarci bene forse fin troppo gentile). Solo varcare quelle soglie ha scatenato in me una reazione fisica spropositata. Palpitazioni, tremori alle gambe, chiusura dello stomaco. Ero critica verso quel mondo e le persone coinvolte, ne ero consapevole, per fortuna ho una buona auto-riflessività (me lo diceva sempre la terapeuta).

Osservo di nuovo i pensieri, faccio un respiro profondo, mi aggancio al momento presente in perfetto stile mindfulness e mi concentro sulle informazioni che mi danno… functional ore 18, interval training ore 19.30, zumba ore 10, spinning ore 12, crossfit ore 20… mi perdo nuovamente in piena modalità mindflight (la mente che se ne va).
Torno a casa e il solo pensiero della lezione di prova mi fa cadere nuovamente nell’angoscia totale. Che faccio allora?

Ovvio, rimando alla settimana successiva, d’altronde ‘io troppi impegni questa settimana‘. Sarà un problema di procrastinazione? Difficile a dirsi. Ma comunque… arriva il famoso lunedì in cui, si sa, si mettono in atto i buoni propositi. Mi sveglio già agitata al pensiero della palestra. Da buona ‘allieva’ cognitivo-comportamentale mi dico: ‘che cosa mi sta passando per la mente?‘ (quante volte me l’ha chiesto la dottoressa!). La risposta è semplice: ‘Odio la palestra; mi sentirò a disagio appena arrivata all’ingresso perché sentirò tutti gli occhi puntati; tutti si saluteranno come se fossero una grande famiglia; non so se dovrò portare un lucchetto per lo spogliatoio; non saprò utilizzare le attrezzature; e in qualunque corso non sarò mai coordinata con il resto del gruppo e poi… tutto puzzerà! Sudore ovunque e in qualunque momento!’.

Bene RP (registrazione dei pensieri) fatta. Pensieri catastrofici infiniti, etichettamenti, palle di vetro a gogò (queste sono le famose distorsioni cognitive). Rifletto ancora. Mi viene in mente l’attivazione comportamentale che la terapeuta mi fece eseguire in un brutto momento per me: ‘Iniziamo con le cose che amavi‘ mi disse e stilammo una lista di attività. Questo tipo di tecnica serve per far riattivare una persona dopo un periodo di totale nulla; mi vergogno a dirlo, ma a volte non riuscivo nemmeno a farmi una doccia per quanto ero giù. Si stila la lista delle attività come dicevo, e si parte da quella più piacevole e per la quale ci sentiamo più capaci, fino ad andare avanti con l’elenco… ma comunque a me ora serviva solo riprendere un’attività fisica. Quindi ritorno con la mente sulle attività fatte in passato.

E il benessere provato stava lì, lo sentivo, era la corsa. In quel momento ho cancellato del tutto l’idea della palestra. Ho ripreso la divisa, le scarpe adatte, legato i capelli. E ho respirato di nuovo. Leggevo i pensieri che anche qui remavano contro, ma li lasciavo andare, ripetendomi che superato l’inizio tutto sarebbe stato più semplice.

Letteralmente dovevo compiere il primo passo. E così ho fatto. Chiusa la porta di casa ho iniziato a correre. Pochi passi e sono tornata a dieci anni fa quando facevo atletica leggera a livello agonistico. Mezzofondo per chi è curioso. Ho sentito il corpo riattivarsi. E’ stato bello respirare all’aria aperta. La puzza a dir la verità l’ho ritrovata, concime dei campi, ma alla natura si perdona quasi tutto. Corro nella mia solitudine ricercata con la consapevolezza di ciò che ho intorno, delle sensazioni corporee. E’ la prima volta che corro dopo la pratica della Mindfulness.

Ho applicato i principi ed è stata un’esperienza nuova che comunque racchiudeva in sé vecchi ricordi. Stupendo. Ma il caso a quanto pare mi mette spesso alla prova. In lontananza vedo un cane. Solo, come sono sola io. Flashback: rivedo me inseguita da due cani all’età di 15 anni. Sento la paura salire. Non so che fare. Respiro di nuovo profondamente. Attimi per riattivare la ristrutturazione cognitiva: ‘E’ piccolo… sembra buono… forse non ti noterà… sei adulta ora… ecc.. ecc.’, tutto in cinque secondi credo. Esposizione. Flooding.

Ora è necessaria una spiegazione: l’esposizione, come dice la parola stessa, significa esporsi a qualcosa che abbiamo evitato per timori vari; quando si parla di flooding si fa riferimento ad un’esposizione un po’ particolare del tipo: ‘Temi le altezze? Soffri di vertigini? Benissimo! Perfetto! Ti buttiamo con il paracadute dall’aeroplano!‘. Significa quindi essere immersi totalmente nella nostra paura senza gradualità. Questo mi è successo. Passo vicino al cane.

Distratto annusa le piante. Tiro un sospiro di sollievo. Cavolo, lo sento correre verso di me. Panico. Di nuovo respirazione e ristrutturazione ‘Non viene proprio verso di te… pure se fosse cosa può farti… ecc… ecc.‘. Mi viene vicino e mi supera un po’. Corre avanti a me. Poi si ferma e mi riviene vicino e di nuovo accanto. Non mi sta seguendo. Mi sta accompagnando. Tiene il mio passo. Mi commuove la cosa. Se non mi fossi esposta prima, non avrei goduto di tutto questo. Dopo qualche centinaio di metri c’è il padrone che lo chiama, o meglio la chiama, ‘Bianca, vieni qui‘. Niente, continua a starmi accanto fino a casa. Sorrido pensando che ora mi dispiace separarmene, mentre prima sembrava la cosa più temibile al mondo.

Arrivata mi sento bene, sono felice. Certo poi non aspettiamoci che il mondo intorno a noi riconosca il nostro sentirci dei supereroi. Mia madre mi guarda e dice ‘Al ritorno hai preso l’autobus?‘ e mia sorella, dopo che le stavo dicendo che quando corro mi si gonfiano le mani, mi guarda e fa ‘Bé ti diventa pure viola la faccia!‘. Potevo irritarmi con queste invalidazioni ma, memore dei mille discorsi sull’assertività (che ci ho messo un po’ a capire), le guardo e dico: ‘Per favore mi dite che sono stata brava? Non è mica stato facile per me!‘. Si guardano, richiesta strana, sorridono: ‘Sì, sei stata brava!‘. Ora ho capito cosa volesse dire la mia dottoressa due anni fa. Sono diventata terapeuta di me stessa.

La terapia EMDR: come funziona? un viaggio nella nostra mente

La terapia EMDR è utile per il trattamento di disturbi causati da eventi stressanti o traumatici come il disturbo da stress post-traumatico. Essa sfrutta i movimenti oculari alternati per ristabilire l’equilibrio eccitatorio/inibitorio, permettendo una migliore comunicazione tra gli emisferi cerebrali.

Nausicaa Berselli e Simone Negrini – Open school Studi Cognitivi Modena

Terapia EMDR: un’introduzione

EMDR (Eye Movement Desensitization and Reprocessing) è una tecnica psicoterapeutica ideata da Francine Shapiro nel 1989. Questa metodologia, utile per il trattamento di disturbi causati da eventi stressanti o traumatici come il disturbo da stress post-traumatico, sfrutta i movimenti oculari alternati, o altre forme di stimolazione alternata destro/sinistra, per ristabilire l’equilibrio eccitatorio/inibitorio, permettendo così una migliore comunicazione tra gli emisferi cerebrali.

Disturbo da stress post-traumatico e terapia EMDR

Il diturbo da stress post-traumatico (DSPT) si sviluppa in seguito all’esposizione del soggetto ad un evento traumatico nel quale la persona ha vissuto, ha assistito, o si è confrontata con un evento o con eventi che hanno implicato morte, o minaccia di morte, o gravi lesioni, o una minaccia all’integrità fisica propria o di altri. La risposta della persona comprende paura intensa e sentimenti di impotenza o di orrore. Come riportato dal DSM-V (Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali) l’evento traumatico viene rivissuto ripetutamente in diversi modi, ed il soggetto mette in atto un evitamento persistente degli stimoli associati con il trauma. Si verificano inoltre alterazioni negative dell’umore o delle cognizioni, ed un’attenuazione della reattività generale, oltre che sintomi di aumentato arousal.

Shalev (2001) ha proposto che la complessità del disturbo possa essere meglio compresa come compresenza di diversi meccanismi, quali l’alterazione di processi neurobiologici, l’acquisizione di risposte condizionate di paura a stimoli correlati al trauma, e schemi cognitivi e di apprendimento sociale alterati.

La ricerca ha dimostrato che a seguito di un evento stressante c’è un’interruzione del normale modo di processare l’informazione da parte del cervello. Ciò include il fallimento nel creare una memoria coerente dell’esperienza, in quanto tutti gli aspetti di memoria, pensiero, sensazioni fisiche ed emotive dell’evento traumatico non riescono ad essere integrati con altre esperienze. La patologia in questi casi emerge a causa dell’immagazzinamento disfunzionale delle informazioni correlate all’evento traumatico, con il conseguente disturbo dell’equilibrio eccitatorio/inibitorio necessario per l’elaborazione dell’informazione. Questo provoca il ‘congelamento’ dell’informazione nella sua forma ansiogena originale, nello stesso modo in cui è stato vissuto; l’informazione congelata e racchiusa nelle reti neurali non può essere elaborata e quindi continua a provocare patologie come il disturbo da stress post-traumatico e altri disturbi psicologici.

I movimenti oculari saccadici e ritmici tipici della terapia EMDR, concomitanti con l’individuazione dell’immagine traumatica, delle convinzioni negative ad essa legate e del disagio emotivo, facilitano la rielaborazione dell’informazione, fino alla risoluzione dei condizionamenti emotivi. In questo modo l’esperienza è usata in modo costruttivo dalla persona ed è integrata in uno schema cognitivo ed emotivo non negativo.

Le tecniche EMDR, come la terapia cognitivo-comportamentale focalizzata sul trauma, seguono le teorie del processamento dell’informazione e si rivolgono alle memorie disturbanti individuali ed ai significati personali dell’evento traumatico e delle sue conseguenze, attivando la rete dei ricordi di paura attraverso la presentazione di informazioni che attivano elementi delle strutture della paura ed introducono informazioni correttive incompatibili con questi elementi.

L’esposizione immaginativa tipica della terapia cognitivo-comportamentale però guida l’individuo a rivivere ripetutamente l’esperienza traumatica il più vividamente possibile, senza prendere in causa altre memorie o associazioni; questo approccio è basato sulla teoria secondo cui l’ansia è causata dalla paura condizionata ed è rinforzata dall’evitamento.

Al contrario la terapia EMDR procede tramite catene di associazioni, collegate con stati che condividono gli elementi sensoriali, cognitivi o emotivi del trauma. Il metodo adottato non è di tipo direttivo; l’individuo è incoraggiato a ‘lasciare accadere qualsiasi cosa avvenga limitandosi a notarla‘ mentre le memorie liberamente associate entrano nella mente tramite l’esposizione immaginativa, in forma di brevi flash.

In accordo con le teorie del condizionamento classico, promuovere l’attenzione a informazioni correlate alla paura facilita l’attivazione, l’abituazione e la modificazione della struttura di paura.

Durante la terapia EMDR, i terapeuti spesso accedono solo a brevi dettagli della memoria traumatica, ed incoraggiano la distorsione o il distanziamento dell’immagine che, in accordo con le teorie tradizionali, dovrebbe esitare in un evitamento cognitivo. La terapia EMDR incoraggia tuttavia gli effetti distanzianti che sono considerati efficaci nel processamento della memoria piuttosto che nell’evitamento cognitivo. E’ forse per questo che i pazienti sottoposti a questo tipo di terapia cosiderano l’EMDR come meno confrontante e la tollerano meglio.

L’EMDR comprende il complesso delle risposte emotive che seguono un evento stressante analizzando stati affettivi, sensazioni fisiche, pensieri, emozioni e credenze contemporaneamente.

Il cambiamento cognitivo che la terapia EMDR evoca mostra che il soggetto può avere accesso a informazioni correttive e collegarle alla memoria traumatica e ad altre reti di memorie associate. Tutto ciò avviene con piccole, se non nulle, indicazioni da parte del terapeuta. L’integrazione del materiale positivo e negativo che avviene spontaneamente durante il processo di desensibilizzazione dell’EMDR somiglia all’assimilazione in strutture cognitive (in linea con la teoria del processamento adattivo dell’informazione), così come accade per le visioni del mondo, i valori, le credenze e l’autostima.

Il movimento oculare nella terapia EMDR

La componente del movimento oculare ha provocato molti dibattiti in quanto sembra essere la componente che differenzia la terapia EMDR dalla terapia cognitivo-comportamentale focalizzata sul trauma e dai trattamenti basati sull’esposizione. Tuttavia, è stato suggerito che i movimenti oculari non siano necessari, portando a ricerche per verificare se altre stimolazioni bilaterali (uditive o tattili) o nessun movimento oculare producessero risultati equiparabili. Sulla base dei modelli di estinzione della paura, i movimenti oculari causerebbero distrazione ed una riduzione dell’abituazione.

Lee e Cuijpers (2013) hanno condotto una meta-analisi per determinare l’efficacia dei movimenti oculari quando vengono processate memorie emotive. I loro risultati supportano l’inclusione del movimento oculare sia per il trattamento in ambito clinico che nell’ambiente di laboratorio, dimostrando l’importanza della fedeltà al trattamento quando si utilizza l’EMDR. I vantaggi avvallati del compito aggiuntivo dei movimenti oculari nell’EMDR sono il distanziamento e la riduzione della vividezza e dell’emotività della memoria.

Sulla base della teoria per la quale i sintomi del disturbo da stress post-traumatico risultano da un fallimento del processamento di memorie episodiche, è stato suggerito che i movimenti oculari bilaterali possano facilitare l’interazione interemisferica, producendo un miglioramento nel processamento della memoria. La ricerca indica che il processamento della memoria episodica è bilaterale, mentre quello della memoria semantica viene condotto nell’emisfero cerebrale sinistro. Il movimento oculare orizzontale può rinforzare un aumento dell’attivazione di entrambi gli emisferi, migliorando in questo modo la comunicazione tra di essi e promuovendo il processamento dell’evento traumatico tramite la stimolazione della capacità di richiamo degli elementi che lo caratterizzano dalle memorie episodiche e semantiche.

Un altro modello teorico proposto è basato sulla teoria del movimento oculare rapido (REM) durante il sonno. La ricerca suggerisce che l’integrazione tra memorie episodiche e semantiche avvenga durate il sonno. La ricerca, facendo utilizzo di tecniche di neuroimaging, ha dimostrato l’esistenza di regioni cerebrali specifiche affette dalla ristimolazione di memorie traumatiche nel DSPT; queste sono le stesse regioni attivate nella fase REM del sonno. I movimenti oculari bilaterali ripetuti attivano il tronco cerebrale in uno stato di sonno REM, supportando così l’integrazione della memoria e la riduzione dei sintomi del DSPT.

La stessa stimolazione ripetitiva bilaterale che riorienta l’attenzione da un lato all’altro è alla base, secondo alcuni autori, dell’attivarzione di un meccanismo neurologico simile al sonno REM tramite una risposta di orientamento; l’attivazione di questi mecanismi sposta il cervello in una modalità di processamento della memoria simile al sonno REM, permettendo l’integrazione delle memorie traumatiche. E’ stato anche proposto che i movimenti oculari inneschino la risposta di orientamento attivando un riflesso investigatorio che si presenta primariamente come una risposta di allarme ed in secondo luogo come una pausa riflessiva, che produce una riduzione dell’arousal se non c’è una reale minaccia. Questa risposta riflessa produce un aumento dell’allerta, la quale favorisce i comportamenti esploratori quando i processi cognitivi diventano meno flessibili ed efficienti, permettendo alla memoria traumatica di essere integrata.

Secondo alcuni autori inoltre i movimenti oculari creerebbero una risposta di rilassamento, facilitando il riprocessamento della memoria tramite la riduzione del distress.

Memoria, memoria di lavoro e terapia EMDR

Seguendo la teoria della memoria di lavoro, è stato ipotizzato che gli effetti positivi della terapia EMDR possano risultare dal fatto che i movimenti oculari creano un doppio compito di attenzione. In linea con il modello di memoria di lavoro proposto da Baddeley, quest’ultima possiede una capacità limitata. Quando l’attenzione deve essere suddivisa tra più stimoli, come avviene nel caso del doppio compito di attenzione, la qualità dell’immagine traumatica si deteriora, con il risultato che essa viene portata al di fuori della memoria di lavoro ed integrata nella memoria a lungo termine (semantica), dove la vividezza e l’emotività sono ridotte. Il doppio compito di tenere l’emozione in mente mentre ci si focalizza sui movimenti oculari bilaterali può quindi interrompere l’immagazzinamento delle memorie traumatiche, ridurre la qualità episodica della memoria e quindi ridurre i sintomi del DSPT.

Un’esplorazione più specifica di Gunter e Bodner (2008) ha rilevato che le memorie tenute nel taccuino visuospaziale (un sottosistema della memoria di lavoro) si riducono in vividezza quando i movimenti oculari esauriscono le risorse di processamento. La ricerca ha mostrato che una riduzione della vividezza della memoria, dovuta ai movimenti oculari, può portare ad un conseguente decremento dell’emotività che circonda la memoria e ad una corrispondente riduzione dei dintomi del DSPT.

Lansing et al. (2005) hanno condotto studi di neuroimaging su agenti di polizia che avevano sviluppato il DSPT in seguito al coinvolgimento in sparatorie, sottoposti a sessioni di terapia EMDR. I risultati della SPECT (tomografia computerizzata a emissione di singoli fotoni) hanno rilevato una riduzione dell’attivazione nel lobo parietale sinistro, area associativa, e nel pulvinar destro, nucleo talamico associativo che aiuta a regolare i circuiti corticali; queste deattivazioni possono essere implicate nell’attenuazione della rete neurale delle memorie traumatiche. L’analisi dei dati ha mostrato inoltre una maggiore attivazione in aree prefrontali sinistre che sono solitamente ipoattivate nei soggetti con DSPT, ed un’attivazione della corteccia prefrontale dorsolaterale, associata con un miglioramento dei sintomi, in particolare di tipo depressivo.

Effetti neurobiologici della terapia EMDR

Una ricerca condotta da Pagani et al. (2012) ha permesso di monitorare l’attività cerebrale tramite EEG durante le sedute di terapia EMDR in pazienti con DSPT, paragonati a soggetti di controllo. A seguito di una terapia che ha riscontrato successo, il principale risultato neurobiologico dello studio è stato lo spostamento dell’attivazione corticale massima, sia durante l’ascolto del racconto autobiografico del trauma che durante la stimolazione oculare bilaterale, dalle regioni prefrontali e limbiche alle corteccie fusiforme e visiva, durante il corso della terapia. La comparazione con i soggetti di controllo ha mostrato come il rivivere l’evento traumatico causasse nei pazienti un’attivazione limbica bilaterale significativamente maggiore durante il racconto, ed una maggiore attivazione limbica orientata verso sinistra durante la stimolazione oculare bilaterale. Questo dato potrebbe essere correlato al tentativo guidato di codificare materiale emotivo non elaborato durante la stimolazione oculare, attivando preferenzialmente la corteccia prefrontale rostrale sinistra. L’attivazione della corteccia prefrontale rostrale durante la stimolazione oculare è risultata essere maggiore anche considerando i pazienti nella prima fase della terapia, in confronto con gli stessi soggetti valutati a fine terapia.

L’attivazione prefrontale è associata con la valutazione di materiale generato da sé stessi, essendo la corteccia cingolata anteriore il punto di integrazione di informazioni emotive coinvolte nella regolazione degli affetti, oltre che il substrato dell’esperienza conscia emotiva che monitora le informazioni con conseguenze sul piano affettivo. La corteccia prefrontale rostrale, in quanto parte del sistema limbico, è coinvolta in processi che riguardano il valore emotivo delle informazioni in arrivo, ed è criticamente implicata in funzioni alterate nella risposta psichica al trauma. Per di più, il recupero della memoria episodica attiva la corteccia prefrontale, ed è stata descritta una stretta relazione tra la memoria autobiografica/episodica, il sé ed il coinvolgimento della corteccia prefrontale. E’ stata dimostrata anche un’attivazione di tale regione durante la soppressione di memorie indesiderate, e durante il richiamo del trauma prima della terapia EMDR.

Un rilevante effetto neurobiologico della terapia EMDR nei pazienti è rappresentato dall’aumento significativo, in seguito al trattamento, del segnale elettroencefalografico nel giro fusiforme, così come nella corteccia visiva destra, confrontato con il segnale registrato ad inizio terapia. Questi cambiamenti suggeriscono un migliore processamento cognitivo e sensoriale (visivo) dell’evento traumatico durante il ricordo autobiografico, in seguito al successo della terapia EMDR, con un’attivazione preferenziale che si muove dalla corteccia emotiva fronto-limbica verso la corteccia associativa temporo-occipitale. Una volta che il mantenimento della memoria dell’evento traumatico può spostarsi da uno stato implicito subcorticale ad uno esplicito, differenti regioni corticali partecipano al processamento dell’esperienza. D’altra parte il giro fusiforme è implicato nella rappresentazione esplicita di facce, parole e pensieri astratti, e la sua prevalente attivazione dopo la terapia EMDR potrebbe essere associata con l’elaborazione, ad un livello cognitivo più alto, di immagini correlate all’evento. Il giro fusiforme ha mostrato una maggiore attivazione anche durante la stimolazione oculare bilaterale alla fine della terapia, rispetto all’inizio della stessa.

Nei pazienti è stata trovata una chiara lateralizzazione verso l’emisfero sinistro durante la stimolazione oculare, e verso l’emisfero destro durante la lettura del racconto autobiografico. In accordo con la teoria dell’asimmetria emozionale l’emisfero destro è dominante sul sinistro per l’espressione e la percezione emotive. Oltretutto, entrambi gli emisferi funzionano come una sorta di unità funzionale e l’attivazione aumentata in uno di essi determina un’inibizione di quello controlaterale. L’attivazione prominente trovata durante la stimolazione oculare bilaterale alla fine della terapia nelle aree di associazione nell’emisfero sinistro potrebbe quindi corrispondere ad un processamento cognitivo delle memorie traumatiche che sta raggiungendo lo stato esplicito dopo la terapia EMDR portata a termine con successo, associata ad un significativo contenimento delle esperienze emotive negative.

L’emisfero sinistro gioca anche un importante ruolo nell’esplicazione delle emozioni, ed è stata inoltre dimostrata l’attivazione del giro fusiforme durante compiti che implicano la memoria episodica ed il recupero della memoria associata al controllo attentivo.

Terapia EMDR con ansia e depressione

Una recente meta-analisi (Chen et al., 2014) si è occupata di indagare gli effetti della tecnica EMDR in 26 di studi, effettuati tra Gennaio 1993 e Dicembre 2013, che hanno utilizzato l’EMDR per il trattamento del disturbo da stress post traumatico, in comparazione ad altri tipi di terapie. La meta-analisi ha rilevato un effetto moderato della terapia EMDR per il disturbo da stress post-traumatico, la depressione (spesso in comorbidità con tale disturbo) e l’ansia (sperimentata dai pazienti con DSPT quando devono affrontare lo stress), ed un effetto ampio dell’EMDR sulla percezione soggettiva di distress. Questi risultati suggeriscono che l’EMDR può migliorare la consapevolezza nei pazienti, cambiare le loro credenze e i loro comportamenti, ridurre l’ansia e la depressione, e condurre a emozioni positive.

I pazienti con disturbo da stress post-traumatico non possono gestire appropriatamente le loro esperienze negative e le loro memorie. La terapia EMDR permette ai pazienti di creare connessioni adattive per integrare le esperienze negative con emozioni ed i pensieri positivi, migliorando i sintomi del disturbo.

Un’analisi dei sottogruppi in questo studio ha permesso di individuare come un trattamento della durata di 60 minuti a sessione sia maggiormente efficace rispetto a trattamenti di più breve durata, riducendo significativamente sia l’ansia che la depressione. I pazienti hanno inoltre mostrato una maggiore riduzione dei sintomi quando il trattamento era effettuato da parte di terapeuti con esperienza nella terapia di gruppo del disturbo da stress post-traumatico, comparati a coloro che sono stati trattati da terapeuti senza una tale esperienza.

Le ricerche sinora condotte hanno permesso di individuare varie modificazioni delle strutture neurali che si verificano in seguito alla terapia EMDR, e ciò ha permesso di sviluppare diverse teorie sul suo funzionamento, le quali forniscono un supporto ancora maggiore all’utilizzo di tali tecniche, la cui validità è stata più volte valutata e provata in studi di efficacia terapeutica. Ciò nonostante, i processi chiave che sottostanno ai meccanismi dell’EMDR sono complessi, in linea con la struttura del trattamento, che coinvolge componenti di mindfulness, ristrutturazione cognitiva, esposizione alla memoria, e senso di padronanza personale. Saranno necessarie dunque ulteriori ricerche, che permettano di chiarire sempre meglio i meccanismi di funzionamento, nelle diverse circostanze e considerando l’applicazione a diversi tipi di disturbo, di questa tecnica terapeutica all’avanguardia.

Philofobia: quando innamorarsi può far paura

La philofobia è una fobia specifica: innamorarsi spaventa, la persona vi percepisce dietro una minaccia e deve quindi starne alla larga evitando tutte le situazioni che in qualche modo lo tengano in contatto con la situazione temuta.

Cosa induce la paura?

Ogni essere umano ha indiscutibilmente paura di qualcosa. Ad incutere un certo timore potrebbe essere un particolare evento, una situazione, un determinato oggetto o un ipotetico scenario.
In ogni caso si ha paura di fronte ad un evento considerato in qualche modo minaccioso o pericoloso.
Talvolta ciò che la mente umana percepisce come una minaccia è l’imprevedibile, l’ignoto. Questo perché ciò che non si conosce è visto come incontrollabile, e quindi si è propensi a credere che non si posseggono le capacità personali giuste di affrontare una situazione poco conosciuta.

In altre circostanze anche un evento ben conosciuto e prevedibile potrebbe essere percepito come pericoloso, perché tale evento potrebbe essere avvertito come non controllabile, di fronte al quale potrebbero non possedersi le giuste risorse che permettano di gestirlo al meglio.
Molti individui hanno una personale paura o fobia. Si pensi a coloro che hanno paura delle altezze; c’è chi ha paura dei luoghi chiusi; chi teme alcuni animali; chi va in panico nelle situazioni d’esame.
Fobie di questo genere sono abbastanza frequenti, e anche facilmente decifrabili. Ad esempio una persona potrebbe temere i cani in quanto vede in essi una certa minaccia per la propria incolumità fisica.

Ma talvolta ad incutere paura potrebbe essere uno scenario che all’apparenza non possiede nulla di minaccioso, e in questi casi il soggetto che vi si trova coinvolto ha un grossa difficoltà a spiegarsene il perché.

 

La philofobia

Pare che molti soggetti sperimentino una paura di innamorarsi, o di instaurare una relazione dove alla base vi sia un innamoramento. Il termine tecnico di ciò è “Philofobia”.

Ebbene sì, esiste una forma di fobia nei confronti dell’amore, ed essa possiede tutte le caratteristiche tipiche di una fobia specifica:
– Paura marcata, persistente ed eccessiva nei confronti della situazione temuta;
– Risposta ansiosa e immediata all’esposizione dello stimolo fobico;
– La paura viene riconosciuta dal soggetto come eccessiva e irragionevole;
– Di fronte alla situazione minacciosa il soggetto mette in atto la strategia dell’evitamento.

Perché infatti la philofobia è una fobia specifica: innamorarsi spaventa, la persona vi percepisce dietro una minaccia e deve quindi starne alla larga evitando tutte le situazioni che in qualche modo lo tengano in contatto con la situazione temuta.

 

Philofobia: in che modo l’innamoramento può spaventare?

Tutti noi siamo soliti nel considerare l’amore come un qualcosa di positivo, qualcosa che dà un beneficio alla persona, e non una cosa da cui bisogna stare alla larga.
Eppure varie ricerche hanno messo in luce che un buon numero di individui si dichiarano spaventati di fronte all’innamoramento (Tavormina, 2014).
Infatti sono molti i soggetti che quando si innamorano esperiscono emozioni molto intense: magari ansia (nei momenti in cui non si sa come doversi comportare con il partner o cosa aspettarsi da lui), felicità (quando le cose vanno bene ed entusiasmano), vergogna, rabbia o via dicendo. Comunque molto spesso queste emozioni vengono vissute con un’alta intensità, al punto tale che possono essere percepite dal soggetto che le esperisce come incontrollabili e che prendono il sopravvento sul proprio modo di fare e di pensare.

E per chi soffre di un qualsiasi tipo di fobia è impensabile perdere il controllo della situazione o di se stessi.
Quindi il philofobico non teme l’innamoramento in sé per sé, piuttosto la propria reazione di fronte all’evento, che potrebbe fargli perdere il controllo dei propri comportamenti e delle proprie emozioni e portarlo poi a comportarsi in maniera troppo istintiva e poco razionale.
Ma non vi è solo un timore di perdita di controllo come motivazione che sottende alla philofobia.
Pare che molti individui vedano dietro l’innamorarsi e nel condividere con l’altro i propri sentimenti un “mettersi a nudo”, mostrando quindi all’altro la parte reale di se stessi, quella priva di formalismi e in un certo senso più intima, privata (Manucci, Curto, 2003).

Ed in questi casi il soggetto evita di farsi troppo coinvolgere emotivamente con un’altra persona, in quanto si sentirebbe “invaso” da qualcun altro e perderebbe di conseguenza un po’ i propri spazi, sentendosi in qualche modo sopraffatto.
In ogni caso il risultato è quello che il soggetto, non appena esperisce un certo coinvolgimento emotivo che lo sta legando sentimentalmente ad un’altra persona, si allontana. E come qualsiasi altra fobia che si rispetti evita la situazione temuta.

 

Come superare la philofobia?

La philofobia andrebbe trattata come qualsiasi altro tipo di fobia. Un eventuale trattamento in merito avrà innanzitutto lo scopo di ridurre il livello d’ansia scatenato dall’evento o situazione temuta.
Successivamente andrebbero ridotti tutti gli evitamenti che il philofobico attua per in qualche modo difendersi.
Senza dimenticare che andrebbe sempre investigata la motivazione che sottende a questa paura del soggetto di farsi coinvolgere in un legame sentimentale. E qualora dietro questa fobia vi si celino delle personali idee disfunzionali andrebbero disputate affinché la persona possa vivere il rapporto di coppia senza alcun timore o percezione di minaccia.

L’efficacia della mindfulness: funziona davvero?

Il 29 dicembre 2016 sulla prestigiosa rivista inglese BMJ, Shonin, Gordon e Griffith hanno pubblicato un editoriale in cui hanno discusso le evidenze disponibili sull’efficacia della mindfulness e le questioni non ancore risolte sull’utilizzo di questo intervento.

La mindfulness deriva dalla pratica buddista ed è stata definita come il processo di prestare attenzione al momento presente in modo non giudicante. L’efficacia della mindfulness è stata oggetto di indagine empirica dalla fine del 1970 e solo nel 2014 sono stati pubblicati oltre 700 articoli scientifici su questo intervento.

Gli autori inglesi affermano che le evidenze più convincenti riguardano l’efficacia della mindfulness nel trattamento della depressione e dell’ansia. Per esempio, una recente meta-analisi di 36 studi randomizzati sulla riduzione dello stress basato sulla mindfulness, della terapia cognitiva basata sulla mindfulness e di altri intreventi basati sulla mindfulness, ognuno confrontato con un controllo attivo, ha riportato un effect size da piccolo a moderato (d = 0,3-0,38) nel trattamento della depressione o dell’ansia dopo otto settimane di training con la mindfulness, con una riduzione della dimensione dell’effetto (d = 0,22-0,23), a tre e a sei mesi di follow-up.

Alcune evidenze suggeriscono che gli interventi basati sulla mindfulness possono avere un ruolo nel trattamento di altre condizioni psichiatriche, tra cui i disturbi dello spettro della schizofrenia, i disturbi dell’alimentazione e i disturbi da dipendenza (sia chimici e non chimici).

Tuttavia, nonostante il fatto che la mindfulness sia stata recentemente inclusa nelle linee guida pratiche del Royal Australian and New Zealand College of Psychiatrists come un trattamento non di prima scelta per il disturbo da binge-eating negli adulti, ci sono insufficienti evidenze derivate da studi randomizzati ben disegnati per supportare l’efficacia della mindfulness in condizioni diverse dalla depressione e dall’ansia.

Evidenze stanno emergendo anche sull’efficacia della mindfulness nel trattamento di condizioni somatiche come la psoriasi, il cancro, l’infezione da HIV, la sindrome del colon irritabile, le malattie cardiache, l’ipertensione, le malattie polmonari, il diabete mellito e il dolore cronico.

 

Gli studi sull’ efficacia della mindfulness

Le evidenze derivate da studi randomizzati suggeriscono che gli interventi basati sulla mindfulness (in particolare la riduzione dello stress basato sulla mindfulness e la terapia cognitiva basata sulla mindfulness) sono poco o moderatamente efficaci nel trattamento del dolore cronico (d = 0,33) e che hanno possibili applicazioni per il trattamento di disturbi di dolore specifici, come la fibromialgia.

Tuttavia, non è chiaro se l’efficacia della mindfulness è ottenuta da un effetto di riduzione della frequenza e dell’intensità del dolore o semplicemente da un miglioramento della capacità dei pazienti di far fronte al dolore. Gli autori affermano che, con l’eccezione di dolore cronico e dei disturbi di dolore specifici, non vi siano ancora evidenze sufficienti di alta qualità per supportare l’efficacia della mindfulness nel trattamento di condizioni somatiche.

Le questioni non ancora chiarite sull’efficacia della mindfulness, secondo Shonin, Gordon e Griffiths, sono molteplici. In particolare, è possibile che i risultati di questo intervento siano stati influenzati dall’effetto ‘popolarità’ e cioè dalla convinzione dei partecipanti di ricevere una tecnica psicoterapeutica alla moda o di dimostrata efficacia. C’è anche bisogno di una maggiore chiarezza sul fatto che i risultati positivi siano mantenuti nel corso degli anni e non solo per alcuni mesi, se gli interventi di mindfulness abbiano degli effetti negativi e se sia valida la visione tradizionale che le pratiche contemplative richiedano una pratica quotidiana per molti anni per potere ottenere miglioramenti sostenibili per la salute e il benessere. Altri problemi non risolti riguardano il fatto che i vari studi hanno incluso interventi formulati con una notevole variazione di fattori, come la quantità di ore di contatto tra partecipante-facilitatore, la quantità e la durata degli esercizi di mindfulness guidati, l’utilizzo di tecniche psicoterapeutiche non mindfulness (per es. la psicoeducazione o la discussione di gruppo), l’inclusione di un giorno intero di ritiro in silenzio, l’enfasi sull’auto pratica (in genere sostenuto da CD di esercizi di mindfulness guidati), e l’uso di altre tecniche di meditazione (come lo yoga).

Gli autori concludono il loro editoriale affermando che l’efficacia della mindfulness sembra evidente quando bisogna aumentare la distanza percettiva da stimoli psicologici e somatici angoscianti e nel determinare cambiamenti neuroplastici funzionali del cervello. Tuttavia, affermano che lo status di ‘intervento alla moda’ di questa pratica tra l’opinione pubblica e la comunità scientifica può avere oscurato la necessità di esaminare importanti questioni metodologiche e operative riguardanti la reale efficacia della mindfulness.

Siamo davvero felici? Come la percezione della nostra felicità cambia in chi ci osserva

In un recente studio pubblicato sul Journal of Happiness Studies, i ricercatori hanno scoperto una grande discrepanza tra come un gruppo di intervistati hanno valutato la propria soddisfazione di vita e come l’hanno giudicata degli osservatori esterni sulla base di un colloquio.

Lo studio ha coinvolto 500 partecipanti che sono stati invitati ad assegnare un voto su una scala da 1 a 10 alla propria soddisfazione generale di vita. I partecipanti sono stati poi intervistati e hanno risposto a diverse domande aperte su esperienze positive e negative, la salute, e altri aspetti della propria vita. Ogni intervista è stata poi analizzata da 12 valutatori diversi e i partecipanti sono stati inseriti su una nuova scala da 1 a 11 allo scopo di aggiungere maggiore profondità alla categorizzazione.

Queste le 11 categorie in cui era suddivisa la nuova scala:

11- Serenità: Gli intervistati sono autenticamente soddisfatti della loro vita. I loro problemi tendono ad essere piccoli e loro riescono facilmente a farvi fronte.

10-Serenità con qualche difficoltà: Gli intervistati sono per lo più spensierati. Citano circostanze negative, ma queste non incidono realmente sullo stato d’animo generale.

9-Felicità Resiliente: Questa è simile alla categoria precedente, ma le circostanze negative sono significative. Queste persone hanno una forte capacità di coping e sanno accogliere le sfide della vita.

8- bilancio sostanzialmente positivo ma con difficoltà consistenti: Simile alla categoria precedente, ma con minori capacità di coping. Queste persone sono rassegnate (“sono abituato a questo”).

7-ambiguità: questi intervistati hanno riferito forti esperienze ed emozioni sia positive che negative.

6-equilibrato: questa categoria è come la categoria ambiguità, ma meno intensa.

5-poco emotivi: superficiali o indifferenti, questi intervistati non hanno mostrato sentimenti forti nè negativi nè positivi.

4-Inappagati: Gli intervistati sono leggermente negativi. Mostrano una mancanza di soddisfazione e “sembrano vivere una vita che non hanno scelto.” Giustificano o minimizzano la mancata soddisfazione di obiettivi e sogni.

3-Vita disarmonica ma con supporto: Gli intervistati sono “tristi, oppressi o stressati, ma con risorse positive o supporto”. Hanno problemi nelle principali aree di vita e il benessere emotivo è ostacolato, ma hanno ancora esperienze positive o relazioni che danno gioia.

2-Vita disarmonica senza supporto: Questa è come la categoria precedente, ma senza un sistema di supporto positivo. La vita spinge queste persone verso il basso, c’è assenza di tensione verso il futuro.

1-Depressione dominante: Caratterizzata da totale disperazione, infelicità, disperazione e insoddisfazione per le circostanze della vita.

Dopo aver analizzato le interviste i ricercatori hanno scoperto grosse discrepanze tra come gli intervistati auto-valutano la loro soddisfazione di vita e come invece descrivono la loro vita in un racconto da dare ai valutatori. Gli effetti di questa discrepanza sono evidenti nei valori di soddisfazione di vita assegati dai valutatori: solo 15 persone si sono assegnate un valore uguale o inferiore a 5, ma i valutatori esterni hanno assegnato a ben 40 persone valori uguali o inferiori a 5. E, ancora più sorprendente, solo 6 di questi casi risultavano abbinati. Uno degli intervistati, ad esempio, si è attribuito un 10, ma i valutatori gli hanno dato 3!
Inoltre non solo le auto-valutazioni non si allineano con rating esterni, ma diversi valutatori tendono a valutare lo stesso intervistato in modo diverso.
Secondo i ricercatori queste discrepanze sono da attribuire al bisogno di trasmettere un’ immagine positiva di sè, alla paura di lamentarsi, o a un sistema di autodifesa che induce alla sottostima degli elementi di insoddisfazione nella propria vita.

l’interesse scientifico e la nuova legge sulla responsabilità professionale degli operatori sanitari

La risposta migliore alla copertina di “Internazionale” non è attivare un ufficio stampa efficace che ribatta o inviare una mail di precisazione alla rivista, ma impegnarsi affinchè la istituenda commissione ministeriale non sia la solita commissione nella quale siedono equamente divisi i rappresentanti di tutti gli interessi in gioco tranne quello scientifico

 

Tra giovedi e venerdi della settimana scorsa sono avvenuti due fatti rilevanti per chi fa psicoterapia. L’importanza dei due fatti è inversamente proporzionale al risalto che hanno avuto nei media.

Internazionale traduce Burkeman sulla psicoanalisi

Il primo. E’ uscito il nuovo numero della rivista “Internazionale” – una pubblicazione che si propone di raccogliere una significativa scelta, indicativa di tendenze e incisività, di articoli apparsi su quotidiani e periodici di ogni nazione- che, giusto questo giovedì, riporta in copertina, e quindi in grande evidenza una impegnativa e curiosa enunciazione: “La rivincita della psicoanalisi”. Leggendo si scopre come, pur esistendo un variegato mondo della psicoterapia, sostanzialmente non sia facile stabilire in modo deciso e incontestabile quali siano le più efficaci, ergo , l’autore per altro senza grossi supporti scientifici ma con quella che appare una frettolosa necessità di certezze, utilizzando il noto “verdetto del Dodo”, mira ad un ridimensionamento della CBT e definisce, con nonchalance più letteraria che scientifica, la psicoanalisi come una delle più valide pratiche, in un panorama di psicoterapie che “non mostra differenze di efficacia”.

 

La riforma della legge sulla responsabilità professionale degli operatori sanitari

La seconda notizia arriva venerdi. È stata approvato alla Camera il testo di riforma della legge sulla responsabilità professionale degli operatori sanitari. La legge riguarda tutte le professioni sanitarie, da quella medica a quella veterinaria, farmaceutica e psicologica comprendendo ovviamente l’attività di psicoterapia. Cambia la responsabilità del professionista, sia dal punto di vista penale (poiché non sarà più responsabile neppure per colpa grave) che civile, con inversione dell’onere della prova (toccherà all’accusa dimostrare la responsabilità del professionista) e dimezzamento del termine di prescrizione.

Tutto questo se il professionista dimostrerà di aver seguito le linee guida e i protocolli previsti per il trattamento del disturbo patologico. Sono queste alcune delle principali novità contenute nel DDL Gelli di riforma delle professioni sanitarie, approvato, in prima lettura, alla Camera dei deputati, con 307 voti favorevoli e 84 contrari.

Il testo rappresenta “un risultato storico, una svolta nella lotta alla medicina difensiva perché assicura l’equilibrio tra la tutela dei medici, che hanno bisogno di svolgere il loro delicato compito in serenità, e il diritto dei cittadini dinanzi ai casi di malasanità” ha commentato il ministro della Salute, Beatrice Lorenzin, ai margini dell’approvazione.

 

Alcune novità nel testo meritano di essere sottolineate:

Best practice e linee guida: le buone pratiche clinico-assistenziali e le raccomandazioni previste dalle linee guida, alle quali i sanitari devono necessariamente attenersi nell’esecuzione delle prestazioni richieste, dovranno assicurare un ruolo di equilibrio ed essere indicate dalle società scientifiche e da istituti di ricerca individuati da un decreto del Ministro della salute e iscritti in un elenco apposito. Le linee guida verranno poi inserite nel sistema nazionale e pubblicate sul sito dell’Istituto superiore di sanità, nonché aggiornate ogni due anni.

Si, ma quali sono le linee guida e le buone prassi che regolamentano l’attività psicoterapica in Italia?

Credo che attualmente nel nostro paese troppe volte non ci sia relazione tra intervento applicato e risultato atteso e che spesso l’intervento è coerente con il modello teorico che lo sottende ma prescinde da tempi di risposta, eventuali effetti iatrogeni, obiettivo dell’intervento ed efficacia psicopatologica. Il tutto nella disinformazione del paziente che non viene informato di quelli che possono essere gli interventi piu rapidi ed efficaci.

Uno scenario come questo giustifica l’aria di sufficienza e il pregiudizio negativo che troppo spesso la comunità medica e psichiatrica ha nei confronti dell’attività psicoterapica.

 

Eppure nella esplicitazione di linee guida e protocolli di cura, la CBT dovrebbe essere avvantaggiata rispetto ad altre forme di psicoterapia, per la sua originaria scelta di posizionarsi nel campo scientifico, accogliendo la sfida della verifica empirica del propri risultati e delle evidenze cliniche.

In Italia il discorso si è un po’ complicato; la CBT negli anni si è (dis-)articolata in modelli ed approcci teorici sempre più raffinati ma anche distanti tra loro e dal modello anglosassone, che maggiormente ha contribuito a standardizzare i protocolli utilizzati nei trials clinici randomizzati. Non sono sicuro che tutti i colleghi CBT applichino il medesimo trattamento allo stesso paziente affetto, per esempio, da un disturbo di panico. Questo non aiuta la CBT a diffondersi nella comunità neuroscientifica italiana ed è un modo per sprecare una ricchezza e un plusvalore.

 

La condivisione di intenti e obiettivi nella comunità CBT italiana

Ritengo sia opportuno affermare l’utilità della psicoterapia nella cura dei disturbi psicopatologici e l’attuale supremazia della CBT, almeno per quanto riguarda il trattamento di molte sindromi asse I quando vengono applicati i protocolli di cura.

Sarebbe opportuno lavorare rapidamente ad una consensus conference tra società, associazioni e istituti CBT in Italia, che definisca le linee guida e i protocolli di intervento CBT attualmente sostenuti da studi di megaanalisi e metanalisi ed evidenze empiriche forti. Questo documento dovrebbe poi essere presentato al Ministero come prima bozza per una collaborazione alla definizione dei criteri che il nuovo testo di legge indica.

Ciò prevede che ci sia una condivisione di intenti, nella nostra comunità CBT italia, per un obiettivo comune rappresentato dal lavorare per il riconoscimento del valore scientifico della CBT, della sua efficacia, della sua rapidità d’azione, della sua bassa iatrogenicità se vengono seguiti protocolli d’intervento chiari e definiti.

Ce la faremo? Ce la potremo fare se i campanilismi, i personalismi saranno, per una volta, messi da parte. La risposta migliore alla copertina dell’ ”Internazionale” non è attivare un ufficio stampa efficace che ribatta o inviare una mail di precisazione alla rivista, ma impegnarsi affinchè la istituenda commissione ministeriale non sia la solita commissione nella quale siedono equamente divisi i rappresentanti di tutti gli interessi in gioco tranne quello scientifico. Nel qual caso si, che siamo sicuri che prevarrà il verdetto del Dodo.

Ce la faremo.

 

Carmelo La Mela
Firenze 01.02.2016

Terza Onda, un esperimento di Ron Jones – I grandi esperimenti di psicologia nr. 2

#2: La Terza Onda, Ron Jones (1972)

Vi presentiamo una serie di articoli relativi ai più grandi esperimenti in ambito sociologico e psicologico. Per fare ciò abbiamo cercato di risalire alle fonti originarie, ai primi articoli divulgati dagli autori. In questo modo sarà più facile vivere le loro scoperte a partire dalle loro stesse ipotesi e respirare un’aria in cui, liberi (purtroppo) da vincoli etici, tutto era possibile in nome della scienza. Qui riportiamo l’esperimento della Terza Onda

[blockquote style=”1″]Per anni ho mantenuto un particolare segreto. Ho condiviso questo silenzio con duecento studenti. Ieri ho incontrato uno di questi studenti. Per un momento, è riaffiorato tutto. [/blockquote]

Così Ron Jones comincia il racconto del suo esperimento, un esperimento che gli costerà la carriera e nel contempo lo renderà famoso in tutto il mondo.

Siamo nell’aprile del 1967 e il professor Jones tiene il corso di Storia Contemporanea alla Cubberley High School di Palo Alto, in California. Durante la spiegazione sull’instaurarsi del nazismo in Germania, uno degli studenti chiede come sia possibile che il popolo tedesco abbia sempre sostenuto di non sapere nulla sulle atrocità compiute dai nazisti. Come hanno potuto cittadini, ferrovieri, insegnanti, medici sostenere di non sapere nulla sui campi di concentramento e sui massacri. Come hanno potuto persone i cui vicini di casa o addirittura i cui amici erano cittadini ebrei affermare che semplicemente non erano presenti quanto tutto ciò è accaduto. È una buona domanda, a cui il professor Jones non sa rispondere. Per questo motivo decide di utilizzare una settimana di lezioni per esplorare la questione e trovare una risposta adeguata.

La forza attraverso la disciplina

Il lunedì seguente, Ron Jones decide di introdurre nella classe uno dei concetti chiave del nazismo: la disciplina. Spiega la bellezza della disciplina, l’esercizio, la perseveranza, il controllo. Il trionfo. Successivamente, ordina alla classe di esercitarsi su una specifica postura da adottare seduti al banco, per mantenere la concentrazione e rafforzare la volontà. Piedi paralleli e piatti sul pavimento, caviglie ferme, ginocchia piegate a novanta gradi, schiena dritta, mento verso il basso, testa in avanti. Gli alunni si impegnano a fondo, seguono le direttive, fino a diventare perfettamente istruiti su come alzarsi e sedersi in cinque secondi senza fare alcun rumore.

Ron Jones si chiede il perché di tale rispetto per una norma imposta: fino a quanto può spingersi? Il desiderio di disciplina e uniformità è un bisogno innato?

Nell’ultima mezz’ora di lezione il professore aggiunge nuove regole di comportamento: gli studenti possono parlare solo mettendosi a lato del banco, introducendo ogni affermazione con “Mr. Jones”. Le risposte devono essere date in massimo tre parole. Chi sbaglia deve ripetere l’azione finché non viene svolta secondo le norme. L’insegnante nota come la classe sia più attenta, esponga chiaramente i contenuti richiesti, l’ambiente autoritario è maggiormente produttivo. Dove sta portando questo esperimento? Carl Rogers, esponente di una metodologia non direttiva in psicoterapia e figura molto apprezzata da Mr. Jones, si è forse sempre sbagliato?

La forza attraverso la comunità

Martedì il professor Jones entra in classe e trova gli alunni nella posizione insegnata il giorno precedente: alcuni sorridono, consapevoli di aver compiaciuto l’insegnante, altri sono tesi e rigidi. Inizia la lezione, viene spiegato il valore della comunità. Mr. Jones tra sé si domanda se continuare l’esperimento o interromperlo. Nel frattempo, parla del sentirsi parte di un insieme, di un movimento, del soffrire insieme e del lavorare per uno scopo comune. La classe ripete il motto: “la forza attraverso la disciplina, la forza attraverso la comunità”.

Perché gli studenti accettano questo modello di autorità? Quando e come potrà finire? Sono parte di questo esperimento. Mi piace vedere gli studenti così uniti. Mi piace vederli soddisfatti e eccitati di poter fare di più. Sto seguendo il gruppo più che dirigerlo.

Il professore crea un saluto esclusivo per gli studenti. Il braccio destro davanti, la mano leggermente curva, a mimare un’onda. Il movimento ha un nome: la Terza Onda, la più grande della catena di onde che si muove fino a riva. Alcuni ragazzi dalle altre classi chiedono di potersi unire al movimento.

 

L’ARTICOLO CONTINUA DOPO IL VIDEO

“L’Onda”, film del 2008 tratto dalla storia dell’esperimento

La forza attraverso l’azione

Mercoledì, terzo giorno. 13 studenti di altri corsi cominciano a seguire le lezioni di Storia Contemporanea per potersi unire all’esperimento. Ron Jones spiega l’importanza dell’azione, la bellezza del prendersi la responsabilità dei propri gesti e del fare qualsiasi cosa necessaria per proteggere la propria comunità. Alla fine della lezione, agli studenti viene dato il compito di ideare il simbolo della Terza Onda, ma non solo. Il professore chiede di imparare i recapiti di tutti i membri del movimento a memoria, di convincere 20 bambini delle scuole elementari a sedersi come loro, di indicare nuovi possibili membri per il movimento. Infine, vengono stabilite procedure di iniziazione per i nuovi membri.
A fine giornata duecento studenti si uniscono alla Terza Onda.

Mi sento molto solo e piuttosto spaventato.

Tre studentesse raccontano ai genitori cosa sta accadendo durante le lezioni di Ron Jones. Il padre di uno di queste, che è un rabbino, telefona al professore, il quale spiega tranquillamente che si tratta di un esperimento sulla personalità della popolazione tedesca. Il rabbino si rincuora e dice all’insegnante di non preoccuparsi e di continuare l’esercitazione.
Alla fine del terzo giorno la situazione si fa preoccupante. Mr. Jones è esausto, non distingue i limiti tra finzione e realtà. Uno degli studenti ritenuti più anonimi si propone per fargli da guardia del corpo: ha finalmente un ruolo, è parte di qualcosa, il professore non può dirgli di no.

La forza attraverso l’orgoglio

Al quarto giorno, Ron Jones decide di porre fine all’esperimento. Dire semplicemente che si tratta di un gioco sarebbe troppo destabilizzante, così viene adottata un’altra strategia: una mossa inaspettata. L’insegnante comincia la lezione parlando dell’orgoglio, ma dopo poco decide di rivelare la reale natura della Terza Onda.
La Terza Onda non è solo un esperimento o un’esercitazione di classe. È molto più importante di questo. La Terza Onda è un programma nazionale per ricercare studenti in grado di lottare per un cambiamento politico in questa nazione.
Il professore rivela agli studenti che il programma sarà reso pubblico il giorno seguente, con un messaggio in diretta televisiva rivolto agli oltre 1000 gruppi di giovani coinvolti in tutto lo stato.

 

La forza attraverso la comprensione

Il venerdì l’auditorium della scuola è pieno di studenti e di conoscenti di Ron Jones che si fingono inviati della stampa. Poco prima del collegamento con il fantomatico responsabile del movimento Terza Onda, il professore ripete per l’ultima volta il saluto e il motto insegnato, prontamente seguito dagli studenti. Alle 12:05, si accende un grande schermo. Per due minuti tutti fissano una parete bianca. D’un tratto, qualcuno protesta e inizia a chiedere dove sia il suo leader.

Non c’è alcun leader! Non c’è alcun movimento nazionale giovanile chiamato la Terza Onda. Siete stati usati. Manipolati. Non siete né meglio né peggio dei tedeschi nazisti che abbiamo studiato.
Successivamente, viene mostrato agli studenti un documentario sul Terzo Reich e sulle azioni commesse durante il nazismo. Infine, il professor Jones tenta di spiegare la natura e lo scopo dell’esperimento.

Abbiamo visto che il fascismo non è qualcosa che qualcuno fa e qualcuno no. No. È proprio qui. In quest’aula. Nelle nostre personali abitudini e nel modo di vivere. Grattate la superficie e appare. Qualcosa in ciascuno di noi. Ce lo portiamo dentro come una malattia. La consapevolezza che l’essere umano è per natura malvagio e quindi incapace di agire per il bene degli altri. Una consapevolezza che richiede un leader forte e disciplina per preservare l’ordine sociale. E c’è dell’altro. La necessità di una giustificazione.

Nel periodo successivo, nessuno parlò più del movimento della Terza Onda, descritto dallo stesso Ron Jones soltanto alcuni anni dopo, in un saggio del 1972. Ad oggi, non possiamo evitare di fare parallelismi con alcune realtà tragicamente protagoniste della cronaca attuale. Quello che invece è impossibile condividere è la generalizzazione proposta da Jones in conclusione alla narrazione degli eventi dell’aprile 1967.

Durante l’esperimento, il professor Jones aveva 25 anni e i suoi studenti circa 15. Gli stessi studenti gestiscono ad oggi un sito internet interamente dedicato alla Terza Onda, dove affermano di non aver parlato di questi fatti fin da subito perché nessuno gliel’avrebbe chiesto e allora erano piuttosto impegnati. Ad oggi sono uomini e donne con le loro carriere e le loro famiglie, sparsi per il mondo come chiunque altro. Non sembrano esserci dati relativi a vissuti negativi in seguito all’esperimento. Ma qualcuno ha sempre negato di avervi preso parte.

Il destino è un tassista abusivo di Luca Manzi (2012) – Letteratura e Psicologia

Uscito quasi in sordina nel 2012, il romanzo d’esordio di Luca Manzi merita di essere ri-scoperto per moltissimi ottimi motivi. Il primo è ovviamente la vis comica. Straniante, spiazzante, fuori dagli schemi. Sorge da situazioni e momenti imprevedibili.

C’è poco da dire: ad avviso del recensore questo è il più grande romanzo umoristico italiano degli ultimi anni.

Come si fa a riconoscere un capolavoro dell’umorismo da un semplice libro divertente? Il semplice libro divertente, dopo avervi strappato qualche risata (magari anche tante risate), viene infilato nella libreria accanto ai romanzi di Montalbano e a quelli di Montalbán, a prendere polvere per l’eternità. Il capolavoro rimane in vista e a portata di mano, perché ogni tanto vi torna la voglia di rileggere quel passo in cui succede quella certa cosa. Continua a piacervi e a procurarvi piacere ogni volta che l’occhio torna a scorrere le battute più brillanti. Pochissime volte si ama un libro umoristico fino a questo punto. Per qualcuno può trattarsi dei racconti di Woody Allen, per un altro la Guida galattica per autostoppisti, per altri ancora… ecco, sì, proprio quello che avete in mente. Il destino è un tassista abusivo è uno di questi capolavori.

Uscito quasi in sordina nel 2012, il romanzo d’esordio di Luca Manzi merita di essere ri-scoperto per moltissimi ottimi motivi. Il primo è ovviamente la vis comica. Straniante, spiazzante, fuori dagli schemi. Sorge da situazioni e momenti imprevedibili. La descrizione dello sciogliersi di un frollino nel latte, la rievocazione del concerto BWV 1052 di Bach, la crudeltà di un boss balcanico, una cupola di Borromini, un seminario di sociologia: tutto questo può nascondere un’esplosione di comicità folle e amara. Perché il segreto del Destino è anche nella capacità di rendere la risata un atto esistenzialista (e qualche volta situazionista).

Un secondo motivo di interesse del romanzo consiste nella sua capacità di descrivere l’esistenza quieta ma non ancora rassegnata della generazione dei precari, senza retorica e senza facili effettacci. I protagonisti, sia maschili che femminili, sono coscienti di un orizzonte plumbeo che incombe su di loro e sono preparati ad affrontare momenti grami; ma non perdono per questo la loro capacità di assorbire ogni colpo con autoironia. Ma la battuta non finge una falsa impermeabilità ai problemi: è sempre superamento dell’istante e attesa del prossimo ostacolo. Non ci sono eroi o supereroi, e neanche quegli Edipi appollaiati sulla spalla da ebrei newyorkesi, ormai saturati dal Lamento di Portnoy. Ogni personaggio trasuda umanità autentica, sia quella del romano che vive al Quadraro vicino al Parco degli Acquedotti o quella del milanese che gravita illuso intorno all’università.

L’appassionato di psicologia, però, verrà catturato soprattutto dalla descrizione delle relazioni nevrotiche tra i principali personaggi. Giorgio Correnti, colui che mai abbandona la scena, è un ricercatore (ovviamente non strutturato) moderatamente ossessivo. Questo tipo psicologico è di norma efficiente in un lavoro di ricerca: controlla i suoi risultati come la sua prosa; non trascura i particolari; non azzarda interpretazioni se non è completamente sicuro che siano sostenibili. Meno a proprio agio si muove in campo sentimentale. La donna della quale Giorgio si innamora, Agnese (una studentessa) è da parte sua una tipica isterica della nuova generazione. Si infatua di personaggi apparentemente non disponibili, salvo ritrarsi nel momento in cui il rapporto con il partner prescelto è concretamente possibile o addirittura rischia di incanalarsi sui binari della stabilità. Però, al contrario dell’isterica di epoca freudiana, non si preclude la sessualità ed anzi può viverla con una certa scioltezza, salvo quando sembra profilarsi la possibilità di un appagante reciproco abbandono. Per conseguenza, se Giorgio viene visto da Agnese come il docente irraggiungibile può essere desiderato, ma se si innamora veramente rischia di perderla. E di perdersi, perché, da buon ossessivo, tenderà a sovrainterpretare ogni segnale che viene dall’altra. La quale, da buona isterica, non starà certo a porsi il problema di una vera e propria strategia nell’emettere segnali, dato che la contraddizione interna nel comunicare è parte della sua natura.

Il professore con il quale Giorgio stabilisce finalmente un rapporto di collaborazione significativo, Zanbesi, è a sua volta un ossessivo, con quelle leggere punte paranoiche tipiche di (quasi) ogni ordinario della nostra Università. D’altronde, com’è noto, nell’ambiente universitario le difese paranoidi non sono difese primitive, ma altamente adattive. Ognuno dei due ossessivi vedrà riflessi i propri pregi e i propri difetti nell’altro. Si sprigionerà in modo inerziale una tipica e “sana” ambivalenza da rapporto padre-figlio/maestro-allievo. La voglia di Zanbesi di aiutare Giorgio è bilanciata dall’esistenza di una serie di regole non scritte dell’Accademia che vedono l’anzianità prevalere sulla brillantezza. Zanbesi ha allievi più anziani di Giorgio e non può o non vuole violare le regole che egli stesso ha contribuito a scrivere. Giorgio, da parte sua, ammira il grande studioso e accetta con gratitudine i suoi apprezzamenti ma non riesce ad adattarsi all’idea che gli venga preferito un mediocre.

Gli amici di Giorgio sono a loro volta prigionieri di schemi cognitivi dai quali non riescono a evadere: schemi che possono portarli al fallimento ma anche risultare paradossalmente efficaci proprio nell’istante della disperazione. Franco pensa che un atteggiamento da macho rappresenti l’unica possibilità di affermarsi in un mondo nel quale le opportunità sembrano venire solo dalla malavita; ma questo modo di proporsi è perdente nel rapporto con la moglie che, alla fine, è l’unica donna che veramente gli interessi. Davide trova del tutto possibile che la ragazza della quale è innamorato possa, in ultima analisi, non esistere. La sua debolezza diventa, però, il suo massimo punto di forza. Corrado vive la sua omosessualità con un certo equilibrio; salvo rivelarsi un narcisista covert, del quale è meglio essere amico che subire una vendetta.

L’autore del romanzo, Luca Manzi, già creatore di “Boris”, produttore televisivo, spin doctor per politici italiani di rilievo, docente alla Cattolica di Milano, ha scritto, tra l’altro, una sceneggiatura con David Seidler (che vinse il premio Oscar per Il discorso del re). Negli ultimi tempi è stato anche regista teatrale e televisivo. Chi scrive, però, si augura che torni al più presto a scrivere un romanzo. Se non è chiedere troppo, il seguito di Il destino è un tassista abusivo.

Superbetter: la piattaforma di giochi online per avere una vita gamefull contro ansia e depressione

Secondo McGonigal, ideatrice di Superbetter,  è possibile apprendere, potenziare e modificare strategie di coping e aspetti di resilienza, utili nella vita quotidiana, adottando una mente “gamefull”, ovvero seguendo un approccio alle situazioni simile a quello utilizzato all’interno dei giochi.

[blockquote style=”1″]L’opposto del gioco non è il lavoro. È la depressione. [/blockquote]

 

Il gioco dal punto di vista delle neuroscienze

Così afferma Brian Sutton-Smith, psicologo che dagli anni cinquanta si è dedicato allo studio dei processi sottostanti l’esperienza del gioco. Occupandosi sia di adulti sia di bambini, egli osservò che le persone, mentre giocano, provano un innalzamento dell’autostima, dell’energia e delle emozioni positive. Tutte caratteristiche, queste, che si trovano ridotte negli individui con umore deflesso.

Tali considerazioni vennero fatte quando ancora non c’erano le strumentazioni tecnologiche che oggi permettono di effettuare studi accurati sul cervello. Sfruttando le innovazioni, ricercatori hanno calato le intuizioni dell’autore nella modernità, utilizzando tecniche di neuroimmagine per indagare cosa avviene a livello cerebrale durante l’utilizzo di videogiochi e arrivando a fornire un supporto neurologico evidente alla sua originaria affermazione. A titolo esemplificativo, Lorenz e collaboratori (Lorenz, Gleich, Gallinat e Kühn, 2015), con l’impiego della risonanza magnetica funzionale (fMRI), hanno dimostrato che durante il gioco si attivano in particolare, stimolate costantemente e ad alta intensità, due importanti aree cerebrali: il “sistema ricompensa”, associato alla motivazione e alla gratificazione, e l’ippocampo, collegato all’apprendimento e alla memoria.

La cosa interessante è che queste due zone sono, invece, ipoattivate nelle persone con depressione (Naranjo, Tremblay e Busto, 2001) e che, negli episodi più gravi, possono anche rimpicciolirsi. Queste ultime condizioni, infatti, portano gli individui da un lato a non visualizzare alcun tipo di possibilità davanti a loro, determinando sintomi di mancanza di volontà e di voglia nell’agire, e, dall’altro, a difficoltà nello sviluppare e nell’imparare strategie adatte ad affrontare i problemi quotidiani. In poche parole, la persona non si sente né capace né spinta a fare.

 

Gli effetti benefici del gioco e la nascita di Superbetter

Da tutte queste considerazioni prende spunto il lavoro della game designer Jane McGonigal (2015). L’idea da cui parte è che ci si possa allenare ad affrontare la vita quotidiana con la stessa modalità con cui si intraprende una sfida in un gioco, basata sull’ottimismo e sulla consapevolezza di poter superare gli ostacoli. Richiamando i lavori di Martin Seligman (2011), caposaldo della psicologia positiva, è arrivata a ipotizzare che i videogiochi siano in grado di generare quelle caratteristiche che portano un miglioramento nello stato mentale delle persone e nell’efficacia produttiva e strategica. Tali aspetti, che sono stati identificati dallo stesso Seligman con l’acronimo PERMA, sono fondamentali non solo per incrementare il proprio benessere ma anche per avere un impatto positivo sul mondo che ci circonda. Essi sono:

– emozioni positive (Positive emotions), collegate al senso di soddisfazione e di autostima positiva;
– coinvolgimento (Engagement), cioè essere assorti in un compito e provarne piacere;
– relazioni sociali (Relationship) positive e adeguate;
– significato (Meaning), come senso personale di motivazione generale, di scopi da perseguire;
– realizzazione (Accomplishment) personale, scaturita dalla consapevolezza di aver raggiunto qualcosa.

Secondo McGonigal (2015) è possibile apprendere, potenziare e modificare strategie di coping e aspetti di resilienza, utili nella vita quotidiana, adottando una mente “gamefull”, ovvero seguendo un approccio alle situazioni simile a quello utilizzato all’interno dei giochi.

Il suo programma Superbetter, nato nel 2015, ha visto la creazione di una piattaforma online che funge da palestra mentale di tipo gamefull, che permette, per l’appunto, di adottare una modalità di vita gamefully, portando nel reale quei punti di forza che caratterizzano il virtuale, come la creatività, la determinazione, la flessibilità nell’uso di strategie, la collaborazione.

Il programma Superbetter nasce da un’esperienza difficile di McGonigal. A causa di una commozione cerebrale, infatti, l’autrice è stata costretta per mesi a un’esistenza quasi priva di stimoli, cadendo in uno stato depressivo costellato, come afferma la stessa, da ideazioni suicidarie. Per superare questa fase, ha tramutato la riabilitazione in un game secondo un vero e proprio processo di gamification, ovvero immergendosi in questa esperienza come eroina, considerando elementi della quotidianità come obiettivi e sfide, identificando premi e ricompense, programmando alleanze con altri “personaggi”, definendo i nemici da combattere (nel suo caso fattori inerenti il trauma). Una volta ristabilita, ha voluto condividere la sua esperienza, dando la possibilità a tutti di trasformare le proprie difficoltà in un game. Durante gli ultimi cinque anni, McGonigal si è dedicata alla ricerca, testando l’ipotesi secondo cui persone con ansia, depressione e traumi cerebrali, attraverso il gioco possano apprendere nuove modalità di pensare e di affrontare i problemi quotidiani, trovando risultati importanti.

 

Studi hanno infatti dimostrato che un addestramento all’approccio gamefull è correlato a riduzione di ansia e depressione, a un aumento dell’autostima e dell’efficacia e a un miglioramento generale dell’umore in persone con sintomatologia depressiva (Roepke, Jaffee, Riffle, McGonigal, Broome e Maxwell, 2015) e con traumi cerebrali di media entità (Worthen-Chaudhari, Logan, McGonigal, Yeates e Mysiw, 2015).

Concludendo, il progetto Superbetter ci mostra come diversi modi di approcciarsi alla quotidianità e alle relative difficoltà conducano a differenti esiti, sia sul piano del risultato pratico sia su quello del benessere psico-fisico personale. Il tramutare i problemi in sfide e gli ostacoli in nemici da affrontare, il reperire ricompense per aumentare la motivazione, il creare relazioni interpersonali quali alleanze, insomma, il vivere con una mentalità gamefull, può effettivamente aprire un nuovo circolo virtuoso dove stati personali positivi si mantengono autorafforzandosi e autorigenerandosi.

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