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Alimentazione Selettiva: una fase dello sviluppo normale oppure un disturbo? Quando e come è opportuno intervenire?

L’alimentazione selettiva descrive il comportamento di bambini che limitano la loro alimentazione ad una gamma ristretta di cibi preferiti, rifiutandosi di mangiare altri cibi conosciuti o di assaggiarne di nuovi.

Federica Rossi, Francesca Casero e Roberta Porta – Open School Studi Cognitivi

 

L’alimentazione rappresenta un aspetto fondamentale dello sviluppo infantile, tanto da poter essere considerata una linea evolutiva verso l’affermazione dell’autonomia. È proprio all’interno dell’interazione madre-bambino durante l’allattamento, lo svezzamento e la transizione verso l’alimentazione autonoma che si colloca, infatti, l’acquisizione di abilità di auto-regolazione e di interazione sociale.

Grazie all’interazione con il caregiver durante il momento dei pasti, in parallelo con lo sviluppo di capacità cognitive e motorie e la sempre maggiore differenziazione della vita affettiva, il bambino inizia a sperimentare la propria autonomia anche in campo alimentare.

È proprio all’interno di tale percorso evolutivo che si osservano le prime forme di difficoltà alimentari. Nella maggior parte dei casi esse sono transitorie, in quanto rappresentano l’espressione di difficoltà evolutive temporanee, di lieve entità e tendono a risolversi spontaneamente in tempi rapidi (Sameroff, Emde, 1989). In altri casi, le anomalie che si osservano possono persistere nel tempo e assumere un carattere di disfunzionalità, tale da configurarsi come veri e propri Disturbi del Comportamento Alimentare o dei loro potenziali precursori.

Un ruolo di primaria importanza nell’origine e mantenimento di pattern alimentari anomali sembrano svolgere alcuni comportamenti errati e maladattivi da parte dei genitori. Diversi studi, infatti, hanno messo in luce alcuni aspetti disfunzionali della relazione genitori-figlio che possono rendere difficili i processi di mutua regolazione e di autonomizzazione del bambino durante l’esperienza dell’alimentazione (Ammaniti et al., 2004, Chatoor et al., 1997).

Tra i vari aspetti che concorrono all’eziopatogenesi delle difficoltà alimentari in età evolutiva, la letteratura evidenzia inoltre anche il ruolo dell’imitazione di pattern alimentari disfunzionali in famiglia o nel gruppo dei pari, oltre a fattori di natura genetica come una specifica ipersensibilità sensoriale (Scaglioni et al., 2011).

Il ruolo del fattore percettivo nello sviluppo di un fenomeno come l’alimentazione selettiva si evince dalle diverse fasi dello sviluppo alimentare normale: durante il primo anno di vita, dopo lo svezzamento, i bambini imparano ad apprezzare i cibi ai quali vengono esposti frequentemente, sulla base di informazioni di tipo visivo, gustativo, di consistenza. L’informazione sensoriale non è ancora integrata in una visione unitaria, per cui la familiarità di un alimento si basa sui dettagli sensoriali, senza capacità di integrazione o generalizzazione (es. il “biscotto” è solo quello fatto in un certo modo).

Intorno ai 18-20 mesi di vita, con lo sviluppo della tendenza esplorativa, si colloca la fase nota come ‘neofobia‘, durante la quale i cibi che non vengono considerati come sicuri, ovvero quelli non riconosciuti come familiari, perché nuovi oppure perché presentati in una modalità non riconosciuta come nota, possono elicitare una risposta di disgusto. Tale reazione assume un valore adattivo, proteggendo il bambino dall’assunzione di cibi tossici durante l’esplorazione. Generalmente, la fase della neofobia termina entro il terzo anno di età e solo raramente dura fino ai 5 anni. Progressivamente, i bambini iniziano a imitare il comportamento dei coetanei e ad avere una visione più integrata del cibo, cosi come degli oggetti in generale (es. includono nella categoria ‘biscotto’ diverse forme, colori, consistenze).

Tuttavia alcuni bambini manifestano atteggiamenti neofobici ad un livello eccessivo e persistente durante lo sviluppo. Tali reazioni sembrano ritrovarsi con maggiore frequenza in bambini che presentano ipersensibilità agli stimoli sensoriali, principalmente quello visivo e olfattivo, e che presentano un pattern alimentare che può essere assimilato a quello dell’alimentazione selettiva (Harris, 2012).

Cosa si intende per Alimentazione Selettiva?

Cosa si intende per Alimentazione Selettiva? È una fase dello sviluppo normale, un precursore dei disturbi alimentari infantili oppure è essa stessa un disturbo? Quando e come è opportuno intervenire?

Avete un bambino che mangia solo cibi di colore giallo come pasta o formaggio, mentre strilla ogni volta che gli mettete nel piatto dei piselli o delle carote? Potreste avere a che fare con un bambino con alimentazione selettiva.

Una percentuale tra il 14% e il 20% dei genitori di bambini in età pre-scolare (2-5 anni di età) riferisce infatti che i loro figli appaiono spesso o sempre selettivi nelle loro scelte alimentari.

Con l’espressione ‘Alimentazione Selettiva‘ si descrive il comportamento di bambini che limitano la loro alimentazione ad una gamma ristretta di cibi preferiti, rifiutandosi di mangiare altri cibi conosciuti o di assaggiarne di nuovi. Mangiano cinque o sei cibi differenti, spesso carboidrati come pane, patate fritte o biscotti. Quando il genitore tenta di ampliare la gamma di cibi il bambino reagisce con ansia e disgusto e può manifestare sforzi di vomito.

Molti bambini possono rifiutare il cibo in base a caratteristiche sensoriali come il gusto, l’odore, il colore o la consistenza, e la richiesta d’aiuto è solitamente motivata dall’impatto che il fenomeno ha sul funzionamento sociale del ragazzino, come feste di compleanno, gite scolastiche o cene di classe. Generalmente, questi bambini presentano un peso ed un’altezza adeguati all’età e non manifestano preoccupazioni per il peso o la forma del corpo. Nella maggior parte dei casi il bisogno di adeguarsi al gruppo in adolescenza porta a una risoluzione spontanea del problema.

Secondo McCormick & Markowitz indicatori utili a identificare bambini con alimentazione selettiva potrebbero essere i seguenti comportamenti tipici:

  • Il bambino mangia solo i cibi preferiti
  • Si distrae mentre mangia, manifesta scarso interesse per il cibo
  • Assume alcuni alimenti solamente se “nascosti” all’interno di cibi o bevande preferiti
  • Consuma il pasto con lentezza e raggiunge velocemente la sazietà

Ad oggi, non esiste in letteratura una definizione univoca e universalmente accettata del fenomeno dell’alimentazione selettiva, anche a causa della varietà di termini utilizzati dai vari studiosi per descriverlo, tra cui picky eating, fussy eating, choosing eating e faddy eating. Risulta difficile, di conseguenza, anche valutarne la presenza e gravità (Taylor et al., 2015).

Un criterio spesso utilizzato in letteratura è quello che identifica di rilevanza clinica un pattern di alimentazione che comporta difficoltà o rallentamento nello sviluppo psicofisico e carenze nutrizionali, oltre a difficoltà relazionali all’interno della famiglia. (Mitchell et al., 2013; Chatoor & Ganiban, 2003).

 

Definizione di alimentazione selettiva

Tali aspetti emergono con evidenza nelle diverse definizioni fornite dalla letteratura:

  • Consumo di una varietà inadeguata di alimenti come conseguenza del rifiuto di un’ampia gamma di cibi familiari, così come di quelli sconosciuti. Tale selettività può comportare una forma di neofobia per il cibo, oltre al rifiuto per cibi con specifiche caratteristiche sensoriali.
  • Ridotto apporto di cibo, soprattutto di verdura, e rigide preferenze alimentari, che portano i genitori a preparare il pasto del bambino separatamente rispetto a quello del resto della famiglia.
  • Rifiuto di assumere cibi conosciuti o di assaggiarne di nuovi, abbastanza grave da compromettere il funzionamento e la routine quotidiana ad un livello che può risultare problematico per il bambino, i genitori o la loro relazione.
  • Consumo di una insufficiente quantità o varietà di cibo come conseguenza del rifiuto di alcuni alimenti.
  • Numero limitato di alimenti nella dieta, rifiuto di assaggiare cibi non conosciuti, scarso apporto di verdura o di altre categorie alimentari, rigide preferenze alimentari e richiesta di una modalità particolare di preparazione dei cibi.

 

Aspetti clinici dell’ alimentazione selettiva

La rilevanza clinica dell’alimentazione selettiva sembra dunque riguardare soprattutto le conseguenze di tale condotta alimentare. Mentre infatti un atteggiamento sospettoso e selettivo nella scelta dei cibi può avere avuto, a livello evolutivo, una funzione adattiva nella prima infanzia nel ridurre il rischio di assumere tossine, successivamente può rappresentare invece un limite ad una dieta variata, con conseguenti carenze a livello nutritivo.

Nonostante alcuni studi riportino una maggiore assunzione di alimenti altamente energetici, come dolci o snack, tra i bambini con alimentazione selettiva, la maggior parte evidenzia però una globale riduzione dell’apporto alimentare e un’alterazione della composizione nutrizionale della dieta, sottoforma di mancanza di varietà, ridotto apporto energetico, scarsa assunzione di frutta e verdura, carenza di vitamine e minerali, minore assunzione di fibre vegetali e cereali integrali. A ciò sembrerebbe associato un maggiore rischio di sottopeso e di ritardo nella crescita, così come di sovrappeso o di sviluppo di un vero e proprio disturbo della condotta alimentare (Bachmeyer, 2009).

Sembrerebbe, inoltre, che bambini con alimentazione selettiva presentino frequentemente un’ipersensibilità tattile e gustativa e siano maggiormente a rischio di sviluppare sintomi psichiatrici (ansia generalizzata, ansia sociale, sintomi depressivi) sia come co-diagnosi, sia durante tutto l’arco di vita. A ciò si aggiungerebbe un maggiore rischio di stress nel caregiver e di effetti negativi sulle relazioni familiari e sociali (Zucker et al., 2015).

Alimentazione Selettiva e DSM- 5

Nel DSM-5 (Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders), il ‘Disturbo Evitante/Restrittivo dell’assunzione di cibo‘ (Avoidant/restrictive food intake disorder- ARFID) sembra essere quello che meglio descrive la rilevanza clinica dell’alimentazione selettiva. Tale categoria diagnostica si sostituisce al Disturbo della nutrizione nell’infanzia o prima giovinezza (FD) descritto nel DSM-IV TR. A differenza di quest’ultimo, esso non fa riferimento a un periodo dello sviluppo limitato, con il vantaggio di poter essere diagnosticato durante tutto l’arco di vita.

Inoltre, la compromissione del funzionamento nella versione più recente non si limita a parametri di peso e sviluppo fisico, ma si estende anche a valutare eventuali carenze nutrizionali dovute ad un’alimentazione selettiva esagerata.

Criteri diagnostici:

  • A- Una anomalia dell’alimentazione e della nutrizione (ad es. assenza di interesse per l’alimentazione o per il cibo; evitamento basato sulle caratteristiche sensoriali del cibo) che si manifesta attraverso una persistente incapacità di assumere un adeguato apporto nutrizionale e/o energetico associata con una o più delle seguenti:
    • 1) Significativa perdita di peso o nei bambini incapacità a raggiungere il peso relativo alla
      crescita.
    • 2) Significativa carenza nutrizionale
    • 3) Dipendenza dalla nutrizione enterale o da supplementi nutrizionali orali.
    • 4) Marcata interferenza col funzionamento psicosociale.
  • B- Il disturbo non è connesso con la mancanza di cibo o associato a pratiche culturali.
  • C- Il disturbo non si manifesta esclusivamente nel corso di anoressia o bulimia nervosa e non vi è evidenza di anomalia nel modo in cui è percepito il peso e la forma del proprio corpo.
  • D- L’anomalia non è meglio attribuibile a una condizione medica o ad un altro disturbo mentale. Se il disturbo alimentare si manifesta nel corso di un altro disturbo, la sua importanza supera quella del disturbo di base e richiede attenzione clinica.

Alimentazione Selettiva: quando e come è opportuno intervenire?

Per comprendere e trattare i disturbi e le difficoltà alimentari nella clinica psichiatrica e psicologica dello sviluppo nella prima infanzia si fa attualmente riferimento a un modello transazionale, bio-psico-sociale e multifattoriale (Ammaniti, 2010). L’eziopatogenesi dell’alimentazione selettiva è multifattoriale e può essere di origine medica, biologica, psicologica, ambientale e anche derivante dall’interazione di più fattori.

Lo sviluppo di un comportamento alimentare selettivo può derivare da fattori come la pressione a mangiare (Gregory et al., 2010; Powell et al., 2011; Haycraft et al., 2012), alti livelli di emozionalità negativa nel bambino o nel genitore (Hafstad, 2013), maggiore sensibilità agli stimoli sensoriali da parte del bambino (Farrow et al., 2012), ma anche da stili o pratiche legate all’alimentazione, incluso il controllo genitoriale (Morrison et al., 2013) o da fattori più specifici come l’assenza di un allattamento al seno o l’introduzione di un’alimentazione complementare prima dei 6 mesi (Shim, Kim, Mathai et al., 2011). E’ perciò importante riconoscere questa problematica fin dalla più tenera età, per supportare la crescita, un apporto alimentare adeguato e delle interazioni bambino – genitore che possano favorire uno sviluppo sano ed armonico (Mitchell et al. 2013).

Quando un figlio inizia a manifestare un rapporto alterato con il cibo, l’intera famiglia entra in crisi, soprattutto se il bambino non è ancora in grado di parlare. L’alimentazione selettiva e il rifiuto verso nuovi alimenti genera nei genitori un profondo disorientamento. L’atmosfera familiare risente delle difficoltà legate ai momenti dei pasti e i genitori, in particolare il familiare che si occupa maggiormente dell’alimentazione del bambino, sia in termini di preparazione dei piatti sia di presenza durante il pasto, inizia a provare emozioni negative che non sempre aiutano nella risoluzione del problema.

L’ansia riguarda il fatto che i bambini non ricevano un’adeguata nutrizione sia in termini di quantità che di varietà. La rabbia manifestata nei continui conflitti durante i pasti viene legata al senso di frustrazione per i continui rifiuti dei figli verso nuovi alimenti. Elevata è inoltre l’impotenza che deriva dalla constatazione che tutti gli sforzi fatti per ampliare il repertorio alimentare vengono rifiutati. Spesso interviene nei genitori anche il senso di colpa, sia per le ricorrenti battaglie intraprese al momento di mangiare, sia perché iniziano a credere che possa essere il proprio modo di cucinare a causare problemi.

 

L’aiuto del medico in caso di alimentazione selettiva

Dopo aver stabilito che il proprio bambino non è solo schizzinoso, ma presenta un problema che influisce in modo importante sul suo funzionamento sociale, sulle relazioni familiari e sull’apporto equilibrato dei diversi nutrienti, è importante innanzitutto rivolgersi al medico per escludere una condizione di tipo organico (es. intolleranza verso certi alimenti, celiachia). E’ inoltre importante escludere che l’alimentazione selettiva faccia parte di un quadro più ampio di rigidità ed ipersensibilità sensoriale legata a un disturbo del neurosviluppo; diverse ricerche (Ahearn et al., 2001; Dominick et al., 2007; Cermak et al., 2010) hanno mostrato infatti che essa è spesso associata a disturbi dello spettro autistico. Sembrerebbe tuttavia che in questo caso la selettività sia ancora più restrittiva e permanente nel tempo, con periodi in cui il bambino desidera mangiare solo un alimento particolare ed escludere tutti gli altri (Tomcheck et al., 2007; Twachtman-Reilly et al, 2008).

 

L’alimentazione selettiva come manifestazione di un disagio

Dopo aver escluso queste cause, è importante interrogarsi e porre un occhio attento verso le manifestazioni del disagio del bambino, su due livelli diversi, uno più relazionale e uno più comportamentale.

Il comportamento alimentare del bambino, non può infatti essere inteso solo come qualcosa da educare o omologare, ma anche come qualcosa da comprendere. L’alimentazione selettiva, come la neofobia, potrebbero essere l’espressione di una possibile disarmonia della sfera affettiva del bambino, di una fatica, di un malessere o di una difficoltà evolutiva e hanno il valore di messaggio. È quindi importante che i genitori possano osservare, valutare lo stato emotivo del bambino e capire da quanto tempo è presente il comportamento che li preoccupa. Genitori attenti possono comprendere se si tratta di un comportamento transitorio legato a un momento di particolare stanchezza o fatica del figlio (ad esempio l’ingresso del bambino all’asilo nido, la nascita di un fratellino, il rientro della mamma al lavoro…).

Poichè l’alimentazione e il momento del pasto sono sempre inseriti in una cornice relazionale, è importante evitare usi impropri del cibo da parte degli adulti, che rischiano di fare dell’atto nutritivo uno strumento di potere. Vengono quindi sconsigliati interventi intimidatori da parte dei genitori (‘Se non mangi tutto chiamo il vigile che ti porta via’), ricattatori (‘Se non finisci la pasta dopo non potrai giocare‘) oppure mescolare il piano educativo con quello affettivo (‘La mamma piange se tu non mangi’, ‘Sei un bambino cattivo perché non mangi e fai arrabbiare mamma e papà‘ oppure ‘Se non lo mangi dopo non ti leggo la storia‘ ).

E’ utile invece includere una terza persona nell’offerta dei cibi ai bambini piccoli, rendendo possibile ai padri o ad altre persone della famiglia di entrare nel menage alimentare, introducendo modalità e dinamiche relazionali diverse. Questo accorgimento permette anche di valorizzare il pasto come momento conviviale, in cui ci si siede tutti insieme e si rispettano le regole della tavola; questo aiuta a far sì che il pasto non diventi uno scodellamento di alimenti, degradando il valore dell’atto alimentare.

All’interno di questo approccio all’alimentazione selettiva possiamo inserire diverse ricerche che indagano come alcuni pensieri e di conseguenza comportamenti dei genitori, possono influenzare le condotte alimentari del bambino.

Uno studio del 2013 (Russell et al.) ha indagato quali sono le credenze dei genitori sulle preferenze alimentari dei figli. Si è cercato di valutare se le preferenze vengono associate a caratteristiche del cibo (consistenza, gusto o odore), ad esperienze precedenti con il cibo o a caratteristiche della personalità del bambino. I risultati hanno mostrato che i genitori dei bambini più riluttanti a mangiare e più selettivi, preferivano spiegazioni legate a preferenze di gusto, che venivano considerate stabili, innate e immodificabili; questo spiegava anche la bassa autoefficacia percepita da questi genitori rispetto alla possibilità di cambiare le preferenze alimentari dei figli.

Gli autori ipotizzano che se queste famiglie credessero di avere il potere di cambiare la selettività dei loro bambini, si potrebbero creare nuove abitudini alimentari. Suggeriscono perciò di iniziare a diversificare le pietanze proposte nei colori, odori e consistenza, utilizzando gli alimenti che il bambino già mangia e rispettando le spontanee inclinazioni mostrate dai figli.

Un altro suggerimento fornito dagli autori è eliminare la pressione a mangiare, sia alta che bassa; passare dunque dall’ affermazione ‘Assaggialo e se non ti piace non devi mangiarlo‘, che però i bambini selettivi percepiscono come: ‘Se ti piace, lo devi mangiare‘ a una proposta come: ‘Assaggia questo minuscolo chicco e dimmi cosa ne pensi‘.

L’ultimo consiglio dato da Russell e Worseley è di focalizzarsi sull’educazione alimentare più che sul mangiare; esplorare il cibo è infatti più facile quando è completamente slegato dall’alimentarsi. E’importante parlare del cibo in termini di gusto, aroma, apparenza, consistenza, temperatura, suono, origine, prima che i bambini ne mettano un boccone in bocca. Più informazioni sanno, più coraggiosi saranno. Anche il cucinare insieme può essere un’attività utile; se infatti l’obiettivo non è solo quello di far mangiare al bambino ciò che è stato preparato, può aiutare i figli a prendere maggiore confidenza e familiarità con gli alimenti. Questa attività inoltre soddisfa le esigenze affettive, la spontanea curiosità del bambino, il desiderio di sentirsi grandi e importanti, l’imitazione dei genitori e anche l’appetito.

Recentemente sono stati condotti studi anche per comprendere meglio il ruolo dello stile genitoriale sui problemi di alimentazione infantile (Rigal, Issanchou et al., 2012). La ricerca riguardava la valutazione di aspetti della genitorialità durante i pasti in un campione francese di bambini di età inclusa tra i 20 e i 36 mesi attraverso un modello di regressione multivariata. Questa ricerca ha mostrato che gli stili genitoriali che determinano maggiori difficoltà alimentari (neofobia, scarso piacere associato al cibo, basso appetito e selettività) sono :

  • Lo stile di accudimento lassivo e permessivo, che soddisa tutti i desideri del bambino come preparargli solo quello che preferisce per evitare conflitti;
  • Lo stile autoritario che include pratiche coercitive ed imposizioni per forzare il bambino a mangiare un cibo rifiutato.

Comunque non si possono fare conclusioni definitive riguardo la direzione degli effetti. Non è ancora chiaro se uno stile genitoriale predice le difficoltà di alimentazione, oppure se sono queste problematiche che predicono l’uso di particolari stili genitoriali.

Osservando meglio le caratteristiche del disagio mostrato dai bambini, si è comunque arrivati a notare quanto alcuni atteggiamenti genitoriali possono svolgere un ruolo importante nella genesi e nel mantenimento della problematica.

Uno studio longitudinale del 2014 (Tharner et al.) su più di 2000 bambini americani si è proposto di individuare un profilo comportamentale dei bambini con alimentazione selettiva. I risultati hanno mostrato che i bambini che rientrano in questa categoria consumano meno quantità di alimenti come vegetali, carne, pesce, poco popolari anche tra i bambini che non hanno questo problema. Tuttavia si nutrono in modo simile agli altri bambini di alimenti quali prodotti raffinati e derivati dal grano, come cornflakes, panini,così come di latticini come lo yogurt e frutta. Dato interessante emerso da questo studio è inoltre il fatto che i bambini con alimentazione selettiva consumano maggiormente, rispetto agli altri, prodotti confezionati come biscotti, snacks o patatine.

I ricercatori si sono spiegati questo fenomeno ipotizzando che le madri di questi bambini siano maggiormente permissive nel lasciarli consumare cibi appetibili ma poco sani, per compensare il basso introito di altri alimenti.

Questo potrebbe spiegare anche la scoperta che i bambini di 14 mesi che sono selettivi non hanno un BMI alterato rispetto ai bambini di pari età. Tuttavia, come notato in diversi studi (Dubois et al., 2007; Ekstein et al., 2010) quando raggiungono l’età di 4 anni, questi bambini hanno un BMI più basso e risultano spesso in sottopeso. Questa ricerca ha mostrato anche differenze nel comportamento materno di nutrimento: le madri dei bambini più esigenti esercitano una maggiore pressione a mangiare. L’insistenza genitoriale però, oltre ad essere una reazione normale e comprensibile al rifiuto del bambino a mangiare, può avere anche un effetto controproducente sul bambino, abbassando il livello di divertimento e piacere associato al pasto; oltre a ciò la pressione da parte dei genitori a mangiare può generare ulteriore resistenza, portando i bambini a detestare proprio quei cibi (Birch et al., 1982). Le associazioni tra il modo di comportarsi dei genitori e i problemi alimentari del figlio potrebbero dunque rappresentare effetti bidirezionali di pattern comportamentali che sono stati sviluppati nel corso della prima infanzia (Kreipe et al., 2012).

Non è inusuale inoltre ritrovare che l’alimentazione selettiva o il comportamento alimentare schizzinoso corrano nelle famiglie, in parte perché questa condizione è biologicamente e geneticamente determinata, in parte perché questa condizione può essere esacerbata da triggers ambientali riguardo al comportamento alimentare.

Uno studio recente (Finestrella, 2012) ha riscontrato infatti una forte associazione tra le abitudini alimentari della madre e del figlio e tra la neofobia della madre e del figlio. Comunque l’esposizione, il modellamento e l’imitazione possono derivare anche dai pari ed essere facilitati dalla frequenza all’asilo nido o della scuola dell’infanzia (Heim et al.2009). Tuttavia gli effetti del peer modelling possono essere negativi se viene osservato rifiuto per la frutta e i vegetali (Hendy et al., 2000) e questi effetti possono essere difficili da invertire (Greenhalgh, 2009).

Un’altra importante indagine sull’alimentazione selettiva dei bambini, anche per quanto riguarda le varianti non patologiche, ha portato a concludere che i bambini tendono a richiedere circa 15 esposizioni ad un cibo prima che si fidino ad assaggiarlo (Wardle, Cornell & Cooke, 2005) ed un’altra decina di esposizioni per sviluppare una vera e propria preferenza (Wardle et al. 2003). Una ragione di ciò è legata all’espressione della neofobia, che, come già detto, è una una risposta evolutiva normale che tutti i bambini presentano intorno ai 2 anni, sviluppata per assicurare l’evitamento di cibi potenzialmente pericolosi o tossici (Dowey et al., 2008).

Perciò offrendo ripetutamente un cibo inizialmente rifiutato, i genitori giocano un ruolo cruciale nel trasformare un cibo non usuale in uno familiare, diminuendo quindi questa risposta innata. Sfortunatamente molte famiglie non sono consapevoli di questo fenomeno e non associano il rifiuto alimentare a una fase normale dello sviluppo.

Diverse ricerche su neonati di 6-9 mesi (Maier, Chabanet, Schaal, Leathwood, & Issanchou, 2007) e bambini di 2- 5 anni (Carruth & Skinner, 2000; Carruth, Ziegler, Gordon, & Barr, 2004) hanno mostrato che i genitori tipicamente rinunciano ad offrire un cibo rifiutato dopo 5 tentativi, quindi troppo presto affinché un bambino possa abituarsi.

 

Conclusioni

Si può quindi affermare che sia fattori intrinseci al bambino (temperamento, ipersensibilità sensoriale) sia elementi ambientali (pressione a mangiare, stile genitoriale, abitudini alimentari dei genitori, facile rinuncia nell’offrire cibi nuovi) contribuiscono a determinare le attitudini dei bambini sia verso i cibi familiari che non familiari. Vi è comunque la necessità di condurre future studi longitudinali per definire il ruolo della genetica, delle pratiche genitoriali di alimentazione e delle caratteristiche ambientali sull’eziopatogenesi dell’alimentazione selettiva.

Nell’attesa di giungere a una più chiara comprensione del ruolo di ogni fattore, è importante ricordare che comunque, così come vale per la maggior parte dei comportamenti umani, i genitori devono dare il buon esempio, consumando cibi vari e sani, in quanto bambini tendono ad imitare quello che vedono fare da parte di chi li circonda.

Da qui deriva l’importanza di dare una buona educazione alimentare ai genitori per primi, sia riguardo il valore nutrizionale dei cibi, sia riguardo la comprensione di alcuni comportamenti manifestati dai bambini. Va inoltre ricordato che l’emozionalità che si accompagna al momento dei pasti e il significato che viene trasmesso attraverso prima il nutrimento e poi l’alimentazione, diventano fattori imprescindibili per valutare il comportamento del bambino e darne un senso.

La gestione dei conflitti come competenza manageriale e il manager emotivamente intelligente

 

Il concetto di conflitto all’interno delle organizzazioni è notevolmente cambiato nel corso del tempo, passando da una concezione negativa ad una positiva: il modello organizzativo aziendale diffusosi negli anni Sessanta, infatti, prevedeva uno svolgimento routinario delle attività lavorative e considerava negativamente il verificarsi di conflitti; successivamente, con il mutare delle strutture organizzative, il conflitto è stato considerato come un’opportunità di confronto e di chiarimento e la capacità di gestire le situazioni conflittuali come una competenza manageriale assai importante.

Il conflitto secondo le teorie delle dinamiche dei gruppi

Lo psicologo tedesco Kurt Zadek Lewin, che fu uno dei primi studiosi ad occuparsi delle dinamiche dei gruppi e dello sviluppo delle organizzazioni, ha definito il conflitto[blockquote style=”1″] quella situazione che si determina tutte le volte che su un individuo agiscono contemporaneamente due forze psichiche di intensità più o meno uguale, ma di opposta direzione.[/blockquote]

Il conflitto intrapersonale è dunque uno stato di tensione che una persona vive nel momento in cui riscontra bisogni, desideri e motivazioni contrastanti.
Il conflitto interpersonale, invece, è uno stato di tensione che si viene a creare tra due o più individui, allorché vi siano interessi, obiettivi, bisogni e punti di vista diversi.

Partendo dal presupposto che i conflitti sono inevitabili anche e soprattutto all’interno di un’organizzazione, è importante saperli riconoscere, imparare a gestirli, mediarli in chiave positiva e considerarli come una possibilità di migliorare le relazioni piuttosto che come un problema.
Chiunque abbia lavorato o lavori all’interno di un’azienda sa benissimo che i momenti di disaccordo e di incomprensione sono numerosi e che i conflitti sono, per così dire, “fisiologici”; inoltre ogni conflitto parla, nel senso che descrive una situazione che può essere di dinamismo e cambiamento, oppure, al contrario, essere segnale di profondi problemi irrisolti.

Ciò che mi propongo in questo scritto è fornire una mappa di decodifica dei fenomeni conflittuali e delle loro cause per affrontarli nella direzione di una soluzione positiva.

Il termine “conflitto” deriva dal latino cum-fligere, ovvero urtare una cosa con un’altra; il prefisso – cum sta ad indicare che l’urto non è unilaterale, ma coinvolge almeno due parti. Il significato generale è oggi quello di scontro, urto; tuttavia i livelli, le modalità e le cause dei conflitti sono molteplici.

Il conflitto nelle organizzazioni

Il concetto di conflitto all’interno delle organizzazioni è notevolmente cambiato nel corso del tempo, passando da una concezione negativa ad una positiva: il modello organizzativo aziendale diffusosi negli anni Sessanta, infatti, prevedeva uno svolgimento routinario delle attività lavorative e considerava negativamente il verificarsi di conflitti; successivamente, con il mutare delle strutture organizzative, il conflitto è stato considerato come un’opportunità di confronto e di chiarimento e la capacità di gestire le situazioni conflittuali come una competenza manageriale assai importante.
Come già accennato, esistono diverse tipologie di conflitti: oltre ai già citati conflitti intrapersonali ed interpersonali, esistono i conflitti intergruppi (che si verificano nel caso di scontro tra gruppi di diversa appartenenza) ed intragruppi (nel caso di dispute tra soggetti appartenenti allo stesso gruppo).

Le cause del conflitto, invece, possono essere di tipo tecnico-organizzativo, oppure di tipo relazionale.
Il conflitto tecnico-organizzativo è legato alla struttura ed alle procedure da seguire e sorge ogni qualvolta non vengano assegnati ad una persona un ruolo, delle mansioni e degli obiettivi chiari e precisi.
I conflitti relazionali, invece, dipendono dal modo personale di rapportarsi con le persone con cui si lavora e sono generalmente causati da una diversità a livello personale (incompatibilità di carattere, pregiudizi, diversa cultura e diverse esperienze di vita…), da un uso non corretto degli elementi di comunicazione (equivoci, critiche, scarsa trasparenza dell’informazione), dall’impatto delle emozioni (sentimenti feriti, risentimenti passati, antichi rancori) e/o dalle motivazioni comportamentali.

Qualsiasi conflitto crea all’interno di un’organizzazione un disequilibrio, un’entropia che genera energia che può essere utilizzata in modo negativo o positivo, dando luogo, rispettivamente, a situazioni conflittuali distruttive o costruttive.
Una situazione conflittuale costruttiva porterà all’armonizzazione. Stare dentro il conflitto in modo non distruttivo, portare le emozioni ad evolvere in razionalità, riconoscere le proprie ed altrui emozioni, facendo uso dell’intelligenza e mettendo da parte la presunzione, l’aggressione e il desiderio di rivendicazione sono tutte capacità che rientrano nella competenza di gestione del conflitto, una delle competenze che in letteratura manageriale vengono definite “trasversali”. Le competenze trasversali – intese come quell’insieme di qualità professionali di un individuo in termini di conoscenze, capacità e abilità, atteggiamenti, doti professionali e personali – diventano oggi il vero valore aggiunto che un manager possa esprimere nel contesto lavorativo.

Un bravo manager (il leader) è innanzitutto colui che costruisce e mantiene buone relazioni con le persone con cui lavora. Da un’attività fortemente orientata al compito ed all’adempimento si è infatti passati ad un insieme di processi mutevoli, complessi ed in continuo divenire dove una gestione costruttiva del conflitto diventa essenziale. Un bravo manager è colui che riesce a mettere a fuoco l’importanza delle componenti emotive anche nelle funzioni razionali del pensiero, è colui che capisce che il raggiungimento dell’armonizzazione organizzativa è determinato da una complessa miscela in cui hanno un ruolo determinante fattori come l’autocontrollo, la consapevolezza di sé, la gestione delle emozioni e l’empatia. In altre parole un buon manager deve possedere una “intelligenza emotiva”.

L’intelligenza emotiva

Il termine “Emotional Intelligence” fu utilizzato per la prima volta negli anni Novanta del secolo scorso dai professori Peter Salovey e John D. Mayer che definirono l’intelligenza emotiva come [blockquote style=”1″]la capacità di controllare i sentimenti e le emozioni proprie ed altrui, distinguere tra di esse ed utilizzare queste informazioni per guidare i propri pensieri e le proprie azioni.[/blockquote]

Daniel Goleman indica sei caratteristiche che contraddistinguono coloro che fanno un buon uso dell’intelligenza emotiva: sono consapevoli di sé (questo permette di produrre risultati, riconoscendo le proprie emozioni e pensieri); riescono a dominare se stessi; sono abili nello scoprire i motivi profondi che spingono all’azione; hanno empatia; sono abili nel socializzare (ovvero sanno stare con gli altri e percepiscono velocemente i movimenti che avvengono tra le persone); possiedono buone capacità decisionali.

I manager hanno bisogno di gestire lo stato d’animo di chi lavora con loro. Chi riesce in questo difficile compito è un manager emotivamente intelligente, ovvero un leader, consapevole di sé ed empatico, in grado di leggere dentro di sé e negli altri e di regolare le proprie emozioni. Cogliendo come si sentono gli altri, forgia, di conseguenza, lo stato emotivo della propria organizzazione.

Alimenti biologici: come sono percepiti dai consumatori e quanto influisce il contesto?

L’acquisto di alimenti biologici ‘virtuosi’ come le fragole, si basa per lo più su considerazioni di gusto, mentre quello di alimenti biologici più ‘viziosi’, come i biscotti, può essere guidato maggiormente da considerazioni di carattere nutrizionale.

Il campo dell’industria alimentare biologica si è ormai espanso: la produzione spazia da prodotti freschi e cereali, a snack e condimenti, e la vendita coinvolge oltre a mercati agricoli anche supermercati.
Questa nuova varietà di prodotti biologici e la loro maggiore disponibilità ha influito sulla percezione dei consumatori? Una ricercatrice dell’Università dell’Illinois e il suo gruppo hanno disegnato un esperimento in grado di fornire indicazioni circa alcune delle variabili che possono influenzare le opinioni sugli alimenti biologici. Hanno inserito quindi il prodotto alimentare biologico nel contesto, arrivando a dimostrare che il contesto conta davvero.

[blockquote style=”1″]Le precedenti ricerche hanno spesso indagato quanto le persone sono disposte a spendere per un prodotto biologico, ma, raramente, hanno considerato il contesto in cui avvenivano tali acquisti [/blockquote]afferma Brenna Ellison, specialista di economia alimentare dell’Università dell’Illinois. [blockquote style=”1″]In questo studio, noi osserviamo come il marchio biologico interagisce con il tipo di prodotto, nonché con il contesto di acquisto al dettaglio.[/blockquote]

 

Le motivazioni alla base dell’acquisto degli alimenti biologici

Ellison e il suo team hanno condotto un esperimento in cui 605 persone hanno valutato il gusto del prodotto alimentare prescelto, il suo valore nutritivo, la sicurezza, e la probabilità di acquisto. I prodotti erano fragole e biscotti al cioccolato, venduti da un brand fittizio chiamato Cam’s. Nell’esperimento, i prodotti erano o biologici o non-biologici e venduti in un supermercato, alternativamente o Walmart o Target. Ogni partecipante valutava solo una delle otto possibili combinazioni.

[blockquote style=”1″]Abbiamo scelto fragole e biscotti perché questi prodotti rappresentano, rispettivamente, una ‘virtù’ e un ‘vizio’ ed entrambi sono correntemente disponibili nei mercati, in forma sia biologica sia non-biologica. Abbiamo scelto Walmart e Target perché i due negozi hanno prezzi simili, ma un’immagine del brand molto diversa: Target si è imposto sul mercato come un negozio all’insegna di stile, design, e ambizione; Walmart, al contrario, è visto come un marchio a basso prezzo[/blockquote] spiega Ellison.

Gli alimenti biologici sono generalmente valutati meglio rispetto ai non-biologici, ma i ricercatori hanno trovato un’interessante interazione tra il marchio biologico e tipo di prodotto. Ad esempio, come descrive Ellison: [blockquote style=”1″]Le fragole biologiche hanno una valutazione gustativa attesa più alta rispetto a quelle non-biologiche, mentre non differiscono le valutazioni gustative dei biscotti. Si riscontra il contrario per le valutazioni circa il valore di nutrimento: i biscotti biologici sono classificati più nutrienti – quasi due volte più sani – rispetto ai non-biologici, ma non vengono osservate differenze rispetto alle valutazioni delle fragole.[/blockquote]

Tali risultati suggeriscono quindi che l’acquisto di alimenti biologici ‘virtuosi’ come le fragole, si basa per lo più su considerazioni di gusto, mentre quello di alimenti biologici più ‘viziosi’, come i biscotti, può essere guidato maggiormente da considerazioni di carattere nutrizionale.

Un altro dato emerso dalla ricerca è stato l’importanza del luogo in cui il prodotto alimentare viene acquistato. Le conclusioni raggiunte dai ricercatori prevedono che rivenditori come Target (dotati di un’immagine qualitativamente più alta) possano essere i migliori punti vendita per promuovere prodotti biologici ‘viziosi’, mentre rivenditori come Walmart (brand puramente low cost) possano essere considerati buoni punti vendita solo per la promozione di prodotti biologici ‘virtuosi’.

In aggiunta, lo studio ha anche rivelato che i partecipanti sembrano disinformati sugli standard biologici. Infatti, chiarisce Ellison: [blockquote style=”1″]Anche se i prodotti che portano il marchio ‘USDA Organic’ devono contenere almeno il 95% di ingredienti biologici per definizione, i partecipanti all’esperimento ritengono BIO anche biscotti contenenti solo il 62% di ingredienti biologici.[/blockquote]

In conclusione, è evidente che si renderebbe necessaria una maggiore educazione per garantire ai consumatori la comprensione di che cosa significa davvero l’etichetta biologica e che tale definizione non cambia variando prodotti o negozi.

Il training cognitivo per le demenze e le cerebrolesioni acquisite: guida pratica per la riabilitazione (2015) – Recensione

Training cognitivo per le demenze: Negli ultimi anni grazie al miglioramento delle cure mediche e in generale dell’allungamento della vita si sono rese sempre più necessarie tecniche cognitive che affiancassero le cure mediche nel trattamento di problematiche legate a malattie degenerative o cerebrolesioni.

 

Nelle persone con una malattia degenerativa il training cognitivo per le demenze ha la funzione di agire per rallentare il deterioramento cognitivo.

Per quanto riguarda il trattamento delle demenze si è assistito ad un utilizzo sempre maggiore e sempre più precoce di tecniche di stimolazione cognitiva, con risultati positivi nel rallentamento del deficit cognitivo, tanto che molti training cognitivi rientrano ormai nei programmi sanitari di alcuni paesi.

Nei programmi riabilitativi rivolti a persone con deficit cognitivi in seguito a cerebrolesioni invece, i training cognitivi hanno lo scopo di recuperare e compensare, ove possibile le abilità compromesse.

La riabilitazione cognitiva è un concetto molto ampio e si basa sul concetto di plasticità cerebrale ovvero la capacità del cervello di modificarsi e ristrutturarsi in risposta all’ambiente e a nuovi stimoli. La pratica ripetuta di specifiche abilità cognitive può guidare il cervello nella riorganizzazione funzionale vicariando le abilità perse a causa della lesione o rinforzando le abilità preservate.

 

Training cognitivo per le demenze

Il training cognitivo per le demenze prevede programmi complessi che allenino attraverso specifiche attività i processi cognitivi danneggiati o che potenziano le abilità residue, ma che possono anche includere metodi di compensazione, come l’utilizzo di strategie e strumenti, e di gestione dei sintomi emotivo-comportamentali conseguenti alla patologia cerebrale.

Il training congnitivo consiste nella somministrazione ripetuta e guidata di esercizi disegnati appositamente per stimolare specifiche funzioni cognitive, e comprende esercizi per l’apprrendimento di materiale verbale o visuo spaziale, esercizi per la memoria procedurale, per la memoria episodica o spaziale, esercizi per l’attenzione sostenuta e divisa, esercizi per il problem solving, esercizi per le capacità prassiche, gnosiche e così via.

Il manuale nella prima parte tratta brevemente una panoramica scientifica sulla funzione dei training cognitivi nel trattamento delle demenze e delle cerebrolesioni acquisite e fornisce le spiegazioni su come impostare un training personalizzato per un paziente, con compiti selezionati e somministrati secondo il principio della gradualità, utilizzando gli esercizi via via più difficili nel caso di recupero delle diverse abilità o semplificandoli in accordo con il proseguire della malattia degenerativa.

Nella seconda parte vengono invece presentati gli esercizi raggruppati in cinque domini cognitivi: orientamento, attenzione, memoria, linguaggio e funzioni esecutive. Per ogni esercizio vengono ricordate le abilità stimolate dallo stesso, viene fornita una spiegazione sulla modalità di somministrazione e alcuni suggerimenti che potrebbero essere utili con alcuni pazienti o nella somministrazione di gruppo.

Le schede degli esercizi infine sono presentate nel CD-ROM allegato al volume e direttamente stampabili per la somministrazione.

Le componenti dell’imitazione: una funzione che coinvolge strutture diverse nei due emisferi cerebrali

Uno studio che ha osservato i deficit di pazienti neurolesi dimostra che nell’ imitazione di gesti sono coinvolte almeno due componenti elaborate ognuna da un emisfero diverso.

SISSA, Scuola Internazionale Superiore di Studi Avanzati

Imitando si imparano un sacco di cose: a camminare, a suonare uno strumento, fare uno sport e tanto altro ancora. Quali sono i processi nel cervello alla base dell’imitazione? Da qualche anno ormai la scienza ha scoperto il ruolo dei neuroni specchio, ma ancora molto resta da capire. Uno studio che ha osservato i deficit di pazienti neurolesi dimostra che nell’imitazione di gesti sono coinvolte almeno due componenti elaborate ognuna da un emisfero diverso. Lo studio cui ha partecipato la SISSA è stato pubblicato su Neuropsychologia.

Imitazione di gesti dopo una lesione cerebrale: aprassia ideomotoria

Dopo una lesione cerebrale (per esempio causata da ictus o emorragia) si può sviluppare una difficoltà selettiva nell’imitare i gesti e i movimenti altrui (aprassia ideomotoria). Nella storia della neuropsicologia questi studi sono fra i più noti (i primi risalgono addirittura all’inizio ‘900), anche perché questi deficit ostacolano gli interventi terapeutici volti al recupero di abilità motorie, visto che il paziente non può eseguire, imitandoli, i gesti del medico. Negli ultimi vent’anni questi studi hanno poi trovato nuovo vigore grazie alla scoperta dei neuroni specchio, eppure si sa ancora troppo poco di questi processi. Molti scienziati pensano che vi sia un ruolo determinante dell’emisfero sinistro, visto che nella maggior parte sono proprio i cerebrolesi unilaterali sinistri a mostrare questo disturbo. Ma come spiegare allora anche una piccola percentuale di pazienti aprassici con una lesione unilaterale destra?

Paola Mengotti, alla SISSA al tempo dello studio, ora al Forschungszentrum di Jülich in Germania, Raffaella Rumiati, professoressa della SISSA e responsabile del laboratorio iNSuLa (Neuroscience and Society), e colleghi hanno condotto uno studio per rispondere a questa domanda.

Alla ricerca hanno partecipato venti pazienti (che sono stati visti all’Ospedale San Camillo di Venezia e all’Azienda Ospedaliero-Universitaria Ospedali Riuniti di Trieste) con lesioni unilaterali sinistre o destre, più un gruppo di controllo. L’idea di partenza era che l’imitazione fosse composta almeno da due compiti distinti: quello dell’imitazione motoria e un compito spaziale. Quando infatti dobbiamo imitare i movimenti di qualcuno, non solo ripetiamo i suoi gesti, ma dobbiamo anche traslarli sul nostro corpo (in pratica dobbiamo rispecchiarli). Nello studio i pazienti eseguivano compiti di imitazione in una delle due componenti, imitazione motoria e imitazione spaziale. Sono poi state confrontate le prestazioni per ogni componente e messe in relazione al tipo di lesione.

Quel che è emerso è che nella performance imitativa conta la somiglianza fra quanto visto e quanto prodotto, e questo ovviamente interagisce con il tipo di deficit dell’individuo.

[blockquote style=”1″] Analizzando le prestazioni dei pazienti con lesioni dell’emisfero destro e dell’emisfero sinistro con due compiti di imitazione, abbiamo potuto dimostrare che l’imitazione si basa sulla somiglianza tra l’azione osservata e quella prodotta[/blockquote]

spiega Rumiati.

[blockquote style=”1″]Questa somiglianza riflette o una corrispondenza anatomica o una spaziale. Lesioni dell’emisfero sinistro compromettono la prima operazione mentre lesioni dell’emisfero destro compromettono la seconda.[/blockquote]

 

LINK UTILI: • Articolo originale su Neuropsychologia: http://goo.gl/DjV6QG
IMMAGINI: • Crediti: Jamie McCaffrey (Flickr: https://goo.gl/5XffDR)
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Maggiori informazioni sulla SISSA

 

One study focusing on neurological patients showed that at least two components are involved in imitating gestures, each from a different hemisphere of the brain.

We learn many things through imitation: how to walk, play an instument, sports, and even more. What are the processes in the brain responsible for imitation? For some years now, science has been examining the role of mirror neurons, but there is still much to understand. One study focusing on neurological patients showed that at least two components are involved in imitating gestures, each from a different hemisphere of the brain. The study, which SISSA participated in, was published in Neuropsychologia.

After a brain injury (caused by stroke or hemorrhage, for example), patients may have difficulty imitating gestures and movements of others (ideomotor apraxia). In the history of neuropsychology, these studies are among the best known (the first date back to the early 1900’s) as these deficits hinder therapy aimed at recovering motor skills, since the patient cannot perform gestures by imitating the doctor. In the last twenty years, these studies have found new significance thanks to the discovery of mirror neurons, and yet little is known about these processes. Many scientists think the left hemisphere plays a dominant role because this problem most often surfaces in cases of unilateral brain-damage of the left hemisphere. How then, can we explain the small percentage of apraxic patients who have suffered unilateral lesions to the right hemisphere?

Paola Mengotti, at SISSA at the time of the study, now at Forschungszentrum Jülich in Germany, SISSA Professor and Head of the iNSuLa Laboratory (Neuroscience and Society), Raffaella Rumiati, and colleagues conducted a study to answer this question. Twenty patients (visited at San Camillo in Venice and Azienda Ospedaliero-Universitaria Ospedali Riuniti in Trieste) with unilateral brain lesions in the left or right hemispheres, plus a control group participated in the study. The initial idea was that imitation is made up of at least two distinct tasks: motor imitation, and a spatial component. When we have to imitate someone else’s movements, we not only have to repeat the actions, but we also have to translate them to our body (mirror them). In the study, patients performed imitation tasks using one of the two components, motor or spatial. Performance for each component was then compared and categorized in relation to the type of lesion.

What emerged is that what counts in imitation is the similarity between what is seen and what is produced, and this of course depends on the individual type of deficit. [blockquote style=”1″]Analyzing the performance of two imitation tasks by patients with lesions in the right hemisphere and the left hemisphere, we were able to demonstrate that imitation is based on the similarity between the observed action and the one produced[/blockquote] explains Rumiati. [blockquote style=”1″]This similarity reflects either an anatomical match or a spatial one. Lesions in the left hemisphere affect the former while lesions in the right hemisphere affect the latter.[/blockquote]

USEFUL LINKS: • Original paper on Neuropsychologia: http://goo.gl/DjV6QG
IMAGE: • Credits: Jamie McCaffrey (Flickr: https://goo.gl/5XffDR)

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Regolazione emotiva: in che modo determina il benessere psicologico

La regolazione emotiva è l’insieme dei processi attraverso i quali l’individuo influenza le emozioni che prova, quando le prova, in che modo le prova e come esprime tali emozioni. La regolazione emotiva si riferisce quindi alla eterogenea serie di processi con cui le emozioni sono regolate (Gross, 1999) ed è in gran parte responsabile del nostro benessere psicologico.

Roberta Casadio, OPEN SCHOOL STUDI COGNITIVI MODENA

Regolazione e disregolazione emotiva

Il concetto di disregolazione emotiva è strettamente legato a quello di regolazione e si riferisce ad un interruzione della “stabilità interna” dei processi mentali che sono legati alla costante e dinamica regolazione delle attività di cervello-mente-corpo-ambiente (Lazarus e Folkman, 1984). Qualora si sviluppi una grave situazione di disagio, ne risulta che non solo tale esperienza incide dal punto di vista psicologico sull’individuo, ma lo farebbe anche sul cervello e sul funzionamento cognitivo, rendendo il recupero del benessere ancor più difficile (Segal et al. 1996).

L’interazione tra figura di attaccamento ed infante è di fondamentale importanza nello sviluppo del bambino. Una relazione calda e accogliente, dove la figura di attaccamento è emotivamente disponibile aiuta il bambino ad evitare stati emotivi estremi e prolungati, ed esso comprenderà attraverso l’esperienza che gli stati di stress (i.e. arousal) possono essere moderati e quindi regolati (Kidwell et al., 2010). Questo accade poiché, grazie alla prevedibilità delle risposte fornite dal caregiver, è possibile fare delle connessioni causali stabili tra domanda e risposta offerta. Diversamente, quando la figura di riferimento del bambino si mostra emotivamente inaccessibile e incoerente reagendo alle espressioni emotive e allo stress del neonato in modo inappropriato, tale mancanza compromette la regolazione dell’arousal e quindi delle emozioni del neonato.

A conferma di ciò, una sempre più vasta letteratura scientifica afferma come la disregolazione emotiva sia un probabile esito di una relazione della diade che porti ad alterare il meccanismo di regolazione delle funzioni fisiologiche e quindi verso forme di psicopatologia (Kopp, 1989). Un esempio potrebbe avvenire quando un bambino esposto ad ostilità da parte del caregiver, che quindi non vede accolti e regolati i suoi stati di stress, si sente rigettato e arrabbiato. Sebbene egli possa adottare delle strategie per mantenere una relazione con il caregiver (es. pattern di attaccamento insicuro evitante o ambivalente), si verifica un fallimento nella possibilità del bambino di fare esperienza di se stesso come abile nel regolare i propri stati interni negativi in modo effettivo.

In base a tali esperienze precoci di apprendimento con la figura di attaccamento, si sviluppano dei Modelli Operativi Interni. Nell’esempio appena citato il mondo sarebbe quindi visto come incapace di rispondere ai propri bisogni e vedono se stessi come non meritevoli di attenzione e cure da parte della figura di riferimento. Sarebbe ragionevole ritenere a questo punto che i sentimenti di rabbia e tristezza siano facilmente attivati e che tali soggetti possano sviluppare deficit nella implementazione di un repertorio efficace e funzionale nel lungo termine di strategie di regolazione delle emozioni, il quale deficit contribuirà a confermare il senso di inefficacia e sfiducia negli altri percepito dal soggetto.

Studi mostrano l’incidenza di esperienze avverse o traumatiche nella prima infanzia nello sviluppo di disagio psichico in età adulta: tra i fattori di rischio comuni a diversi disturbi emergono traumi, perdite e abusi (Liotti, 2010), reattività allo stress, disfunzioni celebrali, attaccamento insicuro ad alto indice o disorganizzato (Ijzendoorn et al., 1999), elevata sensibilità alle emozioni espresse (Brown, Birley, & Wing, 1972) e conflitto intra-famigliare (Davies e Cummings, 1994). Questi fattori di rischio hanno in comune l’effetto di produrre alti livelli di arousal che interferiscono con lo sviluppo di strategie di regolazione emotiva.

Nella sua iniziale formulazione Bowlby indicava chiaramente che un attaccamento insicuro poteva essere visto come fattore di vulnerabilità a forme di psicopatologia in età più avanzata. Studi trasversali su popolazioni cliniche e “a rischio” hanno dimostrato un tasso significativamente superiore di persone con attaccamento insicuro rispetto alla popolazione di riferimento (Goldberg, 1993). Tale tesi trova conferma anche negli studi di etologia sugli effetti di una inadeguata regolazione diadica tra il piccolo e la madre in una popolazione di scimmie rhesus. Gli esperimenti condotti confermano infatti che i piccoli di scimmia che avevano riscontrato risposte incoerenti e inadeguate alle proprie richieste emotive mettevano in atto successivamente comportamenti insolitamente impulsivi, insensibili ed esageratamente aggressivi nelle interazioni con gli altri membri del gruppo (Suomi, 2003).

Strategie di regolazione emotiva e sviluppo psicopatologico

Gli studi sulla regolazione emotiva dei soggetti affetti da disturbo borderline di personalità dimostrano che per questa popolazione le emozioni risultano particolarmente difficili da regolare. I principali problemi che questi soggetti incontrano riguardano proprio l’aspetto della modulazione emotiva che, risultando deficitaria e cronicamente compromessa, impedisce loro di usare in maniera efficace le strategie di regolazione. Essendo vittime di un’eccessiva attivazione emotiva e fisiologica, tali soggetti incontrano serie difficoltà ad usare quelle strategie che consentirebbero di modulare la risposta emotiva e smorzare i correlati fisiologici ad essa associati. Lo stato di stress cronico che ne deriva alimenta l’uso di strategie di regolazione dello stato emotivo disfunzionali (es. atti auto/etero lesivi). Anche i disturbi definiti internalizzati costituiscono un valido esempio di compromessa regolazione emotiva: essi comprendono in maniera prevalente i disturbi dell’ansia e dell’umore e rappresentano un caso emblematico di specifica modalità di regolazione emotiva atipica che può comportare uno sviluppo psicopatologico (Bradley, 2000). Le aree della disregolazione che risultano più implicate sono quelle relative alle modalità di coping e alla regolazione dei fattori neurobiologici coinvolti nella risposta allo stress. I bambini a rischio d’insorgenza di sintomi internalizzati adottano strategie di coping improntate alla repressione dell’emotività negativa, al ritiro, all’uso ridotto del supporto sociale e all’idealizzazione di relazioni affettive problematiche. L’interiorizzazione della rabbia e dell’ostilità sarebbe così alla base dello sviluppo sintomatico.

Più di recente, alcune ricerche mettono in luce, grazie al supporto di tecnologie provenienti dalle neuroscienze, come esista uno stretto legame tra modulazione emotiva e regolazione emotiva. La regolazione emotiva, infatti, non è qualcosa che subentra dopo l’esposizione ad uno stimolo emotivo, bensì costituisce un processo che esiste prima e/o durante la risposta emotiva allo stress (Putnam & Silk, 2005). Di seguito alcuni esempi sul funzionamento di alcuni meccanismi regolatori quali la “soppressione delle emozioni” e il “reappraisal cognitivo”: se si istruiscono i soggetti a inibire le espressioni facciali (soppressione) mentre stanno guardando alcune scene disgustose di un film, questa inibizione comporta un incremento dell’arousal (Gross, 1999).

Altri studi rilevano gli effetti di meccanismi di reapparaisal sulla regolazione emotiva: se si istruiscono i soggetti a rimanere distaccati nei confronti di materiale emotivo, aumenta l’espressività emotiva ma non l’arousal: in questo senso si può ipotizzare che le due forme di regolazione delle emozioni comportino effetti differenti e che sia solo l’ultima quella che non implica, sul lungo periodo, costi elevati per la salute fisica e psicologica, mentre sopprimere l’espressione delle emozioni comporterebbe rischi maggiori per la salute mentale e il benessere psicologico (Putnam & Silk, 2005).

Alla luce di ciò è possibile concludere che i trattamenti psicoterapici di soggetti con deficit di regolazione emotiva possano esplorare che repertorio i soggetti mettano in atto per regolare le loro emozioni e quanto sia efficace/funzionale tale repertorio nel medio e lungo termine con lo scopo di identificare i meccanismi di funzionamento disfunzionali e lavorare sui deficit di regolazione emotiva. Uno strumento che potrebbe essere utile a tal fine è la DERS (DERS: Difficulties in Emotion Regulation Scale, Gratz & Roemer, 2004).

Efficacia del riluzolo nei pazienti con depressione da moderata a grave

Recenti evidenze scientifiche hanno mostrato l’ efficacia del riluzolo anche nel trattamento della depressione unipolare, persino tra i pazienti che non mostrano miglioramenti con altri trattamenti farmacologici e psicoterapeutici.

Il riluzolo è un farmaco ampiamente utilizzato per ritardare il ricorso alla ventilazione meccanica e prolungare la vita nei pazienti affetti da sclerosi laterale amiotrofica (SLA). Tale farmaco agisce inibendo l’attività del glutammato, il principale neurotrasmettitore eccitatorio del sistema nervoso centrale, che si ipotizza svolga un ruolo centrale nella degenerazione dei motoneuroni.

 

Efficacia del riluzolo per la depressione

Recenti evidenze scientifiche, tuttavia, hanno mostrato l’ efficacia del riluzolo anche nel trattamento della depressione unipolare, persino tra i pazienti che non mostrano miglioramenti con altri trattamenti farmacologici e psicoterapeutici. E’ noto, infatti, come la depressione sia caratterizzata da una disregolazione glutammatergica e come il riluzolo possieda proprietà antiepilettiche, neuroprotettive e modulatorie di grande interesse per il trattamento dei pazienti depressi.

Nel tentativo di fornire ulteriori prove a favore dell’ efficacia del riluzolo, il team della dott.ssa Salardini dell’Università di Tehran ha voluto indagare l’effetto del riluzolo in un campione di 64 pazienti con depressione da moderata a grave (criteri DSM-IV-TR), con età compresa tra 18 e 50 anni. I soggetti venivano inclusi nello studio se ottenevano un punteggio alla Hamilton Depression Rating Scale (HDRS) superiore a 19, con un punteggio di 2 o più nell’item 1. In aggiunta, la diagnosi di Disturbo Depressivo Maggiore veniva confermata tramite l’impiego della Intervista Clinica Strutturata per i Disturbi di Asse I (SCID-I).

 

Il trial clinico:  citalopram, riluzolo, placebo

In seguito i pazienti erano divisi in due gruppi: ad entrambi veniva somministrata una dose di citalopram (20 mg al giorno per la prima settimana e 40 mg al giorno per le successive 5 settimane), tuttavia il gruppo sperimentale beneficiava anche di una dose di 50 mg riluzolo mentre il gruppo di controllo assumeva un placebo al posto del SSRI.

Al termine dello studio, durato 6 settimane e comprendente tre momenti di valutazione (seconda, quarta e sesta settimana), i risultati confermavano le precedenti evidenze scientifiche: il gruppo sperimentale mostrava miglioramenti significativi (93,3%) e più veloci rispetto al gruppo di controllo (53,3%).

Trattandosi di un randomized controlled trial (RCT) condotto in doppio cieco, i risultati di questo studio sono di primaria rilevanza.

Sebbene la numerosità del campione non fosse elevata e i ricercatori non abbiano considerato alcun outcome fisiologico rispetto alle concentrazioni di glutammato, la percentuale di pazienti che beneficiavano immediatamente del a era significativamente superiore rispetto al gruppo di controllo trattato con citalopram e placebo.

I successivi studi avranno il compito di chiarire come l’ efficacia del riluzolo nel ridurre la concentrazione di glutammato nei pazienti depressi, ad esempio, come suggerito dal team della Salardini, incrementandone il metabolismo o la ricaptazione.

Terapia Razionale Emotiva: i corsi ufficiali in Italia dell’Albert Ellis Institute

La Terapia razionale emotiva di Albert Ellis

La Terapia razionale emotiva (in inglese Rational-Emotive Behaviour Therapy, REBT), elaborata dallo psicologo americano Albert Ellis negli anni Cinquanta, è una teoria e prassi psicoterapeutica di impostazione cognitivo-comportamentale basata sul principio fondamentale secondo cui la sofferenza mentale deriva da credenze e valutazioni automatiche degli eventi (per es., “non deve/può succedere”, “non posso sopportarlo”, “sarà terribile”), che il soggetto si autoinfligge.

Sono quindi gli individui a strutturare, più o meno inconsapevolmente, i propri “disturbi emotivi”; d’altra parte, sono essi stessi a possedere la fondamentale capacità di modificare le proprie convinzioni e la propria “filosofia di vita”, oltre che il proprio comportamento, in modo da raggiungere una vita emotiva più soddisfacente.

I corsi ufficiali REBT in Italia

SEDE DEI CORSI REBT ITALIA none

In Italia la Scuola di Specializzazione in Psicoterapia Studi Cognitivi organizza i corsi ufficiali REBT base (Primary Practicum), avanzato (Advanced Practicum) e il corso di terzo livello per diventare psicoterapeuti esperti della Rational Emotive Behavioral Therapy (Associate Fellowship Certificate Program) in collaborazione con l’ Albert Ellis Institute.

Docenti dei corsi REBT in Italia

  • Kristene Doyle, Ph.D., Sc.D., è Direttore dell’Albert Ellis Institute (AEI). Il Dr. Doyle è anche Direttore dei Servizi Clinici, psicologo abilitato dello staff e supervisore clinico dell’AEI. È Professore associato alla St. John’s University di New York.
  • Raymond DiGiuseppe, Ph.D., Sc.D., è Direttore della Formazione Professionale, psicologo abilitato dello staff e supervisore clinico dell’AEI. È anche Professore e Rettore del Dipartimento di Psicologia alla St. John’s University di New York. È Presidente della Division 29 (Psicoterapia) della American Psychological Association.
  • Ennio Ammendola, M.A., M.H.C., è terapeuta e supervisore REBT all’AEI e Doctoral candidate alla Fordham University di New York.
  • Giovanni M. Ruggiero, M.D. è terapeuta cognitivo e supervisore REBT. Inoltre è Didatta di terapia cognitiva riconosciuto dalla Società Italiana di Terapia Cognitiva e Comportamentale (SITCC) e Didatta presso la Scuola di specializzazione in Psicoterapia Cognitiva “Studi Cognitivi” di Milano.

Il Corso base REBT (Primary Practicum)

Il Primary è il primo livello di apprendimento della Terapia razionale emotiva. Studi Cognitivi è lieta di poterlo offrire in Italia nel formato originale in cui è effettuato all’Albert Ellis Institute (AEI) di New York, condotto dai più prestigiosi e qualificati terapisti e supervisori REBT certificati a livello internazionale, a cominciare dai due direttori dell’AEI, Kristene Doyle e Raymond DiGiuseppe, quest’ultimo anche professore di Psicologia alla St. John University di New York.

Il Primary è un corso intensivo di tre giorni che include lezioni teoriche ed esercitazioni in cui la REBT si pratica in colloqui di “peer-counseling” tra gli iscritti al corso, sotto la supervisione dei docenti del corso. Le esercitazioni avvengono in gruppi di 8 partecipanti seguiti da un singolo docente.

I partecipanti impareranno la teoria della Terapia razionale emotiva dei disturbi emotivi e del cambiamento terapeutico dai principali operatori REBT e avranno l’opportunità di praticare la loro abilità in piccoli gruppi e di ricevere un feedback immediato da un supervisore certificato.

Programma del corso Primary Practicum

I partecipanti impareranno a:

  • comprendere e applicare la teoria REBT dei disturbi psicologici;
  • applicare il modello ABC a una vasta gamma di problematiche cliniche;
  • identificare e disputare i pensieri disfunzionali dei clienti;
  • incoraggiare i clienti a elaborare pensieri, emozioni e comportamenti più adattivi;
  • sviluppare e applicare protocolli REBT per il trattamento di rabbia, ansia e depressione.

 

 

Il corso avanzato REBT Advanced Practicum

L’Advanced Practicum è il secondo livello di apprendimento della Terapia razionale emotiva. Studi Cognitivi è lieta di poterlo offrire in Italia nel formato originale in cui è effettuato all’Albert Ellis Institute (AEI) di New York, condotto dai più prestigiosi e qualificati terapisti e supervisori REBT certificati a livello internazionale, a cominciare dai due direttori dell’AEI, Kristene Doyle e Raymond DiGiuseppe, quest’ultimo anche professore di Psicologia alla St. John University di New York.

L’Advanced è un corso intensivo di quattro giorni che comprende, come il Primary, lezioni teoriche ed esercitazioni di “peer counseling”. L’obiettivo principale dell’Advanced è l’apprendimento e l’approfondimento delle tecniche di disputa: disputa empirica, disputa logica e disputa pragmatica, condotte in vari stili differenti: socratico, didascalico, umoristico, immaginativo, comportamentale.

Nelle lezioni teoriche si illustrerà l’applicazione della Terapia razionale emotiva a problemi di coppia e a pazienti difficili. Le esercitazioni di “peer counseling” dell’Advanced sono focalizzate sulla disputa. Anche le esercitazioni dell’Advanced avvengono in gruppi di otto partecipanti seguiti da un singolo docente.

Programma dell’ Advanced Practicum

I partecipanti impareranno a:

  • applicare e approfondire intensamente le varie tecniche di disputa REBT;
  • comprendere la filosofia alla base della Terapia razionale emotiva;
  • comprendere come la Terapia razionale emotiva (REBT) concepisce il concetto di accettazione;
  • comprendere come la REBT concepisce l’alleanza terapeutica;
  • applicare la REBT a problemi relazionali e di coppia;
  • applicare la REBT a pazienti resistenti e difficili;
  • integrare nella REBT tecniche comporta-mentali e immaginative.

 

 

Il Corso di terzo livello: Associate Fellowship Certificate Program

L’Associate Fellowship Certificate Program è il più alto livello di apprendimento della Terapia razionale emotiva. Studi Cognitivi è lieta di poterlo offrire in Italia nel formato originale in cui è effettuato all’Albert Ellis Institute (AEI) di New York, condotto dai più prestigiosi e qualificati terapisti e supervisori REBT certificati a livello internazionale, a cominciare dai due direttori dell’AEI, Kristene Doyle e Raymond DiGiuseppe, quest’ultimo anche professore di Psicologia alla St. John University di New York.

L’Associate Fellowship Certificate Program è un corso intensivo di quattro giorni che comprende, come il Primary e l’Advanced, lezioni teoriche, esercitazioni di “peer counseling” e ascolto e analisi di segmenti di sedute registrate dei partecipanti.

Le esercitazioni di “peer counseling” dell’Associate Fellowship Certificate Program sono focalizzate sull’ascolto e analisi critica di sedute registrate e/o descritte dettagliatamente per iscritto. Anche le esercitazioni dell’Associate Fellowship avvengono in gruppi di otto partecipanti seguiti da un singolo docente.

Programma del corso:

Gli obiettivi principali dell’Associate Fellowship sono:

  • l’applicazione delle tecniche di accertamento e disputa al cliente resistente e difficile;
  • l’apprendimento della teoria cognitiva e REBT dei disturbi di personalità;
  • l’applicazione delle tecniche REBT ai clienti con disturbi alimentari e dipendenti da sostanze.

 

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Come sarà il 2016? Saremo più corretti, non solo politicamente

Questo articolo è stato pubblicato da Giovanni Maria Ruggiero su Linkiesta il 02/01/2016

Come sarà il 2016? L’obiettivo non sarà solo eliminare ogni aggressione, ma ogni minima ambiguità, ogni micro-aggressione. Micro-aggressione è la parola-chiave da imparare per il 2016.

Come sarà il 2016? Nel bene e nel male sarà più corretto –non solo politicamente- e socialmente civile del 2015. Si va in quella direzione. In una società differenziata in cui sempre più culture convivono e sono condannate a interagire, diventerà sempre più essenziale evitare ogni motivo di conflitto.

La società ci chiederà di diventare ogni giorno più controllati e attenti a ogni minima inappropriatezza verbale. L’obiettivo non è solo eliminare ogni aggressione, ma ogni minima ambiguità, ogni micro-aggressione. Micro-aggressione è la parola-chiave da imparare per il 2016. Ancora non è arrivata tra noi, ma circola ormai da anni nell’anglofonia, dove l’appropriatezza civile informa di sé ogni rapporto sociale.

Micro-aggressioni è un termine coniato dallo psicologo Chester M. Pierce negli anni ’70 e indica tutte le frasi, espressioni e comportamenti che posseggono, anche solo potenzialmente, un significato svalutativo verso gruppi di persone definiti dall’etnia, dall’orientamento sessuale, religioso o culturale (Pierce, 1977; Sue, 2007).

È un termine, micro-aggressioni, particolarmente utile per comprendere a fondo il suo parente stretto concettuale, il politicamente corretto. Il politicamente corretto esprime il giusto bisogno di rapporti sociali costruiti sull’irripetibilità dell’individuo libero e autonomo, in cui non si è prigionieri di alcun clan e gruppo sociale e in cui non si è etichettati semplicisticamente in base all’etnia, alla religione o alla preferenza sessuale.

L’alta faccia della medaglia è quel micro che rivela che questo bisogno, per realizzarsi è costretto a incarnarsi in un’ossessiva attenzione a qualunque micro-manifestazione che potenzialmente abbia un significato svalutativo, anche indiretto.

Questa pagina dell’ APA, ovvero la American Psychological Association riporta una particolareggiata casistica e nomenclatura, in qualche modo il moderno corrispettivo del rigido galateo di epoche passate. Non ci sono solo le micro-aggressioni, ma anche i micro-assalti, i micro-insulti e le micro-invalidazioni. I micro-assalti sono le azioni o insulti più coscienti e intenzionali, come gli epiteti razziali o l’uso della svastica. E su questi casi siamo tutti d’accordo. I micro-insulti sono più subdoli. Sono le comunicazioni verbali e non verbali che sottilmente trasmettono maleducazione e insensibilità e sviliscono il retroterra culturale di una persona. Le micro-invalidazioni sono le comunicazioni che sottilmente escludono o negano i pensieri, i sentimenti o le esperienze di una persona.

Questa tendenza molto probabilmente prenderà piede sempre di più anche da noi. Anche da noi ci sarà sempre più attenzione alle micro-aggressioni, malgrado millenni di abitudine italiana a una comicità aggressiva e feroce, dai fescennini degli antichi romani alla commedia dell’arte.

Malgrado qualche eccesso, la tendenza alla correttezza è positiva, è espressione della benedetta tendenza umana a diminuire sempre di più la violenza e l’aggressività. Lo dimostra lo psicologo Steven Pinker in un bel libro: ‘Il declino della violenza’ (Pinker, 2013).

Anche perché il fronte opposto sembra indebolirsi ogni anno che passa. Tutti i tentativi di proporre alternative al politicamente corretto, ovvero delle zone franche di scorrettezza, sembrano non riuscire a governare una irrimediabile tendenza alla deriva becera. Alcuni tentano di cavarsela avvolgendo le loro irriverenze con un velo di cultura. L’operazione per un po’ riesce, ma la necessità di doversi continuamente distinguere dalle forme più popolari e pecorecce di scorrettezza politica, che siano la Lega Nord in Italia o Donald Trump in USA, finiscono per condannare queste forme di scorrettezza politica al velleitarismo e al logoramento, nonché a una strana forma di snobismo rovesciato.

Fin qui tutto bene. Tuttavia quando andiamo a vedere gli esempi concreti riportati dal testo dell’APA la linea a favore della correttezza politica mostra anch’essa delle crepe. Gli esempi sono abbastanza inquietanti. Secondo l’APA chiedere a un afro-americano come ha ottenuto il suo lavoro è un micro-insulto, perché insinua che lo abbia ottenuto attraverso una affirmative action. E chiedere a un asiatico-americano dove sia nato è una micro-invalidazione, perché trasmette il messaggio che essi siano stranieri perpetui. Nel dicembre 2014 Jeannie Suk ha scritto sul New Yorker che gli studenti di legge a Harvard chiedono di essere avvertiti dell’eventualità che a lezione si parli della legislazione penale dei casi di stupro per non correre il rischio di subire ricordi traumatici.

Secondo i due sociologi Bradley Campbell e Jason Manning il politicamente corretto coincide con un vero e proprio cambio di paradigma morale, forse il terzo grande cambiamento socio-morale dell’umanità in epoca storica.

Il primo paradigma fu quello dell’onore e della reputazione, in cui ogni individuo poteva e doveva rispondere con la violenza a ogni attacco al proprio rango sociale. Questo paradigma ha dominato le età guerriere e nobiliari ed è entrato definitivamente in crisi con la modernità. Tuttavia il processo di deterioramento di questa visione morale era già iniziato da millenni con la comparsa dei grandi sistemi di pensiero religioso e morale dell’età assiale, ovvero dal VI secolo A.C. in poi. Questi sistemi comprendono il profetismo ebraico, la filosofia greca, il cristianesimo e anche il buddismo, tutti fenomeni storici non a caso disprezzati dal superomismo di Nietzsche (con la parziale eccezione del buddismo, di cui Nietzsche non colse la natura anti-eroica e anti-aristocratica).

Nell’età moderna, con il sorgere dello Stato di Diritto a seguito delle grandi rivoluzioni inglese, americana e francese il paradigma dell’onore (honor) è sostituito da quello della dignità (dignity). L’individuo è un cittadino fornito di diritti e intrinsecamente fornito di dignità personale inalienabile da qualunque offesa. Il cittadino, a differenza del guerriero e del nobile, non dedica energie a custodire il suo onore e a vendicare col sangue offese perpetrate al suo rango.

Il terzo paradigma è quello attuale del politicamente corretto. In questo paradigma la sensibilità a qualunque offesa è di nuovo elevata, un po’ come nel primo paradigma, quello dell’onore. È curioso osservare come anche il paradigma dell’onore fosse sensibilissimo a ogni micro-offesa e che ogni sgarro era lavabile con il sangue. La letteratura è piena di questi esempi, dal conflitto d’onore tra Achille e Agamennone alle vicende del puntiglio nei Promessi Sposi, vero poema della vacuità dell’onore: da Fra Cristoforo che in giovinezza e prima di farsi frate duella per un problema di precedenza in strada a Don Rodrigo che perseguita Renzo e Lucia per conservare l’onore messo in pericolo in una futile scommessa.

Tuttavia il politicamente corretto rovescia sia la direzione delle micro-aggressioni che le modalità di soddisfazione. Nel mondo dell’onore sono le classi dominanti a essere sensibilissime alle offese e la soddisfazione avviene per impegno personale: il duello. Nel politicamente corretto invece è il soggetto debole a essere sensibile a ogni possibile offesa e la soddisfazione avviene in maniera impersonale, ricorrendo alla legge.

Formulato in questa maniera, il politicamente corretto non è esente da rischi. Non a caso Campbell e Manning lo chiamano paradigma della victimhood, ovvero del vittimismo, termine non esattamente lusinghiero. Chi ne ha sottolineato questi rischi è Jonathan Haidt, un filosofo che da anni di occupa di dilemmi morali. Egli è stato tra i primi a notare come la victimhood, pur discendendo dalla dignity, ha singolari punti di contatto con il paradigma dell’honor.

Forse questa è una delle chiavi con le quali possiamo rispondere a uno dei più singolari paradossi dell’età contemporanea: come è possibile che Nietzche, il cantore della morale guerriera e aristocratica dell’onore e della sopraffazione sia anche diventato un ispiratore del pensiero progressista? E come altresì sia possibile che questo pensiero progressista possa a volte essere tentato di ripudiare il cristianesimo, che è una religione della vittima? Forse per questi intrecci confusi tra onore arcaico e moderna senibilità alle micro-aggressioni.

Haidt, con le sue riflessioni sui tre paradigmi delineati da Campbell e Manning, ci avverte sui rischi di questo innesto di ipersensibilità arcaica all’offesa nella modernità. La nuova cultura morale del vittimismo può favorire il logoramento della capacità individuale di gestire i piccoli problemi interpersonali della quotidianità. Si crea una società di conflitti morali costanti e intensi, in cui le persone competono per ottenere i vantaggi della condizione di vittime e/o difensori delle vittime.

Strategie di Regolazione emotiva: le emozioni regolano e sono regolate

Strategie di regolazione emotiva: Le teorie funzionaliste sulla regolazione emotiva enfatizzano il modo in cui le emozioni possano facilitare l’adattamento all’ ambiente favorendo la preparazione di rapide risposte comportamentali, la presa di decisione, i processi cognitivi e attentivi, la registrazione in memoria di eventi significativi e fornendo informazioni aggiornate riguardo la corrispondenza tra l’organismo e l’ambiente circostante.

Roberta Casadio, OPEN SCHOOL STUDI COGNITIVI MODENA

Cosa sono le emozioni: le teorie

Secondo Scherer (1984), il termine “stati affettivi” comprende diverse condizioni, incluse “risposte allo stress”, “emozioni”, “umore” e “altri impulsi motivazionali”. Questi termini sono differenziati sia concettualmente che empiricamente. Le emozioni sono un tipo di stato affettivo specifico, sono elicitate da uno stimolo (interno o esterno) saliente agli scopi dell’individuo e hanno una temporalità relativamente breve (Gross & John, 1995).
Nonostante negli ultimi anni ci sia stata una proliferazione della letteratura scientifica a proposito di regolazione emotiva, ancora oggi non è chiaro se con questo termine ci si riferisca specificatamente alla funzione regolatoria che le emozioni esercitano su altri processi, oppure a come le emozioni siano regolate.

Le teorie funzionaliste sulla regolazione emotiva enfatizzano il modo in cui le emozioni possano facilitare l’adattamento all’ambiente favorendo la preparazione di rapide risposte comportamentali, la presa di decisione, i processi cognitivi e attentivi, la registrazione in memoria di eventi significativi e fornendo informazioni aggiornate riguardo la corrispondenza tra l’organismo e l’ambiente circostante (Schwartz & Clore, 2003). Le emozioni hanno anche delle funzioni regolatrici sociali; esse infatti forniscono informazioni sulle intenzioni degli altri, sulla bontà di una data situazione, scritturano i nostri comportamenti sociali e utilizzano rappresentazioni mentali esistenti come script per agire in situazioni socialmente simili (Keltner & Kring, 1998).

La regolazione emotiva

Generalmente quando pensiamo alla regolazione emotiva, sopratutto nella cultura occidentale, facciamo subito riferimento alla capacità dell’individuo di diminuire gli aspetti esperienziali ed espressivi di emozioni negative quali rabbia, paura e tristezza (Gross, Richards & John, 2006). Questo non vuol dire che le emozioni positive non siano regolate; anch’esse lo sono, ad esempio quando cerchiamo di trattenere la nostra gioia o la nostra attrazione verso un oggetto. Di fatto, uno dei presupposti di partenza nella regolazione emotiva è che esse insorgono quando è presente una situazione saliente e che qualunque sia la situazione, è il significato che le viene assegnato a determinare l’ emozione connessa. Qualora il significato cambiasse (perché è cambiata la situazione o perché è cambiato il significato che vi è stato assegnato), allora anche l’emozione connessa cambierà.

Non esistono assunzioni a priori di come una strategia di regolazione emotiva sia funzionale o meno (Thompson & Calkins, 1996). Questa specificazione è importante poiché evita la confusione che si è creata nella letteratura sullo stress e sul coping (strategie di fronteggiamento) laddove le “difese” erano considerate non adattive e le “strategie di coping” adattive (Parker & Endler, 1996). In questa prospettiva, le strategie di regolazione emotiva possono essere utilizzate per migliorare o peggiorare le cose in base al contesto. Ad esempio, la capacità di abbassare l’ intensità emozionale potrebbe essere utile ad un medico per operare in una condizione di stress, ma allo stesso tempo, potrebbe neutralizzare le emozioni negative associate all’empatia, e quindi renderlo meno accogliente e comprensivo nei confronti di un paziente. Questo significa che un sistema di regolazione emotiva, per essere efficace, deve essere flessibile e responsivo ai cambiamenti contestuali e nello stesso tempo mantenere il proprio equilibrio.

Strategie di regolazione emotiva

Tuttavia, studi empirici dimostrano come alcune strategie possano considerarsi più adattive di altre (ie. Hopp, Troys & Mauss, 2010).

Strategie di regolazione emotiva adattative

Di seguito, sono descritte 3 strategie di regolazione emotiva adattive:

– Ristrutturazione cognitiva (reapprisal): consiste nella generazione di interpretazioni o prospettive positive su una situazione stressante, in modo da ridurne gli effetti negativi.

– Problem-Solving: è un tentativo volontario di cambiare una situazione stressante o di contenere le sue conseguenze.

– Accettazione: con questo termine ci si riferisce all’ accettazione non giudicante della esperienza emozionale.

Strategie di regolazione emotiva non adattative

3 strategie di regolazione emotiva non adattive nel lungo termine:
– Soppressione della esperienza emozionale
– Evitamento: due sono le modalità con cui si può mettere in atto questa strategia; una si riferisce alla dimensione esperienziale dell’emozione, mentre l’altra a quella comportamentale.
– Rimuginio e ruminazione: invece che evitare o sopprimere l’esperienza emozionale, certi soggetti regolano le proprie emozioni soffermandosi in modo ripetitivo sull’ esperienza di tali emozioni, le loro cause e le loro conseguenze.

Questa classificazione suggerisce l’importanza di valutare e lavorare sulle strategie di regolazione emotiva in psicoterapia, e di considerare come il loro utilizzo inflessibile possa contribuire all’ insorgere e al mantenimento di un disturbo.

Il tormento del cercatore di tracce Parte III – Tracce del tradimento nr. 39

TRACCE DEL TRADIMENTOIl tormento del cercatore di tracce Parte III (Nr. 39)

 

Un altro errore caratteristico che ci mette sulle tracce dell’ immaginare un tradimento è quello che viene chiamato il ragionamento emotivo. Ovvero utilizzare le conseguenze come conferma delle cause secondo un ragionamento del tipo ”se sento gelosia, vuol dire che c’è un motivo valido”.

Lo stato emotivo può essere preso come fonte di informazione sul mondo (affect as information); operando una sorta di ragionamento emozionale, il soggetto utilizza lo stato affettivo come informazione confermante la percezione di tradimento (non discrimina tra fatti e stato emotivo). Se mi sento così ci sarà pure un motivo, quante volte viene sostenuto che qualcosa è vera semplicemente perché il soggetto “se lo sente”. Esistono inoltre un’altra serie di bias cognitivi che si presentano sistematicamente e che vanno a rinforzare il confermazionismo.

L’ esagerata fiducia in se stessi (overconfidence) consiste nel fatto che gli individui tendono ad essere sicuri delle loro credenze molto più di quanto esse siano realmente affidabili e ciò aumenta con la competenza per cui spesso facciamo grandi errori proprio nei campi in cui siamo più esperti e siamo assolutamente certi di aver ragione. Una cosa su cui quasi tutti, spesso a torto, ritengono di essere competenti è la conoscenza del proprio partner e quanto più riteniamo di conoscere una persona, tanto più siamo poco disposti a cambiare idea nei suoi confronti. Per questo il tradito (non geloso) è classicamente l’ultimo a rendersi conto del tradimento assolutamente evidente a tutti. Al contrario il cercatore certo di aver capito cosa alberga nel cuore del partner non sarà facilmente disposto a mettersi in discussione.

Un altro caratteristico errore cognitivo è il pensiero magico (illusory correlations) per cui quando si è convinti di una correlazione positiva tra due eventi se ne trovano continuamente nuove ed evidenti conferme che ne giustificano le cause anche se ciò è del tutto falso ed illusorio. Se l’attenzione è rivolta ad una particolare persona come possibile insidioso rivale il cercatore troverà mille collegamenti tra il suo partner, i suoi oggetti, le sue preferenze e in generale la sua vita e il presunto rivale e tutto varrà come conferma della nascosta relazione. Si va dalla complementarietà dei segni zodiacali alla preferenza per lo stesso genere musicale, dal comune interesse per la montagna al concomitante raffreddore, dalla simile opinione politica alla simpatia per una certa razza di cani. E’ ovvio che tra due qualsiasi persone, anche molto diverse tra loro, sono innumerevoli se non infinite le correlazioni del genere che si possono trovare nella loro vita: basta cercare e sbocceranno come fiori.

Un altro tipico errore cognitivo utilizzato dai cercatori è il cosiddetto ancoraggio (anchoring) secondo il quale la revisione di un giudizio intuitivo, impulsivo, non sarà mai tale da annullarlo del tutto e inconsapevolmente resteremo sempre ancorati al giudizio iniziale facendo soltanto delle correzioni a partire da questo. Detto in altre parole se si afferma una cosa, magari è esagerata ma qualcosa di vero deve pur esserci. Se in campagna elettorale vengono promessi un milione di posti di lavoro e poi tale risultato non viene raggiunto comunque la gente penserà che i posti creati siano vicini a questa cifra e non che siano soltanto quarantacinque. Ancora se un individuo viene accusato di crimini orrendi anche se in seguito risulta completamente scagionato si tenderà a pensare che qualcosa di losco dovesse pur esserci cosicchè la calunnia, anche quando si dimostra palesemente tale, raggiunge in parte il suo scopo. Questo meccanismo che ci rende cognitivamente conservatori e poco inclini a cambiare idea radicalmente è particolarmente attivo quando la ricerca delle tracce viene attivata da voci, consigli di persone che si preoccupano del bene del soggetto e dunque lo vogliono mettere in guardia per evitargli penose sofferenze. Questo punto è  importante, ci sarebbe da chiedersi quali siano gli scopi di chi si mette sulle tracce di un tradimento.

Peppino viveva in una isola siciliana e aveva sposato una moglie più giovane di lui con la quale aveva avuto 4 figli. La coppia non andava molto d’accordo, ma avevano un affetto reciproco e una conflittualità che in fondo li divertiva. Quando il più grande andò a fare la prima elementare a Messina, la moglie nel periodo scolastico si trasferì a Messina con lui. Lì si fece qualche amica e cominciò ogni tanto ad andare al bar e a chiacchierare con le amiche mentre i figli le stavano intorno. Al marito arrivò una lettera anonima che gli diceva di stare attento alla moglie…
Lui andò a Messina e si nascose per vedere come andavano le cose. Nascosto tra i cespugli vide sua moglie che entrava al bar con i bambini piccoli, salutava il cameriere, era accolta con un sorriso dal padrone del caffè e faceva due battute con un signore vicino, mentre aspettava le amiche. Questo comportamento della moglie gli sembrò la conferma del tradimento avvenuto o incombente. L’anno dopo decise di trasferirsi in America dove aveva dei parenti per far sì che la moglie fosse sotto controllo. Il trasferimento in America, che lo fece disperare, rovinò il suo matrimonio e alla fine di tutto lui restò solo, tornò in Italia e i figli rimasero negli Stati Uniti ed egli li vede quando vengono a trovarlo nel periodo estivo..

Dei possibili tradimenti si parla molto, anzi spesso è uno degli argomenti di intrattenimento preferiti. Le donne non amano particolarmente parlare dei propri ma si dilungano su quelli veri o presunti delle loro amiche e in generale degli uomini, tranne quelli del loro uomo. Gli uomini con gli amici più intimi parlano più facilmente dei loro e spesso li esibiscono a dimostrazione della loro virilità come trofei di caccia, con meno facilità ammettono di essere perdutamente innamorati e narrano con imbarazzo ciò che tale sentimento li ha portati a fare. Comunque sia di tradimenti si parla molto, sia di quelli effettivi che di quelli solamente immaginati che passando di bocca in bocca acquistano consistenza, diventano reali e si arricchiscono di particolari. In questo modo il fenomeno dell’ancoraggio ha buon gioco. Le fanciulle di Don Giovanni non saranno state mille e tre ma certo qualcosa di molto simile, certamente non meno di duecento.

Tra tutti i bias cognitivi il più insidioso per il cercatore è la facile rappresentabilità (ease of representation) secondo la quale l’effettiva possibilità che un certo evento si verifichi è sovrastimata se l’evento è facile da immaginare mentalmente e se ci impressiona emotivamente. Così se vediamo un grave incidente stradale siamo portati a rallentare come di fronte ad una pubblicità emotivamente forte sui rischi della strada anche se queste due situazioni non aumentano di fatto la probabilità che ci capiti un incidente; lo stesso effetto di rallentamento non lo ottengono invece le statistiche sulla mortalità stradale. Per lo stesso motivo tutti siamo più disposti ad offrire soldi per la ricerca medica per malattie di cui conosciamo personalmente dei malati o abbiamo visto in televisione le immagini piuttosto che per malattie magari molto più diffuse e gravi ma che non ci rappresentiamo mentalmente. Ora nella mente di un cercatore l’immagine del tradimento è sempre presente, si impone con forza e più tenta di scacciarla (essendo impossibile cercare di non pensare a qualcosa se non pensandoci) più diventa invasiva. Egli rimugina costantemente sulle parole che si sono scambiati i due sospettati durante l’ultima cena in comune, cerca di mettere a fuoco alcuni particolari ingrandendoli fino a sgranarne l’immagine: nel salutarsi dove si è poggiata la bocca di lui in piena guancia o sull’incerto confine delle labbra? Quando lui le porgeva la mano per aiutarla a scendere dalla macchina quei due corpi non mostravano forse una intesa e una familiarità inconsueta per due conoscenti che si frequentano poco? Le risate di lei così eccessive alla battuta di lui sono iniziate prima di quelle degli altri, prima della conclusione della frase, quasi che lei già sapesse, che avesse già sentito quella storia? La narrazione che lei fa di una serie di eventi è come lacunosa, si stenta a seguirne il filo, solo lui capisce, annuisce, si diverte, è come se sapesse qualcosa che gli altri ignorano, condivide con lei delle conoscenze e dei riferimenti che gli altri non hanno? Il cameriere del ristorante che dovrebbe essere sconosciuto ha mostrato una confidenza eccessiva e forse la conoscenza dei gusti di lui come e se già vi si fosse recato in altre occasioni?

Il cercatore ha sempre in mente la scena del tradimento, si tortura immaginando i fotogrammi della sequenza dell’incontro gioioso dei due che si corrono incontro, li immagina che parlano di lui mostrando ora pena, ora ironia, costruisce decine di versioni di possibili modalità di rapporti sessuali, ogni luogo viene preso in considerazione come probabile alcova e ogni ginnastica amorosa è contemplata: probabilmente il Kamasutra è stato scritto dall’ immaginazione di un geloso. Il tradimento dunque è costantemente e dettagliatamente rappresentato in tutti i particolari nella mente del cercatore che proprio per questo finisce per stimarlo come assolutamente probabile: l’immaginazione costituisce una prova per l’esistenza della realtà, o meglio la crea dal nulla.

Infine l’ennesimo bias in cui cade il cercatore è la manipolabilità delle credenze attraverso copioni (reconsideration under suitable scripts) che consiste nel fatto che un evento giudicato altamente improbabile, come ad esempio un’ invasione italiana della Svizzera con la messa al sacco di Zurigo, venga giudicato estremamente più probabile dopo che al soggetto vengono narrati degli scenari intermedi che potrebbero, passo dopo passo, condurre a tale conclusione come ad esempio la secessione della Padania, l’alleanza della Padania con la Svizzera, il rimpatrio di tutti i lavoratori italiani in Svizzera con la confisca dei loro beni e così via. Tracciare una sequela di eventi concatenati plausibili anche se altamente improbabili rende immediatamente meno apparentemente improbabile l’evento finale di quanto non lo fosse se considerato separatamente. Il cercatore è il narratore e l’ascoltatore allo stesso tempo. Spesso il partner e l’ipotetico rivale sono due persone estremamente distanti, la loro possibilità di incontrarsi vicina allo zero e sussistono tutta una serie di ostacoli che renderebbero il tradimento praticamente impossibile. Allora il cercatore inizia a costruire gli scenari intermedi, a mettere ponti e passaggi per colmare la distanza, quello che sembrava impossibile diventa via via proponibile, forse verosimile e finalmente vero.

Tra il mondo di lui manager di una casa farmaceutica di Milano e lei casalinga di Catania sembra non esserci nulla da spartire. Eppure lei ha una figlia adolescente, questa figlia può essere stata male di una malattia poco nota, può essersi recata al Niguarda dove c’è un gruppo di specialisti che si occupa di tale patologia, questi possono aver chiesto alla casa farmaceutica di riattivare la produzione di un farmaco poco usato, la donna, vedova, può aver voluto incontrare i dirigenti dell’azienda che si sono mostrati sensibili alla problematica della figlia, per mostrargli tutta la sua gratitudine e lo ha invitato a visitare l’ospedale di Catania dove la terapia sarà praticata, lui ha scoperto un gruppo di medici a Catania decisi a portare avanti una sperimentazione che l’azienda sponsorizza e per questo deve recarsi spesso in Sicilia.

Tutte queste modalità tendono dunque a trovare la conferma delle proprie ipotesi ed a convincersi di esse sempre di più. Di conseguenza quanto più il sospetto del tradimento si fa consistente, tanto più le strategie di ricerca vengono intensificate. Si crea dunque un circolo vizioso in cui il sospetto alimenta la ricerca ma i bias confermazionisti utilizzati nella ricerca aumentano il sospetto. Tutto ciò può assumere intensità drammatiche fino a sfociare in un vero e proprio delirio di gelosia caratterizzato dalla certezza assoluta dell’infedeltà del partner, certezza resistente ad ogni critica e inattaccabile da ogni evidenza contraria.

Quello che ci preme sottolineare per concludere è che la trappola scatta quando il soggetto decide che quello che non deve assolutamente verificarsi è di essere tradito senza accorgersene e dunque stima molto più grave sbagliare su questo che commettere l’errore opposto e cioè ritenere erroneamente di essere tradito: egli attribuisce ai due errori due pesi molto diversi. Da quel momento egli smette di essere un giudice imparziale che vaglia tutte le prove e ricerca soltanto quelle a favore del tradimento; in questa ricerca non può mai placarsi, anche se non ha trovato nulla fino ad ora non può abbassare la guardia perché potrebbe trovarle in futuro e poi per i meccanismi che abbiamo descritto tutto può diventare una prova o perlomeno un indizio.

 

RUBRICA TRACCE DEL TRADIMENTO

Vittime di reato, da oggi aumenta la protezione: estesa agli adulti la Convenzione di Lanzarote

Convenzione di Lanzarote estesa anche agli adulti vittime di reato

Cambiano le regole sulla tutela delle vittime e dei testimoni di reato in sede di ascolto giudiziario: oggi, con l’entrata in vigore del decreto legislativo n. 212, la normativa della Convenzione di Lanzarote – finora riservata ai minori – si estende anche gli adulti in condizione di “particolare vulnerabilità”.

COMUNICATO STAMPA – ORDINE DEGLI PSICOLOGI DEL LAZIO

Per loro, in sede di colloquio, obbligatoria la presenza di psicologi e neuropsichiatri a fianco della polizia giudiziaria. Gli effetti di questo passaggio e delle modifiche normative introdotte dal 2012 a oggi al centro di un convegno organizzato dall’Ordine degli Psicologi del Lazio.

Da oggi, anche gli adulti vittime di reati potranno beneficiare delle misure di protezione già previste per i bambini nella legge di ratifica della Convenzione di Lanzarote. Con l’entrata in vigore del decreto legislativo n. 212 del 15 dicembre 2015 -in attuazione della direttiva 2012/29/UE del Parlamento europeo -le norme minime in materia di diritti, assistenza e protezione delle vittime di reato in sede di ascolto giudiziario si estendono infatti a tutti i soggetti in “condizione di particolare vulnerabilità”: vittime di reati violenti o comunque impattanti sul loro stato emotivo – come gli stupri o la violenza di genere – ma anche in difficoltà per cultura, lingua, stato emotivo, disabilità.

Le conseguenze di questo passaggio, assieme all’analisi della normativa in materia e delle buone prassi messe in atto in questi anni nel territorio di competenza della Procura della Repubblica di Roma, sono state oggetto del convegno “Tre anni da Lanzarote: primi dati, buone pratiche, problemi aperti”, organizzato dall’Ordine degli Psicologi del Lazio e dalla Scuola Superiore della Magistratura in collaborazione con l’Ordine degli Avvocati presso la Corte d’Appello di Roma.

Negli ultimi vent’anni, anche per effetto delle sollecitazioni sovranazionali e dell’adeguamento della normativa nazionale, l’attività di ascolto giudiziario in ambito penale ha conosciuto significativi progressi, soprattutto con riferimento a bambini e adolescenti. Si è infatti assistito ad un impegno normativo, istituzionale, scientifico e operativo orientato verso una crescente e sempre più specializzata attenzione alle vittime dei reati. Da una parte, il sapere psicologico ha approfondito le conoscenze sulle conseguenze (psicologiche, economiche e sociali) vissute dai soggetti interessati; dall’altra, il legislatore ha rafforzato il sistema degli strumenti di protezione.

Con l’approvazione della Legge di Ratifica della Convenzione di Lanzarote è stato conferito un ruolo determinante, nel procedimento penale, alla presenza di “esperti in psicologia o psichiatria infantile”, impegnati nella raccolta delle dichiarazioni di persone minorenni ed eventualmente di “maggiorenni in condizione di particolare vulnerabilità”, possibili vittime e/o testimoni di una vasta gamma di reati, dall’abuso sessuale al maltrattamento e alla violenza assistita.

La stessa legge introduce delle modifiche nell’ordinamento penitenziario rispetto al tema del trattamento psicologico per le persone condannate per reati di tipo sessuale, rinnovando l’esigenza di comprendere come migliorare non solo le misure di protezione per le vittime ma anche gli interventi di prevenzione della recidiva per gli autori.

«Le misure di protezione previste a partire dalla legge di ratifica della Convenzione di Lanzarote -ha spiegato Pietro Stampa, vice presidente dell’Ordine degli Psicologi del Lazio – hanno rappresentato un importante antidoto ai rischi della cosiddetta “vittimizzazione secondaria”, ovvero le ripercussioni negative che una macchina della giustizia concepita per regole, luoghi e tempi a misura di adulto, poteva avere sul benessere e il superiore interesse dei bambini. L’estensione della normativa a tutti i soggetti in condizione di particolare vulnerabilità, stabilendo l’obbligatorietàà della presenza di psicologi e neuropsichiatri infantili al fianco della polizia giudiziaria in sede di colloquio, rappresenta un ulteriore passo in avanti nella tutela della persona, aspetto per noi psicologi prioritario».

Fin dal 2012 la procura di Roma, prima in Italia, si è attivata per tradurre in azioni concrete e procedure operative quanto deciso a livello legislativo: con l’allestimento di uno spazio attrezzato per le audizioni protette delle vittime, ad esempio, oltre che con la predisposizione di una turnazione di un gruppo di “esperti in psicologia e psichiatria infantile” reperibili 24h su 24h e di un team di magistrati specializzati nel trattare “delitti contro la libertà sessuale, la famiglia ed i soggetti vulnerabili”, coordinato dalla Procuratrice Aggiunta dott.ssa Maria Monteleone.

La stessa dott.ssa Monteleone è intervenuta nel corso del convegno presentando gli esiti del lavoro condotto in questi anni, in cui gli psicologi al fianco dei magistrati e della polizia giudiziaria hanno affrontato la gestione della delicata fase di raccolta delle primissime dichiarazioni di molti bambini, bambine e adolescenti coinvolti – come vittime o anche solo come testimoni – in diverse tipologie di reati: prostituzione minorile, maltrattamenti in famiglia, abuso sessuale, violenza domestica assistita, “stalking”, “grooming”(l’adescamento on line, una delle nuove previsioni delittuose introdotte con la legge 172 nel 2012).

«Purtroppo – ha dichiarato Vera Cuzzocrea, psicologa giuridica dell’Ordine degli Psicologi del Lazio – le evoluzioni normative che sono state prodotte in questi anni e che hanno rafforzano le misure di protezione per le vittime, non hanno parimenti riguardato anche gli autori dei reati. Nonostante un lieve accenno in una legge di quasi un decennio fa, che prevedeva l’istituzione di un fondo per il trattamento dei colpevoli di reati di abuso e sfruttamento sessuale anche al fine di prevenirne la recidiva, il nostro Paese ancora non prevede un intervento specifico in materia. Né sono ancora stati attivati i servizi di giustizia riparativa voluti dalla Direttiva 2012/29/UE del Parlamento europeo».

«La legge di ratifica della Convenzione di Lanzarote – ha proseguito Cuzzocrea – si è però finalmente espressa in tal senso, introducendo delle modifiche nell’ordinamento penitenziario rispetto al tema del trattamento psicologico per le persone condannate per reati di tipo sessuale. Ma non basta. Il fenomeno della violenza deve ancora essere affrontato con la complessità che merita, come richiamato dai principi espressi dalla normativa europea, intervenendo cioè su più livelli (autori e vittime) e attraverso vari ambiti e tipologie di intervento: culturale, mediante la messa in atto di progettualità di prevenzione primaria, ma anche giudiziario e normativo, con il rafforzamento delle tutele previste per le vittime e delle opportunità rieducative per gli autori».

 

Giuliano Lesca
Addetto stampa Ordine degli Psicologi del Lazio
Via del Conservatorio, 91 (00186) Roma
Tel.: 06 36002758
Cell: 327 3290946
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Responsabilità penale nei minori: la comprensione del crimine da parte dei bambini

Responsabilità penale nei minori: all’età di 8 anni i bambini sono già in grado di distinguere i reati dalle semplici bravate, li giudicano più duramente e si aspettano conseguenze più gravi.

È quanto affermano i ricercatori della Macquerie University di Sidney, Australia, autori di uno studio recentemente pubblicato su Legal and Criminological Psychology.

La ricerca getta nuova luce sulla complessa questione della responsabilità penale nei minori (nota come ACR, Age of Criminal Responsibility), offrendo dati sperimentali importanti, seppur non definitivi, per stabilire quale debba essere l’età minima per l’imputabilità.

Attualmente, infatti, non vi è accordo su questo punto e se negli Stati Uniti la soglia per la responsabilità penale nei minori è fissata a 7 anni, nel nostro paese si può parlare di responsabilità penale a partire dai 14 anni e in Belgio si devono attendere i 16. Fondamentale risulta quindi la ricerca sulla questione al fine di limitare la componente arbitraria e fornire alla giurisprudenza dati empiricamente fondati.

 

Responsabilità penale nei minori e imputabilità dei bambini

Uno degli elementi fondamentali per poter parlare di imputabilità nei minori sembra essere la comprensione da parte del soggetto della natura criminale di un comportamento. È difficile, infatti, affermare che una persona sia responsabile di un’azione se si dubita che ne comprenda a pieno la natura e le conseguenze.

Comprensione del crimine nei minori: l’esperimento

Proprio di questo aspetto si sono occupati Paul Wagland e Kay Bussey, che hanno analizzato dati relativi a 132 soggetti equamente distribuiti in quattro classi d’età (8, 12, 16 anni e giovani adulti attorno ai 20 anni). A ciascuno dei partecipanti i ricercatori hanno mostrato otto vignette raffiguranti situazioni di aggressioni fisiche, violazioni della proprietà, furti o incendi.A metà dei soggetti è stata proposta una versione delle vicende che le descriveva come semplici bravate; all’altra metà, invece, è stata presentata una formulazione molto più simile ad un vero e proprio reato. Per ciascuna situazione si è chiesto ai partecipanti di valutare la gravità dell’atto, di esprimere un giudizio morale e di fare previsioni sulle conseguenze.

I risultati mostrano chiaramente che già a 8 anni i bambini sono in grado di fare questo genere di considerazioni in modo adeguato, identificando i reati come comportamenti ‘sbagliati’ ed esprimendo al riguardo valutazioni morali più negative rispetto a quelle riportate in riferimento ad azioni poco responsabili ma di gravità decisamente inferiore. In particolare, i giovanissimi partecipanti hanno dato prova di tenere in conto, nel valutare la gravità di un atto, l’entità dei danni causati ad altri.

Come recita il titolo del recente film di Veltroni, i bambini sanno, ed è bene ricordarsi di tenere in considerazione che la capacità di analisi dei più piccoli supera in molti casi le nostre aspettative. Che questo sia poi sufficiente per ritenerli pienamente responsabili, da un punto di vista giuridico, delle proprie azioni è difficile dirlo sulla base di un singolo esperimento. Future ricerche risulteranno fondamentali in questa direzione e ci si augura che in un futuro prossimo la questione possa essere chiarita.

Siamo artefici della nostra stessa ansia?

E’ dimostrato che, spesso, siamo proprio noi stessi a far scaturire eccessiva ansia. L’ansia ci assale per le cose che ci diciamo o su cui ci iperfocalizziamo o per come, ad esempio, ci lasciamo trattare dagli altri.

Questo non vuol dire che noi siamo colpevoli o sbagliati; piuttosto, può ricordarci che possiamo essere in grado di lavorare sui nostri pensieri e prenderci cura di noi stessi con più gentilezza, in modo da migliorare la situazione. Fondamentale è identificare cosa fa raggiungere il picco alla nostra ansia; una volta scoperto ciò si può lavorare per ridurla.

Il terapeuta Casey Radle, specializzato nella cura di ansia e autostima presso l’Eddins Counseling Group a Houston (Texas), illustra quali sono tre modalità tipiche in cui cadiamo e con cui finiamo per amplificare la nostra ansia:

  • Considerare i nostri dubbi, fatti

Questo si verifica, ad esempio, quando ci troviamo ad uscire con una persona che ci piace davvero. Noi la invitiamo ad un nuovo appuntamento, ma se, dopo un po’ di ore, non riceviamo nessun segnale (messaggio, chiamata…) dall’altro, secondo Radle, iniziamo ad interpretare gli eventi, e quello che accade dentro di noi potrebbe riassumersi in questo tipo di pensiero: ‘Oh mio Dio, lui/lei non è interessato a me e non vuole vedermi mai più. Io non sono abbastanza per lui/lei, e ho sprecato la mia chances per questa relazione. Come ho potuto essere così stupido da pensare che qualcuno di così meraviglioso avrebbe voluto stare con uno come me?’

E così iniziamo a sentirci respinti, prima ancora di sapere cosa l’altra persona stia pensando o prima di darle la possibilità di rispondere. Lasciamo che siano le nostre insicurezze a scrivere la negativa narrazione degli eventi, senza alcuna informazione reale, assumendo che tali insicurezze siano dure e fredde verità.

  • Prevedere il peggio

In questo modo possiamo descrivere ciò che avviene quando la nostra mente finisce in un luogo buio e cavernoso, pieno di tutti gli scenari peggiori e più catastrofici possibili e ci fa inevitabilmente saltare a conclusioni terribili quali: esami finali falliti, incidenti aerei e cari delusi…

Possiamo aspettarci il peggio a livelli estremi – attendendoci, per esempio, lo schianto dell’aereo su cui siamo in volo – o in modo più sottile. Ad esempio: arrivi a lavorare e il tuo capo dice che vuole un incontro con te più tardi. Non ti dice il motivo e questo, secondo Radle, giustifica il tuo iniziare a ripeterti: ‘Finirò nei guai. Il mio capo vuole licenziarmi, già lo so’.

Ecco che di nuovo, ancora prima di partecipare alla riunione, si è già dato per scontato tutto quello che accadrà, e niente di ciò che viene previsto ha carattere positivo.

  • Ignorare le nostre esigenze

E’ proprio così: trascurare i nostri bisogni di base può rinforzare l’ansia. Per esempio: Stai dormendo abbastanza? Stai nutrendo il tuo corpo con nutrienti adeguati? Stai prendendo pause regolari?

E’ dura essere rilassati quando si è in giro, con la quarta tazza di caffè in mano, trascinati qua e là dalla lista di cose da fare, insicuri su quale sia l’ultima volta che si è stati seduti.

Lo stesso vale, in termini di ansia, per la mancata demarcazione e preservazione dei confini. Per esempio: Lasci che gli altri ti scavalchino e ti mettano i piedi in testa? Dici ‘sì’ quando in realtà vorresti dire ‘no’? Rimani in situazioni o relazioni che non sono giuste per te?

Cosa può aiutarci? Secondo quanto suggerito da Radle, quello che può aiutarci è:

  • Fare a noi stessi dei discorsi d’incoraggiamento e parlarci con un tono maggiormente compassionevole;
  • Considerare, quando non conosciamo interamente i fatti, molteplici scenari, evitando di riempire i pezzi mancanti in modo da realizzare una narrativa che rafforzi il pensiero ansioso;
  • Quando ci accorgiamo di saltare a conclusioni affrettate o di tentare la lettura delle menti altrui, ricordarci, in modo gentile, che sono cose che non possiamo proprio conoscere;
  • Onorare i nostri bisogni: dormire abbastanza, prendersi delle pause, impegnarsi in attività divertenti, rispondere alle proprie esigenze fisiche, emotive, mentali e spirituali;
  • Stabilire dei confini e denunciare apertamente quando questi vengono varcati da qualcuno: non possiamo aspettarci che la gente li conosca istintivamente; dobbiamo comunicarli in modo chiaro e se abbiamo bisogno di maggiori informazioni, aiuto, tempo o altro, non dobbiamo aver paura di chiedere.

Quindi, se vi ritrovate, con pensieri o azioni, in uno dei precedenti esempi, sapete che le cose possono cambiare partendo proprio da voi stessi, e, se avete bisogno di un po’ di supporto in più, non esitate a consultare un terapeuta.

 

 

Mille sfumature di narcisismo

Il narcisismo si deve considerare non come categoria unica ma lungo uno spettro che va dal narcisismo sano a quello maligno. Ma chi è il narcisista?

 

Cosa accomuna un carismatico leader ad un uomo che umilia la propria moglie? E cosa avvicina un egocentrico uomo d’affari ad un timido impiegato che sogna di essere un super eroe?

La risposta è: far parte dell’ampia famiglia dello spettro narcisistico. Ma chi è dunque il narcisista?

L’ultima edizione del DSM, la Bibbia degli psicologi e psichiatri di tutto il mondo, ha apportato delle modifiche rispetto alla versione precedente, cercando di cogliere maggiormente la complessità di queste personalità, a volte descritte come mostri a volte come encantador nella vulgata pubblica.

I criteri diagnostici per fare diagnosi di disturbo Narcisistico di Personalità secondo la quinta edizione del manuale ruotano sempre, come nella quarta, attorno al concetto di grandiosità.

Il DSM V però compie anche un passo avanti rispetto alla precedente edizione mettendo in luce per la prima volta i paradossi del narcisismo: l’enorme vulnerabilità dietro la facciata grandiosa, la solitudine profonda dietro l’auto-esaltazione. Un elemento diagnostico ulteriore è l’abuso di sostanze (es. tabacco, alcol, cocaina), che rappresenta un tentativo disfunzionale di curare l’inquietudine, l’irrequietezza e il mal di vivere costanti, tipici di questa patologia.

La pratica clinica e il lavoro sul campo mi spingono ad essere d’accordo con la critica al semplicismo mossa al DSM dal professor Jeffrey Young, ideatore dell’approccio innovativo della Schema Therapy.

Il DSM e l’opinione comune infatti si focalizzano quasi esclusivamente sui comportamenti esteriori e di compensazione adottati da questi pazienti, cioè sulla parte auto-esaltatrice, quella più visibile e quasi sempre attiva in loro. La terribile maschera di default per intenderci.

Il disturbo narcisistico è qualcosa di più complesso che si può considerare lungo un continuum e non si può racchiudere dentro un’unica categoria. Ad un estremo dello spettro troviamo ad esempio il narcisismo sano (Behary, 2013).

 

Il narcisismo sano

Sono infatti narcisiste quelle persone carismatiche, assertive e sicure di sé che, galvanizzate dai complimenti e dalle lodi, ottengono spesso fama e riconoscimenti nella comunità di appartenenza. Sono uomini e donne fortemente determinati, padroni di sé e capaci di una leadership coinvolgente ed empatica. Spesso queste personalità sono diventate così dopo aver superato un passato burrascoso e turbolento grazie ad una terapia o l’incontro fortunato con un insegnante, amico o mentore. Alcune persone di successo rientrano nella categoria del narcisismo sano, accanto agli ambiziosi e rampanti narcisisti manifesti o overt, che non si fanno invece scrupoli a camminare sopra i cadaveri dei loro nemici.

 

Il narcisismo maligno

All’estremo opposto dello spettro troviamo invece quello che Kernberg (1992) definisce narcisismo maligno, che corrisponde alla personalità psicopatica e paranoide descritta da Lowen (1983).

Il narcisista maligno ha caratteristiche che lo pongono in un’area ibrida tra narcisismo e disturbo antisociale di personalità. Alcune caratteristiche tipiche del narcisismo raggiungono nel narcisista maligno il massimo grado di espressione: grandiosità, mancanza di sentimenti, perdita di contatto con il sé e il corpo, mancanza di contatto con la realtà, senso di onnipotenza, diffidenza verso gli altri, rabbia espressa, sadismo (anche verso se stesso) e crudeltà.

Solitamente il narcisista maligno, soprattutto quando è grave, è stato vittima di una forte aggressività da parte dei genitori nella prima infanzia. Ha avuto spesso un genitore (di solito il padre) fortemente sadico e punitivo e gradualmente si è identificato con lui.

In età adulta il suo mantra diventa: ‘Posso fare quello che voglio’ , ‘Nessuno mi può ferire’, in una visione dicotomica e scissa della vita (vista come una giungla) e degli altri, visti o come completamente buoni (quindi deboli e da sottomettere) o completamente cattivi (da attaccare o da cui fuggire in base alla forza percepita). Lo sviluppo più drammatico del disturbo quindi si osserva quando la grandiosità del paziente si combina con una forte quota di aggressività.

 

Narcisismo overt e covert

Tra narcisismo benigno e narcisismo maligno esistono molte sfumature che vanno dal narcisismo covert o nascosto al narcisismo overt o manifesto (Wink, 1991).

Il narcisisista covert è inibito, vulnerabile, ipersensibile alle critiche, ha paura del rifiuto, prova spesso vergogna e imbarazzo, sente sempre un’enorme distanza tra sé e gli altri (‘Vedo sempre gli altri come da dietro ad uno specchio, li sento lontani, come fossi un alieno’).

Ma, a differenza di quanto si può notare ad un’osservazione superficiale, il narcisista nascosto non è un dolce e affettuoso gattino, ma un leone addormentato. Condivide infatti con il suo contraltare overt l’atteggiamento di sfruttamento e manipolazione nei confronti degli altri, l’assenza di empatia, una certa quota di aggressività (seppur generalmente inferiore rispetto al narcisista overt) e la presenza di fantasie grandiose (nonostante queste, a differenza di ciò che accade per il narcisista overt, siano celate e meno consapevoli).

La paura di fallire e di non realizzare le proprie fantasie di grandezza determina spesso in queste persone la tendenza ad evitare situazioni in cui possono trovarsi al centro dell’attenzione (Kohut & Wolf, 1978). I narcisisti covert provano spesso vergogna e rabbia, senso di fallimento e sconfitta, rifiuto, espulsione.

Il narcisista overt invece appare superiore, autosufficiente, dominante, euforico, trionfante (o alternativamente freddo e distaccato). Sente di non appartenere al resto dell’umanità o di far parte di una élite superiore (Dimaggio et al., 2007).

Il narcisista overt sembra simile al carattere narcisistico descritto da Lowen, per cui:

Mentre cammino ho la sensazione che la gente si faccia da parte per farmi passare. Sembra la divisione delle acque del Mar Rosso per permettere il passaggio degli Ebrei. Ne sono fiero.

In conclusione da questa disamina appare più corretto parlare di spettro narcisistico che di narcisismo. Un continuum che va dal narcisismo sano a quello maligno, dal narcisista covert a quello overt, in base al grado di grandiosità, perdita di contatto con la realtà, mancanza di sentimenti e di contatto con i propri bisogni, le proprie sensazioni corporee ed emozioni. E i narcisisti si collocano in un punto su questo continuum.

Family-Based Treatment (FBT) per il trattamento dell’Anoressia Nervosa: intervista al Prof. Daniel Le Grange

Come accennato in un primo articolo, uno dei principali temi oggetto di discussione tra alcuni dei clinici presenti al corso era relativo alla volontà di cercare di definire una cornice teorica – considerato che il FBT mantiene una posizione decisamente “agnostica” sulla patogenesi del disturbo – che potesse fungere da “calderone” e consentire una riflessione più ampia sui meccanismi e sulla valutazione degli aspetti patogenetici di mantenimento dell’Anoressia Nervosa.

Al termine del corso, il Prof. Le Grange ha accettato di rilasciare una breve intervista dove approfondire alcuni aspetti del trattamento.

Walter Sapuppo (WS): Le chiederei di scegliere cinque aggettivi o parole che possano descrivere il Family-Based Treatment.

Daniel Le Grange (DLG): …(ride)… Dunque: focalizzato, limitato nel tempo, pragmatico, orientato al cambiamento, rispettoso delle famiglie.

WS: Iniziamo con il primo: “focalizzato”.

DLG: Permette alle famiglie e ai clinici di rimanere focalizzati come un bisturi laser sull’aspetto primario del trattamento: salvare l’adolescente dalla sua patologia permettendogli di ripristinare il peso corporeo e ritornare al normale sviluppo adolescenziale, esattamente in questo ordine.

WS: D’accordo, passiamo al secondo… “Limitato nel tempo”.

DLG: “Limitato nel tempo” perché, sin dal principio, quello che si cerca di ottenere – velocemente – è l’autonomia della famiglia, di modo da non creare una dipendenza dai clinici per andare avanti e riuscire, dunque, a contare sulle proprie risorse. Una volta che la famiglia avrà rinforzato le abilità nel prendersi cura del proprio figlio, potranno occuparsene da soli e terminare il trattamento con i loro tempi e nel loro ambiente.

WS: Parliamo del terzo: “pragmatico”.

DLG: “Pragmatico” perché è un trattamento focalizzato sul cambiamento delle abitudini comportamentali e non molto sulle variabili psicologiche. Mi lasci chiarire: cambiando il comportamento dei genitori o le risposte che vengono date alla malnutrizione, si dà maggiore spazio all’adolescente piuttosto che alla patologia. Questo necessita di una maggiore concentrazione sul “fare”, piuttosto che sul “pensare”. Il clinico, infatti, dovrà essere focalizzato sul cambiamento comportamentale e su come ottenerlo in maniera pragmatica, non trascurando le variabili psicologiche ma lavorando maggiormente sui comportamenti.

WS: Dunque, “orientato al cambiamento”.

DLG: Penso sia collegato al punto precedente. In questo trattamento si cerca di ottenere dei drastici, quantificabili, cambiamenti nel modo in cui i genitori rispondono alla patologia alimentare. Quindi, se si è “focalizzati”, “limitati nel tempo” e “pragmatici”, è naturale voler raggiungere questi cambiamenti il prima possibile. Se si riesce a trasmettere questa propensione ai genitori, quella di cambiare – in meglio – settimana dopo settimana, penso sia altamente rinforzante e aiuti a rimanere focalizzati sull’obiettivo, come dicevo prima.

WS: Ultimo ma non meno importante…

DLG: “Rispettoso per l’adolescente e per le famiglie”. Nel fare tutto ciò che ho precedentemente detto a proposito del FBT, in maniera automatica è come dire ai genitori: “io credo che voi potete farcela, perché possedete già queste abilità”. Questo è di per sé molto rispettoso nei confronti dei genitori e, contemporaneamente, si sta aiutando l’adolescente a non portare da solo il peso di una patologia costante; in tal senso, risulta rispettoso anche dell’adolescente stesso. Infine, aiutando i genitori a estirpare la patologia alimentare, stiamo rispettando il naturale processo di sviluppo dell’adolescente che, attraverso i genitori, viene riportato “in carreggiata”.

WS: Perché, secondo lei, è così importante l’empowerment delle capacità genitoriali in adolescenza?

DLG: In un certo senso, per me, è la cosa più “naturale”. I genitori si prendono naturalmente cura dei propri figli, davvero pochi non sanno come fare. Quasi tutti i genitori cercano di comportarsi correttamente, amano e vogliono prendersi cura dei loro figli. Quello che accade nell’Anoressia Nervosa è confondente. I genitori iniziano a dubitare di avere le capacità di prendersi cura del figlio; sanno cosa fare se il figlio tenta il suicidio, sanno cosa fare se il figlio beve alcool quando non dovrebbe, sanno cosa fare se il figlio cade e si rompe una gamba. Se si riesce ad aiutare i genitori a riconquistare il loro affrancamento, si sentiranno maggiormente adeguati nel seguire la loro naturale propensione a soccorrere il proprio figlio e a raggiungere il risultato.

WS: Quali sono i rischi dell’aiutare i genitori a prendere il controllo del processo di recupero del peso corporeo?

DLG: Dal mio punto di vista, nell’ambito del FBT, ci sono molti più vantaggi che svantaggi in questo processo. Credo che l’unico rischio potrebbe essere quello che, alcuni genitori ipercoinvolti nella vita del figlio (anche se credo debbano essere appropriatamente coinvolti nella stessa), potrebbero risultare particolarmente ansiosi e non lasciargli spazio. Questi genitori, che rappresentano la minoranza, potrebbero prendere questo trattamento come un “semaforo verde” per rimanere ipercoinvolti e non lasciare i figli andar via. Questo perché sono particolarmente ansiosi e ritengono sia il giusto modo di comportarsi. Questo è probabilmente l’unico rischio al quale riesco a pensare.

WS: Quindi il non lasciare l’adolescente andar via (nel senso di non lasciare che segua un percorso “autonomo” di crescita).

DLG: Si, non lasciarlo andar via. Prendere questo trattamento come una conferma relativa al “ok, dovrei fare questo, dovrei fare quest’altro, non è opportuno che io receda” ecc.. Ma il trattamento è centrato sia sull’empowerment e l’ingaggio delle figure genitoriali nel combattere la patologia alimentare, sia sull’aiutarli a fare un passo in dietro quando è necessario che l’adolescente prosegua con la sua vita.

WS: Quali sono, secondo il suo punto di vista, i meccanismi patogenetici coinvolti nel mantenimento dell’Anoressia Nervosa?

DLG: Questa è probabilmente la domanda più difficile che mi hai posto, perché, onestamente, non sono molto sicuro di quali siano. Credo sia molto complesso perché sono presenti aspetti genetici, tratti di personalità, aspetti ormonali, fattori ambientali che non sono molto chiari, che si presentano insieme in modi che non comprendiamo completamente ma che rendono alcuni individui vulnerabili a questa patologia e che mantengono la patologia stessa… Quindi è difficile definire con precisione quali siano, perché non li conosciamo. E probabilmente riesco soltanto a guardare ai meccanismi familiari che sembrano essere coinvolti nel mantenimento della patologia. Involontariamente, per cercare di gestire la situazione, i genitori possono in qualche modo aver favorito il mantenimento dell’Anoressia. Possono aver imparato a comperare cibi ipocalorici o “fat-free”, possono aver imparato che se non servono a tavola un gelato o una fetta di torta all’adolescente ci saranno meno litigi… Sanno che loro figlio necessita di cibo ma, contestualmente, non vogliono turbarlo ulteriormente. Dunque questi sono alcuni dei meccanismi – intendo dire quelli osservabili – che potrebbero rispondere alla sua domanda sul mantenimento della patologia. Ci sono meccanismi genetici e trigger ambientali che interagiscono in modi che ancora non comprendiamo del tutto e sui quali non abbiamo controllo. Possiamo solo cercare di controllare i piccoli pezzi ai quali abbiamo accesso e che ho menzionato precedentemente.

WS: Un’ ultima domanda: cosa ritiene di aver imparato, sopra ogni altra cosa, nella sua esperienza clinica nel trattamento dell’Anoressia Nervosa?

DLG: Sarò molto breve: se riesci a far comprendere alle famiglie che, nonostante molte avversità, credi sinceramente nelle loro capacità di prendersi cura di loro figlio, riescono a centrarsi sugli obiettivi e dimostrano di riuscire a prendersene cura. Dobbiamo solo aiutarli nel supporto e nella costruzione di un contesto appropriato per riuscire a farlo.

Alla fine del corso, dopo le fruttuose discussioni e i ripetuti role-playing, diviene chiaro il perché il Family-Based Treatment costituisca uno degli interventi psicoterapeutici di prima scelta nel trattamento dell’Anoressia Nervosa in età adolescenziale e preadolescenziale. Il focus terapeutico – che potremmo forse definire pienamente “psicoeducativo” – sul restituire alla coppia genitoriale la funzione di cura e di guida autorevole per il superamento dei comportamenti alimentari disfunzionali, insieme alla particolare attenzione alle dinamiche intra-familiari nel mantenimento del disturbo, costituisce un valido strumento per fronteggiare una condizione particolarmente gravosa – oltre che per l’adolescente – anche per il nucleo familiare stesso. In questa fase dello sviluppo, infatti, un’attenzione focalizzata non soltanto sui processi intrapsichici può risultare particolarmente efficace nel creare un clima familiare collaborativo e focalizzato sull’implemento delle condizioni di salute dell’adolescente incagliato in una trappola evolutiva che inibisce i normali processi di svincolo dalla famiglia d’origine e, dunque, di costruzione dell’identità adulta.

Dott. Walter Sapuppo
Psicologo, Psicoterapeuta Cognitivo-Comportamentale, AAI Certified Coder. Docente presso le scuole di psicoterapia Cognitivo-Comportamentale Studi Cognitivi, Psicoterapia Cognitiva e Ricerca. Docente presso la Sigmund Freud University, Milano. Socio Ordinario della Società Italiana di Terapia Comportamentale e Cognitiva (SITCC) e della Society for Psychotherapy Research (SPR).

Workaholism e work engagement: se ti faccio lavorare troppo ti rubo l’anima

Workaholism: l’imprenditore Cucinelli è un uomo appassionato del suo lavoro, ma non è assillato dal lavoro, né vuole che lo siano i suoi collaboratori, perché riconosce che un eccessivo carico di lavoro possa creare disagi ed interferenze nello stato di salute e nelle relazioni interpersonali, tanto da potersi trasformare in una vera e propria patologia. Esiste infatti un termine, workaholism (o work addiction), che viene usato per indicare la dipendenza da lavoro, una patologia che rientra nella categoria delle dipendenze senza sostanze.

Nel 2009 Brunello Cucinelli, Presidente ed Amministratore Delegato di Brunello Cucinelli spa, ha vinto il premio Ernst & Young per il migliore imprenditore dell’anno grazie alla sua “impresa umanista”. Ciò che gli ha permesso di vincere il premio è stata la sua continua ricerca del benessere psicofisico e della qualità della vita negli ambienti di lavoro, oltre che la grande attenzione dimostrata per la cultura. Per Cucinelli il denaro riveste un valore vero solo se è investito per migliorare la condizione materiale e spirituale delle persone. Per lui i dipendenti sono “anime pensanti” e lui si sente il “custode” dell’azienda. Cucinelli vuole che i suoi collaboratori finiscano di lavorare ogni giorno verso le 17,30 e che non si mandino email di lavoro fuori orario per “conservare la propria energia creativa”. Per lui è fondamentale non esagerare con il lavoro, altrimenti, come ha detto in più occasioni, [blockquote style=”1″]se ti faccio lavorare troppo, ti rubo l’anima.[/blockquote]

Dunque l’imprenditore Cucinelli è un uomo appassionato del suo lavoro, ma non è assillato dal lavoro, né vuole che lo siano i suoi collaboratori, perché riconosce che un eccessivo carico di lavoro possa creare disagi ed interferenze nello stato di salute e nelle relazioni interpersonali, tanto da potersi trasformare in una vera e propria patologia.

 

Workaholism o work addiction

Esiste infatti un termine, workaholism (o work addiction), che viene usato per indicare la dipendenza da lavoro, una patologia che rientra nella categoria delle dipendenze senza sostanze. La traduzione letterale in italiano è “ubriaco da lavoro” o “sindrome da ubriacatura da lavoro” e deriva dall’analogia che tale patologia ha con quella della dipendenza da alcool.

Prima del 1971 per indicare un’eccessiva dedizione al lavoro veniva comunemente usato il termine stachanovismo.
Lo stachanovismo nacque nell’ex Unione Sovietica durante la dittatura stalinista come movimento di massa basato sull’esaltazione degli eroi del lavoro e sulla diffusione di uno spirito di competizione tra i lavoratori sovietici. Il movimento ebbe origine dall’impresa di un minatore, tal Aleksej Stachanov, che in una sola notte estrasse un quantitativo di carbone superiore di ben quattordici volte rispetto a quello normale.

Nel concetto di stachanovismo – ed in quello più moderno di workaholism – rientrano tutte le forme di dedizione totale ed estreme al lavoro.
Il termine workaholism fu utilizzato per la prima volta nel 1971 da Wayne Oates – come unione delle parole “work” e “alcoholism” – per indicare un rapporto compulsivo con il lavoro, molto simile a quello di un alcoolista con l’alcool.
Marilyn Machlowitz (1980) definisce il workaholism come:

[blockquote style=”1″]un intrinseco desiderio di lavorare a lungo e duramente.[/blockquote]

Sebbene la ricerca sul workaholism abbia una tradizione ultradecennale, soprattutto nei paesi anglosassoni, rimangono numerose questioni aperte sulla dipendenza da lavoro, sulla sua insorgenza, il suo sviluppo e le conseguenze a livello personale ed interpersonale.
Il fenomeno del workaholism è strettamente collegato ai mutamenti economici, sociali e culturali che hanno caratterizzato gli ultimi decenni e che hanno profondamente modificato il significato del termine “lavoro”, le modalità ed i luoghi di svolgimento del lavoro stesso. In particolare, con il diffondersi delle tecnologie informatiche, si è avuta una trasformazione dei tradizionali luoghi di lavoro e si è abbattuta quella barriera che separava l’attività lavorativa dalla sfera personale. Grazie ai computer, ad Internet, alla posta elettronica, ai cellulari, ai tablet ciascuno può lavorare sempre ed ovunque, con il rischio di essere assorbito dal lavoro anche nei momenti che dovrebbero essere dedicati alla famiglia ed al tempo libero.
Come la dipendenza dall’alcool, anche la work addiction è caratterizzata dalla tolleranza, ovvero dalla necessità di aumentare progressivamente la dose per soddisfare il bisogno.

Brian E. Robinson (1998) definisce il workaholism [blockquote style=”1″]un disturbo ossessivo-compulsivo che si manifesta attraverso richieste auto-imposte, un’incapacità di regolare le proprie abitudini di lavoro ed eccessiva indulgenza nel lavoro fino all’esclusione delle altre principali attività della vita.[/blockquote]
L’ossessionato-assillato dal lavoro, infatti, tende a dimenticare o ad ignorare le ricorrenze familiari ed esclude dalla propria vita i momenti di svago e di divertimento.

A differenza di altre forme di dipendenza, tuttavia, “l’ubriaco da lavoro” fa uso di una sostanza per così dire “legale” (il lavoro). Gli effetti prodotti da tale dipendenza, in verità, possono essere devastanti: uno degli effetti principali del workaholism è infatti l’esaurimento emotivo. Il workaholic diventa aggressivo coi familiari e coi colleghi, non pone un confine tra la vita professionale e quella personale, disprezza chi “perde tempo in attività futili” (quali andare a teatro, praticare sport, ascoltare musica, viaggiare….) ed è incapace di rilassarsi. Quando non lavora è inquieto ed annoiato e dimostra costantemente una rigidità di comportamento.

La “sindrome da ubriacatura da lavoro”, come altre forme di dipendenza, può essere considerato il prodotto di esperienze vissute durante l’infanzia e l’adolescenza e sembra essere direttamente collegato allo stile educativo che abbiamo ricevuto dai nostri genitori. Chi ha avuto genitori particolarmente esigenti tenderebbe a rifugiarsi nell’efficienza sul lavoro per essere accettato.
Il workaholic crede di valere come persona solo se riesce ad avere successo: per liberarsi da questa convinzione profonda deve cercare di abbatterla gradualmente e sostituirla con il pensiero: valgo per quello che sono, indipendentemente da quanto produco. In altre parole, deve superare il workaholism ed abbracciare il work engagement, che rappresenta quel sano coinvolgimento nel lavoro, che non ti ruba l’anima.

L’immaginazione mentale – Introduzione alla Psicologia

L’immaginazione mentale è la capacità di generare immagini mentali e rappresenta una delle attività più sorprendenti della mente umana. Risulta essere una attività mentale che utilizza come canale principale la percezione.

INTRODUZIONE ALLA PSICOLOGIA RUBRICA DI DIVULGAZIONE SCIENTIFICA IN COLLABORAZIONE CON LA SIGMUND FREUD UNIVERSITY DI MILANO

La mente immaginale, dunque, permette di elaborare informazioni visive attraverso una serie di elaborazioni neurotrasmettitoriali che generano, come prodotto finale, configurazioni neuro-mentali, più o meno complesse, caratterizzate dalla presenza di singole immagini mentali. Si tratta, per lo più, di attività noologiche, perchè coinvolgono le areee neocorticali, che permettono di distinguere i diversi processi grazie ai quali si elaborano informazioni visive, e identiche che generano contenuti mentali non figurali.

Per questo l’ immaginazione mentale potrebbe essere paragonata ad un processore utile per formulare immagini di quello che ci sta di fronte e della vita mentale. Questo processo è utile per assolvere a qualche compito cognitivo, problem solving, o per riportare alla mente un’immagine o generarne delle nuove utili per rispondere a esigenze psicologiche o esistenziali come, per esempio, mettere in atto un comportamento o progettare un’azione.
Queste immagini mentali sono principalmente immagini percettive, derivanti dalla visione, immagini retrocettive che si generano attraverso il recupero di immagini percettive passate, di immagini ideative e fantastiche create ex novo dal recupero di informazioni visive immagazzinate nella memoria a lungo termine e di immagini indotte proprio dall’immaginario collettivo.

La mente immaginale, dunque, è costituita da una serie di strutture o processi cognitivi corticali in grado di generare immagini facenti parte del mondo immaginale ovvero elaborato dalla nostra mente.

 

RUBRICA: INTRODUZIONE ALLA PSICOLOGIA

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