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Psicologia virtuale: il mio terapeuta è un computer! Nuove tecnologie nell’assessment e prospettive future

Possiamo sostituire lo psicologo, inteso come un essere umano dotato di strumenti e nozioni, con la sua sola funzione, separandola dall’uomo stesso, attraverso dei servizi di psicologia virtuale?

Andrea Arrigoni – Open school Psicoterapia Clinica e Ricerca 

E’ da poco disponibile Pavlok: un braccialetto elettronico che promette di far scomparire i nostri comportamenti sgraditi e sostituirli con altri più accettabili. Come il nome stesso suggerisce si tratta di una piccola macchina per elettrocuzione portatile. L’apparecchio, che si presenta nero e con una grande saetta gialla sul dorso, è bluetooth, e tramite una app sullo smartphone, è possibile dosare le scosse a seconda di quali sono le abitudini, vizi o dipendenze che vogliamo perdere.

Il fatto che un prodotto come questo possa essere stato concepito fa pensare che vi sia una notevole attenzione alla salute mentale, che questa domanda sia sempre più precisa ed i potenziali pazienti, sempre più (non sempre meglio) informati. Un buona testimonianza di ciò sono il numero e la varietà crescenti di app dedicate alla salute mentale, negli store online di Apple e Android. Se ne possono trovare molte con la funzione di diari emotivi, più o meno affidabili che hanno l’obiettivo di tenere traccia del proprio umore e delle proprie emozioni nel tempo, osservabile poi sotto forma di grafico.

Psicologia Virtuale: le ultime app

Con un altro obiettivo troviamo ‘Self-help Anxiety Management‘ che è stata sviluppata presso la University of the West of England da un team multidisciplinare di psicologi ed informatici e offre servizi di psicologia virtuale (anche detta cyberpsicologia), attraverso psicoeducazione e strumenti pratici, per es. esercizi quotidiani, per aiutare a tenere sotto controllo l’ansia e perfino sostenere al bisogno la persona durante un attacco di panico.

Il Centro Italiano Studi Mindfulness ha recentemente curato l’edizione per il nostro paese di ‘Mindfulness‘, che contiene strumenti per la pratica quotidiana con firme (o meglio ‘voci’) di rilievo come quella dello stesso Jon Kabat-Zinn. Nel negozio online di Apple è possibile trovare anche Sleepio, che si presenta come una app contenente tecniche CBT per la terapia dell’insonnia e che addirittura è in formula di abbonamento.

Proprio come detto poc’anzi, questo ci rimanda alla tendenza, precedentemente sottolineata, all’auto-medicazione psicologica.

Di natura molto diversa, sempre in tema di psicologia virtuale, è ciò che è stato concepito presso l’Institute for Creative Technology di Los Angeles ed è molto più di una app per lo smatphone o di un braccialetto: si chiama Ellie ed è un Virtual Human (o VH). Un sistema in grado di comunicare con una persona in un vero dialogo, e nel contempo rilevare segnali di distress emotivo dalla postura, dalle espressioni facciali e dal parlato della persona, fino a condurre ad una eventule diagnosi.

Essendo stata finanziata dalla ricerca militare, pensando quindi soprattutto ad un’utenza di reduci, le diagnosi cui il sistema è in grado di condurre, sono di disturbi dell’ansia, dell’umore e di disturbo post-traumatico da stress. I suoi creatori hanno pensato di dotare il sistema di un avatar: una rappresentazione grafica animata con la CGI della terapeuta che conduce il colloquio seduta su una poltrona, in modo da offrire alla persona un esperienza vicina a quella reale.

Si tratta anche in questo caso di uno strumento di psicologia virtuale, solo molto più completo avanzato ed autonomo di una app, proprio in quanto apre alla macchina le porte della diagnosi che fino ad ora era compito delle persone, fossero queste professionisti della salute mentale o gli utenti stessi.

I benefici della psicologia virtuale

Da una meta-analisi della letteratura in merito, Weisband e Kiesler (1996), affermano che comunicare con un computer offra benefici alla raccolta di informazioni in fase di assessment, in quanto le persone che interagiscono con questi sistemi di psicologia virtuale, possono contare sul fatto che chi riceve le loro informazioni non è un essere umano, facendo sì che la persona senta meno pressante il giudizio sociale rispetto a quanto dovrà dire. I creatori della macchina riprendono proprio questa idea, nello sviluppare Ellie come VH da impiegare nella sanità come strumento di assessment.

Per sperimentare l’effetto che la percezione della mera presenza di un osservatore (mere presence) o della convinzione che l’osservatore giudichi direttamente le loro risposte (mere belief), il team ha sottoposto un campione di 239 individui (149 maschi e 90 femmine di età compresa tra i 18 ed i 65 anni) a colloqui con un avatar (SimSensei). Ai partecipanti veniva detto che avrebbero affrontato una seduta di assessment con un avatar su di uno schermo. Per alcuni si trattava di un Virtual Human e dunque avrebbero interagito con una macchina, mentre per i restanti l’avatar era controllato a distanza da un essere umano (condizione chiamata ‘Wizard of Oz’). I soggetti sperimentali potevano così trovarsi davanti ad un pupazzo elettronico, governato quindi da un vero clinico, pensando che fosse tale o meno, oppure interagire con il VH, anche in questo caso, consapevoli o inconsapevoli della sua natura. In tutti i casi i colloqui avvenivano alla sola presenza dell’avatar, per evitare le conseguenze derivanti dalla presenza di una persona nella stanza (mere presence). Confermando quanto previsto nelle ipotesi, i risultati mostrarono una maggiore self-disclosure nel momento in cui i partecipanti pensavano di avere a che fare con un Virtual Human, che fosse realmente così meno.

 

Possibili effetti della psicologia virtuale

Giunti a questo punto, la domanda è: possiamo sostituire lo psicologo, inteso come un essere umano dotato degli strumenti della psicologia, con la sua sola funzione, separandola dall’uomo stesso attraverso una forma di psicologia virtuale? In questo senso, in fondo, le funzioni umane che vengono affidate alle macchine diventano sempre più complesse, a partire dal primo telaio meccanizzato, fino ad arrivare ai giorni nostri, dove assistiamo alla comparsa di camion capaci di guidarsi da soli, trasformando notevolmente il ruolo del conducente in un supervisore del viaggio e lasciando che la macchina si faccia carico di funzioni prima prettamente umane.

Rivolgiamo lo sguardo al futuro e proviamo ad immaginare un ‘iShrink‘. Potrebbe essere incluso un casco per la realtà virtuale, tramite il quale il paziente potrebbe tornare al setting con il suo terapeuta-avatar. In questo senso, la ricerca sull’uso della realtà virtuale in ambito clinico è ricca (Vincelli, Riva e Molinari, 2007) e si potrebbero affrontare disturbi come fobie o attacchi di panico, ad esempio tramite desensibilizzazione in un ambiente controllato che si pone a metà strada tra lo studio del terapeuta, sicuro ma lontano dal reale, ed il mondo di tutti i giorni, dove si sacrifica il senso di protezione in favore del realismo.

Il terapeuta-avatar potrebbe essere generato automaticamente nell’aspetto fisico e nel nome, in modo da far sì che non ci siano due pazienti con lo stesso terapeuta e creare un senso di unicità del proprio percorso terapeutico. Potrebbe trattarsi di un servizio di psicologia virtuale in abbonamento come Sleepio o l’utente potrebbe pagare la seduta virtuale con lo smartphone a prezzi concorrenziali. Come si vede fare a Siri, l’assistente elettronico di Apple, iShrink potrebbe sfruttare le informazioni ottenute dalla totalità dei suoi utenti per creare una sorta di esperienza e diventare sempre più precisa e realistica nell’interazione. Potrebbe aggiornarsi automaticamente e offrire al paziente il trattamento più moderno, con un terapeuta oggettivo, imparziale, che non si ammala mai e che non risente mai di una brutta giornata. Si tratta di un volo pindarico ma possiamo chiederci quanto sia grande la distanza che ci separa da una simile innovazione se ci chiediamo cosa deve fare un terapeuta, o meglio: quali sono le caratteristiche della funzione del terapeuta che la psicologia virtuale dovrebbe sostituire?

Possiamo provare a identificare queste funzioni con: la capacità di ascoltare in maniera non giudicante, utilizzare queste informazioni inserendole in quadro che permetta di affrontare il disturbo tramite la diagnosi e la conoscenza di tecniche terapeutiche, ed infine la costruzione di una relazione che si ponga come cornice stabile sia in senso supportivo sia come strumento di sperimentazione interpersonale.

Psicologia virtuale e l’ascolto non giudicante

Per ciò che attiene la prima parte di questo abbozzo di definizione, l’ascolto non giudicante, come si è visto in precedenza, la macchina ha di per sé il pregio di essere concepita come tale dalla persona che vi interagisce, favorendo l’apertura (disclosure) e dunque la raccolta delle informazioni (Weisband e Kiesler 1996). Per lo psicoterapeuta che conduce l’assessment o la terapia, il giudizio è sospeso e questo stato di sospensione va segnalato e talora ricordato al paziente mentre per la macchina e per la psicologia virtuale il giudizio è impossibile, proprio in quanto non umana.

Psicologia virtuale e conoscenze

La seconda parte da trattare attiene alla conoscenza della materia, con la diagnosi e le tecniche di trattamento. Suddividendo ulteriormente e soffermandoci sulla diagnosi, Ellie ha già dato prova di essere uno strumento di psicologia virtuale utile, specialmente tenendo conto che riesce ad acquisire informazioni da molti canali contemporaneamente, senza privilegiarne uno in particolare. Un essere umano, d’altro canto, non è in grado di mantenere costantemente ed equamente distribuita l’attenzione su ogni canale, tenendo conto che tra i vari input ci sono anche i suoi stessi pensieri, come ipotesi di diagnosi, aree da approfondire, esperienze pregresse e così via. La macchina può indubbiamente beneficiare di una precisione notevole e di una conoscenza della materia che è completa quanto può esserlo un preciso elenco di istruzioni dato ad un sistema che per sua natura non dimentica ne tralascia mai nulla di quanto sa o quanto vede.

Tuttavia, parte rilevante del bagaglio di informazioni necessarie per accogliere e successivamente rielaborare ciò che un paziente comunica ha a che fare con l’esperienza e, anche conseguentemente, con l’intuizione e queste doti, almeno allo stato attuale, rimangono squisitamente umane. Inoltre dobbiamo tenere presente che è comunque l’uomo a stabilire cosa la macchina debba cercare e cosa ignorare e come mettere insieme le informazioni entro una cornice che abbia senso per il paziente quanto per i professionisti che se ne occupano.

Psicologia virtuale e relazione terapeutica

Infine il terzo elemento del nostro tentativo di definizione ha a che vedere con la sfera interpersonale. Esiste letteratura riguardante la capacità dell’uomo di provare emozioni o empatia verso oggetti non umani. E’ questo il campo di lavoro dell’affective computing: comprendere come si sviluppino legami emotivi con sistemi informatici che vanno oltre il mero utilizzo degli stessi. Sul grande schermo, il film ‘Her‘ ipotizzava proprio la possibilità, invero neppure troppo remota, di provare emozioni complete verso un’entità non umana. La relazione che si instaura tra paziente e terapeuta è però qualcosa che va al di là del semplice sperimentare emozioni verso un oggetto ed ha a che fare con il concetto di alleanza terapeutica.

E’ questo un altro vasto argomento che potrebbe aprire a lunghe dissertazioni in campo di psicologia virtuale, ma mi limiterò ad avvalermi della definizione proposta da Safran e Muran (2000) per far luce su questa parte della nostra domanda. Per gli autori, l’alleanza si crea nella negoziazione interpersonale tra paziente e terapeuta e comporta una serie di momenti di rottura e di riparazione nella relazione. Queste rotture possono essere più tendenti al ritiro, con un minore investimento ed una minor partecipazione, o possono essere caratterizzate da confronto. Nel colmare queste rotture il paziente verifica anche come una relazione momentaneamente indebolita possa a tutti gli effetti essere migliorata, e così la relazione col terapeuta assume anche la funzione di spazio di sperimentazione di sicurezza nelle relazioni. Detto in altri termini, questa relazione diventa una nuova esperienza di attaccamento.(Schore e Schore, 2008)

Tornando alla macchina e al futuro della psicologia virtuale, sappiamo che è possibile provare emozioni verso di essa, rimanendo tuttavia consapevoli della sua natura, ma viene da chiedersi quanto un sistema complesso come un Virtual Human possa far sperimentare rotture e riparazioni relazionali come esperienza terapeutica per il paziente e, dall’altro lato, quanto un paziente possa essere motivato alla riparazione della relazione se si tratta di una relazione che almeno in una direzione, è frutto di simulazione. Provare emozioni in modo unidirezionale verso una macchina potrà mai essere paragonato ad una relazione di attaccamento?

Come visto in precedenza (Lucas, Gratch, King, Morency 2004) il fatto di pensare di stare interagendo con un essere umano pone tutte quelle questioni (apertura, onestà e desiderabilità sociale) che mettono a rischio la raccolta di informazioni, così importante nel lavoro psicoterapeutico, ma forse è proprio questa una delle qualità più importanti della relazione terapeutica. Il paziente tende a pensare di essere giudicato e può esserci molto che non dice per timore di essere percepito negativamente, e il compito del terapeuta è saperlo e, nel contesto di una relazione sicura, riuscire a superare questa eventuale empasse. Il terapeuta è un essere umano, che può sbagliare e tentare di porre rimedio ai propri errori proprio garantendo quell’imperfezione che crea relazione.

Giunti a questo punto viene da chiedersi non solo quale sarà il futuro di questa macchina e di quelle che verranno dopo di lei, ma anche quale possa essere il futuro dello psicologo in un mondo che si avvale di strumenti sempre più complessi. Anche sotto le pressioni economiche, arriveremo mai a veder sostituito lo psicologo (un essere umano in possesso di competenze) con uno strumento, una mera funzione esecutiva?

Forse un giorno la psicologia virtuale consentirà di fare terapia nel proprio soggiorno, con un casco per realtà virtuale ed un tablet e la terapia ‘vecchia maniera’ verrà apprezzata come oggi si apprezzano i prodotti fatti mano. Prima che quel giorno arrivi converrà tenere d’occhio Ellie, le sue figlie e le sue nipoti.

Le fasi evolutive della maternità e lo stress correlato

Un recente studio condotto dai ricercatori dell’Arizona State University si è occupato delle fasi evolutive della maternità, analizzando il benessere psicologico e il rapporto con i figli di circa 2200 donne americane. I risultati rivelano un dato interessante, descrivendo un andamento a “V” del benessere delle madri nel corso del tempo, con un picco verso il basso nel periodo in cui i bambini frequentano la scuola media.

Essere madri è un mestiere difficile e molto stressante. Ma come cambia nel corso del tempo? Quali sono i momenti più complessi dell’essere genitore? I figli che crescono rendono le cose più facili?

Un recente studio condotto dai ricercatori dell’Arizona State University si è occupato di questi temi, analizzando il benessere psicologico e il rapporto con i figli di circa 2200 donne americane. I risultati rivelano un dato interessante, descrivendo un andamento a “V” del benessere delle madri nel corso del tempo, con un picco verso il basso nel periodo in cui i bambini frequentano la scuola media. Risultati simili sono stati registrati in relazione ai livelli di stress materno con un picco nel medesimo periodo, questa volta verso l’alto. Insomma, la vera sfida non è quella del trovarsi all’improvviso ad occuparsi di un neonato, delle notti insonni, dell’allattamento, dei pannolini o dell’inserimento al nido. O meglio, la sfida non finisce qui e anzi si rinnova nel corso del tempo, con nuove richieste a cui rispondere e nuove modalità comunicative da mettere a punto quando i ragazzi mettono piede in quel tumultuoso territorio che chiamiamo adolescenza. I cambiamenti ormonali si affiancano ad una fase di sperimentazione che passa attraverso la rottura delle regole; la ricerca di indipendenza dalle figure genitoriali trova la forma ora del distacco, ora dell’aggressività.

Accanto a questa radicale trasformazione delle interazioni tra genitore e figlio esiste un secondo fattore che potrebbe spiegare come mai proprio nel periodo della scuola media sia così stressante essere madri. Gli autori lo chiamano ‘contagio da stress’ e lo descrivono come un trasferimento alle madri delle difficoltà emotive incontrate dai bambini in prima persona: una nuova scuola, nuovi compagni e un’atmosfera che non è più ludica e familiare rendono l’ingresso alla scuola media un momento difficile e impongono alle madri la necessità di trovare modalità efficaci per proteggere e supportare i figli.

Ma non è solo la relazione che si trova in un momento complesso e richiede con urgenza una ridefinizione: con lo spostarsi della maternità più avanti negli anni, l’ingresso nella pre-adolescenza dei bambini coincide sempre più spesso con una fase di vita che comunemente chiamiamo ‘crisi di mezza età’. Le donne si trovano a dover gestire le difficoltà dei figli e la complessità del rapporto che hanno con loro proprio in un periodo in cui anche la relazione con se stesse impone quesiti profondi ed esige la ricerca di un nuovo equilibrio, con l’effetto di una crescita dei livelli di stress e una diminuzione del benessere percepito nel proprio ruolo di genitore.

Importante, affermano gli autori, cogliere il segnale forte che i risultati dello studio ci mandano, rispondendo ad una esigenza che si tende a sottovalutare, quella delle madri che si trovano ad attraversare una fase delicata senza ricevere sufficiente supporto dall’esterno. Ulteriori indagini potranno fare chiarezza circa le modalità più adeguate per fornire sostegno alle famiglie, aiutandole ad affrontare anche questa sfida in modo funzionale ed efficace.

Psicoanalisi vs Psicoterapia Cognitiva: intervista di RETE DUE a Giovanni Maria Ruggiero

Daniel Paul Bilenko, giornalista per la radiotelevisione svizzera RSI, ha intervistato Giovanni Maria Ruggiero riguardo all’articolo di Oliver Burkeman sulla “rivincita della psicoanalisi” nell’ambito del programma radiofonico Finestra Aperta Sera.

 

Gli articoli pubblicati sulla vicenda:

 

Adolescenza e devianza: quali sono i comportamenti rischiosi

Al giorno d’oggi, l’adolescenza si presenta come un’età di transizione sempre più lunga, in un contesto sociale articolato e complesso all’interno del quale l’ingresso nell’età adulta è sempre più posticipato e non esistono norme e valori univoci che possano stabilirne l’adeguatezza.

Francesca Adriana Boccalari, OPEN SCHOOL STUDI COGNITIVI 

 

La fase dell’adolescenza nel ciclo di vita dell’individuo

La letteratura psicologica più recente ha abbandonato la rappresentazione dell’adolescenza come inevitabile condizione di disagio e sofferenza, rappresentazione che affonda le proprie radici nella tradizione romantica ottocentesca e continua a godere tuttora di molta popolarità presso i mass media. La “crisi adolescenziale” non é né l’unica, né l’ultima, né tantomeno la più importante nella vita di una persona: essa si caratterizza invece per la sua valenza dinamica e positiva di momento di riorganizzazione e di svolta nel processo di sviluppo di un individuo.
Questa nuova visione è il risultato della concezione dello sviluppo umano come collocato all’interno del ciclo di vita: il cambiamento e lo sviluppo non sono limitati al periodo iniziale della vita, ma riguardano tutta l’esistenza, dal momento che tutte le funzioni psichiche subiscono mutamenti evolutivi incessanti lungo l’intero corso della vita (Baltes e Reese, 1986; Oliverio, 2003).

L’adolescenza non è dunque necessariamente caratterizzata da oscillazioni estreme e comportamenti devianti e, perciò, questi non devono essere sottovalutati ed ascritti alla fase che la persona sta attraversando. Non sempre, infatti, si tratta di segni transitori: a volte essi possono preannunciare importanti disadattamenti psichiatrici in età adulta. Il criterio che permette di distinguere i percorsi di sviluppo normali da quelli patologici non è pertanto quello fenomenologico e comportamentale, bensì quello temporale di transitorietà o al contrario di persistenza.

L’adozione di questa prospettiva olistica, interazionista e costruttivista, caratterizza sempre di più la psicologia dello sviluppo contemporanea, dalla quale l’adolescenza non viene più descritta come un percorso simile per tutti indipendentemente dalla cultura, dalle differenze individuali, dal contesto di vita e dalle opportunità che questo offre. Essa non è più descrivibile in modo unitario, ma presenta grandi differenze individuali di percorso (Koops, 1996).

Allo stesso tempo è cresciuta la consapevolezza che lo sviluppo non è un processo lineare e che non esistono percorsi fissi e uguali per tutti. Esso non avviene passando per strade obbligate bensì attraverso percorsi possibili, altamente individualizzati e differenziati, risultanti dall’interazione nel tempo tra l’individuo e il suo contesto di vita (Bonino, 2001b). In quest’ottica, le traiettorie di sviluppo sono molto irregolari e non possono essere previste deterministicamente: a seconda delle condizioni del sistema, piccole influenze possono produrre grandi effetti, e grandi influenze possono avere effetti ridotti.

Al giorno d’oggi, l’adolescenza si presenta come un’età di transizione sempre più lunga, in un contesto sociale articolato e complesso all’interno del quale l’ingresso nell’età adulta è sempre più posticipato e non esistono norme e valori univoci che possano stabilirne l’adeguatezza.
La possibilità di maggiori libertà individuali e realizzazioni personali, unita alla mancanza di punti di riferimento chiari e certi, consente l’elaborazione di valori e progetti personali, ma rende più problematica quest’età “sospesa” nella quale non si realizza ancora una vera e completa partecipazione sociale (Caprara e Fonzi, 2000). I percorsi di sviluppo adolescenziali vanno considerati come il risultato di una complessa interazione di un individuo concreto, dotato di specifiche capacità cognitive, caratteristiche personali e una propria storia, con un particolare contesto sociale nel quale il soggetto svolge un ruolo attivo (De Vit e Van der Veer, 1991). Ne consegue che l’azione dell’adolescente non è mai priva di senso e non è solo il risultato delle semplici pressioni ambientali. Essa è autoregolata, ha obiettivi e scopi precisi, e serve per esprimere valori e convinzioni, per risolvere problemi e per costruire una propria identità.

In altre parole, la maggior parte dei comportamenti adolescenziali risulta da scelte tra alternative, basate su valori e credenze sottoposte ad un controllo personale, in relazione alle regole sociali. Occorre pertanto andare oltre la forma esteriore di un comportamento per comprendere quali obiettivi un adolescente si propone di raggiungere con quell’azione: ciò significa che comportamenti apparentemente simili possono avere scopi molto diversi (ad esempio, per un adolescente l’impegno nello studio può essere messo in atto per compiacere i genitori, in una relazione di dipendenza, o può essere lo strumento per raggiungere una maggiore autonomia attraverso il successo scolastico) e comportamenti molto diversi possono avere obiettivi simili (l’affermazione di sé può realizzarsi attraverso comportamenti pericolosi e ad alto rischio, come l’uso di droghe, o con comportamenti socialmente utili, come l’impegno a favore degli altri) (Silbereisen, Eyferth e Rudinger, 1986).

L’adolescenza e la devianza

Il comportamento adolescenziale “deviante” è frutto di una molteplicità di fattori di rischio che riguardano l’area biologica, psicologica e sociale (Maguin e Loeber, 1996; McCord, McCord, Zola 1959).
Solo la loro interazione porta all’affermazione di un comportamento deviante, tenendo conto che l’effetto dei fattori di rischio dipende non solo dalla fase di sviluppo in cui il soggetto si trova, ma anche dalla presenza o meno di fattori protettivi in grado di ridurre, o annullarne le conseguenze. La probabilità di manifestare delinquenza e violenza cresce con il numero dei fattori di rischio implicati, pertanto la presenza di un singolo fattore non spiegherà mai, di per sé, l’agito antisociale. Esso è il risultato dell’incrocio e dell’interazione di fattori individuali, sociali, familiari e ambientali che si collocano all’interno di un percorso evolutivo e che si colorano di significati e potenzialità patogene diverse a seconda del momento in cui si presentano e interagiscono. Detto ciò, non é semplice comprendere le interazioni tra i diversi fattori e le dinamiche che contribuiscono alla determinazione dello sviluppo in senso patologico o deviante.

Lo studio dei comportamenti a rischio adolescenziali ha acquisito importanza a partire dagli anni Ottanta, quando si è compreso come la maggior parte delle cause di malattia e di morte nella seconda decade della vita avessero un’origine comportamentale. Il termine “comportamento a rischio” è stato utilizzato per definire una serie di comportamenti pericolosi per la salute tra cui l’uso di sostanze, il comportamento sessuale precoce o rischioso, la guida pericolosa, il comportamento suicida e omicida, i disordini alimentari e la delinquenza. Tali comportamenti possono, direttamente o indirettamente, mettere a repentaglio il benessere psicologico e sociale (es. l’attività sessuale precoce e non protetta che può portare ad una gravidanza precoce) e la salute fisica (es. la guida pericolosa e il fumo di sigaretta) e, una volta stabiliti diventano la maggiore causa di problemi di sanità anche nell’età adulta (U.S. Preventive Service Task Force, 1989).

Queste condotte presentano tra loro molte differenze, ma possono servire a raggiungere obiettivi di crescita simili: possono avere una “equivalenza funzionale”(Silbereisen e Noack, 1988). Affermare questo implica la necessità di andare oltre la semplice descrizione di un comportamento, per comprendere quali significati esso assume per chi lo attua. In adolescenza, in particolare, i comportamenti a rischio consentono al ragazzo di mettere alla prova le proprie abilità e competenze, di concretizzare i livelli di autonomia e controllo raggiunti e di sperimentare nuovi stili di comportamento (Palmonari, 1997). L’assunzione del rischio e la sperimentazione aiutano gli adolescenti a raggiungere indipendenza, maturità e a strutturare una propria identità. Tuttavia, tale assunzione di rischio può portare a mettere in atto comportamenti estremamente dannosi per la salute propria e altrui.

L’indagine sui meccanismi psicologici coinvolti nei comportamenti pericolosi ha dimostrato che alcuni fenomeni risultano essere particolarmente rilevanti per la percezione, e quindi l’attuazione, del rischio: l’ottimismo irrealistico e la sensation seeking.
L’ottimismo irrealistico é un bias cognitivo che produce una sottostima del rischio che si corre personalmente rispetto a una generica persona media (Weinstein, 1980). La sensation seeking (Zucherman, 1971) può essere descritta come il grado di novità e intensità di sensazioni ed esperienze che una persona ricerca attivamente. Alti livelli di sensation seeking definiscono una preferenza per esperienze nuove ed intense e sono correlati con l’attuazione di comportamenti sessuali precoci e non protetti, l’uso di droga e alcol e altri comportamenti a rischio.

La sensazione di invulnerabilità, unita alla sottovalutazione delle conseguenze negative a lungo termine e alla ricerca continua di sensazioni forti, sarebbe perciò determinante nel far assumere all’adolescente rischi significativi per la propria salute fisica e mentale.
Come detto in precedenza, gli effetti nocivi dei fattori di rischio sono mediati dalla presenza di fattori protettivi, i quali svolgono una funzione di riduzione della vulnerabilità del soggetto a esiti maladattivi. Tali fattori possono intervenire a più livelli: direttamente sul disturbo comportamentale attenuandolo, interrompendo la catena attraverso la quale il rischio conduce al disturbo, o prevenendo l’azione dei fattori di rischio stessi (Coie, Watt, West, Hawkins, Asarnow, Markman, Ramey, Shure, Long, 1993). Tra i fattori protettivi più efficaci nella riduzione degli agiti antisociali vi sono l’appartenenza al genere femminile, atteggiamenti prosociali sviluppati durante l’infanzia e buone performance cognitive (Piquero, Brezina, Turner, 2005).

Trattamento dell’anoressia nervosa: conosciamo i meccanismi di cambiamento psicologico?

Nel trattamento dell’anoressia nervosa i fattori aspecifici sono stati poco studiati. Una famosa review si è posta l’obiettivo di suggerire quali costrutti e processi siano importanti per comprende i cambiamenti evidenziati nei pazienti con anoressia nervosa trattati con la psicoterapia.

La ricerca clinica ha ampiamente dimostrato l’efficacia della psicoterapia nel produrre miglioramenti significativi del funzionamento psicosociale e della qualità della vita dei pazienti. Al contrario, ancora oggi la ricerca non ha ancora pienamente compreso come e sotto quali condizioni gli interventi psicologici funzionano.

Molti studi hanno puntato l’attenzione sui fattori così detti ‘aspecifici’ o ‘comuni’, cioè fattori non associati allo specifico intervento applicato, ma a elementi potenzialmente presenti in ogni terapia. Alcuni dei più conosciuti fattori aspecifici sono la relazione terapeutica, l’instillare speranza e il facilitare la padronanza di sé.

Nel trattamento dell’anoressia nervosa i fattori aspecifici sono stati poco studiati e per tale motivo la revisione proposta da Wollburg e colleghi si è posta l’obiettivo di suggerire alcuni costrutti e processi potenzialmente importanti per comprende i cambiamenti evidenziati nei pazienti con anoressia nervosa trattati con la psicoterapia. Gli autori hanno selezionato cinque costrutti e analizzato gli studi in cui questi sono stati valutati e misurati.

Primo costrutto nel trattamento dell’anoressia nervosa: la soddisfazione dei bisogni di base

La soddisfazione dei bisogni di base è definita come ‘il nutrimento dall’ambiente sociale, essenziale o necessario per i processi di crescita, l’integrità e il benessere futuro‘. Molti studi hanno trovato una relazione positiva tra la soddisfazione dei bisogni e il benessere. Il lavoro sui bisogni è supportato dalla self-determination theory e dalla consistency theory che considerano la soddisfazione dei bisogni come prerequisito essenziale per il cambiamento terapeutico. Queste teorie, su cui si sono basati alcuni approcci terapeutici per l’anoressia nervosa, suggeriscono che i pazienti tendono a ottenere risultati migliori, rispetto a quelli le cui necessità non sono supportate, quando:

  • Percepiscono che il terapeuta si prende genuinamente cura di loro
  • Si sentono capaci nel processo di trattamento dell’anoressia nervosa
  • Si sentono di poter fare scelte importanti riguardo al trattamento dell’anoressia nervosa
  • Considerano il trattamento dell’anoressia nervosa un’esperienza piacevole
  • Comprendono i processi del trattamento dell’anoressia nervosa e si sentono in grado di controllarne alcuni aspetti.

Secondo gli autori vi sono prove indirette che i pazienti con anoressia nervosa abbiano una compromissione della capacità di soddisfare i propri bisogni psicologici di base, tanto da non essere in grado di raggiungere e/o mantenere il proprio benessere. Inoltre, vi è la prova che questi bisogni sono spesso frustrati dalla psicopatologia stessa. Per cui, trattamenti che mirano a soddisfare queste esigenze comunemente frustrate potrebbero produrre effetti positivi.

Secondo costrutto nel trattamento dell’anoressia nervosa: le aspettative e l’alleanza terapeutica

Le aspettative, così come l’alleanza terapeutica, sembrano essere importanti predittori di esito positivo del trattamento dell’anoressia nervosa. Alcuni studi evidenziano che la costruzione di una precoce alleanza terapeutica predice il cambiamento sintomatologico e che avere aspettative positive nei confronti del trattamento dell’anoressia nervosa favorisce un miglior ingaggio nella psicoterapia.

Costruire una forte alleanza terapeutica è un lavoro particolarmente impegnativo con i pazienti sottopeso perché il terapeuta deve trovare un equilibrio tra uno degli obiettivi principali del trattamento dell’anoressia nervosa, cioè il recupero di peso, e la soddisfazione delle necessità psicologiche del paziente.

Terzo costrutto nel trattamento dell’anoressia nervosa: l’evitamento esperienziale e la flessibilità psicologica

Gli autori suggeriscono che il passaggio da uno stile evitante, rigido, inflessibile a una maggiore apertura e flessibilità cognitivo-affettiva potrebbe essere un mediatore chiave del progresso terapeutico dei pazienti con anoressia nervosa.

Una forma particolare di evitamento, definito esperienziale, che descrive una persona ‘Non disposta a rimanere in contatto con esperienze private particolari (per es. sensazioni corporee, emozioni, pensieri, ricordi, predisposizioni comportamentali) che prende provvedimenti per modificare la forma o la frequenza di questi eventi e il contesto in cui si possono verificare‘, è da alcuni considerato un aspetto centrale della psicopatologia del disturbo e un meccanismo da affrontare durante il trattamento dell’anoressia nervosa. Dall’altro lato è stato più volte dimostrato che un aumento dei livelli di perfezionismo e inflessibilità cognitiva hanno un effetto negativo sull’esito del trattamento dell’anoressia nervosa. La rigidità cognitiva e la lotta per la perfezione potrebbero facilitare comportamenti tipici dei pazienti con anoressia, come il digiuno o le peculiari regole dietetiche, e quindi rappresentare fattori di mantenimento del disturbo dell’alimentazione.

L’evidenza scientifica supporta l’idea che l’aumento della flessibilità psicologica e la riduzione dell’evitamento esperienziale siano associati con l’aumento del benessere e la riduzione della psicopatologia specifica del disturbo dell’alimentazione.

Quarto costrutto nel trattamento dell’anoressia nervosa: la motivazione e le cognizioni disfunzionali

Alcuni studi e teorie supportano l’ipotesi che la motivazione interna sia uno dei principali meccanismi di cambiamento a breve e a lungo termine dei pazienti affetti da anoressia nervosa.

I pazienti che sono motivati a cambiare potrebbero essere più propensi a modificare o abbandonare le convinzioni o le cognizioni che mantengono la loro psicopatologia. Tuttavia, la relazione tra cambiamenti motivazionali e modificazione dei processi cognitivi, non è stata esaminata sistematicamente. L’evidenza suggerisce che i processi cognitivi e comportamentali specifici sono direttamente legati al successo nel trattamento dell’anoressia nervosa, anche se sono raramente contestualizzati in termini di esperienze motivazionali e affettive che li precedono o li seguono.

Quinto costrutto nel trattamento dell’anoressia nervosa: l’approccio positivo correlato agli stati dell’umore

È stato suggerito che l’approccio positivo correlato agli stati dell’umore possa facilitare il progresso del trattamento dell’anoressia nervosa e portare a un aumento del benessere e a un miglioramento ad ampio spettro della psicopatologia del disturbo. In questo contesto dovrebbe essere considerato il ruolo dell’ansia come moderatore del successo nel trattamento dell’anoressia nervosa. Si ipotizza, infatti, che l’ansia possa determinare quanto i pazienti siano in grado di tollerare il rischio del cambiamento. A supporto di questa ipotesi, alcuni autori hanno evidenziato un più lento aumento di peso in pazienti che manifestano una psicopatologia più grave e maggiori livelli di ansia.

Questa revisione, seppur con il limite di un approccio top-down alla letteratura scientifica e la natura preliminare dei modelli teorici proposti, sostiene un principio fondamentale che fa da guida al mondo scientifico: per ottenere progressi scientifici occorre formulare ipotesi e gettare reti esplorative che catturino i processi di cui la ricerca potrà occuparsi.

La vendetta della psicoanalisi non convince, e sembra un gioco pericoloso (per la salute delle persone)

Non è facile per il giornalista stare su tutti i tavoli, quello del sorpasso dal punto di vista scientifico, pragmatico, empirico e contemporaneamente giocare sul tavolo dell’inno alla incommensurabile ineffabilità della mente umana. Questo è un percorso pericoloso per gli psicoterapeuti perché da un lato rischia di farci guardare allo sciamanesimo e dall’altro spinge i nostri pazienti nelle mani del rimedio farmacologico.

 

Il vecchio cognitivismo paragonato alla nuova psicanalisi

Ci sono alcune osservazioni da fare sull’interessante e provocatorio articolo uscito sull’Internazionale (“La rivincita di Freud” di Oliver Burkeman, traduzione italiana di un articolo apparso sul Guardian).

La prima è che si parla della terapia cognitivo-comportamentale nei termini dei suoi fondatori, Beck ed Ellis, i cui primi testi risalgono agli anni ’50 e ‘60. In questi protocolli di terapia, che reagivano all’assetto rigido e passivo della psicanalisi del tempo, vi era l’esasperazione razionalista dell’intervento elementare di disputa di credenze irrazionalmente dannose (Ellis) o semplicemente false (Beck) (“perché lo ritiene così terribile?” e ”mi dimostri questa sua affermazione”). In questo intervento si aveva come target principalmente il pensiero distorto o irrazionale, che -attraverso una lettura sbagliata della realtà- generava sofferenza, emozioni negative e comportamenti poco utili. Questo approccio ai tempi era tutto volto a intervenire sulla riduzione dei sintomi soprattutto ansiosi e depressivi. L’efficacia rivoluzionaria di questo approccio, pragmatico e molto attento alla sofferenza dell’individuo nel qui e ora, è stata poi confermata dalla produzione di una vastissima letteratura scientifica.

L’articolo trascura completamente lo sviluppo seguente della terapia cognitivo-comportamentale, complesso almeno quanto quello psicodinamico, dall’arrivo della diagnostica DSM e ICD-10 fino alla comparsa di un tipo di pazienti complessi dalle richieste non sempre facili da interpretare. Leggendo l’articolo si ha una rappresentazione caricaturale e banale della terapia cognitivo-comportamentale.

Al contrario, quando nell’articolo si parla di terapia psicoanalitica si evita ogni caricatura e semplificazione e si definiscono soprattutto gli sviluppi più moderni ed evoluti, basati sulla effettiva crisi della sua forma classica e sulle esperienze e ricerche in ambito relazionale ed evolutivo e adattati alla terapia del paziente grave: una psicoanalisi che non è più psicoanalisi, è terapia psicodinamica e si richiama alla psicanalisi classica solo per alcuni tratti ma se ne allontana in modo cruciale nel modo di concettualizzare e fare terapia.

Queste terapie psicodinamiche moderne sono profondamente innervate nella tradizione psicoanalitica ma se ne discostano moltissimo nella prassi clinica quotidiana dove si discute con il paziente, si analizza la relazione, si cercano alternative insieme, si fanno esperimenti. Ciò che resta della metapsicologia psicanalitica appare spesso come un rituale verbale più che la sostanza di ciò che realmente si fa. Pensiamo al divertente e interessante libro che descrive la transizione di un clinico psicanalitico ortodosso verso un approccio psicodinamico relazionale, sto parlando di “Sul lettino di Freud” di Irvin Yalom.

È vero che Otto Kernberg –un esempio di psicoanalista moderno- usa il termine pulsione ma la sostanza di ciò che lui fa è profondamente diversa, in alcuni momenti attiva e impegnativa per il cliente come quella di un coraggioso terapista cognitivo. Nell’ambito di un contratto molto rigido Kernberg gioca una sfida sui comportamenti disfunzionali del paziente in seduta che richiamano comportamenti e attitudini apprese in vecchie storie evolutive. Il meglio delle due terapie, cognitiva e psicodinamica.

L’articolo di Burkeman utlizza quindi una rappresentazione complessa della terapia psicodinamica (non più psicoanalisi) e semplicismo per la terapia cognitiva. È evidente che il gioco impostato così è impari.

Tutte le terapie sono profondamente cambiate negli ultimi due decenni seguendo la spinta delle ricerche di efficacia e dell’incontro negli studi degli psicoterapeuti con pazienti complessi con disturbi di personalità. Questo pregiudizio anti-cognitivo si vede anche alla fine dell’articolo in cui Pollens dice che molti vengono “a chiederci aiuto e subito dopo cercano di impedirci di aiutarli e la psicoanalisi è tutta qui”. Ecco i pazienti difficili con cui dobbiamo tutti dobbiamo confrontarci; perché solo la psicoanalisi? Tutte le terapie moderne si sono confrontate con i problemi dell’ alleanza terapeutica nei disturbi di personalità e sono molto cambiate. in campo psicodinamico ho già citato Kernberg e ora aggiungo Peter Fonagy; in area cognitivista ci sono Marsha Linehan, Jeffrey Young e Arnout Aarnzt. Tutte le vecchie teorie si sono dovute adeguare, i problemi relazionali sono entrati al centro del discorso clinico.

Per i cognitivisti è stato in parte più facile, più rapido e più indolore, non avevano tra i fondatori personaggi giganteschi e carismatici come Freud e Jung a cui pagare un pegno linguistico così forte.

 

La contraddizione dello scientismo e dell’intimismo all’interno della psicoanalisi

Un’altra contraddizione dell’articolo: nella parte iniziale si citano importanti ricerche in cui la terapia psicoanalitica nella sua versione psicodinamica più moderna si dimostra più efficace o più a lungo o con meno ricadute della terapia cognitivo-comportamentale. Questo dato è importante, un successo della spinta alla ricerca empirica che avvantaggia tutte le psicoterapie. Poi però a conclusione dell’articolo si scivola verso un inno all’incommensurabile specificità umana, alla sua incontrollabilità, all’ impossibilità di esemplificare e, in fondo, di condurre ricerca empirica: “dopotutto la psicanalisi incarna proprio quella umiltà su quanto poco potremo mai capire sul funzionamento della mente.

Io non spero che questa umiltà continui nel tempo, anzi confido in una curiosa arroganza che ci permetta di comprendere meglio, misurare, capire, curare in modo verificabile ed efficace, e mi sembra che questa direzione sia già stata adottata dalle aree più sensibili della terapia psicodinamica, non lasciando alla terapia cognitivo-comportamentale tutto il peso della scienza. Sarebbe un errore mortale per tutta l’area clinica che alla psicodinamica si riferisce.

Non è facile per il giornalista stare su tutti i tavoli, quello del sorpasso della terapia cognitivo-comportamentale da parte della terapia psicodinamica dal punto di vista scientifico, pragmatico empirico e contemporaneamente sul tavolo dell’inno alla incommensurabile ineffabilità della mente umana. Questo è un percorso pericoloso per noi psicoterapeuti perché da un lato rischia di farci guardare allo sciamanesimo e dall’altro spinge i nostri pazienti nelle mani dei farmacologi. Ricordo quando da giovani si disquisiva sulla psicoterapia come arte, ricordo il senso di confusione che questi discorsi davano. Nessuno desidera essere curato in modo artistico e individualistico, abbiamo bisogno di un buon incontro con persone ben informate e sapienti sugli aspetti scientificamente confermati del loro intervento sulla salute mentale.

 

Stare meglio uguale comprendere?

Proseguo il mio commento all’articolo di Oliver Burkeman per il Guardian, tradotto in italiano da Internazionale. Nella prima parte notavo come le due argomentazioni principali del lavoro di Burkeman fossero in contraddizione. Burkeman infatti notava che anche la psicoanalisi fa ricerca empirica (bene) e insieme che la ricerca empirica non sia adatta a comprendere la mente e per questo sia meglio seguire le profondità della psicoanalisi.

Qui prendo in esame altri aspetti dell’articolo. Un’altra argomentazione di Burkeman a favore della psicoanalisi è che che il fattore che fa stare meglio il paziente rimandi esclusivamente alla dolorosa e consapevole coscienza dei propri problemi. Questo è un altro dei punti deboli dell’articolo. La comprensione della propria storia, del proprio funzionamento è un importante atto terapeutico, la costruzione di narrazioni comuni sulla sofferenza tra paziente e terapista è fondamentale; tuttavia non si comprende perché venga sempre descritta in contraddizione con l’azione cognitiva, emotiva e comportamentale. Sicuramente siamo anche ricordi ed emozioni e non siamo solo pensieri e comportamenti. In terapia occorre saper lavorare sui diversi livelli.

Credo che non vi sia alcuna contraddizione tra questi due atti terapeutici, posso tentare di ridurre il panico o un disturbo bulimico adottando un protocollo efficace di poche sedute o regolarizzando l’alimentazione in collaborazione con una nutrizionista, e nel contempo comprendere meglio il funzionamento emotivo di un paziente costruendo un’alleanza che abbia forte valenza mutativa.

Sono apparse all’orizzonte nuove forme di terapie cognitive forti ed efficaci che si discostano radicalmente dall’archetipo dell’intervento razionalistico, e sto pensando ad esempio al lavoro di Adrian Wells, il cui protocollo sull’ansia sociale è oggi più forte di quello cognitivo comportamentale classico, da lui stesso costruito insieme a David Clark negli anni ‘90.

 

Terapia cognitivo-comportamentale e controllo sociale: Orwell?

L’interpretazione della terapia cognitivo-comportamentale come un fattore di stabilità sociale che ci richiama a Orwell mi sembra indifendibile. Abbiamo davvero bisogno che le persone abbiano sintomi a lungo e che soffrano per farne degli esseri vitali e ribelli della nostra società?

Sembra veramente un’argomentazione politica da ciclostilati anni ’70 che non ha mai trovato conferma in nessun testo scientifico degno di questo nome. La sofferenza sintomatica non genera ribellione, vitalità, creatività anzi abbatte le persone, fa perdere risorse e le rende passive. E se permane nel tempo danneggia, aggrava e peggiora le cose. Un’infelicità generale e malinconica, gestita in una buona relazione transferale con un analista senza prendere farmaci ha sicuramente un suo senso, mentre un sintomo alimentare che lede il corpo, lo indebolisce, lo fa ammalare, indebolisce i denti e li fa cadere, favorisce le ovaie policistiche ed è mantenuto in attesa che si sciolga tramite una consapevolezza lunga da raggiungere oggi è considerata una strategia terapeutica che non rispetta i dettami della deontologia.

 

Ancora una volta il verdetto di Dodo

Il verdetto di Dodo: tutte le terapie funzionano sostanzialmente allo stesso modo per le loro componenti aspecifiche, ad esempio la capacità di ascolto, la disponibilità, e così via. Questa è una argomentazione vecchia ormai di 40 anni. La verità è invece che le terapie non sono tutte di eguale efficacia, ma agiscono a differenti livelli di efficienza su differenti disturbi. L’indicazione della terapia cognitivo-comportamentale per l’area dell’ansia è incontestabile. Invece si può e si deve concedere alla nuova psicoanalisi un buon contributo alla comprensione e il trattamento dei disturbi di personalità grazie al lavoro di Fonagy e Kernberg. Senza però dimenticare che la terapia cognitiva ha dato anche qui il suo contributo con Young e Linehan. E infine sicuramente la tradizione psicodinamica ha dato il suo contributo maggiore nella comprensione dei meccanismi dell’alleanza terapeutica.

 

I difetti della terapia cognitivo-comportamentale

Nel Regno Unito la riforma di Richard Layard è stata un esperimento importante di tentativo di diffondere il lavoro psicoterapeutico su un approccio scientifico e su basi empiriche. Tuttavia è anche accaduto che la terapia cognitivo-comportamentale fosse insegnata in pochi mesi in una forma eccessivamente semplificata e affidata a operatori non troppo competenti e poco formati come infermieri e assistenti sociali. In questa forma la terapia cognitivo-comportamentale si è prestata a grandi critiche. Il successo della riforma di Layard rischia di essere stato un boomerang. Le critiche che oggi arrivano da ricercatori ci ricordano che la formazione alla psicoterapia non può essere unicamente un problema di aderenza a modelli semplificati per farne un oggetto formativo di massa. Occorre una rete complessa di informazioni e di formazione, di tipo tecnico, strategico e relazionale e deontologico.

 

Il calo di efficacia della terapia cognitivo-comportamentale

Interessante il problema del calo dei risultati di efficacia della terapia cognitivo-comportamentale nel tempo, dato sul quale anche noi si stava riflettendo. L’unica risposta che si da il giornalista è che questo calo di efficacia sia un problema di modello clinico; ma perché non fare altre ipotesi? E se fosse dovuto a un problema di calo di aderenza al protocollo? Di mancanza di strumenti diagnostici corretti? Di mancanza di adeguata formazione e supervisione? Della necessità che il lavoro psicoterapeutico sia fatto da psicoterapeuti e non da assistenti sociali, come avviene in Inghilterra?

 

L’inconscio è gigantesco

Ecco: il punto debole, veramente debole, dell’articolo è quando si dichiara: “Il nostro inconscio è gigantesco e controlla quasi tutto” spingendo le persone a credere che la complessità del funzionamento della mente è tale che qualsiasi assetto scientifico non possa che ridurne la portata.

A questa obiezione olistica aveva già risposto Popper in Miseria dello storicismo, ne aveva denunciato i rischi di anti-scientismo. È proprio la complessità del nostro funzionamento che ci chiede di misurarci in modo scientifico con la psicoterapia, per creare misure, avere regole, individuare punti deboli, così da renderci più forti nel mondo della cura.

Si, il modello medico semplifica, ma cura in modo forte e la spinta a mettere anche la psicoterapia sotto il modello medico non ha fatto che salvarla dall’oblio nel quale sarebbe caduta se si fosse fermata a pochi raffinati analisti chiusi nel loro studio. La terapia psicologica oggi è una pratica di massa e non un piccolo mondo selettivo ed elitario e deve affrontare i problemi di questa massificazione, che non possono essere un ritorno indietro ai tempi dell’isteria, ma una verifica sempre più stringente dei risultati, dei fattori di cura, delle variabili relazionali e affettive, e questo percorso oggi è praticato sia da psicodinamici moderni (anche in Italia) sia da terapisti cognitivo comportamentali moderni e più recentemente anche da ricercatori in area relazionale e sistemica.

Il nostro futuro non può essere quello di tornare ad un intimismo individualista e antiscientista ma arrivare a costruire protocolli di intervento integrato sempre più diagnosticamente orientati e capaci di andare a pescare nel vastissimo magma di tecniche, protocolli, interventi efficaci che ancora troppo spesso si presentano come oggetti monolitici, incapaci di dialogare tra di loro, e troppo sociologicamente orientati.

 

In sintesi

L’articolo di Burkeman non ci sembra un buon servizio alla psicanalisi per il suo tono competitivo e per alcune argomentazioni che rischiano di riportare indietro all’agonismo reciproco delle diverse scuole.

In area cognitiva, non dimentichiamoci che io sto parlando dall’Italia dove non è stato prodotto alcun protocollo randomizzato di efficacia, e dove un approccio scientifico, di rispetto di protocolli efficaci anche nell’area psicologica è arrivato da poco nelle regioni più evolute (ad esempio in Emilia-Romagna) e ancora costituisce una novità rivoluzionaria in quelle meno evolute.

La posizione corretta mi sembra oggi quella di non rinchiudersi in aree ideologiche ma di esplorare gli interventi delle diverse aree con l’attenzione al confronto con gli standard di efficacia. E questa sfida è di tutte le terapie, dalla psicoanalisi al costruttivismo, dalla sistemica alla gestaltista, e occorre muoversi con decisione lasciando a personaggi antichi, antiscientifici, la difesa di un vecchio castello di concetti ormai in rovina.

Tutto troppo presto: l’educazione sessuale – Report dal seminario con Alberto Pellai

Con l’obiettivo di proporre delle indicazioni utili a livello educativo, si è cercato di capire come sia possibile, da parte dei genitori, supportare il benessere, la crescita e la salute sessuale di un figlio ‘nativo digitale’.

Nel corso di un incontro organizzato lo scorso 30 gennaio dall’istituto Feel Safe, il dottor Alberto Pellai, medico e psicoterapeuta dell’età evolutiva, si è soffermato sulle potenzialità e sui rischi insiti nell’utilizzo di internet da parte dei soggetti in età evolutiva.

Con l’obiettivo di proporre delle indicazioni utili a livello educativo e di prevenire i comportamenti a rischio, si è cercato di capire come sia possibile, da parte dei genitori, supportare il benessere, la crescita e la salute sessuale di un figlio ‘nativo digitale’, tenendo conto delle insidie cui spesso un utilizzo non corretto delle nuove tecnologie può esporre i preadolescenti e gli adolescenti.

Punto di partenza è che i genitori debbano offrire un modello affidabile e un codice di condotta coerente per i figli; questo vale per i comportamenti off line come per quelli on line. Di fatto, accade di frequente che i genitori, non avendo avuto occasione di gestire stimoli legati all’utilizzo delle tecnologie durante il proprio percorso di crescita, siano impreparati a gestire questo tipo di dinamiche.

 

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Tutto troppo presto – Report dalla giornata di formazione condotta da Alberto Pellai_foto 1
Il Dott. Pellai nel corso dell’incontro

 

In sintesi, i genitori non dispongono di modelli educativi al riguardo, perché non hanno avuto modo di apprenderli dai loro stessi genitori; inoltre, essi sono spesso meno esperti di tecnologia dei loro stessi figli e, non essendo coscienti dei rischi, non svolgono un ruolo protettivo, cosa che, invece, farebbero nei contesti che padroneggiano (a questo proposito viene visionato un breve video, sotto riportato, intitolato ‘Dov’è Gianni?‘, che mostra in modo chiaro questo fenomeno). Ciò avviene anche in virtù della massiccia diffusione che le nuove tecnologie hanno avuto nell’arco di breve tempo: chi non entra nel mondo del 2.0 è tagliato fuori, si sottrae ad una norma sociale.

Per usare l’esempio offerto dallo stesso Pellai a questo proposito, difficilmente un genitore acconsentirebbe di buon grado a far guidare l’auto al figlio sedicenne sprovvisto di patente, motivando il rifiuto con l’affermazione che il figlio non ha la maturità e l’esperienza adeguata per guidare da solo; lo stesso genitore, di frequente, non ha difficoltà a dotare il figlio di otto anni di un i-phone, scarsamente consapevole delle conseguenze che possono nascere dall’utilizzo di uno strumento così potente. Possiamo dire altrettanto dell’aprire un profilo Facebook (cosa che si potrebbe fare non prima dei tredici anni d’età) o dell’usare Whatsapp (il cui utilizzo sarebbe consentito non prima dei sedici anni).

Sul terreno scivoloso creato dalla mancanza di consapevolezza di ragazzi e adulti si innestano facilmente situazioni in cui il preadolescente o l’adolescente si tuffano nell’utilizzo delle tecnologie; i ragazzi, da nativi digitali quali sono, sono molto abili sul piano tecnico dell’utilizzo.

A questa abilità non fa, però, da contraltare la maturità cognitiva; ed è in questa incongruenza che si fanno spazio i fenomeni di adescamento on line di minore da parte di adulti non propriamente animati da intenzioni positive, i fenomeni di sexting (l’invio, spesso da parte di ragazze, di foto osé, di solito, al fidanzato; la foto finisce poi per diventare pubblica, a causa dell’enorme facilità nel condividere contenuti attraverso la messaggistica istantanea) e l’utilizzo della pornografia on line da parte di persone che, essendo troppo giovani e immature per rielaborare questi contenuti, ne vengono, nello stesso tempo, eccitati e traumatizzati.

A tutto ciò bisogna aggiungere il fatto che i preadolescenti e gli adolescenti vanno spesso incontro ad un fenomeno di sessualizzazione precoce, data la quantità e l’intensità degli stimoli a cui sono esposti e il tipo di modelli proposti dai media, in cui spesso il mostrarsi sessualmente disponibile è la chiave per ottenere visibilità e successo a livello sociale, cosa che si ripercuote anche nella reputazione online.

Date queste premesse, non bisogna concluderne che sia necessario tenere il proprio figlio fuori dal mondo, bensì prendere coscienza che l’accesso al mondo digitale deve avvenire in modo controllato, attraverso l’utilizzo di regole, specie se si tiene presente il fatto che i ragazzi, in virtù della fase evolutiva in cui si trovano, vogliono tutto e subito, sono alla ricerca di emozioni forti, vogliono sperimentare e vivono le esperienze sull’onda dell’istinto. Si tratta di pulsioni sane e vitali, che non vanno di certo represse; semplicemente, l’adulto deve avere, in questo campo come in tutti gli altri in cui si gioca la crescita, un ruolo regolativo.

Le neuroscienze ci insegnano, infatti, che i ragazzi hanno bisogno di imparare ad apprendere ad integrare emozione e cognizione, cosa che li aiuta a sviluppare la coscienza di sé e a proteggere se stessi in condizioni di potenziale pericolo; proprio questa abilità sembra venire a mancare quando vengono messi in atto comportamenti a rischio.

L’adulto ha il compito di fare da guida, aiutando il figlio a venire in contatto con stimoli che è in grado di gestire tenendo conto della fase di crescita in cui si trova, in modo da non mettersi in situazioni pericolose o, semplicemente, non adeguate, bruciando le tappe.

 

VIDEO: “DOV’E’ GIANNI?”

Stare al telefono dopo la “buonanotte” peggiora il rendimento scolastico

I risultati dimostrano che i ragazzi che utilizzano uno smartphone o tablet per meno di 30 minuti dopo aver spento le luci (insieme a quelli che il telefono lo spengono proprio, insieme alle luci) hanno un rendimento scolastico significativamente più alto dei ragazzi che a luci spente passano più di mezz’ora davanti ad uno schermo.

L’utilizzo di smartphone, tablet e computer tra i giovani sta aumentando esponenzialmente: recenti studi hanno calcolato che i ragazzi tra gli 8 e i 18 anni passano quasi sette ore e mezzo al giorno davanti a uno schermo.

Lo studio, appena pubblicato sul Journal of Child Neurology è il primo del suo genere a cercare un collegamento tra l’utilizzo notturno del proprio telefono o tablet ed il rendimento scolastico.
[blockquote style=”1″]Dobbiamo renderci conto che gli adolescenti stanno utilizzando questi dispositivi elettronici smodatamente: tendono ad andare a letto più tardi e dunque a svegliarsi più tardi, e questo va contro il loro naturale bioritmo, rendendoli studenti meno efficienti[/blockquote] sostiene l’autore del presente studio, Xue Ming, professoressa di Neurologia presso la Rutgers Jersey Medical School. Lo spunto per tale ricerca le è giunto proprio dai suoi giovani pazienti che lamentavano problemi di insonnia e ammettevano di usare il telefono anche dopo la consueta “buonanotte”, ovvero a luci spente.

In particolare, Ming ha distribuito a 1537 ragazzi e ragazze provenienti da tre scuole superiori del New Jersey (un istituto privato e due pubblici) alcuni questionari che misuravano il rendimento scolastico, l’utilizzo di un dispositivo elettronico e l’utilizzo di quest’ultimo prima di dormire, a luci spente. I risultati dimostrano che i ragazzi che utilizzano uno smartphone o tablet per meno di 30 minuti dopo aver spento le luci (insieme a quelli che il telefono lo spengono proprio, insieme alle luci) hanno un rendimento scolastico significativamente più alto dei ragazzi che a luci spente passano più di mezz’ora davanti ad uno schermo. Questi ultimi, infatti, lamentano più frequenti episodi di sonnolenza durante il giorno e spesso un vero e proprio bisogno di fare un riposo pomeridiano. Curiosamente, la quantità di tempo spesa in compagnia del telefono prima di spegnere la luce non è risultata statisticamente significativa.

La spiegazione che Ming dà di tale relazione è lineare quanto acuta: gli schermi illuminati di smartphone e tablet emettono le cosiddette onde blu, ovvero luce a breve lunghezza d’onda che ha un forte impatto sulla sonnolenza diurna, poiché ritarda il rilascio della melatonina, rendendo così più difficile prendere sonno di notte. Quando andiamo a dormire dovremmo abituarci al buio attraverso un lento processo graduale ed è chiaro come uno schermo illuminato nella totale oscurità, che magari seguita a lampeggiare e mostrare spie luminose all’arrivo di nuovi messaggi, non può che influenzare questo ingresso nel sonno in maniera brusca e forzata. Così facendo, lo schermo luminoso va a danneggiare i nostri ritmi circadiani, influenzando così la successiva fase REM (Rapid Eye Movement), fase del sonno fondamentale per l’apprendimento e la memoria: se andiamo a dormire più tardi del solito, ma continuiamo a svegliarci alla stessa ora, la nostra fase REM ne risulta fortemente accorciata e non dobbiamo dunque stupirci se le nostre capacità mnestiche e cognitive il giorno dopo non siano adeguate!

In conclusione, l’autrice della presente ricerca suggerisce che all’interno del programma scolastico si inserisca anche un corso di Educazione al sonno, che spieghi innanzitutto ai ragazzi quanto è importante alla loro età dormire almeno otto ore al giorno e quali sono le serie e probabili conseguenze a cui vanno incontro quando iniziano a dormire di meno. In altre parole, bisogna insegnar loro che il sonno non è un lusso, ma una vera e propria necessità.

Master Avanzato in Psicoterapia Cognitivo Comportamentale dello Sviluppo

Terza Edizione Febbraio 2016 – Milano – ULTIMI POSTI DISPONIBILI

MAPS 2016

MAPS è un Master avanzato rivolto a psicoterapeuti specializzati o specializzandi (quarto anno) e neuropsichiatri infantili che padroneggino il modello cognitivo comportamentale e che conclusa la propria formazione nell’ambito della clinica dell’età adulta intendono:

  • potenziare e ampliare le competenze cliniche di base nell’ambito della psicopatologia dell’infanzia e dell’adolescenza.
  • analizzare processi, principi e modelli teorici nella psicopatologia dello sviluppo
  • acquisire metodologie per l’assessment, la concettualizzazione del caso e l’intervento secondo i più recenti modelli di sviluppo delle terapie comportamentali e cognitive: Rational Emotive Behavior Therapy (REBT), Acceptance and Commitment Therapy (ACT), Functional Analytic Therapy (FAP).

Il parterre dei docenti comprende alcuni tra i massimi esperti di interventi di psicoterapia per l’età evolutiva tra cui: Roberto Anchisi, Fabio Celi, Joseph Ciarrochi, Carmelo Dambone, Mario Di Pietro, Paolo Moderato, Francesca Pergolizzi, Giovambattista Presti e Alessandra Vanni.

Le lezioni si svolgeranno nella giornata di sabato (occasionalmente domenica), con cadenza quindicinale, dalle 9.00 alle 18.00.

Sono previste quote di iscrizione ridotte per i soci AIAMC, per gli iscritti a IESCUM Alumni e per gli iscritti all’ultimo anno di scuole di psicoterapia.

I posti disponibili sono limitati a 25 partecipanti.

 

PER INFORMAZIONI 59141

 

 

Autocritica, criticismo genitoriale e depressione: quale relazione?

Le critiche degli altri ci servono per migliorare? In che misura? E le nostre? Qual è la ricaduta di queste critiche sul nostro umore e sulla nostra autostima? Possono aumentare la tendenza all’autocritica? Poi, i genitori come si collocano in queste dinamiche? Genitori critici possono mettere i figli sotto pressione, ma genitori troppo laissez-faire possono crescere figli poco disciplinati?

Ovviamente (purtroppo) non esiste una domanda univoca a tutte queste domande. Però qualcosa è stato esplorato.

L’autocritica e le sue componenti

La tendenza all’ autocritica è quella propensione che in qualche misura fa parte di tutti noi e che ci porta a “fare le pulci” per esempio alle nostre prestazioni lavorative, al nostro modo di fare, o alla nostra persona nel complesso. Questa tendenza è stata suddivisa in due componenti: il confronto delle nostre caratteristiche con quelle altrui (componente comparativa) e il confronto di noi stessi con l’idea che abbiamo di come dovremmo essere (componente internalizzata) (Thompson & Zuroff, 2004). La propensione ad autocriticarsi è stata correlata a diverse difficoltà a livello psicologico, e ovviamente all’umore depresso: anche a livello intuitivo, possiamo immaginare che una persona che tende più di altre a ripetersi tutto quello che di se stessa non va bene, facilmente sarà più triste di una persona che focalizza la sua attenzione su altro.

Due costrutti che possono in parte essere assimilati all’ autocritica (ma che si configurano in realtà come sostanzialmente differenti) sono la ruminazione e il perfezionismo. La prima differisce dall’ autocritica perché è una modalità di utilizzare il proprio pensiero in modo ciclico e ricorrente, che porta la persona a rimanere focalizzata su qualcosa di negativo (che potrebbe essere un’autocritica, ma anche altro). Il perfezionismo, invece, potrebbe essere il fine ultimo che porta alla tendenza a criticarsi, ma i due costrutti non sono per forza appaiati.

Lo studio sui costrutti della tendenza all’autocritica

Un recente studio (Manfredi et al., 2016) si è proposto di analizzare come questi costrutti fossero in relazione e contribuissero ad aumentare la probabilità di sviluppare sintomi depressivi. In sostanza, ci siamo chiesti quale di queste componenti avesse una diversa influenza sull’umore delle persone, interpellando nello specifico soggetti senza diagnosi e che non avevano richiesto un aiuto psicologico. I dati sono stati raccolti su 194 persone (di cui 139 femmine) attraverso l’utilizzo di questionari carta e matita.

Cosa ci hanno detto le analisi dei dati? Due cose.
La prima: la probabilità di avere un abbassamento di umore dipende, tra tutte le variabili citate nello studio, soprattutto dalla tendenza delle persone ad essere autocritiche. Questa propensione sembra essere il costrutto che sa meglio predire la probabilità di essere depressi.
La seconda: le caratteristiche che più influenzano la tendenza a essere critici nei propri confronti sono 2, la tendenza a ruminare e il perfezionismo. Queste due propensioni sono più importanti della tendenza dei genitori a essere critici nei confronti dei figli. In sostanza, le sole critiche genitoriali non sono sufficienti per “creare” un adulto autocritico: per questo, serve anche che l’adulto sviluppi la tendenza a pensare in modo ciclico e ripetitivo sulle cose passate e una spiccata preoccupazione per la possibilità di sbagliare.

Quello che ne deriva è che il primo punto da scardinare per migliorare il tono dell’umore è questa propensione alla critica verso se stessi, che a sua volta è più probabile in persone che temono di sbagliare e che tendono a rimanere molto a pensare alle cose che non hanno funzionato.

Abstract

Internalized self-criticism (ISC) has been identified as one dimension of depression and has been related to poor interpersonal functioning, the severity of depressive symptoms among patients with a diagnosis of Major Depressive Disorder and suicidal behaviors; finally, it has been indicated as a maintaining factor in depression, able to impair the efficacy of psychological treatment.

The present study aimed to investigate the role of perceived parental criticism, perfectionistic concern over mistakes and ruminative brooding in predicting internalized self-criticism; in addition, we explored the predictive value all the considered variables for depressive mood in a non-clinical population.

The final model showed a complete mediation for concern over mistakes and ruminative brooding in the relationship between perceived parental criticism and ISC, with the final model explaining 32% of the variance. Moreover, ISC predicted the level of depressive symptoms over and above the contribution of the other variables considered.

The findings suggest that a thinking style characterized by ruminative brooding and the tendency to be concerned with mistakes can facilitate the development of a self-critical person, more than a parental style perceived as critical. Moreover, the tendency to be self-critical may be more predictive of depressive symptoms than the other variables considered.

Ipocondria: quando ci si ammala della paura di ammalarsi

L’ipocondria è un disagio legato all’idea o alla paura di avere una malattia grave o addirittura mortale. I pazienti tengono costantemente sotto controllo il loro fisico, controllandolo di continuo alla ricerca attiva della presenza di eventuali segni di malattia.

Questo articolo è stato pubblicato da Giovanni Maria Ruggiero su Linkiesta il 29/01/2016

Il sapere produce forza, ma anche incertezza. Da quando abbiamo sviluppato una medicina scientifica siamo diventati più consapevoli dei mali che potrebbero affliggerci, nel corpo e nell’anima. A testimonianza di una modernità che è però antica, in occidente siamo diventati ipocondriaci da un paio di millenni: il termine ipocondria risale a Ippocrate che descrisse il ‘Male degli ipocondri‘, un disordine dello stomaco e della mente, che cagionava problemi digestivi, grande melanconia e paura di morire. La congiunzione di stomaco e tristezza non deve sorprendere: i greci credevano che nell’addome fosse situata la sede dei sentimenti e delle passioni umane.

Al giorno d’oggi la diagnosi riconosciuta in modo unanime è quella individuata in un manuale americano adottato universalmente, il DSM (Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders). Esso definisce l’ipocondria come ‘La preoccupazione legata alla paura oppure alla convinzione di avere una malattia grave basata sulla erronea interpretazione di sintomi somatici da parte del soggetto‘; inoltre ‘la preoccupazione persiste nonostante la valutazione e la rassicurazione medica appropriata’, e ‘la durata dell’alterazione è di almeno 6 mesi’.

Il vero ipocondriaco, insomma, non riconosce la natura psicologica del suo problema e ricerca la soluzione medica della malattia. Dietro il timore di malattia vi è un grande senso di vulnerabilità e debolezza, gestito erroneamente ricercando un’impossibile certezza di perfetta sanità. Il paziente non riesce mai a trovare una risposta adeguata al malessere perché non viene mai affrontato il vero problema della sua ipocondria, che è il senso di fragilità personale.

L’ipocondria è rara nell’infanzia, più frequente nell’adolescenza e nella vecchiaia e la si riscontra in ambedue i sessi, anche se quello femminile sembra esserne maggiormente soggetto. Il decorso tende a prolungarsi, con andamento vario e sembra guarire spontaneamente solo in un decimo dei pazienti.

Numerosi sono stati gli studi che hanno cercato di dare una spiegazione. Alcuni suggeriscono una predisposizione genetica e l’aver sofferto di malattie gravi durante l’infanzia. Vi sono poi i vantaggi del ruolo di malato, perseguiti però non consapevolmente: aumento dell’attenzione da parte dei familiari ed evitamento delle responsabilità, come ad esempio la mancata frequenza scolastica. Altri studi includono anche gli abusi fisici e sessuali.

Insomma, l’ipocondria è un disagio legato all’idea o alla paura di avere una malattia grave o addirittura mortale, quale può essere un tumore o l’AIDS. I pazienti sono molto attenti ad ogni piccolo cambiamento somatico e tengono costantemente sotto controllo il loro fisico, controllandolo di continuo alla ricerca attiva della presenza di eventuali segni di malattia. Per tale ragione richiedono così di frequente ripetuti test diagnostici e visite mediche, diventando ospiti abituali di ambulatori e servizi di pronto soccorso. L’esito favorevole delle indagini non riduce, tuttavia, la preoccupazione e non riesce a rassicurare i pazienti. Gli ipocondriaci, purtroppo, nutrono la ferma convinzione che i medici con cui sono venuti a contatto non siano stati in grado di capire la vera natura del loro problema e quindi di fornirne una soluzione adeguata.

L’ipocondriaco interpreta in modo erroneo segnali fisici innocui, come se fossero l’evidenza di una grave malattia. Si preoccupa sia delle normali funzioni corporee (quali il battito cardiaco, la peristalsi o la sudorazione) che delle alterazioni fisiche di lieve entità (come ad esempio il raffreddore o un colpo di tosse). Sensazioni fisiche vaghe, come il cuore affaticato o le vene dolenti vengono sospettate di essere segni di malattia che devono essere indagati e, preoccupandosi per i quali, chi soffre di ipocondria mette in atto i comportamenti prima descritti.

I segnali fisici mal interpretati e la costante attenzione al proprio corpo non sono però l’unico punto di partenza dell’allarme del soggetto con ipocondria. Possono esserlo anche le notizie di malattia apprese dai mezzi di comunicazione con un certo impatto emotivo, come la notizia di epidemie o anche la semplice divulgazione scientifica. Parimenti il venire a conoscenza di patologie che hanno colpito amici o parenti può innescare la preoccupazione per un organo specifico o per una data malattia.

Che il paziente pensi, partendo da dati corporei futili, di avere una grave malattia, conferma il ruolo dei fattori cognitivi nelle sofferenze dell’anima. Lungi dall’essere inconscia, la convinzione di avere o stare per sviluppare una grave patologia, senza che un’accurata valutazione medica abbia identificato motivi sufficienti per giustificare questi timori è perfettamente consapevole e presente alla mente del paziente con ipocondria. Gli errori mentali più frequenti sono che i cambiamenti del corpo sono sempre segno di grave malattia; che ogni sintomo deve potersi ricondurre ad una causa specifica e perciò riconoscibile; poi che quando c’è qualcosa di poco chiaro, occorre fare subito un controllo medico; e infine che se non ci si preoccupa per la propria salute, ci si può ammalare. Inoltre la convinzione che tenere sempre presente di continuo i pericoli è un modo per prevenirli fa sì che l’ipocondriaco non si possa mai permettere di abbassare la guardia e distrarsi.

Sicuramente i tratta di un disagio della modernità e della tensione contemporanea al benessere assoluto e certo. Tuttavia, il termine era già presente nella Grecia classica, civiltà già segnata dall’ambizione tecnica di controllare la realtà. Tutto sta nel mettersi d’accordo sul significato del termine modernità. L’ipocondria ci dice che la modernità è antica, più di quanto possiamo sospettare.

Crisi economica e disoccupazione: quali conseguenze per la salute mentale?

Se i più sono al corrente di quali conseguenze abbia avuto la crisi in termini di posti di lavoro persi, aziende chiuse, aumento della pressione fiscale; non molto spazio è stato riservato agli esiti negativi sul benessere psicologico degli individui.

 

Valentina Ascani – Studi Cognitivi San Benedetto del Tronto

La parola ‘crisi‘ negli ultimi anni è sempre più foriera di una miriade di stati d’animo, di immagini e di pensieri ad essa connessi. Se si parla di crisi si sottende necessariamente quella economica che dal 2008 ad oggi ha portato ad un sostanziale incremento del tasso di disoccupazione, del livello di povertà e dell’indebitamento. Nella mente di tutti sono ancora vivide le immagini di quel non troppo lontano 15 settembre 2008, quando a New York decine di dipendenti della Lehman Brothers si affrettavano a lasciare il posto di lavoro con scatoloni contenenti il loro recente passato lavorativo. Il crack della quarta banca statunitense segnava l’inizio di un tracollo finanziario che avrebbe riecheggiato in gran parte del mondo fino ad avere rilevanti e drammatiche ripercussioni in Europa e in Italia.

Se i più sono al corrente di quali conseguenze abbia avuto la crisi in termini di posti di lavoro persi, aziende chiuse, aumento della pressione fiscale; non molto spazio è stato riservato agli esiti negativi sul benessere psicologico degli individui. Tale riflessione verrà approfondita in questo lavoro al fine di proporre un focus sulle dimensioni del disagio psicologico e sui significati ad esso connessi.

La letteratura scientifica sembra concorde nel dimostrare che maggiore è la disponibilità di risorse economiche migliori sono i valori di tutti gli indicatori di salute. D’altronde, che la stabilità economica e lavorativa si associ al benessere psicologico e abbia effetti positivi sulla vita degli individui in termini di autoefficacia, livelli di empowerment, visione del futuro, è un dato non solo assodato dal senso comune ma anche confermato da una serie di studi.

Secondo il Briefing Document for the National Governors Association (2007) possedere un’occupazione rappresenta un fattore rilevante che segna la routine quotidiana, fornisce obiettivi significativi, aumenta le finanze individuali e/o familiari allontanando il rischio di povertà. Ottenere un impiego è anche correlato con l’aumento del benessere personale, la self efficacy, il miglioramento della gestione relazioni (Becker et al., 2007) e la riduzione dei costi per la salute mentale (Bush et al., 2009); rappresenta, inoltre, un’opportunità di instaurare amicizie, ottenere supporto sociale (Stuart, 2006) e contribuisce a definire se stessi come lavoratori (Bush et al., 2009).

A conferma di ciò va considerato che esistono moltissimi programmi terapeutico-riabilitativi che utilizzano il lavoro come principale strumento per gli interventi di salute mentale: laboratori protetti, programmi di supported employment, job club, interventi di individual placement and support. Tali interventi hanno dimostrato la loro efficacia (Becker et al 2001, Latimer et al 2006, Burns et al 2007) sia sul singolo sia sul sistema in cui l’individuo è inserito. Seguendo Boardman e coll.(2003), infatti, avere un’occupazione non solo contribuisce a mantenere il benessere psichico di una persona, ma ha anche un impatto notevole su più aspetti della sua vita rispetto a quasi tutti gli altri interventi psicosociali.

Da tali considerazioni si può evincere quanto questi ultimi anni caratterizzati da incertezza, perdita di posti di lavoro, disoccupazione crescente e instabilità economica abbiano potuto avere drammatiche conseguenze sul benessere psicologico degli individui e delle comunità.

Nel contesto italiano, un primo elemento per approfondire tale questione deriva dai risultati dello studio dell’ISPO ‘Gli italiani e l’impatto percepito della crisi sulla psiche‘ condotta nel 2013 secondo la quale la maggioranza della popolazione ritiene che l’aggravarsi della crisi finanziaria abbia contribuito ad accentuare la condizione di disagio psicologico e ad aumentare la diffusione di disturbi psichiatrici. I dati rivelano, inoltre, che tra il 2009 e il 2014 ‘La percezione di un peggioramento della situazione economica è passata dal 53% al 62%’; per quanto concerne la percezione della situazione economica della propria famiglia è stato registrato un analogo aumento: ‘se nel gennaio 2009 quasi un intervistato su tre si aspettava un futuro nero, nel febbraio 2013 a pensarla così è il 58%’.

Un contributo di particolare interesse è l’indagine della Ausl di Modena ‘Il costo della crisi in termini di salute mentale: il caso di Modena’. Lo studio prende in considerazione le rilevazioni Istat 2013 sulle condizioni di salute e accesso ai Servizi Sanitari che indicano come nel periodo 2005-2012 vi sia stato un peggioramento dell’indice di salute mentale. Tali dati sono stati successivamente confrontati con quelli osservati in provincia di Modena. Nel territorio si è registrato, tra il 2006 e il 2012, un incremento degli accessi ai Centri di Salute Mentale, del 25% degli uomini e del 13% per le donne, e un aumento dell’uso di farmaci antidepressivi. Si è evidenziato come l’essere disoccupato da meno di un anno abbia un effetto negativo statisticamente significativo per gli uomini, dato in linea con la letteratura internazionale, mentre la disoccupazione di lungo periodo ha un effetto negativo soprattutto sulle donne (www.ausl.mo.it). Lo studio, tuttavia, oltre a confermare l’effetto negativo della recessione economica rileva l’efficacia delle politiche attive di inclusione lavorativa anche per quelle persone con gravi disturbi psichiatrici.

A livello internazionale i dati confermano le severe ripercussioni che la crisi economica ha avuto sulla salute degli individui. Sono stati riscontati effetti negativi sul benessere psicologico che includono alterazioni dell’umore, della stabilità emotiva, depressione o disturbi d’ansia. Gli studi hanno, inoltre, dimostrato un significativo aumento dei suicidi e dei tentativi di suicidi, della vendita di antidepressivi, dei casi di alcolismo, dei disturbi del sonno e delle malattie cardiovascolari (De Vogli et al. 2013, Di Carlo 2015, Wahlbeck, Mc Daid, 2012).

A questo proposito Chang e coll. (2013) hanno indagato l’impatto della crisi sull’andamento del tasso di suicidi in 54 Stati (27 europei e 18 americani), osservando un notevole incremento del trend che ha coinvolto in gran parte gli uomini, particolarmente colpiti dalla disoccupazione specie in quegli stati in cui i livelli di disoccupazione pre-crisi erano sostanzialmente bassi.

Il lavoro, dunque, sembra essere il principale strumento attraverso cui la recessione ha fatto sentire i suoi drammatici outcome. Ciò è corroborato anche dalle indicazioni dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) la quale ha fatto presente come sia fondamentale per la salute delle persone non solo possedere un’occupazione ma che tale occupazione sia qualitativamente significativa. L’aumento dei fattori di rischio per la salute sembra essere associato, secondo l’OMS, sia con la disoccupazione ma anche con condizioni di lavoro precarie (Marmot et al., 2012).

Per quale ragione la crisi economica e la perdita del posto di lavoro hanno esiti tanto negativi? Possedere un impiego può essere fonte di una serie di effetti positivi espliciti, come il corrispettivo economico che si riceve a fronte dell’attività prestata, e impliciti o latenti, legati allo status di lavoratore quali la riconoscibilità sociale, l’instaurare nuovi contatti e relazioni, il porsi obiettivi di crescita personale (Ascani, Florio, Grasso 2014). Il lavoro, in aggiunta, conferisce una strutturazione al tempo, offre opportunità di socializzazione, permette di condividere scopi e impegni di gruppo, definisce e rafforza l’identità sociale, organizza le attività quotidiana dando valore al tempo del lavoro e significato a quello del non-lavoro (Harnois e Gabriel 2000).

Per tale ragione perdere il proprio impiego è da considerarsi come un evento complesso che coinvolge più dimensioni della vita di un individuo: la perdita del ruolo di lavoratore, la diminuzione delle entrate economiche; la difficoltà a sostenere sé e la propria famiglia; il cambiamento della routine quotidiana; le interazioni sociali; l’immagine di sé. Una delle principali funzioni del lavoro, dunque, sembra essere il suo determinare l’identità individuale come strumento fondamentale per definire sé stessi e raccontarsi agli altri (Colella, 2009). Secondo Stuart (2006) nessun’altra attività sociale conferisce maggiormente un senso del proprio valore.

Per questi motivi essere esclusi dal mercato del lavoro non solo crea privazioni materiali ma mina anche la fiducia in se stessi, provoca senso d’isolamento e marginalità e rappresenta un fattore di rischio per la salute mentale. Di qui si evince la profonda rilevanza che tale attività ha nella vita umana e le drammatiche conseguenze che la mancanza di essa possono avere nell’esistenza di chi ne è privo. Quando tra il desiderio avere un impiego e l’effettivo lavoro si frappone il dato di realtà possiamo trovarci di fronte a difficoltà e problematiche che non investono solo il singolo individuo ma l’intera comunità di cui esso è parte (come la povertà sociale, l’esclusione o la diminuzione del potere d’acquisto delle famiglie) (Ascani, Florio, Grasso, 2014).

Sembrerebbe, comunque, che alcuni fattori siano in grado di modulare l’impatto che la disoccupazione ha sulla salute mentale: la centralità del ruolo di lavoratore nella vita della persona (Paul, Moser, 2006); la qualità dell’impiego posseduto (Graetz, 1993); l’entità del declino finanziario successivo alla perdita del posto di lavoro (Thomas et al. 2007); il supporto sociale, le strategie di coping, le aspettative di rioccupazione e la durata del periodo di non lavoro (Jahoda, 1981; Backhans, Hemmingsson, 2010).

I dati a nostra disposizione vedono negli uomini i soggetti che, rispetto alle donne, maggiormente possono risentire degli outcome negativi della recessione sulla salute mentale (Evans-Lako et al., 2013; Backhans, Hemmingsson, 2011). Una possibile ipotesi per dare una spiegazione a tale fenomeno può risiedere nel ruolo che, in molti Paesi, hanno gli uomini; pensiamo ad esempio alla figura del capofamiglia che regge su di sé il futuro dei figli e ha la responsabilità dei suoi cari.

Un’ulteriore elemento da prendere in considerazione può essere il vissuto di fallimento che può celarsi dietro alla perdita del proprio impiego e che per alcuni può essere particolarmente intollerabile. Infine, l’incertezza verso il futuro che può portare a quella che Bauman ha definito ‘paura fluida‘, una paura indiscriminata, fluttuante, senza una causa determinata ma che coinvolge tutte le aree di vita della persona (2008).

Nonostante ciò, la presenza dei succitati fattori modulatori è una riprova del fatto che, in ultima analisi, le valutazioni e i conseguenti significati individuali hanno una fondamentale importanza e probabilmente politiche mirate non solo ad aumentare le finanze dei singoli, ma anche a un potenziamento dell’accessibilità dei servizi di salute mentale, potrebbero essere utili per sviluppare la resilienza della persona consentendo di costruire nuovi significati e interpretazioni più funzionali.

La ricerca della felicità con la riscoperta della sensorialità – Un articolo di Giancarlo Dimaggio

Osservate noi psicoterapeuti all’opera. Il nostro ingegno al servizio della ricerca della felicità. Il primo mandato: rimuovere i meccanismi che fabbricano dolore. Ansie, ossessioni, rabbie, pensieri molesti. Dotati di cassette degli attrezzi di terza generazione, nella maggior parte dei casi funzioniamo. Non promettiamo di riuscire sempre e completamente, a volte falliamo, a volte rimangono scorie. Ma ce la caviamo abbastanza bene.

Articolo di Giancarlo Dimaggio, pubblicato sul Corriere della Sera di 31/01/2016

 

Il secondo passo: smuovere i grumi che ostruivano le fonti del benessere, nelle cui acque stagnanti la fermentazione ad alta temperatura produceva tossine. Qual è il segreto della nostra bottega? Se una formula si può svelare è: animare il corpo. La felicità non la trovate nella vittoria, nella conquista, nella quiete. Quelli si chiamano trionfo e relax. Belli, ma lasciano il tempo che trovano.

Noi con i nostri pazienti stringiamo accordi. Innanzitutto, accettano di allenarsi all’ascolto del mondo interno. L’oppressione, il vuoto che la attanagliano, dove sono collocati? Nel petto? Nell’addome? Una tensione sulle spalle? Bene. Ora: dove risuona la leggerezza? Non lo so. Ci pensi. Concentriamoci. Si chiama: identificare desideri, attitudini, passioni. Piccole gioie che hanno dimenticato quanto valesse la pena perseguire. Poi: programmare l’azione. Tempo fa la chiamavamo attivazione comportamentale. Faccia qualcosa coerente con la ricerca del benessere. Sembra facile, non lo è. Il corpo si attiva e tutti i demoni sgorgano dal sottosuolo: colpe, paure, punizioni temute, sanzioni decretate da spietati giudici interni.

Questa è la parte più impegnativa: riconoscere che il demone altro non è che un fantasma, un prodotto dell’immaginazione, e persiste nell’azione.
Il punto d’arrivo: la riscoperta della sensorialità. La felicità dei pollici mentre affondano nell’impasto di acqua e farina. L’armonia del gesto mentre la racchetta impatta la pallina. Se un fantasma si affaccia, ignoratelo. C’è vostra figlia che sta esibendo la verticale solo per voi.

 

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L’ansia cronica aumenta il rischio di depressione e demenza

Sembra esserci una vasta sovrapposizione tra i neurocircuiti del cervello nelle tre condizioni di ansia cronica, paura e stress. Questo può spiegare il legame tra stress cronico e lo sviluppo di disturbi neuropsichiatrici, tra cui la depressione e l’Alzheimer.

Un gruppo di ricercatori del Rotman Research Institute at Baycrest Health Sciences ha pubblicato una review di studi che hanno esaminato le aree cerebrali colpite da ansia cronica, paura e stress sia negli animali e che in soggetti umani. Gli autori hanno concluso che c’è una vasta sovrapposizione tra i neurocircuiti del cervello in tutte e tre le condizioni che può spiegare il legame tra stress cronico e lo sviluppo di disturbi neuropsichiatrici, tra cui la depressione e l’Alzheimer.

 

Ansia cronica, stress e conseguenze a lungo termine

Ansia, paura e stress sono parte della vita di tutti ma quando queste reazioni emotive acute diventano frequenti o addirittura croniche, possono interferire significativamente con le attività quotidiane come il lavoro, la scuola e le relazioni. Lo stress cronico è uno stato patologico che è causato dall’attivazione prolungata della normale risposta fisiologica allo stress acuto, che può colpire duramente i sistemi immunitario, metabolico e cardiovascolare, e portare ad atrofia dell’ippocampo (cruciale per la memoria a lungo termine e l’orientamento spaziale).

La Dott.ssa Mah e colleghi hanno esaminato le strutture chiave dei neurocircuiti della paura e dell’ansia (amigdala, corteccia prefrontale mediale, ippocampo), che sono colpite durante l’esposizione a stress cronico. I ricercatori hanno notato modelli di attività cerebrale anormale simili per paura/ ansia cronica e stress cronico – in particolare un amigdala iperattivata (associata a risposte emotive) e un iperattività del PFC (aree cerebrali deputate al pensiero che aiutano a regolare le risposte emozionali attraverso la valutazione cognitiva).

Secondo la Dott.ssa Mah comunque il danno indotto dallo stress nell’ippocampo e nel PFC non è completamente irreversibile; il trattamento con anti-depressivi e l’attività fisica sembrano infatti incrementare la neurogenesi ippocampale.

La review scientifica segue un importante studio del 2014 in cui il la Dott.ssa Mah ha trovato alcune tra le prove più convincenti che l’ ansia cronica potrebbe accelerare la conversione al morbo di Alzheimer in soggetti con diagnosi di decadimento cognitivo lieve. Ha detto la Mah:

Per il futuro dobbiamo poter stabilire se gli interventi come l’esercizio fisico, la mindfulness e la terapia cognitivo comportamentale, sono grado di ridurre non solo lo stress, ma anche il rischio di sviluppare disturbi neuropsichiatrici.

La storia dei disturbi alimentari: da curiosità psichiatrica del passato a epidemia nel novecento

Una curiosità psichiatrica: così apparivano i disturbi alimentari fino alla metà degli anni Ottanta. Poi, improvvisamente sembrarono diventare quasi un’epidemia dal valore simbolico.

MAGREZZA NON E’ BELLEZZA – I DISTURBI ALIMENTARI: Da curiosità psichiatrica a epidemia (Nr.1)

Una curiosità psichiatrica, un disturbo psicologico raro ed eccentrico, dal sapore quasi ottocentesco. Una stramberia simile alla personalità multipla o alle isteriche curate da Charcot alla Salpêtrière. Così apparivano i disturbi alimentari fino alla metà degli anni Ottanta. Poi, improvvisamente sembrarono diventare quasi un’epidemia e assunsero un valore simbolico. Da residuo polveroso della vecchia psichiatria divennero malessere psicologico fin troppo tipico del secondo consumismo, quello dell’epoca del riflusso dopo la stagione rivoluzionaria degli anni Settanta.

 

L’emergere dei disturbi alimentari durante gli anni dell’edonismo

Gli anni Ottanta del secolo scorso segnarono il ritorno al privato e a un rinnovato edonismo. Mutati i valori, l’ideale non era più quello di rinnovare il mondo ma l’affermazione personale, la realizzazione di sé e le professioni economiche come l’operatore di borsa, che nel decennio precedente era considerato una figura negativa, divennero appetibili. Wall Street, del regista Oliver Stone, rappresentò il cambio di scenario.

Gordon Gekko, pescecane della Borsa di New York, rubava la scena al protagonista Bud Fox e s’impadroniva del film. Un ideale neopagano di bellezza, forza, potere e splendore personale entrò nell’immaginario pubblico e ne prese possesso. Anche Tom Wolfe, nel suo romanzo Il falò delle vanità del 1987, illustra l’ascesa e la caduta di un personaggio avido di vita e di denaro nella New York della metà degli anni Ottanta. Il protagonista Sherman McCoy, a causa di un incidente automobilistico in cui la sua amante travolge e uccide un ragazzo di colore, precipita sempre più in basso, perde tutto e diventa un uomo perseguitato, odiato, abbandonato dalla moglie e alla fine si ritrova solo e povero, bersaglio emblematico e simbolico di tutti i valori dell’edonismo reaganiano.

L’associazione tra questo tipo di edonismo e l’emergere dei disturbi alimentari non è immediata. Il rifiuto del cibo dell’anoressica non sembra una scelta legata all’affermazione di sé. Ne sembra piuttosto una negazione. Ma è una negazione dettata dalla paura e dell’ansia di non riuscire a raggiungere l’ideale individualistico dell’affermazione personale. Come vedremo meglio, l’esordio anoressico avviene per lo più al limitare dell’adolescenza, quando la giovane donna deve uscire dalla cerchia familiare per entrare in un mondo sociale fatto di giovani adulti in cui, per la prima volta, è necessario conquistare l’attenzione e la considerazione altrui.

A quell’età il ruolo svolto dalla bellezza fisica è particolarmente incisivo, bellezza che deve essere accompagnata da un tipo di carisma sociale estroverso, non particolarmente sofisticato. E naturalmente la giovane età rende questi soggetti particolarmente sensibili al giudizio degli altri e al dolore delle piccole competizioni di rango imposte dalla vita sociale.

 

Oltre gli ideali di bellezza: la ricerca di controllo nei disturbi alimentari

Questa situazione può tradursi in stati di sofferenza acuta, che rischia di diventare ingestibile nelle personalità più fragili. Il soggetto può cadere preda di idee e convinzioni che si definiscono, in gergo psicologico, maladattive e distorte: il convincimento di non essere all’altezza, di non avere il controllo delle situazioni e, ancor peggio, il controllo dei propri stati d’animo e delle proprie emozioni.

Beninteso, questi stati non sono affatto esclusivi dei disturbi alimentari; anzi rappresentano fattori piuttosto comuni a molti disturbi emotivi e psichiatrici. L’intero spettro dei disturbi d’ansia condivide questa configurazione emotiva. Ciò che è specifico, e che fornisce valore simbolico, è l’obiettivo concreto su cui si concentrano le ansie tipiche dei disturbi alimentari: alimentazione e aspetto corporeo. Per essere più precisi: il controllo dell’alimentazione e dell’aspetto corporeo.

Il termine controllo è decisivo. Può sembrare banale ridurre i disturbi alimentari a una distorsione culturale che all’esteriorità e alla bellezza del corpo dà un valore eccessivo. È invece proprio questo termine che consente comprendere il disturbo alimentare. Come? Lo vedremo nel prossimo articolo.

 

RUBRICA: MAGREZZA NON E’ BELLEZZA – I DISTURBI ALIMENTARI

Gelosia psicologica e delirante: il delirio di gelosia di Jaspers – Recensione

Delirio di gelosia è uno dei primi saggi di Karl Jaspers nel quale esplora in modo ampio e dettagliato il tema della gelosia. L’elemento centrale è quello autobiografico, infatti le vite dei pazienti descritti assumono un ruolo importante nella comprensione di queste patologie.

Il libro si compone di diversi casi clinici, descritti in modo ricco e dettagliato, attraverso i quali Jaspers cerca di evidenziare come non tutti i deliri di gelosia possono essere equiparati e lo dimostra introducendo una distinzione ben chiara tra: gelosia psicologica e gelosia morbosa da un lato e gelosia delirante e delirio di gelosia dall’altro. Nei primi due casi la capacità critica del soggetto e l’esame di realtà rimangono complessivamente integri; nel caso invece della gelosia delirante il soggetto presenta un’estrema rigidità nei confronti di interpretazioni critiche che si discostano dalla propria; tutto ciò acquista una struttura ancora più complessa nel delirio di gelosia che si esprime in forma sistematica.

Per descrivere meglio queste forme Jaspers utilizza i concetti di “sviluppo di una personalità” e di “processo”, distinguendo all’interno di quest’ultimo tra processi psichici e processi fisico-psicotici. Con il termine “sviluppo” Jaspers fa riferimento a quell’insieme di cambiamenti e modifiche che convergono in un’unità complessiva; questo termine è quello che attualmente corrisponde al concetto di personalità e quindi sviluppo psicologico della personalità.

 

Gelosia psicologica e gelosia psicotica

Con il termine invece di “processo psichico” Jaspers si riferisce a quegli aspetti che si discostano dalla personalità sottostante e dalla comprensione empatica. Secondo Jaspers un processo abnorme interrompe il flusso della personalità precedente, intervenendo nella vita psichica in modo isolato. Questo concetto Jasperiano si avvicina molto al concetto attuale di sintomo psicologico. Quando il delirio di gelosia si colloca in modo strutturale all’interno della personalità, l’insorgenza è lenta, sono presenti collegamenti verosimilmente comprensibili verso eventi esterni e non si presentano veri e propri sintomi gravi come deliri persecutori; questa forma di delirio, ampiamente descritta da Jaspers all’interno dei suoi casi clinici, è quella che oggigiorno verrebbe definita come disturbo paranoide di personalità.

Nel caso del processo invece, il delirio comincia in un momento ben specifico e non sembrano esserci cause esterne scatenanti; Jaspers ritiene che questa forma di gelosia non possa esser compresa con gli strumenti dell’empatia e della comprensione e corrisponde a quei casi clinici che attualmente definiremmo affetti da Psicosi. Jaspers ritiene che la prima tipologia di pazienti descritti possano trarre giovamento da un trattamento psicologico, mentre nel caso dei processi ritiene che l’unico trattamento possibile sia quello farmacologico.

 

Fenomenologia della gelosia

L’aspetto interessante e sicuramente innovativo per l’epoca è l’introduzione di un punto di vista fenomenologico, volto ad un’analisi attenta del mondo interiore, attraverso l’utilizzo dell’empatia e dell’introspezione. Differentemente dagli approcci dell’epoca, non si tratta di un’analisi fredda e oggettiva, basata esclusivamente sul sintomo, Jaspers vuole analizzare in modo approfondito i sintomi che riguardano la dimensione interiore del paziente e che egli definisce sintomi soggettivi. Per questo motivo piuttosto che analizzare il contenuto specifico del delirio di gelosia, “il cosa”, egli si concentra soprattutto sulla forma del delirio, “il come”, cercando di cogliere l’atteggiamento che il soggetto assume nei confronti del proprio delirio. Per questo motivo egli presenta i casi clinici due volte: una prima volta descritti in termini “oggettivi” dal punto di vista psicopatologico, l’altra descritti in base alla visione del mondo del paziente. Il problema non è la gelosia in quanto tale, ma il modo in cui il soggetto vive ed interpreta il proprio rapporto con il mondo.

L’altro è vissuto come “maligno, falso, manipolatore” e le cose perdono realtà per quel che sono per assumere in modo rigido e irremovibile le caratteristiche che la soggettività impone loro. L’individuo perde completamente la capacità di riflettere sui propri pensieri e stati d’animo, i pensieri vengono presi così come si presentano, non c’è spazio per la messa in discussione o l’interpretazione. Man mano che si procede nella lettura dei casi clinici, sia che essi appartengano alla prima tipologia sia che appartengano alla seconda, si osserva l’impossibilità di questi uomini e donne di condividere il proprio mondo interiore. Per questo motivo, nell’ottica jasperiana, quando la perdita di contatto è così marcata è difficile comprendere nella concezione di “comprensione empatica”, la vita psichica di questi uomini.

[blockquote style=”1″]Nel delirio urtiamo contro ciò che è irrimediabilmente perduto nella non verità, il mondo comune, il mondo delle regole condivise.[/blockquote]

Credulità e paranoia nel Bel Paese: gli italiani sono più creduloni o complottisti?

Questo articolo è stato pubblicato da Giovanni Maria Ruggiero su Linkiesta il 16/01/2016

Gli italiani sono creduloni? Gli Italiani davvero credono a tutto? Oppure no? Oppure Italiani che diffidano di tutto e non credono in nulla. Italiani paranoici?

Gli italiani sono creduloni? Possibile, pensando al metodo Di Bella o ai mille maghi, agli omeopati, ai vaccini, al gioco d’azzardo, alle bufale da social network e a molto altro. Gli Italiani davvero credono a tutto? Oppure no? Oppure Italiani che diffidano di tutto, non credono in nulla e vedono complotti dietro qualunque evento inspiegato. Italiani paranoici? Ci torneremo. Per ora riflettiamo su credulità e paranoia.

Credulità e paranoia sono gemelle separate. Entrambe obbediscono al bisogno della mente umana di dare spiegazione al mondo e agli eventi e in essa trovare una direzione e una consolazione. Potremmo considerarle figlie di un istinto irrazionale, di un’immaturità emotiva, e invece sono generate dalla funzione più evoluta e raffinata della mente, quella capacità di simbolizzare, di trovare significati e costruire modelli, teorie e racconti. Il pensiero nasce come pratica di atti linguistici semplici, come l’indicare qualcosa a portata di mano o di vista -una preda, un antilope che corre- e poi diventa teoria quando si indica qualcosa di assente –una preda da cercare lontano dal villaggio- qualcosa che è oltre la portata degli occhi e che quindi immaginato e comunicato.

E quindi i suoni e i gesti di incitamento e di indicazione della preda caccia diventano, se pronunciati nella calma della sera del villaggio, una comunicazione: domani si va a caccia. Questa capacità linguistica e mentale di costruire mondi assenti sviluppa nei popoli primitivi –ma no solo- la cosiddetta ‘paranoia costruttiva‘. Così ha chiamato questa funzione inquietante e proficua Jared Diamond, figura affascinante di scienziato a cavallo tra biologia e antropologia.

La paranoia costruttiva è la capacità di dare un significato a eventi apparentemente insignificanti e futili, spiegazioni ora superstiziose e ora invece misteriosamente razionali. Non dormire sotto un albero di notte può sembrare un atto magico e rituale non dissimile dall’evitare un gatto nero e tale sembrò al giovane Diamond in uno dei suoi primi viaggi tra popolazioni di cacciatori. Eppure, dopo mesi passati nella foresta pluviale della Guinea, un atto razionalmente prudente: ogni giorno Diamond sentiva lo schianto di un albero che crollava provenire dal profondo della foresta. Quindi non dormire sotto gli alberi non era solo superstizione: L’evento non era così improbabile.

Questa paranoia però si unisce a una credulità altrettanto magica e paradossalmente costruttiva, come la paranoia. Diffidare porta a cercare spiegazioni alternative e nascoste. E porta a credere a queste spiegazioni nascoste e a crederle con intensità, fino alla credulità. Di qui mille credenze mitologiche e magiche così diffuse tra i primitivi.

Paranoia e credulità costruttiva per i popoli primitivi, dunque. E gli Italiani? Creduli e paranoici anch’essi, dicevamo. Tra gli esempi citati, infatti, c’è il caso dei vaccini, in cui paranoia e credulità s’intersecano inestricabili. Prevale la diffidenza verso i vaccini o la credulità della bufala della loro pericolosità? Certo, permane negli italiani una diffidenza verso ciò che non è visibile, una passione per ciò che è nascosto e inspiegato, unita a una percezione di vulnerabilità che ci apparenta ai popoli primitivi soggetti a mille pericoli e che ci allontana dalla modernità potente, fiduciosa, che da peso solo al certo e non al possibile e al dettaglio significativo. È dubbio però che questa credula diffidenza sia davvero frutto di un’emotività irriflessiva. Al contrario, trovare spiegazioni e pericoli dietro ogni dettaglio è proprio un frutto delle capacità riflessive spiegate al massimo grado.

Non a caso la modernità si accompagna a un particolare uso economico, prudente e pragmatico delle capacità riflessive superiori. Economia che si accentua man mano che ci inoltriamo in questa modernità. La razionalità pragmatica contemporanea è sempre più caratterizzata da un uso parsimonioso delle risorse intellettuali. Si cercano spiegazioni semplici, si obbedisce al rasoio di Occam, ci si fonde con pratiche orientali di economizzazione del pensiero speculativo, si diventa sempre più pragmatici, si diffida delle grandi spiegazioni, delle grandi paranoie e delle grandi credulità del passato. Le pratiche di meditazione di provenienza orientale, lungi dall’essere un potenziamento del pensiero, piuttosto lo recintano e lo delimitano, ne ridimensionano la potenza, trovando forza proprio nel pensare di meno. È la cosiddetta mindfulness, di cui si parla sempre più spesso in psicologia.

La vita sociale diventa fattiva anche nel tempo libero, si parla solo di ciò che c’è da fare insieme, o anche di cose c’è di divertente da fare insieme, mentre ci si astiene dal discutere dei massimi sistemi, di capitalismo e comunismo, di politica o di filosofia e men che meno di religione. Tutti rottami che hanno iniziato ad arrugginire negli anni ’70, l’ultima grande esplosione di razionalità speculativa europea con i suoi ultimi filosofi francesi e tedeschi incomprensibili e disperati.

Poi tutto ha iniziato a spegnersi. In Italia –ma anche all’estero- vi sono delle ultime impennate, come nel caso Di Bella o dei vaccini. Ma sono gli ultimi fuochi, frutto di una residua abitudine a speculare, discutere, commentare, ragionare e sragionare spaccando il capello in quattro. Ormai, nel bene e nel male, si rimugina di meno, si discute di meno, si parla di meno, soprattutto di politica. Con questo declino della conversazione impegnata e politica, sia al bar che nel luogo di lavoro, declinerà anche la credulità e la paranoia, sorelle legate e figlie di un modo di pensare che sembra appartenere al passato. Almeno per ora.

Ti mando un bacio: uomini sull’orlo di una crisi di nervi (2015) – Recensione

“Ti mando un bacio” è il titolo dell’ultimo romanzo del giornalista Niccolò Zancan. Ma è anche uno slancio, come quello rappresentato in copertina: un bambino che si lancia verso braccia aperte. E sono aperte e disperate le braccia dei quattro padri protagonisti di questo intreccio dolceamaro.

Dan, professore precario, sta progettando una rapina in un autogrill per assicurare alla figlia la possibilità di fare la tanto desiderata vacanza studio in Inghilterra. E non vuole deluderla.
Sergio, detto il Nero, ex dirigente aziendale liquidato dalla crisi, continua a lottare per difendere quello spazio (neutro) di incontro con il figlio, sotto l’occhio giudicante delle assistenti sociali. E non vuole perderlo.
Marco è intrappolato in un matrimonio spento con Ingrid ed è ancora insieme a lei solo per assicurare ai loro figli un tetto sulla testa che da soli non riuscirebbero a permettersi. E non vogliono ferirli.
Cris stenta ad arrivare a fine mese, ma non fa mancare mai a suoi due angeli il barattolo piccolo di Nutella. E vive in 39 metri quadri di casa comunale, stazione di incontro di queste quattro storie: qui si condividono dispiaceri e sorrisi, gesti sconsiderati e di altruismo, sconfitte, ma anche nuove speranze e nuove slanci.

Questi sono i protagonisti e queste le loro storie. Diversi, ma in fondo accomunati dalla paura di essere padri separati, dalla paura di non riuscire più ad adempiere ad un ruolo, quello di padre, ma soprattutto quello di uomo. Sono doppiamente vittime della crisi economica e relazionale che vivono e che li ha piegati, ma davanti alla quale non possono permettersi di cedere perché i loro figli li stanno a guardare. E sono proprio i figli i protagonisti specchio di questo romanzo. Sono Emma, Tom, Luca e Mattia, Ludovica e Martina: a loro sono indirizzati i baci, in loro è riposta la speranza, da loro e per loro parte il desiderio di un sano e nuovo inizio.

È un romanzo di amore, un amore dalle [blockquote style=”1″]braccia abbastanza grandi per riuscire ad abbracciarsi tutti interi[/blockquote] così come si è, senza sconti. È un romanzo di avventura, ironia, fallimento e rinascita. È un romanzo di attualità, uno spaccato sui padri in crisi che si destreggiano tra gli ostacoli che la società odierna mette sul piatto. È un romanzo di amicizia, di quella che ti accoglie, non ti giudica, che ti salva.

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