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L’effetto Placebo. Breve viaggio tra mente e corpo (2012) di F. Benedetti – Recensione

Un’utile introduzione alle attuali conoscenze sui meccanismi fisiologici e psicologici che presiedono al funzionamento dell’effetto placebo. Una lettura utilissima per chiunque si interessi di medicina, psicologia, filosofia della mente e bioetica.

Come diceva un grande filosofo dell’Ottocento, ciò che è notorio non è per questo conosciuto. In effetti, cosa sia a grandi linee l’effetto placebo è qualcosa di abbastanza notorio per qualunque medico e psicologo, oltre che probabilmente per qualunque persona mediamente colta: in determinate circostanze, per una percentuale sensibile di persone, un trattamento simulato può avere effetti paragonabili a quelli di un trattamento autentico.

Secondo una definizione corrente, l’effetto placebo è «un cambiamento del corpo o della mente che avviene come risultato del significato simbolico che viene attribuito a un evento o a un oggetto in ambito sanitario» (Howard Brody, cit. in Benedetti, 1912, p. 23).

L’esistenza dell’effetto placebo è ciò che rende necessario nella ricerca l’uso della tecnica del doppio cieco (double blind). Quando si effettua la sperimentazione di un nuovo farmaco, cioè, si scelgono due gruppi equivalenti ai quali vengono somministrati sia il prodotto vero che un prodotto inerte, dello stesso aspetto del primo, da parte di personale che non deve sapere a chi stia dando che cosa. In questo modo i membri dei due gruppi saranno condizionati da aspettative del tutto simili e le eventuali differenze di efficacia saranno integralmente da attribuire agli effetti del trattamento. All’inverso, anche gli eventuali effetti collaterali dovranno essere attribuiti al trattamento stesso: anche le aspettative negative possono influenzare l’organismo, inducendo in questo caso un peggioramento della propria condizione (si parla allora di effetto nocebo).

L’effetto placebo non è però una semplice curiosità o un artefatto della ricerca. Secondo Fabrizio Benedetti, in realtà, in primo luogo gran parte della storia della medicina prescientifica è storia dell’uso inconsapevole del placebo. Le prime istituzioni dove la medicina è stata praticata basandosi su reali conoscenze fisiologiche del funzionamento delle cure, peraltro, sono gli ospedali francesi del terzo decennio dell’Ottocento. Quindi per quasi tutta la sua storia, l’umanità sofferente si è affidata a medici (e prima a ciarlatani e sciamani) che si sono basati su innumerevoli cure assolutamente prive di fondamenti razionali. Eppure, vuoi per la regressione spontanea di alcune malattie, vuoi per la fiducia nella guarigione indotta dalle cure, dei miglioramenti potevano essere ottenuti. I miglioramenti ottenuti, d’altra parte, non potevano che rinforzare la fiducia dei successivi pazienti, mantenendo in vita tradizioni terapeutiche di per sé in teoria prive di efficacia.

In secondo luogo, l’uso dell’effetto placebo fa tuttora parte della pratica medica. Pochi ma rigorosi studi hanno mostrato che, in diversi paesi, i medici usano trattamenti placebo con relativa frequenza. In Usa, Danimarca e Israele percentuali tra il 60% e l’80% dei medici ha usato o usa placebo veri e propri (pillole di zucchero o iniezioni di acqua distillata, per esempio) oppure placebo attivi, cioè medicine vere e proprie ma inefficaci nel caso di specie, somministrate solo nell’intento di suscitare fiducia nel professionista e attesa di guarigione.

Un tipico esempio di placebo attivo è l’antibiotico prescritto per l’influenza virale, che non rappresenta minimamente una cura specifica, ma la cui assunzione può costituire un’alternativa assai meno frustrante della semplice passiva permanenza nel letto fino a decorso completo.

Lo studio dei meccanismi di funzionamento dell’effetto placebo risale a tempi abbastanza recenti e ha condotto a una serie di risultati di estremo interesse. Dal punto di vista dei meccanismi psicosociali, è stato anzitutto verificato che l’intervento di chi somministra il trattamento assume un’importanza rilevante ai fini dell’efficacia del trattamento stesso. Ciò significa che un medesimo farmaco sarà tendenzialmente più efficace se il medico usa parole rassicuranti e adotta un comportamento amichevole e non freddo: ciò vale sia nel caso del placebo, sia nel caso di un farmaco attivo e funzionante.

Anche altri aspetti del contesto di somministrazione sono importanti. Ad esempio se al placebo viene assegnato il nome di un farmaco conosciuto e gli viene attribuito un alto costo, tenderà a risultati migliori rispetto a quelli ottenuti con un nome sconosciuto e un prezzo teorico più basso. In ogni caso non esiste la possibilità di prevedere se l’effetto sarà o meno innescato in un singolo paziente, anche se è stato definitivamente provato che determinati caratteri genetici rendono in linea teorica determinate persone più predisposte di altre all’efficacia del placebo.

I meccanismi fisiologici del funzionamento del placebo sono a loro volta molteplici e intricati. Benedetti ricorda che, tra l’altro, è stato possibile indurre l’effetto placebo su animali, dai quali non ci si aspetterebbe l’attesa di una determinata azione da una sostanza. Eppure, per esempio, dopo aver iniettato a topi una sostanza che migliorava una performance motoria un certo numero di volte, si è osservato che un’ulteriore iniezione, di sostanza inattiva, consentiva ad alcuni di essi le stesse performance ottenute in precedenza inoculando il prodotto attivo.

In linea generale, però, sono due le strade attraverso le quali la mente influenza il corpo innescando l’effetto placebo, ovvero le aspettative e l’apprendimento. Le aspettative possono agire modulando l’ansia (per esempio l’ansia anticipatoria può aumentare la percezione soggettiva del dolore; una sedazione dell’ansia la può diminuire). Talora vengono coinvolte le regioni del cervello usualmente coinvolte nei meccanismi di ricompensa, in particolare il nucleus accubens che rilascia dopamina quando ottengono successo i comportamenti di ricerca di un premio o del piacere (attraverso cibo, sesso o obiettivi culturalmente acquisiti come denaro e droghe). Il miglioramento terapeutico è di per sé una forma di premio o di piacere e la sua attesa può attivare il nucleus accubens. Il conseguente rilascio di dopamina può influenzare a sua volta il rilascio di altri neurotrasmettitori: il risultato può essere l’inibizione del dolore, la diminuzione della depressione o persino il miglioramento dei sintomi nel morbo di Parkinson.

L’apprendimento può agire sotto la specie del condizionamento (abituarsi all’idea che una pillola tonda bianca migliori la propria condizione di salute può generare un’efficace aspettativa di guarigione anche quando all’aspirina presa originariamente viene sostituita una pasticca inerte della stessa forma). Anche l’apprendimento sociale, però può essere efficace (osservando che un determinato rituale terapeutico in un ospedale produce la guarigione ci si aspetta che lo stesso rituale produca anche in noi gli stessi effetti).

Benedetti prende in considerazione diversi ambiti dove l’effetto placebo entra o può entrare in funzione, dal doping sportivo alle medicine alternative alla vita di tutti i giorni. Dispiace però che l’unico capitolo che si può considerare poco interessante e riuscito sia quello sulle psicoterapie. L’autore parte dal dato di fatto dell’esistenza sul mercato di più di quattrocento psicoterapie, delle quali si conosce in qualche modo l’efficacia, per affermare che l’unico fattore in comune ad esse sia «una positiva interazione umana tra paziente e psicoterapeuta» e di conseguenza siano tutte assimilabili all’effetto placebo (Benedetti, 2012, p. 59).

È stato però ampiamente dimostrato dalla ricerca che, se è pur vero che in molti casi gli effetti di varie psicoterapie sono ugualmente positivi, essi sono comunque ben superiori sia all’effetto di terapie-placebo appositamente disegnate, sia (a maggior ragione) all’effetto del puro scorrere del tempo (cfr., p. es., Dazzi, Lingiardi e Colli, 2006).

Questo specifico neo però non cancella i molti meriti del libro, scritto da uno specialista di fama mondiale, in una forma sintetica, molto leggibile e assai efficace.

 

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Effetto Placebo: un viaggio tra mente e corpo. Intervista a Fabrizio Benedetti

 

Mangiare bene: un’abitudine che si impara da piccoli

La strategia migliore sarebbe, secondo i ricercatori della La Trobe University, la promozione di un ambiente familiare in cui non si seguano rigidi parametri calorici o ponderali, ma al contrario, si instauri un clima di informazione e consapevolezza relativa a ciò che si mangia.

 

Buone abitudini alimentari e soddisfazione per il proprio corpo sono fattori fondamentali per la salute fisica e psicologica di ciascuno di noi, bambini inclusi. Essere insoddisfatti del proprio aspetto e in sovrappeso espone anche i più piccoli al rischio di una vita poco sana e, in alcuni casi, allo sviluppo di sintomi depressivi e veri e propri disturbi alimentari. Coinvolgere i genitori risulta quindi fondamentale per evitare l’emergere e il consolidarsi di pattern alimentari disfunzionali e tenere sotto controllo le aree di vulnerabilità. Nel corso del tempo sono stati messi a punto progetti di intervento di varia ispirazione e natura ma, in molti casi, si è tralasciato l’intervento preventivo limitandosi alla gestione dei sintomi e ponendo il focus sul peso piuttosto che sulla salute alimentare nel suo significato più ampio.

Così affermano i ricercatori della La Trobe University di Melbourne, Australia, che hanno messo a punto un intervento denominato Confident Body Confident Child (CBCC). Il programma, recentemente sottoposto a verifica sperimentale, ha carattere preventivo ed è dedicato ai genitori di bambini tra i 2 e i 6 anni d’età. Come affermano gli autori, il CBCC interviene prima di tutto sull’atteggiamento dei genitori nei confronti dell’aspetto fisico proprio e dei figli e sul ruolo attribuito al cibo nel modello educativo del nucleo familiare. I comportamenti a rischio possono essere talvolta difficili da individuare: se è intuitivo che l’assunzione di cibo ipercalorico e preconfezionato comporta il rischio di un aumento di peso e che la svalutazione da parte del genitore dell’aspetto dei figli li espone al pericolo dell’insoddisfazione per il proprio corpo, potrebbe risultare meno evidente che utilizzare il cibo come premio o punizione è altrettanto disfunzionale. In altre parole, contare le calorie serve a poco se si finisce con il ricompensare con un gelato un bambino che ha mangiato la frutta o si sospendono le merendine per un capriccio.

La strategia migliore sarebbe quindi, secondo i ricercatori della La Trobe University, la promozione di un ambiente familiare in cui non si seguano rigidi parametri calorici o ponderali, ma, al contrario, si instauri un clima di informazione e consapevolezza relativa a ciò che si mangia. Come? Proponendo ai genitori un percorso educativo di sei settimane nel corso delle quali si forniscano opuscoli, poster, libri per bambini, un sito internet cui poter accedere per chiarire i propri dubbi e un workshop per imparare come mettere in pratica ciò che si è appreso.

I risultati per ora sono incoraggianti e rivelano, al termine del programma, una maggiore consapevolezza da parte dei genitori relativa ai comportamenti che espongono i bambini al rischio di pattern alimentari disregolati e una minore intenzione di mettere in atto tali comportamenti. Ulteriori ricerche potranno chiarire se, sul lungo periodo, questo sia sufficiente per garantire abitudini alimentari sane e un peso nella norma. È forse il caso, sembra suggerire lo studio, di ripensare il modo in cui mangiamo, per tutelare noi stessi e i più piccoli dal rischio di sovrappeso e disturbi alimentari e garantire a tutta a famiglia un rapporto sereno e salutare con il cibo.

Terapia cognitivo-comportamentale di 2a e 3a generazione per i Disturbi Alimentari – Sandra Sassaroli conferenza a Milano

2 febbraio 2016 alle 20:15 presso la Casa della Psicologia in Piazza Castello 2 a Milano

La psicoterapia cognitivo comportamentale ha dimostrato la sua efficacia con i disturbi dell’alimentazione fin dai primi anni novanta. Il protocollo di Fairburn è oggi considerato il punto di riferimento per tutti gli interventi con pazienti bulimiche. Vi sono però alcuni problemi sia per quanto riguarda la disseminazione che per quanto riguarda l’applicazione del modello cbt standard all’anoressia e ai disturbi da alimentazione incontrollata.

Tra le terapie di terza generazione quelle che si rivolgono alla comprensione dei processi di pensiero (rimuginio, ruminazione) sembrano estremamente promettenti. Esse hanno arricchito la comprensione del funzionamento psicopatologico di pazienti con diversi disturbi di primo asse e si misurano oggi con i disturbi dell’alimentazione. Anche se queste ipotesi non hanno ancora superato il vaglio della sperimentazione di efficacia, costituiscono per i clinici un campo interessante e innnovativo per arricchire la comprensione di queste pazienti.

Ce ne parlerà Sandra Sassaroli psichiatra e psicoterapeuta cognitivo-comportamentale. Direttore della scuola di specializzazione in psicoterapia cognitiva “Studi Cognitivi” con sedi a Milano, San Benedetto del Tronto e Modena.Didatta SITCC dal 1981. E’ autrice di numerosi libri e di articoli pubblicati su riviste peer reviewed.

 

Vi aspettiamo il 2 febbraio alle 20:15 presso la Casa della Psicologia in Piazza Castello 2 a Milano, o alle 20:30 sulla piattaforma gotowebinar di OPL.

DBT, Skills training: il nuovo manuale di Marsha Linhean (2015) – Recensione

I moduli di abilità insegnate sono quelli conosciuti dall’impianto classico DBT: Abilità di mindfulness, Abilità di efficacia interpersonale, Abilità di regolazione emotiva, Abilità di tolleranza della sofferenza; se però già nell’impianto generale dello skills training ci sono novità sostanziali, anche nei contenuti insegnati si possono trovare delle modifiche rilevanti: sono stati rivisti al loro interno i singoli moduli e introdotte nuove abilità, compresa una sezione interamente nuova dedicata ai disturbi del sonno (protocollo sugli incubi e sull’igiene del sonno).

di Iacopo Camozzo Caneve

 

Dalla sua introduzione negli anni ’90 la Terapia Dialettico Comportamentale, all’inizio con un focus specifico per il disturbo Borderline e impulsività suicidaria, è andata sempre più differenziandosi al suo interno mostrando la sua utilità per un ampio numero di disturbi (disturbi alimentari, depressione resistente al trattamento e dipendenze in particolare), oltre che per popolazioni non cliniche, ma potendo giovarsi quasi sempre di consistenti prove di efficacia.

Parallelamente a questo spostamento, i gruppi di skills training (comportamenti da apprendere per poter gestire situazioni problematiche), che sembravano all’inizio essere di supporto alla terapia individuale, hanno mostrato sempre più essere l’aspetto centrale dell’intervento terapeutico e del cambiamento clinico, così come dimostrano le ricerche svolte in questi anni.

Per mettere a fuoco questi cambiamenti, e fare il punto sullo stato attuale dell’intervento DBT, M.Linehan ha pubblicato nel 2014 (arrivato da poco in Italia) un nuovo manuale; nuovo proprio perché riflette direttamente gli sviluppi appena ricordati: un intero manuale (più di 900 pagine tra teoria schede esercizi) dedicato unicamente allo skills training, e uno skills training modulare che si può declinare liberamente non solo a seconda del disturbo, ma anche delle esigenze del singolo paziente.

I moduli di abilità insegnate sono quelli conosciuti dall’impianto classico DBT: Abilità di mindfulness, Abilità di efficacia interpersonale, Abilità di regolazione emotiva, Abilità di tolleranza della sofferenza; se però già nell’impianto generale dello skills training ci sono novità sostanziali, anche nei contenuti insegnati si possono trovare delle modifiche rilevanti: sono stati rivisti al loro interno i singoli moduli e introdotte nuove abilità, compresa una sezione interamente nuova dedicata ai disturbi del sonno (protocollo sugli incubi e sull’igiene del sonno). La novità più rilevante è però rappresentata da un modulo mindfulness rinnovato e notevolmente ampliato, maggiormente in linea con il peso che la mindfulness ha all’interno del trattamento e con le necessità di approfondimento che ne derivano (lasciate in parte disattese nell’edizione precedente del manuale).

In sintesi, un’opera fondamentale nel panorama DBT, è un ‘opera importante per ogni clinico che voglia introdurre nei propri interventi l’insegnamento di abilità specifiche.
In un momento storico in cui sempre più al mondo della psicoterapia è richiesto un ancoraggio forte nella ricerca, e in cui le teorie hard abbondano mentre le prassi terapeutiche rimangono troppo spesso soft, il modo di procedere della Linehan rappresenta davvero un modello interessante: fa infatti del proprio aver “rubato” le proprie skills a terapie e modelli evidence-based più disparati (terapia cognitivo-comportamentale, psicologia sociale, psicologia cognitiva….) il punto di forza del proprio lavoro, fino ad andare a “pescare” direttamente dalla prassi clinica dei colleghi (al di là di quel che dice la teoria di riferimento) per costruire, dal basso, il corpus, peraltro davvero imponente, delle proprie skills.

Goodbye Freud. La psicologia abbandona la dimensione europea della ricerca intellettuale

Questo articolo è stato pubblicato da Giovanni Maria Ruggiero su Linkiesta il 9/01/2016

 

Si è persa fiducia nel potere taumaturgico della conoscenza. L’atto del conoscere, del sapere come è fatta una cosa, è considerato meno curativo e meno capace di mutare l’ordine delle cose per sola virtù propria.

I tempi cambiano, rapidamente. Anche nel campo della psicoterapia. Per qualche anno abbiamo sentito parlare molto di mindfulness, e forse abbiamo già scavalcato la cresta di quell’ondata di meditazione arrivata dall’oriente. Eppure, malgrado la possibile risacca degli esercizi di consapevolezza mentale, diventa sempre più condivisa e seguita una direzione ben precisa, una strategia di evoluzione della psicoterapia che, man mano che lievita, dimostra un interesse sempre più scarso e decrescente per l’esplorazione interiore, per lo scavo teso alla conoscenza del cosiddetto profondo.

Insomma, si è persa fiducia nel potere taumaturgico della conoscenza. L’atto del conoscere, del sapere come è fatta una cosa, è considerato meno curativo e meno capace di mutare l’ordine delle cose per sola virtù propria. È un secolo sempre più incredulo: dopo che il suo predecessore, il ‘900, aveva voltato le spalle alle grandi teologie in nome della conoscenza critica, questo nuovo tempo dissacra anche la conoscenza stessa, svalutandola a gioco intellettualistico. Non basta sapere per cambiare.

E perché mai un processo dovrebbe mettersi in moto dopo che la mente umana l’abbia conosciuto? Dopo la scuola del sospetto di Marx, Freud e Darwin, è l’ora di sospettare anche di costoro. Per la verità si sospetta più di Marx e Freud (e più Marx di Freud), mentre Darwin appare inattaccabile. In fondo quest’ultimo aveva ben poco a che fare con gli altri due, un britannico contro due mitteleuropei. I quali, con tutto il loro illuminismo, avevano cercato di rivelare un’essenza, una metafisica sia pure materialistica del mondo. Quanto di più lontano del pragmatismo del “basta che funzioni” anglo-americano. Cercavano una spiegazione definitiva che potesse cambiare il mondo una volta che si fosse rivelata alla mente umana. Mente Darwin si limitò a descrivere un modello, sia pure di grande respiro. Darwin descrisse delle funzioni, non cercò delle essenze.

Non si tratta di fare il solito Freud-bashing, di tirare le usuali randellate a Freud. Si tratta di prendere atto che oggi nessuno crede più nel potere taumaturgico del conoscere. Sapere, rendere cosciente ciò che prima era ignoto e perfino inconscio, incide poco sui fatti, o comunque molto meno di quel che si pensi. Sapere che la nostra vulnerabilità di oggi dipende da relazioni familiari difficili di ieri è solo un passetto verso il cambiamento. Nel ‘900 capire la psiche poteva sembrare una grande innovazione, e lo fu. Solo che era solo il primo passo e non portava automaticamente a risultati tangibili. In seguito la psicoterapia ha tardato a sviluppare modelli operativi facilmente descrivibili e di chiara efficacia. Sembra quasi che ci si sia divertiti a diminuire l’efficienza della psicoterapia per un bel po’ di anni, almeno fino agli anni ’50 e ’60. E tutto in nome dello scavo interiore infinito e alla lunga mortificante. Si è arrivati al limite di cinque sedute a settimana per anni, laddove Freud faceva terapie di pochi mesi.

Il nocciolo è che al volgere del millennio si è capito che le soluzioni stanno in un altrove rispetto all’esplorazione e alla comprensione. Capire le cose può essere importante, ma occorre farlo solo un po’, in economia. E poi, per trovare una soluzione pratica a ciò che non va si deve volgere il capo altrove. Questo è davvero un pezzo di ‘900 che muore. Se c’è stato un secolo convinto che tutto si risolvesse nel capire, questo è stato il ’900. Eppure anche in esso c’era il pensiero pragmatico, specialmente nei paesi di lingua inglese. Ma era un pensiero tra i pensieri, sommerso tra ermeneutica della comprensione continentale.

Dapprima c’è stato il crollo definitivo della cultura europea alla fine del ‘900, quando sono spariti gli ultimi dinosauri che ancor credevano che il francese fosse una lingua internazionale come l’inglese. Con essi è sparita l’ultima generazione di filosofi francesi, ovvero europei, di statura mondiale e da allora la cultura l’hanno fatta solo i paesi anglo-sassoni. Puntando non su Marx e Freud, idoli da studenti (specialmente il primo), ma su prodotti popolari e industriali di grande impatto, cinema in prima linea.

E infine l’ultima botta è stato proprio l’emergere del pensiero orientale. Il quale, a onta delle supposte differenze, ha rivelato una insospettata affinità con il pragmatismo anglo-sassone. Non è un mistero che il pensiero cinese sia del tutto allergico alle speculazioni sistematiche e metafisiche di stampo europeo. Confucio era un maestro di morale pratica, insomma un civilizzatore che insegnava le buone maniere al popolo. Ed è poi con il Buddha che si ha il matrimonio tra psicologia e pragmatismo anglo-sassone e orientale. Matrimonio forse d’amore che trasforma la psicoterapia rendendola una pratica meditativa in cui ci si addestra a governare la mente in maniera distaccata svalutando il momento della comprensione. È nato una sorta di paradigma anglo-indiano, o anglo tibetano, che ripudia definitivamente la passione europea per il speculazione intellettualistica a rischio di essere sempre fine a se stessa. Per questo la mindfulness, malgrado alcuni suoi limiti, rimane l’esempio culturale più vivo di questo cambiamento di stato. In psicoterapia questo movimento corrisponde all’emergere delle terapie di processo, terapie in cui oltre a capire cosa è accaduto ci si dedica molto ad esercitarsi, esercitarsi a cambiare attitudini e abitudini mentali.

Gli incontri tra seminatori e cercatori di tracce – Tracce del tradimento nr. 40

TRACCE DEL TRADIMENTOGli incontri tra seminatori e cercatori di tracce  (Nr. 40)

 

Cosa accade quando seminatori e cercatori professionisti si incontrano? Le combinazioni possibili secondo la nostra classificazione sarebbero 24 (6 x 4) ma ci limitiamo a segnalare le più “pericolose”.

I seminatori di tracce quando incontrano partner che non colludono con il loro gioco finiscono prima o poi per essere lasciati perché l’altro non accetta di vivere con il costante spettro del tradimento e quando si rende conto che non si tratta di un episodio ma di un modo costante di fare e si ritira in buon ordine. Anche i cercatori se all’inizio vengono accettati e il loro comportamento è letto come un interesse e una prova di affetto per il partner, a lungo andare diventano insopportabili e proprio quello che temono si verifica. Vengono lasciati proprio a causa dei comportamenti controllanti che hanno messo in atto per non essere lasciati: è il ben noto fenomeno delle profezie che si autoavverano.

Ma cosa accade quando seminatori e cercatori professionisti si incontrano?

Le combinazioni possibili secondo la nostra classificazione sarebbero 24 (6 x 4) ma ci limitiamo a segnalare le più “pericolose”.

Quando un seminatore codardo che cerca di chiudere il rapporto senza assumersene la responsabilità incontra un cercatore inquisitore che vuole colpevolizzare l’altro per poterlo lasciare, la partita è di breve durata. L’esito del rapporto è scontato perché, di fatto, entrambi vogliono porvi fine ed entrambi vogliono farlo senza assumersene la responsabilità. Tutto si conclude piuttosto rapidamente con uno strascico di accuse e colpe vicendevoli, ma il tono emotivo non è drammatico perché nessuno dei due ritiene di aver perso granché, si tratta solo di mettersi d’accordo se la colpa sia di chi tradiva (perché l’altro era asfissiante con i suoi controlli) o di chi controllava (perché l’altro non era fedele): insomma una questione da avvocati.

Diversa è la situazione quando in campo c’è un cercatore spaventato che ha un assoluto terrore di rimanere da solo: il livello delle emozioni è elevatissimo e drammatico. Egli è disposto a sopportare di tutto pur di non essere lasciato e finisce per trasformare qualsiasi categoria di seminatore in un terribile persecutore perché lo costringe ad inviare segnali sempre più forti in una continua escalation. Il codardo che non vuole fare del male all’altro ma che vuole comunque lasciarlo è costretto ad alzare continuamente il tiro e a dimostrarsi spietato. Se il cercatore spaventato incontra un narciso la coppia non durerà molto ma certo le sofferenze saranno elevate. La sicurezza di sé, la tendenza a muoversi nel mondo senza tenere conto delle emozioni del suo partner spaventato, infliggeranno grande dolore e quando il rapporto finirà sarà molto doloroso e preoccupante incominciare una nuova relazione per questo tipo di persone.

Il seminatore narciso viene rinforzato dalla disperazione che il cercatore spaventato mostra all’idea di perderlo, il bisogno che l’altro mostra di lui è ai suoi occhi una prova della sua grande importanza, del suo valore e gli da il permesso di tradire ancora di più tanto è sicuro che l’altro non lo lascerà mai. Più lo spaventato si aggrappa al narciso più quest’ultimo ha conferma della sua grandezza e acquista certezza del fatto che non sarà lasciato; di conseguenza tradirà ancora di più e l’altro si aggrapperà ancora di più. Il cercatore spaventato può diventare noioso alla fine per il partner e il presunto rivale perché non può neppure prendere in considerazione l’ipotesi della solitudine.

Tutt’altra faccenda è l’incontro tra un seminatore provocatore e un cercatore cacciatore: sono una coppia perfetta con l’unico difetto di aggravare con i loro litigi parenti e amici, almeno fino a quando non capiscono che il litigio è la forma del loro stare insieme e smettono di dare loro retta e di angosciarsi per le loro vicende. Entrambi vivono secondo la regola per cui ‘l’amore non è bello se non è tormentato’, uno semina e l’altro cerca ma possono scambiarsi le parti con grande soddisfazione. Nel loro gioco può essere previsto anche il ricorso ad uno psicoterapeuta ma si tratta solo di una mossa all’interno del gioco: non hanno nessuna intenzione di smettere di litigare ossessionarsi e tormentarsi e tanto meno di lasciarsi.

Il ricorso allo psicoterapeuta è soltanto un modo per segnalare la gravità della situazione, la drammaticità della loro sofferenza, ma in realtà se non hanno in mente nessuna modalità affettiva diversa e spesso una scarsa tendenza a trovarla. Sono rapporti solidi, duraturi e emotivamente caldi per tutta la loro durata; il prezzo lo pagano semmai le persone vicine e soprattutto i figli che vivono in una continua tensione.

Il cercatore inquisitore che cerca le colpe del partner per avere un buon motivo per tornare a stare da solo a volte lascia con un palmo di naso i seminatori che non avevano alcuna intenzione di porre fine al rapporto e invece si trovano improvvisamente lasciati. Il provocatore cercava solo di ravvivare il rapporto al quale si sentiva molto legato, in fondo scherzava, e non si dà pace della reazione del cercatore inquisitore che non accetta scuse, non tratta, condanna e punisce con l’abbandono.

Altrettanto imprevista appare la fine del rapporto al seminatore egocentrico che proprio non si rende conto di quali siano i capi d’accusa nei suoi confronti; ripete sempre il ritornello ‘ma cosa ho fatto di male? Di cosa l’ho privato?’ ma in fondo se la cava bene proprio grazie alla sua incapacità di mettersi nei panni dell’altro. Alla fine conclude che l’altro è strano, incomprensibile, in sostanza un po’ matto e prosegue per la sua strada.

Per il seminatore narciso invece è un brutto colpo: ‘come ha potuto farmi questo!‘ L’essere lasciato non è una possibilità contemplata nel suo sistema e dunque deve dedicarsi con molta foga a dimostrare agli altri l’inattendibilità della fonte da cui gli è giunta una tanto imprevista bocciatura. Gli altri non sono molto interessati ma per lui sono un pubblico sempre presente nello scenario mentale dal cui giudizio dipende la sua autoimmagine, di solito profondamente fragile. Queste persone di fronte all’abbandono possono diventare fortemente denigratorie, ostili e aggressive: il partner che ha lasciato è una minaccia per il proprio valore e l’abbandono viene visto come un atto di guerra estremamente distruttivo e malevolo.

Il seminatore egocentrico, come abbiamo già visto, non è mai molto colpito dai comportamenti altrui che gli appaiono sempre strani e inspiegabili. Non è molto messo in discussione dal cercatore inquisitore che lo lascia additandogli le sue colpe, né dal cercatore spaventato che si aggrappa disperatamente a lui. Si dice che sono strani e va oltre. Talvolta può entrare in una pericolosa escalation con il rifiutato arrabbiato che lo attacca perché entrambi si sentono ingiustamente offesi dall’altro e possono iniziare una guerra.

Il cercatore rifiutato arrabbiato è offeso dalle sue trascuratezze e disattenzioni e reagisce con rabbia e durezza, lui, che non vede ciò che lui fa all’altro, si sente ingiustamente attaccato e reagisce. E’ solo una questione di punteggiatura cronologica degli eventi: ognuno si sente vittima dell’aggressione altrui e le cose si possono decisamente complicare.

Il seminatore narciso crea un incastro perfetto con i cercatori rifiutati che ritengono di non valere niente: la definizione del rapporto che entrambi condividono è che il narciso è perfetto, ideale, stupendo ed estremamente buono a stare con il rifiutato che non vale e non si merita niente. Le due patologie si confermano e rinforzano reciprocamente.

 

RUBRICA TRACCE DEL TRADIMENTO

Il disturbo dello spettro autistico e la nuova prospettiva della cognizione motoria

Il disturbo dello Spettro Autistico viene definito come un disturbo del neurosviluppo caratterizzato da difficoltà nell’ambito socio-comunicativo e nel dominio motorio. Queste anomalie nel sistema motorio potrebbero avere un impatto anche nelle difficoltà di comprendere le azioni altrui.

Elena Villa e Luisa Bono – Open school Studi Cognitivi 

Sul disturbo dello spettro autistico: cenni storici e definizione

Il termine autismo fu impiegato per la prima volta da Bleuler (1916) nel 1908 nell’ambito della schizofrenia per indicare un comportamento rappresentato da chiusura, evitamento dell’altro ed isolamento dal mondo.

Successivamente Kanner (1943, 1973) nel 1943, adottò ufficialmente il termine ‘autismo precoce infantile‘ per indicare una specifica sindrome osservata in 11 bambini che manifestavano alcune caratteristiche peculiari. Kanner descrisse questi suoi pazienti come tendenti all’isolamento e poco reattivi in ambito relazionale. Alcuni di essi apparivano funzionalmente muti o con linguaggio ecolalico, altri mostravano una caratteristica inversione pronominale (il tu per riferirsi a loro stessi e l’io per riferirsi all’altro), facevano cioè uso dei pronomi così come li avevano sentiti. Molti di questi pazienti avevano una paura ossessiva che avvenisse qualche cambiamento nell’ambiente circostante, mentre altri presentavano specifiche abilità isolate incredibilmente sviluppate (per esempio la memoria per le date), accanto però ad un ritardo generale dello sviluppo. L’autore fece inoltre importanti riflessioni anche rispetto ai genitori dei bambini con autismo che a suo parere apparivano freddi e poco interessati alla relazione con le altre persone.

Quasi contemporaneamente, ma indipendentemente da lui, anche Asperger (1944, 1991) utilizzò un termine simile, psicopatia autistica, per descrivere il disturbo di pazienti sorprendentemente simili, nella sintomatologia, a quelli descritti da Kanner.

Per Asperger questi pazienti presentavano i seguenti sintomi:

  • Presenza di un eloquio scorrevole;
  • Difficoltà nell’esecuzione di movimenti grossolani;
  • Presenza di pensiero astratto

Fu così che si configurarono due quadri diagnostici differenti: l’autismo di Kanner e la Sindrome di Asperger, anche se le somiglianze tra le due posizioni erano talmente tante che più tardi, nel 1994, Happé si chiese se per caso la Sindrome di Asperger non fosse piuttosto un’etichetta per le persone autistiche con un quoziente intellettivo elevato.

Su questa linea, Bettelheim (1990) sostenne l’ipotesi secondo cui il bambino, percependo nella madre un desiderio reale o immaginario di annullamento nei suoi confronti, svilupperebbe il disturbo dello spettro autistico come meccanismo di difesa. Dopo gli anni ’60 questo modello psicodinamico fu però sempre più accusato di colpevolizzare ingiustamente i genitori dei bambini con autismo. Questi ultimi, infatti, non mostravano tratti patologici o di personalità significativamente diversi dai genitori di bambini non affetti da autismo. Fu B. Rimland, direttore dell’Autism Research Institute di San Diego, il primo a sostenere in modo sistematico che la causa dell’autismo non fossero i genitori, ma che il disturbo avesse basi biologiche.

La comprensione del disturbo dello spettro autistico cominciò così ad evolvere fino ad arrivare al 1980 quando comparve la prima definizione operativa nel DSM-III. Tale definizione fu poi rivista nel DSM IV (1994) e nell’ICD 10, dove l’autismo fu indicato come un disturbo generalizzato dello sviluppo ad insorgenza precoce, caratterizzato dalla compromissione nelle seguenti aree: interazione sociale, comunicazione e presenza di comportamenti ristretti e ripetitivi. L’ultima revisione del DSM, il DSM 5 (2013), elimina invece dalla definizione i sottotipi specificati nell’edizione precedente.

L’autismo (Autism Spectrum Disorder, ASD, APA 2013) è quindi considerato un disturbo del neurosviluppo caratterizzato da difficoltà nella comunicazione sociale e da interessi/attività ristretti e ripetitivi. Ad oggi viene utilizzato il termine di ‘Disturbo dello spettro autistico’ ed è caratterizzato dalla presenza dei sintomi sotto riportati.

  • Deficit persistenti della comunicazione sociale e dell’interazione sociale in molteplici contesti, come manifestato dai seguenti fattori, presenti attualmente o nel passato:
  1. Deficit della reciprocità socio-emotiva
  2. Deficit dei comportamenti comunicativi non verbali utilizzati per l’interazione sociale
  3. Deficit dello sviluppo, della gestione e della comprensione delle relazioni
  • Pattern di comportamento, interessi o attività ristretti, ripetitivi, come manifestato da almeno due dei seguenti fattori, presenti attualmente o nel passato:
  1. Movimenti, uso di oggetti o eloquio stereotipati o ripetitivi
  2. Aderenza alla routine priva di flessibilità o rituali di comportamento verbale o non verbale
  3. Interessi molto limitati, fissi che sono anomali per intensità o profondità
  4. Iper o iporeattività in risposta a stimoli sensoriali o interessi insoliti verso aspetti sensoriali dell’ambiente
  • I sintomi devono essere presenti nel periodo precoce dello sviluppo
  • I sintomi causano compromissione clinicamente significativa del funzionamento in ambito sociale, lavorativo o in altre aree importanti
  • Queste alterazioni non sono meglio spiegate da disabilità intellettiva o da ritardo globale dello sviluppo. La disabilità intellettiva e il disturbo dello spettro dell’autismo spesso sono presenti in concomitanza.
    (DSM 5, 2013)

Molti individui con disturbo dello spettro autistico presentano anche compromissione intellettiva e/o del linguaggio. Il divario tra abilità funzionali intellettive e adattive è spesso ampio. Sono frequenti deficit motori, compresi andatura stravagante, goffaggine e altri segni motori anomali. Nei bambini e negli adolescenti possono inoltre manifestarsi comportamenti di autolesionismo e comportamenti dirompenti/sfidanti. Il disturbo dello spettro autistico viene diagnosticato quattro volte di più nei maschi rispetto alle femmine. Nella pratica clinica le femmine tendono ad avere una maggiore probabilità di mostrare associazione a disabilità intellettiva, suggerendo che il disturbo nelle femmine senza compromissioni intellettive concomitanti con o senza ritardi del linguaggio può non essere riconosciuto, forse a causa della più tenue manifestazione delle difficoltà sociali e di comunicazione (DSM 5, 2013).

Disturbo dello spettro autistico: le teorie neurobiologiche

Numerosi sono gli studi che cercano di trovare una causa definitiva a questa patologia, ma ad oggi, sotto l’etichetta ‘autismo‘ vengono raggruppati disturbi con caratteristiche che si differenziano non solo dal punto di vista clinico, ma anche eziologico. Gli studi attualmente in corso riescono a spiegare solo una percentuale estremamente ridotta dei sintomi di tale patologia. Vediamo in seguito alcuni di questi studi.

M. Rutter et al. (1999) hanno condotto studi di genetica classica (concordanza nei gemelli e studio degli alberi genealogici) che hanno fornito sufficienti prove sulla presenza di basi genetiche del disturbo dello spettro autistico, anche se la complessità del quadro clinico suggerisce che i loci genici coinvolti siano numerosi e che tale vulnerabilità genetica interagisca con i fattori ambientali. La complessità clinica del disturbo dello spettro autistico fa ipotizzare, infatti, che una via patogenetica comune possa scaturire dalla combinazione di fattori genetici e ambientali diversi.

Alcune indagini di biologia molecolare (Koch C. et al., 1995) hanno poi identificato un legame fra disturbo dello spettro autistico e anomalie di geni legati al controllo del trasporto di serotonina. Eventuali disfunzioni dei sistemi neurotrasmettitoriali e della neuromodulazione sono state ipotizzate sulla base di dati empirici derivanti da esperienze neurofarmacologiche e sono state chiamate in causa diverse sostanze coinvolte nella modulazione delle funzioni corticali prefrontali, limbiche e striatali (Simon, 1985). Gli studi condotti nel campo della neurochimica lasciano tuttavia ancora numerose perplessità sul ruolo di una possibile disfunzione dei sistemi neurotrasmettitoriali: non appare infatti chiaro se le alterazioni rappresentino un fattore causale o un semplice epifenomeno (Lai, et al., 2014).

Il disturbo dello spettro autistico risulta essere quindi una patologia molto studiata che presenta però alcuni aspetti che devono essere ancora compresi. A questo proposito, di seguito verranno presentati una serie di studi svolti negli ultimi anni, i quali hanno indagato le aree maggiormente compromesse di questa patologia, per poi arrivare a riassumere, nell’ultimo paragrafo, le scoperte più recenti e innovative.

Presenza pervasiva di deficit motori

Teitelbaum et al. (1988) hanno analizzato video di infanti che poi sono risultati essere bambini con disturbo dello spettro autistico e hanno rilevato che questi bambini, di età dai 4 ai 6 mesi, presentavano disturbi nel movimento già a questa età. In questo studio è stato rilevato che i bambini con autismo presentano delle anormalità nel tono muscolare e nei riflessi, goffaggine, iperattività e movimenti stereotipati; inoltre, alcuni bambini possono presentare instabilità posturale, un cammino con passi molto corti o sulla punta dei piedi e una coordinazione del movimento degli arti molto scarsa. Questi pazienti presentano spesso un ritardo nell’iniziare, cambiare o arrestare una sequenza motoria e presentano volti inespressivi con piccoli movimenti spontanei, tutti sintomi caratteristici dei disturbi motori extrapiramidali. I bambini con disturbo dello spettro autistico mostrano, inoltre, disturbi di coordinazione che possono essere associati a disfunzioni cerebellari (Herbert MR, Ziegler DA, Makris N, et al., 2004).

Inoltre, analogamente agli studi condotti sulle scimmie, alcuni esperimenti rivelano che i bambini con disturbo dello spettro autistico falliscono nell’anticipare le conseguenze motorie dell’obiettivo finale dell’azione, sia quando l’azione è eseguita, sia quando è osservata. È stato quindi proposta l’idea che per i bambini con autismo, l’azione osservata o che deve essere eseguita non è rappresentata come intera nella funzione dell’intenzione motoria complessiva. Quindi, la difficoltà nel concatenamento degli atti motori in azioni globali può ulteriormente spiegare le difficoltà riportate nella pianificazione dell’azione (Hughes C. Brief, 1996).

Boria, Fabbri-Destro M, Cattaneo L, et al. (2009) in un loro studio hanno infine dimostrato che i bambini con disturbo dello spettro autistico hanno importanti difficoltà nel comprendere le intenzioni altrui quando devono fare affidamento solo su indizi motori.

Lo sviluppo cerebrale atipico

In molti bambini con disturbo dello spettro autistico è stato osservato un incremento della materia bianca, che sembra essere all’origine delle anomalie nelle dimensioni del loro cervello. Secondo la teoria della malformazione neurale, la precoce crescita del cervello nell’autismo è caratterizzato da una patologia di due fasi di crescita del cervello: una precoce crescita eccessiva del cervello all’inizio della vita e un rallentamento o arresto della crescita durante la prima infanzia. In alcuni individui, durante la preadolescenza, può essere presente una terza fase detta degenerazione che risulta essere presente in alcune regioni del cervello.

Questi dati sono stati confermati dagli studi di Hadjikhani et al. (2006) che considerano lo spessore celebrale della corteccia parietale superiore, temporale e frontale, particolarmente ridotto negli adolescenti con autismo. È interessante il fatto che queste regioni comprendano aree coinvolte nella cognizione sociale, nell’espressione del viso, nel riconoscimento facciale e le aree inerenti il meccanismo dei neuroni specchio.

Il danneggiamento sociale e le implicazioni nel meccanismo a specchio nel disturbo dello spettro autistico

Lo sguardo

I bambini con disturbo dello spettro autistico hanno difficoltà a selezionare i volti rispetto ad altri stimoli e hanno una minore capacità di farsi coinvolgere da essi a differenza di un bambino neurotipico. I soggetti autistici, generalmente, preferiscono una strategia di codifica frammentaria del volto rispetto a un processamento olistico e uno specifico evitamento della zona degli occhi, soprattutto rispetto alla direzione dello sguardo.

Zwaigenbaum e colleghi (2005) hanno dimostrato che entro i 12 mesi di età, i bambini che sono poi diagnosticati autistici, mostrano già un contatto visivo atipico e deviano l’attenzione dagli sguardi. Inoltre, mentre se per i bambini normotipici il fatto di afferrare un oggetto è influenzato automaticamente dallo sguardo degli altri, questo non accade per i bambini con disturbo dello spettro autistico (Becchio, 2007). Questi risultati confermano che un processamento visivo atipico e la codifica di stimoli sociali sono elementi caratterizzanti il disturbo dello spettro autistico e questi suggeriscono l’esistenza di anomalie a livello neurofisiologico.

Espressione e riconoscimento delle emozioni

La difficoltà nel riconoscere le espressioni facciali delle emozioni, presenti nelle persone con disturbo dello spettro autistico, è probabilmente collegata ad un processamento atipico dei volti, così come riportato in diversi studi. L’ipotesi è che ci sia un collegamento tra il processamento socio-emozionale nell’autismo e un collegamento neurale disfunzionale. Queste ipotesi sono supportate da diversi studi di imaging i quali hanno riportato un’attivazione atipica del giro fusiforme e una bassa attività dell’amigdala nelle persone con autismo coinvolte in compiti di valutazione sociale.

Le persone con disturbo dello spettro autistico comunemente trovano difficile esprimere, capire, regolare e condividere emozioni. Uno sguardo anormale, l’espressione delle emozioni e la consapevolezza emotiva in pazienti affetti da autismo potrebbero essere collegati ad alterazioni nella connettività funzionale delle cortecce insulari. La corteccia insulare è considerata come principale nodo di un meccanismo neurale che integra l’attivazione del corpo, le informazioni del sistema sensoriale e limbico, la memoria e le regioni motorie (Craig, 2002). Inoltre, una connessione funzionale compromessa tra l’insula e la corteccia somatosensoriale potrebbe alterare consapevolezza interocettiva e quindi le sensazioni soggettive. L’alterata capacità di comprendere e sentire le emozioni di altri individui potrebbe essere attribuito quindi alla compromissione di un meccanismo condiviso della consapevolezza emotiva.

Le abilità di comunicazione

Le problematiche nel dominio del linguaggio e della comunicazione fanno parte dei deficit di base osservati negli individui con disturbo dello spettro autistico. Bishop sottolinea che i bambini con autismo hanno disabilità comunicative non presenti in altri disturbi evolutivi del linguaggio. Gallese, Rochat e Berchio (2013) suggeriscono che, negli individui con ASD, un disfunzione nello stesso circuito coinvolto nella comprensione delle azioni potrebbe determinare simultaneamente un impoverimento nell’uso appropriato del linguaggio/comunicazione intenzionale.

L’imitazione

Nei soggetti con disturbo dello spettro autistico è particolarmente compromessa la capacità di imitare elementi simbolici come pantomime, gesti senza particolare significato o azioni non convenzionali con un oggetto comune. L’imitazione implica la capacità di tradurre il piano d’azione di colui che viene osservato, nella propria prospettiva personale.

Le prove a favore di un alterato processo di simulazione nell’autismo è stata contestata da diversi esperimenti che mostrano un meccanismo a specchio relativamente risparmiato quando l’azione osservata viene eseguito da un agente familiare e quando l’azione è diretta a un obiettivo, non accade invece quando si tratta di un obiettivo senza scopo e durante le attività di attivazione di mimetismo involontario. Gallese, Rochat e Berchio (2012) sostengono infatti l’ipotesi della coesistenza nei pazienti con disturbo dello spettro autistico di una rappresentazione motoria alterata dei movimenti intransitivi insieme ad una rappresentazione intatta delle azioni dirette a uno scopo.

Diversi studi hanno infatti dimostrato una ridotta attivazione del sistema motorio corticale in individui con disturbi dello spettro autistico durante l’osservazione di movimenti senza uno scopo preciso.

Il meccanismo dei neuroni a specchio permette quindi la diretta traduzione tra un atto percepito (visto, sentito e ascoltato) nella stessa rappresentazione motoria del suo relativo scopo. Questo meccanismo permette di comprendere direttamente le intenzioni altrui e i loro obiettivi, permettendo un collegamento tra gli individui. Essendo il meccanismo a specchio espressione funzionale del sistema motorio, questi studi suggeriscono l’importanza del sistema motorio alla cognizione sociale. È stato infatti ipotizzato che una compromessa comprensione delle intenzioni altrui, delle loro sensazioni ed emozioni riportate nel disturbo dello spettro autistico potrebbe essere quindi collegato a un alterazione del sistema a specchio in tutti questi domini.

In conclusione di questa parte, si sottolinea che oggi il disturbo dello Spettro Autistico viene definito come un disturbo del neurosviluppo caratterizzato da difficoltà nell’ambito socio-comunicativo e nel dominio motorio.

Tradizionalmente la letteratura scientifica ha indagato questi due aspetti separatamente, focalizzandosi da un lato sui supposti deficit della Teoria della mente e dall’altro sulle difficoltà nella coordinazione motoria. Recentemente, la scoperta di un meccanismo di ‘risonanza motoria’ mediato almeno parzialmente dal circuito parieto-frontale del meccanismo ‘mirror’ ha offerto nuove prospettive: infatti, anomalie nel sistema motorio potrebbero avere un impatto anche nelle difficoltà di ‘comprensione motoria dell’azione’ e quindi, a cascata, sulla capacità di comprendere le azioni altrui. Analizziamo meglio nel seguente paragrafo.

Nuove prospettive sul disturbo dello spettro autistico

I neuroni specchio (mirror neurons) sono stati scoperti inizialmente nella corteccia premotoria del macaco (area F5) da un gruppo di ricercatori italiani guidato dal prof. Giacomo Rizzolatti (Rizzolatti et al., 2010). Ulteriori ricerche hanno indicato come tali neuroni fossero presenti anche in network più estesi, facenti parte di un circuito parieto-frontale. Attraverso la tecnica del single neuron recording è stato dimostrato che questi neuroni si attivano non solamente quando il macaco esegue un’azione (es. afferrare una nocciolina), ma anche quando il macaco vede un altro macaco (o uno sperimentatore) compiere la stessa azione. Tali neuroni sono stati definiti mirror perché esiste una risonanza motoria tra l’azione eseguita in prima persona e quella osservata. Un dato molto importante dal punto di vista epistemologico è il seguente: tali neuroni specchio si attivano per una determinata azione eseguita/osservata (es. afferrare una caramella) indipendentemente dal fatto che tale azione sia eseguita con una presa di precisione (precision grip), una presa a mano aperta (whole hand grasping), la mano/zampa destra o la mano/zampa sinistra (Rochat et al., 2010). Questo risultato mostra come i neuroni specchio non si attivino in base alla cinematica dell’azione in senso stretto (cioè secondo specifici parametri di velocità, accelerazione o spazio), ma si attivino in concordanza con il significato dell’azione (es. afferrare una caramella).

Un ulteriore studio di Umiltà et al. (2008) ha portato ad aggiungere una evidenza a sostegno di questa ipotesi. Gli sperimentatori, dopo una lunga e complessa fase di training, chiesero al macaco di afferrare una nocciolina con due tipi diversi di pinze: la prima, detta pinza diretta, richiedeva che per afferrare l’oggetto avvenisse un movimento di pressione (chiudi per afferrare); la seconda, detta pinza inversa, richiedeva un movimento opposto (apri per afferrare). Attraverso la registrazione dell’attività dei neuroni mirror nell’area F5, gli sperimentatori hanno osservato che i neuroni si attivavano in corrispondenza della prensione dell’oggetto indipendentemente dal tipo di pinza utilizzata.

Questi dati, considerati insieme, indicano che i neuroni specchio si attivano indipendentemente dagli aspetti cinematici in senso stretto, ma scaricano in corrispondenza del significato dell’azione (afferrare). Questa dato è sorprendente se pensiamo alla lunga tradizione in campo neuroscientifico e neurofisiologico che ha sempre ipotizzato per il sistema motorio un ruolo di mero esecutore dell’azione. Questi dati ci indicano che il sistema motorio, almeno nel macaco, è molto più intelligente e teleologico di quanto pensassimo (cioè, per l’appunto, si attiva in base al fine dell’azione, in base al suo significato).

Partendo da queste evidenze sperimentali sul macaco, ottenute con la tecnica della registrazione del single neuron, si è poi dimostrata – attraverso l’uso di tecniche di neuroimaging, elettrofisiologiche e comportamentali –l’esistenza di un circuito con funzionalità del tutto simili anche nell’uomo (Rizzolatti e Sinigaglia, 2010). Tali studi hanno dimostrato come il circuito mirror, in particolare il circuito parieto-frontale del meccanismo mirror, possa giocare un ruolo cruciale nella comprensione dell’azione e del comportamento altrui. In questo senso, i neuroni specchio hanno assunto un ruolo importante nello studio della cognizione sociale.

Ma come questo network con proprietà mirror può aiutarci nel comprendere l’azione? Perché esso può aiutare a spiegare, almeno parzialmente, alcune difficoltà in ambito sociale nel disturbo dello spettro autistico? Per chiarire questi ed altri punti, è necessario fare un passo indietro.

Esistono diversi modi per comprendere il comportamento, le intenzioni e le azioni altrui. Noi possiamo fare complessi ragionamenti inferenziali, associazioni, deduzioni come ad esempio succede ogni qual volta cerchiamo di metterci nei panni degli altri. Una lunga e celebre tradizione nell’ambito della psicologia ha definito tali abilità come mindreading, o teoria della mente. Diversi studi hanno cercato di mappare un ipotetico network neurale per la teoria della mente, ottenendo però risultati contrastanti. La ragione di tali risultati è fondamentalmente legata alle difficoltà che si incontrano nel momento in cui si cerca di definire in maniera operazionale la nozione di teoria della mente. Tale risultato è tanto più problematico nel momento in cui la cosiddetta teoria della mente è considerata da molti, anche se le critiche non mancano, uno degli elementi centrali per spiegare le difficoltà sociali nei pazienti con disturbo dello spettro autistico.

La scoperta dei neuroni specchio apre una nuova ed interessante prospettiva, ovvero quella della cognizione motoria, che può essere spiegata molto semplicemente con un esempio. Quando ci troviamo ad un tavolo con molti commensali, noi non facciamo dei complessi ragionamenti logico-deduttivi per capire che l’amico di fronte a noi sta prendendo il bicchiere per bere. È vero che noi potremmo ipotizzare che, essendo stata piuttosto salata l’ultima portata ed essendo particolarmente buono il vino a nostra disposizione, il nostro amico abbia deciso di gustarsi un buon bicchiere di vino. Noi abbiamo sempre la possibilità di fare questi complessi ragionamenti ma, in maniera economicamente più conveniente, il nostro cervello (in particolare il sistema motorio) ci offre una via più parsimoniosa. Infatti, se io vedo l’amico afferrare il bicchiere lateralmente, io penserò subito che egli lo sta afferrando per prepararsi a bere. Se invece osservo qualcuno afferrare un bicchiere dall’alto, io subito capirò che questa persona sta per spostare il bicchiere (ma non per bere).

La possibilità di comprendere il significato dell’azione da semplici indicatori (cues) motori, ad esempio il tipo di prensione, è mediata dal meccanismo mirror. Offrendo infatti un’attivazione identica sia quando eseguiamo in prima persona sia quando osserviamo qualcun altro eseguire la stessa azione, tale meccanismo ci permette di capire quello che il nostro amico vuole fare in maniera diretta, motoria e pre-cognitiva. Il tipo di comprensione motoria dell’azione mediata dal meccanismo mirror è quindi un tipo di comprensione molto basilare (non ci aiuterà a scegliere il vestito per il nostro matrimonio o l’università), ma molto importante perché, in qualche modo, risolve in maniera quasi automatica molti dilemmi sociali (es. il nostro amico sta per bere o vuole passarmi il bicchiere?).

Recenti studi hanno dimostrato che nei bambini con diagnosi di disturbo dello spettro autistico i meccanismi neurali che sottendono la comprensione motoria dell’azione sono in qualche modo compromessi, come se loro avessero difficoltà nel fare affidamento a tale via motoria (e preferissero altre vie, magari più lunghe e complesse, come quelle legate ai processi inferenziali). In particolare, uno studio di Cattaneo et al. (2007) ha mostrato, attraverso una registrazione EMG (elettromiografia) che i pazienti con autismo non hanno attivazione del muscolo miloioideo (un muscolo necessario per la masticazione) quando veniva chiesto loro di osservare uno sperimentatore prendere una caramella per mangiarla, mentre i soggetti del gruppo di controllo (sviluppo tipico) mostravano una chiara attivazione del muscolo.

Tale risultato è stato intepretato come un’evidenza del malfunzionamento del sistema mirror nei pazienti con disturbo dello spettro autistico (Fogassi et al. 2005). Inoltre, insieme ad altre evidenze raccolte negli ultimi anni (Fabbri-Destro et al., 2009; Boria et al., 2009; Rochat et al. 2013,), tali dati sembrano indicare che nei pazienti con diagnosi di disturbo dello spettro autistico sussista una specifica difficoltà nell’ambito della cognizione motoria.

In questo senso, avere delle difficoltà nella comprensione motoria dell’azione avrebbe poi degli effetti a cascata sulla capacità di comprendere le interazioni sociali (come se i soggetti con autismo fossero portati a seguire vie complesse, e non riuscissero a beneficiare delle cosiddette vie dirette).

Ovviamente, ulteriori studi sono necessari per supportare tale ipotesi che al momento rimangono confinate prevalentemente in contesti di ricerca (e non clinici). Se tali dati venissero confermati da ulteriori studi, e se effettivamente i risultati sorprendenti ottenuti sui modelli animali venissero replicati (ovviamente con altre tecniche) anche nell’uomo, allora potremmo davvero ipotizzare un’applicazione clinica (in ambito diagnostico/riabilitativo) di questi risultati. Sebbene i progressi degli ultimi dieci anni siano stati, nell’ambito delle neuroscienze cognitive, incredibili, è bene essere prudenti e cauti, pur continuando a confidare nell’efficacia di tali strumenti d’indagine.

Come l’etnia del paziente cambia il comportamento del medico

Quando un medico si relaziona con un malato terminale può adottare comportamenti diversi a seconda dell’etnia del paziente. Questo è ciò che sembra emergere da un recente studio americano appena pubblicato su The Journal of Pain and Symptom Management, per opera del professor Barnato e colleghi della Pitt’s School of Medicine.

La necessità di questa ricerca, che per la prima volta osserva scientificamente le interazioni tra medici e pazienti a fine vita, è sorta proprio con l’intento di spiegare perché i malati terminali afroamericani scelgono di adottare – più spesso degli americani caucasici – cure straordinarie e invasive e perchè riportano spesso un peggior rapporto con il proprio medico.

Gli autori hanno selezionato un campione di 33 specializzandi in terapia intensiva e li hanno sottoposti ad una simulazione con attori che interpretavano la parte dei malati e dei familiari. Gli attori, afroamericani e caucasici, riportavano condizioni mediche simili (bassi parametri vitali a causa di tumori a stomaco o pancreas) e recitavano tutti un copione simile. I medici erano chiaramente a conoscenza del fatto che si trattasse di un esperimento, ma non erano minimamente consapevoli di cosa l’esperimento volesse misurare. Tutte le interazioni sono state registrate attraverso videocamere e microfoni ed è stata valutata la comunicazione verbale e non-verbale del medico sia nella qualità che nella quantità.

I risultati hanno confermato le ipotesi. Se la comunicazione verbale non ha subito alcun cambiamento significativo a seconda dell’etnia del paziente, le analisi quantitative della comunicazione non verbale hanno riportato un’interazione inferiore del 7% quando il paziente era afroamericano. Infatti, sebbene il dialogo tra medico e paziente fosse sempre il medesimo, sappiamo bene che la comunicazione non è fatta solo di parole, ma anche di contatto visivo, posizione del corpo, gestualità e contatto fisico.

[blockquote style=”1″]Una comunicazione non verbale piuttosto povera – di cui probabilmente il medico non è nemmeno consapevole – potrebbe dunque spiegare in maniera efficace perchè i pazienti afroamericani riportano una discriminazione nei loro confronti da parte dei medici[/blockquote] suggerisce il professor Barnato.

Dando un’occhiata anche alle analisi qualitative, inoltre, ci si rende subito conto del fatto che – come nella maggior parte dei casi – il come conta più del quanto: di fronte ad un paziente caucasico, infatti, i medici erano più portati a porsi accanto al suo letto e spesso ad offrire un contatto fisico di natura empatica; di fronte ad un paziente afroamericano, tuttavia, i medici si posizionavano più spesso vicino alla porta, cercando meno attivamente il contatto visivo e guardando, perlopiù, la cartella clinica del paziente.

Ora, è chiaro che un atteggiamento come quello appena descritto può portare il paziente a percepire il proprio medico come meno coinvolto e solidale nei confronti della propria condizione. Tale impressione iniziale può produrre quindi una serie di incomprensioni e distorsioni a cascata che inducono il paziente ad esitare nel richiedere cure straordinarie e invasive, proprio poiché questi dubita che il proprio medico (che gli ha consigliato cure più leggere) abbia davvero a cuore la sua vita. Analizzando la letteratura presente, emerge effettivamente da parte della popolazione afroamericana una leggera tendenza di natura culturale a richiedere cure terminali più aggressive ed invasive rispetto alla controparte caucasica. Vale la pena notare, però, che tale tendenza viene statisticamente raddoppiata quando il paziente afroamericano deve prendere questa decisione in ospedale!

In conclusione, sembra che il linguaggio non verbale del medico abbia un ruolo determinante nello sviluppo della fiducia (o della sfiducia) del paziente nei suoi confronti e dunque nelle scelte che questi compirà a proposito della sua vita. Lungi dal risuonare come una predica moralista, questo articolo ha il solo scopo di invitare il medico, da un lato, a porre maggior attenzione e consapevolezza anche al linguaggio non prettamente verbale e, dall’altro, a sincerarsi di trattare tutti i pazienti nella medesima maniera, così come richiesto innanzitutto dall’etica professionale. Dentro la propria mente ciascuno di noi è libero di pensare e discriminare chi vuole, al di fuori della propria mente decisamente no.

Efficacia della terapia metacognitiva nel trattamento dell’ansia e della depressione

La terapia metacognitiva

La terapia metacognitiva (o in inglese Metacognitive therapy – MCT) nasce alla fine del ventesimo secolo come un approccio innovativo nell’abito della psicopatologia e psicoterapia (Wells, 1995). Secondo Wells (2009) la metacognizione può essere semplicemente definita come “cognizione riguardo la cognizione” – in altre parole pensieri, credenze, valutazioni cognitive che abbiamo riguardo i nostri processi mentali. La metacognizione è un aspetto del funzionamento mentale che controlla i processi attentivi e di pensiero.
Il modello proposto dalla terapia metacognitiva si configura come transdiagnostico e sostiene che il mantenimento della psicopatologia e’ legato a uno stile di pensiero perseverativo – definto come sindrome attentiva cognitiva (in inglese cognitive attentional syndrome -CAS).

 

Che cosa e’ la sindrome attentiva cognitiva – CAS

La CAS consiste in un insieme di diverse forme di pensiero ripetitivo e perseverante, tra cui il rimuginio, la ruminazione, l’attenzione selettiva su stimoli minacciosi e strategie di coping disfunzionali, nonche’ da comportamenti autoregolatori maladattivi (ad esempio evitamento e soppressione dei pensieri). Secondo il modello della terapia MCT la CAS e’ causata e mantenuta dalle metacognizioni dell’individuo, e cioe’ credenze riguardo il controllo, la regolazione e il processamento dei pensieri e delle emozioni. Ad esempio, una credenza metacognitiva disfunzionale puo’ essere: “i miei pensieri sono incontrollabili”. Nel corso di una terapia metacognitiva la CAS viene identificata all’interno di una concettualizzazione del caso clinico e trattata attraverso l’identificazione e la modificazione delle credenze metacognitive disfunzionali. Tra le tecniche terapeutiche utilizzate a questo scopo ritroviamo i training attentivi, la detached mindfulness, e altre tecniche comportamentali.

 

Il rapporto tra terapia metacognitiva e altre terapie cognitive

Quale e’ il rapporto tra terapia metacognitiva e CBT standard? Rispetto alle forme di psicoterapia cognitivo-comportamentale standard, la terapia metacognitiva si focalizza sui processi di pensiero piuttosto che sui contenuti del pensiero. Secondo la terapia metacognitiva i pensieri negativi sarebbero normali nella misura in cui si presentano in modo transitorio, ma se non adeguatamente regolati possono innescare facilmente rimuginio e ruminazione. E’ dunque il modo con cui un individuo si relaziona ai propri pensieri che sarebbe discriminante in termini psicopatologici . Pur riconoscendo le proprie radici nell’approccio cognitivo, la terapia metacognitiva si considera una terapia distinta che utilizza una specifica formulazione del caso e un insieme di tecniche particolari. La TMC mostra somiglianze con le cosiddette terapie di terza ondata poiche’ si focalizza sul modo in cui la persona gestisce, osserva ed elabora i propri pensieri, ma rispetto a queste offre una particolare concettualizzazione della psicopatologia e del suo mantenimento, focalizzandosi appunto sulle metacognizioni.

 

Una meta-analisi dell’efficacia della terapia metacognitiva nel trattamento dell’ ansia e della depressione

Recentemente una interessante metanalisi di Normann e colleghi (2014) si e’ addentrata nella questione dell’ efficacia della terapia metacognitiva. In particolare l’analisi si e’ focalizzata su ansia e depressione, disturbi e sintomatologie ampiamente diffusi nella popolazione. Per ciascuno studio riscontrato in letteratura e’ stato considerato l’effetto della terapia metacognitiva sulla variabile di outcome principale e l’effetto sui sintomi di ansia e depressione. Inotre sono stati analizzati i cambiamenti nelle metacognizioni che sarebbero alla base del mantenimento dei disturbi psicopoatologici e che sembrerebbero avere una funzione di mediatori nell’ efficacia della terapia metacognitiva.

L’analisi della letteratura e’ esitata in 16 studi pubblicati sull’efficacia della terapia metacognitiva (e anche una serie di studi non ancora pubblicati al momento della review) e di questi 9 si possono definire trial controllati, per un totale di 384 soggetti trattati attraverso percorsi di terapia metacognitiva (individuale o di gruppo).

Per ciascuno studio e’ stata estratta una variabile di outcome principale (ad esempio i punteggi al Penn State Worry Questionnaire, o allo State-Trait-Anxiety Inventory- T ); in secondo luogo sono stati estratti i punteggi a test generalmente utilizzati per l’assessment della sintomatologia ansioso e depressiva, quali il Beck Anxiety Inventory e il Beck Depression Inventory. Infine dalla maggior parte degli studi e’ stato possibile considerare un’ulteriore variabile relativa alle credenze metacognitive attraverso i punteggi del Metacognition Questionnaire. Le analisi statistiche sono state effettuate aggregando la media della dimensione dell’effetto (effect size) all’interno di ogni singola condizione di trattamento (considerando i cambiamenti pre-post test nelle diverse variabili di outcome, nelle misure di ansia e depressione e nelle variabili metacognitive). Inoltre sono state analizzate le ampiezze dell’effetto tra gruppi – considerando i cambiamenti pre-post test nel confronto delle condizioni MCT (soggetti sottoposti a terapia metacognitiva), controllo (soggetti in lista d’attesa non sottoposti ad alcuna terapia) e CBT (soggetti sottoposti a terapia cognitiva standard).

Dalle analisi e’ emerso che la media aggregata della dimensione dell’effetto della terapia metacognitiva within group e’ elevata (ottentuta dai 16 studi pubblicati e considerati in questa metaanalisi) considerando i cambiamenti pre-post assessment nelle variabili di outcome e nelle misure dei sintomi ansioso-depressivi (non confrontati pero’ con altre condizioni di trattamento), a sostegno dell’ipotesi dell’efficacia della terapia metacognitiva, con un mantenimento degli effetti terapeutici anche nel follow up. Similmente, si e’ riscontrato un ampio effect size nel cambiamento nelle metacognizioni, tale per cui come ci si poteva attendere la terapia metacognitiva agisce proprio modificando le credenze metacognitive maladattive.

Riguardo il confronto tra condizioni di trattamento, le differenze maggiori in termini di ampiezza dell’effetto si riscontrano tra terapia metacognitiva e la condizione di assenza di trattamento, in cui si rileva un maggiore effetto aggregato della prima rispetto alla seconda condizione. Nel confronto tra terapia metacognitiva e terapia cognitiva standard, sembra esserci comunque un’ampiezza maggiore dell’effetto nella condizione della terapia metacognitiva rispetto alla condizione CBT (in misura piu’ contenuta rispetto al confronto terapia metacognitiva – assenza di trattamento), anche se gli studi che hanno paragonato le due tipologie di trattamento (e considerati in questa meta-analisi) sono ancora piuttosto esigui.

Dunque i risultati della meta-analisi dimostrano che la terapia metacognitiva e’ una terapia efficace nel trattamento dell’ansia e della depressione, e anche con una dimensione piu’ ampia dell’effetto rispetto ad altre terapie CBT standard. E’ importante pero’ essere cauti nel leggere e generalizzare questi primi risultati viste alcune debolezze degli studi inclusi in questa analisi, tra cui una limitata numerosita’ del campione e condizioni di controllo non sempre ideali (ad esempio, vi sono pochi studi in cui si analizza e si confronta la terapia metacognitiva con altre tipologie di terapie evidence-based). Ad ogni modo, a seguito dell’analisi aggregata di questi 16 studi presenti in letteratura, la terapia metacognitiva e’ definibile come una terapia dimostrata efficace nel trattamento dell’ ansia e della depressione, sia in termini di patologie principali riscontrabili nell’individuo che in qualita’ di sintomatologia presente in comorbilita’ con altre diagnosi principali.

 

Congresso di Terapia Metacognitiva Milano 2016

Il lato oscuro dell’amore: lo stalking – Intervista a Leonardo Abazia

Il lato oscuro dell’amore. Lo stalking: comprendere e riconoscere il fenomeno attraverso il racconto di storie vere”. Con questo testo Leonardo Abazia, psicologo psicoterapeuta e direttore dell’Istituto Campano di Psicologia Giuridica di Napoli, approfondisce, per la casa editrice Franco Angeli, la tematica complessa e difficile dello stalking, andando al di là della conoscenza mediatica del fenomeno, dando voce alle storie delle vittime e degli operatori, che si sono interfacciati con questo grave problema.

Il testo, prima lascia spazio al racconto di una storia d’amore, finita tragicamente in ossessione e omicidio, poi a un approfondimento scientifico e storico sulla tematica, e infine raccoglie le storie di chi questa esperienza l’ha vissuta in prima persona, portando per mano il lettore nel lato oscuro dell’amore.

Abbiamo incontrato l’autore del testo per meglio farci spiegare i contenuti di questo nuovo testo.

Da dove nasce l’idea di questo testo?

Potrei dire da molto lontano. Nel 2009, subito dopo un convegno organizzato dal mio Istituto e dall’ordine degli psicologi della Campania, all’indomani dell’approvazione del decreto Maroni sullo stalking. È un libro che ha visto diverse gestazioni e rielaborazioni in quanto nasceva come testo scientifico e solo successivamente, all’inizio di quest’anno, ho voluto trasformarlo in un libro di divulgazione che potesse essere fruibile anche dai non addetti ai lavori per sensibilizzare l’opinione della gente comune al tema della sopraffazione e della violenza psicologica.

Perché, a suo avviso, il fenomeno dello stalking è tanto diffuso?

Il fenomeno della sopraffazione del più forte sul più debole è un fenomeno che si perde nella notte dei tempi, ne sono fedele testimonianza sia i miti del passato che la storia, remota e attuale. Ciò che rende lo stalking un fenomeno percepito come in diffusione esponenziale è la sensibilità al diritto del più debole, che storicamente è stato identificato con le donne e i bambini, ad essere riconosciuto come tale e tutelato. Ma anche altri fattori contribuiscono alla percezione e al sostanziamento del fenomeno. L’accessibilità all’altro attraverso i media senza limiti spaziali e temporali contribuisce a creare una falsa intimità con l’altro e contestualmente alla possibilità di un maggiore controllo della potenziale vittima. Inoltre, non è da sottovalutare l’incapacità dell’uomo dei nostri tempi di tollerare la frustrazione dell’abbandono ma, soprattutto, la possibilità che sia l’altro, il debole, ad interrompere la relazione.

Che tipo di relazione si instaura tra vittima e persecutore?

La relazione è da immaginarsi come un puzzle in cui si incastrano aspetti personali di entrambi gli attori nella dinamica di coppia. Quest’ultima si configura come un campo di incontro-scontro dei desideri, dei bisogni e delle esigenze dei due esseri umani; il luogo in cui si incontrano anche le aspettative, gli ideali e i progetti di cui ognuno è portatore. Al contempo, lo stesso luogo può diventare l’incontro e l’incastro di patologie. Nel caso specifico dello stalking dove c’è stata una relazione precedente tra la vittima e il persecutore, possiamo indubbiamente parlare di un incastro di alcune caratteristiche personologiche della vittima con caratteristiche di personalità, a volte francamente patologiche, del persecutore. All’atto della separazione, spesso non voluta dallo stalker, tali caratteristiche di attaccamento insicuro e/o ambivalente si slatentizzano dando la stura ad una serie di comportamenti persecutori violenti sia psicologici che fisici.

Come ci si può difendere da uno stalker?

Innanzitutto c’è da evidenziare che la vittima si rende conto di essere tale in uno stato di persecuzione già avanzato, soprattutto nei casi di relazione sentimentale precedente con lo stalker, infatti inizialmente i comportamenti di quest’ultimo vengono scambiati per atti residuali d’amore e non vengono adeguatamente contrastati. È importante, quindi, riconoscere e interpretare correttamente quanto sta accadendo e non offrire possibilità di contatti e confronti che vengono inevitabilmente scambiate come segnali di interesse da parte dello stalker. Le strategie utilizzabili dalla vittima sono quanto più funzionali se basate sulle caratteristiche e sulle motivazioni dello stalker.

Come si potrebbe arginare questo fenomeno così diffuso socialmente? Che fine ha fatto l’amore?

Indubbiamente la legge sullo stalking ha costituito un argine a comportamenti vessatori, di molestie e di violenza psicologica che prima difficilmente potevano essere inquadrati e perseguiti come reati. Da un punto di vista sociale è importante la sensibilizzazione sull’argomento ed il sostegno alle vittime, senza che venga sottovalutato il fenomeno quando individuato.
Per quanto attiene poi il fenomeno particolare del cyberstalking, attualmente in grande aumento, possiamo sicuramente dire che è importante non confondere un senso di intimità reale con quello artificiale mediato dai social e porre attenzione ai rischi relativi ad una privacy sempre più violata e ad una condivisione massiccia di informazioni personali, alla mercè di chiunque.
Lei mi chiedeva che fine ha fatto l’amore. L’amore è l’ultimo sentimento che si può ritrovare in una relazione che viene attivata da un molestatore assillante. L’arroganza di vincere a tutti i costi, il voler ottenere ciò che si vuole anche contro la volontà dell’altro nulla ha a che vedere con il sentimento nobile dell’amore.

Il temperamento – Introduzione alla Psicologia

Il temperamento è un aspetto della personalità piuttosto trascurato dalla psicologia moderna e contemporanea. Questo deriva dal poco accordo esistente tra gli psicologi su che cosa si intenda per temperamento e su come esso si distingua dal carattere. 

INTRODUZIONE ALLA PSICOLOGIA RUBRICA DI DIVULGAZIONE SCIENTIFICA IN COLLABORAZIONE CON LA SIGMUND FREUD UNIVERSITY DI MILANO 

Il temperamento è un aspetto della personalità studiato marginalmente nella psicologia moderna e contemporanea.
Tuttavia, il concetto di temperamento ha origini molto antiche nella storia della medicina, poiché già in passato si era osservato che il temperamento era in grado di far comprendere al meglio le differenze individuali non solo nel campo della psicologia, ma anche della psicopatologia in generale.

Temperamento: etimologia del termine

Il termine temperamento deriva dal latino temperare, cioè mescolare, ovvero mettere insieme una serie di caratteristiche individuali. Il Temperamento rappresenta una serie di aspetti congeniti non mediati dalla cultura ed è la diretta esplicitazione di caratteristiche innate nell’individuo. Si dice: “hai un Temperamento da grande attore, sei nato per fare questo mestiere”, significa che chi manifesta questa capacità presenta una caratteristica innata che gli permette di calcare il palcoscenico senza troppe difficoltà.

Temperamento nella storia

La descrizione del temperamento umano risale ad Ippocrate, intorno al 400 a.C. Ne troviamo traccia nel Corpus Hippocraticum, l’insieme di opere attraverso cui il famoso medico greco diffuse le sue conoscenze.
Secondo Ippocrate, alla base dei temperamenti umani vi era la teoria dei quattro umori. Nel corpo circolano quattro umori: il flegma (la linfa), il sangue, la bile gialla e la bile nera. Se tra i quattro fluidi c’è equilibrio, si avrà uno stato di buona salute, altrimenti, si crea uno squilibrio che determina la tendenza a malattie. E non solo, la diversa concentrazione di un determinato umore porta alla presenza di un certo di temperamento. Si posso formare, così, quattro temperamenti diversi, visibili come carenza di armonia complessiva dei liquidi: flegmatico, sanguigno, bilioso e melancolico.

Recentemente, agli inizi del secolo scorso nell’ambito del movimento pedagogico Waldorf, fondato da Steiner in Germania, si individua una importante trattazione sui temperamenti umani. Steiner riprese e perfezionò ulteriormente la teoria dei quattro temperamenti ippocratici, sganciandola dalla anacronistica e obsoleta spiegazione dei quattro umori, e basandola sulla concezione che l’essere umano è tripartito, ovvero formato dalla unione dei tre elementi sostanziali, quali: corpo, anima, spirito.

I quattro temperamenti, secondo Steiner, diventano: flemmatico, sanguigno, collerico, malinconico. Anche per Steiner il temperamento è espressione di uno squilibrio, poiché nell’individuo equilibrato sono presenti in diversa misura tutte e quattro i temperamenti. Il temperamento, dunque, risulta essere pertanto una sorta di base caratteriale, dipendente dalla salute fisica del soggetto, che si mantiene per tutta la vita psichica dell’individuo.

Fenomenologicamente parlando il temperamento è definito da una coppia di parametri funzionali dell’organismo, che combinandosi tra loro determinano quattro tipologie temperamentali. I due parametri in questione sono: la sensibilità, ovvero ricettività al mondo esterno e la forza, capacità di manifestazione del proprio sé.
Si avrà così uno schema formato da quadranti e ogni individuo si disporrà al suo interno non come un punto, ma come un area che può apparire a cavallo di più quadranti. Ci sarà, di conseguenza, un temperamento dominante ed uno o due ausiliari o recessivi.

Analiticamente, si ottengono i seguenti temperamenti: il temperamento sanguigno, caratterizzato da interesse e sensibilità agli stimoli esterni, poca forza interna, mutabilità di interessi e propensione al cambiamento. Il temperamento flemmatico, scarsa forza e poca sensibilità agli stimoli esterni, tendenza alla pigrizia e all’ozio. Il temperamento collerico, rappresenta il più irruente dei temperamenti e chi lo ha manifesta elevata reattività, estrema sensibilità agli stimoli esterni, molta forza, impeto e impulsività.. Il temperamento malinconico, infine, si manifesta con forza e scarsa sensibilità agli stimoli esterni, scarsa capacità di tenere a freno i propri istinti e tenacia nel raggiungere i propri obiettivi senza farsi distrarre dagli eventi esterni.

Più recentemente Cloninger definisce la personalità come divisa in due distinte dimensioni psicobiologiche: il temperamento e il carattere (Cloninger,1993). Secondo questa teoria, definita bio-psicosociale, il temperamento riflette una base biologica e determina la spinta ad agire in diversi modi, il carattere, invece, sarebbe il risultato dell’interazione della persona, in base alle sue attitudini, con l’ambiente. Il temperamento, dunque, è individuabile già dall’infanzia e resta stabile per tutto il corso della vita poiché ha caratteristiche biologiche ereditabili (studi sui gemelli riportano un ereditabilità dei tratti compresa tra il 40 e il 60% e sono alla base dell’attivazione o dell’inibizione di un comportamento; Cloninger 1993).

Temperamento, carattere e personalità

Per un quadro più generale definiamo cosa si intende per carattere e personalità.
Il termine Carattere: deriva dal greco charakter che significa impronta, segno distintivo. Il Carattere di un individuo dipende fortemente dall’influenza che l’ambiente esercita durante la sua infanzia e la sua adolescenza ed è quindi legato alla storia presentata e al patrimonio culturale appreso durante lo sviluppo. Al Carattere, quindi, può essere assegnato il significato opposto a quello dato al Temperamento, non biologico ma appreso. Esempio: ‘Ha un Carattere troppo impulsivo‘, significa che la sua esperienza di vita l’ha portato ad assumere questa caratteristica.

Invece Personalità: deriva dal latino persona, cioè maschera dell’attore. La Personalità è l’immagine, il volto, che ognuno di noi mostra agli altri, che esprime o cela quanto avviene realmente nel suo essere. La Personalità, dunque, è la combinazione tra Temperamento e Carattere, per cui è da considerarsi un concetto tipicamente dinamico nell’arco di vita di una persona. Durante l’arco della vita si è costretti ad affrontare situazioni cruciali che inevitabilmente sfociano in una serie di tratti che caratterizzeranno i comportamenti agiti della persona. Quindi dire a qualcuno che è un narcisista significa che è una persona molto concentrata su se stesso, che crede molto nelle sue capacità, e che degli eventi significativi accaduti l’hanno indotto ad assumere tale atteggiamento o personalità o maschera.

RUBRICA: INTRODUZIONE ALLA PSICOLOGIA

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Crescere in un contesto di povertà: minore connettività cerebrale e più rischio depressione

Crescere in un contesto di povertà diminuisce la connettività cerebrale e predispone a sintomi depressivi.

Tra le molte conseguenze negative che si associano al crescere in un contesto economicamente povero, basandosi sulle conclusioni tratte dal team della Washington University St. Louis, vi è anche una ridotta connettività tra le aree del cervello.

Infatti, analizzando le scansioni fMRI di 105 bambini con età compresa tra i 7 e i 12 anni, i ricercatori hanno osservato come alcune strutture chiave nel cervello fossero connesse in modo differente nei bambini poveri rispetto ai bambini cresciuti in un contesto più ricco. Nel dettaglio, quanto più la famiglia e il contesto del bambino erano poveri, tanto più l’ippocampo e l’amigdala mostravano deboli connessioni con la corteccia frontale superiore, il giro linguale, il cingolo posteriore e il putamen. In aggiunta, i bambini cresciuti in una famiglia povera durante l’età prescolare avevano una probabilità maggiore di sviluppare sintomi depressivi all’età di 9 o 10 anni.

In passato, gli studi che hanno indagato le differenze neuroanatomiche associate ad un basso status socioeconomico dei bambini hanno riscontrato un volume ridotto dell’ippocampo e dell’amigdala.

Oggi, attraverso le conclusioni di tale studio, il team della dott.ssa Barch e del dott. Couch può affermare come anche la connettività di queste due strutture con il resto del cervello risulti più debole nei bambini poveri e, stando alle considerazioni del gruppo di ricerca, meno funzionale per la regolazione delle emozioni e dello stress.

Tuttavia, mentre le differenze nel volume cerebrale possono essere superate nel corso della crescita grazie ad un valido supporto genitoriale, ciò non vale per il miglioramento della connettività.

I bambini cresciuti in povertà tendono ad esibire peggiori capacità cognitive, un più basso livello educativo e sono più a rischio di sviluppare disturbi psichiatrici come depressione e comportamento antisociale. I ricercatori hanno ipotizzato che fattori come stress, l’esposizione ad un ambiente avverso (i.e: una dieta povera, fumo di sigaretta dei genitori, etc.) e una scarsa educazione, possano contribuire ai problemi che i bambini svilupperanno nella vita.

Le conclusioni di questo studio suggerirebbero, quindi, che la povertà durante l’infanzia influenzi in senso negativo lo sviluppo della connettività dell’ippocampo e dell’amigdala con le altre aree cerebrali, in maniera tale da predisporre a sintomi depressivi negli anni successivi.

Trauma: il corpo accusa il colpo! – Workshop di Van Der Kolk a Milano, Gennaio 2016

Tra aneddoti personali e rigorosissime analisi scientifiche, Bessel Van der Kolk ci porta a navigare, durate il lungo workshop organizzato dall’Istituto di Scienze Cognitive e tenutosi a Milano dal 15 al 17 gennaio, attraverso il complesso tema del trauma e dei trattamenti più moderni orientati alla cura di persone traumatizzate.
Il nostro cervello e il nostro corpo reagiscono, elaborano e superano situazioni stressanti, talora riuscendo a ripararle completamente e a trasformarle in esperienze positive di forza e resilienza, talora lasciando attivo uno stato di allerta prolungato, cui il corpo si adatta ma che mostra segni anche a distanza di anni.

Come si insinua il trauma nella mente dei pazienti

[blockquote style=”1″]Vivere a Boston può essere molto difficile! Può capitare di svegliarsi all’alba, prepararsi per andare a lavoro, uscire di casa e accorgersi che la propria auto è sepolta sotto un paio di metri di neve! La rabbia sale veloce come una vampata! Allora ci si rimprovera di non vivere in Florida e di essere stati stupidi a mettere radici in un posto così inospitale! In pochi attimi la rabbia cancella tutto quello che ci riempiva di energia, il buon umore sparisce! Ma il tempo scorre e bisogna risolvere il problema: non c’è altro da fare che prendere la pala e iniziare a spalare per liberare l’auto! Si spala con forza, nervosamente, maledicendo ogni gesto e ogni fiocco di neve caduto. Poi esce di casa un vicino che come noi ha trovato la sua auto sommersa. Poi un altro e in pochi minuti si diventa un piccolo gruppo. Tutti di pessimo umore, ma tutti che spalano. A poco a poco si inizia a cercare lo sguardo dell’altro, si inizia a scambiare qualche parola, a chiedere e offrire il proprio aiuto. Si inizia a condividere la frustrazione e persino a sorridere quando un ritardatario si aggiunge al gruppo. Solo allora la rabbia inizia lentamente a scendere, compaiono emozioni e sentimenti diversi. Empatia, solidarietà, compassione, accettazione. Alla fine ci si saluta e si sale in macchina. Lo sforzo fisico è stato molto intenso, ma finalmente è finito! Stanchi e infreddoliti ci si mette in viaggio verso il lavoro, ma soddisfatti di essere riusciti nell’impresa. Quello che pochi minuti prima è stato stressante, diventa ora un ricordo passato e si trasforma lentamente in un motivo di orgoglio, di conferma della propria forza e resistenza. Piano piano si affaccia poi nella mente un senso di appartenenza forte a quel gruppo, al quartiere, alla città. Può capitare allora di trovarsi a cena a raccontare di quanto si è orgogliosi di vivere a Boston, di quanto siano pigri e viziati quelli che in Florida non conoscono inverni così rigidi e non sanno cosa significhi spalare la neve appena svegli per andarsi a guadagnare da vivere! (Van Der Kolk 2015)[/blockquote]

Tra aneddoti personali e rigorosissime analisi scientifiche, Bessel Van der Kolk ci porta a navigare, durate il lungo workshop tenutosi a Milano dal 15 al 17 gennaio, attraverso il complesso tema del trauma e dei trattamenti più moderni orientati alla cura di persone traumatizzate.
Il nostro cervello e il nostro corpo reagiscono, elaborano e superano situazioni stressanti, talora riuscendo a ripararle completamente e a trasformarle in esperienze positive di forza e resilienza, talora lasciando attivo uno stato di allerta prolungato, cui il corpo si adatta ma che mostra segni anche a distanza di anni.

Affrontare l’inverno rigido di Boston, diventa allora la metafora perfetta di come il nostro cervello reagisce alle situazioni stressanti e di come ci siano diversi livelli di elaborazione, che attimo per attimo intervengono a regolare emozioni, comportamenti e pensieri. La prima condizione necessaria alla resilienza è dunque uno stato emotivo iniziale di quiete, di sufficiente sicurezza e fiducia nelle proprie capacità. Aver riposato, aver mangiato, essere in buona salute e vivere una condizione familiare e di vita sufficientemente buone. Poi arriva un evento avverso che altera questo stato di cose e intervengono rabbia, paura, ansia e il sistema limbico – la parte più antica del nostro cervello – entra in uno stato di emergenza: ci blocchiamo un attimo, congelati di fronte al brusco cambiamento e non sappiamo cosa fare. La rabbia è intensa, la paura cresce, ma se siamo abbastanza in salute o possediamo gli strumenti per reagire o riceviamo l’aiuto necessario, allora il sistema limbico riesce a trasformare le emozioni negative in azione comunicando con le cortecce prefrontali per organizzare un piano d’azione, e con il tronco dell’encefalo per guidare il corpo nei movimenti necessari a realizzarlo. Il funzionamento sincrono e flessibile di questi livelli di elaborazione, garantisce la possibilità di affrontare la situazione e risolverla, uscendo dall’emergenza indenni e forse anche con un’idea migliore di se stessi.

Le variabili che rendono la nostra capacità di elaborare situazioni stressanti inefficaci, possono tuttavia intervenire a tutti i livelli di elaborazione descritti e determinare diversi esiti a seconda del processo compromesso. Uscire di casa in uno stato emotivo negativo perché stiamo vivendo una situazione familiare difficile, conflittuale o di violenza, ci espone a reazioni emotive più intense. Potremmo poi non aver dormito o mangiato regolarmente o non essere in buona salute, tutto questo pone il nostro corpo e la nostra mente in condizioni di svantaggio e di fronte alle difficoltà potremmo sentirci subito sopraffatti e fuori controllo. Proviamo allora a chiedere aiuto a chi abbiamo vicino, ad attivare l’ingaggio sociale di cui abbiamo bisogno come specie, e se alla fine anche questo fallisce, il nostro sistema di emergenza può valutare la situazione come non-affrontabile.

Allora le normali emozioni di rabbia e paura, possono diventare soverchianti, e generare comportamenti impulsivi, distruttivi, non regolati dall’attività delle cortecce superiori – normalmente orientate alla riflessione e alla valutazione delle soluzioni -, e dunque non finalizzati alla soluzione del problema, ma che rispondono alla sola necessità di azione, insita nello stato di urgenza. Se infine neanche questo funziona, il sistema limbico attiva una reazione definitiva di “congelamento emotivo”, in cui non è più possibile agire, né pensare.

Qui intervengono la resa, la passività, l’impotenza.
Quando i tre livelli principali di elaborazione non riescono a funzionare in modo coordinato ed efficace, l’esperienza avversa può trasformarsi in esperienza traumatica, creando cioè una rottura tra un prima e un dopo quell’evento, caratterizzata da una discontinuità nella percezione di sé, degli altri e del mondo. Non essere riusciti o non aver potuto affrontare in modo efficace un evento negativo, risulta più traumatizzante dell’evento in sé e può lasciare nel cervello tracce del suo passaggio. A livello corticale può conservarsi un’idea di se stessi come persona debole, impotente, cattiva; al livello limbico può permanere a lungo una reazione emotiva di allerta, di rabbia o di terrore; a livello del talamo e del tronco encefalico possono restare attive sensazioni somatiche (dolore, formicolii, anestesie..) o risposte fisiologiche automatiche (enuresi, svenimento,..). In questi casi l’esito difficilmente sarà di sentirsi orgogliosi di se stessi, capaci, forti e in grado di sopravvivere. Più facilmente la mente si riorganizzerà intorno a quello che ha appreso dall’esperienza: domineranno paura, insicurezza, tendenza ad evitare situazioni di rischio, o passività, sentimenti di inadeguatezza, debolezza o impotenza. La rottura e la discontinuità generate dal trauma si manifestano dunque nell’impossibilità di integrare questi frammenti di pensieri, emozioni e sensazioni all’esperienza traumatica e di dare loro un senso nel presente.

Il trauma e il corpo

Qui si colloca il principio cardine delle riflessioni emerse in tutte le giornate del workshop: quando parliamo di pazienti traumatizzati, quale può essere il ruolo terapeutico delle parole laddove il corpo e la mente non sono integrati e connessi nell’esperienza stessa del raccontare? Secondo Van der Kolk, nessuno. Il motivo appare chiarissimo nella sua semplicità: quando si parla ad una persona traumatizzata, si parla ad un cervello e ad un corpo che vivono costantemente in uno stato di emergenza, in cui le parole e i significati saranno espressi senza mediazione delle cortecce e dunque senza alcuna possibilità di apprendimento ed elaborazione consapevole dei vissuti personali. Sentire e parlare diventano due attività indipendenti, o meglio dissociate, e le parole, le credenze, le idee di sé non riescono ad essere “incarnati” e connessi al corpo che li esprime.

I pensieri rischiano allora di restare fissi, rigidi e stereotipati, anche di fronte al migliore dei disputing! Nel trattamento di pazienti traumatizzati che hanno tracce mnestiche così vivide nel corpo, sarà inefficace utilizzare in prima istanza qualunque terapia basata solo sulla parola, senza un lavoro iniziale e progressivo sul corpo e sulla sua esplorazione.

L’intero lavoro di ricerca di Van der Kolk sembra orientato a riflettere proprio su questo dato e sulle sue fondamentali implicazioni cliniche: la necessità di organizzare protocolli di cura che rispettino innanzitutto la fisiologia della mente e poi come la mente e il corpo si riorganizzano a seguito di un trauma. L’interocezione precede qualunque accesso all’introspezione. Prima di ogni riflessione, sarà importante rendere il respiro fluido e regolare, aiutare il paziente a sentire il corpo in tutte le sue parti, a riconoscerne le sensazioni fisiche, i cambiamenti interni, le fluttuazioni emotive nel qui ed ora. Sarà poi importante sperimentare le possibilità di movimento, conoscere i propri confini corporei, le diverse capacità espressive e imparare ad osservare come la mente reagisce al movimento. Solo dopo tutto questo la parola può essere incarnata e ascoltata, può riuscire a stimolare uno stabile cambiamento di prospettiva, di credenze, di idee di sé, di comportamenti.

Nel suo ultimo libro “Il corpo accusa il colpo”, il Dr. Kolk offre una disamina puntuale, ricca e molto supportata dalle neuroscienze, dei principali trattamenti psicoterapici presenti nel panorama attuale e orientati alla cura del trauma. Dall’EMDR allo yoga, dall’Esposizione narrativa al Qi Gong, dalla Mindfulness al teatro, passando per le più moderne terapie orientate al corpo, come la Sensomotoria e il Tapping, il suo testo propone un’idea tanto semplice quanto convincente di come affrontare situazioni cliniche complesse:

[blockquote style=”1″]Se la memoria del trauma è codificata nelle viscere, nelle emozioni sconvolgenti, nei disturbi autoimmuni e nei problemi muscolo-scheletrici, e se la comunicazione viscere-mente-cervello è la via maestra della regolazione emotiva, ciò richiede un radicale mutamento nel nostro modo di concepire la terapia (Van Der Kolk 2015).[/blockquote]

Mindfulness in età evolutiva: uno sguardo al contesto scolastico e alle possibili applicazioni con bambini adhd e i loro genitori

E’ possibile estendere l’utilizzo della Mindfulness in età evolutiva come strumento di cura e prevenzione? In particolare, per la patologia ADHD, che effetto avrebbero gli interventi mindfulness diretti con i giovani pazienti nel loro contesto scolastico e gli interventi integrati di Mindfulness training per i genitori?

Sara Zanelli, Michela Quaglia, Cristina Liviana Caldiroli – Open school Psicoterapia Cognitiva e Ricerca

Mindfulness in età evolutiva: la mindfulness Nelle Scuole

Negli ultimi 20 anni, la Mindfulness è divenuta il focus dell’attenzione di una larga parte della comunità scientifica. In modo pressoché spontaneo, attraverso l’unione di studi indipendenti di clinici e ricercatori appartenenti a diversi orientamenti, si è fatto strada un approccio trans-epistemologico basato sui principi radicati nella filosofia orientale.

L’interesse verso una prospettiva apparentemente tanto diversa viene dalla crescente esigenza di integrare, nei metodi della cura clinica e psicologica, le conoscenze rigorose della ricerca empirica con una prospettiva di senso, che valorizzi le possibilità cognitive, emotive e comportamentali della natura umana. Tali possibilità sono da riferirsi alle capacità di accettazione dell’esperienza, di auto-osservazione non giudicante e di comprensione del rapporto di interdipendenza reciproca tra mente e corpo. Tutti questi aspetti possono essere riassunti nel concetto di Mindfulness.

Questo contributo vuole porre in luce la possibilità di utilizzare la Mindfulness in età evolutiva come strumento di cura e prevenzione, partendo da una disamina della letteratura esistente sul tema e focalizzandosi sull’utilizzo di tale strumento nel contesto scolastico, per poi concentrare l’analisi su un tema specifico: l’utilità della pratica di Mindfulness per la patologia ADHD, sia attraverso interventi diretti con i giovani pazienti nel loro contesto scolastico, sia attraverso interventi integrati di Mindfulness training per i genitori.

Definizioni e Origini del Costrutto

Mindfulness significa fare attenzione in modo particolare: intenzionalmente, nel momento presente e senza esprimere giudizi (Kabat-Zinn, 1994). La Mindfulness è il processo che consiste nell’alimentare la consapevolezza del presente (Hanh, 1987). Mindfulness è consapevolezza e accettazione del momento attuale (Hanh, 1987).

Gli elementi costitutivi della Mindfulness, che emergono dalle definizioni riportate sopra (consapevolezza e attenzione) evidenziano quale sia la finalità della pratica Mindfulness, e quindi la sua tensione etica: l’obiettivo è quello di eliminare la sofferenza inutile, coltivando una comprensione e accettazione profonda di qualunque cosa accada attraverso un lavoro attivo con i propri stati mentali. Secondo la tradizione originaria, la pratica della Mindfulness dovrebbe permettere di passare da uno stato di disequilibrio e sofferenza ad uno di maggiore percezione soggettiva di benessere, grazie ad una conoscenza profonda degli stati e dei processi mentali.

Questo significa che Mindfulness è al tempo stesso il punto di partenza, ossia la chiave per una conoscenza rinnovata della mente; il punto focale, ossia lo strumento per formare la mente; il punto culminante, ossia la manifestazione più appropriata dell’avvenuta liberazione dalle abitudini consolidate della mente che producono infelicità (Kabat-Zinn, 2003).

Se la Mindfulness trova le sue origini nella tradizione buddhista, e quindi nell’approccio fenomenologico di stampo orientale, nel passaggio verso la psicoterapia occidentale il significato originario della parola Mindfulness tende ad espandersi e a trasformarsi in base allo scopo per cui viene utilizzato. Tutti i modelli terapeutici che includono i processi della Mindfulness hanno, tuttavia, uno scopo comune: quello di permettere alle persone di modificare il rapporto con le proprie esperienze in generale, e con quelle interne in particolare, così da poter osservare la propria esperienza senza esserne travolti.

Nello specifico, nel percorso di adattamento della Mindfulness come pratica meditativa alla Mindfulness come tecnica, strategia o strumento psicoterapeutico, si possono ritrovare nuove caratteristiche, definibili come assenza di giudizio, accettazione e compassione. Attorno a questi concetti si raccolgono nuove definizioni:

  • Consapevolezza che emerge prestando intenzionalmente attenzione, nel momento presente e in modo non giudicante, al dispiegarsi dell’esperienza (Kabat-Zinn, 2003).
  • Autoregolazione dell’attenzione, così da mantenerla sull’esperienza presente, che rende possibile un miglior riconoscimento degli eventi mentali, adottando un atteggiamento caratterizzato da curiosità, apertura e accettazione (Bishop et al., 2004).
  • Consapevolezza dell’esperienza presente con accettazione (Germer, Siegel, & Fulton, 2005).

Meccanismi di Cambiamento

Se finora l’analisi condotta ha contribuito a definire il costrutto della Mindfulness (cosa), identificarne gli scopi e le tensioni etiche (perché), in questa sezione si parlerà dei possibili meccanismi di funzionamento (come).

Meccanismi Neurali

Uno dei principi su cui si basa tutto l’apparato concettuale della Mindfulness riguarda l’unione mente/corpo: tale rilevanza è basata ad esempio sulla consapevolezza che il riconoscimento e la descrizione delle sensazioni e delle percezioni del corpo veicolano informazioni riguardo alla sfera cognitivo-emotiva. Non stupisce, quindi, che un ramo della ricerca sia stato espressamente dedicato allo studio dei meccanismi cerebrali che sottendono un orientamento mindful.

Una lettura interessante viene da Siegel, il quale ritiene che alla base di un funzionamento mindful ci sia l’integrazione neurale che influenza e viene influenzata dalla consapevolezza di Mindfulness. Secondo l’autore:

La consapevolezza dell’esperienza che facciamo momento per momento ci dà la possibilità di sentire e accettare direttamente la nostra esperienza mentale. Questo stato di consapevolezza può coinvolgere in uno stato integrato tra varie regioni del cervello, incluse aree importanti della corteccia e le aree subcorticali del sistema limbico e del tronco encefalico. L’integrazione neurale, in parte condotta da queste regioni frontali, può essere essenziale per creare un equilibrio basato sull’autoregolazione. […] Questi percorsi di integrazione possono giocare un ruolo cruciale per il benessere.

(D. J. Siegel, 2009).

È possibile, quindi, ritrovare nella meditazione di Mindfulness un’attivazione contemporanea delle aree cerebrali frontali adibite alle capacità esecutive e di allerta, che inizialmente avrebbero la funzione di indirizzare e sostenere l’attenzione, e in seguito quella di sostenere l’intenzione di proseguire nella consapevolezza al momento presente, attraverso l’influenza sui processi decisionali.

Sebbene gli studi sui meccanismi neurali forniscano informazioni importanti, una comprensione esaustiva delle modalità di azione della Mindfulness non può prescindere dall’analisi dei meccanismi che si creano a livello cognitivo ed emotivo.

Meccanismi Psicologici

Al momento attuale, molti dei meccanismi psicologici che si suppone essere alla base della consapevolezza, vengono proposti a livello teorico. Shapiro, Carlson e colleghi propongono una teoria strutturata sui meccanismi coinvolti nei processi di Mindfulness, basata sull’interrelazione continua momento-per-momento di tre componenti (Shapiro et al., 2006). Gli autori definiscono queste componenti gli assiomi della loro teoria e li ritrovano nella definizione di Mindfulness formulata da Kabat-Zinn:

Prestare attenzione in un modo particolare: intenzionalmente, nel momento presente e senza giudicare

(Kabat-Zinn, 2003).

Il modello viene quindi formulato sulla base della seguente trasduzione.

L’intenzione (I) fa riferimento alla motivazione sottostante l’avvicinarsi alla meditazione di Mindfulness: chi ha l’obiettivo di imparare a regolare i propri stati interni ottiene auto-regolazione, chi vuole esplorare i propri vissuti ottiene auto-esplorazione, e chi vuole liberarsi dei sentimenti negativi ottiene auto-liberazione. L’intenzione è intesa come un concetto dinamico ed evolutivo, che può cambiare nel tempo e a seconda delle necessità, ed è una componente centrale della Mindfulness perché ne influenza direttamente gli effetti.

L’attenzione (A) è la seconda componente del modello e implica un’osservazione dell’esperienza interna ed esterna, momento per momento, che sospenda tutte le operazioni interpretative e si basi esclusivamente sulla realtà così come si presenta. Questo assioma è importante nel modello anche perché si propone di costituire un anello di congiunzione con la psicologia cognitiva, che nei suoi assunti definisce l’attenzione come meccanismo curativo di base.

L’ultimo assioma, l’atteggiamento (A), si riferisce al come della Mindfulness ed è considerato cruciale degli autori perché rappresenta quella modalità compassionevole e amorevole, verso sé stessi e gli altri, che evidenzia la tensione etica della presenza mentale. L’atteggiamento amorevole o gentilezza amorevole (‘Metta’ in lingua pali) è infatti uno degli strumenti di base della tecnica meditativa Mindfulness utilizzata per contrastare i sentimenti distruttivi di rabbia e ostilità.

Shapiro e colleghi suggeriscono che i tre assiomi IAA siano direttamente collegati a molte delle trasformazioni che si osservano grazie alla pratica della Mindfulness e sulla base di questa ipotesi propongono un modello di funzionamento che spiega la relazione reciproca e continua esistente tra i tre elementi: il prestare attenzione (A) in modo intenzionale (I) con apertura e atteggiamento non giudicante (A) porterebbe le persone a sperimentare un cambiamento di prospettiva, che gli autori chiamano ripercezione.

Questo cambiamento di prospettiva, o ripercezione, avviene nel momento in cui, attraverso la Mindfulness, ci si disidentifica dai contenuti della propria coscienza e ci si rapporta alla realtà con maggiore chiarezza e obiettività.

Il processo di graduale cambiamento di prospettiva è, evolutivamente parlando, uno dei meccanismi cognitivi che porta alla maturazione degli individui (si pensi, ad esempio, alla formulazione di una teoria della mente nel processo di sviluppo cognitivo dei bambini). La ripercezione, proprio perché orientata all’esperienza nel momento in cui essa si presenta, è un processo continuo, nel qui e ora, che riflette l’interrelazione costante tra i tre assiomi.

Il modello di Shapiro e colleghi, sebbene si collochi a livello di speculazione teorica, si pone anche come possibile ipotesi di partenza per studi empirici che vogliano testare l’efficacia dei trattamenti basati sulla Mindfulness in popolazioni specifiche (Bishop, 2002; Mace, 2008).

Interventi basati sulla mindfulness

La pratica della Mindfulness è stata portata all’attenzione della ricerca clinica e psicologica grazie soprattutto alla sua traduzione in protocollo, ad opera di John Kabat-Zinn (Kabat-Zinn & University of Massachusetts Medical Center/Worcester. Stress Reduction Clinic, 1990). Il lavoro di John Kabat-Zinn sulla “riduzione dello stress basato sulla Mindfulness” (Mindfulness Based Stress Reduction o MBSR, da qui in avanti nel testo) ha reso possibile a molte persone l’addestramento alla presenza consapevole senza che dovessero cercarlo sotto forma di aiuto spirituale (Mace, 2008). Ai pazienti veniva spiegato, in un incontro introduttivo, in che cosa consistessero gli esercizi di meditazione di Mindfulness e veniva loro chiesto di aderire ad un programma di addestramento della durata di 8 settimane. Il programma era previsto per circa 30 partecipanti, che si sarebbero dovuti incontrare settimanalmente per circa 2 ore in una sessione intensiva di pratica meditativa.

Le componenti centrali del programma riguardavano:

  • L’istruzione sui fattori che inducono e mantengono lo stress;
  • Lo svolgimento di esercizi di autocontrollo per familiarizzarsi con le cause individuali di stress;
  • L’analisi dell’impatto dei pensieri e delle sensazioni sulle tensioni;
  • L’addestramento alla presenza mentale tramite le tecniche meditative formali come lo yoga, il body scan e la meditazione seduta;
  • L’uso regolare di discussioni di gruppo per incentivare l’apprendimento delle tecniche;
  • Lo svolgimento di compiti a casa che prevedevano il ricorso alle tecniche apprese negli incontri di gruppo.

Le tecniche meditative venivano presentate con lo scopo di insegnare a dirigere l’attenzione verso diversi oggetti, di sviluppare la capacità di consapevolezza del respiro, delle sensazioni fisiche e di quelle emotive. All’interno del programma MBSR si praticava anche una libera consapevolezza, per stimolare la massima apertura a qualsiasi esperienza sorgesse in quel dato momento (Mace, 2008): l’istruzione era quella di focalizzare l’attenzione su qualsiasi cosa si presentasse alla coscienza (emozione, sensazione, idea) e di osservarla senza giudicare.

Quando il partecipante si fosse accorto che l’attenzione si era spostata dal respiro al nuovo evento mentale, avrebbe dovuto riconoscerne brevemente il contenuto e poi riportare l’attenzione sulla respirazione. Il compito era quello di riconoscere senza riconoscersi negli eventi mentali. Ai partecipanti veniva poi chiesto di dedicare almeno 45 minuti al giorno, nei 6 giorni restanti, alle tecniche apprese, anche attraverso l’utilizzo dei supporti audio forniti dall’istruttore.

Grazie alla pratica ripetuta degli esercizi di meditazione Mindfulness, il praticante avrebbe potuto apprendere la capacità di fare un passo indietro rispetto alle proprie ideazioni in situazioni stressanti, piuttosto che autoingaggiarsi in atteggiamenti preoccupati e in pattern di pensiero negativo che sarebbero potuti sfociare in un ciclo di reattività disfunzionale, con la conseguenza di peggiorare lo stress emotivo (Bishop, 2002).

Diverse reviews e meta-analisi hanno dimostrato l’efficacia degli interventi basati sulla Mindfulness (o Mindfulness Based Interventions, MBIs nel testo) in un ampio range di problemi psichiatrici e legati allo stress e, aspetto ancor più importante dal punto di vista del sopracitato ruolo formativo della Mindfulness, esiste in letteratura un accenno al potenziale preventivo e di promozione del benessere dei MBIs nelle popolazioni non-cliniche, specialmente per quanto riguarda la riduzione dello stress, l’aumento del benessere percepito, l’aumento della capacità attentiva e il prolungamento del tempo di mantenimento dell’attenzione (Shapiro et al., 2007; Jha et al., 2007; Sauer et al., 2012).

Mindfulness in età evolutiva

Partendo dal presupposto di efficacia degli MBIs negli adulti, sembra essere interessante sviluppare interventi mindfulness in l’età evolutiva: ad oggi, sebbene la ricerca in questo ambito sia ancora agli albori, le evidenze riscontrate in letteratura sembrano testimoniare l’adattabilità di questo tipo di interventi e l’efficacia in campioni, clinici e non, di bambini e adolescenti (Black et al., 2009).

Il contesto scolastico, per le sue caratteristiche strutturali, sembra essere il più adatto per l’implementazione degli interventi basati sulla Mindfulness in età evolutiva, i quali passano la maggior parte del loro tempo a scuola. Inoltre, aspetto ancor più importante, proprio in tale contesto può realizzarsi l’intento preventivo ed educativo della Mindfulness in età evolutiva: se da un lato, gli interventi MB possono aiutare i bambini in difficoltà, dall’altro possono porsi come strumento indispensabile per l’apprendimento delle competenze prosociali, di tolleranza della frustrazione e di promozione della capacità cognitive utili e fruibili da tutti i giovani discenti della società. Le caratteristiche precedentemente citate di una mente mindful (consapevolezza e attenzione, così come accettazione e compassione), partecipando al benessere degli individui in età evolutiva, permetterebbero inoltre di:

Affrontare le sfide future di un mondo in rapido cambiamento, formando persone intelligenti e accudenti e cittadini partecipi ed impegnati

(Shapiro et al., 2008).

Nello stesso tempo, la letteratura attuale riporta un aumento dei problemi di interesse clinico nell’età evolutiva, legati allo stress e alla pressione sociale: lo stress scolastico avrebbe un effetto sulle strutture cerebrali coinvolte nei compiti cognitivi e nella salute mentale (Zenner et al., 2014).

Il contesto scolastico è quindi chiamato non solo a provvedere all’educazione formale e nozionistica, ma anche a valorizzare le competenze sociali e personali dei giovani, a prevenirne il disagio psicologico e promuoverne il benessere globale. Gli interventi basati sulla Mindfulness in età evolutiva potrebbero rispondere a queste necessità, unendo l’ottica preventiva a quella formativa.

A luce di queste osservazioni, può essere opportuno riflettere su come declinare la pratica di Mindfulness in età evolutiva e renderla più adatta all’ambito scolastico. Risulta evidente, in questo senso, che una mera riproduzione del protocollo MBSR non risulterebbe adeguata, dovendo confrontarsi con differenti motivazioni e bisogni rispetto a quelli dei pazienti adulti.

Se le pratiche di meditazione in età evolutiva possono essere simili a quelle degli adulti, le modalità e i tempi devono essere differenti. A questo proposito, Fabbro propone, con i bambini più piccoli, di strutturare le sedute di meditazione in modo che siano molto brevi e che si svolgano con una routine invariata nel tempo (Fabbro e Muratori, 2012). Sempre secondo l’autore, gli esercizi devono essere semplici e adeguati alle capacità dei bambini; alla fine della meditazione è opportuno dedicare uno spazio per la condivisione delle esperienze, per poter esprimere le proprie difficoltà e discuterne. Inoltre, a seconda delle varie fasce d’età (5-8, 9-12, 13-18 anni) la letteratura fornisce suggerimenti su tecniche e procedure di meditazione specifiche (Hooker, 2008).

Molto importante, trasversalmente alle diverse tecniche e agli esercizi proposti, è aiutare i bambini a diventare consapevoli delle proprie emozioni (Fabbro e Muratori, 2012).

Nella letteratura più recente (Meiklejohn et al., 2012; Zenner et al., 2014), alcune review testimoniano l’esistenza di un sempre più ampio numero di studi che trattano degli interventi MB nelle scuole, sebbene la diversità dei programmi analizzati e la qualità di studi pilota di molti lavori non permettano tutt’ora di parlare di una vera e propria efficacia. Nello specifico, potrebbe essere utile capire se esistano specifici domini in cui gli interventi basati sulla Mindfulness possano apportare particolare beneficio. A questo proposito, la review meta-analitica di Zenner e colleghi (Zenner et al., 2014), vuole delineare lo stato dell’arte relativo agli interventi Mindfulness nelle scuole, così da fornire un utile ancoraggio per le future linee di ricerca, cercando anche di capire come integrare la pratica della Mindfulness in età evolutiva e nella routine scolastica.

I risultati riportati testimoniano buoni effetti nel dominio cognitivo, ma anche nelle variabili più specificamente psicologiche di stress, strategie di coping e resilienza. Anche l’accettazione, più volte citata, sembra essere una variabile positivamente influenzata dalla pratica Mindfulness. Accanto a questi risultati, che confermano quanto proposto dalla letteratura teorica sul tema, Zenner e colleghi evidenziano anche alcuni limiti di questo campo di ricerca, sottolineando in particolare l’eterogeneità degli interventi e l’assenza di gruppi di controllo nei campioni analizzati.

Inoltre, sembra sia possibile che diverse variabili, poco controllabili, possano influenzare gli effetti positivi riscontrati nei MBIs nelle scuole: il background socioculturale in cui il contesto scolastico è inserito, la possibilità da parte degli studenti di dedicare tempo e spazi agli esercizi di Mindfulness fuori da scuola, la presenza di insegnanti opportunamente preparati piuttosto che l’inserimento nel corpo docenti di esperti esterni. Un ulteriore limite è costituito infine dalla variabilità degli strumenti di misura e dall’instabilità delle misure di outcome, che in età evolutiva cambiano rapidamente.

Un accenno va riservato inoltre alla dimensione della motivazione che, tanto importante nella pratica Mindfulness, è chiaramente individuabile nei pazienti adulti che si avvicinano alla Mindfulness, ma meno chiara quando si parla di soggetti in età evolutiva. In sintesi, vista la qualità di studi pilota a basso numero di partecipanti, non sembra ancora possibile individuare, nel contesto scolastico, quali siano gli elementi della Mindfulness che giocano un ruolo nella modifica delle variabili di outcome, lasciando invece suppore un effetto di fattori non specifici, quali il supporto percepito dal gruppo, la novità della pratica o un generale rilassamento.

Laddove, quindi, non sembra ancora possibile parlare di omogeneità degli interventi in ambito scolastico, sembra comunque possibile determinare gli effetti che la pratica Mindfulness in età evolutiva ha sulle funzioni attentive e sulle componenti emotive. Flook et al. (2010) testimoniano l’efficacia dell’intervento Inner Kids sulle funzioni esecutive.

Il programma, ideato da Susan Kaiser Greenland (Greenland, 2010), si propone di incrementare gli aspetti di Attenzione, Consapevolezza e Compassione attraverso attività di gioco e movimento specificamente pensate per i bambini in età evolutiva e per il contesto scolastico, adattandole dal programma MBSR di John Kabat-Zinn. Gli autori hanno valutato (attraverso un questionario somministrato a genitori ed insegnanti, il Behavior Rating Inventory of Executive Function o BRIEF di Gioia et al., 2000) le dimensioni di Metacognizione e Regolazione del Comportamento in un campione di bambini -tra i 7 e i 9 anni- prima e dopo la partecipazione al training di Mindfulness in età evolutiva, evidenziando un miglioramento in entrambe le scale, specialmente per coloro che in baseline mostravano valori più bassi. I risultati sembrano quindi sottolineare un effetto positivo della pratica di presenza consapevole sui bambini che mostrano difficoltà nelle funzioni esecutive.

Per quanto concerne gli aspetti emotivi, Saltzman e Goldin (Saltzman e Goldin, 2008) hanno seguito il programma MBSR for children con 30 bambini, ottenendo risultati incoraggianti per quanto riguarda l’efficacia della Mindfulness in età evolutiva sui problemi di natura emotiva: hanno infatti riscontrato una minor reattività emotiva, una minore tendenza all’autocritica ed anche una maggiore compassione verso di sé e verso gli altri dopo un training di Mindfulness della durata di otto settimane.

Questa breve disamina degli studi permette di capire come la Mindfulness in età evolutiva possa rappresentare uno strumento di grande utilità per affrontare le problematiche riscontrabili, sia di ordine cognitivo che emotivo (anche alla luce della compresenza dei due aspetti, che spesso si trovano associati nelle più variegate forme di disagio).

Di particolare interesse, per gli scopi di questo contributo, sono gli studi condotti su campioni di adolescenti con ADHD (Attention Deficit Hyperactivity Disorder) e sui loro genitori, che hanno evidenziato la possibilità di condurre un tale tipo di intervento nel contesto scolastico.

 

Mindfulness in età evolutiva e competenze attentive: un’applicazione con bambini con adhd

L’ADHD (acronimo di Attention Deficit Hyperactivity Disorder), anche conosciuto come Disturbo da Deficit di Attenzione e Iperattività (DDAI), è un disturbo neurobiologico dello sviluppo neuropsichico del bambino o dell’adolescente. Esso è caratterizzato da gravi difficoltà di attenzione, di concentrazione, di impulsività e di iperattività, inadeguati rispetto all’età.

A livello mondiale si stima che ne sia colpita circa il 5% della popolazione, di età compresa fra i 4 i 17 anni, con una prevalenza nettamente superiore del sesso maschile rispetto a quello femminile (Polanczyk et al., 2007).

Le criticità sopra evidenziate, dovute all’incapacità del bambino di regolare il proprio comportamento, sono soprattutto riscontrabili nella scarsa cura per i dettagli, nella labilità attentiva e nell’inabilità a portare a termine compiti/giochi intrapresi o obiettivi da raggiungere. Sono inoltre evidenziabili difficoltà organizzative e di autocontrollo, incapacità a procrastinare nel tempo la risposta ad uno stimolo interno o alle richieste dell’ambiente, perdita di oggetti di uso quotidiano, irrequietezza e incapacità a stare seduto, difficoltà nell’aspettare il proprio turno (Barkley, 1998). A questi sintomi, spesso, si accompagnano sensazioni interne e soggettive di tensione, pressione e instabilità, che devono essere scaricate.

È necessario precisare che tale corteo sintomatologico non è causato da un deficit cognitivo, non è nemmeno una normale fase di crescita del bambino, e neppure il risultato di una scorretta disciplina educativa, ma è dovuto ad oggettive difficoltà di autocontrollo e di pianificazione, presenti in tutte le situazioni di vita del bambino, che causano anche un’evidente compromissione delle attività quotidiane.

Tali incapacità sono spesso la causa dell’insuccesso scolastico, o di minor resa scolastica, e di un minor utilizzo delle proprie abilità cognitive ed hanno, per il bambino, gravi conseguenze nel breve e lungo termine. L’ADHD, pur avendo una natura organica, non può essere trattata con un solo intervento di tipo farmacologico: pertanto, per bambini con ADHD, si è soliti indicare un trattamento multimodale che unisce vari interventi indirizzati alle diverse aree compromesse. Ad oggi, ci sono due trattamenti evidence-based per bambini con ADHD: quello farmacologico (principalmente stimolante) e quello comportamentale (Van der Oord et al., 2008).

La terapia farmacologica, agisce unicamente sui sintomi primari del disturbo (impulsività, inattenzione e iperattività) e solitamente risulta inefficace nel migliorare l’autostima e le competenze sociali-relazionali, inoltre il farmaco funziona solo nel breve termine, e i bambini mostrano spesso effetti collaterali (Schachter et al., 2001).
Invece, i trattamenti cognitivo-comportamentali sono focalizzati sulla formazione comportamentale dei genitori e sull’insegnamento di competenze per affrontare e gestire i sintomi dell’ADHD e dei suoi problemi associati. Tuttavia questi interventi hanno anch’essi limitati effetti a lungo termine e sono scarsamente generalizzabili ad altri compiti (Chambles e Ollendick, 2001; Pelham e Fabiano, 2008).

Ulteriore critica, spesso avanzata dai genitori, è che tali strategie richiedano loro di imporre un controllo sul bambino, che risulta direttivo e spesso non compreso dal bambino stesso. La diretta conseguenza di tale metodologia è che non vengano imparate in prima persona dal soggetto con ADHD strategie di autocontrollo e che non si crei un’interazione positiva fra figlio e genitore (Nirbhai, 2009).

Riguardo i familiari, è necessario inoltre evidenziare che l’ADHD è altamente ereditabile, e una diagnosi di ADHD nei genitori è un predittore di fallimento a questo tipo di formazione genitoriale (Sonuga-Barke et al., 2002; Van den Hoofdakker et al., 2010).

E’ risultato pertanto necessario individuare e implementare un intervento che agisca in modo più efficace, duraturo e generalizzabile sulle problematicità attentive sopra citate, motivo per cui le recenti ricerche nel panorama internazionale si sono mosse ad indagare gli effetti della pratica Mindfulness in età evolutiva sull’ADHD.

L’attenzione ricopre un ruolo centrale nella meditazione Mindfulness, quali l’auto-regolazione dell’attenzione nell’esperienza immediata e un atteggiamento di accettazione degli eventi.

Bishop e colleghi (2004) hanno proposto una concettualizzazione, divisa in quattro moduli, in cui la regolazione attenzionale sarebbe coinvolta nella pratica della Mindfulness: regolazione dell’attenzione sostenuta, per mantenere la consapevolezza dell’esperienza nel momento presente; switching attenzionale, per permettere il ritorno dell’attenzione al momento presente dopo una distrazione; inibizione del processo elaborativo, per evitare di ruminare o rimuginare su pensieri o sentimenti che sono al di fuori del momento presente; attenzione non direzionata, per migliorare la consapevolezza dell’esperienza presente, non influenzata da ipotesi o aspettative.

Si è perciò ipotizzato che, tale tecnica, possa produrre dei benefici nel trattamento della sintomatologia ADHD con dei miglioramenti funzionali e strutturali a carico del sistema attentivo, in particolare rispetto ai meccanismi di autoregolazione e di inibizione della risposta automatica.

La ricerca condotta da Van der Oord, Bögels e Peijnenburg, nel 2012, si è mossa proprio in questo senso. Per lo studio sono stati coinvolti 22 bambini con ADHD (diagnosi effettuata secondo i criteri del DSM-IV) di età fra gli 8 e i 12 anni che, insieme ai propri genitori, sono stati sottoposti ad un percorso Mindfulness in età evolutiva di 8 settimane. In particolare il training proposto consisteva in 8 sedute settimanali, della durata di 90 minuti l’una, condotte in piccolo gruppo, composto da 4-6 bambini e genitori. Venivano inoltre forniti dei compiti a casa, così da poter consolidare la pratica attraverso un esercizio costante. Durante il trattamento di Mindful Child Training (MC) rivolto ai bambini, i loro genitori ricevevano parallelamente una formazione di Mindful Parenting (MP).

Entrambi i cicli di formazione si basano sulla Mindfulness-Based Cognitive Therapy (MBCT, Segal et al., 2002) e sul Mindfulness-Based Stress Reduction Training (MBSR, Kabat-Zinn, 1990), adattati per l’uso con bambini e genitori.

Durante le sessioni di Mindful Child Training (MC), altamente strutturate (Van der Oord et al., 2009), grazie ad esercizi di consapevolezza corporea, di sensibilizzazione sensoriale, di respirazione, yoga e meditazione, il comportamento ADHD è stato ridotto: i bambini hanno imparato a concentrarsi per migliorare la loro attenzione, la consapevolezza, l’autocontrollo e l’inibizione delle risposte automatiche. Inoltre, essi hanno anche imparato ad applicare la consapevolezza in situazioni difficili, come l’essere distratto a scuola.

Per il Mindful Parenting (MP), è stato utilizzato il manuale di Bögels et al. (2008) e Bögels et al. (2010), lievemente modificato per soddisfare le esigenze dei genitori di bambini con ADHD. Grazie a questo training i genitori hanno imparato a essere completamente presenti, in maniera non giudicante, nel qui e ora con il figlio; ad accogliere e rispondere, piuttosto che reagire negativamente di fronte ai suoi comportamenti inadeguati; ad accettare le sue problematicità; e infine a prendersi cura di se stessi. Poter affrontare e superare lo stress, per i genitori, è un traguardo importante perché, a casa, è loro compito incoraggiare i figli a fare meditazione, sia singolarmente sia insieme.

Per poter valutare l’effettiva efficacia del training, alle famiglie è stato chiesto di compilare i seguenti strumenti testistici in fase di pre-trattamento, post-trattamento e in follow up a distanza di 8 settimane: Disruptive Behavior Disorder Rating Scale (DBDRS) per i sintomi del disturbo dirompente del comportamento, The ADHD Rating Scale (ARS) per i sintomi dell’ADHD, The Parenting Scale (PS) per lo stile genitoriale, Parenting Stress Index (PSI) per il grado di stress genitoriale, Mindfulness Attention and Awareness Scale (MAAS) per il livello di attenzione consapevole genitoriale.

I risultati di questo studio hanno provato che i sintomi dell’ADHD nei bambini si sono notevolmente ridotti dopo il training di Mindfulness in età evolutiva. I genitori hanno in particolar modo notato una maggior regolazione dell’attenzione e dei processi cognitivi coinvolti, poiché si sono notevolmente ridotti momenti di disattenzione e moderatamente ridotti momenti di iperattività e impulsività.

E’ interessante notare che i genitori hanno inoltre evidenziato una riduzione del proprio livello di stress e disattenzione, in favore di una maggior autoregolazione e consapevolezza dei vissuti propri e del figlio. I risultati sopradescritti, sia per i bambini sia per i genitori, sono stati mantenuti anche al follow-up di 8 settimane.

Visti i risultati più che soddisfacenti, molte famiglie hanno chiesto un’ulteriore formazione Mindfulness dopo l’incontro di follow-up. Infatti, il sostegno alle famiglie di bambini con ADHD, per continuare ad approfondire la Mindfulness nel corso degli anni, sembra essere una buona pratica clinica, in particolare durante il periodo di sviluppo dei bambini, quando cambiano rapidamente e si confrontano con sfide nuove e diverse, per le quali la pratica della Mindfulness può essere utile. (Van der Oord et al., 2008).

 

Mindfulness training per i genitori di bambini con ADHD

Abbiamo fin qui affermato che il Disturbo da Deficit di Attenzione e Iperattività è un disturbo di tipo neurobiologico caratterizzato da disattenzione, iperattività ed impulsività che interferiscono con lo sviluppo sociale e personale del bambino, caratteristiche che spesso sono rinforzate dall’ambiente e dal contesto psicosociale in cui il bambino è inserito (Pezzica and Bigozzi, 2015). Per questo motivo la costruzione di contesti supportivi e contenitivi risulta essere di primaria importanza, e non una componente secondaria, quando ci si trova in presenza di bambini con ADHD (Pennington, 2006).

E’ quindi condivisa l’ipotesi secondo la quale genitori e care-giver hanno il compito di aiutare e supportare i propri figli, in particolar modo affiancandoli nel percorso terapeutico che hanno intrapreso, svolgendo un ruolo cruciale nel mantenimento dei risultati ottenuti. Un compito non facile se si pensa che i bambini con ADHD sono spesso disobbedienti, impulsivi e non ascoltano le norme genitoriali, mostrando, a volte, un comportamento oppositivo e aggressivo nei confronti dei genitori stessi (Johnson and Jassy, 2007). Di contro, i genitori sviluppano un atteggiamento over-reactivity, caratterizzato da minor pazienza, maggior attenzione ai comportamenti disfunzionali e tendenza ad agire impulsivamente (Miller-Lewis et al., 2006)

Sulla scorta di quanto detto, diversi studi si sono focalizzati sull’importanza di migliorare e rendere maggiormente efficaci le interazioni genitore-figlio nello sviluppo del bambino ADHD, ricorrendo a diversi metodi per far fronte e ridurre il comportamento problematico e disfunzionale di entrambi e creando uno stile genitoriale positivo.

In particolar modo, negli ultimi anni ha trovato ampio spazio il trattamento comportamentale, definito Parent Training (PT), che riguarda la modifica dei comportamenti e degli atteggiamenti dei genitori verso i bambini stessi attraverso suggerimenti educativi di tipo comportamentale. Ma la letteratura sottolinea come l’ADHD sia altamente ereditabile (Dumas, 2005; Thapar et al., 2007) e, quindi, i genitori di bambini con ADHD possono anche visualizzare i sintomi stessi dell’ ADHD rendendo questa componente un fattore predittivo di non risposta a questa formazione comportamentale (Sonuga-Barke et al., 2002;. Van den Hoofdakker et al., 2010). Inoltre, i genitori spesso riferiscono come queste strategie di gestione richiedono di imporre un controllo esterno sui bambini, impedendo agli stessi di imparare strategie di auto-controllo ed inficiando negativamente nella relazione genitore-figlio.

Dato lo scarso successo del Parent Training tradizionale, ci si è sempre più spostati su un trattamento non solo comportamentale ma anche cognitivo. Il Parent Training Cognitivo-Comportamentale (PTCC) si focalizza sugli aspetti cognitivi ed emotivi dei genitori dei bambini con ADHD, lavorando sulle rappresentazioni mentali dei genitori; il primo protocollo italiano è di Vio e collaboratori (Vio et al., 1999; Vio et al., 2013). Nelle sessioni di PTCC vengono fornite informazioni sul disturbo, riorganizzate le rappresentazioni mentali del figlio con ADHD e sviluppate le strategie e le competenze di gestione dei problemi.

In questa prospettiva, sono stati riscontrati diversi risultati positivi, in particolare nel modificare la percezione dei genitori sui sintomi dell’ADHD e nel miglioramento del senso di soddisfazione e percezione positiva del sé genitoriale. I limiti di questo trattamento riguardano la mancanza di effetti a lungo termine e la difficoltà nella generalizzazione delle abilità apprese al di fuori del setting terapeutico, risultato che si evince soprattutto durante i follow-up tenuti a distanza di alcuni mesi (Pelham and Fabiano, 2008; Pezzica e Bigozzi, 2015).

Un intervento che, pur partendo dalla stessa base teorica del PTCC, introduce contenuti finalizzati alla promozione delle abilità di sintonizzazione emotiva e mentalizzazione del genitore è il Parent Training Cognitivo-Comportamentale-Mentalizzante (PTCC-M).

In quest’ottica, una chiave fondamentale per ottenere degli effetti è rappresentata dall’induzione nel genitore di mentalizzazioni metacognitive riguardanti se stesso e gli altri (l’altro genitore e il bambino). Il genitore è guidato a non considerare solo i comportamenti, ma anche i pensieri e gli affetti che li accompagnano. In base ai dati raccolti, il PTCC-M risulta avere un effetto specifico nel migliorare il senso di competenza genitoriale, il sostegno del partner e la sintonizzazione con il figlio nel rapporto con i genitori (Pezzica e Bigozzi, 2015). L’intervento presenta le stesse difficoltà del PTCC nel mantenere effetti a lungo termine nel comportamento e negli atteggiamenti dei genitori e, non essendo un intervento direttamente operato sul bambino, si evidenziano tempi lunghi negli effetti prodotti sui suoi comportamenti disfunzionali (Pezzica e Bigozzi, 2015).

Nonostante non si sia arrivati a definire un Parent Training ottimale, è importante notare come si stia andando incontro ad un trattamento sempre più efficacie, migliorando il punto di vista dei genitori e le proprie competenze, influenzando, così, il comportamento del bambino con ADHD. Per questo, si è spesso ritenuto necessario studiare gli effetti di altri trattamenti, accanto a quelli tradizionali, con particolare attenzione alle problematiche di fondo dell’ADHD.

In questo senso si stanno muovendo gli studi sull’utilizzo della Mindfulness come training per i genitori di bambini ADHD, ovvero il Mindful Parenting (MP), dimostrando come questa tecnica può migliorare le interazioni positive bambino-genitore e può incrementare il livello di soddisfazione circa la propria genitorialità nonché il miglioramento del clima nell’ambiente famigliare e, più in generale, del contesto psicosociale del bambino.

Abbiamo definito la Mindfulness come un intervento sulla base di tecniche di meditazione orientali, che aiuta ad aumentare la consapevolezza del momento presente, migliora l’osservazione non giudicante, e riduce le risposte automatiche (Kabat-Zinn, 2003), ed è in questa definizione che si trova la motivazione del suo utilizzo nelle famiglie di bambini con ADHD.

Attraverso la Mindfulness si impara ad essere genitori consapevoli, una forma di allenamento alla consapevolezza così definito:

capacità di prestare attenzione al tuo bambino e alla tua competenza genitoriale in modo particolare: intenzionalmente, qui ed ora, e non in maniera giudicante

(Kabat-Zinn, 2003).

 

Nel Mindfulness Training per i genitori essi imparano a rivolgere la loro attenzione ai figli in maniera non giudicante, cercando di aumentare la consapevolezza del momento presente con il loro bambino, e ridurre le reazioni automatiche (negative) nei confronti del bambino stesso (Bögels et al., 2008; Bögels et al., 2010). Inoltre, facendo pratica di meditazione quotidiana, i genitori imparano a prendersi cura di se stessi e a riportare la calma nella loro famiglia, abbassando i livelli di stress ai quali si sentono costantemente sottoposti. Anche Singh e collaboratori (2010) hanno studiato gli effetti del Mindful Parenting, trovando risultati che dimostrano l’efficacia della Mindfulness in età evolutiva per i bambini con ADHD ed i loro genitori.

Van der Oord e colleghi (2012) hanno condotto uno studio pilota indagando l’efficacia di un corso di formazione sulla Mindfulness per bambini con ADHD e i loro genitori, confermando l’efficacia della Mindfulness in età evolutiva e, soprattutto, l’importanza di un intervento congiunto che riguardi sia i bambini che i genitori perché, come sottolineato anche da Singh e colleghi (2010), è indispensabile che i bambini siano adeguatamente preparati essi stessi ma che abbiano anche un supporto dall’ambiente nel quale crescono e dalle figure genitoriali.

Va sottolineato come questo intervento abbia una rilevanza positiva su altri due fattori dei quali abbiamo parlato: la familiarità dell’ADHD e lo stress che si viene a creare nei genitori stessi.

Come visto nel paragrafo precedente, l’applicazione della Mindfulness in età evolutiva su soggetti con ADHD ha ottenuto risultati positivi nel migliorare le capacità attentive e a contenere l’impulsività del comportamento; avendo una componente ereditaria, anche i genitori dei bambini con ADHD possono presentare alcuni sintomi dei figli. Questo ci porta alla conclusione che la Mindfulness facilita anche nei genitori stessi la gestione di questi tratti considerati disfunzionali (Singh et al., 2010; Dumas, 2005).

Ultima importante componente sulla quale agisce la Mindfulness in età evolutiva riguarda lo stress. Come sappiamo, i bambini con ADHD presentano un comportamento impulsivo, disattento e iperattivo, tutte caratteristiche con i quali i genitori hanno a che fare ogni giorno. A causa delle difficoltà nel relazionarsi con questi fattori spesso i genitori si trovano ad essere meno pazienti e maggiormente irritabili, con la conseguenza di mettere in crisi le proprie idee e l’immagine di sé come genitore competente; l’unione di questi fattori porta all’aumento dello stress, diventando più rifiutanti peggiorano le risposte negative nei confronti dei figli. Per non ritrovarsi in un circolo senza uscita, è importante che i genitori imparino ad abbassare i livelli stressogeni che si sono creati, attraverso l’utilizzo della Mindfulness: i genitori imparano a prestare la giusta attenzione al figlio in maniera non giudicante, a vivere il qui ed ora della situazione e ad evitare la messa in atto di risposte automatiche (negative), con il conseguente miglioramento della gestione della relazione genitore-figlio, una migliore visione del sé genitoriale e un abbassamento dello stress (Bögels et al., 2010; Singh et al., 2010).

Concludendo, si può vedere come nei vari studi, gli obbiettivi che sono stati promossi a favore dei genitori si possono riassumere in cinque punti principali:

  • Aiutare i genitori ad imparare ad essere presenti nel qui ed ora, in modo non giudicante e pienamente consapevoli del proprio bambino;
  • Prendersi cura di se stessi;
  • Fornire informazioni sul disturbo;
  • Accettare le difficoltà del proprio bambino e riorganizzare la sua raffigurazione mentale;
  • Rispondere in maniera consapevole ai comportamenti disfunzionali del figlio e non in maniera impulsiva (che abbiamo definito come over-reactivity).

Gli studi sull’ADHD in accompagnamento agli studi sui disturbi psicopatologici dell’età evolutiva (disturbi d’ansia, disturbi della condotta, disturbi del tono dell’umore, disturbi del comportamento alimentare) segnalano la mindfulness in età evolutiva come pratica terapeutica promettente (Fabbro e Muratori, 2012). Nelle ricerche future sarà auspicabile porsi come obbiettivo principale la descrizione dell’utilità e dell’efficacia della Mindfulness nei differenti disturbi neuropsichiatrici dello sviluppo.

Alcune madri non nascono mai: i vissuti di chi sceglie di non diventare madre

Nicoletta Nesler e Marilisa Piga lavorano da anni su questo tema, intervistando e raccogliendo testimonianze di non-madri per scelta; hanno realizzato un interessante documentario dal titolo “Lunàdigas”, dal nome che i pastori sardi danno alle pecore temporaneamente sterili. I vissuti che emergono sono quelli prevedibili della sofferenza e dell’incertezza, ma anche della consapevolezza e dell’autodeterminazione, così come di una scelta serena condivisa con il partner.

Per alcune donne, avere figli è un bisogno, una necessità radicale, per seguire un’aspirazione personale o per aderire a un modello sociale. Per altre l’istinto materno è un oggetto smarrito o mai rinvenuto nel proprio bagaglio privato e familiare. Fra questi due estremi si colloca la grande maggioranza delle donne che non ha avuto bambini senza che questo fosse risultato di una scelta o di una non-scelta. Nella linea del tempo, un desiderio vago può essere stato coltivato per un periodo della vita e poi essere svanito, l’incertezza è diventata cronica o il progetto, chiaro e ben definito, è stato rimandato di anno in anno fino a divenire obsoleto.
Insomma, il momento non è mai stato propizio.

Sono escluse da questa riflessione le donne che vorrebbero avere un figlio ma non possono, per cause di natura organica e psicogena. Per loro, per ognuna di loro, il dolore vissuto merita un racconto a parte.

Nicoletta Nesler e Marilisa Piga lavorano da anni su questo tema, intervistando e raccogliendo testimonianze di non-madri per scelta; hanno realizzato un interessante documentario dal titolo “Lunàdigas”, dal nome che i pastori sardi danno alle pecore temporaneamente sterili. I vissuti che emergono sono quelli prevedibili della sofferenza e dell’incertezza, ma anche della consapevolezza e dell’autodeterminazione, così come di una scelta serena condivisa con il partner.

Nei paesi con la cultura familiare come il nostro, dove domina la formazione cattolica, scegliere di non procreare mette in discussione modelli che si tramandano da secoli. La legittimità di tale scelta viene sempre messa in discussione, in maniera esplicita ma ancor di più implicita.
Ad esempio come l’intervistatrice che chiese a Simone de Beauvoir:
Signora, è possibile che voi scriviate dei libri perchè non avete dei figli?” e che si sentì rispondere: “Signora, è possibile che voi facciate dei figli perchè non scrivete dei libri?”.
In quegli anni il femminismo imperante legittimava progetti e scelte di vita prima impensabili da realizzare; oggi più che la cultura, è il mercato del lavoro a farla da padrone e a decidere per chi la maternità è un diritto e per chi invece un lusso inaccessibile.

Eppure al sospetto non si sfugge: anche quando le condizioni economiche non consentono di raggiungere questa meta, rimane una sottintesa colpevolizzazione a condannare la donna, più dell’uomo. Se prendiamo ad esempio l’espressione anglofona “childfree”, essa veicola l’immagine di donne disinteressate, quasi egoiste: come se l’egoismo, l’altruismo e la generosità possano misurarsi in base al fatto di avere o non avere figli.

Anche se le statistiche dedicate al fenomeno ancora tabù sono evidentemente rare, nei paesi occidentali la percentuale è in costante aumento. Fino a pochi anni fa una donna senza figli, per scelta o meno, non faceva parte della maggioranza: oggi una donna su cinque in Italia non ha figli ma in alcune zone del Nord, soprattutto tra le laureate, la percentuale si alza e si arriva ad una donna su due. Se il fenomeno è poco studiato in termini sociodemografici, è del tutto sottovalutato in ambito psicologico, come conferma la psicoterapeuta Elena Rosci nelle pubblicazioni sulla maternità ambivalente. Il suo contributo più interessante è il resoconto clinico su alcune donne alle quali l’idea della maternità crea uno stato di angoscia anzichè di trepidante attesa. Il suo invito è quello di accettare e di governare il cambiamento con fiducia, come fanno queste donne che cercano una risposta individuale ad un problema che è, evidentemente, di portata epocale.

Ultimo punto imprescindibile da trattare rimane il rapporto con la propria madre: se ci pensiamo bene, non si sceglie la propria madre ma si può scegliere di non diventare madre. In questo caso, il circolo generativo s’interrompe, con l’intento di non replicare gli errori subiti o nel dubbio di non saper imitare la perfezione idealizzata per tutta una vita. È dunque evidente che la personalità della madre influenza i sentimenti della figlia rispetto alla maternità.

Se penso alle mie pazienti, la propria identità è fortemente contraddistinta dall’essere madri o dal non esserlo: si è donne, lavoratrici, studentesse, mogli, amanti ma ci si riconosce soprattutto nel ruolo di madri, quando lo si è, o di figlie, quando madri non lo si è più, non lo si è ancora o non lo si sarà mai. Quando la donna desidera o non desidera un figlio, diventa madre o non lo diventa, la relazione con la madre e il modo in cui l’ha interiorizzata è una componente di base attiva e che bisogna riconoscere.

Concludo ricordando Alda Merini, che dedicò una poesia ad un figlio solo pensato e mai conosciuto.

[blockquote style=”1″]Alcuni figli non nascono mai, a volte neppure alcune madri.[/blockquote]

Trattamenti evidence-based per i disturbi dell’alimentazione: dove formarsi

Una potenziale strategia per superare l’ostacolo della disseminazione su scala globale è rappresentata dal cosiddetto web-centred training, che permette di formare un grande numero di terapeuti simultaneamente. Questa innovativa modalità di formazione è in fase di valutazione presso il centro CREDO dell’Università di Oxford. Il training in lingua inglese è gratuito e viene effettuato tramite un sito web che descrive e illustra la CBT-E in dettaglio e incorpora alcune attività didattiche che aiutano gli allievi ad apprendere le procedure principali del trattamento e le abilità necessarie per somministrarlo.

Un trattamento è definito evidence-based se, dopo ricerche di alta qualità su campioni di popolazione e attente valutazioni scientifiche, dimostra di avere i migliori risultati disponibili della ricerca, tanto da rappresentare una guida nel processo decisionale clinico, nelle fasi diagnostiche o di gestione del paziente.
Per quanto riguarda i disturbi dell’alimentazione, negli ultimi anni sono stati sviluppati e valutati alcuni trattamenti la cui efficacia è stata confermata da rigorosi studi controllati e randomizzati. I trattamenti più efficaci sono di natura psicologica e sono stati progettati principalmente per essere somministrati a livello ambulatoriale.

Negli adulti affetti da bulimia nervosa, la terapia cognitivo-comportamentale migliorata (CBT-E) ha dimostrato in due studi controllati, recentemente pubblicati, di essere più efficace della terapia interpersonale (IPT) e della psicoterapia psicoanalitica.
Il disturbo da binge-eating sembra rispondere bene a una varietà di interventi psicologici, tra cui un adattamento della CBT per la bulimia nervosa, la IPT e l’auto-aiuto guidato.

Pochi studi sono disponibili per il trattamento degli adulti con anoressia nervosa e i trattamenti che hanno un certo grado di supporto empirico sono la CBT-E, la psicoterapia psicodinamica focale, il Maudsley Model of Treatment for Adults with Anorexia Nervosa (MANTRA) e lo Specialist Supportive Clinical Management (SSCM), una combinazione di intervento educativo, gestione clinica generale e psicoterapia supportiva.
Nei pazienti più giovani la ricerca si è focalizzata soprattutto sull’anoressia nervosa. Il solo intervento disponibile con moderata evidenza di efficacia è il trattamento basato sulla famiglia (FBT), conosciuto anche come il “Metodo Maudsley”, che determina una remissione piena attorno al 50% dei casi.

La CBT-E, ha recentemente ottenuto risultati promettenti nel trattamento degli adolescenti affetti da anoressia nervosa e appare un candidato alternativo alla FBT, come recentemente raccomandato dal Chief Medical Officer Inglese. Infine la CBT-E ha dimostrato buoni risultati anche nel trattamento degli adolescenti con disturbi dell’alimentazione non sottopeso, come la bulimia nervosa o il disturbo da binge-eating, con un tasso di risposta oltre il 67%.

Sebbene siano fruibili vari trattamenti psicologici evidence-based per i disturbi dell’alimentazione, i corsi master e di perfezionamento, come pure le scuole di psicoterapia, raramente forniscono una formazione specialistica su queste forme di terapia. Come conseguenze negative, in Italia i clinici trovano poche opportunità per apprendere questi trattamenti psicologici e la maggior parte dei pazienti affetti da disturbi dell’alimentazione riceve interventi non basati sull’evidenza.

Per far fronte a questo problema è stato progettato e implementato in Italia un master (il First Certificate of Professional Training in Eating Disorders and Obesity) che fornisce una formazione specifica e intensiva sulla CBT-E, e sono stati recentemente organizzati seminari di più giorni sulla CBT-E e sulla FBT. Purtroppo, sebbene questi training siano molto apprezzati e frequentati, non sono sufficienti. Da una parte, il master non risolve completamente il problema della disseminazione globale di questi trattamenti, perché può essere offerto ogni anno solo a un numero limitato di terapeuti, dall’altra i seminari di uno o più giorni possono solo introdurre il trattamento psicologico evidence-based, ma non sono in grado di sviluppare nei partecipanti le abilità necessarie per applicarlo in modo efficace.

Una potenziale strategia per superare l’ostacolo della disseminazione su scala globale è rappresentata dal cosiddetto web-centred training, che permette di formare un grande numero di terapeuti simultaneamente. Questa innovativa modalità di formazione è in fase di valutazione presso il centro CREDO dell’Università di Oxford. Il training in lingua inglese è gratuito e viene effettuato tramite un sito web che descrive e illustra la CBT-E in dettaglio e incorpora alcune attività didattiche che aiutano gli allievi ad apprendere le procedure principali del trattamento e le abilità necessarie per somministrarlo. Il centro CREDO ha anche sviluppato una misura standardizzata per valutare la competenza del terapeuta nell’uso della CBT-E. Il vantaggio principale del web-centred training consiste nella sua scalabilità, ovvero nella possibilità di formare un numero indefinito di terapeuti in tutto il mondo a basso costo, fornendo le conoscenze e competenze necessarie per implementare adeguatamente il trattamento. Lo svantaggio, è la mancanza del contatto diretto tra docente e allievo che può limitare lo sviluppo dell’entusiasmo e della curiosità nei discenti e far dipendere il processo di apprendimento interamente dal livello di motivazione del singolo allievo.

Negli ultimi anni molti sono stati i passi avanti nella disseminazione dei trattamenti basati sull’evidenza scientifica, ma tanti ne devono essere ancora fatti. Dare ad ogni paziente la possibilità di ricevere il miglior trattamento possibile rimane, ad oggi, una delle più grandi sfide che i ricercatori clinici si trovano ad affrontare.

Come venivano trattati i bambini nelle culture precedenti? La ricerca in ambito forense può fornirci la risposta!

Alcuni esperti di medicina legale della North Carolina State University, hanno recentemente pubblicato una guida su come la ricerca dell’analisi forense su bambini vittime di abusi può essere utilizzata per far luce su come questi venivano trattati nelle culture precedenti.

Tra i diversi lavori svolti dagli antropologi-biologi, c’è anche quello di osservare i resti scheletrici di culture passate, al fine di conoscere come vivevano le precedenti popolazioni. Gli antropologi forensi, invece, lavorano con le moderne Forze dell’Ordine per decifrare le prove scheletriche presenti, con lo scopo di risolvere crimini. Grazie a queste figure, numerosi abusi sui minori (fisici, emotivi, sessuali e di abbandono) sono stati documentati nel corso della storia. Tuttavia, prima della metà del Novecento, le lesioni inflitte ai bambini sono state spesso, se non quasi sempre trascurate, probabilmente perché in passato i bambini venivano spesso visti come una proprietà.

A partire da queste premesse, alcuni esperti di medicina legale della North Carolina State University, hanno recentemente pubblicato una guida su come la ricerca dell’analisi forense su bambini vittime di abusi può essere utilizzata per far luce su come questi venivano trattati nelle culture precedenti.

[blockquote style=”1″]Purtroppo, abbiamo un sacco di esperienza nello studio dei resti scheletrici di bambini in indagini penali per determinare come sono stati trattati e come sono morti[/blockquote] dice Ann Ross, professore di antropologia alla NC State. [blockquote style=”1″]Attualmente utilizziamo le informazioni che abbiamo ottenuto dalle popolazioni moderne, così da poter approfondire il comportamento delle popolazioni storiche e preistoriche, in particolare in materia di lavoro minorile, di pedofilia e di omicidio del bambino.[/blockquote]

Come prima cosa è importante tenere a mente che i bambini non sono solo piccoli adulti, infatti lo scheletro di un bambino è molto diverso da quello di un adulto. Infatti nel loro documento, i ricercatori attingono a decenni di ricerca per spiegare come la biomeccanica e la guarigione degli scheletri dei bambini cambiano a seconda dell’età del bambino.
All’interno del loro documento, i ricercatori hanno posto particolare attenzione al modo in cui gli antropologi distinguono le lesioni accidentali da quelle intenzionali sui bambini. Questo perché, come afferma Ross [blockquote style=”1″]Alcune combinazioni di lesioni sono altamente indicative di abuso, come ad esempio fratture costali multiple a diversi stadi di guarigione.[/blockquote]

Ross e collaboratori, sottolineano infine quanto sia difficile interpretare le prove scheletriche, in quanto spesso può capitare che un abuso apparentemente fisico possa rivelarsi un caso di abbandono di minori. Come afferma Ross [blockquote style=”1″]Questo tipo di negligenza, o assenza di cura, è comunque un abuso, ma per noi è importante, in un contesto penale, capire cosa è successo. È indispensabile capire queste differenze, se vogliamo conoscere meglio il comportamento delle società e delle culture precedenti.[/blockquote]

Pertanto l’obiettivo finale è quello di fornire una serie di metodi clinici ad antropologi biologi e forensi così da poterli aiutare a interpretare i resti scheletrici basandosi sui migliori dati scientifici.

Prevenire o promuovere? E le conseguenze per gli scopi esistenziali

Gli individui con un atteggiamento promozionale tendono alla crescita, allo sviluppo, all’accrescimento. All’esatto opposto sono quelli motivati da un atteggiamento di prevenzione che badano soprattutto alla protezione, alla sicurezza e a ripararsi piuttosto che esporsi.

CIOTTOLI DI PSICOPATOLOGIA GENERALE (RUBRICA) – LEGGI L’INTRODUZIONE

Ritengo tale meccanismo talmente centrale nella patogenesi dei disturbi mentali e la sua risoluzione così centrale in ogni terapia che già vi avevo dedicato una delle ‘Tribolazioni‘ ovvero ‘Inseguire o fuggire‘ ma nel frattempo, grazie a molti stimoli diversi, letture, discussioni, apparizioni soprannaturali mi si è chiarito ancora di più.

Si tratta di due atteggiamenti, propensioni, attitudini (trovate il termine che vi aggrada di più, per me ci siamo capiti) che caratterizzano gli esseri umani e in particolare le loro motivazioni.

 

Atteggiamento promozionale

Gli individui con un atteggiamento promozionale tendono alla crescita, allo sviluppo, all’accrescimento (a Roma si direbbe che si allargano o che sono ingordi di vita, esperienze, emozioni e sembra non bastargli mai, e non andate a parlargli di decrescita felice). La loro percezione è orientata a cogliere le novità ed a leggerle come opportunità. Sono attenti soprattutto alle possibilità di guadagno. In caso di successo l’emozione è la gioia e l’euforia, mentre in caso di fallimento tristezza e sconforto. Queste sono anche le emozioni che contano per loro, a cui badano, e diventano a loro volta motivazioni in sé. Sono naturalmente portati all’esplorazione, ad allargare il campo e predisposti all’azzardo accettano di correre rischi pur di perseguire vantaggi.

Temono soprattutto errori di omissione (non aver fatto) e vogliono a tutti i costi evitare i rimpianti anche a costo di avere poi qualche rimorso che trovano più tollerabile. E’ evidente che sono questi gli individui che guidano il progresso dell’umanità (sono esploratori, ricercatori, innovatori in ogni campo) che fanno da apripista, talvolta a costo della vita e dunque il vantaggio evolutivo di un tale atteggiamento è lampante.

Poiché però tale vantaggio è soprattutto per la comunità mentre gli eventuali costi (la pellaccia appunto) sono individuali verrebbe da dire che sono fondamentalmente altruisti, ma non lo farò. Intanto perché ciò non è affatto rappresentato nella loro mente. Poi perché qualsiasi aspetto valutativo, peggio ancora se di sapore morale, esula da questo tentativo che semplicemente descrive, con fallite ambizioni esplicative, modi diversi di funzionare. Sono motivati da obiettivi e ideali a lungo termine, che a volte li trascendono e che vivono come guadagni da perseguire e come un valore lo stesso perseguimento. Mi sembra invece di poter affermare, rimanendo nel mio, due cose.

Questa modalità di funzionamento che, come praticamente tutto, si struttura sia per una predisposizione genetica temperamentale (Cloninger non li chiamava ‘novelty seeking’?) che impatta con un ambiente infantile che può rinforzarla o meno, organizza l’esistenza intorno a degli scopi, ovvero stati del mondo e/o di sé desiderati e dunque da perseguire. Credo infine che siano i soggetti con atteggiamento promozionale ad essere più esposti alle oscillazioni dell’umore in senso euforia/tristezza caratteristica dei disturbi dell’umore (questo potrebbe essere un aspetto da approfondire).

 

Atteggiamento di prevenzione

All’esatto opposto sono quelli motivati da un atteggiamento di prevenzione che badano soprattutto alla protezione, alla sicurezza e a ripararsi piuttosto che esporsi.

A livello percettivo scannerizzano la realtà alla ricerca di possibili pericoli e minacce. Sono concentrati sulle perdite piuttosto che sui possibili guadagni. Se hanno successo sperimentano tranquillità e abbassamento dell’arousal mentre il fallimento reale o previsto scatena emozioni di ansia e di paura. Sono naturalmente dei conservatori ed il vantaggio evolutivo di un simile atteggiamento consiste nella conservazione e valorizzazione dell’esperienza passata da trasmettere alle nuove generazioni e nella prevenzione dai pericoli con aumento della sopravvivenza e della stessa prole. A livello temperamentale appartengono al gruppo che Cloninger chiama ‘harm avoidance’.

Più attenti alle perdite che vedono come una minaccia alla sicurezza raggiunta, temono maggiormente gli errori di commissione che di omissione (nel dubbio meglio lasciare le cose come sono state finora). Piuttosto che da ideali a lungo termine sono guidati da obblighi e doveri a breve termine che sperimentano come pesanti regole di sicurezza.

Sono iperprudenti, restringono il campo e preferiscono di gran lunga l’evitamento all’esplorazione. A mio avviso da questo atteggiamento di prevenzione ha origine il tronco unitario dei disturbi di personalità del vecchio cluster C e tutti i disturbi d’ansia di asse I°.

 

Atteggiamento promozionale e di prevenzione e le corrispondenze sugli assetti emotivi

Voglio far notare come a ciascuno dei due opposti orientamenti motivazionali corrisponda un attitudine percettiva che finisce per essere confirmatoria ed un conseguente assetto emotivo che nella normalità funge anch’esso come motivante interno e auto mantenimento e all’estremo delinea i due grandi scenari dei disturbi dell’umore (promozione) e dei disturbi d’ansia (prevenzione).

Chiarito che non c’è un modo migliore in assoluto di funzionare e semmai la salute sta nel poter transitare da uno all’altro a seconda delle circostanze ambientali e delle fasi esistenziali riprendo un brano dalle mie “tribolazioni” per argomentare come perseguire uno scopo in positivo o fuggire il suo opposto non sia, come potrebbe sembrare all’apparenza, la stessa cosa.

Invece non è uguale perseguire A o fuggire non-A. O meglio, per liberarci dei simboli alfanumerici, che voler essere ricco equivalga a non voler essere povero. In realtà non è affatto così. Ciò per varie ragioni:

  1. Lo scopo di essere ricco può essere perseguito in alcuni momenti e accantonato in altri in cui si ritenga più importante e/o più facile o utile perseguire altri scopi. Al contrario se l’essere povero è vissuto come una tragedia definitiva e senza appello dopo la quale non ci sarebbe null’altro, il fuggire da tale pericolo non può mai essere accantonato. Ha sempre una priorità assoluta e non graduabile. Formulare uno stato temuto piuttosto che uno stato desiderato fa si che esso monopolizzi tutto il sistema e tiranneggi tutti gli altri scopi esistenziali rispetto ai quali diventa una condizione propedeutica senza limiti di spesa di risorse.
  2. Ancora, se lo scopo è quello di essere ricco posso avere degli indicatori di raggiungimento parziale (ad esempio il numero di zeri del conto in banca o il valore degli immobili posseduti) che generano emozioni positive e contemporaneamente riducono l’urgenza di puntare tutto su tale perseguimento liberando risorse per altri impieghi. Al contrario se il timore è quello di diventare poveri come posso mai essere al sicuro? Nessuna ricchezza garantisce dalla possibile improvvisa perdita di tutto per eventi catastrofici. Un buon tracciato elettrocardiografico è un segnale di buona salute in quel momento ma predice molto poco sulla possibilità di morire di lì a pochi minuti per le cause più varie. Dunque uno scopo espresso in negativo con il suo opposto non è mai definitivamente raggiunto e resta sempre attivo a segnalare un possibile pericolo. Non si può mai abbassare la guardia, con i costi che ciò comporta, perché non c’è alcuna garanzia che ciò che non è mai avvenuto non avvenga da un momento all’altro.
  3. Inoltre la graduabilità di uno scopo espresso in negativo è molto più difficile. Si può facilmente stabilire chi sia più ricco tra due o più persone, così come si può stabilire se si è più ricchi di tre anni prima. Ma non è altrettanto facile stabilire tra più persone non chi sia meno povero (in quanto si potrebbero usare gli stessi criteri precedenti), quanto piuttosto (si faccia attenzione alla differenza) chi sia più certamente sicuro di non precipitare in povertà.

 

I pericoli degli scopi esistenziali espressi in negativo

In conclusione, uno scopo espresso in negativo è malamente graduabile, mai raggiunto definitivamente, sempre attivo. Perciò genera ricorrenti valutazioni di precarietà associate ad emozioni di allarme e monopolizza tutte le risorse del sistema trasformando in casi estremi un sistema a scopi terminali multipli e positivi in un sistema guidato da un solo anti-scopo negativo.

Riepilogando:

  • La polarità opposta dello stato desiderato S’ oltreché non desiderata è praticamente sconosciuta
  • Lo scopo S’ è formulato come antiS’
  • AntiS” non è graduabile
  • AntiS” è sempre attivo
  • AntiS” genera un continuo stato di allarme
  • AntiS” diventa precondizione di tutti gli altri scopi.
  • AntiS” diventa l’unico scopo del sistema che si impoverisce.

Il mondo della fuga è totalmente diverso da quello del perseguimento. Nella fuga non si inseguono successi ma si cerca di evitare i fallimenti, i rovesci. Si fantasticano inorridendo tutti i dirupi in cui si può sprofondare ad ogni disattento passo: diventare poveri e non avere di che mangiare, essere deriso e disprezzato da tutti, finire solo e abbandonato. Nel caso si cerchi di evitare i dirupi il cammino non sarà spedito. Non si sa bene dove essi siano. Sono molteplici e nascosti. Il fatto di averli evitati fino a quel momento non da garanzia che il prossimo passo non precipiti giù ponendo fine a tutto. L’incedere è dunque incerto, il senso di minaccia sempre presente.

Da un punto di vista clinico credo che occorra valutare insieme al paziente costi e benefici della sua strategia privilegiata che sia quella promozionale più spesso tipica dei disturbi dell’umore o quella preventiva, pervasiva nei disturbi d’ansia e aiutarlo ad appropriarsi anche dell’altra modalità in modo che possa scegliere e cambiare senza essere costretto dalla mancanza di alternative.

 

RUBRICA CIOTTOLI DI PSICOPATOLOGIA GENERALE

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