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Burnout: Freelancer do it different!

Il contesto lavorativo e sociale sta cambiando, questo porta con sé sfide nuove e molto diverse da quelle in cui si adoperano lavoratori assunti che occupano il famoso posto fisso.

Si valuta che nel 2020 il 50% della forza lavoro negli USA sarà costituita da liberi professionisti. Se ci guardiamo indietro, invece, nel 1995 solo il 10% dei lavoratori americani era freelancer, non assunto. Cosa significa freelancer? Freelancer è un lanciatore libero, un soldato libero insomma, che combatte la sua battaglia senza un’azienda di riferimento. Nei secoli scorsi si sarebbe detto mercenario, assoldato da un diverso committente ogni volta, che non risponde a nessuno se non a se stesso e alle proprie scelte.

Il contesto lavorativo e sociale sta cambiando, quindi, e questo porta con sé nuove sfide che anche intuitivamente possiamo immaginare molto diverse da quelle in cui si adoperano lavoratori assunti che occupano il famoso posto fisso.

Il burnout, invece, è una sindrome psicologica riferita al soggetto-lavoratore che letteralmente descrive il suo bruciarsi, il fatto di mettere a rischio la propria salute psicologica a causa di un contesto lavorativo invalidante per diverse ragioni (modalità di leadership, richieste dell’ambiente, difficoltà interpersonali con i colleghi, ansia e stress).

Parliamo quindi di una sindrome che può connotarsi con diverse caratteristiche, ma che prende ossigeno dal contesto lavorativo. Va da sé che se il contesto lavorativo è in così grande cambiamento e fermento, sarà da rivedere anche tutta la psicopatologia che ad esso si riferisce. Un recente studio dell’Australian Institute of Business, ad opera della dottoressa Barclay, ha identificato un particolare tipo di burnout, da riferirsi ai lavoratori liberi professionisti che quindi non possono contare su un contratto di dipendenza e sulle garanzie (e i vincoli) che questo comporta.

La ricerca ha compreso una fase bibliografica iniziale di analisi degli studi precedenti, sottolineando la mancanza di letteratura inerente la particolare situazione lavorativa dei freelancer, una raccolta dati attraverso questionari e infine la conduzione di interviste approfondite di un’ora circa ciascuna, interpellando lo stesso campione che aveva risposto ai questionari nella fase precedente.

Da un’analisi qualitativa delle interviste raccolte sono emersi alcuni fattori cruciali nella descrizione da parte dei liberi professionisti della loro sintomatologia legata al burnout. Il primo fattore è il sonno: si va da una generale fatica a spegnere l’interruttore e prendere sonno, alla sensazione di dormire sempre e comunque troppo poco, fino a un pattern intermittente, in cui a un paio di ore di sonno si alternano un paio di ore di veglia.

Il secondo fattore è costituito da tempo e controllo, ma in un senso positivo: la prima ragione per cui gli intervistati hanno deciso di diventare lavoratori autonomi non è il guadagno economico, ma la possibilità di gestire in modo indipendente e flessibile il proprio tempo; di conseguenza, le risposte alle interviste hanno evidenziato un maggiore senso di agency e una maggiore percezione di significato personale che deriva dall’avere il controllo del proprio programma lavorativo.

Un terzo fattore è costituito dallo stress e dalla pressione: mentre gli intervistati hanno fatto fatica a identificare una precisa fonte di stress, hanno definito bene quale fosse la principale area su cui questo si ripercuoteva: la relazione di coppia.

Il quarto fattore è relativo al supporto e all’isolamento, anche in questo caso in un senso positivo: la maggior parte dei freelancer percepiva una buona dose di sostegno e di persone o enti a cui chiedere un supporto e ha riportato la sensazione di isolamento come difficoltà tipica del passato lavoro da dipendente.

Infine, l’ultimo fattore degno di nota ha a che fare con la personalità introversa o estroversa dei rispondenti: mentre i soggetti che si definivano come introversi, coerentemente, hanno anche specificato di preferire lavorare da soli, gli estroversi erano per lo più alla ricerca di partner in affari, o al massimo momentaneamente soli ma in transito da un partner all’altro.

I risultati dei dati raccolti hanno mostrato che i liberi professionisti hanno una percezione fondamentalmente diversa rispetto ai lavoratori dipendenti di alcuni costrutti cruciali per il rischio di burnout. Controllo, tempo, lavoro e supporto sociale. Ne deriva che anche la loro percezione del burnout e di cosa voglia dire bruciarsi lavorativamente parlando sia molto diversa rispetto alla concezione canonica che deriva dalla letteratura finora raccolta: di fronte a questa consapevolezza, anche le strategie gestionali o psicologiche utilizzate per prevenire e alleviare questa sindrome vanno riviste e adattate per questa particolare categoria di lavoratori.

Riassumendo, i dati raccolti dalla Barclay hanno rilevato tre tipi di sintomi relativi al burnout nei freelancer, che si scostano qualitativamente dal burnout rilevato nei dipendenti e riportato nella letteratura: sintomi fisici di esaurimento di risorse, con ricadute in particolare sul sistema immunitario e digerente; affaticamento cerebrale, caratterizzato da poca concentrazione, distraibilità, poca memoria e sensazione di essere mentalmente esausti; mancanza di sfida e iniziativa, con disinteresse nel proprio lavoro una volta raggiunta una soddisfacente stabilità economica.

Al contrario, le dimensioni tipiche identificate dalla letteratura e riferite in particolare al burnout nei lavoratori dipendenti hanno a che fare con l’affaticamento emotivo, la depersonalizzazione e un minore senso di autoefficacia.

Infine, la maggior parte dei soggetti intervistati riportava esperienze di burnout precedenti, nel periodo in cui lavoravano alle dipendenze di qualcun altro, e la carriera da freelancer in questo senso ha rappresentato più una cura a questo burnout, che non una causa.

La Barclay conclude la sua disamina con 5 suggerimenti con cui i freelancer possono prevenire il rischio di burnout:

  • Conoscere i propri segnali precoci rispetto al rischio di burnout (sia mentali che fisici)
  • Imparare a spegnere il cervello disconnettendolo dal lavoro e intervallando la produttività con l’inattività e il relax
  • Bilanciare il proprio lavoro per avere la possibilità di lavorare sia soli che in team
  • Definire compiti sulla base delle proprie energie mentali e delle proprie capacità cognitive, ma NON dell’urgenza
  • Assecondare i cicli di sonno veglia canonici, senza forzare la mano ai ritmi circadiani

Le radici comuni dell’ansia – Ciottoli di Psicopatologia Generale Nr. 4

L’ansia è tipicamente umana necessitando di un sistema cognitivo in grado di fare previsioni a medio e lungo termine. Per il breve termine e il presente immediato si parla di paura più legata al dato percettivo.

CIOTTOLI DI PSICOPATOLOGIA GENERALE (RUBRICA) – LEGGI L’INTRODUZIONE

 

L’ansia è tipicamente umana necessitando di un sistema cognitivo in grado di fare previsioni a medio e lungo termine. Per il breve termine e il presente immediato si parla di paura più legata al dato percettivo. I vari disturbi d’ansia si distinguono per la categoria di eventi che vengono temuti e, dunque in altre parole per lo scopo minacciato e sono invece identici per tre caratteristiche relative proprio all’evento temuto:

  • La sovrastima della sua probabilità
  • La sovrastima della sua gravità
  • La sovrastima della possibilità di controllo su di esso.

Trattandosi di tre errori di valutazioni probabilistiche si potrebbe dedurne che sarebbe utile più che una psicoterapia un corso di statistica. Purtroppo tali errori si fondano su specifici bias cognitivi in cui cadono anche esperti matematici in quanto eredità genetica, errori sistematici che si sono rivelati utili per salvare la pelle ai nostri antenati. Il compito che ci si può porre è quello di evidenziarli rendendoli consapevoli in modo da arginarne gli effetti e talvolta correggerli. Inoltre, come già proposto in altri ciottoli, utilizzarli biecamente a vantaggio del lavoro terapeutico.

Kahneman argomenta in modo scientificamente solidissimo (soprattutto pag 45 e pg 453 e seg.) come il comportamento umano sia il prodotto della collaborazione, non sempre facile, tra due modi di funzionare che chiama sistema 1 e sistema 2 e che per semplicità di esposizione chiamerò intuizione e raziocinio. In estrema sintesi possiamo dire che l’intuizione è automatica, intuitiva, rapida, efficiente, in genere guida l’azione e ci azzecca soprattutto per questioni che riguardano la sopravvivenza, distingue il normale dall’eccezione di fronte alla quale ne genera subito una interpretazione causale attraverso l’invenzione di una storia plausibile che fornisca soluzioni praticabili immediate.

Il raziocinio invece è il punto di vista da cui prendiamo decisioni, la voce narrante del nostro dialogo interno, ciò a cui ci riferiamo quando diciamo io, orienta volontariamente l’attenzione e corregge le proposte dell’intuizione. La sua attivazione è faticosa e comporta dispendio di energie.

Nel suggerire possibili tecniche è utile distinguere gli interventi sui primi due punti comuni da quelli sul terzo punto che è particolarmente presente nel DOC dove la sovrastima del possibile controllo sull’evento temuto genera un ulteriore circolo vizioso secondo cui se è possibile , è anche doveroso e colpevole non farlo che è esso stesso (essere colpevole) l’evento temuto dagli ossessivi. Partiamo proprio dai suggerimenti specifici per gli ossessivi. In loro è presente una sorta di ipertrofia funzionale del raziocinio. Il sistema 2, per non essere colpevole di negligenza, riesamina senza sosta i prodotti dell’intuizione e siccome non accetta margini di incertezza, non vuole lasciare la minima probabilità al dubbio, si impegna in un lavorio incessante che tuttavia assorbe molte risorse ed è incompatibile con altri lavori. Poiché l’autocontrollo volontario diminuisce necessariamente quando si è sotto sforzo mentale e persino fisico, in presenza di compulsioni impegnarsi in un qualsiasi lavoro fisico o mentale è di grande aiuto.

Ad esempio di fronte alle compulsioni covert può essere utile attivarsi in compiti come la progettazione di un evento o eseguire esercizi matematici a mente o anche giocare con l’immaginazione a sudoku o realmente a scassaquindici (sempre che ancora esistano quei quadratini di plastica per giocarvi). Ancora, siccome il sistema del raziocinio è attivo quando non ci sono emergenze in corso che decretano l’assoluta priorità dell’intuizione può essere utile esporsi, anche solo in immaginazione, a delle minacce. E’ un po’ come dire che di fronte a stringenti emergenze reali il rimuginio e il dubbio sono un lusso che non ci si può permettere. Non si ha notizia di alcun ossessivo perito in un incendio perché attardatosi a mettere in ordine o a rilavarsi le mani (personalmente ho descritto il caso di un gravissimo ossessivo guarito in seguito all’incendio del suo negozio con un danno di 3 milioni di euro che attribuì a me, ma questa è un’altra storia).

Viene anche in mente il modo adeguato con cui gli ipocondriaci, anche gravi, fronteggiano malattie reali. Certamente però non possiamo trasformarci in piromani o untori per guarire i nostri pazienti. Un potente sostegno ai vissuti di responsabilità e di colpa sono l’insieme dei bias che ci fanno da un lato sovrastimare la causalità e dall’altro sottostimare il caso e la fortuna. Il vissuto di impotenza che si sperimenta nello scoprire l’importanza del caso e del fortuito e dunque la scarsa influenza che abbiamo nel determinare l’andamento delle cose, è un vero sollievo per l’ossessivo che in effetti mostra una riduzione sintomatologica nelle situazioni manifestamente al di fuori del suo controllo.

Per convincerlo di ciò, è importante che comprenda a fondo il concetto di regressione verso la media (effetto su cui anche i terapeuti dovrebbero riflettere prima di prendersi i meriti dei miglioramenti o le colpe dei peggioramenti). In realtà la maggior parte delle cose avviene fuori da ogni nostro controllo. A tal proposito può essere utile costruire in seduta una torta delle cause (cosa diversa dalla torta delle probabilità che riguarda invece gli esiti) in cui il terapeuta imponga la presenza di una porzione denominata caso e ne fornisca diversi esempi prima di farne stimare al paziente il peso percentuale.

Altrettanto si può far narrare una storia al paziente che anticipi gli eventi futuri che appariranno lineari e quasi necessari per poi suggerire una serie di accadimenti positivi e negativi che potrebbero drasticamente alterare il corso previsto delle cose. A tal fine si possono anche ricordare una lunga serie di eventi storici assolutamente non previsti che hanno deviato l’andamento che il buon senso suggeriva e si può chiedere al paziente di andare a ricercare simili evenienze nella vita sua o della propria famiglia. Anche la storia famigliare più banale è costellata da eventi (lutti, fallimenti, incontri, malattie, vincite, opportunità) che hanno rappresentato punti di svolta.

Tornando proprio ai suoi specifici temi ossessivi per i quali chiede continue e mai sufficienti rassicurazioni si può, al contrario, con un pizzico di sadismo, suggerirgli tutta una serie di fatti possibili che vanificherebbero le sue strategie di prevenzione allo scopo di spingerlo verso l’accettazione del rischio per il semplice motivo che non può essere altrimenti. Se da un lato lo si guida per mano verso l’evento temuto (per convincerlo che non è in suo potere e dunque dovere prevenirlo) si tratta poi, una volta giuntivi, di decatastrofizzarlo.

Ridimensionare la sovrastima della gravità dell’evento (che riguarda il secondo punto della nostra triade) è l’operazione decisiva in tutti i disturbi d’ansia. Decisamente più dell’intervento sulla sovrastima della probabilità (riguardante il primo punto) che resta comunque sul versante della rassicurazione e non può mai garantire che ciò che si teme non si verificherà davvero.

Ma come si fa a decatastrofizzare il mostro? Varie strategie sono utilizzabili a seconda dell’interlocutore. In primo luogo gran parte di ciò che stimiamo terribile è tale perché lo conosciamo poco e dunque altro non è che paura dell’ignoto. In questo caso si deve esplorare prima in immaginazione e poi anche concretamente le situazioni temute (la efficacissima tecnica dell’esposizione). Questa costruzione di scenari che sostituiscano il vuoto predittivo può essere aiutata dall’osservazione di altri soggetti che vivono quella realtà e di come se la cavano e dal ricordo di situazioni analoghe vissute in passato dal soggetto stesso. Altre volte il paziente ci dice che teme una certa cosa ‘proprio perché l’ha sperimentata ed è stata intollerabile‘.

Gli si può far notare che se è lì a raccontarvela evidentemente è riuscito a tollerarla, ma si rischia di scivolare in un braccio di ferro su ciò che è o meno tollerabile, e sulla qualità della vita. Semmai si possono sottolineare i costi quantunque diluiti del tentativo di azzerare il rischio di tale evenienza e della comunque sostanziale impossibilità. Più utile è mostrargli che quella esperienza non potrà ripetersi perché lui non è più lo stesso. Ad esempio condividono il nome ‘perdita e abbandono’ ma sono esperienze diverse l’essere lasciati con estranei in una colonia a cinque anni e/o rimanere orfano di entrambi i genitori nella fanciullezza, dall’essere mollato dalla fidanzata, per quanto gnocca, a trent’anni.

L’impatto emotivo è il prodotto dell’incontro tra un evento stressante e la vulnerabilità individuale che col tempo si modifica. Mi imbarazza ammetterlo ma è la versione ben detta del ‘ci si abitua a tutto‘. Insomma pur appartenendo alla stessa categoria i fatti non sono mai identici e bisogna evitare una over-inclusion per cui una stazione ferroviaria è assimilata ad una bara che viene calata nel gelido terreno (sempre di partenze e distacchi si tratta, mha!) e il soggetto stesso non è mai identico anche a motivo della precedente esperienza.

L’obiettivo del lavoro di decatastrofizzazione o, come preferisco definirlo con Jung, ‘costruzione dell’Ombra‘ deve mirare semplicemente a pensare all’evento come tollerabile ancorché sgradevole, non preferito e da evitare per quanto possibile.

Un ulteriore tecnica di decatastrofizzazione è quella che chiamo ‘frammentazione’. Il soggetto quando ci dice che una certa cosa è intollerabile spesso la immagina come una nebulosa indistinta dai confini incerti. Può essere molto utile con il laddering down cercare di fargli precisare esattamente quali aspetti concreti della faccenda ritenga inaffrontabili. Se ogni singolo elemento costitutivo viene valutato superabile perché la somma dovrebbe non esserlo?

Per personale esperienza suggerisco che quando una scalinata sembra inaffrontabile bisogna tralasciare l’insieme e concentrarsi su ogni singolo gradino. Fatto il primo il secondo diventa a sua volta il primo e fatto il novecentonovantanovesimo anche il millesimo sarà il primo. Fuor di metafora, cosa esattamente vuol dire essere soli e quale aspetto della solitudine è intollerabile? Si tratta di un vero e proprio lavoro di ridefinizione e ristrutturazione cognitiva.

Non posso esimermi dall’occuparmi del più scontato degli interventi ovvero quello sul primo punto della triade, la sovrastima della probabilità. Si tratta sostanzialmente della tanto richiesta rassicurazione. Non mi piace molto per vari motivi. E’ quello che già fanno parenti e amici quando dicono ‘vedrai che non succederà!‘, ‘ma a che vai a pensare!, è impossibile, non può succedere, non è mai capitato, ecc, ecc‘. A ben guardare contiene un fondo di falsità che potrebbe minare l’autorevolezza del terapeuta (come fa a garantire certe cose che magari esulano il suo campo?). Ostacola il lavoro di decatastrofizzazione e accettazione del rischio perché l’evento temuto continua ad essere escluso dal campo del possibile.

Crea una dipendenza dalla fonte di rassicurazione appesantendo la relazione. Di contro possiamo pensare che è giusto rendere consapevole il paziente degli errori di ragionamento che commette, si tratta pur sempre di bias che generano sofferenza, aiutandolo ad autocorregersi senza affidarsi all’autorevolezza di una fonte esterna. L’intuizione finalizzata alla sopravvivenza indirizza selettivamente l’attenzione e la memoria alla ricerca delle minacce. Più ne trova, più per il bias della disponibilità, sembra probabile l’evento temuto.

Il suggerimento non può essere semplicemente quello di distrarsi rinunciando alla mission stessa dell’intuizione. Occorre piuttosto concentrarsi su una lista di situazioni scoperte in seduta in cui l’evento temuto non si è verificato e gli esiti sono stati favorevoli. Ancora si può sfruttare l’effetto alone confirmatorio. Si tratta di arricchire le situazioni temute con valutazioni positive condensate in aggettivi (del resto persino un orologio rotto fa l’ora perfetta due volte al giorno: qualcosa di buono la si può sempre trovare) e poi partire da essi nel riportarle alla mente. La domanda iniziale è ‘proviamo a scoprire quel poco che ci potrebbe essere di buono o qualche piccolo vantaggio della situazione solitudine….. malattia invalidante…..povertà economica…..perdita del lavoro……ecc, ecc’ .

Di fronte ad una domanda complessa che richiederebbe attente e complesse valutazioni il sistema intuitivo per non restare senza soluzioni si affretta a tradurla in una più semplice. Ad esempio la domanda ‘Quanto Mario avrà successo nella vita?‘ A cui praticamente non c’è risposta viene tradotta in ‘Quanto è bravo oggi Mario?’ che ovviamente è tutt’altra cosa. Egualmente la domanda dell’ansioso ‘Quanto è probabile l’evento X?‘ diventa facilmente ‘Quanto temo l’evento X?‘ che ovviamente è tutt’altra faccenda e scambia la gravità per la probabilità.

Non è difficile insegnare il ragionamento sottostante il calcolo delle probabilità multiple per cui in una successione di eventi in cui ciascuno ne presuppone un altro, la probabilità dell’evento finale è il prodotto di tutte le probabilità dei passaggi precedenti e dunque, in genere, infinitesimale. Per fare un esempio. Se c’è il 50% di probabilità che nevichi e il 50% che la neve ghiacci e il 50% che io scivoli sul ghiaccio cadendo e il 50% che cadendo mi rompa una gamba provate a calcolare la probabilità della mia frattura. Non è il ricorrente 50% ma solo il 6,25% ed in genere per gli eventi temuti dagli ossessivi i passaggi sono molti molti di più.

Kaneman mostra come siamo molto più portati a ragionamenti induttivi che deduttivi per cui, soprattutto quando siamo preoccupati dalle minacce, non ci rassicurano molto le statistiche generali e restiamo concentrati su singoli casi confermatori. Per questo è importante l’uso in terapia di aneddoti positivi, meglio ancora se trovati direttamente dal paziente.

Infine lo strumento principe contro la sovrastima della probabilità che in condizioni di minaccia fa sovrastimare gli eventi rari è indubbiamente la torta delle probabilità in cui di fronte ad un elemento che fa temere l’approssimarsi dell’evento temuto fino a darlo per certo si chiede di elencare tutte le altre possibilità che potrebbero spiegarlo e poi si chiede di attribuire a ciascuno la probabilità tenendo conto delle cosiddette probabilità a priori, ovvero della sua evenienza nella popolazione generale

 

RUBRICA CIOTTOLI DI PSICOPATOLOGIA GENERALE

Invasione da Marte di Hadley Cantril (1940) – I grandi esperimenti di psicologia Nr. 3

#3: Invasione da Marte di Hadley Cantril (1940)
Vi presentiamo una serie di articoli relativi ai più grandi esperimenti in ambito sociologico e psicologico. Per fare ciò abbiamo cercato di risalire alle fonti originarie, ai primi articoli divulgati dagli autori. In questo modo sarà più facile vivere le loro scoperte a partire dalle loro stesse ipotesi e respirare un’aria in cui, liberi (purtroppo) da vincoli etici, tutto era possibile in nome della scienza.

L’esperimento

30 Ottobre 1938. Siamo negli Stati Uniti, è sera e la radio è sintonizzata sul canale CBS, danno della musica da ballo. Ad un tratto, la musica si interrompe e il presentatore prende parola.

[blockquote style=”1″]Signore e signori, vogliate scusare per l’interruzione del nostro programma di musica da ballo, ma ci è appena pervenuto uno speciale bollettino della Intercontinental Radio News. Alle 7:40, ora centrale, il professor Farrell dell’Osservatorio di Mount Jennings, Chicago, Illinois, ha rilevato diverse esplosioni di gas incandescente che si sono succedute a intervalli regolari sul pianeta Marte. Lo spettroscopio indica che si tratta di idrogeno e che si sta avvicinando verso la terra a enorme velocità. (…)[/blockquote]

In seguito a questo primo messaggio, riprende il programma musicale. Tuttavia, le interruzioni si ripetono e le notizie sono sempre più inquietanti. Ad un tratto, si sentono urla di persone terrorizzate. Dopo poco, gli studi della CBS vengono invasi dalla polizia e le trasmissioni vengono interrotte.
Il panico si è disseminato in tutta la nazione, in alcuni paesi la gente scende in strada, disperata, a chiedere aiuto, a mettersi in salvo, a cercare di riunirsi ai propri cari, per prepararsi all’invasione aliena. Circa un milione di persone prega, piange, cerca disperatamente un modo per fuggire alla morte per mano dei marziani.

La trasmissione radiofonica “Mercury Theatre on Air” è stata costruita per riproporre attraverso la radio grandi opere della letteratura, come il libro di Wells “La guerra dei mondi”, da cui vengono estratti i brani letti dal presentatore. Per rendere più accattivante il programma, si sceglie di leggere brani del romanzo fantascientifico interrompendo una finta trasmissione musicale. Chi non ha seguito l’inizio del programma non capisce cosa stia succedendo, chi l’ha seguito rimane perplesso, non capisce realmente cosa stia succedendo, chi non sta ascoltando la radio riceve notizie allarmanti da amici o parenti e in pochi minuti un’intera nazione viene assalita dal terrore di un’invasione.

Ascolta l’audio del programma della CBS:

Questo episodio di cronaca non nasce come esperimento scientifico, ma è chiaro a tutti che un fenomeno di tale portata va approfondito: non è forse mai successo che persone di ogni fascia di età e in ogni parte degli USA abbiano una reazione così intensa e impaurita come questa notte. Un gruppo di sociologi, guidati da Hadley Cantril, cerca di capire cosa sia successo tra la popolazione.

Il gruppo della Cantril si muove cercando di intervistare più persone possibili. Un tale fenomeno era imprevedibile, pertanto si cerca di raccogliere alcuni dati dalle persone rimaste shockate dalla trasmissione. Incontrano 135 persone, a cui fanno domande dettate dal buon senso, senza poter avere alcuna ipotesi da testare o strumenti da applicare.

La sig.ra Ferguson, del New Jersey, dice: [blockquote style=”1″]Sapevo che si trattava di qualcosa di terribile, ero terrorizzata, ma non sapevo cosa fosse. Ho sempre saputo che, quando sarebbe giunta la fine del mondo, tutto sarebbe stato così veloce da non accorgersene neanche. Perché mai Dio ci avrebbe avvertiti con queste notizie? Quando ci dissero che strada prendere, di salire sulle colline, e i bimbi cominciarono a piangere, tutta la famiglia decise di uscire. Prendemmo delle coperte, mia nipote volle prendere anche il gatto e il canarino. Eravamo davanti al garage quando il ragazzo dei vicini venne a dirci che si trattava di una finzione.[/blockquote]

Le domande dei sociologi

Questa e altre dichiarazioni simili hanno portato i sociologi a porsi due domande fondamentali:

Perché questa trasmissione ha spaventato così tanto la popolazione rispetto ad altri programmi di fantascienza?

Gli studiosi attribuiscono la responsabilità di una reazione così inaspettata alla qualità del prodotto radiofonico. Chiunque avesse per caso ascoltato quella trasmissione, seppur ben informato, si sarebbe chiesto almeno per un attimo cosa stesse realmente succedendo. Il realismo del programma ha infranto i metri di giudizio a cui la popolazione era abituata. La radio, strumento di comunicazione per eccellenza negli anni ’30 e ’40, non solo ha favorito la diffusione del messaggio, ma gli ha conferito una sorta di autorità. Il continuo riferimento ad autorità scientifiche e ad istituzioni governative, inoltre, ha rinforzato la credibilità del pericolo imminente, mentre il senso di smarrimento descritto dai finti testimoni oculari ha generato un clima di tensione e imprevedibilità.

Perché ha spaventato alcune persone e altre no?

Per rispondere a questa domanda, il team di sociologi divide gli ascoltatori in diverse categorie, in base alle reazioni descritte:
– Coloro che hanno continuato a cercare la coerenza interna del programma, certi che si trattasse di una finzione.
– Coloro che hanno cercato informazioni sull’evento al di fuori del programma, rendendosi conto che tale notizia non poteva essere trasmessa attraverso un solo canale, deducendo quindi che doveva trattarsi di una messinscena.
– Coloro che hanno cercato informazioni al di fuori del programma, ma hanno continuato a credere che si trattasse di un evento reale, perché troppo spaventati per accettare spiegazioni alternative o perché le modalità con cui cercavano altre informazioni era evidentemente inefficace.
– Coloro che non hanno neppure messo in discussione la veridicità della notizia.

Ciò che sembra aver creato e diffuso il panico in tale situazione viene ricondotto a una mancanza di giudizio critico, probabilmente dovuta a una forte attivazione emotiva. L’improvviso terrore ha impedito ad alcune categorie di ascoltatori di compiere le normali operazioni di verifica della notizia, accettata quindi quasi automaticamente come realtà. Vengono successivamente individuate alcune caratteristiche comuni a chi ha reagito alla trasmissione con panico e terrore: alta suggestionabilità, standard di giudizio inappropriati, insicurezza nelle proprie capacità interpretative o assenza di critica. Il momento storico è caratterizzato da un momento di crisi economica, che può aver alimentato sentimenti di insicurezza nella popolazione: è un decennio di eventi poco chiari, quasi inspiegabili e un’inspiegabile invasione aliena pare essere una reale probabilità, a cui non c’è via d’uscita. Di qui il panico collettivo.

Oggi sappiamo che l’attivazione emotiva può effettivamente interferire sulle nostre capacità cognitive, pensiamo ad esempio al mood congruity effect nel caso dell’accessibilità ai ricordi (Bower, Monteiro & Gilligan, 1978). Sicuramente i dati raccolti in occasione di questo evento hanno mostrato la necessità di un approfondimento della relazione tra pensieri e emozioni: cinquant’anni dopo questo studio, viene teorizzato il contagio emotivo (Hatfield, Cacioppo & Rapson, 1993).

Il nostro piccolo segreto (2015) di Franco Montanari – L’alzheimer e il rapporto tra madre e figlia

In un pomeriggio all’apparenza come tanti Marta e Rosa si riconoscono complici nonostante tutto. Un frammento di vita per due anime legate per sempre da qualcosa di molto più grande di un piccolo segreto.

 

Racconta la storia di una donna malata di Alzheimer, Marinella Manicardi, che riceve in casa una figlia che non riconosce quale tale ma con cui si instaura un sereno rapporto di complicità presentandosi ella come parrucchiera.

Si tratta di una decina di minuti di delicatezza nati dal racconto di vita vissuta di Elisa Iacobucci, che ha poi contribuito a scrivere il soggetto, che Montanaro riporta silenziosamente. Nel filmato, infatti, nulla è spiegato e la chiave interpretativa è affidata alla recitazione ed ai gesti. Alle immagini e al suono, che s’avvale d’una tecnica innovativa di particolare realismo. In questo caso non c’è nessuna provocazione. E non c’è nessuna didascalia che non sia il cercare di evocare dei sentimenti nello spettatore. Il linguaggio nuovo, per così dire, usato da Montanaro sta nell’aver lasciato parlare la realtà tingendola, attraverso le inquadrature e le espressioni, di poesia (Il Corriere della Sera)

 

 

Franco Montanaro ha collaborato con Ermanno Olmi e IpotesICinema di Bologna. Ha realizzato di recente a Bologna il cortometraggio a tematica sociale ”Il Nostro Piccolo Segreto”,
in concorso  ai David di Donatello 2015/16.

Il film narra la storia di vita vissuta del rapporto tra una madre affetta dal morbo di Alzheimer e sua figlia. Il cortometraggio è stato realizzato da un gruppo di 10 ragazzi/e senza scopo di lucro e vanta la partecipazione di Marinella Manicardi.

E’ attualmente visibile e votabile al concorso online fino al 29 Febbraio  http://www.cinemaitaliano.info/news/34313/cort-on-line-16-il-nostro-piccolo-segreto.html

La narrazione di un paziente sottoposto a trapianto cardiaco: temi e piani di vita semi-adattivi

Il presente articolo ha lo scopo di raccogliere in letteratura ciò che allo psicoterapeuta può essere utile conoscere quando all’attenzione clinica si presentano persone che chiedono un aiuto a seguito di un evento acuto che cambierà inevitabilmente molti aspetti della vita: il trapianto cardiaco.

Elisa Covini, Antonia Pierobon – OPEN SCHOOL Psicoterapia Clinica e Ricerca

 

Possiamo collocare all’interno della disciplina nota come psicologia della salute, l’insieme degli interventi di competenza dello psicologo nel percorso di ricovero delle persone affette da una malattia organica. Alcune condizioni cliniche (come ad esempio le malattie croniche) comportano nelle persone un forte cambiamento nello stile di vita, nelle relazioni, negli scopi che fino a quel momento potevano essere messi in discussione con più o meno flessibilità.

È proprio questa flessibilità, questa capacità di adattamento alle condizioni di vita che cambiano, che aiuta le persone a modificare gli schemi e a ricostruire un futuro adattandosi agli eventi ambientali (Dobbie et al., 2008, Pierobon et al., 2011).

Il presente articolo ha lo scopo di raccogliere in letteratura ciò che allo psicoterapeuta può essere utile conoscere quando all’attenzione clinica si presentano persone che chiedono un aiuto a seguito di un evento acuto che cambierà inevitabilmente molti aspetti della vita: il trapianto cardiaco. Entreremo quindi più in dettaglio in merito alle caratteristiche del trapianto cardiaco e presenteremo un caso clinico con lo scopo di esplicitare il lavoro terapeutico che ha permesso di organizzare in modo più funzionale piani di vita narrati in modo confuso, caotico e disorganizzato anche sul piano temporale.

 

L’intervento dello psicologo nei casi di trapianto cardiaco

Con il termine patologia cardiaca racchiudiamo una serie di condizioni cliniche che hanno caratteristiche, non solo mediche, ma anche psicologiche differenti. Nelle condizioni cliniche per le quali si richiede trapianto cardiaco, l’attività dello psicologo agisce su più livelli:

La diagnosi

L’attesa dell’intervento chirurgico

La gestione della convalescenza post-trapianto cardiaco.

Nelle prime due fasi descritte, il nostro intervento si basa su aspetti di accettazione della malattia cronica presente, di mantenimento dell’aderenza alle prescrizioni cliniche e di preparazione all’intervento. La fase del post-trapianto cardiaco implica elevate quote di stress e può condurre alla comparsa di aspetti psicopatologici, caratterizzati da sintomi ansiosi e depressivi specie nei pazienti di giovane età e con disturbi psichiatrici in anamnesi (Dew & DiMartini, 2005; Conway et al., 2013).

In particolare, si è stimato che la frequenza per diagnosi psichiatriche è del 12% per PTSD e del 41% per Depressione Maggiore dove, inoltre, la presenza di un episodio depressivo in anamnesi pre-trapianto è un fattore di rischio indipendente e significativo di neoplasie post-trapianto (Favaro et al., 2011). Altri studi invece più specificatamente hanno dimostrato come l’incidenza di Depressione Maggiore è del 15 % nel primo anno post-intervento e del 30% nei tre anni successivi al trapianto cardiaco (Zipfel et al., 2002; Owen et al., 2006). È inoltre utile tenere in considerazione quali sono i fattori che incrementano lo stress psicologico: in letteratura emergono l’utilizzo di strategie di coping passive, basso supporto sociale e carente senso di controllo (Dew&DiMartini, 2005).

 

Il modello LIBET applicato nei casi di trapianto cardiaco

La concettualizzazone del caso è sviluppata utilizzando il modello LIBET (Life themes and plansImplications of biasedBeliefs: Elicitation and Treatment, Sassaroli & Ruggiero, 2012). Innanzitutto consideriamo il ruolo che un evento significativo può avere in relazione ai piani di vita del paziente. Vale a dire l’insieme degli scopi che l’individuo persegue a lungo termine, che gli consentono di dare una direzione, un senso e un ordine alla sua vita, indaghiamo come questi si siano strutturati e comprendiamo come per un certo periodo abbiano aiutato la persona ad evitare di trovarsi nel luogo doloroso. Alcuni eventi di vita possono comportare la rottura del piano, specie se precario e se inflessibile: l’esperienza clinica ci suggerisce che il trapianto cardiaco può essere annoverato tra questi.

Nella fase post-trapianto cardiaco è utile valutare attentamente questi aspetti e indagare i piani di vita e ridefinire il sé dell’individuo, incrementando innanzitutto le risorse a disposizione. Infatti dalla letteratura emerge che per incrementare il benessere psicologico post-trapianto cardiaco sia utile potenziare le risorse quali la percezione di controllo sulla propria salute, l’ottimismo e il confronto con altri pazienti che condividono la medesima esperienza. È inoltre efficace sostenere il supporto sociale per facilitare il passaggio verso una nuova ritrovata indipendenza (Conway et al., 2013). Questo ci potrebbe condurre, nell’ottica del modello LIBET, ad intervenire favorendo la costruzione di piani di vita più funzionali in questa direzione.

 

Trapianto cardiaco: il caso di Roberto

Roberto ha 50 anni, è sposato e ha tre figli, ha lavorato come impiegato in un’azienda ed è appassionato di meccanica. È affetto da Cardiomiopatia Dilatativa da una decina d’anni. Nella fase successiva al trapianto cardiaco le aree di valutazione coinvolgono lo stato emotivo, i disturbi di rilevanza psichiatrica pregressi e attuali, l’aderenza alle prescrizioni cliniche, il ritorno a lavoro, la sfera sessuale (Sommaruga et al., 2003).

Al primo accesso al Servizio di Psicologia, presso la Fondazione Salvatore Maugeri, IRCCS, Istituto Scientifico di Montescano (PV), Roberto osserva gli operatori, non racconta molto di sé, evita il contatto visivo. Gli chiediamo di descriversi e scopriamo, attraverso la scrittura, buone capacità metacognitive ed il bisogno di raccontare il vero Roberto. Così inizia il percorso che, a pochi giorni dal trapianto cardiaco, lo porta a raccontare e raccontarsi ed emergono così i piani di vita che fino a quell’evento erano stati presenti nella vita di Roberto, piani che hanno comportato un costo emotivo e che hanno anche permesso di non accedere al tema di vita di tipo ansioso, che sottende un senso di inadeguatezza e fragilità.

Nel primo colloquio il paziente narra una storia familiare di perdita legata a numerosi lutti dovuti alla malattia cardiaca di origine genetica. Si è strutturato un progetto di intervento, finalizzato all’incremento del benessere psicologico per mezzo di una narrazione coerente di sé e della propria storia, che includesse due percorsi: il primo legato alle fasi di elaborazione del lutto (KublerRoss, 1976) o in questo caso di perdita di funzionalità legata alla malattia ingravescente (negazione-distacco/rabbia/contrattazione-patteggiamento/depressione/accettazione), il secondo focalizzato sul riconoscimento dei piani semiadattivi, su come questi si siano strutturati e su quali risorse poter attivare allo scopo di mettere in atto strategie più efficaci.

Decidiamo insieme a Roberto di lavorare sul riconoscimento del piano di vita controllante e ipercompensativo, appreso dai genitori, da piccolo. Il bisogno di tenersi in movimento e di non fermarsi davanti alle difficoltà l’ha spinto a fare sempre di più, a sfruttare il tempo a disposizione per aiutare gli altri e per dedicarsi alle sue passioni. È sempre stato un abile lavoratore e un amico sul quale poter contare, non ha mai fallito. Roberto si descrive come ‘spensierato, altruista e determinato‘ raccontando così lo sviluppo del piano: in età giovane Roberto era calmo tranquillo e socievole, amico di tutti. Lavora con voglia e intraprendenza per migliorare capacità e salario, ha hobby e sport di tutti i generi. Con la notizia della malattia cardiaca arriva la mazzata; nella vita di Roberto qualcosa inizia ad incrinarsi, inizia ad isolarsi, ad avvicinarsi a quel tema doloroso che fino ad allora aveva tenuto distante:

Non me la sento di dire che era una cosa che mi è appartenuta perché il mio isolarmi e il mio non lamentarmi erano funzionali a non far trapelare i miei stati di salute agli altri per non destare preoccupazioni o paure nei miei cari.

Roberto si descrive nel limbo perché la percezione interna permane consona allo stato di salute (Roberto sofferente), ma il paziente evita di manifestare all’esterno aspetti legati al tema per non per perdere il ruolo (Roberto isolato e freddo). Mantiene l’iperattività su un piano sociale e lavorativo e si isola dai propri e altrui bisogni affettivi con stati emotivi caratterizzati da tristezza, rabbia, distacco verso l’esterno. Osserviamo in questa fase la messa in atto di un piano prudenziale di evitamento. In questo limbo ci sono rari ma intensi episodi di irascibilità, nel momento in cui Roberto rabbioso non riesce a controllare la ribellione interna tra il vissuto e la negazione esterna di malattia.

Roberto distingue bene infatti quella che è la sofferenza psichica da quella fisica dicendo:

La sofferenza fisica ognuno di noi l’affronta in qualche modo, invece quella psichica può essere più difficile: il mio pensiero al riguardo è che se un individuo si lascia sopraffare, entra in una situazione pericolosa carica di incertezze.

Il percorso psicologico ha portato a raggiungere l’obiettivo prefissato: dare voce al dialogo interno di Roberto, a quello che diceva tra sé e sé e non faceva trapelare, ad una narrazione più coerente con la propria storia di vita. In termini più tecnici, l’intervento si è bastato sull’integrazione dell’approccio terapeutico cognitivo-comportamentale in ambito riabilitativo cardiologico  con il modello LIBET.

In particolare, accanto alla critica logica ed empirica delle credenze distorte si è aggiunta l’attenzione per gli stati ritenuti intollerabili del tema di vita e la pianificazione di un impegno a perseguire un piano di vita più funzionale. Molta attenzione è stata dedicata all’accoglimento validante delle emozioni del paziente e alla condivisione degli stati emotivi e dei pensieri che l’hanno accompagnato e lo accompagneranno in un momento di rottura e di rinascita della sua vita.

Elettori informati o elettori ingannati? Il voto può essere influenzato dalla voce o dalla statura del candidato

Secondo diversi studi spesso sono caratteristiche apparentemente superficiali e giudizi immediati ad influenzare le decisioni degli elettori.

Se domandassimo a un gruppo di amici statunitensi, che vivono in Iowa o nel New Hampshire, chi vogliono votare alle prossime elezioni presidenziali, tra Jeb Bush e Bernie Sanders, le risposte potrebbero essere non dissimili da queste: ‘Il più alto, quindi Jeb Bush!‘, oppure: ‘Bernie Sanders: ha una voce più profonda e il suo nome mi ricorda come ho chiamato da sempre il mio migliore amico!’

Per quanto queste affermazioni possano apparirci ridicole, non sono in realtà così diverse dalle modalità superficiali che il nostro cervello utilizza, talvolta, per prendere decisioni.

 

Il tono della voce nella scelta di un candidato

Casey Klofstad, professore associato di scienze politiche all’Università di Miami, ha studiato come fattori sociali e biologici influenzano i processi umani di decision making. Lo scorso anno, in collaborazione con la moglie, biologa, specializzata nel canto degli uccelli, ha realizzato uno studio in cui, durante la sessione sperimentale, i soggetti erano invitati ad ascoltare voci, femminili e maschili, modificate, che dicevano ‘Ti esorto a votare per me a Novembre!‘; dopo, i partecipanti erano chiamati a prendere parte a delle finte elezioni e i risultati finali mostrano come ci sia una preferenza, sia maschile che femminile, a scegliere i candidati con una voce più bassa.

Tali risultati sono un’ulteriore dimostrazione del fatto che, spesso, sono caratteristiche apparentemente superficiali e giudizi immediati ad influenzare le decisioni dei votanti.

 

L’altezza fisica, lo sguardo, le caratteristiche della fisionomia che influenzano le scelte di voto

Un’altra ricerca ha poi mostrato come la maggior parte dei presidenti americani abbia un’altezza superiore alla media e che i votanti tendano a scegliere i candidati più alti.

In uno studio del 2005, invece, lo psicologo Alexander Todorov presentò ai soggetti sperimentali le foto di due candidati e chiese di scegliere quello che sembrava loro più competente: più dei due terzi delle volte, il criterio di scelta dell’apparente competenza, da parte dei partecipanti, si basò sulla presenza di una mandibola squadrata o di uno sguardo intenso.

Inoltre vi è un effetto primacy ben documentato nelle votazioni: i candidati che sono elencati prima sulla scheda elettorale ottengono, in media, il 2,3% di voti in più, rispetto a quando sono elencati più in basso sulla stessa. In più, è stato riscontrato anche che avere un nome dal suono familiare aiuta il successo del candidato.

A questo punto la domanda sorge spontanea: perchè tutti questi ragionamenti superficiali? La spiegazione ha a che fare con i processi euristici di decisione o, più semplicemente, con le nostre scorciatoie mentali. Noi umani, infatti, abbiamo bisogno di usare il nostro cervello efficientemente e lo facciamo, riducendo la quantità di sforzo che passiamo a valutare ogni interazione, decisione o attività. Le euristiche ci aiutano a elaborare la mole di informazioni in cui ci imbattiamo ogni giorno; di conseguenza, prendiamo decisioni non spuntando faticosamente una lista di pro e contro, ma valutando le informazioni, o gli stimoli, che sono più facilmente disponibili.

Ci sono certamente casi in cui sono proprio le nostre scorciatoie o preconcetti a distorcere la verità e a farci cadere nei cosiddetti bias cognitivi. Ad esempio, la preferenza vocale per il tono descritta da Klofstad è piuttosto obsoleta: il tono della voce può infatti aiutarci a capire quale candidato abbia più testosterone, qualità che non equivale però necessariamente all’essere un leader migliore.

Le tre I degli elettori nella democrazia

Daniel Oppenheimer, professore di psicologia presso l’Università della California e co-autore di ‘Democracy Despite Itself’, sostiene che ci sono tre ‘I’ che uniscono gli elettori: ignoranza, irrazionalità e incompetenza. Egli afferma che, come votanti, non riflettiamo sulle nostre convinzioni cardinali per poi cercare il candidato che meglio le soddisfa, piuttosto facciamo spesso il contrario: scegliamo il candidato che ci piace, sulla base di indizi molto soggettivi e superficiali, e, successivamente, plasmiamo le nostre convinzioni per soddisfare le nostre preferenze.

La maggior parte delle persone non ha un’idea chiara dell’opinione dei candidati su molte questioni; ciò sta a significare che la corrispondenza degli ideali decantata non è spesso reale quanto supposta.

Con questo non si vuole denunciare che i processi euristici di decisione sono necessariamente sbagliati, anzi, spesso portano a buoni esiti e sono espressione di un vantaggio evolutivo conquistato. ‘Solo che a volte non lo sono’ dice Oppenheimer.

I bravi politici conoscono bene la superficialità con cui gli elettori prendono gran parte delle loro decisioni, e questo è il motivo per cui, durante la campagna elettorale, vengono spesi tanto tempo ed energia per elaborare un’immagine efficace del candidato: anche quelli che sembrano disordinati o senza copione agli occhi di un profano, stanno probabilmente calcolando come mostrarsi ai loro elettori.

Di fronte a tutte queste propensioni implicite, ciò che possiamo fare è provare consciamente a remare contro alcuni dei nostri istinti più basici, e quindi, quando decidiamo di votare per un candidato, chiederci perché ci piace e con che cosa siamo d’accordo rispetto a quello che rappresenta. Insomma, invece di negare il nostro grado di superficialità innato, provare ad abbracciarlo e guidarlo. Dopo tutto, siamo umani!

Burnout negli insegnanti: cos’è e quali trattamenti possono aiutare

Burnout negli insegnanti: Il burnout (dall’inglese “bruciato”) è una condizione di stress e logorio lavorativo protratto e intenso che determina perdita di interesse nella propria professione, svuotamento interiore e inefficienza nell’attività lavorativa. Colpisce frequentemente gli insegnanti, come dimostra una ricerca del 2002 condotta di Lodolo D’Oria e i suoi collaboratori per il Comune di Milano nel 1992/2001 che ha mostrato che, su oltre 3000 persone, le più colpite sono gli insegnanti.

Questo articolo è stato pubblicato da Giovanni Maria Ruggiero su Linkiesta il 6/02/2016

La figura dell’insegnante nella storia

Un tempo l’insegnante era un notabile della vita dei paesi che erano il nerbo della vita sociale italiana ed era chiamato professore. Insieme al medico e all’avvocato rivestiva il ruolo di una provinciale nobiltà di toga rispettata quanto quella di spada, rappresentata dal militare di carriera. Quando è iniziata la sua decadenza sociale? Dopo la seconda guerra mondiale, con il crollo dell’ultimo tentativo della civiltà militare di restaurare il proprio dominio sulla società, tentativo finito in una catastrofe apocalittica e in una mostruosa riproposizione del sacrificio umano tribale in una forma particolarmente cruenta e di massa.

Insieme al maresciallo, l’insegnante ha fatto una misera fine e oggi occupa un gradino più basso rispetto al medico e all’avvocato. Il suo mestiere lo isola dagli altri adulti e lo pone a contatto con un’orda di giovani individui carichi di ormoni e poveri di rispetto, condannandolo a un’eterna convivenza infantilizzante con ragazzoni e ragazzone che non riescono a tributargli l’antico timore gerarchico e al contempo non possono certo concedergli la magia di riaccoglierlo nella loro fatata giovinezza.

Il burnout negli insegnanti

A questo aggiungiamo uno stipendio insufficiente e un mestiere che rischia facilmente di essere ripetitivo e rutinario e il quadro del burnout già si presenta davanti a noi.
Il burnout (dall’inglese “bruciato”) è una condizione di stress e logorio lavorativo protratto e intenso che determina perdita di interesse nella propria professione, svuotamento interiore e inefficenza nell’attività lavorativa. Il burnout negli insegnanti è molto frequente, come dimostra una ricerca del 2002 condotta di Lodolo D’Oria e i suoi collaboratori per il Comune di Milano nel 1992/2001 che ha mostrato che, su oltre 3000 persone, le più colpite sono gli insegnanti.

Beninteso, il rischio non dipende solo dalla condizione esterna. Predispone l’individuo anche il suo carattere: l’eccessiva dedizione al sacrificio, il bisogno di affermazione attraverso il lavoro a discapito della vita privata, gli eterni e onnipresenti problemi familiari o relazionali e infine, quasi tautologicamente, la scarsa tolleranza dello stress.
Ma non dimentichiamo le mancanze organizzative: concorrono anche le classi numerose, la carenza di attrezzature, le eccessive pratiche burocratiche, la carenza di occasioni di aggiornamento, la limitata possibilità di carriera, la retribuzione insoddisfacente, e infine la precarietà. Proteggono invece l’appartenenza al sesso femminile, l’anzianità, il supporto dei colleghi e il riconoscimento del proprio lavoro da parte di superiori e utenti e anche di se stessi.

E non ci si consoli pensando che i tatti di una condizione relativamente semplice da studiare e sulla quale c’è già pieno accordo scientifico. Al contrario, la teoria clinica dice che esiste più di un burnout. Anzi, ce ne sono almeno tre. Il primo tipo di burnout colpisce chi lavora freneticamente per il successo fino all’esaurimento ed è quello di chi affronta lo stress lamentandosi della gerarchia organizzativa sul lavoro, con la sensazione che questa rappresenti un limite ai propri obiettivi e alle proprie ambizioni. Il secondo tipo di burnout nasce dalla noia e dalla mancanza di sviluppo personale ed è più strettamente associato a una strategia di evitamento. Questi lavoratori poco esigenti tendono a gestire lo stress prendendo sempre più le distanze dal lavoro fino ad approdare a un senso di spersonalizzazione e di cinismo. Infine l’ultimo tipo di burnout è il sottotipo esausto e sembra derivare da una strategia basata sulla rinuncia di fronte allo stress: anche se queste persone desiderano raggiungere un certo obiettivo, non riescono a trovare la motivazione necessaria a superare gli ostacoli per raggiungerlo.

Il trattamento del burnout negli insegnanti

L’aiuto migliore che una persona in stato di burnout può attendersi sono le cure psicologiche. Terapie di ristrutturazione cognitiva sono benvenute, con la loro focalizzazione sui pensieri più deprimenti. Il burnout negli insegnanti induce tipicamente a pensare che lo studente è ingrato e insensibile agli aiuti; non basta, pensa anche di essere abbandonato dall’istituzione, di non avere riconoscimento per i suoi sforzi.
Questo atteggiamento porta l’insegnante a sentirsi inutile e determina risposte aggressive che si alternano a disperazione e inutilità. L’obiettivo del trattamento cognitivo comportamentale è cambiare questo modo di pensare per ridurre l’intensità delle emozioni negative e creare un clima sereno e produttivo all’interno dell’ambiente lavorativo.

La meditazione è una pratica ampiamente usata per contrastare gli effetti di pensieri ed emozioni frustranti. Si raccomanda un tipo particolare di meditazione, la mindfulness, tecnica meditativa che si fonda sulla presa di coscienza (consapevolezza) delle sensazioni presenti che vengono accettate, senza giudizio, senza valutazioni, nel loro naturale fluire. Si impara a vivere nel presente, senza colpevolizzarsi per il passato né temendo il futuro, con benefici su molti disturbi emotivi e fisici, (Gilbert, 2005).

Per migliorare i rapporti con colleghi, superiori e allievi a scuola, è utile apprendere tecniche di assertività, abilità che serve a contrastare la tendenza alla passività e aggressività, apprendendo a rispondere a richieste eccessive con chiarezza, calma e salvaguardando il rapporto di fiducia con l’utenza e l’immagine lavorativa. La collaborazione con i colleghi è fondamentale per sfogare le proprie frustrazioni e preoccupazioni e diminuire il peso delle responsabilità. A questo fine il supporto dato da gruppi di sostegno con altre persone che vivono la stessa condizione di logoramento e la vicinanza dei familiari, evitano il sovraccarico di ansie e tiene lontani da comportamenti dannosi per sé e gli altri.

I disturbi alimentari: una patologia del controllo

Nel primo articolo di questa serie abbiamo introdotto il concetto di controllo. Il controllo non è soltanto un comportamento, ma prima ancora un’idea, un convincimento o, come si dice in gergo psicologico, una credenza. Per controllo s’intende la misura in cui abbiamo l’impressione di poter dominare gli eventi esterni sia le nostre emozioni. È la definizione più tautologica quella che meglio rende il suo significato: controllo è la convinzione che ogni cosa vada assolutamente tenuta sotto controllo.

MAGREZZA NON E’ BELLEZZA – I DISTURBI ALIMENTARI: una patologia del controllo (Nr. 2)

 

La credenza del controllo

Come tutte le credenze legate a uno stato di sofferenza emotiva, non si tratta di un obiettivo positivo: il controllo non è cercato per ottenere un beneficio, ma per evitare un danno. Insomma, c’è timore, ansia, non desiderio. Ed è qui che appare la natura del disagio.
Quale poi sia il danno temuto, rimane per lo più indefinito. Anzi, è tipico dello stato di sofferenza psicologica che i guai paventati dal soggetto rimangano in una sfera indefinita. Tuttavia, si può dire che siamo nell’ambito della realizzazione di sé e delle relazioni umane: il danno temuto è l’emarginazione, il senso d’inadeguatezza personale e sociale, insomma lo sforzo di maturazione che inevitabilmente attende la giovane donna all’uscita dai confini e dalle limitazioni della vita familiare.

Questo sforzo di maturazione richiede una grande flessibilità mentale. Il controllo, di per sé, non è un fatto negativo. Un certo grado di controllo della realtà è benvenuto. Per esempio, tutti noi cerchiamo di conservare un aspetto gradevole in vista di relazioni affettive e professionali soddisfacenti. Tutti noi ci impegniamo nello studio o nel lavoro per ottenere buoni risultati scolastici o professionali. Tutti noi cerchiamo di controllare la nostra vita lavorativa, sociale, relazionale e affettiva. Tuttavia, dobbiamo saper accettare che il controllo della realtà non può essere assoluto. Ce lo dice il buon senso. Una personalità matura e flessibile è in grado di accettare questo limite. O almeno dovrebbe esserlo.

In realtà, i dati della psicologia evidenziano che il percorso seguito dalla persona non sofferente di un disturbo emotivo è meno lineare. Per Langer (1975), il soggetto non sofferente è colui che è capace di accettare un livello di controllo relativo, e al tempo stesso – e in maggior misura- riesce a esperire uno stato di controllo illusorio superiore a quello che realmente possiede.
Al contrario, l’individuo sofferente è colui che non è capace di accettare il suo grado di controllo imperfetto (imperfezione in sé normale) ed è proprio per questa sua incapacità che è perennemente sopraffatto dall’impressione di non riuscire a governare né gli eventi né le sue stesse reazioni (Rapee et al. , 1996; Sassaroli et al. , 2008; Stapinski et al. , 2010). La non sofferenza, o almeno la minore sofferenza della persona non colpita da un disturbo psicologico, è quindi una singolare combinazione di maggiore flessibilità e maggiore capacità di illudersi, di immaginare un mondo più consono ai bisogni e alle debolezze individuali.

Naturalmente, questo è vero anche per altri tipi di sofferenza. Lo stato depressivo può essere in parte un cosiddetto errore cognitivo, una distorsione. Ma in esso si cela anche una maggiore verità. Secondo alcuni studiosi, infatti, è proprio nella depressione che si raggiunge una valutazione più realistica della propria importanza, brillantezza sociale e capacità personali (Alloy, Abramson, 1979; Dobson, Franche, 1989).

Il controllo nei disturbi alimentari

I disturbi alimentari diventano quindi simbolici non solo per l’ossessione verso il cibo o l’aspetto corporeo, ma più ancora per l’ossessione di controllare la realtà e l’ossessione per la perfezione nello sviluppo individuale e la centralità dell’autostima personale su cui fondare il proprio benessere. In forme differenti, l’angoscia di non riuscire a controllare la realtà, la tensione individuale a realizzarsi e svilupparsi, la centralità dell’amor proprio si ritrovano anche in altre epoche. Con amor proprio si indicava infatti in passato la moderna autostima. Certo, l’intonazione era diversa. Il termine autostima riflette la qualità quantificante ed economica della contemporaneità. Tuttavia, si possono individuare dei motivi comuni nel cambiamento storico delle idee. Lo vedremo nel prossimo articolo.

 

RUBRICA MAGREZZA NON E’ BELLEZZA – I DISTURBI ALIMENTARI

TRAC: “Trauma thRee country postrAumatiC”. Uno studio su PTSD, credenze e dissociazione

Un nuovo filone di ricerca (Peri et al., 2015) “neuroscience psychotherapy” indaga indici neurosensoriali e markers dissociativi in vittime di traumi ripetuti. I fattori culturali, inoltre, potrebbero assumere alcune implicazioni nella strutturazione e nell’espressione clinica del PTSD e nelle credenze associate ad esso. Per migliorare la comprensione dei meccanismi alla base del cambiamento psicoterapeutico, questo studio ha esaminato l’associazione tra cognizioni legati al trauma, dissociazione e memorie traumatiche.

Ciulli T., Mazzoni, G., La Mela, C., Nacasch N. 

Introduzione

La maggior parte delle persone sperimenteranno un evento traumatico durante la loro vita. Linee guida sono state sviluppate negli ultimi dieci anni in materia di trattamenti per il PTSD. Numerose ricerche empiriche supportano l’efficacia di terapie basate sull’esposizione al trauma quali, la Terapia Cognitivo-Comportamentale (CBT), compresa la versione manualizzata dell’Esposizione Prolungata (PE); Terapia Cognitiva (CT), la Terapia Cognitiva Processuale (CPT) e Eye Movement Desensitization and Reprocessing (EMDR). Tutti questi trattamenti seppur differenti, enfatizzano elementi quali emozioni, valutazioni e credenze relative alle memorie traumatiche.

Un nuovo filone di ricerca (Peri et al., 2015) “neuroscience psychotherapy” indaga indici neurosensoriali e markers dissociativi in vittime di traumi ripetuti. I fattori culturali, inoltre, potrebbero assumere alcune implicazioni nella strutturazione e nell’espressione clinica del PTSD e nelle credenze associate ad esso. Per migliorare la comprensione dei meccanismi alla base del cambiamento psicoterapeutico, questo studio ha esaminato l’associazione tra cognizioni legati al trauma, dissociazione e memorie traumatiche.

Metodo

A tre gruppi, Israeliano (N=39), Italiano (N=48) ed Americano (N=35), è stata somministrata la scala Post Traumatic Cognitions Inventory, la Dissociative Experience Scale e sono state raccolte informazioni riguardanti età e sesso.

Risultati

Non emerge nessuna differenza tra le medie delle scale DES e PTCI tra i sessi. Nei dati degli altri paesi, oltre a quelli Israeliani, emergono delle correlazioni positive tra le credenze negative sul mondo e dissociazione (Italia 0.291 p < 0.05 tra PTCI Negative World e DES; Stati Uniti 0.385 p < 0.05 tra PTCI Negative World e DES Funzionamento Dissociativo). Tra le culture sussiste una differenza significativa nei livelli delle scale DES.

Conclusioni

Questi risultati hanno importanti implicazioni per la progettazione e realizzazione di programmi di trattamento psicologico per vittime di traumi. Infine, data la globalizzazione delle nostre società (Schnyder, 2013), questa ricerca supporta l’idea che psicoterapeuti sensibili agli aspetti culturali possano cercare di comprendere le componenti culturali di un quadro clinico. Sono necessarie ulteriori ricerche per garantire interventi tarati sulla cultura specifica del paziente.

Malattie croniche e identità: una revisione della letteratura

Le malattie croniche si costituiscono sempre di più come una delle principali cause di invalidità e morte nella moderna civiltà Occidentale. Le malattie croniche appaiono avere anche un importante impatto psicologico, sia sull’individuo che ne è affetto, sia sul suo contesto sociale.

Giulia Borsari – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi Modena

Le malattie croniche si costituiscono sempre di più come una delle principali cause di invalidità e morte nella moderna civiltà Occidentale. In particolare, secondo il rapporto dell’OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità) del 2014, il 92% della mortalità in Italia è da attribuirsi a malattie croniche, in particolare a patologie cardiovascolari (37%) e tumori (29%). Grazie allo sviluppo tecnologico ed al progresso scientifico, inoltre, la mortalità è diminuita e malattie che fino a pochi anni fa erano considerate acute e letali oggi possono essere annoverate tra le malattie croniche (per esempio, l’HIV può oggi essere considerato una malattia cronica, grazie all’introduzione della terapia antiretrovirale, che rende meno probabile lo sviluppo dell’AIDS, mentre fino agli anni ’90 tale patologia era senza dubbio letale). Tuttavia, la probabilità di morte per malattia cronica tra i 30 e i 70 anni si attesta attorno al 10%, tanto che l’OMS parla di rischio di epidemia di malattie croniche.

 

Differenza tra malattie croniche e patologie acute

Tali patologie presentano caratteristiche peculiari che le differenziano dalle patologie acute. In particolare, nelle malattie croniche lo sviluppo è incerto e imprevedibile fin dal principio: i sintomi possono comparire all’improvviso, causando uno sconvolgimento nella quotidianità della persona, o gradualmente, passando per normali segni di invecchiamento fino a quando non causano un notevole grado di disagio e disabilità; molto spesso, poi, si verifica un’alternanza di periodi di relativo benessere e periodi di riacutizzazione dei sintomi e questo contribuisce al clima di incertezza e impossibilità a prevedere e controllare il decorso della patologia (e quindi la propria vita).

Inoltre, i trattamenti sono rivolti ad attenuare i sintomi o a rallentare lo sviluppo della patologia, piuttosto che alla guarigione, che non è un risultato persegibile e la malattia risulta quindi illimitata. È molto interessante notare il lessico stesso con cui si parla della cronicità: mentre nel caso di malattie acute è frequente il ricorso a metafore proprie del mondo della guerra, in cui è previsto un vincitore (si spera il paziente) ed un vinto (nel migliore dei casi la malattia) (per esempio, combattere la malattia, sconfiggerla), nel caso della malattia cronica si fa riferimento a metafore proprie del mondo del business (ad esempio: bisogna gestire la malattia, fronteggiare le difficoltà e sviluppare sistemi di supporto) (Scandlyn, 2000).

 

L’impatto sociale e psicologico delle malattie croniche

Considerando le caratteristiche delle malattie croniche è evidente la rilevanza dell’impatto che esse possono avere, sia per i singoli individui che ne sono affetti (e le loro famiglie), sia per i sistemi sanitari e la società. Tale impatto è senza dubbio economico in quanto tali condizioni riducono la produttività lavorativa a causa delle difficoltà fisiche e delle progressive disabilità che spesso comportano; inoltre, le spese mediche frequentemente prosciugano le risorse economiche del singolo. Negli Stati Uniti, per esempio, le spese dovute alle sole cardiopatie sono passate dai 298,2 miliardi di dollari del 2000 ai 351,8 miliardi di dollari del 2008 (Cittadinanzattiva, 2011).

Le malattie croniche, tuttavia, appaiono avere anche un importante impatto psicologico, sia sull’individuo che ne è affetto, sia sul suo contesto sociale. Infatti, le patologie croniche devono diventare parte della quotidianità del paziente e della sua famiglia, al fine di garantire una migliore gestione e la massima compliance con i trattamenti medici e le terapie farmacologiche spesso indispensabili. Numerosi studi hanno evidenziato la maggiore incidenza di disturbi d’ansia e dell’umore, fino ad un maggior rischio suicidario nei pazienti affetti da patologie croniche rispetto a campioni normativi (Ewan, Lowy, Reid, 1991; Siegel e Leaks, 2002; Nordenstrom, 2011).

In questi studi si sottolinea come spesso le patologie croniche comportino cambiamenti nella vita quotidiana del paziente che incidono in modo negativo sulla sua qualità di vita e su suo benessere percepito, indipendentemente dalle sue condizioni di salute. In particolare, risultano essere fattori importanti la perdita del lavoro (o la necessità di cambiare mansione, adattandosi ad un lavoro che non consente di sentirsi realizzati), la perdita del proprio ruolo sociale e familiare (ci si sente di dipendere dagli altri familiari e di essere un peso per loro, in quanto le attività dei congiunti e degli amici devono spesso cambiare per adattarsi alle necessità dell’individuo malato) e la perdita di controllo sul proprio corpo (da un lato la malattia permane nonostante le terapie atte a contenerla, dall’altro lato gli individui percepiscono di essere oggetto di cura, piuttosto che soggetti attivi e consapevoli di questo processo) (Trabucco, 1999; Sanders e Donovan, 2002; Ripamonti, 2010).

 

Malattie croniche e identità

Sembra pertanto plausibile ipotizzare che la continuità e la pervasività che caratterizzano la malattia cronica costringano coloro che ne sono affetti ad un processo di ridefinizione della propria identità personale (intesa come un senso generale di continuità e di valore di sé nel tempo e nello spazio – Breakwell, 1986) e sociale (intesa come l’insieme di sentimenti e caratteristiche che un individuo prova e si attribuisce nel considerare la propria appartenenza a specifici gruppi sociali – Tajfel, 1981). In particolare, tali patologie possono caratterizzarsi come un evento che porta ad una frattura biografica (bury, 1982), una crisi che l’individuo deve superare per proseguire nel percorso di costruzione dell’identità (Erikson, 19??) o come un’esperienza che minaccia alcuni principi identitari (Breakwell, 1986).

Dall’analisi della letteratura prodotta dagli anni ’80 (nel 1982 Bury, per primo, analizza l’impatto di una patologia cronica, l’artrite reumatoide, sull’identità degli individui che ne sono affetti) al 2014 emerge che il tema delle implicazioni psicologiche delle malattie croniche è stato trattato approfonditamente e da diverse prospettive teoriche; sono state inoltre analizzate molteplici malattia croniche, differenti sia per le caratteristiche stesse della patologia, sia per la potenziale debilitazione che ciascuna comporta (è stato analizzato l’impatto sull’identità di diabete, artrite reumatoide, fibrosi cistica, sindrome da stanchezza cronica, lupus eritematosus, malattie cardiocircolarie, HIV…).

Sebbene queste patologie presentino ciascuna caratteristiche peculiari e specifiche, è stato possibile individuare implicazioni psicologiche comuni. In particolare, emerge come il corpo, sia nella sua dimensione estetica, sia in quella funzionale, costituisca il principale elemento sul quale la malattia cronica agisce. Infatti, lo sviluppo di una patologia cronica comporta spesso cambiamenti dell’aspetto fisico (a causa dei sintomi stessi della patologia, per il diverso stile di vita che spesso si deve adottare, per l’eventuale necessità di protesi e per le progressive riduzioni di funzionalità); anche quando questi cambiamenti non si verificano spesso i pazienti vivono nel timore che possano svilupparsi senza preavviso (Nordenstrom, 2011; Kelly e Field, 1996).

Il corpo costituisce, d’altronde, una importante dimensione dell’identità, ed è proprio attraverso il corpo che ci si relaziona al proprio contesto sociale. Kelly e Field (1996) sottolineano la stretta connessione tra gli aspetti corporei del sé e l’identità, entrambi aspetti centrali e connessi nell’esperienza di malattia cronica, così che alterazioni delle funzioni corporee possono comportare cambiamenti nel concetto di sé. In particolare, gli autori sottolineano come il corpo, spesso dato per scontato, smette di esserlo quando il suo funzionamento si deteriora; inoltre, l’assunzione dei farmaci e la percezione di un inevitabile peggioramento possono costituire un ostacolo alla percezione di continuità nel tempo e nello spazio (aspetto centrale nella definizione di un’identità stabile e soddisfacente – Breakwell, 1986).

Secondo Musacchio, Alberghini et al (2007), l’individuo deve arrivare a costituirsi una nuova identità, intesa come immagine di un sé comunque integro, nonostante la malattia e i cambiamenti funzionali che essa comporta. Alle stesse conclusioni arrivano anche Siegel e Leaks (2002) che rilevano come l’individuo affetto da malattia cronica sperimenti cambiamenti identiari cercando di integrare la malattia nella propria vita e nella percezione e proiezione di sé nel lungo periodo.

Emerge, inoltre, che le patologie croniche sembrano costituire un importante fattore di invalidità per le persone che ne sono affette. Tale invalidità non si riferisce solo alla funzionalità fisica, che viene inevitabilmente danneggiata dalla malattia, ma anche alla funzionalità personale e sociale e, soprattutto, all’identità. Autori che hanno preso in considerazione specifiche dimensioni dell’identità personale (autostima, autoefficacia, immagine corporea) rilevano come, frequentemente, in patologie anche molto diverse tra loro i pazienti sperimentino una perdita di controllo, sia per quanto riguarda la possibilità di gestire i sintomi, sia per l’imprevedibilità stessa della malattia (Doeglas, Surmejer, Krol, Danderman et al, 1995; Bellg, 2003; Musacchio, Alberghini et al, 2007).

Questo può avere un impatto profondo sul senso di competenza degli individui (autoefficacia), soprattutto in una società che valorizza l’efficienza e la capacità di farcela da soli. Inoltre, la perdita di funzionalità comporta, spesso, la perdita di autostima, oltre che la percezione di una cesura con il tipo di persona che si era prima dell’insorgere della patologia, con la conseguente percezione di una frattura nel senso di continuità (Ripamonti, 2010).

Anche la dimensione dell’immagine corporea risulta essere danneggiata, in quanto, come già sottolineato, una malattia cronica ha spesso un impatto sul corpo, comportando una importante modificazione dello schema corporeo di una persona (Slade, 1994; Trabucco, 1998; Secchiaroli, Mancini e DePaola, 2009; Nordenstrom, 2011).

Ciò che non risulta essere chiaro, tuttavia, è quali siano i fattori maggiormente in grado di minacciare i differenti aspetti dell’identità della persona affetta da malattia cronica; non risulta rintracciabile un’ipotesi relativa al ruolo giocato ad esempio dalla gravità delle malattie croniche, anche se è possibile ipotizzare che sia il grado di invalidità che la patologia comporta ad incidere sul senso di autoefficacia e forse anche sul senso di continuità sperimentati dai pazienti.

Altri autori hanno indagato l’impatto dello sviluppo di una patologia cronica su dimensioni specifiche dell’identità sociale. In questo caso la visibilità della sintomatologia e della malattia sembrano avere un ruolo rilevante per l’autostima del paziente, determinando esiti che vanno dalla stigmatizzazione (percepita o subita, nel caso di patologie maggiormente visibili, che fanno sentire chi ne è affetto facilmente riconoscibile come malato e per questo trattato in modo differente) (Joachim e Acorn, 2000; Millen e Walker, 2000; Suurmejer, Reuvekamp et al, 2001; Jacoby, Snape e Baker, 2005; Scambrel, 2009) alla delegittimazione (nel caso di patologie non visibili, che spesso non vengono riconosciute dal contesto sociale dell’individuo che tratta il paziente come un malato immaginario) (Ewan , Lowy e Reid, 1991; Kkleinman, 1992; Glenton, 2003; Montali, Frigerio et al, 2010).

In entrambi i casi l’impatto sull’autostima è evidente: sia la visibilità che l’invisibilità delle malattie croniche fanno sentire la persona che ne è affetta diversa dagli altri e dal modello ideale di essere umano, generando sensi di colpa, vergogna e isolamento sociale.

 

Tre modelli teorici per spiegare l’impatto delle malattie croniche sull’identità

Numerosi autori hanno preso in considerazione l’esito della patologia cronica sull’identità più generale. Sembrano emergere tre modelli, che si differenziano per la possibilità di individuare o ricostruire una continuità nella vita e nell’esperienza dei pazienti.

Il modello della frattura identititaria nella malattia cronica

Gli autori i cui contributi rispecchiano maggiormente il modello della frattura identitaria tendono a vedere la malattia come un momento di scissione irreparabile, o quasi, tra la vita di prima e quella dopo la diagnosi, sottolineando la portata distruttiva delle malattie croniche, considerandola come una forza disgregante (Bury, 1982; Charmaz, 1983; Ville, Ravaud, Diard e Paicheler, 1994; Ridson, Eccleston, Crombez e McCracken, 2003). Alcuni dei contributi che si inseriscono in questo modello più generale evidenziano, tuttavia, come tale frattura possa limitarsi ad alcune aree dell’identità o non essere così irreparabile, lasciando quindi spazio per la speranza di una, almeno parziale, continuità, anche se solo nel lungo periodo e solo in alcuni ambiti (Sanders, Donovan e Dieppe, 2002; Asbring, 2001; Larun e Malterud, 2007).

Il modello dello slittamento biografico nelle malattie croniche

Un differente modello è quello dello slittamento biografico; gli autori che risultano essere più vicini a questo modello tendono ad evidenziare la possibilità, per le persone affette da patologia cronica, di una (seppure faticosa) ricostruzione di una continuità biografica, soprattutto quando la transizione viene percepita come coerente con la propria fase di vita (Hagestad, 1996; Ellis-Hill, 1997; Faircloth, Boylstein, Rittman, Young e Gubrium, 2004; Costa, 2008; Jacobi e McLeod, 2011) . È presumibile ipotizzare che questo modo di far fronte alla malattia sia favorito da una insorgenza tardiva (una malattia che compare in età avanzata sembra avere un impatto meno distruttivo sull’identità in quanto l’idea di malattia è socialmente connessa all’idea di invecchiamento) o da percorsi terapeutici non troppo invasivi, che permettono all’individuo di continuare a svolgere la propria normale quotidianità (Karnilowicz, 2010).

Il modello della ristruttutazione identitaria per le malattie croniche

Il terzo modello riscontrato in letteratura si è, invece, focalizzato sugli aspetti di ristrutturazione identitaria, in termini positivi, che la patologia può comportare, permettendo di costruire, proprio grazie alla patologia cronica stessa, una nuova identità (Radley e Green, 1987; Siegel e Leaks, 2002; Reynolds, 2003; Kralick, Koch, Price e Howard, 2004; McCann, Illingworth, Wengstrom, Hubbard e Kearney, 2010). Tale modello sembra evidenziare una sorta di dinamicità dell’identità, ovvero la sua capacità di cambiare a fronte di stimoli anche negativi che vengono rielaborati ed integrati grazie ad un processo di assimilazione e accomodamento (Breakwell, 1986). È all’interno di questo modello che sembrano assumere maggiore maggiore importanza le risorse individuali e sociali; gli studi che si inseriscono all’interno di questo modello evidenziano, infatti, come sia il senso di controllo sul proprio corpo e sulla terapia a permettere ai pazienti di mantenere un buon livello di autoefficacia, sottolineando contemporaneamente l’importanza che il supporto sociale e le rappresentazioni sociali delle malattie croniche possono avere nel mantenere adeguata l’autostima e il senso di specificità delle persone affette da patologie croniche.

 

Conclusioni

Emerge, quindi la possibilità di gradi diversi di integrazione della malattia cronica all’interno della propria identità, come modalità per far fronte ai problemi identitari generati da una patologia cronica; tale continuum sembra svilupparsi da una mancata integrazione ad un’integrazione quasi completa. Tuttavia, la molteplicità delle patologie considerate nei diversi studi e i loro diversi gradi clinici di visibilità e gravità non consentono di definite quali patologie possono permettere un grado maggiore o minore di integrazione. Appare importante sviluppare studi che permettano di individuare quali malattie croniche o quali fattori che le caratterizzano risultano favorire un grado di integrazione della patologia nella propria identità per una gestione clinica dei pazienti più utile sia a favorire una adeguata compliance al trattamento terapeutico, sia, soprattutto, nel mettere i pazienti nella condizione di sperimentare il maggior benessere psicofisico possibile, mantenendo una adeguata qualità di vita.

La stessa Organizzazione Mondiale della Sanità sottolinea, infatti, l’importanza della dimensione psicologica, oltre che quella fisica, per il benessere degli individui. Emerge infatti che una patologia non integrata comporta sofferenza persistente e duratura che invade tutti gli ambiti della vita dei pazienti che ne sono affetti; inoltre, non bisogna dimenticare che lo stesso contesto familiare e sociale all’interno del quale vive un individuo con patologia cronica viene inevitabilmente investito dalla diagnosi del proprio congiunto, sottolineando il coinvolgimento delle relazioni familiari nel contesto di cura.

L’eccitamento sessuale incrementa il risk-taking, anche nel gioco d’azzardo!

L’eccitamento sessuale può influenzare il processo di decision-making, spingendo il soggetto ad assumere un profilo di rischio più alto, anche in situazioni non connesse all’atto sessuale.

Un gruppo di ricercatori canadesi ha scoperto che l’eccitamento sessuale può influenzare il processo di decision-making, spingendo il soggetto ad assumere un profilo di rischio più alto, anche quando le situazioni dov’è chiamato ad agire non sono connesse alla copulazione.

Sebbene sia noto da tempo come l’arousal prodotto da stimoli sessuali possa ridurre la predisposizione all’uso del profilattico, nessuno studio in precedenza ha valutato l’impatto dei medesimi stimoli sul processo di decision making più in generale. Per tale motivo la dott.ssa Shayna Skakoon-Sparling e i suoi colleghi hanno reclutato 144 studenti del college, dicendo loro di stare indagando le differenze di genere in rapporto alle preferenze per i video.

I partecipanti erano avvertiti del fatto che sarebbero stati esposti a materiale sessualmente esplicito e che avrebbero dovuto svolgere dei compiti distraenti tra un video e l’altro.

Gli studenti erano poi divisi in due gruppi. Il primo gruppo guardava quattro video a contenuto sessualmente esplicito, mentre il secondo guardava quattro video che rappresentavano comuni interazioni tra uomo e donna di carattere non esplicito. Tra un video e l’altro, i partecipanti completavano un questionario che raccoglieva informazioni demografiche e uno per misurare il loro livello di eccitamento sessuale. Un terzo questionario, infine, proponeva degli scenari di risk-taking in ambito sessuale e non.

Stando ai risultati, i partecipanti che riportavano di essere eccitati sessualmente dopo la visione dei filmati risultavano essere più propensi al coinvolgimento in rapporti sessuali a rischio (es: rapporto non protetto con partner appena conosciuto). Tali risultati emergevano sia tra i maschi che tra le femmine, anche se la significatività era maggiore tra i maschi.

Uno dei risultati più interessanti era che la maggiore propensione al rischio di questi individui non si manifestava solo in situazioni connesse con il sesso.

In un secondo esperimento, infatti, i ricercatori identificarono tra i partecipanti la stessa tendenza per quanto riguardava il gioco d’azzardo. Questo secondo disegno di ricerca coinvolgeva 122 studenti del college che, invece di completare un questionario riguardante la disposizione ad assumersi il rischio nei rapporti sessuali, richiedeva ai partecipanti di giocare ad una versione di Blackjack a computer. Il gioco proponeva situazioni ambigue in cui il partecipante aveva la possibilità di optare tra una mano rischiosa o una più sicura.

I ricercatori notarono che la media delle partite rischiose aumentava quando i partecipanti erano eccitati sessualmente.

Questo risultato secondo il team di ricercatori è fondamentale, in quanto educare gli individui a diventare consapevoli di come le abilità di decision-making possano essere facilmente influenzate dall’eccitamento sessuale sarebbe il primo passo nell’aiutarli non cedere a comportamenti impulsivi potenzialmente rischiosi.

Seminario a Milano + Webinar – Il ruolo del trauma nella salute mentale. Il contributo della terapia EMDR (Ordine Psicologi Lombardia)

Data evento: 16/02/2016
Orari: dalle ore 20:30 su webinar o 20:15 in sede alle ore 22:00
Luogo evento: Piattaforma Webinar e Casa della Psicologia – Piazza Castello 2, Milano

L’ EMDR ha dimostrato di essere una terapia efficace nel trattamento del PTSD cronico e dei ricordi traumatici che sono alla base di molti disturbi mentali. L’obiettivo del trattamento EMDR è quello di affrontare gli aspetti del passato, presente e futuro in relazione ad eventi traumatici, al fine di elaborarli. Una volta desensibilizzati e rielaborati, i sintomi postraumatici mostrano una remissione significativa. Inoltre, i pazienti riportano cambiamenti comportamentali e una crescita postraumatica. L’applicazione del trattamento EMDR a individui che sono stati esposti a trascuratezza infantile e traumi interpersonali, risulta ad oggi un’area molto promettente. Secondo la ricerca scientifica e diversi studi randomizzati, la terapia EMDR risulta essere efficace non solo nel caso di traumi che soddisfano i criteri “A”, ma anche nel caso di “traumi relazionali dell’infanzia”. Secondo la prospettiva del modello della Elaborazione Adattiva dell’Informazione, le credenze negative, emozioni e sensazioni associate a stress cronico derivante da esperienze di violenza domestica, abuso di tipo fisico, sessuale o psicologico, rifiuto e trascuratezza, possono venire immagazzinati in maniera disfunzionale nelle reti mnestiche e possono contribuire allo sviluppo di disturbi mentali. Nel corso della presentazione, verranno mostrati i risultati della ricerca condotta sui cambiamenti post-trattamento EMDR, assieme a risultati provenienti dal campo della neurofisiologia, della clinica e dai resoconti personali dei pazienti.
Ci introdurrà a questo tema Isabel Fernandez, docente in varie scuole di Psicoterapia e in vari corsi di specializzazione in psicologia dell’emergenza, in psicologia clinica e delle organizzazioni.
Presidente Associazione per l’EMDR in Italia e docente corsi EMDR.
Membro del Consiglio Direttivo FISSP (Federazione Italiana Società Scientifiche di Psicologia) e dell’European Society for Traumatic Stress studies.
Autrice di varie pubblicazioni in riviste scientifiche e di libri sul Trauma e sull’EMDR.
Direttrice del Centro Ricerca e Studi in Psicotraumatologia, dove si occupa dello studio, l’insegnamento, la ricerca e l’intervento sui problemi legati alla psicotraumatologia e altri disturbi mentali.
Membro dello Standing Committee Crisis, Trauma and Disaster dell’European Federation of Psychologists Association. Delegata nazionale al Consiglio d’Europa per gli interventi di supporto psicologico in caso di disastri collettivi.

Vi aspettiamo il 16 febbraio alle 20:15 in sede, presso la Casa della Psicologia in Piazza Castello 2 a Milano, o alle 20:30 sulla piattaforma gotowebinar di OPL.

Per partecipare via web, ti invitiamo a iscriverti seguendo il form disponibile in questa pagina. Se desideri partecipare dal vivo puoi mandare una mail a [email protected] ma devi arrivare almeno un quarto d’ora prima dell’inizio del seminario (quindi alle 20:15).

Webinar – Il ruolo del trauma nella salute mentale. Il contributo della terapia EMDRConsigliato dalla Redazione

L’ EMDR ha dimostrato di essere una terapia efficace nel trattamento del PTSD cronico e dei ricordi traumatici che sono alla base di molti disturbi mentali. L’obiettivo del trattamento EMDR è quello di affrontare gli aspetti del… (…)

Tratto da: opl.it

 

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Impotenza sessuale maschile: caratteristiche, cause e trattamento

Obiettivo fondamentale di una psicoterapia efficace per l’impotenza sessuale maschile è stabilire un livello di intimità che metta entrambi a proprio agio, stimolando il desiderio sessuale e alleviando il disagio e la vergogna associati al disturbo.

Impotenza sessuale maschile: caratteristiche e dati del disturbo

Il disturbo maschile dell’erezione, definito comunemente impotenza sessuale, presenta una serie di caratteristiche distintive, necessarie per procedere alla diagnosi, secondo quanto riportato nel DSM-V (American Psychiatric Association, 2013):

  • Persistente o ricorrente incapacità di raggiungere o mantenere un’adeguata erezione, fino al completamento dell’attività sessuale, ovvero marcata riduzione della rigidità dell’erezione, nella misura minima del 75% delle occasioni di attività sessuale, e per un periodo di almeno sei mesi
  • L’anomalia causa notevole disagio o difficoltà interpersonali
  • La disfunzione non è meglio attribuibile ad altro disturbo psichiatrico (diverso da una disfunzione sessuale) e non è dovuta esclusivamente agli effetti fisiologici diretti di una sostanza o di una condizione medica generale.

I dati sul fenomeno dell’impotenza sessuale maschile mostrano tutta la sua rilevanza per il benessere personale e di coppia: uno degli studi italiani più autorevoli, risalente al 2000, mostra come circa il 13% della popolazione maschile italiana (circa tre milioni, inclusi single e vedovi) presenti impotenza sessuale, considerando i pazienti che soffrono sia di episodi ricorrenti, sia occasionali. Di questi, il 70% ha più di sessant’anni (Parazzini e coll., 2000).

 

Le cause dell’impotenza sessuale maschile

Le cause riconosciute dell’impotenza sessuale maschile sono di natura sia organica che psicologica, con la componente psicologica che amplifica e aggrava i problemi di natura fisica.

 

Cause organiche dell’impotenza

Riguardo alle cause organiche si riconosce un’impotenza sessuale maschile di natura arteriosa che determina un deficit di riempimento e una di natura venosa, che si manifesta con un deficit di mantenimento. Nel primo caso la rigidità del pene non è sufficiente per consentire la penetrazione (la pressione del sangue nelle arterie cavernose è troppo bassa per riuscire a distendere completamente i corpi cavernosi), mentre nel secondo l’erezione completa, se raggiunta, scompare molto rapidamente. All’interno dei trattamenti oggi disponibili si ricordano le protesi peniene (strutture meccaniche o idrauliche, che realizzano uno stato di erezione a richiesta, attraverso un dispositivo manuale), la chirurgia vascolare e l’utilizzo di sostanze vasoattive, la più nota delle quali è la papaverina (Dèttore, 2001).

Cause comportamentali dell’impotenza

L’ impotenza sessuale maschile può anche essere causata da cattive abitudini di vita, come la mancanza di esercizio fisico, il riposo insufficiente, il fumo (con riduzione della velocità del flusso ematico nelle arterie che irrorano i corpi cavernosi del pene e un deterioramento delle vie respiratorie), e l’abuso di alcol e droghe (Metz e McCarthy, 2004).

Circolo vizioso di depressione e impotenza sessuale

E’ importante sottolineare che ogni uomo affetto da una malattia cronica debilitante vive spesso un grave stato depressivo che può a sua volta essere causa di scarse prestazioni sessuali: si viene così a creare un circolo vizioso autoalimentato che esaspera lo stato depressivo e l’insoddisfazione per la vita sessuale (Dèttore, 2001).

 

Fattori psicogeni dell’impotenza

I fattori psicogeni che condizionano in maniera rilevante l’attività sessuale sono ansia e stress cronico (Dèttore, 2001). Essi possono essere di per sé responsabili del deficit erettile (senza cause organiche evidenziabili con gli attuali strumenti di diagnosi) o possono svilupparsi conseguentemente a un deficit erettile organico, amplificandolo e mantenendolo.

Impotenza e ansia da prestazione sessuale

L’ansia da prestazione sessuale (timore dell’insuccesso) impedisce di vivere la propria sessualità come momento di piacere, di modo che essa diviene fonte di angosce legate a fallimento e derisione, con crollo dell’eccitazione e accentuazione della vasocostrizione, mentre l’erezione necessita di una piena vasodilatazione arteriosa dei vasi del pene. Alla paura si associa aggressività e senso di colpa e di inadeguatezza nei confronti del/la partner, con conseguente paura di abbandono ed evitamento dell’attività sessuale, vissuta esclusivamente come fonte di sofferenza e squalifica.

Impotenza e stress cronico

Lo stress cronico (per esempio preoccupazioni economiche o problemi di salute) provoca, da parte sua, un abbassamento dei livelli di testosterone (l’ormone maschile) che deprime l’attività sessuale e il piacere che ne deriva. Fattori stressanti che interessano la relazione di coppia, oltre che il singolo, influenzano negativamente la capacità di iniziare e/o mantenere un’erezione adeguata: i conflitti, la distanza emotiva o l’insoddisfazione verso la relazione sono infatti in grado di compromettere quella complicità su cui si basa la sicurezza di poter avere un’erezione (Metz e McCarthy, 2004).

 

Psicoterapia per l’impotenza sessuale maschile

Ecco perché obiettivo fondamentale di una psicoterapia efficace per l’impotenza sessuale maschile è di stabilire un livello di intimità che metta entrambi a proprio agio, stimolando il desiderio sessuale e alleviando il disagio e la vergogna associati al disturbo erettile, che riguardano sì il partner affetto, ma coinvolgono altresì il benessere di coppia complessivo.

Cause organiche e psicologiche (sia individuali che attinenti alla sfera della vita di coppia) si integrano e influenzano in un grave circuito di automantenimento che deve essere tempestivamente interrotto: ecco perché il moderno approccio per l’impotenza sessuale maschile non può che essere multidisciplinare e integrato, in cui sempre più medici specialisti, in prima linea uro-andrologi o endocrinologi, integrano la loro formazione professionale con una solida preparazione sessuologica e psicoterapeutica (Dèttore, 2001).

 

Terapia cognitivo-comportamentale per l’impotenza sessuale maschile

La terapia a orientamento cognitivo-comportamentale per l’impotenza sessuale maschile prevede, accanto a momenti di psicoeducazione (migliore conoscenza delle cause del problema e, più in generale, dei meccanismi sottostanti al processo di erezione), tecniche comportamentali (come la Focalizzazione Sensoriale II ideata da Masters e Johnson che prevede il coinvolgimento della partner, puntando quindi sul rapporto di coppia) e cognitive (esame delle credenze relative al sesso e all’erezione).

La procedura di focalizzazione sensoriale per la disfunzione erettile

La procedura di Focalizzazione Sensoriale prevede, in generale, che i partner interagiscano accarezzandosi a turno il corpo nudo, in un ambiente rilassato, includendo gradualmente l’area genitale. Fulcro del metodo è, per espresso ordine del terapeuta, il divieto assoluto della penetrazione, con la possibilità di raggiungere l’orgasmo con qualsiasi tecnica a scelta, ma senza impiegare in alcun modo la penetrazione. In tal modo, la sfera sessuale, divenuta connotata negativamente in seguito alla disfunzione sessuale, viene affrontata gradatamente; la manifestazione di affetto attraverso il contatto fisico viene agevolata, senza essere evitata, situazione frequente, dal momento che essa viene considerata tra i preliminari di un rapporto sessuale.

Per favorire la stimolazione tattile e migliorare la comunicazione sessuale si possono utilizzare lubrificanti, oli profumati, anche vibratori.

 

Durante la Focalizzazione Sensoriale II la partner stimola manualmente il pene dell’uomo fino a un’erezione, più o meno completa, e poi smette finché essa non diminuisce, per poi riprenderla attraverso una nuova stimolazione. Lo scopo è dimostrare all’uomo che l’erezione può calare, ma poi essere recuperata e che, soprattutto, non è indispensabile che un uomo normale debba costantemente mantenere l’erezione, tipica idea disfunzionale alla base dell’ansia da prestazione, bersaglio altresì delle tecniche cognitive (Master e Johnson, 1970, citato in Dèttore, 2001).

A questo punto la Kaplan (1970) suggerisce la pratica del coito inesigente in cui la donna inserisce il pene eretto del partner in vagina, stando in genere sopra di lui e compiendo dei movimenti lenti e poco ampi, come ulteriore passo verso il rapporto sessuale vero e proprio (citato in Dèttore, 2001). A tale pratica può favorevolmente essere abbinato un training sulle fantasie sessuali, così da incrementare ulteriormente la propria eccitazione e impedire, contemporaneamente, l’insorgere di eventuali pensieri ansiogeni (Dèttore, 2001).

 

Tecniche cognitive per l’impotenza sessuale

Le tecniche cognitive per l’impotenza sessuale maschile si focalizzano sulla ristrutturazione cognitiva di atteggiamenti, modi di pensare e convinzioni disfunzionali irrealistici riguardanti il sesso (con l’analisi dei pensieri automatici negativi al fine di sostituirli con pensieri più adeguati e meno ansiogeni). Tipici pensieri irrazionali e ansiogeni sono del tipo ‘L’erezione, una volta persa, non può essere nuovamente raggiunta‘, oppure ‘L’uomo deve sempre prendere l’iniziativa e gestire il rapporto sessuale’ o ancora ‘La vita dell’anziano è asessuata‘.

Lo sviluppo morale nel bambino: teorie recenti – Introduzione alla psicologia

Sviluppo morale nel bambino: Ci siamo lasciati la scorsa volta parlando delle teorie di Piaget e di Kohlberg. Ben presto, però, tali teorie sono state criticate in quanto si osservò come in culture diverse molti degli stadi  di sviluppo si mescolavano oppure erano presenti contemporaneamente. Di fatto, forme di moralità diverse sono proprie di differenti contesti culturali e subculturali.

INTRODUZIONE ALLA PSICOLOGIA RUBRICA DI DIVULGAZIONE SCIENTIFICA IN COLLABORAZIONE CON LA SIGMUND FREUD UNIVERSITY DI MILANO

Lo sviluppo morale: introduzione

Lo sviluppo della moralità nel bambino, come già detto nell’articolo della scorsa settimana, risulta essere una tematica di grossa portata sia da un punto di vista psicologico sia da quello sociale. Capire come si genera la moralità nel bambino aiuta a comprendere meglio se stessi nell’interazione sociale e aiuta a orientare i criteri educativi quando si svolge un ruolo di educatore/genitore. Per questo è importate approfondire le altre teorie esistenti in merito allo sviluppo morale.

Lo sviluppo morale: Altre teorie

Ci siamo lasciati la scorsa volta parlando delle teorie di Piaget e di Kohlberg. Ben presto, però, tali teorie sono state criticate in quanto si osservò come in culture diverse molti degli stadi  di sviluppo si mescolavano oppure erano presenti contemporaneamente. Di fatto, forme di moralità diverse sono proprie di differenti contesti culturali e subculturali.

Lo sviluppo morale secondo Turiel

Negli anni ‘70 studi più estesi iniziarono a mostrare proprio queste anomalie nella sequenza degli stadi di sviluppo delle moralità. Una delle più produttive linee di ricerca emerse in quegli anni fu quella di Elliot Turiel : la teoria del dominio.

Secondo tale teoria nei bambini a partire dai 39 mesi si differenziano 2 rispettivi domini (ambiti) concettuali: le convenzioni sociali e gli imperativi morali. Azioni nel dominio della moralità hanno effetti intrinseci, mentre azioni che riguardano la sfera sociale non hanno effetti intrinseci interpersonali ed è per questo che trasgredire le convenzioni è ritenuto meno grave che disobbedire alle norme morali universalmente riconosciute. Moralità e convenzioni occupano quindi ambiti distinti, paralleli.

Lo sviluppo morale secondo Gilligan

La seconda maggiore critica alla teoria di Kohlberg fu rivolta da Carol Gilligan che, tra l’altro, gli rimproverò di avere utilizzato solo maschi nelle interviste, ricavandone una visione incompleta e sbilanciata. Gilligan sviluppò un concetto di moralità del prendersi cura in alternativa alla moralità della giustizia e dei diritti. Moralità, quindi, non come obbligo a non trattare gli altri in modo scorretto, ma come non sottrarsi dall’aiutare qualcuno nel bisogno.

Lo sviluppo morale secondo Bandura

Bandura (1991), più tardi, assumendo una prospettiva di interazionismo cognitivo-sociale, ha contestato a Kohlberg la concezione di una gerarchia precostituita di forme di moralità, pur riconoscendo l’esistenza di forme di ragionamento morale universali. La prospettiva teorica di Bandura considera lo sviluppo morale all’interno di un processo interattivo globale, dove entrano fattori individuali-personali e ambientali-sociali.

In questa teoria è stata data un’attenzione specifica all’organizzazione dei controlli interni, considerata come parte integrante della moralità: di essa fanno parte le auto-sanzioni, che possono assumere carattere anticipatorio e prevenire comportamenti contrari ai propri modelli.

Bandura ha approfondito i meccanismi e le condizioni che nel corso della socializzazione determinano l’attivazione e la disattivazione dei controlli morali interni, agendo così come cause del comportamento immorale da parte di persone e gruppi pur capaci delle più elevate forme di ragionamento morale. Egli ha individuato alcuni di questi meccanismi:

  • la giustificazione morale, attraverso la quale comportamenti socialmente deleteri vengono resi accettabili personalmente e socialmente attraverso una loro ricostruzione cognitiva o forme di ideologizzazione;
  • la dislocazione della responsabilità, nella quale opera un processo di attribuzione causale delle responsabilità di un atto a persone o a circostanze, per es., facendo riferimento all’autorità di superiori gerarchici, depositari del potere decisionale;
  • la diffusione della responsabilità, dove le decisioni del gruppo o le esigenze del sistema frammentano o oscurano le responsabilità individuali, in modo che tutti siano colpevoli o nessuno lo sia;
  • la non considerazione o distorsione delle conseguenze, nella quale opera una minimizzazione o una selezione strumentale nella rappresentazione delle conseguenze positive o negative dell’atto;
  • la svalutazione, realizzata attraverso il biasimo o la negazione di caratteristiche umane di altre persone.

Questi processi di disattivazione o disimpegno dei controlli morali non agiscono insieme e subitaneamente, ma in diversi modi e a seconda delle circostanze: vi è così una graduale diminuzione delle auto-sanzioni, che può portare a un progressivo allentamento delle capacità inibitorie.

Caprara e collaboratori, basandosi sulle concezioni teoriche di Bandura, misero a punto uno strumento standardizzato (Scala di Disimpegno Morale) atto a misurare i meccanismi cognitivi del disimpegno morale in bambini della scuola elementare e preadolescenti.

D’altra parte nell’ambito del comportamentismo lo sviluppo morale è stato studiato, in primo luogo, come un aspetto dell’apprendimento: l’individuo impara le norme di comportamento morale attraverso la sequenza delle esperienze in cui alcuni atti sono soggetti a rinforzi positivi, mentre altri sono soggetti a punizioni. In questo ambito è stato utilizzato un quadro teorico composito dove gli assunti comportamentisti si fondono con quelli a carattere sociale, cognitivo e familiare.

Alcuni studiosi di ispirazione comportamentista hanno formulato una teoria del doppio binario per quanto riguarda i rapporti fra lo sviluppo del ragionamento e quello del comportamento morale: il primo seguirebbe una sequenza stadiale su basi cognitive, mentre l’azione morale verrebbe sviluppata nel contesto dell’apprendimento sociale. Fra i diversi orientamenti di ispirazione comportamentista, che si sono occupati più estesamente dello sviluppo morale, il principale è il Social Learning. In questa impostazione, si ritiene che i bambini inizialmente apprendano i comportamenti moralmente rilevanti attraverso l’osservazione e l’imitazione di modelli appropriati; questi comportamenti aumentano di frequenza se sono opportunamente rinforzati.

Inoltre, emerge che vi sono due tipi di disposizioni temperamentali che possono avere un peso significativo ai fini dello sviluppo della coscienza morale. La prima è una componente di disagio affettivo e consiste nella maggiore o minore propensione a sviluppare arousal, stati emotivi di paura, ansietà, sensi di colpa o rimorso in rapporto ad una trasgressione commessa o anticipata nella rappresentazione. La seconda si esprime nella diversa capacità di resistere ad un impulso proibito, di esercitare un autocontenimento, di sostituire un atto desiderabile a quello proibito.

Queste tendenze non sono solo espressione di fattori biologici, ma derivati dell’interazione della natura del bambino e la sua esperienza relazionale.

Lo sviluppo morale: conclusioni

Le teorie pionieristiche di Piaget e Kohlberg hanno contribuito a descrivere le linee generali di sviluppo morale. Uno dei fondamentali assi portanti di queste linee di sviluppo è quello che conduce da una moralità di tipo eteronomo ad una moralità orientata nel senso dell’autonomia e guidata da principi di tipo universale. Si deve sottolineare che, malgrado le evidenti differenze tra le prospettive teoriche, emerge come sia centrale il processo di internalizzazione, che consente al bambino di sostituire progressivamente al controllo morale, imposto da agenti esterni un sistema di principi interni legati all’identità personale, la coerenza del Sé. Tale processo si mantiene permanente nel tempo e orienta il comportamento in circostanze ed occasioni differenti.

 

RUBRICA: INTRODUZIONE ALLA PSICOLOGIA

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Disponibilità emotiva genitoriale e depressione in adolescenza: uno studio empirico

Questo articolo ha partecipato al Premio State of Mind 2014 Sezione Junior

Disponibilità emotiva genitoriale e depressione in adolescenza: uno studio empirico

Autore: Ilaria Fioretti (Università degli Studi di Chieti ‘Gabriele D’Annunzio’)

Abstract

A partire da un crescente corpus di ricerche (Carr, 2008; Kerr et al., 2006) che sostengono che condizioni familiari non ottimali possono influenzare lo status psicopatologico dei figli in età evolutiva, abbiamo cercato di verificare se la disponibilità emotiva genitoriale sia correlata con la depressione in adolescenza. Il campione è costituito da 437 ragazzi (213 maschi e 224 femmine), 286 madri e 271 padri. Il campione dei ragazzi è stato suddiviso per fasce di età: una relativa alla fase di latenza (N=60) con età media di 10,15 anni, e una alla prima adolescenza (N=376) con età media di 12,67.

Le somministrazioni, effettuate collettivamente, hanno previsto l’uso dei seguenti strumenti: Children Depression Inventory (CDI), Rosenberg Self-Esteem Scale (RSE) e Lum Emotional Availability of Parents (LEAP). Madri e padri hanno compilato la forma genitoriale della LEAP costruita in maniera speculare a partire dal questionario dei bambini. Abbiamo, infine, effettuato dei colloqui con i genitori che ci hanno accordato la loro disponibilità. Con il gruppo della prima adolescenza abbiamo utilizzato l’Intervista sull’Esperienza dei Genitori di preadolescenti e adolescenti (IEG-Ad), mentre l’Intervista al Genitore di un figlio in età di Latenza (IGL) è stata utilizzata per i genitori del gruppo dei bambini in età di latenza. Dai risultati ottenuti possiamo concludere che la disponibilità emotiva genitoriale è correlata negativamente con i livelli di depressione negli adolescenti. I livelli medi di depressione risultano maggiori nei casi di conflittualità familiare. Il modo in cui i ragazzi percepiscono i genitori emotivamente disponibili, inoltre, è correlato al modo in cui i genitori ritengono di essere emotivamente disponibili nei confronti dei loro figli. Le relazioni con gli adulti significativi, quindi, risultano fondamentali in età evolutiva e se positive sembrano fungere da fattori protettivi verso sintomatologie di natura depressiva.

 

Abstract (English)

In the last years, research has been interested to study of the relationship between parents and children, and their developmental outcomes both in childhood and in adolescence (Duhig, Phares, 2005). There was evidence that the children who live in situation of poor family relationships are more likely to developing mental disorders (Eshbaugh, 2008). The idea of this work was designed by observing the growing evidence of centrality of parental role in the development and psychological well-being of young adolescents. Literature emphasizes that the family conditions affect the status of children in childhood psychopathology (Burge, Hammen, 1991; Carr, 2008; Kerr, Preuss, King, 2006).

 

Keywords: disponibilità emotiva, genitori, adolescenza, depressione, sviluppo

 

ALLEGATO 1ALLEGATO 2 – ALLEGATO 3

 

In quali occasioni i cinesi perdono la faccia?

The Chinese Mind: cronache psicologiche dalla Cina

Abbiamo già accennato al concetto di faccia nell’articolo Perdere la faccia. Per faccia si intende la valutazione della propria immagine pubblica a seguito dell’interpretazione soggettiva dell’impatto delle proprie azioni in una data situazione sociale (Brown and Lewinson, 1987).
Ma in quali occasioni i cinesi percepiscono di “perdere la faccia”?

Lo studio di Zuo (1997) è estremamente utile per comprendere tale fenomeno. L’autore ha intervistato 192 cittadini cinesi residenti nella Repubblica Popolare Cinese nell’area del Wuhan e ha chiesto loro di immedesimarsi in 30 specifici episodi e di valutare il grado in cui percepivano di poter perdere la faccia.

Dalle analisi sono emerse quattro macrocategorie di situazioni implicate nel concetto di perdere la faccia (in altre parole, “si perde la faccia quando il soggetto attua….”):
– Comportamenti contro la morale: discorsi o azioni che violano l’etica sociale e gli standard morali condivisi dalla società, oppure azioni criminali che violano le leggi nazionali. Al contrario, il rispetto e l’attenersi alle leggi con comportamenti di integrità consentono di “guadagnare” faccia.
– Comportamenti che denotano incompetenza e/o incapacità: se non si riesce a portare a termine con successo un compito o attività nel momento in cui si ritiene che l’individuo abbia le capacità per farlo oppure la performance è notevolemente inferiore a quella di altri, è molto probabile che la persona perda la faccia.
– Cattive abitudini: Cattive abitudini e comportamenti ritenuti sgraziati, rozzi e poco eleganti nella vita quotidiana, come ad esempio slacciarsi la cintura dei pantaloni mentre si mangia, essere disordinati, poco curati nell’aspetto e nell’igiene, allacciarsi i bottoni in modo sbagliato, utilizzare un linguaggio scurrile e persino polemizzare per piccole quantità di denaro sono episodi in relazione ai quali si perde la faccia. Viceversa, essere puliti e ordinati, eleganti e ben educati facilita il mantenimento della faccia.
– Condivisione e divulgazione della privacy. Si perde la faccia se una persona, anche accidentalmente, mostra parti del corpo generalmente coperte, subisce un’ invasione della propria privacy e quando pensieri o intenzioni “cattive” vengono inferite o indovinate da altri.

Lo studio di Zuo (1997) riporta risultati simili e sovrapponibili a quello di Chu (1991) precedente in termini temporali e effettuato su un campione della popolazione di Taiwan.
Quindi, le categorie sopra descritte rimandano ai valori dell’etica confuciana di benevolenza, rettitudine e decoro. I comportamenti appropriati vengono enfatizzati nelle interazioni con l’altro in cui la persona può manifestare e ricevere rispetto dall’interlocutore; in tal senso il concetto di faccia è strettamente connesso alla reputazione che ci si costruisce all’interno della propria rete sociale.

La mancata diagnosi del disturbo bipolare nel Regno Unito

A circa il 10% dei pazienti britannici, nel corso di cure primarie, vengono prescritti antidepressivi per la depressione o per l’ansia. In realtà Hughes e colleghi hanno dimostrato di come spesso si tratti di un disturbo bipolare non diagnosticato.

Questi ricercatori, dalla Leeds e York Partnership NHS Foundation Trust e dalla Scuola di Medicina presso l’Università di Leeds, hanno intervistato alcuni giovani medici generali, raccontando il tutto in uno studio pubblicato successivamente sul British Journal of General Practice.

Il Disturbo Bipolare si presenta spesso in comorbilità con la depressione, e può essere difficile da diagnosticare. Inoltre capita spesso che le persone che allo stesso tempo hanno vissuto periodi di sintomi di umore elevato (ad es. maggiore energia e attività, una maggiore fiducia, over-loquacità, elevata distrazione), spesso non riconoscano questi eventi come significativi e non ne parlano al loro medico. Tutto questo è però molto pericoloso, in quanto può portare a un trattamento inappropriato, come ad esempio la prescrizione di antidepressivi senza l’affiancamento di un farmaco stabilizzatore dell’umore. Tale scenario, potrebbe infatti aumentare il rischio di permanenza di un umore instabile.

Lo studio di Hughes, ha rilevato che tra le persone di età compresa tra i 16 e i 40 anni a cui vengono prescritti farmaci antidepressivi per la depressione o per l’ansia, circa il 10% soffriva di Disturbo Bipolare non riconosciuto. In particolar modo, questa assenza di diagnosi, era maggiormente diffusa tra i pazienti più giovani, e tra coloro che avevano riportato episodi depressivi maggiormente gravi. Lo studio sottolinea quindi, come gli operatori sanitari dovrebbero rivedere le storie di vita dei pazienti affetti da Ansia o Depressione, in particolare quelle dei pazienti più giovani.

Il dottor Tom Hughes, che oltre ad essere l’autore principale dello studio, è anche Consulente Psichiatra alla Leeds e York Partnership NHS Foundation Trust e all’Università di Leeds, ha detto:

Il Disturbo Bipolare è un problema serio, caratterizzato da alti livelli di disabilità e da un elevato rischio di suicidio. Quando esso è presente nei pazienti depressi, può essere facilmente trascurato. Una sotto-diagnosi e una sovra-diagnosi delle malattie possono creare grossi problemi. I nostri medici generali praticanti occupano una buona percentuale del miglior servizio sanitario nazionale nel mondo. Ci auguriamo che questo studio possa essere d’aiuto a loro e ai loro pazienti, così da migliorare il riconoscimento di questa condizione importante e invalidante.

Il professor Roger Jones, redattore del British Journal of General Practice, ha detto:

Il Dottor Tom Hughes ei suoi colleghi consigliano ai medici di medicina generale di guardare con maggior attenzione quei pazienti affetti da Depressione e Disturbi d’Ansia, soprattutto quelli più giovani e coloro che non stanno ottenendo effetti benefici dal proprio trattamento. Rivedere la storia di vita relativamente alla comparsa dei sintomi, potrebbe fornire alle persone la possibilità di ricevere un miglior trattamento e un recupero più veloce.

Non cambiare mai – Ciottoli di Psicopatologia Generale Nr. 3

L’innata tendenza al confermazionismo si è sviluppata comportando un qualche vantaggio evolutivo come la possibilità di trasmettere l’esperienza di generazione in generazione e di fare previsioni su un mondo che si reputa sempre uguale a se stesso.

CIOTTOLI DI PSICOPATOLOGIA GENERALE – LEGGI L’INTRODUZIONE

Questa tendenza alla testardaggine e al non voler cambiare idea è sostenuta da un’ampia gamma di bias che producono comunque l’effetto di stabilizzare le credenze del soggetto anche a dispetto delle falsificazioni disponibili. Nella vita quotidiana la vediamo all’opera nel fenomeno dell’autoinganno e nelle strategie di influenzamento dell’opinione pubblica per interessi economici o politici. Ritengo che una tendenza innata vada, per quanto possibile, controllata quando produce effetti negativi ma, contemporaneamente utilizzata a fin di bene nel lavoro terapeutico.

Il nostro scopo non è che i nostri pazienti diventino dei perfetti ragionatori aristotelici ma che siano felici raggiungendo i loro scopi utilizzando a tal fine la logica come suggerisce Baron. Insomma non si vive per ragionare ma si ragiona per vivere meglio e più lungo. I bias cognitivi sono sempre stati visti come una minaccia per la buona salute mentale e bersaglio privilegiato della terapia, soprattutto cognitiva. La mia idea è dunque quella di proporre l’utilizzo dei bias così ben descritti da Kaneman nel suo ultimo libro ‘Pensiero veloce, Pensiero lento‘ come possibili tecniche o strategie terapeutiche avvantaggiandosi proprio della loro innata e inconsapevole potenza.

La credibilità di un affermazione è direttamente proporzionale alla sua ripetizione. Ripetere continuamente una falsità la fa apparire vera. Su questo si fonda la pubblicità. Più una cosa viene ripetuta più acquista verità. Sui mass media questo fenomeno è conosciuto come ‘la cascata della disponibilità’: si parla di un evento, si parla del fatto che se ne parla, si commenta il fatto che se ne metaparla e sembra reale il gioco degli specchi moltiplicatorio. Il rimuginio fa questo al negativo. Le credenze dolenti del paziente sono al centro della sua attenzione e memoria selettiva e dei processi di rimuginio e gli appaiono sempre più vere. Se da un lato questo va evidenziato ed arginato perché non utilizzarlo in positivo? Ad esempio nei processi di ristrutturazione cognitiva.

Un’ abitudine cui i pazienti, abituati con le procedure Ret, rinunciano mal volentieri e trovano estremamente utile è registrare le sedute per poi riascoltarle due o tre volte durante la settimana e magari trascriverle. Questo lavoro accompagna il paziente durante la settimana e gli suggerisce temi da approfondire da riproporre nella seduta successiva. Ancora è molto utile scrivere le credenze funzionali che rappresentano il punto d’arrivo del lavoro su un cartoncino e chiedere al paziente di rileggerle più volte durante la settimana, particolarmente in presenza degli attivanti che innescano normalmente le credenze disfunzionali, impararle a memoria. Ancora più efficace riascoltarle direttamente dalla voce del terapeuta registrata sullo smartphone. Non si tratta semplicemente di una rassicurazione che comunque avrebbe il vantaggio di essere completamente autogestita dal paziente ma di una vera ristrutturazione in vivo.

In seduta avvalendosi del principio per cui si finisce per credere davvero in ciò a cui si deve credere per partito preso, si può invertire il ruolo per cui è il paziente a dover criticare le idee disfunzionali che vengono sostenute dal terapeuta. Ancora si può chiedere al paziente di elencare tutti i motivi per cui oggi le cose potrebbero andare diversamente da come lui si aspetta da sempre che vadano e da come gli sembra siano sempre andate. E’ un esercizio, da seduta o da homework, di fantasia dal titolo ‘Stavolta no…perché….’.

Per favorire il decentramento che prima dell’adozione della terminologia terzocentrista si chiamava ‘mettersi nei panni dell’altro e guardare le cose da un’altra prospettiva’ ci si può avvalere dell’ euristica degli affetti secondo la quale simpatie, antipatie e gusti determinano le credenze sul mondo e non solo viceversa, anzi se una cosa mi piace ne vedo i pregi e ignoro i difetti e non, come si potrebbe pensare, mi piace perché non ha difetti. Essa gioca un ruolo importante nell’innamoramento e nel fanatismo: due classiche situazioni in cui la lucidità del giudizio è offuscata dalla passione.

Le convinzioni opposte a quelle disfunzionali del paziente non devono rimanere affermazioni astratte ma attribuite ad un personaggio, meglio se costruito sulla base di una persona realmente conosciuta dal paziente con una sua storia che susciti emozioni positive, comprensione, affetto. Come nei film quando ci si trova a capire le ragioni del cattivone di turno. Persino la visione politica del mondo che ciascuno ha cambia, non per il semplice passare del tempo secondo il detto per cui si nasce incendiari e si muore pompieri ma perché cambia la propria posizione nella scala sociale e con essa la visione delle cose e della stessa giustizia.

Quindi è importante aiutare il paziente, costruendo storie, a immedesimarsi con stati d’animo e sentimenti di qualcuno che la pensa diversamente da lui e non semplicemente di considerarne le idee. L’euristica dell’affetto crea un mondo più ordinato e senza conflitti di quello reale: le cose che ci piacciono sono anche buone, giuste, vantaggiose e senza controindicazioni e viceversa: tutto ciò è molto attraente e rassicurante. In senso opposto, la terapia per ridurre la quota di autoinganno potrebbe essere il luogo dove si legittimano le preferenze ed i gusti senza per questo distorcere la realtà per sostenerli. Non sarebbe meglio potersi dire ‘Sono innamorata di lui anche se è un violento e un fedifrago’ piuttosto che raccontarsi che non lo è ed anzi sotto sotto cova un animo gentile. Liberarci dal dovere della coerenza accettando che molte preferenze e gusti non sono dettati da ragionevolezza ma sono lo stesso nostri e intensissimi,ci permetterebbe una maggiore lucidità.

Gli esseri umani hanno una potente, irresistibile tendenza a dare agli eventi delle spiegazioni causali, a ricercare le cause e di conseguenza, laddove non siano evidenti, formulare ipotesi causali ad hoc. Al contrario l’importanza del caso, decisivo probabilmente nel 99% delle occasioni, è sistematicamente sottovalutata. Il vantaggio illusorio che da l’ipertrofia della causalità è che gli eventi siano controllabili, che abbiamo voce in capitolo e possiamo farci qualcosa mentre in quasi tutte le questioni decisive non è così. Il prezzo che questa illusione comporta è il senso di responsabilità che a volte assume i connotati della colpa come nel DOC e nella depressione. Il bilancio è a mio avviso negativo perché le cose negative accadono comunque e al danno si aggiunge la delusione e magari la colpa.

Un ottimo esercizio in proposito è elencare tutti i fattori esterni incontrollabili che concorrono a determinare un certo risultato. Non lo chiamerei ‘la torta delle possibilità o del caso‘ perché mentre il reale ha un limite al 100%, il possibile non lo ha. Provate a immaginare tutti i possibili motivi per cui potreste non arrivare a leggere fino in fondo questo ciottolo. E’ chiaro che frugate tra gli avvenimenti distraesti che in genere avvengono intorno a voi a quest’ora del giorno (sete, pipì, telefonate del capo, ricordarsi l’anniversario per la moglie, l’urgenza delle pratiche da consegnare) invece è l’11 settembre e se guardaste dalla finestra il Bau Bau quatto quatto…. Non è l’eccezione ma piuttosto la regola sin dai tempi del Big Bang, del brodo primordiale e nel momento del vostro personale inizio quando uno spermatozoo a caso arrivato molto in ritardo ma in concomitanza dell’ovulo anch’esso attardatosi tra le ciglia delle tube di Eustachio…… La causalità ha avuto il suo successo nelle scienze di base come la fisica e la chimica ed è stata estesa a spiegare i fenomeni psicologici, sociali e storici dove non ha lo stesso potere euristico ed il caso entra prepotentemente.

Attenzione, fa talmente parte del nostro modo di ragionare che anche i libri di storia, le cronache di un campionato di calcio, le elezioni politiche, l’esito della preparazione della majonese sono descritti in termini di cause ed effetti. Ma ciò soltanto a posteriori, al netto degli eventi casuali. Un buon terapeuta dovrebbe avere in mente una serie di eventi storici o di vita quotidiana che nessuno aveva previsto in precedenza e che successivamente tutti si affrettano a spiegare con cause apparentemente evidenti.

Occupiamoci ora del contenimento e del possibile utilizzo positivo di uno dei più importanti bias confermazionista ovvero quello del cosiddetto ancoraggio per cui qualsiasi valutazione non si discosta molto dalla prima impressione seppure la si sappia indotta da un contesto completamente diverso o assolutamente fallace. E’ questo il motivo dell’efficacia della calunnia ‘Se c’è del fumo almeno un po’ di arrosto deve esserci’.

La letteratura sull’ancoraggio è copiosa, divertente e costituisce una buona guida per non essere truffati tutti i giorni da venditori senza scrupoli e politici (perdonate la ripetizione), per cui non tenterò neppure di riassumerla. Mi limito a due consigli che hanno lo scopo di utilizzare in positivo questo bias. In primo luogo se la comunicazione della gravità della diagnosi è sempre più diffusa in nome alla cosiddetta medicina difensiva essa finisce per essere, soprattutto nel nostro campo, una profezia che si auto avvera (in proposito leggetevi i resoconti degli esperimenti sui Q.I. dei bimbi riferiti agli insegnanti di una prima classe o, per rimanere nel campo, l’esperimento noto come la beffa di Roshenam riportato nella realtà inventata di Watzlavich).

Sempre a proposito di ancoraggio va sottolineata l’importanza dei primi contatti, dalla telefonata alla prima seduta. E’ bene che essa si chiuda in un clima positivo, di fiducia e ottimismo e che il paziente si porti a casa un primo piccolo compito che lo leghi al comune lavoro.

Persino più forte dell’ancoraggio è il potere della cosiddetta ‘euristica della disponibilità‘ secondo la quale stimiamo la probabilità di un evento dalla facilità con cui ce ne vengono in mente degli esempi. Per cui nello stimare il rischio d ammalarsi di tumore ignoriamo le statistiche ma diamo peso al povero zio, alla cugina di Ernestino ed al collega di lavoro che in un attimo….

E’ dopo aver visto un incidente stradale dal vivo o averne sentito lo straziante racconto dai sopravvissuti ed essere stati emotivamente coinvolti che spostiamo il piede dal gas al freno, non certo quando i cartelli luminosi ci informano sulle statistiche ufficiali.

Il lavoro terapeutico deve dunque evidenziare come il soggetto nel cercare prove a sostegno delle sue idee disfunzionali utilizzi spregiudicatamente la memoria selettiva e contemporaneamente abbia un oblio selettivo verso le prove contrarie. Insieme si tratterà di andare a cercare i ricordi contrari (le cosiddette eccezioni), trarli fuori da sotto i cumuli di polvere, farseli raccontare e arricchirli di particolari e dettagli in maniera che diventino belle storie degne di stare in prima fila sugli scaffali mnesici.

Un primo esercizio lo potete fare su voi stessi per poi riutilizzarlo con i pazienti perché riguarda una convinzione che sembra abbiamo tutti e cioè che, nei vari rapporti ‘ho dato più di quanto abbia ricevuto‘. Ciò dipende proprio dall’euristica della disponibilità perché mi ricordo di più i miei sforzi che mi sono costati emotivamente che quelli dell’altro. Proprio a partire dalla certezza che è una distorsione comune a tutti si invita il soggetto a cercare dei contro esempi e ad articolarli di particolari perché tornino ad essere vividi ricordi.

Ciò che sembra decisivo nello stabilizzare una credenza è il numero dei ricordi-esempio che vengono in mente e la facilità con cui ciò avviene ( a pag 148 Kaneman riporta numerosi esperimenti straordinariamente interessanti quanto divertenti). Anche le valutazioni che si fanno su di sé sono influenzate dai ricordi disponibili su di sé e si modificano radicalmente in poco tempo se l’attenzione si sposta su questi ricordi. Soprattutto nei problemi di autostima è estremamente utile ricostruire insieme al paziente una storia di vita in cui deve ricercare esplicitamente tutte le cose per cui può dirsi bravo e apprezzarsi da rileggere quando sente montare il demone autosvalutativo. Un homework che persegue lo stesso scopo è ‘L’esame di coscienza inverso‘ ovvero aggiornare ogni sera un diario in cui annotare tutte le cose anche molto piccole in cui può dirsi bravo.

Un altro modo per salvare le credenze dalla temuta falsificazione e dunque non doverle abbandonare è di mantenerle vaghe, indefinite (il massimo di tale lassità la si osserva nella schizofrenia) ma è presente in tutti quotidianamente. I concetti sono nuvole e ci capiamo per approssimazione o, direi, tavole di rorschach su cui proiettare. Fingiamo di capirci riferendoci a prototipi e non si va tanto per il sottile.

Ho ben presente in mente una signora che si arrovellava sul fatto che il suo partner fosse o meno innamorato di lei e oscillava continuamente tra il si e il no senza mai riuscire a far capire al malcapitato ma neppure a me cosa davvero intendesse. In questo senso andrebbe grandemente rivalutato la tecnica del laddering down oscurato dalla grande fama del suo gemello il laddering up. Con il down si aiuta il soggetto a chiarirsi ed a chiarire agli altri cosa davvero intenda con una certa parola. Cosa intendi esattamente per essere innamorato?, Da cosa ti accorgi che uno è innamorato? Cosa si fa quando si è innamorati che non si fa quando non lo si è?

La maggior parte dei concetti che usiamo anche in discussioni professionali tra esperti sono assolutamente indefiniti e mantengono equivoci grossolani. Nella costante battaglia contro il confermazionismo del paziente il terapeuta deve scontrarsi con la sua sicumera. Quando parla di se stesso il paziente è assolutamente certo di essere nel vero. Chi può conoscerlo meglio di se stesso. Lo steso vale per gli esperti in qualsiasi campo che sono i più riottosi a cambiare idea anche quando manifestamente sbagliata.

Il grado di certezza con cui crediamo ad una cosa è dato esclusivamente dalla coerenza e dalla facilità di elaborazione della storia che ci inventiamo per sostenerla e paradossalmente con pochi dati si costruiscono ottime storie perché si è più liberi da vincoli reali (vedi ad esempio il delirio dove i dati di realtà sono un inciampo).

Del resto è facile fare un esperimento mentale. Se vi chiedessi di inventare una storia di sana pianta sarebbe più bella e ricca se doveste includervi obbligatoriamente tre elementi da me suggeriti o 15 elementi. Una tecnica che chiamo ‘La storia ad ostacoli’ consiste nel farsi raccontare la storia che sostiene la previsione delirante o semplicemente catastrofica nei disturbi d’ansia o pessimistica nelle depressioni e poi metterci degli inciampi e suggerire dei vincoli cui la storia deve attenersi. Espressamente per i pazienti deliranti o drammaticamente confermazionisti ho sperimentato la cosiddetta ‘Costruzione del delirio‘ in cui io fornisco una idea francamente bizzarra e assurda e chiedo all’interlocutore di cercarne prove a sostegno a partire dall’osservazione della stanza stessa della terapia e/o dal mio comportamento. Il soggetto si accorge presto che a volerle cercare si trovano prove che giustificano tutto e l’incontrario di tutto.

 

 

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