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I Mercoledì Del Cognitivismo a Milano da Marzo a Novembre Introduzione alla Psicologia e Psicoterapia Cognitiva

Incontri di introduzione alla psicologia e psicoterapia cognitiva

 

Gli incontri sono gratuiti e aperti a tutti gli interessati (studenti di psicologia e di medicina; professionisti nell’ambito dei disturbi psicologici), previa prenotazione e fino ad esaurimento posti 

I mercoledì del cognitivismo a MilanoSITCC logo SFU logo orizzontale piccolo

Programma degli incontri

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Mercoledì 16 marzo 2016 (18:30-20:00)

Puoi tollerarlo. Trattare l’ansia con la REBT

Dr. Giovanni Maria Ruggiero

Nel modello razionale emotivo di Albert Ellis l’ansia è una preoccupazione eccessiva che dipende dl fatto che valutiamo in maniera irrazionalmente terribile e intollerabile gli eventi. Irrazionale non significa che esageriamo la portata dei rischi delle situazioni quotidiane. Il modello razionale emotivo non è banalmente ottimistico. Semmai, irrazionale vuol dire che esageriamo la terribilità di un evento catastrofizzandolo, riteniamo di non essere in grado di accettarlo e ci convinciamo che quell’evento non deve assolutamente accadere.

 

Mercoledì 13 aprile 2016 (18:30-20:00)

Il ruolo della famiglia: come aiutare i genitori delle ragazze con disturbi alimentari

Dr.ssa Sara Novero

I problemi legati all’alimentazione sono in continuo aumento tra gli adolescenti e non solo. Oltre al ragazzo, il disturbo alimentare coinvolge anche i genitori. Questi, di fronte al problema del figlio, reagiscono molto spesso in modo non adeguato, in quanto non riescono a comprendere e ad accettare una preoccupazione così intensa per il cibo, spesso unita a quella per il peso e per l’immagine corporea. Durante l’incontro, si cercherà di capire come aiutare i genitori a conoscere e a riconoscere le varie forme di disturbo alimentare cercando di comprendere, prevenire e affrontare il problema senza lasciarsi sopraffare dall’ansia e peggiorare così la situazione. Importante è anche considerare la famiglia come una risorsa e pensare il disturbo alimentare come una malattia e non come una scelta personale. I genitori devono sapere che quello che è accaduto alla figlia o al figlio non è la conseguenza di una mancanza di volontà, ma il frutto di una malattia che ha un nome, delle cause e che risponde a specifiche cure.

 

Mercoledì 11 maggio (18:30-20:00)

Esperienze di mindfulness

Dr. Andrea Bassanini

La cosiddetta ‘mindfulness’ si riferisce a un tipo di attenzione consapevole, intenzionale e non giudicante alla propria esperienza nel momento in cui essa viene vissuta. Durante l’incontro, che manterrà la forma esperienziale, i partecipanti avranno modo sperimentare direttamente la pratica di Mindfulness nei suoi aspetti più elementari e introduttivi.Come confermato dalla letteratura scientifica, la pratica della Mindfulness è uno strumento utile per migliorare le capacità in diversi ambiti personali e di relazione, da quelli familiari a quelli professionali.

 

Mercoledì 8 giugno (18:30-20:00)

‘Perché sono così triste adesso che ho questo bellissimo bambino?’: conoscere la depressione post partum

Dr.ssa Carolina Alberta Redaelli

Il momento della nascita di un figlio è uno dei cambiamenti più grandi che una persona possa sperimentare.
La gravidanza, il parto e il primo periodo della maternità, che rappresentano un momento di grande vulnerabilità per la donna, potrebbero inoltre risultare diversi da quanto aspettato e immaginato. Diventare madre è un cambiamento di vita meraviglioso, ma che porta con sè incognite e difficoltà difficilmente prevedibili. Il post partum inoltre è caratterizzato da un rapido cambiamento ormonale che può favorire l’insorgere di un’alterazione dell’umore, nella maggior parte dei casi transitoria. Il 10-15% delle madri manifesta invece una depressione post-partum. Questi sintomi non sono transitori e possono avere conseguenze più o meno significative non solo sulla salute mentale della donna, ma anche sulla relazione madre-bambino, sullo sviluppo del bambino e sull’intero nucleo familiare. E’ tuttavia possibile aiutare queste donne a affrontare in modo più sereno l’avventura della maternità. La depressione post partum infatti può essere curata, la prima cosa da fare è riconoscerla.

 

Mercoledì 14 Settembre (18:30-20:00)

Comprendere e superare il trauma: il trattamento EMDR

Dr.ssa Monia Albertazzi

Cos’è il trauma e come è possibile elaborarlo? Durante l’incontro, che vuole essere principalmente interattivo, si cercherà di comprendere quando si può parlare di trauma e come questo può essere elaborato attraverso l’uso della terapia EMDR. EMDR È l’acronimo di Eye Movement Desensitization and Reprocessing: questo tipo di terapia si focalizza sul ricordo del trauma, andando a lavorare nel punto del cervello dove le reti neurali trattengono il ricordo in una dimensione altamente disturbante per una persona; uno stesso ricordo doloroso, ma non più disturbante, si ricolloca, si riorganizza nelle reti di memoria in modo più adattivo. Il trauma non esce dal nostro cervello perché è impossibile dimenticare, però può avere una collocazione migliore, una forma meno disturbante: il ricordo esce dall’isolamento in cui si trovava incapsulato e si collega ad altre reti. Attraverso casi clinici vedremo l’EMDR in azione.

 

Mercoledì 12 ottobre (18:30-20:00)

Servirebbe? Perché ci preoccupiamo tanto secondo il modello MCT

Dr. Giovanni Maria Ruggiero

Nel modello metacognitivo di Adrian Wells ci preoccupiamo troppo perché focalizziamo troppo la nostra attenzione sugli eventi potenzialmente minacciosi. Questa attenzione a sua volta è così focalizzata per scelte strategiche scorrette che facciamo nella gestione delle nostre attività mentali. Erroneamente riteniamo che un problema si risolva concentrando tutta la nostra attenzione su di esso. Oppure riteniamo -altrettanto erroneamente- che non possiamo fare a meno di pensarci perché siamo fatti così, è la nostra natura. Entrambe queste strategie possono essere abbandonate, con beneficio del nostro benessere mentale.

 

Mercoledì 9 novembre (18:30-20:00)

Come la psicoterapia cambia il cervello

Dr.ssa Leonor J.Romero Lauro

Non esiste una mente senza cervello. Durante una psicoterapia avvengono cambiamenti importanti, nel modo di pensare, di pensarsi, di riconoscere e regolare le emozioni, nel tono dell’umore, nelle relazioni con gli altri e nel comportamento. Tutti questi cambiamenti hanno un riflesso nel cervello, grazie ad una sua grande proprietà: la plasticità. Nell’incontro verranno presentate e discusse le evidenze neuro scientifiche sugli effetti della terapia a livello cerebrale.

 

Tutti gli incontri si terranno dalle 18:30 alle 20:00 presso la

Sigmund Freud University – Ripa di Porta Ticinese, 77-Milano 

 

PER MOTIVI ORGANIZZATIVI E’ GRADITA LA RICHIESTA DI ISCRIZIONE AL SEGUENTE INDIRIZZO E-MAIL:  

[email protected]

PER INFORMAZIONI :

DIREZIONE SCIENTIFICA:

  • Dr.ssa Sandra Sassaroli

COORDINAMENTO DIDATTICA:

  • Dr.ssa Carolina Alberta Redaelli

RESPONSABILE DELL’ORGANIZZAZIONE:

  • Allison Colton

 

 

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Relatori:

Dr. Giovanni Maria Ruggiero: Medico chirurgo, specialista in Psichiatria e Psicoterapia Cognitiva. Direttore di ‘Psicoterapia Cognitiva e Ricerca’, Scuola di Specializzazione in Psicoterapia Cognitiva, Milano e Bolzano. Responsabile Ricerca di ‘Studi Cognitivi’, Scuola di Specializzazione in Psicoterapia Cognitiva, Milano, Modena e San Benedetto del Tronto. Docente presso Sigmund Freud University di Milano. E’ socio SITCC, socio SPR.

Dr.ssa Sara Novero: Psicologa, Psicoterapeuta, socia fondatrice dell’Associazione Nutrimente per la prevenzione, cura e conoscenza dei Disturbi dei Comportamento Alimentare, codidatta presso Studi Cognitivi di Milano. Collabora con l’Ambulatorio per la diagnosi e la cura dei disturbi alimentari dell’Azienda Ospedaliera San paolo (Mi), ha lavorato come psicologa scolastica. Lavora come libera professionista presso Studi Cognitivi di Milano. E’ socia SITCC.

Dr. Andrea Bassanini: Psicologo, Psicoterapeuta, Istruttore MBSR, MBCT e Protocolli Mindfulness-Based, Terapeuta ACT. Dal 2006 si interessa alla pratica di consapevolezza, all’ACT (Acceptance and Commitment Therapy) e alle loro applicazioni in psicoterapia e ha svolto percorsi di formazione e di pratica. È socio SITCC, socio ACT Italia, socio IAM. Già Professore a Contratto presso il Dipartimento di Psicologia dell’Università degli Studi di Milano-Bicocca e Professore a Contratto presso la Sigmund Freud University di Milano. Codidatta presso Studi Cognitivi Milano

Dr.ssa Carolina Alberta Redaelli: Psicologa, psicoterapeuta cognitivo-comportamentale, docente. Ha conseguito il I e II livello EMDR, il Primary REBT e il Master in Psicoterapia efficace per il bambino e per l’adolescente. Ha svolto una collaborazione pluriennale presso le unità operative e gli ambulatori di Psichiatria dell’Ospedale San Raffaele Turro e presso l’Ambulatorio dei Disturbi della Condotta Alimentare dell’Ospedale San Paolo. Attualmente svolge attività clinica e di ricerca presso Studi Cognitivi Milano. Collabora con le scuola di specializzazione di Studi Cognitivi come docente. E’ socia SITCC, socia EMDR ITALIA e socia Nutrimente.

Dr.ssa Monia Albertazzi: Medico Psicoterapeuta. Ha lavorato presso l’Ospedale San Raffaele, occupandosi principalmente di persone affette da Disturbi del comportamento alimentare e Disturbi di Personalità. Dal 2007 lavora come libera professionista presso Studi Cognitivi di Milano. Ha svolto i due livelli di formazione EMDR, ha fatto il percorso di supervisione diventando prima Practitioner e poi, dal 2010, Supervisore EMDR. Ha svolto diversi corsi sul Trauma e sulla Dissociazione Strutturale.Dal 2013 è didatta presso la scuola di specializzazione in psicoterapia cognitivo-comportamentale di Studi Cognitivi di Milano. E’ socia SITCC e socia EMDR ITALIA

Dr.ssa Leonor J.Romero Lauro: Psicologa, Psicoterapeuta Cognitivo Comportamentale, Phd in Neuroscienze Cognitive. Lavora come ricercatrice in Psicobiologia e Psicologia Fisiologica, presso il Dipartimento di Psicologia dell’Università di Milano-Bicocca. I suoi interessi di ricerca vertono sulla plasticità cerebrale e sui correlati neurali di funzioni cognitive superiori come linguaggio, memoria e regolazione emotiva, indagate mediante tecniche di neuroimaging e tecniche di stimolazione cerebrale non invasiva . Collabora con la scuola di specializzazione Studi Cognitivi dove è docente e codidatta. E’ socia SITCC e socia SINP.

 

 

Insoddisfazione nei bilanci di vita – Ciottoli di Psicopatologia Generale Nr. 5

La cosiddetta depressione è, insieme all’ansia, il principale motivo di sofferenza degli esseri umani, dalle forme più gravi fino a croniche forme di insoddisfazione che non impediscono il vivere quotidiano ma lo rendono faticoso e insapore.

CIOTTOLI DI PSICOPATOLOGIA GENERALE (RUBRICA) – LEGGI L’INTRODUZIONE

La cosiddetta depressione è, insieme all’ansia, il principale motivo di sofferenza degli esseri umani e di fatturato per psicoterapeuti e aziende farmaceutiche. Dalle forme più gravi che confinano nel letto con lo sguardo al soffitto e rendono off limit la doccia, si transita attraverso forme lievi e l’emozione della tristezza, fisiologica, utile e dunque da non trattare ma piuttosto da ascoltare, fino a croniche forme di insoddisfazione che non impediscono il vivere quotidiano ma lo rendono faticoso e insapore.

I neuroscienziati hanno spiegato come esperienze di sana tristezza da perdita possano scivolare in soggetti con un particolare assetto recettoriale (ipersensibilità dei recettori serotoninergici presinaptici inibitori) in un circolo vizioso automantenentesi di depressione che si giova di un trattamento prolungato con inibitori della ricaptazione della serotonina e che produce una down-regulation di tali recettori troppo zelanti. Dopo tutto questo sfoggio di paroloni persino inglesi, mi chiedo se non si possano seguire o affiancare anche altre strade per uscire dal loop gelido della disperazione.

La questione è tanto più importante se si tiene conto che anche se non è il problema primario, principale o iniziale, si sovrappone come secondario in quasi tutti i disturbi emotivi. Sono tristi e insoddisfatti gli ossessivi , i panicosi, gli ipocondriaci, i depressi e, al contrario di quanto taluni credano, anche gli psicotici che non se la spassano affatto nel loro mondo privato. Se ciò non fosse ancora sufficiente ad interessarvi alla questione potrei rammentarvi tutti i familiari dei malati mentali e anche no, ma mi sembra sciocco cercare di argomentare sulla presenza dell’insoddisfazione nel mondo: pensate alle vostre che già basta.

Perché proviamo insoddisfazione?

Mi pare più interessante cercare di capire perché ci si metta su quella china che parte dall’insoddisfazione e scivola attraverso la tristezza fino alla disperazione. In estrema sintesi mi pare che si sia insoddisfatti per due diversi ordini di motivi.

Il primo motivo di insoddisfazione riguarda il gap tra lo stato reale delle cose e lo stato desiderato ovvero quanto siamo lontani dal raggiungimento dei nostri scopi e se essi sono o meno perduti per sempre. Il secondo motivo di insoddisfazione riguarda quanto il soggetto stesso è lontano dal suo ideale del sé. In questo caso si è insoddisfatti per come non si è stati in grado di modificare favorevolmente l’andamento delle cose. La prima è una insoddisfazione sull’oggetto che ne attiva una più profonda sul soggetto stesso che genera ulteriori effetti secondari di mantenimento come la rinuncia e il disimpegno.

Associazionismo coerente

La scoperta del cosiddetto ‘associazionismo coerente‘ secondo cui se è vero che un pensiero genera emozioni e comportamenti coerenti con esso (è la base della teoria cognitiva e del modello ABC) è vero anche l’inverso per cui i comportamenti e addirittura le posture assunte volontariamente generano pensieri congrui con essi. Insomma il detto ‘canta che ti passa‘ ha un fondamento scientifico che William James aveva intuito quando affermava che ‘Non ridiamo perché siamo felici ma piuttosto siamo felici perché ridiamo’.

Ciò da dignità scientifica a tutti quegli interventi volti a far divertire il soggetto depresso che non ne ha alcuna voglia. Ad esempio potrebbero essere proposti video di gag che fanno ridere in modo transculturale, immediato e irriflesso: non dunque sottile ironia ma la gente che cade, le torte in faccia, ecc. Questa tendenza alla coerenza interna non riguarda soltanto il rapporto tra pensieri, emozioni e comportamenti ma soprattutto proprio la coerenza del pensiero. Abbiamo la fallace impressione di essere sempre stati insoddisfatti come siamo ora e la certezza che saremo sempre così.

La mancata percezione del cambiamento nella genesi e mantenimento dell’ insoddisfazione

Non vediamo i cambiamenti avvenuti e non ce ne aspettiamo di futuri. Addirittura quando cambiamo idea non ci ricordiamo davvero come la pensavamo in passato, ricordiamo i fatti magari ma non i nostri giudizi su essi. Ci sembra di averla sempre pensata allo stesso modo anche quando ciò è contraddetto da specifici ricordi e testimonianze.

Immagino i vari periodi di vita come blocchi transitori di coerenza. Un procedere dell’esistenza attraverso crisi di cambiamento, una sorta di rivoluzioni khuniane e lunghi periodi di stabilità. Se è vero che si nasce rivoluzionari, si diventa riformisti e si muore conservatori, l’aspetto più interessante è che si è convinti di essere sempre stati identici a se stessi. Rispetto a questa cecità al cambiamento che ci porta a credere che le cose saranno sempre come ora, il che certamente è sgradevole in momenti neri e costituisce proprio l’errore del suicida, credo sia utile frugare nella storia del soggetto alla ricerca di periodi diversi e ricostruire come era la vita, le emozioni e le attività anche con l’ausilio di foto, interviste a testimoni, film o musiche d’epoca. Contemporaneamente si può chiedere al paziente di inventare e magari scrivere storie riguardanti il suo futuro fornendo alcuni elementi positivi che devono necessariamente contenere, su di esse si può poi lavorarci insieme arricchendole.

Abbiamo visto come l’insoddisfazione dipenda dal confronto tra uno stato reale e uno stato desiderato. In effetti come i recettori sensoriali anche nella valutazione degli stati (ad es: ricchezza o felicità) siamo molto sensibili alle variazioni e ai confronti, insomma non stati di ricchezza ma guadagni e/o perdite.

Per questo l’esito dipenderà molto dalla baseline scelta come riferimento che sia esterna o un altro periodo della propria vita. Se confronto la relazione con il mio partner con il momento iniziale dell’innamoramento, il mio stato di salute con la prestanza dei diciott’anni o il mio reddito con quello di un top manager, sono evidentemente alla ricerca di secchiate di insoddisfazione.

E’ sperimentalmente dimostrato che gli esseri umani hanno una naturale avversione alle perdite sperimentate come minacce e anche che ciò sia un meccanismo salvavita evolutivamente vantaggioso sebbene possa non essere un utile consigliere quando si ragiona sugli investimenti azionari. Poiché il motivo di insoddisfazione interna di molti riguarda proprio il considerarsi paurosi e non sufficientemente audaci può essere utile una psicoeducazione sul valore evolutivo della paura e della prudenza e soprattutto sul fatto che siamo così e non possiamo modificarlo. Nel modello biopsicologico prevale la negatività e la fuga su positività e approccio.

Il negativo vince sul positivo. Un solo scarafaggio rende disgustoso un intero piatto di ciliegie ma una ciliegia non rende gradevole un cesto di scarafaggi. Ancora, un solo cattivo gesto rovina una amicizia ma non viceversa. In natura e anche in molti sport sono in vantaggio i difensori sugli attaccanti.

Ciò spiega anche perché gli antiscopi finiscono per imporsi sugli scopi: è un funzionamento biologicamente determinato per salvare la pelle prima di dedicarsi ai piaceri. Dobbiamo dunque normalizzare gli evitamenti per rabbonire l’eventuale secondario, salvo poi sfidarli, ma sottolineando che si tratta di compiere un gesto innaturale, quasi eroico e non spontaneo.

Lo stesso meccanismo di sopravvalutazione delle perdite e sottovalutazione dei guadagni entra in gioco nelle resistenze al cambiamento terapeutico in quanto la guarigione è vista come un possibile guadagno ma viene confrontata con il rischio di perdita dell’abbandonare il sintomo. Quindi per accrescere la motivazione alla terapia occorre descrivere la sintomatologia come una perdita (i costi che comporta) piuttosto che la guarigione come un guadagno.

Il tempo (e i bias cognitivi) dell’insoddisfazione

Il tempo classico dell’insoddisfazione è quello della tarda maturità quando si iniziano a fare i bilanci della propria esistenza nei vari campi in cui la si è spesa. Nel farli siamo vittime di un bias interessantissimo che Kahneman descrive con decine di affascinanti esperimenti a pag 420 e seguenti. Detto in parole povere, il valore edonico di un esperienza (quanto ne godiamo e/o quanto ne soffriamo) è valutato molto diversamente se viene valutato in diretta, da quello che chiama il Sé esperienziale, o nel ricordo da quello che chiama il Sé mnemonico. Quest’ultimo, che è quello attivo quando facciamo i bilanci o quando decidiamo se ripetere o meno una certa esperienza, commette una serie di errori grossolani.

Il primo è che conta molto più della media ponderata, che sarebbe il calcolo corretto ( l’area logaritmica sotto la curva tempo/ piacere o dolore), l’intensità di picco e quella finale. Il secondo gravissimo errore è la assoluta disattenzione per la durata. Così si può giudicare negativa un esperienza affettiva o lavorativa di grande soddisfazione per trent’anni perché ha avuto un momento acuto di crisi oppure è finita male, mentre si giudica migliore una esperienza di pochi mesi senza infamia né lode ma conclusasi bene.

Kahneman (421 e seg) sottolinea la differenza tra Sé esperienziale che vive in diretta e il Sé mnemonico che valuta le esperienze secondo il bias ‘picco-fine‘ e la cecità per la durata, portando a confondere l’esperienza con il ricordo di essa.

Kahneman vede come effetti della tirannia del Sé mnemonico, che è quello che fa consuntivi e decide le esperienze future, l’idea che se una cosa non la ricordo è inutile viverla (vedi l’ossessione per le foto). Spesso più che a vivere si è impegnati ad allestire ricordi. Kahnenam (pag 442 e seg.) riporta molteplici esperimenti per evidenziare come le cose ci diano piacere o dolore (condizioni brutte o belle: ad esempio disabilità, guai economici ecc) solo quando ci soffermiamo a pensarci, altrimenti non influenzano la vita quotidiana del Sé esperienziale, né modificano il tono dell’umore. Per questo sono importanti tutti quei compiti come i diari mirati che costringono a spostare l’attenzione selettiva su quanto c’è di buono e di bello intorno a sé.

Infine quando facciamo bilanci che generano insoddisfazioni abbiamo l’impressione che ci manchi qualcosa per essere felici. Kaneman chiama ‘miswanting‘ (pag 449) il credere che certe cose ci renderanno felici (un partner, una casa, una macchina, un lavoro, un figlio) mentre al massimo lo fanno nella fase iniziale, poi diventano normali e non contano più (disattenzione per il tempo). Rispetto a questo bias sarà importante ridimensionare l’aspettativa di felicità rispetto ad un oggetto esterno e quindi la sofferenza per non averlo e lo si può fare ricordando periodi della propria vita in cui la cosa c’era ma non la felicità e osservando se davvero coloro che la possiedono sono felici.

 

RUBRICA CIOTTOLI DI PSICOPATOLOGIA GENERALE

Disturbi alimentari: il digiuno delle Sante e la moderna anoressia

Non è facile paragonare il digiuno delle sante del medioevo e le anoressiche della modernità. L’astinenza dal cibo della santa aveva un valore di rinuncia, di autodisciplina. A queste pratiche non si può attribuire un obiettivo di autoaffermazione, come si fa per la moderna anoressia.

MAGREZZA NON E’ BELLEZZA – I DISTURBI ALIMENTARI: Le sante digiunatrici (Nr. 3)

Non è facile paragonare il digiuno delle sante del medioevo e le anoressiche della modernità. Allo stesso modo la depressione non è riducibile all’umore melanconico o flemmatico dell’antichità. Nel corso del tempo significati e comportamenti evolvono, modificando profondamente i criteri d’interpretazione. Lo stile di pensiero magico delle età precedenti il secolo dei Lumi portava spesso a intendere gli stati interiori in termini di forze demoniache o angeliche. Sicché non sempre è facile operare un confronto con le età passate.

Questa difficoltà si riscontra anche per i disturbi psicologici. Per quanto riguarda il digiuno, in passato non si trattava di astinenza da un bene abbondante e onnipresente come è diventato oggi il cibo. In un’economica di sussistenza come quella che ha dominato per secoli, il cibo era scarso per tutti, salvo che per le classi privilegiate.

Pochi avevano accesso a quell’abbondanza che permette il lusso dell’astinenza volontaria. Quando ciò avveniva, essa assumeva spesso un carattere religioso, come nel ben noto caso di santa Caterina da Siena.

 

Il digiuno tra storia e misticismo: Santa Caterina da Siena

Il digiuno della santa aveva un valore di rinuncia, di mortificazione e di autodisciplina. Tuttavia, è difficile attribuire a queste pratiche un obiettivo di autoaffermazione e di incremento dell’autostima, come si fa per la moderna anoressia. In Caterina manca, almeno a livello cosciente, il carattere individualistico della moderna anoressia.

Al contrario, la santa conferiva a quelle pratiche di digiuno un valore di autonegazione, sebbene sia innegabile che nelle sante medievali l’astensione dal cibo si iscrivesse in una più ampia condotta di vita che consentiva alle donne di svolgere una funzione sociale ben più incisiva di quella loro riservata tradizionalmente.

Caterina poté, grazie alla rinuncia al mondo, non solo sottrarsi al matrimonio ma anche acquisire una formazione culturale che altrimenti le sarebbe stata preclusa. Imparò a leggere e a scrivere ed ebbe un ruolo politico e sociale di primo piano nella società del tempo. Partecipò a missioni diplomatiche presso la sede papale, contribuendo al ritorno del pontefice da Avignone a Roma.

 

Dalle sante digiunatrici alle anoressiche: analogie e differenze

La condotta di Caterina può essere interpretata, in termini moderni, come segno di affermazione personale. Il digiuno era il segnale di una volontà di fuga da un ruolo sociale predeterminato: quello di moglie e di madre.

Era questa l’opinione di Rudolph M. Bell, professore di storia alla Rutgers University (1985). Sia le sante digiunatrici che le ragazze anoressiche parteciperebbero di un medesimo meccanismo psicologico, che però per Bell è fortemente legato a un ambiente sociale oppressivo per la condizione femminile – ambiente che spinge la giovane donna di ieri e di oggi a liberarsi di un mondo intollerabilmente soffocante attraverso il rifiuto della società, della vita e del proprio corpo.

 

Il digiuno come scelta consapevole

Generalizzare, però, comporta sempre dei rischi. Per la storica Caroline W. Bynum (1987), i comportamenti di digiuno delle sante medievali contengono elementi che possono essere riferibili a una patologia anoressica moderna. Secondo la Bynum, tuttavia, prevale l’effetto di una scelta intenzionale, perfettamente consapevole e riconducibile alla cultura della mortificazione e dell’astinenza del cristianesimo medievale.

Va inoltre sottolineato che in Caterina, come in altre sante, il digiuno rimase sempre e soltanto uno strumento. Si può discutere se l’obiettivo finale fosse la santità o l’affermazione sociale, ma in ogni caso si trattava di un percorso felice ed efficace, che effettivamente portò le sante ascetiche medievali a diventare delle personalità di primo piano.

 

Digiuno: il passaggio da mezzo a fine. La magrezza come valore in sé

Nelle anoressiche di oggi il desiderio di autonomia e di affermazione è molto più problematico. L’anoressica è contemporaneamente attratta e intimorita dal mondo adulto delle relazioni sociali e dell’affermazione di sé.

Incapace di accettare e gestire la precarietà e la mobilità della competizione pubblica, va alla ricerca di un parametro quantificabile e controllabile e al tempo stesso carico di valore simbolico. Il peso è un numero, un parametro quantificabile. Il peso, poi, rimanda all’aspetto corporeo.

E non si tratta affatto di un rimando soltanto simbolico. Il corpo è uno strumento pratico di relazione sociale tra i più incisivi. Con il nostro corpo, con la sua bellezza, ci presentiamo e ci facciamo accogliere e/o respingere, accettare e giudicare dal mondo. Un bell’aspetto è un buon biglietto da visita. Tuttavia, con l’aspetto corporeo si ricade nell’ambiguo, nel giudizio soggettivo qualitativo e non quantificabile. Cosa definisce una bella presenza, un corpo attraente? È una difficile negoziazione continua con l’altro, che può gradirci o meno e che soprattutto assai raramente esprime giudizi privi di margini di ambiguità. La sensazione di mancanza di controllo è quindi massima, ed è proprio ciò che teme l’anoressica.

Di qui la sua scelta paradossale: il controllo del corpo diventa fine a se stesso, in una corsa autodistruttiva in cui l’obiettivo iniziale, la conquista di uno strumento infallibile per poter essere accettati e piacere agli altri, è presto dimenticato a favore della magrezza, che diventa un valore in sé.

 

RUBRICA MAGREZZA NON E’ BELLEZZA – I DISTURBI ALIMENTARI

Arte terapia come strumento di formazione manageriale

L’arte terapia serve per far lavorare le persone sulle competenze relazionali per una crescita interiore e professionale a tutto vantaggio della motivazione, della creatività e dell’efficacia.

 

Arte e psicoanalisi

Che esista una sorta di corrispondenza tra psicoanalisi ed arte è un dato oramai acquisito: da sempre infatti gli artisti hanno dimostrato una vocazione per la psicologia e da sempre la psicoanalisi ha avuto una sua dimensione letteraria.

Sigmund Freud (Freiberg, 6 maggio 1856 – Londra, 23 settembre 1939) ha avuto il merito di individuare le analogie tra il contenuto della creazione artistica e quello della psicoanalisi. Secondo il padre della psicoanalisi, gli artisti ed i poeti sono i veri scopritori dell’inconscio:

I poeti sono alleati preziosi e la loro testimonianza deve essere presa in attenta considerazione, giacché essi sono soliti sapere una quantità di cose fra cielo e terra che la nostra filosofia neppure sospetta. Particolarmente nelle conoscenze dello spirito essi sorpassano di gran lunga noi comuni mortali, poiché attingono a fonti che non sono state ancora aperte alla scienza. (Freud, 1906).

L’arte rappresenta per Freud uno dei modi per correggere la realtà ed un mezzo per consentire all’uomo di soddisfare quelle pulsioni (generalmente sessuali o aggressive) che la sua coscienza ritiene inaccettabili. In questo senso l’arte è simile al gioco del bambino o al sogno dell’adulto. L’arte ha, per Freud, una funzione consolatoria e rappresenta una sorta di difesa contro le frustrazioni ed i traumi dell’esistenza, una riserva psichica in cui lasciar sfogare liberamente le pulsioni umane:

La vita, così come ci è imposta, è troppo dura per noi; ci reca troppi dolori, disinganni, compiti insolubili. Per sopportarla abbiamo bisogno di qualche palliativo. I soddisfacimenti sostitutivi che l’arte offre agli uomini sono illusioni che contrastano con la realtà. (Freud, 1929).

Per Freud l’arte ha la stessa funzione per tutti gli uomini, ovvero appagare i desideri inconsci, un appagamento coinvolto tanto nel processo di produzione, quanto in quello di fruizione dell’opera d’arte.

Qualunque esperienza d’arte, sia essa produzione o fruizione, può dunque aiutarci a superare i lutti, la rabbia repressa, gli ostacoli e anche a raggiungere i nostri obiettivi.

Se non viviamo le nostre emozioni in maniera corretta possiamo creare dentro di noi delle ferite che, nel tempo, possono sfociare in malattie psichiche o psicosomatiche. Il vissuto emozionale non elaborato può condizionarci inconsciamente per tutta la vita, nella sfera personale, familiare, ma anche in quella lavorativa.

Nessuno ci ha dato un libretto delle istruzioni per essere consapevoli e per gestire al meglio le nostre emozioni; l’arte offre la possibilità di uno sviluppo della personalità, che si realizza attivando risorse ed energie precedentemente bloccate.

Arte terapia: cos’è e come si è evoluta

Con il termine arte terapia si indica l’insieme delle tecniche che utilizzano le arti visive (e, con un significato più ampio, anche la danza, la musica, il teatro) come mezzi terapeutici finalizzati alla crescita dell’individuo nella sfera emotiva, affettiva e relazionale.

I primi gruppi di arte terapia nacquero negli anni ’40 del Novecento in strutture manicomiali come mezzo di sollievo per coloro che si trovavano in condizioni di sofferenza psichica. Inizialmente il metodo fu utilizzato su degenti che per lunghi periodi vivevano forti stati depressivi. Il professor Adrian Hill scoprì che attraverso la proposta pittorica lo stato di salute psichica dei degenti andava migliorando.

Con il passare del tempo, l’arte terapia si è evoluta ed è diventata un modello di funzionamento dell’Io. L’arte – intesa sia come produzione, sia come fruizione – può essere un punto da cui partire per iniziare un percorso di conoscenza e di rielaborazione del proprio vissuto personale e professionale.

L’arte terapia serve per far lavorare le persone sulle competenze relazionali per una crescita interiore e professionale a tutto vantaggio della motivazione, della creatività e dell’efficacia.

 

Arte terapia in azienda

Anche all’interno di un’azienda, infatti, si manifestano stati emozionali e mentali impegnativi; anche in ambito organizzativo, attraverso la sperimentazione di materiali artistici, si può attivare un processo di conoscenza di sé per crescere, fare squadra, innovare, migliorare le relazioni interpersonali, gestire lo stress, i conflitti ed i cambiamenti organizzativi. L’arte aiuta ad incrementare la creatività per la risoluzione dei problemi e favorisce lo sviluppo della competenze trasversali; in questo senso, quindi, l’arte terapia può rappresentare uno strumento originale di formazione manageriale.

Volete migliorare le vostre capacità di coaching? Fate una capatina al British Museum e soffermatevi sul Discobolo di Mirone (455 a.C. ca.), una delle statue più conosciute al mondo, considerata anche simbolo dell’attività sportiva in genere; questa figura si presta molto bene all’analisi delle tensioni del corpo umano impegnato in un’azione. Ed infatti il coaching nasce come tecnica per incrementare le performance sportive e può essere considerato un vero e proprio metodo di allenamento: infatti, così come un allenatore stimola l’atleta ad esercitare e sviluppare i muscoli, il manager- coach promuove nel proprio collaboratore l’espressione e lo sviluppo del suo potenziale umano con lo scopo di migliorarne le performance ed il raggiungimento degli obiettivi.

Volete eccellere nell’arte di costruire un team vincente? Potete scegliere se fare una visita al MoMA di New York, dov’è conservata la prima versione de ‘La Danza’ (1909) di Matisse o al Museo dell’ Hermitage di San Pietroburgo, dov’è conservata la seconda versione, quella del 1910. L’opera di Matisse, tra le più famose della sua produzione espressionistica, sintetizza in maniera esemplare la sua poetica e il suo stile: le figure danzano cercando di mantenere unito il cerchio, le due persone in basso a sinistra si staccano e cercano di riunirsi grazie al movimento di tutti gli altri. E’ una danza che esprime una sorta di lotta per il mantenimento dell’armonia e dell’unione, affinché la danza continui.

Volete gestire al meglio i cambiamenti organizzativi e volete mettere in atto soluzioni e meccanismi che favoriscano la fluidità dei rapporti? Il Musée Marmottan Monet di Parigi, con la sua splendida collezione di arte impressionista, fa al caso vostro: nella pittura impressionista, infatti, le immagini trasmettono sempre una sensazione di mobilità e di continuo cambiamento. Secondo i pittori impressionisti la realtà muta continuamente di aspetto, la luce varia ad ogni istante, le cose si muovono spostandosi nello spazio: la visione di un momento è già diversa nel momento successivo. Tutto scorre, tutto cambia, come in ‘Impression. Soleil levant’ di Claude Monet (1872): un istante dopo la visione può essere già diversa, perché la luce è cambiata e, con sé, anche la tonalità di colore che essa diffonde nell’atmosfera.

Attaccamento: cos’è e come si trasmette da una generazione all’altra

La teoria dell’attaccamento secondo Bowlby

Valentina Di Dodo, OPEN SCHOOL STUDI COGNITIVI

Nel corso del secolo scorso hanno preso piede numerosi studi sul tipo di relazione che intercorre tra il bambino e la figura d’attaccamento.

A partire dalla prima metà del 1900 si vedevano già affiorare le prime teorie, più o meno verificate, sul ruolo dell’attaccamento nello sviluppo psico-fisico del bambino, fino ad arrivare agli studi di John Bowlby, considerato ad oggi il padre di questa teoria. Bowlby non è stato il primo ad occuparsi di questi argomenti, anche se inizialmente si rifaceva a studi e ricerche di altri viene comunque considerato il fondatore della teoria dell’attaccamento; questo perché non si è limitato come altri allo studio degli istinti e delle pulsioni, teoria suggerita da S. Freud, nel rapporto madre-bambino. Bowlby ha approfondito l’argomento con studi sperimentali, indagando sulle motivazioni intrinseche che legano il bambino ad una figura primaria, la madre, oltre alla ricerca di cibo. Lo psichiatra inglese notò che il piccolo non ricercava solo il nutrimento e si accorse che il legame, l’attaccamento, era legato alla ricerca di protezione, di serenità, di calore affettivo, di sensibilità da parte della madre. Fu allora che iniziò ad interrogarsi su quali fossero le conseguenze dei diversi tipi d’attaccamento, che identificò come sicuro o insicuro, su quali fossero i meccanismi che si attivano all’interno di questa relazione particolare e, in base a questi meccanismi, quale fosse il modo migliore per dare ai bambini un attaccamento sicuro.

È utile fare una distinzione tra tre concetti simili tra loro nella teoria sviluppata da Bowlby: l’attaccamento, il comportamento di attaccamento e il sistema dei comportamenti di attaccamento.

Con il termine attaccamento si fa riferimento al tipo di attaccamento di una persona che può essere sicuro o insicuro. Avere un attaccamento sicuro significa sentirsi sicuri e protetti, mentre avere un attaccamento insicuro implica una moltitudine di emozioni concomitanti e contrastanti verso la propria figura primaria, come possono essere amore, dipendenza, paura del rifiuto, vigilanza e irritabilità. Il comportamento di attaccamento viene definito come [blockquote style=”1″]ogni forma di comportamento che appare in una persona che riesce ad ottenere o a mantenere la vicinanza a un individuo preferit[/blockquote]o [Bowlby 1969], il comportamento di attaccamento è quindi attivato da una situazione di separazione dalla figura primaria, o dalla minaccia di essa, ed è eliminato con la nuova vicinanza. La differenza tra l’attaccamento e il comportamento di attaccamento è descritta da Bowlby in “Una base sicura”, scritto del 1988, dove specifica che l’attaccamento in sé non è la ricerca della vicinanza in una situazione momentanea, bensì un comportarsi in un modo pressoché invariato nel corso del tempo, che non cambia in modo repentino, come invece accade per il comportamento di attaccamento, ma che muta nel corso del tempo in modo molto lento.

Altra distinzione riguarda i soggetti verso cui si manifestano attaccamento e comportamento di attaccamento, infatti, mentre quest’ultimo può manifestarsi in condizioni diverse verso persone diverse, il primo si manifesta prevalentemente verso una sola figura di riferimento. Per quanto riguarda il sistema dei comportamenti di attaccamento si fa riferimento al modo in cui il bambino, o l’adulto, mantiene una relazione con la sua figura di attaccamento; così viene postulata l’esistenza di un’organizzazione psicologica interna che ha delle caratteristiche specifiche che comprendono schemi di sé e della figura di attaccamento. Quindi l’attaccamento e il comportamento di attaccamento si basano sul sistema dei comportamenti di attaccamento; infatti, secondo Bowlby il legame del bambino alla madre è il prodotto dell’attività di diversi sistemi comportamentali che sfociano nel tentativo di mantenere una vicinanza costante del bambino con la madre.

L’attaccamento si sviluppa nella prima infanzia attraversando alcune fasi ed evolvendo in attaccamento sicuro o insicuro. La possibilità di avere un attaccamento sicuro fornisce al bambino una “base sicura”. Questo concetto è stato rielaborato da Bowlby sul finire degli anni ’60 e si riferisce ad un ambiente caratterizzato da una madre, che permette al bambino di sentirsi pienamente protetto ed accettato; il bambino si sente sostenuto dalla base sicura e questo gli permette di rimanere solo con se stesso e di esplorare il mondo circostante senza timore.

I modelli operativi interni dell’attaccamento

Si dice che le persone ripropongano spesso situazioni già vissute. Sono stati svolti numerosi studi a favore dell’idea che questo avvenga anche per i comportamenti di attaccamento. Gli adulti ripropongono i modelli di relazione interiorizzati nell’infanzia grazie ai modelli operativi interni, ovvero [blockquote style=”1″]rappresentazioni mentali che contengono un grande numero di informazioni, su di sé e sulle figure di attaccamento, che riguardano la maniera più probabile in cui ciascuno risponderà all’altro con il cambiare delle condizioni ambientali.[/blockquote] Tali rappresentazioni mentali conducono le modalità di comportamento in quelle situazioni in cui il soggetto si prende cura di un altro e gli offre protezione.

Esiste una condizione particolare in cui un soggetto adulto riattiva i propri modelli operativi interni, le rappresentazioni delle esperienze passate e le modalità in cui si è relazionato alle figure significative nella propria infanzia: diventare genitore.

La genitorialità riguarda, infatti, il prendersi cura di un altro rispondendo alle sue richieste e ai suoi bisogni. L’elemento di continuità delle relazioni di attaccamento, dall’adulto al bambino, tuttavia non è dato dalla ripetizione fedele di quelle relazioni che hanno caratterizzato l’infanzia del genitore, piuttosto dal modo in cui l’adulto le ha rielaborate, proponendo un ambiente sensibile e responsabile all’interno del quale si sviluppa il legame di attaccamento tra il genitore e il bambino.

Sono state effettuate numerose ricerche in questa direzione, esse hanno cercato di verificare la corrispondenza tra la qualità dello stile di attaccamento dell’adulto e quella del bambino. Questa corrispondenza viene indagata con un approccio teorico e metodologico che fa riferimento agli studi fatti sui bambini attraverso la Strange Situation e gli studi sui genitori attraverso l’Adult Attachment Interview, ne risulta perciò da un lato il comportamento di attaccamento del bambino, e dall’altro una rappresentazione delle relazioni significative del genitore che influiscono, positivamente o negativamente, sulla formazione del legame tra il bambino e il genitore stesso.

L’Adult Attachment Interview per indagare l’attaccamento adulto

Sebbene inizialmente l’attaccamento sia stato studiato solo nel corso della prima infanzia, grazie a studi più recenti è stato messo in evidenza che gli stili di attaccamento potevano essere tradotti in corrispondenti pattern negli adulti. Lo strumento principalmente usato per la valutazione dei modelli operativi interni nel soggetto adulto è un’intervista semi-strutturata, somministrabile già a partire dall’adolescenza in cui al soggetto vengono poste alcune domande dirette relative alle sue relazioni da bambino con le proprie figure di attaccamento, mettendo in luce l’influenza esercitata da queste relazioni primarie nello sviluppo: l’Adult Attachment Interview (AAI).

I modelli operativi interni si riferiscono ad una rappresentazione interna del mondo, della figura di attaccamento e di se stesso; secondo la teoria dell’attaccamento la ripetizione delle relazioni si verifica perché l’esperienza interna e il comportamento nelle relazioni sono strutturati secondo modelli operativi interni o modelli rappresentazionali: i primi legami vengono interiorizzati dal bambino e rielaborati in modelli operativi interni che vanno ad influenzare le esperienze successive le quali potranno essere interpretate sulla base di rappresentazioni interne di sé e degli altri.

È stato ipotizzato che i bambini che esperiscono un attaccamento sicuro  sviluppano un modello degli altri come affidabili e disponibili, e un modello di se stessi come degni delle cure che ricevono; viceversa i bambini che non ricevono cure adeguate possono sviluppare sentimenti di rabbia e di angoscia nei confronti degli altri, e nei propri confronti sentimenti di insicurezza. Da qui hanno inizio le ricerche di Mary Main e collaboratori, i quali ritengono che le differenze nelle relazioni di attaccamento debbano riflettere le differenze delle rappresentazioni interne di queste relazioni tanto negli adulti quanto nei bambini.

Per esplorare in modo sperimentale la questione, la Main e Goldwyn hanno elaborato l’AAI, un’intervista semistrutturata composta da una serie di domande proposte al soggetto in un ordine preciso e prestabilito: nella parte iniziale viene chiesto al soggetto di indicare alcuni aggettivi che possano descrivere il rapporto con ognuno dei genitori durante l’infanzia; per ogni aggettivo viene, inoltre, chiesto di riportare alcuni ricordi che possano esemplificarli. Si chiede poi a quale genitore era più legato da bambino, e se si fosse mai sentito rifiutato da uno dei due o da entrambi. Nella parte conclusiva invece l’accento viene posto sul rapporto che il soggetto ha nel presente con i propri genitori, dando spazio alla descrizione dei cambiamenti nel rapporto. L’intervista pone il soggetto in una condizione in cui c’è il pericolo di contraddirsi o di non riuscire a sostenere le affermazioni precedenti o successive.

La struttura dell’Adult Attachment Interview si basa su due principi fondamentali: il primo riguarda il fatto che la ricostruzione del passato viene fatta alla luce delle esperienze attuali del soggetto; il secondo riguarda il fatto che c’è un’idealizzazione  del passato, in particolare delle esperienze negative dell’infanzia, che viene approfondita separatamente attraverso uno studio parallelo sul racconto autobiografico.

La codifica delle trascrizioni dell’AAI non è basata sulla descrizione della propria infanzia, piuttosto vuole indagare sul modo in cui le esperienze infantili, e in modo particolare i loro effetti sullo sviluppo della persona, si riflettono sul funzionamento corrente della vita del soggetto e il modo in cui da questo vengono valutate; le narrazioni correnti non sono altro che l’accurata rielaborazione del soggetto delle proprie esperienze infantili mentre questo le racconta.

Il sistema di codifica messo a punto da Goldwyn e da Mary Main produce tre classificazioni principali di attaccamento nell’adulto, che rappresentano tre modalità distinte di narrare le proprie esperienze infantili. I soggetti vengono classificati come “autonomi o sicuri”  quando la loro presentazione e valutazione del rapporto di attaccamento con i propri genitori da bambino risulta coerente, le risposte in questo primo caso sono date in modo chiaro, pertinente e fornendo una sintesi appropriata. È stato appurato che risultano adulti con pattern “autonomo” non solo quei bambini che hanno esperito un attaccamento sicuro, infatti, in alcuni casi i soggetti hanno un background decisamente difficile, purché essi risultino coerenti e non presentino contraddizioni nel raccontare e valutare queste esperienze.

Sono classificati come “distanzianti” quei partecipanti al test che descrivono i loro genitori in termini estremamente positivi, che però incappano in varie contraddizioni durante il racconto, un esempio di tale situazione potrebbe essere dato da un soggetto che riferendosi alla propria madre dice: “Lei era affettuosa nei miei confronti” ma poi più avanti nell’intervista si contraddice affermando: “quando mi sono ferito sono andato via, perché sapevo che lei sarebbe stata in collera con me”. Queste affermazioni, pur essendo contraddittorie, sembrano passare inosservate agli occhi del soggetto. I partecipanti classificati come “distanzianti” sostengono, inoltre, di non riuscire a ricordare le proprie esperienze di attaccamento, ma studi recenti hanno mostrato che essi non sono privi di una memoria autobiografica riguardante il proprio attaccamento, piuttosto essi tendono a minimizzare le proprie relazioni di attaccamento.

Quei soggetti che mostrano, invece una preoccupazione confusa, arrabbiata o passiva verso la figura di attaccamento vengono classificati come “preoccupati”; le trascrizioni dei racconti di questi soggetti mostrano l’uso di parole gergali o di assurdità e spesso contengono frasi poco chiare, non pertinenti e non sintetiche, sembra quasi che queste persone non siano in grado di rimanere concentrate sul focus del discorso e divaghino tra un ricordo e l’altro in modo confuso quasi incapaci di fermarsi. Si pensa che i soggetti “distanzianti” e “preoccupati” abbiano avuto un attaccamento insicuro.

C’è un’ultima categoria, introdotta in seguito sempre da Goldwyn e Main, che classifica i soggetti come “irrisolti-disorganizzati” che vede un riscontro con il pattern “disorganizzato” nella Strange Situation. Questi soggetti hanno fatto esperienza di situazioni traumatiche come una perdita o un abuso; le indicazioni che rimandano a questo tipo di pattern sono manifestate in errori momentanei nel ragionamento durante il racconto di queste esperienze traumatiche.

Negli ultimi decenni l’Adult Attachment Interview è stato applicato in un numero sempre crescente di studi sulla rappresentazione mentale degli adulti sulle loro esperienze di attaccamento infantile. È stato supposto che la rappresentazione mentale dell’attaccamento di un adulto sia collegata alla rappresentazione dell’attaccamento presente nei suoi stessi figli.

La codifica di questo test non è basata sulla relazione di attaccamento vera e propria, piuttosto sul modo in cui i soggetti hanno rielaborato le loro esperienze infantili e riflettono su di esse soffermandosi sugli effetti attuali che queste hanno sul loro funzionamento come adulti e come genitori. La codifica dell’AAI porta ad una delle tre classificazioni di attaccamento nell’adulto: autonomo (F), distanziante (DS) e preoccupato (E). Gli adulti con una classificazione F tendono a valutare le loro relazioni e le loro esperienze di attaccamento in modo coerente, sia quando danno una valutazione positiva, sia quando ne danno una negativa, e considerano queste esperienze importanti per la formazione della loro personalità.

Gli adulti classificati come DS tendono a minimizzare l’importanza che ha avuto l’attaccamento per la formazione delle loro vite o a idealizzare le esperienze avute nell’infanzia senza essere, però, in grado di fornire una descrizione concreta. Gli adulti con la classificazione E tendono a massimizzare l’importanza dell’attaccamento, essi sono ancora molto coinvolti con le loro esperienze passate e non sono in grado di descriverle coerentemente e di riflettere in modo non preoccupato su di esse: ira o passività caratterizzano lo stile di descrizione fornito da questi adulti. Gli adulti con le classificazioni DS ed E sono considerati entrambi insicuri. Una classificazione aggiuntiva riguarda lo stile di attaccamento irrisolto (U), questo tipo di codifica viene usato se l’intervistato mostra segni di traumi irrisolti, solitamente collegati alla perdita della figura di attaccamento.

In uno studio meta-analitico Marinus H. van IJzendoorn e Marian J. Bakermans-Kranenburg vogliono indagare sul modo in cui sono distribuiti i diversi pattern di attaccamento nelle madri non cliniche, nei padri non clinici, in campioni di adolescenti e giovani adulti senza figli, in un substrato culturale socio-economicamente svantaggiato, ed infine in gruppi clinici. Inoltre si vuole vagliare l’ipotesi che i genitori con bambini disturbati mostrino rappresentazioni più insicure dei loro legami d’attaccamento.

Dagli studi è emerso che nel campione di 584 madri non cliniche nel 58% dei casi esse potevano essere classificate come autonome, nel 24% come distanzianti e nel 18% dei casi erano classificate come preoccupate.

Lo studio sui padri ha prodotto dei risultati analoghi: il 62% dei padri è classificato come autonomo, il 22% come distanziante e il 16% come preoccupato. Anche nel caso degli adolescenti e dei giovani adulti senza figli sono stati trovati risultati che richiamano quelli ottenuti in precedenza nelle madri e nei padri non clinici. Nel 56% dei casi gli adolescenti e i giovani adulti potevano essere classificati con un pattern di attaccamento autonomo, nel 27% dei casi con un pattern distanziante e nel 17% dei casi con un pattern preoccupato.

Per quanto riguarda gli ambienti socio-economicamente svantaggiati è stata rilevata una presenza di madri che potevano essere classificate prevalentemente come disorganizzate o come distanzianti, questo risultato è stato associato ad una presenza maggiore di situazioni traumatiche dovute alla perdita della figura di attaccamento in età precoce, ma non c’è nessun dato che provi che l’attaccamento nell’adulto sia legato alla cultura.

L’ipotesi che i genitori con bambini con un disturbo psicologico mostrino rappresentazioni più insicure dei loro legami d’attaccamento risulta confermata dai dati raccolti: nel gruppo degli adulti con figli trattati clinicamente i genitori classificati come autonomi sono una minoranza, solo il 14%, mentre il 41% dei genitori è classificato come distanziante e il 45% come spaventato.

In sintesi emerge che le distribuzioni AAI nei campioni di madri, padri e adolescenti non clinici sono abbastanza simili tra loro  e indipendenti da variazioni cross-culturali. La categoria F è risultata essere più piccola rispetto alle aspettative nella distribuzione della classificazione della Strange Situation nella diade madre-bambino non trattati clinicamente.

La trasmissione intergenerazionale dell’attaccamento

In passato si è pensato che l’attaccamento fosse un argomento che poteva riferirsi solo ai bambini; il concetto di attaccamento, infatti, si adattava perfettamente all’idea che la relazione che si instaura tra il bambino e i suoi genitori sia particolarmente importante nel generare determinati comportamenti che il piccolo mette in atto nei confronti del mondo che lo circonda. In tempi più recenti, però, alcuni autori si sono interrogati su cosa accadesse una volta che una persona diventasse adulta; non era plausibile che il legame di attaccamento svanisse o che venisse accantonato, è così che presero piede alcuni studi sull’attaccamento transgenerazionale, in modo particolare sulla trasmissione genitore-bambino di uno stile di attaccamento piuttosto che un altro, e sul modo in cui avviene nel tempo questa trasmissione, senza che si verifichino necessariamente dei circoli viziosi per quegli stili di attaccamento meno positivi.

Mentre un tempo la relazione di attaccamento era ricercata nello stretto rapporto all’interno della diade madre-bambino, o al massimo della triade madre-padre-bambino, oggi vengono presi in considerazione altri elementi importanti: abbiamo visto l’importanza dell’ambiente, ma non della cultura, in cui si instaura la relazione; abbiamo visto anche che giocano un ruolo fondamentale sia la sensibilità dell’adulto, sia il temperamento del bambino, e su questo punto è stata rilevata una forte correlazione, anche se ancora non è possibile stabilirne il rapporto causa-effetto.

Grazie a questi studi è stato possibile rilevare che tra lo stile di attaccamento ottenuto attraverso la somministrazione dell’AAI all’adulto e quello ottenuto attraverso la Strange Situation del bambino è presente una corrispondenza diretta nel 75% dei casi. A questo punto numerosi studi si sono volti alla ricerca dell’esistenza di una trasmissione lineare dello stile di attaccamento, ma è stato appurato che nella realtà questa linearità non esiste, c’è piuttosto una forte influenza dovuta all’ambiente di crescita del bambino nella sua totalità.

Studi più recenti compiuti da Van IJzendoorn e altri hanno potuto riscontrare tutto questo attraverso delle ricerche meta-analitiche, studi longitudinali e trasversali, ma allo stesso tempo è stata mossa una forte critica alle metodologie con cui le ricerche vengono svolte. Sarebbe fondamentale, secondo questo autore, incrementare il numero di ricerche scientifiche, per poter stabilire inequivocabilmente il rapporto che intercorre tra le variabili in studio, per non limitare i risultati a semplici correlazioni.

Dall’amore all’odio…e viceversa!

Non è un mistero così indecifrabile come Amore generi Odio. Più sottile e raro il movimento contrario, ma la chiave non è difficile da trovare anche in quel caso.

Questo articolo è stato pubblicato da Giovanni Maria Ruggiero su Linkiesta il 13/02/2016

Non è un mistero così indecifrabile come Amore generi Odio. Più sottile e raro il movimento contrario, ma la chiave non è difficile da trovare anche in quel caso. Amore, anche quando non è ricambiato, è una relazione. Esso genera aspettative ed è figlio del Desiderio e, in quanto tale, può facilmente deludersi e deluderci. E una volta deluso, tramutare il suo contenuto nel suo contrario.

L’oggetto d’amore, fino a un momento prima idealizzato, a cui erano destinate tutte le nostre lodi e tutti i nostri migliori elogi, improvvisamente si rivela al di sotto delle nostre bramose aspettative. O meglio, improvvisamente non soddisfa più tutte le nostre illusioni. Nell’Amore che si tramuta in Odio c’è un fondo egoistico e desiderante che era presente fin dall’origine e che nel tramutarsi non ha fatto altro che rivelarsi; non è cambiato, purtroppo. Un fondo di desiderio che vuole essere soddisfatto e che, acquattato dietro tutti i romanticismi in cui si nasconde l’amante con la sua pretesa di abbassarsi e di dileguarsi nell’adorazione dell’amato, sta li, pronto a esplodere nell’ira di chi si sente intitolato a ricevere tutto perché tutto ha dato nel suo amore. Anche quando nulla gli era stato richiesto.

È questo il meccanismo che può portare ad arrossare di sangue quello che era iniziato nel rosa della festa di San Valentino. È un ciclo interpersonale, se perdonate il gergo tecnico. Ovvero un legame tra persone ma soprattutto un legame tra le menti delle persone, una relazione tra le loro idee e le loro emozioni, in cui ogni pensiero genera dei comportamenti che influiscono la mente dell’altro e, così facendo, generano nuovi pensieri nell’altro e quindi nuove emozioni e nuovi comportamenti che torneranno indietro a colui che aveva fatto nascere questa vicenda di relazioni e di pensieri. E tornando indietro ancora nutrono nuovi pensieri, nuove emozioni e nuove azioni, in un perenne e circolare agire e reagire.

I cicli interpersonali sono stati studiati in Italia soprattutto da Antonio Semerari e Giancarlo Dimaggio che molto ci hanno illuminato con le loro ricerche sulla personalità e anche sull’odio e sull’amore. E non è una notizia consolante notare che, tra i vari cicli studiati da Semerari e Dimaggio, quello che somiglia di più alle pene d’amore pronte a degenerare in furenti meditazioni di odio è il ciclo della cosiddetta personalità borderline. Borderline: termine che si sta diffondendo anche nel grande pubblico, magari nella forma abbreviata border, come un tempo para e paranoia erano diventate popolari.

Nel ciclo borderline troviamo all’inizio quella stessa fame di vicinanza e di relazione che caratterizza l’aurora dell’amore nascente. Nel borderline il fenomeno è ancor più pervasivo e invadente, dato che questa personalità nutre fame di relazione non solo per la persona amata, ma anche per tutta la sua intera cerchia sociale, per i suoi moltissimi amici, anche occasionali o semplicemente conoscenti, in una sorta di caricatura dell’amore universale. E questa fame si accompagna all’idealizzazione, similmente a quanto capita nell’amore: gli altri sono meravigliosi, perfetti, ricchi di virtù e di umanità e l’incontro con loro è abbondante di promesse e di future soddisfazioni.

Non è difficile capire come questo atteggiamento porti inevitabilmente alla delusione, che nel borderline è a sua volta un atteggiamento estremo, che esplode in rabbia. E alla rabbia si accompagna un senso d’ingiustizia, in cui gli altri ci deludono non per un loro limite umano da accettare umanamente, ma per la loro malafede e cattiveria. Di qui l’esplosione dell’amore in odio, meccanismo che possiamo ritrovare anche nelle delusioni d’amore. Chi è portatore d’amore spesso si ritiene portatore anche di una particolare giustizia a cui l’amato deve corrispondere, se è davvero una persona all’altezza di questa meraviglia. E se non lo è, allora viola una regola non da poco, una regola che ha una qualità morale. E se qualcuno viola una regola morale costui ha commesso ingiustizia ed è degno di rabbia e poi di odio, in un crescendo che sembra non aver fine.

O meglio, c’è una fine. Talvolta purtroppo nella violenza e perfino nell’omicidio –che spesso prende la forma del femminicidio – e che troppe volte si pone a conclusione di una relazione d’amore.

Per fortuna la fine più diffusa è quasi il suo opposto, almeno nella personalità borderline. Il protagonista dello scoppio d’ira e odio ben presto si pente del suo gesto, sempre secondo uno stile eclatante e teatrale. La colpa dello screzio, del litigio è totalmente assunta dalla stessa persona che fino a poco prima era indignata su quanto il suo partner avesse deluso le sue aspettative.

La personalità borderline s’immerge nella colpa con la stessa totalitarietà con la quale si era immersa nell’amore e nell’odio. La colpa è il terzo episodio di questa sacra rappresentazione. Una simile trafila la possiamo trovare anche nell’innamoramento e al di fuori della psicopatologia del borderline. L’amante si pente molto facilmente, troppo facilmente dei suoi scoppi d’ira e si flagella, chiede perdono tra le lagrime e di nuovo inizia a idealizzare la figura amata. E in tale modo è tornato alla casella di partenza e ha concluso il suo giro. Ed essendo tornato alla casella di partenza può iniziare un altro giro in una perenne giostra di amore, odio e colpa, un serpente che si morde la coda e che tutto contiene nel suo cerchio magico.

L’amore è un cerchio tra due persone in cui l’altro polo è l’odio, un ciclo interpersonale. E se il male sta nella relazione, la soluzione è dentro di noi. Sta a noi riuscire a trasformare l’odio in un fastidio non troppo espresso per i limiti dell’altro, in una capacità non solo di non odiare, ma anche di comprendere i difetti altrui, di non indulgere in risposte brusche, di non deteriorare la nostra sensibilità, perfino di rendere l’odio, se ridotto a uno spizzico, una spezia del cibo amoroso. In fondo ogni veleno, a piccole dosi, è una medicina. E viceversa.

Men, Women and Children – Recensione del film di J. Reitman

Men, Women and Children (2014) è un film incentrato sulle vicende di un gruppo di adolescenti nativi digitali e dei loro genitori coinvolti a loro volta da questa nuova metodica di interazione sociale.

Men, Women and Children è un film del 2014 scritto e diretto dal regista Canadese Jason Reitman. Il film è incentrato sulle vicende di un gruppo di adolescenti nativi digitali e dei loro genitori coinvolti a loro volta da questa nuova metodica di interazione sociale.

Don e Helen Truby, coppia sposata. Lei cercherà una relazione extra-coniugale attraverso un sito di incontri, lui che da tempo soddisfa le proprie esigenze sessuali attingendo alla pornografia, contatterà un servizio di prostitute online.

Il figlio della fedifraga coppia, Chris Truby, anch’esso totalmente dipendente dalla pornografia, svilupperà problemi di erezione non riuscendo a trarre eccitazione se non dalla visione di pratiche sessuali non comuni.

Ci imbatteremo poi in Donna Clint, ex attrice fallita, madre di Hannah, che apre un sito web in cui posta foto di sua figlia per cercare di immetterla nel mondo dello spettacolo. Un giorno Donna riceverà una mail da uno sconosciuto con la richiesta di un servizio fotografico della ragazza in posizioni erotiche, Donna acconsentirà alla richiesta entrando in un vortice al limite dell’illecito.

Tim Mooney un ex stella del football, ha lasciato la squadra a causa del divorzio dei suoi genitori dovuto all’abbandono della madre, di cui adesso riceve notizie solo attraverso Facebook (ad un certo punto lei addirittura lo bloccherà dai suoi contatti). Dopo il trauma, Tim cercherà rifugio emotivo in un famoso gioco di ruolo online. Dopo evidenti problemi di distacco dalla realtà, a Tim vengono prescritti dei farmaci antidepressivi da parte del terapeuta della scuola. L’unico contatto umano e reale di Tim è con una ragazza, Brandy Beltmeyer.

Brandy Beltmeyer ha una madre estremamente iperprotettiva, Patricia, che monitora in modo ossessivo tutte le sue attività su Internet: cronologia, password e account. Brandy troverà il modo di avere una sua figura in rete attraverso Tumblr, dove la ragazza posterà diverse sue foto e stati per esprimere se stessa, con l’uso di un personaggio estremo.

Infine Allison Doss, ex ragazza in carne, da tempo innamorata di un ragazzo della sua scuola più grande di lei, dimagrirà fortemente dopo che Brandon , il ragazzo in questione, la denigrerà per il suo aspetto. Entrata quindi nel vortice dell’anoressia, la ragazza troverà supporto nella frequentazione di siti malsani in cui ragazze con disturbi alimentari si supportano a vicenda e suggeriscono tecniche per non mangiare.

Le tematiche affrontate in Men, Women and Children toccano temi attualissimi che spaziano dalla cultura dei videogiochi all’anoressia, dall’infedeltà coniugale a pornografia e materiale illecito su rete.

 

La cultura e le interazioni dei social network in Men, Women and Children

Le scene sono piene di atti comunicativi verbalizzati e scritti (carine le serie di vignette che emergono quando i personaggi scrivono qualcosa attraverso i messaggi o i social network) e ci fanno sorridere essendo un piccolo specchio dove inevitabilmente ognuno di noi può ritrovare la propria immagine.

Facebook, instangram, tumblr, tweetter, grinder,tender, Legacy of Magic hanno sostituito i vecchi muretti dove ci si incontrava il pomeriggio, i vecchi rullini e quelle belle foto cartacee che avrebbero creato i nostri album fotografici da condividere a casa con amici e parenti, gli appuntamenti al buio, nascondino e mosca cieca. Senza cadere comunque nella retorica del si stava meglio quando si stava peggio, il film apre una serie infinita di domande e riflessioni tra cui quella che a mio avviso muove ogni cosa, ovvero il sociale ed il suo cambiamento.

Cosa spinge le persone ad iscriversi ad un social network? Quanto c’è di realistico e di idealistico nei profili social? Questa quantità di informazioni può essere utile nell’analizzare la vita ed il modo di essere delle persone?

 

La teoria del flow nell’esperienza dei social network

Si è cercato di rispondere a tali quesiti partendo dalla teoria dei bisogni di Maslow (Riva G., 2008) dove si spiega tale spinta attingendo ai bisogni di stima, di sicurezza, di autorealizzazione ma a parer mio, attraverso una ricerca sul web, una teoria molto interessante è quella condotta da alcuni psicologi dello IULM e della Cattolica di Milano (Mauri M., Cipresso P., Balgera A., Villamira M., Riva G., 2011) che sostengono:

I social network hanno la capacità di produrre delle esperienze ottimali, definite di Flow (Flusso), che sono in grado di rifornire una ricompensa intrinseca ai propri utenti. Secondo la teoria di Csikszentmihalyi (1998), il flow è quello stato in cui tutto si svolge in armonia con le nostre decisioni; è uno stato che presuppone passione, creatività e il pieno coinvolgimento delle migliori abilità della persona. L’esperienza ottimale che si vive dipende direttamente da chi la compie, non solo perché si diventa protagonisti di quello che si sta facendo ma, perché si è totalmente coinvolti nell’attività al punto che nient’altro può distrarre in quel momento. Nel Flow un individuo è in grado di accantonare qualunque altro pensiero e preoccupazione, per immedesimarsi totalmente nel compito, fino ad arrivare a perdere il senso del tempo e la comparsa temporanea delle necessità fisiche di base.  

E ancora:

Un’altra motivazione che spinge le persone ad iscriversi ad un Social Network, fa riferimento al bisogno personale di lasciare una traccia di sé. Tale bisogno è sempre stato una necessità insita in tutti gli esseri umani, di tutte le epoche storiche. Se in passato si usavano i ritratti, oggi si usano le pagine dei social network. Un tempo i ritratti davano un senso di eternità e ci fornivano molte informazioni del soggetto raffigurato (carattere, ambizioni, status sociale), così, oggi, i profili Facebook possono indicarci i tratti psicologici, gli interessi e molte altre informazioni dei loro possessori. Proprio per questo molte ricerche (Quercia, D., Kosinski, M., Stillwell, D. & Crowcroft, J., 2011) che presenteremo hanno analizzato la personalità degli utenti, arrivando a comprendere che tutte le informazioni, le attività svolte online possono dirci qualcosa della personalità reale (offline) di ognuno, in quanto costruiscono una sorta di memoria storica delle proprie attività.

Zuckenberg sembra aver intuito questa tendenza al voler lasciare un segno nel mondo virtuale e dal 2011 ha introdotto il Timeline una sorta di diario aperto che permette alla bacheca degli utenti di conservare gli ultimi aggiornamenti ed in più di estrapolare all’occorrenza notizie relative ad un determinato periodo.

Quindi,attraverso il Timeline si ripercorrono un alcune tappe che abbiamo deciso di dichiarare, se poi contiamo le immagini del profilo e di copertina che scegliamo, i link a cui mettiamo i like, gli interessi che manifestiamo attraverso appunto le notizie, le reti di amicizie e le condivisioni, probabilmente, calcolando comunque che quello del profilo è un vero e proprio processo di creazione e di desiderata voglia di manifestarci al massimo della nostra esponenzialità, si può pensare che nelle indagini prossime future nel campo della psicologia e non solo, che oltre ai test psicometrici, l’attenta analisi dei linguaggi verbali e non e in ultimo la conoscenza dell’ambiente sociale del paziente, anche l’osservare la pagina facebook potrebbe essere un ulteriore indicatore di personalità.

Valutazione del personale: il rischio di distorsione di giudizio nei selezionatori

Nel processo di valutazione del personale è importante che lo psicologo del lavoro sia adeguatamente preparato rispetto agli errori di valutazione in cui è possibile incorrere, in modo da poter condurre un processo di selezione etico e responsabile.

Uno dei settori operativi della Psicologia applicata è quello del mondo del lavoro, molti psicologi infatti mettono in campo la loro professionalità in attività soprattutto dedicate alla formazione, alla ricerca e selezione e alla valutazione del personale.

Qui mi occuperò in particolare del processo di selezione e valutazione del personale e di come le distorsioni di giudizio proprie del valutatore possano incidere in esso.

È bene infatti tener conto che il processo di valutazione del personale è caratterizzato da attività molto delicate che avranno, in seguito alla selezione del candidato ritenuto ideale, un impatto non indifferente sull’azienda. È quindi importante che chi seleziona sia adeguatamente preparato rispetto agli errori di valutazione in cui è possibile incorrere, in modo da poter condurre un processo di selezione che possa essere definito etico e responsabile.

Nel processo di selezione è possibile distinguere tre fasi: Reclutamento, Valutazione e Inserimento. Durante la fase di valutazione del personale è possibile distinguere l’utilizzo di tecniche standardizzate (test psicometrici psicoattitudinali), oggettive e replicabili, e di tecniche non standardizzate (colloqui e interviste), caratterizzate dalla soggettività acquisita del selezionatore. Ed è proprio in quest’ultima area che verranno analizzati i possibili errori di giudizio nei quali potrebbe incorrere un valutatore.

 

Le distorsioni di giudizio nella valutazione del personale

Come è facilmente intuibile le distorsioni di giudizio non sono totalmente eliminabili, ogni persona ha infatti opinioni preconcette, positive o negative, che possono far assumere determinati comportamenti discriminanti o di favoreggiamento nell’ambito del giudizio o, più in generale, nei rapporti sociali. È possibile riassumere questo concetto in una parola: pregiudizio. Il selezionatore esperto dovrà saper infatti riconoscere ed essere consapevole dei propri pregiudizi cercando, nel processo di valutazione del personale, di minimizzarli o di utilizzarli come elemento di partenza non per formarsi un’opinione a priori del candidato, ma per approfondire determinati ambiti.

Oltre i pregiudizi, un errore di valutazione ampiamente diffuso è quello dato dall’effetto alone. Questo effetto si verifica quando si attribuisce ad un candidato in fase di colloquio un giudizio positivo o negativo in base ad una sua caratteristica (ad esempio, l’abbigliamento, l’aspetto fisico o il modo di relazionarsi). Se questa caratteristica, positiva o negativa che sia, influenza il giudizio del selezionatore a tal punto di estenderlo ad altre caratteristiche del candidato, si parla di effetto alone. Un semplice esempio di effetto alone su una attribuzione di caratteristica positiva, può essere l’estensione del giudizio di bello a quello di bravo; agli occhi del valutatore il candidato potrà risultare quindi automaticamente bravo solamente grazie al suo aspetto fisico esteriore.

Talvolta è possibile che il candidato venga valutato in modo eccessivamente positivo o negativo, in questi casi si parla di effetto indulgenza o, al contrario, di effetto severità. Il primo è facile che si verifichi quando il datore di lavoro ha una necessità immediata di inserire una persona all’interno del proprio contesto lavorativo, per esempio a causa di un aumento di lavoro, e quindi sorvoli su alcune caratteristiche a favore di un giudizio veloce e incompleto. Il secondo effetto invece si verifica in situazioni sostanzialmente opposte, cioè quando il giudizio è caratterizzato da eccessiva severità e se il profilo del candidato non corrisponde in ogni suo singolo aspetto a quello richiesto, viene facilmente scartato.

Un altro effetto, nella valutazione del personale, è quello definito di tendenza centrale, ovvero la tendenza ad attribuire al candidato valori di giudizio medi o nella norma, senza sbilanciarsi su valori alti o bassi. Il rischio è di emettere giudizi non riuscendo a valorizzare le prestazioni eccellenti e senza individuare quelle scarse.

Altro errore di giudizio che si verifica di frequente è la valutazione positiva del candidato che possiede caratteristiche simili o in linea con quelle del selezionatore, e la valutazione negativa di chi possiede caratteristiche distanti o diverse da esso; questo viene definito effetto di equazione personale. L’effetto di contrasto invece si verifica quando chi valuta mette in relazione il proprio giudizio del candidato con altre osservazioni fatte precedentemente. L’errore che ne deriva è di non considerare la valutazione del candidato nel momento attuale, ma solo in relazione alla valutazione di altri candidati precedenti.

Un errore di valutazione che tutti fanno, anche nella vita quotidiana, è quello dovuto all’effetto primacy, generalmente definito della prima impressione. In questo caso il selezionatore tende a dare un peso maggiore alle prime informazioni che riceve, come ad esempio aspetto fisico e abbigliamento, e tenderà inoltre a ricordarle alla fine, quando dovrà formulare un giudizio. Il rischio è che le informazioni successive alla prima impressione vengano considerate poco rilevanti o addirittura tralasciate. Il giudizio sulla prima impressione viene formulato nei primissimi secondi di incontro tra selezionatore e candidato, favorendo la costruzioni a priori dell’immagine del candidato e indirizzando il valutatore alla ricerca di elementi che confermino la sua idea iniziale. L’effetto primacy è una delle distorsioni di giudizio più comuni e difficili da mettere in discussione, è infatti molto arduo mettere in atto uno sforzo critico per modificare il nostro primo giudizio. L’effetto opposto è ciò che viene definito effetto recency, generalmente poco frequente nei processi di selezione e valutazione del personale. Quest’ultimo riguarda la propensione a ricordare solo la ultime informazioni fornite dal candidato, soprattutto quelle con valore positivo.

Giunti a questo punto e presentate le principali possibili distorsioni di giudizio, la domanda sorge spontanea: è quindi possibile mettere a punto un giudizio oggettivo e privo di errori? La risposta è, senza dubbio, no. È al contrario possibile invece ridurre al minimo la possibilità che si verifichino errori di valutazione da parte di chi seleziona. Come fare questo? Utilizzando alcuni accorgimenti puramente tecnici nel processo di valutazione del personale, come ad esempio test oggettivi o avvalendosi di più pareri, formando i selezionatori su come avvengono i processi di giudizio e sui possibili errori di valutazione e, naturalmente, con l’esperienza. Nel momento in cui il selezionatore diventa consapevole dei possibili errori di giudizio che può incontrare, delle conseguenze che essi hanno, e delle modalità che potrebbe mettere in atto per riconoscerli, contenerli e controllarli, arriverebbe a portare un grande valore aggiunto al proprio lavoro, al candidato stesso e, non meno importante, all’azienda per la quale lavora.

Big Five e Teorie della personalità – Introduzione alla psicologia

La teoria dei Big Fivetra le diverse teorie sulla personalità, è considerata quella maggiormente in grado di spiegare più variabilità individuale tra i soggetti.

INTRODUZIONE ALLA PSICOLOGIA RUBRICA DI DIVULGAZIONE SCIENTIFICA IN COLLABORAZIONE CON LA SIGMUND FREUD UNIVERSITY DI MILANO 

La Teoria dei Big Five: introduzione

Nella storia della psicologia si sono susseguite e confrontate diverse teorie sulla personalità e sul suo sviluppo.

Allo stato attuale, la teoria dei cinque grandi fattori della personalità (teoria dei Big Five) è considerata quella maggiormente in grado di spiegare più variabilità individuale tra i soggetti. Il termine Big Five è stato usato per la prima volta da Goldberg (1981), anche se fu Norman (1963) a dar inizio ad un lavoro approfondito sui cinque grandi fattori. Questa teoria elaborata da McCrae e Costa risulta, tra i modelli incentrati su un approccio nomotetico allo studio della personalità, uno dei più condivisi e testati sia a livello teorico che empirico.

 

La Teoria dei Big Five: la storia

Tra le più importanti teorie della personalità vi sono le teorie dei tipi e quelle dei tratti psicologici.

Nel dettaglio, con il termine «tratti» si è soliti indicare quelle caratteristiche della personalità, per lo più ritenute di origine genetica (Eysenck, 1990), e quindi difficilmente modificabili, che influenzano il comportamento umano in modo stabile. I tratti si oppongono agli stati che sono definiti come disposizioni transitorie della personalità e, in quanto tali, sono, facilmente modificabili.

Attualmente le teorie dei tratti sono considerate più scientifiche rispetto a quelle dei tipi. Di conseguenza, la personalità è data dalla somma dei tratti di un individuo che sarebbero in grado di spiegare il comportamento osservato. Quindi, i tratti rappresentano variabili latenti (ossia non osservabili direttamente) che spiegano il comportamento umano manifesto.

 

La Teoria dei Big Five: le teorie di riferimento

Le teorie dei tratti della personalità più note sono quella di Cattell, quella di Eysenck e successivamente quella dei «Cinque grandi fattori della personalità» (teoria dei «Big Five»). Queste tre non sono le uniche esistenti ma si evidenziano per l’indiscutibile importanza che hanno avuto e che continuano ad avere.
Secondo Cattell i tratti primari costitutivi della personalità sarebbero sedici:

  • A – distaccato, freddo;
  • B – superficiale, inintelligente;
  • C – immaturo, labile;
  • E – deferente, mite;
  • F – rigido, depresso;
  • G – incostante, volubile;
  • H – timido, impacciato;
  • I – duro, realista;
  • L – fiducioso, tollerante;
  • M – convenzionale, pratico;
  • N – ingenuo, sprovveduto;
  • O – tranquillo, sicuro;
  • Q1 – conservatore, tradizionalista;
  • Q2 – dipendente, imitativo;
  • Q3 – indolente, incontrollato;
  • Q4 – rilassato, placido.

Questi tratti sono misurati soprattutto dal test 16 PF (Cattell, Eber e Tatsuoka, 1970). Essi sono i tratti più significativi n grado di spiegare la maggior parte della varianza della personalità negli adulti normali.

Uno dei problemi principali è che i fattori di Cattell sono difficilmente replicabili sia per le etichette utilizzate sia per la bontà dei dati ottenuti.

Più tardi Eysenck presentò la teoria trifattoriale, cioè basata su tre fattori: Estroversione (E), Nevroticismo (N) e Psicoticismo (P).

Eysenck nell’arco della sua attività scientifica ha costruito una serie di test di personalità atti a misurare questi tre fattori, ciascuno dei quali era un miglioramento rispetto ai precedenti. Si tratta di pochi tratti non in grado di coprire tutto l’insieme delle caratteristiche individuali.

 

La Teoria dei Big Five

Così, nascono i Big Five. Secondo questa teoria vi sono cinque grandi fattori della personalità che rappresentano il punto di convergenza delle teorie dei tratti precedentemente presentate. Le 5 dimensioni elencate di seguito, corrispondono alle macro-categorie più usate per descrivere le diversità tra individui.

Le cinque categorie sono:

  1. Estroversione. Il polo positivo di questo fattore è rappresentato dall’emozionalità positiva e dalla socialità, laddove quello negativo è rappresentato dall’introversione, ossia dalla tendenza ad «esser presi» più dal proprio mondo interno che da quello esterno.
  2. Amicalità. Il polo positivo di questo fattore è rappresentato da cortesia, altruismo e cooperatività; il polo negativo da ostilità, insensibilità ed indifferenza;
  3. Coscienziosità. Questo fattore contiene nel suo polo positivo gli aggettivi che fanno riferimento alla scrupolosità, alla perseveranza, alla affidabilità ed alla autodisciplina e, nel suo polo negativo, gli aggettivi opposti;
  4. Nevroticismo. Il polo positivo di questo fattore è rappresentato da vulnerabilità, insicurezza ed instabilità emotiva. Il polo opposto è rappresentato dalla stabilità emotiva, dalla dominanza e dalla sicurezza.
  5. Apertura all’Esperienza. Il polo positivo di questo fattore è rappresentato da creatività, anticonformismo ed originalità. Il polo opposto è, invece, identificato dalla chiusura all’esperienza, ossia dal conformismo e dalla mancanza di creatività ed originalità.

 

Valutazione della personalità con il modello Big Five

La valutazione della personalità attraverso il modello dei Big Five può avvenire mediante la compilazione da parte del soggetto di un questionario (strutturato attraverso la scala di Likert), oppure mediante la valutazione della condotta in un contesto di simulazione (come ad esempio l’Assessment center).

Per gli autori della versione italiana (Caprara, Barbaranelli e Borgogni), ognuna di queste cinque dimensioni è costituita di due sottodimensioni così definite:

  1. Estroversione:dinamismo, dominanza
  2. Amicalità: cooperatività/empatia, cordialità/ atteggiamento amichevole
  3. Coscienziosita’: scrupolosità, perseveranza
  4. Stabilita’ emotiva: controllo delle emozioni, controllo degli impulsi
  5. Apertura mentale: apertura alla cultura, apertura all’esperienza.

I fattori della teoria dei Big Five sono stati riscontrati in diverse popolazioni, in diverse età e in diversi studi basati sia su questionari che sul linguaggio naturale.

 

RUBRICA: INTRODUZIONE ALLA PSICOLOGIA

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Psicologia, nel Lazio il primo sportello di consulenza gratuita per le vittime di abuso professionale

Il 18 febbraio l’Ordine degli Psicologi del Lazio apre uno sportello di assistenza legale gratuita, rivolto ai cittadini vittime di abuso di professione psicologica. Un servizio innovativo e dedicato, che risponderà a tutti gli interrogativi dell’utente fino ad accompagnarlo nell’eventuale percorso legale. Il primo passo, è on line: un e-book e un vademecum per smascherare i casi “sospetti”.

Roma 17 febbraio 2016. Il fenomeno dell’abuso di professione è in preoccupante ascesa. Secondo una ricerca resa nota dall’EURES nel 2014, le professioni abusive in Italia sono oltre 30 mila, in tutti i campi, ma per oltre il 50% interessano la dimensione della salute. Per tutelare i cittadini da questo crescente allarme sociale, l’Ordine degli Psicologi del Lazio ha deciso di attivare un nuovo servizio: uno sportello di consulenza e assistenza legale gratuita, rivolto a tutti coloro che abbiano il sospetto di avere subito truffe o raggiri da parte di sedicenti specialisti della psiche.

 

«Negli ultimi anni – spiega Nicola Piccinini, presidente dell’Ordine degli Psicologi del Lazio – solo ai nostri uffici sono arrivate decine di segnalazioni di possibili abusi: 30 per condotta irregolare o scorretta presentazione delle proprie competenze; oltre 50 per usurpazione del titolo professionale in occasione di master e corsi; più di 100 per esercizio abusivo della professione. Insomma il fenomeno è serio e, anche alla luce della recente sentenza del Tar del Lazio che disciplina con maggiore severità il counseling psicologico, impone un’azione di tutela del pubblico più decisa e incisiva. D’ora in avanti, perciò, l’Ordine degli Psicologi del Lazio assumerà nei confronti di questa problematica un ruolo inedito, raccogliendo con maggiore prontezza le sollecitazioni della cittadinanza e facendo proprie le sue istanze»

 

In effetti il servizio predisposto dagli Psicologi del Lazio, in funzione a partire dal 18 febbraio, 27° anniversario dell’istituzione dell’Ordine degli Psicologi, rinnoverà in modo significativo il rapporto tra Ordine e pubblico. L’ente, in presenza di potenziali illeciti, non si limiterà più a indirizzare automaticamente il cittadino all’autorità di pubblica sicurezza, ma si porrà concretamente al suo servizio: approfondendo nel merito la segnalazione, fornendo immediati chiarimenti sui titoli dello specialista “sospetto” e, soprattutto, offrendo un servizio di consulenza legale gratuita nella predisposizione della pratica, per affiancarlo nell’eventuale percorso di rivalsa. In presenza di gravi reati, poi, l’Ordine giungerà a costituirsi parte civile.

Prima di richiedere la consulenza degli uffici, tuttavia, l’utente potrà esaminare la propria posizione autonomamente. Visitando il sito web degli Psicologi del Lazio, infatti, potrà scaricare un e-book gratuito, da cui ricavare in modo facile e intuitivo una prima valutazione della prestazione professionale che ha ricevuto e, secondariamente, una mappa delle possibili azioni da intraprendere. Tutte le informazioni sul servizio sono disponibili all’indirizzo www.ordinepsicologilazio.it.

 

 

Il re è nudo! – Il potere del leader ha bisogno della sua follia

E’ noto che più si sale nella gerarchia aziendale e più è difficile trovare persone che dicano la verità, bambini innocenti che osino gridare: ‘Il re è nudo!

 

Il re è nudo è una celebre frase della fiaba ‘I vestiti nuovi dell’imperatore’ di Hans Christian Andersen. Nella fiaba si narra di un re che amava i vestiti e che cadde in una trappola così raccontata:

Una volta arrivarono due impostori: si fecero passare per tessitori e sostennero di saper tessere la stoffa più bella che mai si potesse immaginare. Non solo i colori e il disegno erano straordinariamente belli, ma i vestiti che si facevano con quella stoffa avevano lo strano potere di diventare invisibili agli uomini che non erano all’altezza della loro carica e a quelli molto stupidi.

I truffatori finsero di lavorare sui tessuti, ovviamente inesistenti, ma nessuno osò denunciare la truffa in atto proprio per quel meccanismo che prevedeva che a non vedere i tessuti fossero gli incapaci e gli stupidi.

L’epilogo è noto: il re viene vestito con i vestiti inesistenti e sfila per la città nudo:

E così l’imperatore aprì il corteo sotto il bel baldacchino e la gente che era per strada o alla finestra diceva: «Che meraviglia i nuovi vestiti dell’imperatore! Che splendido strascico porta! Come gli stanno bene!».

Nessuno voleva far capire che non vedeva niente, perché altrimenti avrebbe dimostrato di essere stupido o di non essere all’altezza del suo incarico.

«Ma non ha niente addosso!» disse un bambino «Signore, sentite la voce dell’innocenza!» replicò il padre, e ognuno sussurrava all’altro quel che il bambino aveva detto. «Non ha niente addosso! C’è un bambino che dice che non ha niente addosso!». «Non ha proprio niente addosso!» gridava alla fine tutta la gente. E l’imperatore, rabbrividì perché sapeva che avevano ragione, ma pensò: «Ormai devo restare fino alla fine». E così si raddrizzò ancora più fiero e i ciambellani lo seguirono reggendo lo strascico che non c’era.

 

Il leader e il giullare

Come non associare le figure allegoriche della fiaba di Andersen, ai protagonisti che circondano il re dei nostri giorni che spesso sono soli con il loro potere, privi di verifiche concrete sui loro comportamenti, circondati da collaboratori, che vivono in uno stato di soggezione gerarchica? In realtà i leader avrebbero bisogno di persone sincere, di folli che, ricorrendo all’arma dell’umorismo, riescono a limitare le conseguenze dell’arroganza e dell’ostilità. In questo senso, il potere del leader ha bisogno della sua follia.

Il Re Lear shakespeariano aveva un buffone di corte, che aveva la funzione, importantissima, di dire la verità al potere. Re Lear fallisce perché, in un certo senso, non dà ascolto alle parole del suo buffone e rimane agganciato ad un solo punto di vista. Il principe Hal, invece, diventa un grande sovrano perché sa ascoltare i suggerimenti e le lezioni di un altro straordinario personaggio comico: Falstaff, furfante memorabile, ma anche inimitabile maestro di saggezza popolare. Sono gli individui come Falstaff e il Fool, che si muovono lontano dal cuore dell’organizzazione, a dire al leader la verità e a ricordargli la natura terrena e provvisoria del suo potere.

Anche Erasmo da Rotterdam, nel suo ‘Elogio della Follia‘, esamina il rapporto tra il leader ed il giullare. Sotto le apparenze della follia, il giullare può dire ciò che per altri è indicibile; usando le risorse dell’umorismo, il folle protegge il re dal rischio di diventare arrogante e malato di narcisismo.

Nei tempi passati i sovrani, dunque, gradivano il giullare di corte, a cui era consentito dire, ridendo e facendo ridere, la verità, per esempio su quanto effimero sia il potere. Erano, in definitiva, la coscienza critica, ma nascosta, del re.

Oggi, all’interno delle organizzazioni, leadership e followership sono ruoli in relazione ed il follower può esercitare un’influenza verso l’alto in modo attivo, in altre parole ‘a dispetto dello squilibrio di potere, l’influenza può essere esercitata da entrambi i ruoli come parte di uno scambio sociale’ (Hollander, 1992).

La followership non può essere sudditanza e neppure silente attesa dell’entrata del leader come se fosse il Re Sole; d’altra parte il leader non deve essere malato di narcisismo, ovvero avere una personalità che la psicologia clinica definisce maniacale.

 

Narcisismo e Leadership: gli svantaggi delle apparenze. - Immagine di Costanza Prinetti
Narcisismo e Leadership: gli svantaggi delle apparenze.

Il profilo del disturbo borderline di personalità secondo l’MMPI-2

Uno dei test più utilizzati nella pratica clinica ma anche nella ricerca come supporto alla diagnosi dei disturbi psichiatrici, così come anche del disturbo borderline di personalità è l’MMPI-2 (Hathaway & McKinley, 1989).
E’ possibile delineare uno specifico profilo MMPI-2 in pazienti con Disturbo Borderline di Personalità?

 

Il disturbo borderline di personalità

Il Disturbo Borderline di Personalità si manifesta nel 2% della popolazione, in prevalenza nelle donne, ed è il disturbo di personalità più frequentemente osservato nella pratica clinica, a causa della sofferenza che genera e per i frequenti ricoveri e ospedalizzazioni che comporta.
La caratteristica principale del Disturbo Borderline di Personalità (DBP) è la presenza di bruschi e rapidi cambiamenti dell’umore, instabilità nei comportamenti e nelle relazioni interpersonali, impulsività e instabilità dell’immagine di sé.
Ad oggi, la psicoterapia sembra essere il trattamento di elezione per la cura del Disturbo Borderline di Personalità e, proprio per questo motivo, una valutazione psicodiagnostica che porti ad una diagnosi ben definita e alla successiva pianificazione dell’intervento, appare di importanza fondamentale per un intervento tempestivo.

Uno dei test più utilizzati nella pratica clinica ma anche nella ricerca come supporto alla diagnosi dei disturbi psichiatrici, così come anche del Disturbo Borderline di Personalità è l’MMPI-2 (Hathaway & McKinley, 1989).
E’ possibile delineare uno specifico profilo MMPI-2 in pazienti con Disturbo Borderline di Personalità?

Lo studio

Uno studio RCT di Nasiri et al. (2013) ha cercato di fornire una risposta a questo quesito. Nella ricerca, il profilo medio MMPI-2 ottenuto in 50 donne con Disturbo Borderline di Personalità in trattamento ambulatoriale è stato confrontato con quello ottenuto da un campione di 50 donne selezionate al di fuori dei contesti ambulatoriali.

I risultati hanno evidenziato differenze significative tra le medie dei due profili ottenuti. In particolare, pazienti con diagnosi di Disturbo Borderline di Personalità hanno ottenuto un punteggio molto elevato sia nella scala F che nelle scale cliniche 1, 3, 4, 7 e 8.

Il profilo del disturbo borderline di personalità secondo l'mmpi-2

Fig. 1 Tratto da Nasiri et al (2013): confronto tra i profili medi MMPI-2 ottenuti nel gruppo BDP e nel gruppo non BDP.

Tali risultati sono in linea anche con i risultati ottenuti in studi precedenti (Edell, 1987; Hurt, 1985 e Gandolfo, 1991) e sono interpretabili sulla base dell’eterogeneità sintomatologica (disturbi d’ansia, di funzionamento della personalità e sintomi psicotici transitori) che caratterizza il disturbo Borderline e che produce sull’MMPI-2 un’elevazione notevole di molte scale cliniche di base.

Tuttavia lo studio presentato, seppure fornisca risultati incoraggianti, presenta alcuni limiti. In particolare, il limite più evidente è stata la pressoché totale assenza di studi recenti in merito con cui poter confrontare i risultati ottenuti; in secondo luogo il campione era costituito esclusivamente da donne e questo riduceva di gran lunga la possibilità di poter generalizzare i risultati. Infine, il gruppo di controllo era rappresentato da soggetti appartenenti a popolazione non clinica mentre interessante sarebbe comprendere se l’MMPI-2 sia in grado di discriminare in maniera fine il Disturbo Borderline di Personalità dagli altri disturbi di personalità descritti nel modello alternativo del DSM-5.

Ansia sociale: tecniche di gestione dei pensieri negativi. Detached Mindfulness vs Ristrutturazione Cognitiva

Trattamento dell’ansia sociale: il recente studio di Gkika e Wells (2015) rappresenta un buon esempio di trial clinico controllato in cui vengono confrontate due specifiche tecniche terapeutiche che si fondano su approcci differenti per il trattamento dei pensieri negativi disfunzionali. Dunque non si verifica l’efficacia di un protocollo di intervento in generale rispetto a un gruppo di controllo, ma si comparano due differenti tecniche, possiamo dire due segmenti afferenti a protocolli clinici piu’ complessi. In particolare stiamo parlano della comparazione della tecnica della detached mindfulness (DM) e quella della ristrutturazione cognitiva o valutazione dei pensieri (in inglese “thoughts evaluation”) per intervenire sui pensieri negativi che innescano e mantengono la fobia e l’ansia sociale.

 

I fattori chiave nell’ ansia sociale secondo il modello di Clark e Wells

La ristrutturazione cognitiva è empiricamente dimostrata come una tecnica in grado di migliorare i sintomi della fobia sociale (Mattick et al. 1989; Taylor et al.1997), anche se non interverrebbe su altri fattori cognitivi in gioco nei soggetti con ansia sociale. Tra questi fattori, facendo riferimento al modello di Clark e Wells (1995) possiamo elencarne almeno due:

  • L’elaborazione o processamento anticipatorio, ovvero un rimuginio riguardo le situazioni sociali imminenti che implica previsioni ansiose, ricordi negativi, pensieri intrusivi e impulsi a evitare;
  • La focalizzazione su un’immagine di sé negativa, ovvero prevalenza di immagini mentali di sé negative e distorte nel momento in cui vengono alla memoria situazioni sociali vissute in precedenza rispetto a situazioni passate neutre (non sociali). Questo fattore sarebbe connesso a un aumento dell’ansia e delle credenze negative riguardo le performaces sociali.

Wells (2009) ipotizza che siano determinanti nel mantenimento della sintomatologia non tanto i contenuti, bensì i processi cognitivi di focalizzazione rigida dell’attenzione e di rimuginio su determinati pensieri e immagini mentali. Questi processi attentivi e cognitivi esitano in convinzioni metacognitive che mantengono il disturbo. Dunque le credenze, i pensieri e le immagini mentali negative (ad esempio, “se mostro la mia ansia, gli altri penseranno che sono debole”) vengono considerate sia come esito che come trigger di ulteriore rimuginio, ruminazione e focalizzazione rigida dell’attenzione sul sé. Di conseguenza sarebbe il rimuginio rigido focalizzato sul sé la principale causa del disturbo e non di per sé i contenuti di pensieri e credenze.

 

 

Il confronto tra detached mindfulness e ristrutturazione cognitiva nella riduzione dell’ansia sociale

Partendo da queste premesse l’ipotesi di Gkika e Wells (2015) e’ che la ristrutturazione cognitiva avrebbe un effetto instabile e incompleto nella risoluzione dei sintomi dell’ansia sociale dal momento in cui non interviene sulla gestione dei processi cognitivi sopra descritti, ma solo sui contenuti cognitivi. Lo scopo dello studio é quello di valutare l’effetto unicamente specifico di due tecniche e non dei relativi protocolli (di cui solitamente le tecniche sono parte sia nella pratica clinica che nei trial di ricerca). In particolare le ipotesi formulate sono le seguenti:

  1. Entrambe le tecniche di detached mindfulness e di ristrutturazione cognitiva sarebbero significativamente correlate a una diminuzione dell’ansia sociale, del rimuginio anticipatorio, delle credenze negative e di un’ immagine di sé negativa;
  2. La tecnica di detached mindfulness sarebbe pero’ associata a cambiamenti maggiori nei fattori sopra descritti rispetto alla tecnica di ristrutturazione cognitiva.

All’interno di un disegno cross-over a misure ripetute a tutti partecipanti è stato richiesto di praticare per 15 minuti -prima di un discorso pubblico- le tecniche oggetto dello studio. Va detto che il campione ha una dimensione piuttosto limitata, ovvero 12 soggetti con elevati livelli di ansia sociale.

La tecnica della detached mindfulness (Wells and Matthews, 1994) ha come finalità quella di promuovere una “metaconsapevolezza”, ovvero una osservazione e consapevolezza decentrata della propria attivita’ cognitiva.

La tecnica della ristrutturazione cognitiva invece ha come obiettivo la rivalutazione, la disamina e la disputa dei contenuti dei pensieri e delle credenze negative che avviene principalmentete mediante domande socratiche (Greenberg and Padesky, 1995) risultati dimostrano che la pratica di entrambe le tecniche, sia la detached mindfulness che la ristrutturazione cognitiva, è associata alla riduzione dell’ansia di stato; mentre la detached mindfulness agirebbe in modo specifico riducendo anche il rimuginio anticipatorio, l’attenzione focalizzata sulla propria immagine, e il livello di convinzione sulle proprie credenze. In secondo luogo, secondo i dati la detached mindfulness sarebbe associata a una maggior quota di cambiamento in tutte le variabili di outcome considerate (ad eccezione dell’ansia di stato ridottasi in modo equivalente a seguito di entrambe le tecniche).

Un altro risultato interessante e’ che la ristrutturazione cognitiva se e quando praticata dopo la detached mindfulness e’ associata a un peggioramento del rimuginio anticipatorio. Gli autori spiegano il fenomeno asserendo che il lavoro di ristrutturazione dei pensieri negativi potrebbe portare il soggetto nuovamente a sopravalutare l’importanza dei processi di pensiero, rinforzando quindi in qualche misura il rimuginio sulle situazioni sociali future. Attenzione dunque all’utilizzo eclettico – altamente frequente tra gli psicoterapeuti cognitivi – di tecniche afferenti a diversi approcci, poiche’ gli effetti della combinazione di tecniche specifiche non sono ancora saldamente conosciuti e verificati a livello empirico.

Seppure questi dati aprono ipotesi esplicative intriganti vanno pero’ trattati con cautela poiche’ lo studio risente di alcuni importanti limiti tra cui la limitata dimensione del campione di soggetti estratti da una popolazione non clinica e la tipologia di disegno sperimentale. Certamente, lo studio dimostra empiricamente l’efficacia della detached mindfulness nella riduzione dell’ansia sociale e dei fattori cognitivi in essa coinvolti.

 

Congresso Internazionale Terapia Metacognitiva Milano 2016

Senso di colpa e vergogna: quale relazione con rabbia e aggressività?

Si pensa solitamente a vergogna e senso di colpa come a due esperienze emozionali private che fanno parte della morale, correlate profondamente con il senso di sé, e collegate alle relazioni interpersonali. Accade spesso che la vergogna venga confusa con il senso di colpa, in realtà le due componenti emozionali presentano molteplici differenze.

Valentina Di Dodo – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi Modena

 

Il senso di colpa segue la trasgressione e attiva l’angoscia della punizione, mentre la vergogna è accompagnata dalla percezione di un fallimento totale o parziale della propria dignità e dalla sensazione del pericolo dell’abbandono affettivo, questo avviene perché si manifesta la percezione di essere divenute delle persone spregevoli.

Con il senso di colpa la persona mette in discussione il ‘cosa ho fatto’, infatti, questo stato affettivo vede come elemento fondamentale la possibilità della riparazione, attuata conseguentemente a ciò che è accaduto in precedenza; data questa spinta all’azione è possibile considerare il senso di colpa come un’emozione primitiva. Con la vergogna, invece, l’individuo mette in discussione il ‘come sono’, questo fa sì che si abbiano pochissime possibilità di porre rimedio a ciò che è accaduto. La difficoltà principale risiede nel fatto che questa emozione è il frutto di uno stato interno del sé e non il prodotto di un conflitto esterno, infatti, la vergogna mina l’integrità del sé e delle proprie capacità.

Storicamente non sempre viene fatta una distinzione tra vergogna e senso di colpa, così accade che spesso i due concetti si sovrappongono, questo deriva dalla numerosità di aspetti comuni tra i due stati affettivi. Si potrebbero fare numerosi esempi relativi a queste somiglianze, per citarne alcuni è opportuno dire che entrambi questi stati affettivi fanno parte delle cosiddette emozioni morali, in altre parole promuovono un tipo di comportamento cosiddetto morale e tentano di inibire quei comportamenti che, invece, implicherebbero una trasgressione. Un altro esempio con riferimento alla vicinanza concettuale di queste due emozioni ci è dato dal il fatto che vergogna e senso di colpa sono emozioni con una valenza negativa ed entrambe si presentano in risposta a quelle situazioni in cui la persona si trova a dovere affrontare un fallimento personale o una trasgressione, verificatesi generalmente in un contesto interpersonale.

 

Senso di colpa e vergogna: due emozioni diverse

È opportuno, tuttavia, sottolineare che vergogna e senso di colpa, pur presentando una serie di somiglianze, sono due emozioni profondamente diverse.

Una condizione tipica di vergogna vede la persona concentrarsi principalmente sulla condizione del sé personale, con la percezione dolorosa di un sé negativo. Si insinua, così, la sensazione di sentirsi una persona incompetente e cattiva, accompagnata da un senso di restringimento, quasi a sentirsi più piccoli, inutili e deboli. Un elemento molto interessante che riguarda la vergogna riguarda la presenza o meno di altre persone, infatti, si è visto che affinché si manifesti un sentimento di vergogna non è necessario che la situazione coinvolga osservatori esterni, questo accade perché il soggetto si trova a raffigurarsi mentalmente un pubblico immaginario, e grazie alla finta presenza di altre persone il sentimento di vergogna si genera ugualmente, anche in circostanze di solitudine.

Di contro una tipica situazione di senso di colpa è meno dolorosa e penosa del sentimento di vergogna, quest’emozione riguarda generalmente qualcosa che va oltre il proprio sé, si può affermare, infatti, che il sentimento di colpa riguarda la valutazione negativa di uno specifico comportamento verso un’altra persona, perciò il proprio sé non viene incluso nella sofferenza emotiva del soggetto, ciò non avviene quando nel soggetto si vengono a creare sentimenti di vergogna. Il senso di colpa genera soprattutto situazioni di rimorso e rimpianto in riferimento al comportamento precedentemente messo in atto, con un conseguente stato di tensione.

È quindi evidente come vergogna e colpa siano, al contrario di quanto si pensasse in passato, due stati affettivi simili, ma non sovrapponibili, in quanto le diversità sono evidentemente molteplici.

 

Neuroanatomia del senso di colpa e della vergogna

A livello cognitivo vergogna e colpa sono elaborate dalla corteccia prefrontale ventromediale (VMPC), quest’informazione ci deriva da studi su pazienti con un danno cerebrale alla VMPC (Damasio e altri, 2007). Dallo studio emerge che questi soggetti lesionati mantengono un buon grado di intelligenza generale, ma risultano sensibilmente carenti per ciò che concerne le abilità di gestione delle emozioni sociali, nello specifico risultano compromesse le reazioni di vergogna e colpa, unitamente a quelle di compassione e al controllo della rabbia.

Quello che è osservabile in questa tipologia di pazienti è che nel caso siano sottoposti a dilemmi morali, che prevedono un coinvolgimento personale medio-alto, tendono a mostrare un comportamento legato quasi esclusivamente ad una risoluzione razionale della questione. Questi risultati hanno suggerito agli autori che la corteccia prefrontale ventromediale ha un effettivo coinvolgimento con le emozioni sociali, difatti il suo danneggiamento interferisce con l’elaborazione affettiva normale soprattutto in quei dilemmi morali che implicano una violazione personale di quella che è considerata, in base agli standard del contesto culturale di base, una violazione della norma morale.

 

Lo sviluppo della vergogna

La vergogna compare generalmente dopo il secondo anno di vita, più tardivamente rispetto alle emozioni cosiddette di base, poiché è necessario lo sviluppo del sé personale dal momento che questo stato emozionale implica necessariamente la percezione di un giudizio dell’altro, perciò il bambino deve essere arrivato ad una maturazione tale per cui possa essere in grado di effettuare una scissione tra se stesso e l’altro, per questo motivo è definita come un’emozione sociale. La vergogna ha a che fare, quindi, con l’immagine di sé e soprattutto con la autoconsapevolezza. La gioia, la rabbia e tante altre emozioni cosiddette di base risultano di natura differente rispetto la vergogna o l’imbarazzo perché non sono emozioni auto-riferite, non vanno, cioè, a toccare esclusivamente la consapevolezza di sé e non è in discussione unicamente la valutazione di se stessi nei confronti degli altri e da parte degli altri. Si potrebbe asserire che ci si vergogna di vergognarsi e ci si vergogna di aver fatto vergognare qualcuno.

La vergogna è stata definita da Izard come un’emozione complessa, rientrando, infatti, in quel tipo di emozioni che devono essere apprese. Si può affermare, inoltre, che questo stato affettivo possa essere considerato un indice di autoregolazione, dal momento che è implicato un legame con il rispetto delle norme sociali. La vergogna quindi è intimamente legata alla competenza sociale, in altre parole è connessa alla valutazione e alla comprensione degli standard culturali a cui la persona cerca di aderire. Il sentimento di vergogna nasce quando l’individuo devia rispetto alla norma sociale, percependo quel senso di fallimento tipico di quest’emozione. La vergogna può sembrare un affetto con una valenza altamente negativa, in realtà essa ha un forte potere adattivo e protettivo nei confronti dell’integrità dell’identità personale. Quest’emozione entra in gioco, infatti, quando l’individuo si espone all’osservazione degli altri, siano essi realmente presenti o immaginati; c’è la possibilità di essere vulnerabile nel caso in cui si verifichi un fallimento della persona, dato dal non apparire agli altri, veri o immaginari, come la persona crede che essi vorrebbero, così si ha come conseguenza l’insuccesso nel presentare una buona immagine di sé.

Il sé si forma attraverso le esperienze intersoggettive, la vergogna ha, perciò, il compito fondamentale di organizzarlo e conservarlo. Quest’emozione, così importante per la conservazione dell’integrità personale, può fungere anche come regolatore di buona distanza nella relazione anche in senso fisico, infatti, un certo grado di imbarazzo e vergogna regolano lo spazio privato e fungono da segnale quando l’altro è avvertito come intruso.

 

Vergogna e psicopatologia

L’intensa sensibilità verso questa emozione può avere effetti disturbanti o patologici sullo sviluppo della personalità. L’individuo, infatti, può mettere in atto nei riguardi dello stile di vita relazionale delle modifiche, che possono tendere a una limitazione della libertà di azione, dovuta al timore di dover fare i conti con questa condizione emotiva sgradevole. È quanto accade, ad esempio, nell’individuo affetto da fobia sociale, che elabora in senso negativo la costruzione del suo sé sociale. Il fobico sociale, infatti, è animato da un grande desiderio di dare una buona impressione di sé, unitamente all’insicurezza ed all’incertezza della sua riuscita. Appare, quindi, indubitabile che nello sviluppo e nel mantenimento della fobia è centrale la paura del giudizio dell’altro.

La vergogna è uno stato emotivo che caratterizza anche alcuni disturbi di personalità, questo sentimento è presente tipicamente nel disturbo evitante di personalità, e in maniera marcata anche nelle persone affette da disturbo borderline di personalità. Spesso la vergogna è il sentimento che contraddistingue uno schema di pensiero dominato da inadeguatezza.

Le persone che sperimentano nel profondo della propria interiorità la sensazione di avere qualcosa che non va, di non essere sufficientemente adeguati o degni di essere amati, vivono con profondo dolore il rapporto con gli altri, manifestando spesso un atteggiamento di insicurezza, o al contrario compensandolo con una falsa sicurezza. Questo è un sentimento di vergogna profondo e diffuso, difficile da rivelare agli altri, e a volte negato anche a se stessi. Questi sentimenti dolorosi hanno come conseguenza l’orientarsi verso stili di vita caratterizzati dal distacco dagli altri.

 

Perché si prova il senso di colpa?

Il senso di colpa, così come la vergogna, fa parte di quelle emozioni definite da Izard complesse. Si inizia a delineare più tardivamente rispetto alle emozioni di base, è fortemente legato alla morale e più in generale è connesso al modo di esprimere un comportamento in un determinato contesto.

Per capire cosa si intende per senso di colpa è necessario rendersi conto che la colpa non è una proprietà interna delle azioni umane, ma deriva dal modo in cui la persona giudica le azioni umane. In ogni cultura c’è un certo consenso circa le azioni che rendono gli individui colpevoli, perciò nel tenere un dato comportamento può subentrare la sensazione di essersi discostati eccessivamente dalla norma, avendo messo in atto un modo d’agire trasgressivo e incongruente con il pensiero di ciò che sarebbe giusto fare. Sentire una colpa implica che il soggetto si sia accorto di avere avuto la possibilità di agire in un altro modo, di agire meglio, con la consapevolezza dell’occasione persa di determinare un altro corso degli eventi.

Il senso di colpa si manifesta con auto-rimproveri o rimorsi apparentemente assurdi, con condotte delittuose o sofferenze che il soggetto si auto-infligge.

Inizialmente il senso di colpa fu studiato da Freud in relazione al disturbo di malinconia in ‘Lutto e malinconia‘ (Freud, 1915), in cui l’autore poneva il focus dei suoi studi in una dimensione intrapsichica. A partire dalla metà del secolo scorso il focus ha subìto uno spostamento, infatti, acquisisce una maggiore importanza il livello sociale, il senso di colpa così viene correlato al contesto in cui la persona si trova inserita, tenendo sempre presente che la dimensione personale rimane un punto saliente per la percezione di quest’emozione.

Il senso di colpa non necessita di una base oggettiva, infatti, così come accade per la vergogna, non è indispensabile che l’accadimento che genera colpa sia reale, può essere, infatti, presente anche un giudizio su qualcosa di immaginario, facente parte della rappresentazione mentale che la persona ha del comportamento da seguire nelle diverse situazioni in cui si trova.

La capacità di provare senso di colpa, è strettamente connessa alla disponibilità a sentire il dispiacere per l’eventuale danno provocato all’altro con il nostro agire, seppure involontariamente. Il dispiacere per il dolore che il nostro modo di comportarci può provocare negli altri è un vissuto che, qualora non si trasformi in giudizio o condanna paralizzante, può rivelarsi estremamente fruttuoso, perciò la colpa ha una valenza adattiva, infatti, può aprire spazi di riflessione ben più ampi di quelli generati da un’immediata concordanza e, soprattutto, può indurre la necessità di attivarsi in un gesto di riparazione.

 

Rabbia e aggressività

Infine, la rabbia è un’emozione definita da diversi autori come innata e basilare, infatti, è tra i primi affetti a formarsi, inizia a delinearsi presto nel bambino, tra i 3 e gli 8 mesi.

La rabbia è un’emozione provocata da una moltitudine di eventi, e genera un impulso all’azione aggressiva verso la fonte che provoca questo sentimento, generalmente, però, le persone tendono a reprimere l’impulso ad aggredire che percepiscono, è per questo motivo che la rabbia è considerata una sensazione principalmente interna, che le persone non esprimono necessariamente con un comportamento reale. Apparentemente la rabbia si manifesta quando le persone percepiscono una minaccia nei confronti di qualcosa che ritengono appartenente a loro, anche la perdita di status o di autostima può innescare questo sentimento, si è così notato che l’aggressione verso gli altri e al contempo l’aggressione verso se stessi sono entrambe manifestazioni di rabbia. Ovviamente anche la rabbia, come tutte le altre emozioni, ha una funzione adattiva, infatti, spinge la persona all’azione quando è minacciata da qualcosa.

 

Correlati neurofisiologici della rabbia

A livello cognitivo, affinché si generi l’emozione di rabbia, la situazione viene analizzata nella corteccia frontotemporale, successivamente si ha l’attivazione del sistema limbico, in particolar modo del nucleo centrale dell’amigdala, come risultato di questo processo si ha la produzione di noradrenalina e adrenalina nel sangue da parte del midollo surrenale. A questo punto aumentano anche i livelli di glucosio nel sangue, per aiutare l’individuo a prepararsi all’attacco. Il ruolo dell’amigdala nella creazione dei comportamenti aggressivi è stato dimostrato con alcuni esperimenti su animali, ai quali veniva asportata questa porzione di cervello, questi dopo l’asportazione manifestavano una diminuzione dei comportamenti aggressivi.

 

Relazione di senso di colpa e vergogna con rabbia e aggressività

Diverse ricerche hanno portato ad esaminare la relazione che intercorre tra la vergogna e il senso di colpa e tra la rabbia e l’aggressività.

La distinzione tra la vergogna e la colpa è una questione molto importante, poiché le differenze possono avere implicazioni differenti per ciò che riguarda l’espressione e la regolazione dell’aggressività.

Come già affermato in precedenza vergogna e senso di colpa, pur essendo emozioni molto simili, si distinguono per il vissuto fenomenologico che generano: con la colpa si percepisce il desiderio di riparare al danno fatto, di scusarsi, di confessare l’accaduto, mentre la vergogna spinge maggiormente ad attuare comportamenti di isolamento, si manifesta il desiderio di nascondersi, di sprofondare nel pavimento.

Miller (1985) ha effettuato uno studio con cui è riuscito ad identificare due tipi di interazione tra la vergogna e la rabbia: può esserci una situazione per cui si passa da una situazione di rabbia a una di vergogna, con il passaggio da una condizione di attività ad una di passività, oppure ci si può imbattere in una situazione per cui si passa da una condizione di vergogna a una di rabbia, quindi in questo caso il passaggio è da una condizione di passività ad una di attività.

In realtà nei diversi studi presi in esame non si fa riferimento esplicitamente alla vergogna in relazione all’aggressività, tuttavia in più studi è emerso che, apparentemente, sono i partecipanti presi da vergogna che mostrano dei livelli più alti di aggressività. Si può quindi asserire che numerosi studi hanno individuato la vergogna come un’esperienza emozionale di dolore acuto, il quale da solo può generare rabbia, la quale a sua volta è possibile che muti in comportamenti connotati di aggressività.

Gli studi che hanno maggiormente sostenuto empiricamente il collegamento tra la vergogna e la rabbia sono quelli effettuati da Averill (1982), Wicker, Payne e Morgan (1983), e dalla Tangney (1990). Negli studi di Averill le descrizioni dei soggetti riferite alle proprie esperienze di rabbia erano imputate principalmente a un sentimento di rabbia, il quale derivava dalla percezione della perdita della proprio autostima. Nello studio di Wicker i punteggi dei partecipanti sulle esperienze di vergogna mostravano che non era presente solo il desiderio di nascondersi, tipico della vergogna, ma era presente anche un altro aspetto del disagio provato, infatti, dallo studio è emerso che i soggetti sentivano il desiderio anche di punire gli altri, risultante dalla rabbia che si genera unitamente alla vergogna.

Infine June Price Tangney ha effettuato quattro studi, tra loro indipendenti, su soggetti adulti, riportando una consistente correlazione tra la propensione alla vergogna e il prendersela con qualcuno, in contrasto con la correlazione negativa tra la colpa e la sua esternalizzazione. Si può quindi dire che gli studi mostrano una correlazione positiva tra vergogna, rabbia e aggressività, e una correlazione inversa tra senso di colpa, rabbia e aggressività.

Per esemplificare prendiamo in esame due studi indipendenti della Tangney. Nel primo studio ai partecipanti viene chiesto di compilare alcuni test standardizzati: il Self-Conscious Affect and Attribution Inventory (SCAAI; Tangney e altri, 1988), il Trait Anger Scale (TAS; Spielberg e altri, 1983), e il Symptom Checklist 90 (SLC-90; Derogotis e altri, 1973), di quest’ultimo sono state proposte in particolare le sottoscale della rabbia-ostilità e quella dell’ideazione paranoide.

Nel secondo studio la Tangney e coll. hanno ampliato la valutazione di vergogna e colpa, nonché quella di rabbia, ostilità e aggressività, aggiungendo ai test somministrati nel primo studio il Test of Self-Conscious Affect (TOSCA), una revisione dello SCAAI costruito su scenari immaginari su cui i soggetti devono dare le loro risposte.

Il primo studio è stato effettuato su 243 studenti universitari tra i 18 e i 55 anni, con un’età media di 21,1 anni, di cui il 71% erano femmine. Il secondo studio ha visto partecipare, invece, 252 studenti universitari con un’età compresa tra i 17 e i 39 anni, con una media di 19,4 anni, di cui il 71% erano femmine. I risultati di questi due studi sottolineano che la vergogna e il senso di colpa sono esperienze affettive distinte, le quali hanno diverse implicazioni nell’esperienza della rabbia e dell’ostilità. Purtroppo essendo gli studi basati statisticamente sulla correlazione non è possibile definire quale possa essere il preciso rapporto causale tra questi stati affettivi. Per esempio la correlazione positiva che è emersa tra la vergogna e la rabbia può riflettere due diversi processi, o la combinazione di entrambi: una prima possibilità è che si manifesti dapprima un sentimento di rabbia e la persona potrebbe iniziare a provare vergogna per la rabbia provata, in particolar modo se la rabbia va a generare un comportamento ostile e aggressivo nei confronti degli altri. In realtà, però, il passaggio dalla rabbia alla vergogna sembra poco probabile perché la propensione alla vergogna è collegata direttamente all’attivazione data dalla rabbia e indirettamente all’ostilità verso gli altri, ma non è presente un collegamento tra il grado di aggressione verbale o fisica e la vergogna stessa.

La seconda possibilità, che rispecchia la preferenza dell’autrice, riguarda il fatto che un’iniziale vergogna genera una conseguente rabbia e ostilità. Questo passaggio dalla vergogna alla rabbia è sostenuto da diverse osservazione effettuate clinicamente e da alcuni studi realizzati empiricamente, i quali suggeriscono che è probabile che la rabbia sia generata in generale da emozioni negative, proprio come la vergogna, che creerebbe una minaccia alla propria autostima.

Come hanno suggerito anche Lewis (1971) e Miller (1985), le persone in preda alla vergogna possono ricevere una forte motivazione a reagire proveniente dalla spinta tipica del sentimento di rabbia, infatti, questa può essere in grado di offrire sollievo dall’auto-condanna e dall’esperienza debilitante che deriva dal sentimento di vergogna. Così, l’individuo dirige l’ostilità provata verso se stesso all’esterno e incolpa gli altri, risparmiando il proprio sé dalla condanna interiore che deriva dall’emozione della vergogna.

Il senso di colpa, invece, risulta negativamente correlato alla rabbia, probabilmente perché la colpa genera un vissuto meno devastante e minaccioso, perciò questo non è sufficiente perché si verifichi un’attivazione tale per cui scaturisca della rabbia rivolta verso gli altri nel tentativo di sistemare le cose, questo accade anche perché il senso di colpa è generato da un comportamento di per sé scorretto nei confronti di qualcuno, per cui la rabbia non aiuterebbe a ripristinare l’equilibrio rotto.

 

Vergogna e tossicodipendenza

Per concludere è interessante notare che la vergogna è stata spesso citata nei lavori sulla tossicodipendenza come una fattore capace di contribuire alla formazione e al mantenimento della dipendenza, inoltre, sembra che essa possa essere generata dalla tossicodipendenza stessa, quindi in un certo senso la vergogna e la dipendenza da sostanze sono legate in un circolo vizioso: la vergogna genera tossicomania e la tossicodipendenza genera a sua volta altra vergogna.

L’individuo, infatti, se ha una propensione alla vergogna, potrebbe trovare giovamento nell’assumere sostanze, questo accade perché la sostanza stupefacente diminuisce il grado di coscienza, in questo modo si verifica l’alleviamento della pena generata dall’emozione di vergogna. Così continuando a cercare di attutire il dolore si finirebbe col diventare tossicodipendenti, ma nel momento in cui la persona si trova ad essere tossicodipendente ciò diventa fonte di ulteriore vergogna, la conseguenza è che il soggetto perde il controllo del proprio sentimento di vergogna che cercherebbe di controllare non più attraverso delle risorse cognitive di elaborazione delle emozioni, ma attraverso la sostanza.

Alcuni studi (Tangney e Dearing, 2002) evidenziano come le persone affette da dipendenza da sostanze abbiano livelli di vergogna più alti rispetto a coloro che soffrono di altri disturbi mentali e alla popolazione normale. In altri studi si è potuto constatare, inoltre, che alti livelli di vergogna sarebbero associati a ricadute nelle donne facenti parte degli alcolisti anonimi (Wiechelt e Sales, 2001). Tangney e Dearing hanno studiato come la vergogna nei bambini di circa 10 anni potesse trasformarsi in tossicodipendenza una volta diventati giovani adulti, trovando una correlazione positiva anche in questo caso.

Tuttavia gli studi che correlano la vergogna alla tossicodipendenza sono da considerare con cautela, infatti, le ricerche svolte empiricamente sono ancora poche e i campioni dei soggetti sono spesso esigui e scelti all’interno della popolazione d’interesse.

Altre ricerche (Tangney e altri, 2005) si sono concentrate, invece, sulla distinzione della dipendenza dalla frequenza d’uso delle droghe e dell’alcol in relazione alle emozioni di vergogna e senso di colpa. È risultato che l’inclinazione alla vergogna era maggiormente associata con i punteggi della dipendenza da droghe e alcol, mentre per quanto riguarda la frequenza d’uso non si è vista una correlazione con la vergogna provata dal soggetto.

Di contro, in questi studi è emerso che il senso di colpa avrebbe un ruolo protettivo nell’insorgere di una dipendenza; gli autori hanno pensato che questo possa essere legato alla minore pena generata dal senso di colpa, che provocherebbe una spinta al soffocamento del dolore minore rispetto alla spinta che si avrebbe provando un sentimento di vergogna.

Alimentazione e psiche – Report dal workshop di Roma, 6 Febbraio 2016

Qual è il rapporto tra alimentazione e psiche? Come possono i professionisti della salute integrare le proprie professionalità per meglio assolvere alle esigenze del paziente?

Di questo ed altro si è parlato nel corso di un evento formativo, organizzato a Roma il 6 febbraio scorso da U.P.A.I.Nu.C. in collaborazione con Formotion Academy, destinato a tutte quelle professionalità (medici, biologi nustrizionisti, dietisti, psicologi, psicoterapeuti) che si pongono l’obiettivo di promuovere il benessere e la salute attraverso la consapevolezza delle proprie abitudini alimentari e la strutturazione di un rapporto sano con il cibo, tenendo presente, oltre alle variabili biologiche, le variabili sociali ed emotive dell’alimentazione.

I lavori si aprono con l’intervento del dottor Mascitelli, medico psichiatra, il quale mette a fuoco la complessa interazione che intercorre tra cibo e psiche: se esiste un solo modo di nutrirsi, esistono infiniti modi di alimentarsi, in relazione alle influenze culturali cui siamo sottoposti. Il cibo è dotato di profondi significati emotivi e relazionali, perché rappresenta, sin da quando nasciamo, un elemento che media la nostra relazione con il mondo, implicato nella nostra sopravvivenza.

Su questo premesse si innesta la relazione tenuta dalla dottoressa Demarinis che mette a fuoco l’importanza dell’alimentarsi con consapevolezza; la consapevolezza, che si verifica quando ‘la cognizione di qualcosa si fa interiore, profonda, perfettamente armonizzata col resto della persona‘, ci rende ragione dei comportamenti che mettiamo in atto.

In questo senso, diviene importante essere consapevoli dei motivi che ci inducono ad alimentarsi in un modo piuttosto che in un altro. Possiamo individuare alcuni fattori che influenzano i nostri stili alimentari:

  • Mangiare cibi industriali ricchi di grassi e di zucchero, ma poveri di nutrienti (vitamine, antiossidanti ed oligoelementi); questi cibi, piacevoli al palato e molto diffusi, inducono uno stato di malnutrizione di fatto, perché fanno ingrassare senza, però, attenuare la percezione di fame;
  • Mangiare per abitudine, senza aver realmente fame, solo perché è l’ora del pranzo o della cena;
  • Mangiare per costrizione (spesso si verifica con i bambini che vengono spinti a mangiare dai genitori) o dare il cibo come premio;
  • Mangiare per accontentare gli altri (seguendo il principio cibo=amore) o quando siamo in compagnia, per socializzare;
  • Mangiare da soli davanti la televisione, cosa che spesso porta a mangiare di più del necessario, perché interferisce con la percezione del senso di sazietà;
  • Mangiare per compensare carenze affettive o per attenuare uno stato di malessere, usando il cibo come un farmaco.

In linea di massima, le nostre scelte in fatto di alimentazione non nascono dalla consapevolezza, bensì sono frutto di condizionamenti culturali e di meccanismi psichici automatizzati. Per questa ragione diventa importante mangiare con consapevolezza, scegliendo un’alimentazione che sia veramente nostra; ciò non significa adottare dei criteri alimentari troppo rigidi e restrittivi, quanto piuttosto ridare significato all’atto di scegliere cosa mangiare (che spesso vissuto con stress e frustrazione), dedicando del tempo a noi stessi e alla nostra salute.

Nell’intervento successivo, che conclude la mattinata, il dottor Lupardini, medico psichiatra, si focalizza sui meccanismi neuroendocrini che regolano l’assunzione di cibo; diventa importante che il professionista aiuti la persona a comprendere che, in campo alimentare, è possibile accedere ad una vasta gamma di scelte, ognuna contraddistinta da un determinato impatto sul corpo.

I lavori riprendono nel pomeriggio con la relazione della dottoressa Demarinis che analizza le dipendenze alimentari.

La dipendenza, di qualunque tipo, segue un processo ciclico articolato in quattro fasi:

  • Fase di craving, la fase attivante, ossia il bisogno compulsivo di assumere la sostanza;
  • Fase di assunzione, con i suoi effetti gratificanti;
  • Fase di ansia anticipatoria, connessa con la fine dell’effetto gratificante e la preoccupazione per l’inizio della fase successiva, di astinenza;
  • Fase di astinenza, con sintomi di malessere associati ad aspetti emotivi di tipo depressivo e ad irritabilità.

Di frequente, le dipendenze di vario tipo, incluse quelle di natura alimentare, si sviluppano come tentativi di autoterapia per fare fronte ad eventi stressanti e, in questo quadro, i comportamenti dipendenti implicano la tendenza a dipendere da azioni o situazioni esterne per regolare gli stati soggettivi interni.

A seguire, l’intervento del dottor Mascitelli finalizzato ad inquadrare i disturbi del comportamento alimentare; viene effettuato un confronto tra i criteri diagnostici del DSM IV e quelli presenti del DSM V, nel quale sono stati introdotti anche disturbi quali l’ortoressia (l’ossessione per l’alimentazione sana e i cibi biologicamente puri) e la vigoressia (l’ossessione per avere un corpo muscoloso che nasce dal timore di apparire troppo deboli).

In generale, la persona affetta da un disturbo del comportamento alimentare è contraddistinta da minore consapevolezza delle proprie emozioni ed usa il cibo come regolatore emozionale nell’ambito di strategie di regolazione delle emozioni disfunzionali.

Nella relazione conclusiva la dottoressa Demarinis si sofferma sul colloquio motivazionale inteso come strumento di intervento che aiuta il professionista ad stimolare, nel paziente, la motivazione al cambiamento e a rafforzare, di conseguenza, l’impegno a cambiare i comportamenti dannosi, facendo leva sulla consapevolezza e lavorando sugli elementi di resistenza che ostacolano la messa in atto di comportamenti più funzionali.

Il workshop si chiude con un roleplaying nel quale due partecipanti presentano un caso che hanno avuto modo di trattare nella loro pratica professionale e che rappresenta lo spunto per un confronto collettivo sulle tematiche affrontate.

Aggressività e sessualità: il rapporto figura/sfondo tra dolore e piacere (2015) – Recensione

Questa opera a cura di Mariano Pizzimenti, si inserisce all’interno di una sempre più ampia cornice in cui la Psicoterapia della Gestalt dà un suo personale contributo allo sviluppo scientifico delle teorie psicologiche. La necessità sempre più impellente di analizzare le procedure terapeutiche e manualizzarne l’intervento attraverso uno scambio di vissuti, idee ed esperienze, validate da un approccio scientifico, trova in questo libro, appartenente ad una collana diretta da Margherita Spagnuolo Lobb, un tentativo molto ben riuscito verso lo sviluppo di tale prospettiva.

 

Interessante osservare come la crescita di tali procedure non sia assolutamente svincolata dalle precedenti teorie, ma vi sia un attento recupero di queste che vengono adattate e portate ad evoluzione su specifici concetti volti a costituire una solida base teorica di più fruibile trasmissione manualistica.

Il libro introduce l’argomento dell’aggressività e della sessualità ricostruendo il suo percorso di sviluppo a partire dallo svincolo che compie Perls dal modello psicanalitico freudiano. Il punto di partenza preso in considerazione è quello di “aggressività dentale” che si allontana da quello più conosciuto di “libido”, sostenendo che prima del sesso, gli organismi viventi sono guidati dalla fame. Perls introduce il concetto di “distruggere per poter assimilare ciò che non sarebbe assimilabile in natura” mettendo in un rapporto di equilibrio fame/aggressività e sessualità rispetto a quello antitetico proposto da Freud.

La parte introduttiva avvia un’accurata ricostruzione dell’evoluzione del concetto di aggressività facendola risultare non più come qualcosa di distruttivo, bensì come una possibilità di sviluppo della persona. Insomma un moto normale dell’organismo per ottenere qualcosa nell’ambiente al nascere di un bisogno. Tale bisogno, non sempre è riconosciuto dall’individuo in forma intenzionale e quindi, diviene parte di un lavoro terapeutico il portare l’individuo nel riconoscere e nominare la sua aggressività la quale è sempre guidata da un intenzionalità.

L’aggressività è ben descritta in tutte le sue forme: respiratoria (tipica del bambino che viene al mondo); orale (fa parte dello sviluppo ed è ancora non proprio in senso distruttivo di trasformazione dell’oggetto); dentale (inizio della comprensione dell’ambiente che si presenta in una modalità non ancora assimilabile); anale (si differenzia dalle precedenti, che si realizzano in un’ assimilazione dall’ambiente verso l’individuo, in un senso opposto, perché si realizza inversamente in un rapporto dal soggetto verso l’ambiente); genitale (si sviluppa nel momento in cui vi è una precisa identificazione del soggetto verso le sue sensazioni genitali). Infine è possibile parlare di ”aggressività sessuale” come una delle possibili forme che il soggetto può assumere nella ricerca di contatto con l’altro essere umano, basata più sullo scambio che sull’appropriazione. Qui l’autore fornisce una utile visione di quelli che sono i disturbi dell’aggressività sessuale da intendersi come una strategia di sopravvivenza che di fronte alla difficoltà porta il soggetto a dar vita al “sintomo”. Segue quindi un’analisi dettagliata dei disturbi sessuali categorizzata in una modalità non del tutto aderente alle fasi della curva della risposta sessuale: impotenza erettile e lubrificatoria, eiaculazione precoce, l’impotenza orgasmica e l’omofobia e possesso.

Nel capitolo successivo si ripercorre inizialmente l’evoluzione della terapia sessuale dall’inizio del ‘900 alla terapia mansionale. L’approccio Gestaltico, non avendo una approfondita tradizione scientifica di studi sui disturbi sessuali trae ottimi spunti in primis dal lavoro di Masters e Johnson e dal lavoro successivo della Kaplan ritenendo fondamentale l’attenzione alla forma e all’osservazione di “ciò che accade qui ed ora”; ma anche dalle teorie di Reich ed il suo concetto di “appagamento orgasmico”. Da tale approccio la sessualità è sia quindi definita come “estasi sensoriale”, ma anche come esperienza e conoscenza del mondo soggettivo dell’altro, diverso dal nostro, ponendo l’importanza del senso di condivisione.

Piuttosto interessante il lavoro proposto sulla coppia, il quale porta un valido contributo ed attente riflessioni su specifiche dinamiche relazionali che, si ruotano in un contesto di sessualità, ma volte allo sviluppo di un profondo stato di intimità con se stesso, l’altro e l’ambiente; aspetto che, in manuali che trattano nello specifico un intervento mirato sul sintomo, spesso è considerato in secondo piano.

Il libro prosegue con un’ indagine sulle origini e gli effetti dei disordini relazionali affettivi e la loro complessità in epoca attuale e si realizza su più tracce: quella antropologica, sociale e psicologico evolutiva. L’evoluzione ha comportato dei cambiamenti morfologici e con essi quelli dei bisogni e delle relazioni, rendendo sempre più complesso un possibile appagamento all’interno di essa. Bisogni e desideri in perenne conflitto devono trovare uno stato di equilibrio all’interno della coppia orientata verso un processo di co-creazione in una sana promozione dell’autonomia.

In sintesi un’opera ricca di esempi ed utili considerazioni, rende più chiaro e fruibile una visione ed un approccio teorico ai fini di un minuzioso e preciso lavoro terapeutico. ciò è adatto non solo per chi appartiene alla corrente teorica della Gestalt, ma anche per altri terapeuti che desiderano arricchire la propria conoscenza riguardo la problematica clinica della sessualità, delle relazioni di coppia e non solo.

Geologia di un padre di Valerio Magrelli (2014) – Recensione

Geologia di un padre è il ritratto di una relazione padre/figlio, disegnato in stile puntillista, attraverso frammenti di memoria consegnati a foglietti di appunti raccolti in un decennio e poi unificati in un’opera che è omaggio e congedo allo stesso tempo.

Uno scrittore appartenente a una generazione ben conscia della psicoanalisi decide di raccontare il padre. Non un padre ma il proprio padre. Uno sciame di Edipi, Saturni, Creonti si affaccia quindi alla mente del potenziale lettore evocando complessi e ambivalenze, detti e non detti. Per la verità nel libro di Valerio Magrelli non si troverà tutto questo: l’autore compie uno sforzo palese di espressione diretta, priva di infingimenti e di narcisismi. Se una parola chiave si deve cercare nel vocabolario psicologico essa è identificazione.

Il tema di fondo sotteso da Geologia di un padre è infatti l’interrogativo su quanto ci sia nel figlio del proprio genitore (e quanto, di seguito, rimarrà di proprio nella discendenza genetica). Il simbolo concreto di questo interrogativo si manifesta già sulla copertina del libro, dove figura un disegno di Giacinto Magrelli (padre di Valerio) rielaborato graficamente da Zest (figlio di Valerio) attraverso un’inversione cromatica tra bianco e nero rispetto all’originale.

Nella costruzione del testo, Valerio Magrelli ricorre a frammenti di memoria, raccolti nel corso di dieci anni su foglietti sparsi di appunti progressivamente accumulati. Ne risulta infine un ritratto organizzato alla stregua di un saggio scritto da Walter Benjamin: tessere di mosaico si intersecano e si innestano l’una nell’altra, fondendosi poi con una trama intermittente di riferimenti letterari. E come per il Benjamin di Senso unico, le citazioni sono [blockquote style=”1″]come predoni armati che balzano fuori all’improvviso e strappano l’assenso al lettore ozioso.[/blockquote]

L’incastro si incastra ricorsivamente, allorché si osserva che la prefazione si compone di disegni architettonici di Giacinto Magrelli; che l’appendice consta di poesie a lui dedicate dal figlio; infine che Geologia di un padre [blockquote style=”1″] costituisce l’ultimo pannello di una serie avviata nel 2003 da Nel condominio di carne[/blockquote] e proseguita con La vicevita e Addio al calcio. Di tali opere, Geologia di un padre [blockquote style=”1″]recupera brani e brandelli […] riportandoli in circolo, innestandoli su un nuovo tronco narrativo.[/blockquote]

Giacinto e Valerio apparentemente non potrebbero essere più diversi: ingegnere dalla mano felice, eppure uomo assai poco concreto e versato nei rapporti economici il primo; uomo destinato alle lettere, eppure piuttosto incline alla soluzione di problemi pratici il secondo. L’accordo (anche in senso musicale) tra i due si rende possibile attraverso la pratica del bello: le passeggiate nelle quali il padre porta il figlio a vedere e apprezzare Borromini in una Roma ancora non del tutto annichilita dal traffico costituiscono forse il ricordo fusionale più intenso. Le coordinate spazio/temporali mutano e mostrano un rapporto padre/figlio declinato in tutte le sue possibili mutazioni. Il figlio non ha paura di mostrarsi ragazzino che ammira le imprese del genitore e la sua straordinaria capacità di non piegarsi e non compromettersi; come non dissimula quel senso di indulgente superiorità, quel paradossale cambiamento di ruolo che si genera di fronte all’invecchiamento. Allora le debolezze del padre diventano icone dell’affetto filiale. Il modo di guardare lo stesso quadro cambia a seconda di come i medesimi tratti vengono guardati: quando Franz Kline dava il titolo a un’opera a partire dagli spazi bianchi e non dalle pennellate, in qualche modo, esprimeva il medesimo concetto.

Geologia di un padre parte dalla fine, o meglio, oltre la fine. Arriva un momento nel quale l’illusione di aver seppellito “qualcuno” viene meno. Quando la bara è stata chiusa, il defunto aveva ancora un aspetto umano. Quando viene tumulata, l’interno non è più visibile e rimane il ricordo di quando il morto vi era stato posto. L’esterno è curato: la bara è una sorta di mobile. Viene scelta come se dovesse conservarsi a lungo e in vista; proteggere e accompagnare un’entità individuale e individuabile. L’abitudine italiana di foderare di zinco l’interno delle bare ribadisce quest’illusione. Quando passano gli anni, però, ciò che rimane è la resa, una certa quantità di materiale di origine organica che non ha più forma. L’esperienza di vedere la resa di una persona che ha costituito parte della propria famiglia è probabilmente quanto di più vicino vi sia alla percezione diretta della propria mortalità.

Accanto agli aspetti tragici, però, l’esperienza offre anche una dimensione grottesca: in Geologia di un padre Magrelli racconta icasticamente cosa avviene quando l’umidità invade una tomba di famiglia e diviene necessario effettuare dei lavori per recuperare quei corpi trasformati in rese. L’aggettivo che egli usa per descrivere i resti è “torrefatti”. Umanità divenuta infine fondi di caffè. Ironia e lutto. Pudore e curiosità per anticipare il risultato di un evento rinviabile ma comunque atteso.

La meditazione sulla morte è anche meditazione su presenza e assenza. La morte dell’uno, in una coppia, è la morte della coppia. La separazione è separazione per ambedue. Come l’altro non è più per me, io non sono più per l’altro. In questo modo la morte stessa diventa l’espressione di un paradosso. Un paradosso simile, del resto, era adombrato dalle parole di Epicuro: quando ci sono io, la morte non c’è; quando c’è la morte non ci sono io; non v’è dunque ragione di temerla.

L’atmosfera del libro vira spesso dal sottofondo cupo alla policroma allegria del divertissement. Uno dei sintomi micronevrotici confessati dall’autore è la propria a lungo perdurante incapacità di visitare il paese d’origine del padre. Finché, dopo avere a lungo accumulato materiale informativo in gran copia, Valerio Magrelli giunge infine a Pofi, patria del genitore, pervaso dall’emozione di un Freud in visita a Roma. Salvo fuggirne subito colpito, piuttosto che dall’estasi delle proprie radici, dal disagio di fronte agli infissi di alluminio che vi vede trionfare sulle facciate delle case, epifania della perdizione estetica.

Si può segnalare anche che Geologia di un padre contiene una delle più riuscite allitterazioni della letteratura italiana recente. La si trova nella descrizione di un episodio singolare, quando alla notturna esperienza di un’invasione di blatte nella casa paterna segue un’improvvisata disinfestazione, che si conclude accumulando in un bustone della spazzatura una significativa quantità di insetti neri:

[blockquote style=”1″]un sacco croccante di orrori ridicoli.[/blockquote]

 

 

Valerio Magrelli parla di Geologia di un Padre

Entero-Rappresentazione: confronto tra un campione di pazienti ricoverati e un gruppo di controllo

Questo articolo ha partecipato al Premio State of Mind 2014 – Sezione Junior

Entero-Rappresentazione: confronto tra un campione di pazienti ricoverati e un gruppo di controllo
Nista Erika e Lucci Giuliana*
*Fondazione Santa Lucia IRCCS, Roma, Italia

ABSTRACT

I concetti di “schema corporeo” (relativo alla localizzazione del corpo nello spazio) e di “immagine corporea” (che include le componenti soggettive cognitivo-affettive delle rappresentazioni corporee) non sono nuovi, da anni hanno fatto la loro comparsa sulla scena delle Neuroscienze. In breve, le ricerche neuroscientifiche hanno evidenziato la possibilità di rappresentare il nostro corpo sia in relazione al mondo nel quale ci muoviamo e agiamo, sia in riferimento al nostro mondo interiore, fatto di nozioni, credenze ed emozioni. Normalmente l’oggetto di questi studi di rappresentazione corporea è il corpo “esterno”. Ad oggi, però, nessuno si è occupato di indagare il versante interiore della rappresentazione corporea, di come, cioè, le persone si rappresentano il proprio corpo interiore, specie nel contesto di malattie organiche il cui bersaglio è, appunto, il corpo interno. In questo lavoro è stata indagata la rappresentazione del corpo interiore in pazienti affetti da varie patologie organiche e in un gruppo di soggetti di controllo. I dati raccolti lasciano ipotizzare che la rappresentazione corporea interna debba essere indagata come fenomeno di processi impliciti altrimenti difficili da valutare.

The concepts of “body schema” (concerning the location of the body in space) and “body image” (which include the subjective and cognitive-affective components of the corporeal representations) are not new, these concepts for years have made their appearance in neuroscience. In a short time, the neuroscientific research have shown the ability to represent our body in relation to the world in which we move and act and referring to our inner world made of notions, beliefs and emotions. Usually the object of these corporeal representation studies is the “external” body. To date, however, no one has worked on investigating the inner side of the corporeal representation , that is how people represent their inner body especially in the context of organic disease whose target is, in fact, the inner body. In this work it was investigated the representation of the inner body in patients suffering from various organic diseases and in a control group. The collected data allow to assume that the internal representation of the body should be investigated as a phenomenon of implicit processes that are difficult to evaluate.

Parole chiave: Enterocezione; Rappresentazione corporea; Immagine corporea; Insula; Consapevolezza enterocettiva.

ALLEGATO 1

ALLEGATO 2

ALLEGATO 3

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