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L’azienda va in scena: il teatro d’impresa

Sia il teatro, sia la vita organizzativa sono pieni di conflitti e di problemi da risolvere: per questo, forse, il palcoscenico di un teatro ed un’azienda si assomigliano tanto.

 

Il teatro è il luogo delle relazioni e dei conflitti per eccellenza; è il luogo dove i personaggi operano scelte, mettono in atto strategie, cercano di superare ostacoli, risolvere problemi e raggiungere obiettivi.

Sia il teatro, sia la vita organizzativa (oltre che quella sociale) sono pieni di conflitti e di problemi da risolvere: per questo, forse, il palcoscenico di un teatro ed un’azienda si assomigliano tanto. In altre parole, un incontro tra teatro ed azienda è possibile con l’adozione di un approccio metaforico, interpretando, cioè, il contesto organizzativo con la metafora teatrale ed il teatro come metafora della vita organizzativa.

Il teatro può essere utilizzato da qualsiasi azienda per approfondire qualsiasi argomento di vita e cultura organizzativa. Innanzitutto può essere utilizzato come strumento formativo in grado di generare consapevolezza e crescita.

Il primo ad applicare la metodologia teatrale alla formazione aziendale fu Christian Poissonneau che, nel 1984, fondò a Montréal, in Canada, il Théatre à la carte. Ma è stato a Parigi che il teatro d’impresa ha sviluppato le caratteristiche e le metodologie che tuttora lo contraddistinguono.

Il carattere innovativo del teatro d’impresa in ambito formativo ha favorito il passaggio dall’aula, che è per antonomasia un contesto strutturato, al palcoscenico, che invece è un contesto semi-strutturato, che favorisce il coinvolgimento di mente e corpo dei partecipanti, alternando momenti di coinvolgimento emotivo a momenti di rielaborazione cognitiva. Il teatro d’impresa ‘dà la possibilità agli attori organizzativi di riflettere sui propri comportamenti per cambiare e migliorare se stessi e l’organizzazione in cui lavorano‘ (C. Poissonneau, 2003).

Questo metodo favorisce il processo di consapevolezza rispetto alle aree di miglioramento di ognuno, sviluppando nei partecipanti una reale motivazione al cambiamento. Tramite il teatro d’impresa è possibile intervenire a più livelli: individuale, di team, interfunzionale ed organizzativo, per lo sviluppo di competenze manageriali (gestione dei conflitti, motivazione al lavoro, creatività….), per incrementare lo spirito di squadra, per sviluppare le competenze in tema di leadership, per aumentare la collaborazione e la comunicazione intra ed interfunzionale, per sensibilizzare sui valori aziendali, per agevolare il cambiamento culturale ed organizzativo.

Il teatro d’impresa è uno strumento perfetto per comunicare emozionando: attraverso l’humor ed il gioco, infatti, esso dinamizza, motiva, aggrega; attraverso l’ironia ed il divertimento sdrammatizza la realtà e favorisce la riflessione e la consapevolezza. Sul palcoscenico l’individuo è attivamente impegnato a conoscersi e a sviluppare le sue risorse, egli ascolta il suo mondo interno, i suoi dubbi, i suoi blocchi, i suoi talenti, i suoi desideri ed avvia un dialogo interiore che lo conduce a cogliere possibili soluzioni ai suoi conflitti interni e di relazione con il mondo esterno.

L’uso dello psicodramma, cioè della psicoterapia consistente nel far recitare al soggetto un’azione scenica che richiama la sua storia personale con lo scopo di fare affiorare conflitti inconsci, ha origine nella Vienna degli anni Venti del Novecento con Jacob Levi Moreno, che scoprì l’efficacia che ha per l’individuo la rappresentazione scenica del suo vissuto. Lo psicodramma è dunque un metodo di sviluppo personale basato essenzialmente sulla ‘messa in azione’ dei contenuti del mondo interno. Nello psicodramma la persona gioca, concretizzando sulla scena le sue rappresentazioni mentali.

Nell’epoca attuale, caratterizzata da un mercato del lavoro in continuo cambiamento, dove ‘gli individui non sperimentano più stabilità e sicurezza, ma si confrontano con lavoro flessibile ed organizzazioni fluide‘ (M. Savickas, 2011), è estremamente importante che ogni individuo sviluppi la sua capacità riflessiva riguardo a se stesso, all’organizzazione in cui lavora e alla società che lo circonda.

In uno scenario così complesso ed estremamente diverso da quello del XX secolo, è fondamentale che ciascuno prenda coscienza del proprio sviluppo vocazionale nel corso dell’intera esistenza: il teatro può aiutarci in tutto questo, può prepararci a svolgere ruoli diversi, permettendoci di uscire da quelli in cui abbiamo fallito, può aiutarci a superare situazioni di crisi, può aiutarci ad imboccare la via del cambiamento che conduce all’autonomia e alla spontaneità creativa.

Sorridere, anche delle proprie difficoltà, e anche in un contesto aziendale, aiuta a stemperare le tensioni, aumenta la capacità di risolvere i problemi e facilita lo spirito di squadra. Chiamare in causa l’umorismo non significa certo invitare i managers a raccontare barzellette, magari nel bel mezzo di una riunione importante. Il discorso è diverso e riguarda l’insieme degli atteggiamenti vincenti per una leadership di successo. Credo che la migliore spiegazione di umorismo sia dovuta a Luigi Pirandello, a cui lascio la parola per concludere questo mio intervento sull’importanza di andare in scena anche in azienda:

Ebbene, noi vedremo che nella concezione di ogni opera umoristica, la riflessione non si nasconde, non resta invisibile, non resta cioè quasi una forma del sentimento, quasi uno specchio in cui il sentimento si rimira; ma gli si pone innanzi, da giudice; lo analizza, spassionandosene; ne scompone l’immagine; da questa analisi però, da questa scomposizione, un altro sentimento sorge o spira: quello che potrebbe chiamarsi, e che io difatti chiamo il sentimento del contrario.

Vedo una vecchia signora, coi capelli ritinti, tutti unti non si sa di quale orribile manteca, e poi tutta goffamente imbellettata e parata d’abiti giovanili. Mi metto a ridere. Avverto che quella vecchia signora è il contrario di ciò che una vecchia rispettabile signora dovrebbe essere. Posso così, a prima giunta e superficialmente, arrestarmi a questa impressione comica. Il comico è appunto un avvertimento del contrario. Ma se ora interviene in me la riflessione, e mi suggerisce che quella vecchia signora non prova forse nessun piacere a pararsi così come un pappagallo, ma che forse ne soffre e lo fa soltanto perché pietosamente s’inganna che parata così, nascondendo così le rughe e la canizie, riesca a trattenere a sé l’amore del marito molto più giovane di lei, ecco che io non posso più riderne come prima, perché appunto la riflessione, lavorando in me, mi ha fatto andar oltre a quel primo avvertimento, o piuttosto, più addentro: da quel primo avvertimento del contrario mi ha fatto passare a questo sentimento del contrario. Ed è tutta qui la differenza tra il comico e l’umoristico

(L. Pirandello, 1908).

Priming: un fenomeno mnemonico inconsapevole – Introduzione alla Psicologia

Il Priming è un sistema mnemonico inconsapevole che consente a uno stimolo, al quale si è stati esposti una prima volta, di essere riconosciuto successivamente senza averne consapevolezza. 

INTRODUZIONE ALLA PSICOLOGIA RUBRICA DI DIVULGAZIONE SCIENTIFICA IN COLLABORAZIONE CON LA SIGMUND FREUD UNIVERSITY DI MILANO 

Il Priming è una forma di riconoscimento mnemonico non cosciente che consente a uno stimolo, al quale si è stati esposti una prima volta, di essere identificato durante le successive esposizioni senza averne consapevolezza. Questa capacità evolutiva dell’essere umano provoca notevoli effetti sull’interpretazione e sulla valutazione dell’informazione.

L’Effetto Priming

Il concetto di priming deriva dalla psicologia cognitiva e consiste in una situazione di tipo stimolo sensoriale, che potrebbe essere verbale, uditivo, visivo, al quale si è stati esposti in passato, che influenza la percezione delle successive esposizioni allo stesso stimolo in futuro.
L’effetto priming, ampiamente studiato in vari ambiti della psicologia cognitiva, e usato in diversi studi di neuroscienze, consiste in un effetto di preparazione dell’esposizione allo stimolo. In inglese to prime significa innescare una serie di meccanismi che portano alla attivazione di informazioni presenti in memoria preparando e facilitando il soggetto nell’elaborazione cognitiva dello stimolo successivo

Il priming e le euristiche

In sostanza, con effetto priming si intende l’attivazione di determinate rappresentazioni mentali, scorciatoie, euristiche prima di compiere un’attività. Il Priming dunque e si avvale dell’ euristica del riconoscimento, secondo la quale ogni notizia è memorizzata all’interno dello schema mentale,, costruito nel tempo collegando a essa altre informazioni ricevute rispetto alla prima notizia acquisita. Quando un nuovo stimolo si presenta, a esempio una nuova notizia riguardante il tema di interesse, chi legge la notizia richiama alla mente l’intero schema interpretativo a essa collegato. Uno degli effetti ritenuti più importanti nel richiamare lo schema mentale alla memoria è dato dalla frequenza con la quale la notizia è presentata al lettore.

Il priming e la neuropsicologia

In termini neuropsicologi il priming consiste nell’attivazione di gruppi di neuroni circondati da connessioni poco forti tra loro. Quando questi neuroni sono attivati dalla percezione di un oggetto già visto il segnale si propaga immediatamente e diventa prioritario rispetto agli altri in arrivo. In questo modo, si innesca il ricordo che rappresenta l’informazione in arrivo e nella nostra mente si attivano una serie di immagini correlate all’oggetto in questione. A esempio se l’informazione riguarda il mare si attiveranno tutte le immagine contenenti mare presenti in memoria a scapito di altre che raffigurano oggetti diversi.

Il priming e i ricordi

Durante l’effetto priming si attiva un ricordo nella memoria implicita che influenza la risposta a uno stimolo successivo, aumentando l’accessibilità di informazioni presenti in memoria. A esempio, tornando a casa da lavoro passiamo davanti a una rosticceria da cui proviene un buon odore di pollo allo spiedo. Per cena si era deciso di cucinare un piatto a base di pesce, ma nel momento in cui apriamo il freezer, invece di tirare fuori il pesce vediamo una confezione di carne, e la prendiamo automaticamente. Il più delle volte pensiamo semplicemente di aver cambiato idea: tuttavia nella maggior parte dei casi non siamo consapevoli che ha avuto luogo un effetto priming. Infatti, il percepire l’odore di carne ha attivato dei ricordi che hanno influenzato la scelta della nostra cena. In realtà molti comportamenti e atteggiamenti sono assolutamente influenzati dall’effetto priming e sono determinati da stimoli non del tutto consapevoli. Il priming, dunque, sfrutta il meccanismo automatico dell’attivazione delle rappresentazioni mentali. Lo stimolo sensoriale del priming (una parola, un’immagine, un odore, un suono) influenza una particolare circostanza, un particolare comportamento o situazione sociale che andrà a incidere a sua volta sulle decisioni, sui comportamenti e sulle interpretazioni.

Il priming subliminale e i suoi effetti

Se il prime fosse di tipo subliminale, ossia informazioni percepite sotto-soglia dalla nostra coscienza, allora si parla di priming subliminale. Lo studioso Bornstein (1992) ha studiato l’effetto della mera esposizione su cui si basa l’efficacia della pubblicità. Questo effetto può essere ottenuto esponendo ripetutamente le persone ad uno stimolo senza che ne siano consapevoli, percezione subliminale, si ottiene in questo modo un maggiore atteggiamento positivo verso l’oggetto cui si è esposti, maggiore sarà la loro esposizione allo stimolo. Il priming subliminale ha anche ripercussioni sul giudizio sociale: se è attivata la rappresentazione mentale di un determinato costrutto, come una caratteristica personale, questa influenzerà l’idea di tutti coloro che presentano quella caratteristica personale. Quindi, se dei soggetti sono esposti subliminalmente a brevi parole che rimandano al concetto di razzismo, successivamente giudicheranno negativamente la foto di una persona sconosciuta rispetto a coloro che non sono stati esposti a questi prime subliminali (Bargh e Pietromonaco, 1982).

Il priming subliminale ha anche effetti sul comportamento. L’attivazione di stereotipi influenzano il comportamento delle persone in relazione allo stimolo percepito, attraverso delle rappresentazioni comportamentali (Dijksterhuis e Bargh, 2001). Quindi, se i partecipanti ad un esperimento rispondono a delle domande sulle persone anziane assumono atteggiamenti tipici di queste persone, come diventare più distratti e tendere a dimenticare più facilmente. Allo stesso modo, presentando subliminalmente parole collegate allo stereotipo degli anziani, i soggetti sperimentali hanno peggiore performance nei compiti di memoria o un rallentamento nei tempi di riposta. In questi casi, succede che l’attivazione mentale del concetto di anzianità attiva una serie di la rappresentazione mentali e stereotipiche del comportamento di queste persone (Dijksterhuis e Bargh, 2001).

Il priming subliminale: motivazione e scopi

il priming subliminale, ha effetto solo se si manifestano particolari condizioni: la motivazione e la consapevolezza di chi riceve lo stimolo devono essere definite e esplicite, poiché determinano l’efficacia della risposta data (Randolph-Seng e Nielsen, 2009). Per aumentare l’accessibilità dell’informazione attraverso il priming, lo scopo deve essere immediatamente disponibile, altrimenti il priming, da solo, non porta a fare cose che le persone non vogliono fare. È stato largamente dimostrato da studi psicologici che non si possono indurre scopi e obiettivi nei soggetti se non già presenti in loro. Infatti, gli effetti della comunicazione dei mass-media sono sempre mediati da variabili personali e sociali. Una influenza maggiore si verifica solo se si attivano o si manipolano gli scopi di cui gli individui sono già in possesso. La ricerca scientifica di matrice psicologico-sociale-cognitiva ha quindi recentemente dimostrato sperimentalmente quali sono le circostanze in cui gli stimoli presentati subliminalmente possono influenzare i bisogni (fame, sete), il comportamento di consumo e l’attivazione di bisogni (devo mangiare, devo bere), la scelta del prodotto da consumare (paninoteca o ristorante? Bibita o acqua?), sia in laboratorio sia in contesti naturali.

Vediamo quali sono queste condizioni attraverso cui agisce la pubblicità subliminale:

  1. a) Influenza sullo stato motivazionale: la valutazione soggettiva di un bisogno come la sete può essere influenzata subliminalmente aumentando l’accessibilità della rappresentazione cognitiva del concetto di sete.
  2. b) Influenza sul comportamento di consumo: La motivazione, quindi, interagisce con il priming subliminale influenza la consumazione del prodotto.

Quindi, la motivazione è una componente necessaria e deve essere presente, perché quando le persone non sono motivate, il priming subliminale attiva in memoria solo dei concetti non collegati a qualcosa di significativo. Infatti, quando le persone sono motivate il priming attiva degli scopi o degli obiettivi personali da perseguire.

  1. c) Influenza sulla scelta del marchio o del prodotto. Il fenomeno del priming influenza anche il settore del marketing. La pubblicità subliminale guida le decisioni dei consumatori nella scelta di un determinato marchio o prodotto. Tutto questo è possibile se il marchio o il prodotto è:
  • gradito alla persona (atteggiamento positivo);
  • è associato a un bisogno o scopo (motivazione);
  • sia accessibile immediatamente in memoria (accessibilità) (Karremans, Stroebe e Claus, 2006)

 

Sembrerebbe, dunque, confermato che il priming subliminale possa avere un effetto sulla scelta del prodotto solo guidato da una motivazione o bisogno presentato dalla persona esposta all’effetto.

Se questa evenienza è presente, allora il priming subliminale è in grado di influenzare la scelta e il consumo di un determinato prodotto, quello stimolato subliminalmente.

 

RUBRICA: INTRODUZIONE ALLA PSICOLOGIA

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Le scelte e il timore di sbagliare – Ciottoli di Psicopatologia Generale

Molteplici sofferenze più o meno nosograficamente psicopatologiche ruotano intorno alle scelte. Mi sembra di poterne distinguere tre tipi secondo una dimensione cronologica. Quelle precedenti alla scelta o paralisi decisionali che la fanno da padrone nel mondo ossessivo ma si infiltrano nella vita quotidiana appena la posta in palio diventa importante. Quelle del momento della scelta evidenti nei disturbi dell’umore nei due sensi di impulsività e di blocco. Quelle del dopo scelta caratterizzate dal rimpianto o dal rimorso.

CIOTTOLI DI PSICOPATOLOGIA GENERALE RUBRICA – LEGGI L’INTRODUZIONE

Nel 6° ciottolo abbiamo parlato dell’ abitudine. Ora soffermiamoci sul suo esatto contrario: la scelta. Essa è, temo, la vera condanna per aver mangiato il frutto dell’albero della conoscenza che ci accompagna dal momento della cacciata dal paradiso terrestre. Al suo confronto il sudore della fronte per il lavoro e i dolori del parto (già sento le colleghe furiose gridare vorrei vedere te) sono quisquilie, pinzillacchere. Il Padreterno, è tanto buono e caro ma su certe prerogative solo sue lo devi lasciar stare perché perde il senso dell’umorismo di cui, invece, aveva dato ampia prova nella creazione dell’universo. Lo vedo sull’uscio ghirlandato dell’Eden che ci scaglia dietro il libero arbitrio. Adamo prudente avverte la compagnia di lasciarlo a terra, non toccarlo. Possiamo pur sempre non usarlo, pensa, allontanandosi ma Eva che aveva letto di recente Watzlavich ed era rimasta colpita dalla sua frase sull’impossibilità di non comunicare, per fare la colta afferma decisa “ non si può non decidere”.

Da allora abbiamo fatto di tutto per toglierci di dosso questo fardello. Inventando storie incredibili di uno o più che prendono le decisioni per noi. A proposito la narrazione precedente non è vera e appartiene proprio ad una di queste storielle, la più vicina a noi che tuttora ha molti adepti. Se non erano dei allora era il destino, il fato, le congiunture astrali. Poi passano i secoli l’umanità diventa grande e fa fatica a continuare a credere alle storielle soprannaturali. Così dopo l’illuminismo occorre sostituire le spiegazioni celesti con qualcosa di più terreno come le grandi ideologie deterministiche che tutto spiegano e predicono. Da lì è un passo affidarsi ad un uomo forte, semidio o supereroe che ci conduce a cui affidare la procura generale per le nostre decisioni. Noi siamo brava gente che eseguiva solo gli ordini, semmai impiccate lui a testa in giù.

Tutto pur di non scegliere. Perché? Intanto perché è un lavoro impegnativo che se fatto a modino non sulle suggestioni immediate del sistema intuitivo, ottime salva-vita ma piuttosto raffazzonate sulle questioni complesse, richiede una bella sudata meningea. Poi perché si può sbagliare rischiando un danno e, forse peggio, la colpa e il rimorso per esserne la causa. Molteplici sofferenze più o meno nosograficamente psicopatologiche ruotano intorno alle scelte. Mi sembra di poterne distinguere tre tipi secondo una dimensione cronologica. Quelle precedenti alla scelta o paralisi decisionali che la fanno da padrone nel mondo ossessivo ma si infiltrano nella vita quotidiana appena la posta in palio diventa importante. Quelle del momento della scelta evidenti nei disturbi dell’umore nei due sensi di impulsività e di blocco. Quelle del dopo scelta caratterizzate dal rimpianto o dal rimorso. Procediamo con ordine.

Le paralisi decisionali sono generate dal timore di sbagliare e sono direttamente proporzionali all’importanza della posta in palio e al riverbero temuto sul proprio valore personale in caso di errore per cui le persone con scarsa autostima e i perfezionisti saranno più facilmente a rischio di questi blocchi che saranno a loro volta un vulnus proprio per il valore personale “ non decido per non sbagliare e considerarmi sbagliato, ma siccome non decido sono sbagliato”. Questi soggetti saranno preda delle sofferenze post-scelta come il rimpianto e il rimorso infilandosi in una spirale di autosvalutazione. Quello che potremmo chiamare il bias perfezionistico, oltre al timore dell’errore porta a ritenere, infatti, che ad un certo problema esista una soluzione perfetta, esente da difetti e che vada trovata. Un altro aspetto più generale del bias perfezionistico è l’aspettativa di essere in un mondo ideale in cui sia disponibile tutto, subito, senza fatica e soprattutto senza rinunce. Ne segue un senso di ingiustizia e di rabbia all’idea di dover scegliere e rinunciare con conseguente sdegnato ritiro sull’Aventino come un bambino capriccioso che non gioca più se non vince facile.

Torniamo ai meccanismi di paralisi da timore dell’errore. Il soggetto esamina le varie possibili alternative e sceglie provvisoriamente quella che gli appare come la migliore. A questo punto la scannerizza in dettaglio per scoprirne i possibili difetti e trovatone uno la rigetta. Ripete il processo su un’altra alternativa ma nessuna supera l’esame del bias perfezionistico. L’errore sta nel fatto che non cerca la soluzione migliore con un bilancio pro-contro favorevole ma una soluzione senza alcun contro. Ciò è ovviamente impossibile, altrimenti non si tratterebbe di una scelta. Ho visto massicciamente questo processo in persone che dicevano di non avere idee e addirittura pensavano di essere stupide. In verità qualsiasi idea si affacciasse alla loro mente era processata immediatamente e scartata come imperfetta senza neppure dargli il tempo di crescere e definirsi Si comportavano come un Erode iperprudente o un falsificazionista popperiano militante che fa strage di tutte le idee neonate. Per queste persone terrorizzate dall’errore, i pro o i cosiddetti guadagni contano poco, ciò che è importante sono i contro per evitare le perdite. In terapia nel cimentarsi con loro in un processo di “decision making” si possono trascurare i guadagni e concentrarsi esclusivamente sui contro assegnando loro un peso.

Soprattutto il problema va impostato come la ricerca della soluzione meno peggiore che è la stessa cosa del ricercare la soluzione migliore ma, detto così, attiva meccanismi di selezione delle alternative diversi. In sintesi vanno abbandonate le illusioni di perfezione e di onnipotenza.
Nei blocchi decisionali da timore di fallimento per evitare la colpa sarà molto utile evidenziare l’impossibilità di non scegliere che già Eva aveva intuito per trasposizione da Watzlavick, e focalizzarsi sul possibile rimpianto che si abbatterà inevitabile su chi non ha vissuto per evitare la colpa come sui resti smagriti dell’asino di Buridano.

Le paralisi decisionali hanno potente radice nella ben nota avversione alle perdite che è un automatismo del sistema intuitivo efficace nella protezione della sopravvivenza immediata ma costituisce di contro una vera e propria forza conservatrice che muove intense emozioni tanto che il rapporto del peso emotivo tra perdite e guadagni è 2 a 1: una perdita dà il doppio del dolore del piacere di un guadagno di pari entità.
Ciò costituisce un pericolosissimo fattore di perseverazione in situazioni fallimentari. Pur di non accettare una perdita si scommette il tutto per tutto e si finisce peggio. In guerra non ci si arrende. Una situazione paradigmatica è la ludopatia ma vale anche per certe imprese o relazioni disastrose dove si persevera per non ammettere la perdita. Terapeuticamente in questi casi è opportuno non accanirsi per una decisione immediata ma chiedere al soggetto di definire criteri di attivazione di una exit strategy: quando deciderei di rinunciare? Cosa dovrebbe succedere per farmi dire basta? Per poi ripresentarglieli una volta raggiunto tale livello.

Di fronte alla perseverazione e alla resistenza al cambiamento da un punto di vista terapeutico oltre a evidenziare la follia del bias “dei costi sommersi” di cui ho trattato nel ciottolo “6 sull’abitudine” è opportuno costruire in termini di perdita il mantenimento dello status quo piuttosto che come guadagno il cambiamento. Quindi confrontare due perdite: una possibile ( il cambiamento) ed una certa ( lo status quo) piuttosto che una perdita con un possibile guadagno.

Il senso di colpa che la paralisi decisionale tenta di prevenire è maggiore se ci riteniamo responsabili di errori di commissione molto più che di errori di omissione. Modificare il corso naturale degli eventi è sentito come più colpevole che lasciarli andare come vengono. Anche questo bias facilità il conservatorismo e si può tentare di superarlo rileggendo come errore di commissione una omissione dopo che si ha consapevolezza dei possibili esiti.

A volte la sofferenza non è generata da una vera e propria paralisi decisionale ma dal fatto che il soggetto ritiene di averla mentre invece dovrebbe cambiare vita. Si tratta di quelle persone insoddisfatte e annoiate delle situazioni che vivono e che si sono scelti e si rimproverano di non dare una svolta all’esistenza. A loro è opportuno spiegare il fenomeno cosiddetto “della curva dell’indifferenza ( pag. 320 e seg. ) per cui più si ha una cosa meno diventa importante accrescerla e anche possederla. Sto pensando al disinvestimento sulle storie stabili e al non godersi ciò che si ha finchè non lo si perde o si rischia di perderlo (che sia la salute, la ricchezza, un lavoro o una relazione). In tali casi è utile immaginare scenari in cui il bene scontato è stato perduto e storie plausibili che possano condurre a ciò. Ciò è applicabile in tutte le situazioni anche già abbastanza disastrate. Ricordate il “potrebbe piovere” di Frankestein Junior.

 

Esiste anche l’opposto delle paralisi decisionali. Chi appare onnipotente e sceglie senza difficoltà, talvolta impulsivamente. Sono gli ottimisti che all’estremo sconfinano con il disturbo maniacale. Ma mentre quest’ultimi sono facilmente identificabili ed in fase acuta generalmente ricoverati, i primi si nascondono tra noi, a volte lo siamo noi stessi, guidano aziende e istituzioni che possono portare al disastro. Kahneman ( pag 282 e seg.) dimostra che il bias ottimistico che è in gran parte genetico rende ciechi ai rischi e fa sopravvalutare se stessi. Se da un lato fa campare più a lungo, rende leader e decisori per gli altri, dall’altro può essere molto dannoso facendo sottovalutare il ruolo del caso e della fortuna a vantaggio della propria onnipotenza conducendo a progetti fallimentari e disastri. Sistematicamente quando si fa un progetto guardando all’obiettivo si sottovalutano le difficoltà e gli imprevisti che sono appunto tali e si ritengono necessari tempi più brevi e risorse minori di quanto in realtà necessiteranno ( insomma non fidatevi dei preventivi anche di operai in buona fede, non è colpa loro è la genetica umana). Sembra essere nella nostra natura vedere solo l’obiettivo trascurando le interferenze.

Una procedura ideata per le aziende ma utilizzabile anche in terapia è la cosiddetta “strategia post mortem” in cui si ribalta il punto di vista dal quale si osserva il progetto. Funziona così. Immaginiamo che tutto sia andato male (l’impresa è fallita, il paziente è morto, mia moglie se n’è andata), il disastro avvenuto e cerchiamo a posteriori di individuare tutti i possibili fattori imprevisti che lo hanno potuto causare. Si chiede al soggetto di non mettersi nei panni del costruttore ma del guastatore per scoprire le falle bisogna indossare gli occhiali del ladro non quelli del costruttore di antifurti.

Tuttavia la maggior parte delle sofferenze legate alle scelte è riferito al dopo quando non si realizzano i risultati attesi e si è assaliti da colpa, rammarico e autosvalutazione. Spesso alla sofferenza per aver fallito lo scopo reale sul quale era incentrata la scelta si sommerà quella per il giudizio negativo su di sé come cattivo decisore. Nel compiere questa operazione di svalutazione di sé vengono normalmente compiuti due errori di ragionamento.

In primo luogo si valutano le proprie abilità di decisore sull’esito effettivo della scelta e non sulla correttezza stessa del processo decisionale, è l’errore “del senno di poi”. Quando conosciamo l’esito di una vicenda ci sembra, erroneamente, che ci fossero già prima gli indizi sufficienti per prevederlo ma non è così. Gli storici hanno un compito più facile dei profeti. Un conto è spiegare, altro è prevedere . Basterà pensare alla “strategia post mortem” descritta sopra.

In secondo luogo quando valutiamo a posteriori una scelta fatta ( ad esempio tra due opzioni “A” e “B”) commettiamo due errori che ci inducono a ritenere di avere sbagliato. Il primo: gli svantaggi temuti che ci avevano fatto rifiutare l’opzione “A” non si sono effettivamente realizzati per cui non ne avvertiamo più la negatività. Il secondo: i vantaggi che ci hanno fatto scegliere l’opzione “B”, se si escludono i primissimi tempi, vengono considerati acquisiti, scontati, mentre gli eventuali svantaggi (ovviamente presenti) essendo causa di disagio attuale, richiamano costantemente l’attenzione.

Chiarisco con un esempio immaginando che un signore decida di rinunciare al 20% dello stipendio pur di non viaggiare per cento chilometri partendo alle 6,00 da casa tutte le mattine per raggiungere il posto di lavoro. Aveva messo sul piatto della bilancia la sua stanchezza, i costi e i rischi degli spostamenti, e aveva scelto di rinunciare a quel 20% in nome della qualità della vita. Però dopo i primi giorni della nuova vita inizia a pentirsi e ad autoaccusarsi erroneamente. Analizziamone gli errori: essendo decisamente più riposato lo scopo di non essere stanco e dunque di non svegliarsi ogni mattina alle 6,00 perde di importanza (pesa meno). Il fatto di non correre il rischio di un possibile incidente non è avvertito perché l’incidente, non si è verificato, ma anche nell’altra situazione avrebbe potuto non verificarsi comunque e dunque non c’è una differenza significativa. Il risparmio sui consumi dell’auto è spalmato nel tempo perché l’acquisto di una nuova auto è ammortizzato in parecchi anni e dunque non si ha la sensazione di un risparmio immediato. Ciò che resta invece assolutamente evidente e tangibile è quella riduzione del 20% di stipendio in busta paga che alla fine di ogni settimana ricorda al signore l’errore di scelta compiuto.

Più in generale gli svantaggi che vengono contabilizzati sono solo quelli dell’alternativa prescelta. Se si decide di fare il centro invece della tangenziale si vedrà solo il traffico del centro fantasticando una tangenziale libera. La volta successiva sulla tangenziale succederà assolutamente il contrario.
Riassumendo le sofferenze del dopo scelta: già sbagliare e perdere la posta in palio è motivo di rincrescimento in sè, ma si può peggiorare la situazione rimproverandosi di essere stati degli stupidi. Non tenendo conto che al momento della scelta non si avevano tutti i dati che si hanno in seguito e quindi un conto è che si sia fallito rispetto all’obiettivo, altro che si sia scelto malamente. Per questo terapeuticamente è utile analizzare i passi decisionali e giudicare il processo in sé distinguendolo dal suo esito reale, tenendo conto dell’esistenza del caso ed epurandolo dal bias del senno di poi.

Lo si può ripercorrere considerando le ragioni di ogni singolo bivio decisionale ovviamente con i dati di conoscenza a disposizione del momento e la consapevolezza che i bisogni, le preferenze e i gusti cambiano. Dopo la scelta, inoltre, non si tiene più conto dei criteri che avevano fatto preferire l’opzione A e scartare la B e dati per acquisiti i vantaggi di A ci si sofferma solo sui suoi difetti. Si decide di partire da un certo assetto motivazionale e la si valuta poi da uno diverso.

 

RUBRICA CIOTTOLI DI PSICOPATOLOGIA GENERALE

Come le nuove tecnologie hanno modificato il nostro stile di vita

Nuove tecnologie: Nel corso della nostra storia evolutiva, i nostri sistemi cognitivi sono stati modificati con l’avvento di invenzioni tecnologiche come gli strumenti primitivi, la lingua parlata, la scrittura e i sistemi aritmetici. Trenta anni fa, Internet è emerso come l’ultima invenzione tecnologica pronta a ridisegnare profondamente la mente umana e a trasformare i nostri pensieri e il nostro stile di vita.

Laura Prosdocimo, OPEN SCHOOL STUDI COGNITIVI

Le nuove tecnologie

Secondo Stefano Rodotà la tecnologia [blockquote style=”1″]libera la vita da antiche schiavitù, quelle dello spazio e del tempo, e questo è già realtà per milioni di persone. Internet non è soltanto il più grande spazio pubblico che l’umanità abbia conosciuto. È un luogo dove la vita cambia qualità e colore, dove sono possibili l’anonimato e la moltiplicazione delle identità, la conoscenza e l’ubiquità, la libertà piena e il controllo totale. In rete ognuno può essere davvero “uno nessuno e centomila”, come diceva Luigi Pirandello, e vedere realizzata l’aspirazione dello Zelig di Woody Allen: “Vorrei essere tante persone. Forse un giorno questo si avvererà”. La grande trasformazione tecnologica cambia il quadro dei diritti civili e politici, ridisegna il ruolo dei poteri pubblici, muta i rapporti personali e sociali, e incide sull’antropologia stessa delle persone. (Rodotà, 2005). [/blockquote]

[blockquote style=”1″]Se, in effetti, Internet ha molto da offrire a chi sa ciò che cerca, è anche in grado di completare la stupidità di chi naviga senza bussola[/blockquote] (Laplante, 1995). Questa frase di Laurent Laplante, giornalista canadese, inquadra perfettamente il dilemma che ha caratterizzato la rete sin dalla sua comparsa: Internet ha effetti negativi o positivi sul nostro modo di pensare e agire? La domanda è divenuta ancor più rilevante nel passaggio dal Web 1.0 al Web 2.0. Se il quesito iniziale è ancora pressoché insoluto, coloro che hanno tentato di dare una risposta si sono divisi fra quelli che hanno evidenziato i possibili effetti negativi del social web e quelli che ne hanno sottolineato le potenzialità per lo sviluppo umano (Baiocco L. et al. 2014).

L’uso dei social network è ormai generalizzato; in Italia ci sono 25 milioni di persone che usano Facebook (i profili aperti sono 28 milioni, 25 milioni sono quelli che nell’ultimo mese hanno effettivamente usato Facebook almeno una volta), oltre 9 milioni su Twitter, oltre 5 su LinkedIn (http://vincos.it); Badoo, uno dei social network fatti per trovare partner dichiara che in Badoo si può fare amicizia con più di 10 milioni (il 70% sono maschi e il 30% femmine).

 

Cosa cambia con le nuove tecnologie

Le nuove tecnologie sono seducenti quando ciò che offre soddisfa la nostra vulnerabilità umana; si scopre allora che siamo davvero molto vulnerabili. Ci sentiamo soli, ma abbiamo paura dell’intimità: le connessioni digitali possono offrire l’illusione della compagnia senza gli impegni dell’amicizia; la nostra vita in rete ci permette di nasconderci a vicenda anche mentre siamo allacciati l’uno all’altro (Turkle S., 2012); preferiamo comunicare per sms che parlare. La tecnologia ci offre delle alternative alla comunicazione faccia a faccia, ci permette di comunicare facilmente quando vogliamo liberarci a nostro piacimento, abbiamo la possibilità di ridurre il contatto umano. Quando è la tecnologia a costruire la nostra intimità le relazioni possono ridursi a semplici connessioni e con la connessione costante arrivano nuove ansie da disconnessione.

Le nuove tecnologie consistono in smartphone, tablet, pad ecc. a cui non si riesce più a rinunciare e il termine “nomofobia”, letteralmente “no mobile phobia” è stato coniato proprio per definire la paura di perdere o essere senza il proprio cellulare. Questo tipo di paura genererebbe dei veri e propri stati di ansia e frustrazione al pari di qualsiasi altra fobia e sarebbe collegata alla paura di non sentirsi più in contatto con amici e famigliari (King et al., 2013).
A partire dal 1996, grazie al pionieristico lavoro della statunitense Kimberly Young (1998), è stata ipotizzata e documentata una forma di dipendenza da Internet nota con l’acronimo di IAD, Internet Addiction Disorder. La IAD è una delle ultime forme delle cosiddette “dipendenze senza sostanze”.

Questo studio ha riportato risultati interessanti: i soggetti riconosciuti come affetti da internet addiction disorder erano in maggioranza donne, verso la mezza età, utilizzavano il pc per un tempo otto volte superiore agli altri individui e presentavano problemi rilevanti nella loro vita economica, lavorativa e relazionale e di sostegno. Inoltre prediligevano un uso di internet a scopo interazionale e relazionale ( chat, ad esempio). Per quanto riguarda gli uomini, essi mostravano una preferenza per i giochi aggressivi ed è risultato che utilizzassero internet maggiormente per siti pornografici e chat erotiche.

 

Come le nuove tecnologie hanno modificato lo stile di vita

Dal punto di vista clinico, è emerso che la personalità predisposta ad un disturbo da dipendenza da internet sia costituita da tratti ossessivo-compulsivi, instabilità sociale, inibizione relazionale ed una certa inclinazione al ritiro sociale, e dimensioni di sensation seeking.
Ciascuno di noi, da ben prima che arrivasse Internet, faceva parte di una quantità di reti: familiari, scolastiche, associative, lavorative. Ognuna di queste reti ha un proprio “oggetto sociale”, segni di (auto)riconoscimento, regole implicite ed esplicite che definiscono le relazioni fra chi ne fa parte; quel che è successo negli ultimi 15 anni è che ci siamo trovati in mano strumenti che ci permettono di:
– Gestire in modo molto più rapido ed economico la comunicazione all’interno delle reti di cui già facciamo parte (una mailing list o un gruppo segreto su Facebook sono mille volte più efficienti della catena di telefonate);
– Restare in contatto facilmente con persone che altrimenti avremmo perso, riducendo così il costo di mantenimento dei legami sociali “deboli” (il gruppo di persone che si sono conosciute in vacanza, la classe delle elementari); cercare e trovare persone che ancora non conosciamo ma con cui condividiamo passioni e interessi, creando nuove reti all’interno delle quali, spesso, sul terreno della passione comune germogliano amicizie e amori.

Le nuove tecnologie ridisegnano il paesaggio della nostra vita emotiva; ma ci offrono davvero la vita che vogliamo vivere?
I”Nativi digitali” cresciuti con Internet, gravitano verso “superficiali” comportamenti di elaborazione delle informazioni sono capaci di un rapido spostamento dell’attenzione e ridotte capacità di riflessione. Adottano comportamenti multitasking che sono collegati a una maggiore distraibilità e scarse capacità di controllo esecutivo. I nativi digitali presentano anche una maggiore prevalenza di comportamenti di dipendenza legate a Internet che rispecchiano degli alterati meccanismi di ricompensa e autocontrollo. Recenti indagini di neuroimaging hanno suggerito associazioni tra questi impatti cognitivi legati a Internet e i cambiamenti strutturali nel cervello. (Kep Kee L., Ryota K.,2015).

Certo, le nuove tecnologie hanno i loro indubbi vantaggi ma, come per tutte le cose, per trarne davvero vantaggio ci vuole equilibrio.
Gli studi di Ellison, Steinfield e Lampe (2007) e di Mazzoni e colleghi (Frozzi e Mazzoni, 2011; Mazzoni e Gaffuri, 2009; Mazzoni e Iannone, 2014) evidenziano come l’uso di Internet, in particolar modo dei Social Networking Sites (SNS), possa essere concepito come un organo funzionale (Leont’ev, 1974) che potenzia o sostiene le abilità umane.

Ricerche recenti hanno mostrato come l’utilizzo dei SNS possa portare a un maggior grado di benessere. Valkenburg, Peter e Schouten (2006) hanno evidenziato come la frequenza d’uso di un SNS tedesco influisca indirettamente sull’autostima e sul benessere psicologico di un campione di adolescenti, grazie anche alla frequenza dei feedback positivi ricevuti sul proprio profilo.

In un altro studio, analizzando la relazione tra i possibili benefici ricavabili dalla creazione e dal mantenimento delle relazioni interpersonali, l’autostima e l’uso dei SNS in studenti americani di college, è risultato che coloro che avevano una bassa autostima traevano maggior beneficio dall’utilizzo di Facebook rispetto a coloro che avevano un’autostima più elevata (Steinfield et al., 2008). I recenti contributi di Frozzi e Mazzoni (2011) e di Mazzoni e Iannone (2014), basati su un impianto teorico e metodologico simile a quello proposto da Steinfield, Ellison e Lampe (2008), hanno mostrato come i risultati rintracciati nel campione di studenti di college americani siano simili a quelli di studenti italiani alle prese con la transizione dalla scuola secondaria di secondo grado all’università.

La rete agevola e velocizza le attività umane in molti ambiti, lavorativi e non, producendo vantaggi economici (in termini di spostamenti in auto, treno e aereo, che caratterizzano i rapporti in presenza) e ambientali non secondari. Allo stesso tempo sostiene, migliora e potenzia alcuni aspetti essenziali che caratterizzano la vita umana, fra cui la socialità, la ricerca di informazioni e la gestione di varie incombenze personali e famigliari (Frozzi e Mazzoni, 2011; Mazzoni e Gaffuri, 2009).

L’influenza delle interazioni online sulla società porterebbe, quindi, a una trasformazione dei gruppi di quartiere in reti sociali, senza intaccare in modo significativo le interazioni faccia-a-faccia tra i suoi membri, ma rendendone più frequenti i contatti e rafforzandone anche i legami interpersonali (May, 2000).

L’autocontrollo e l’autoregolazione permettono di gestire attivamente una determinata situazione, dall’altro, la consapevolezza di ciò che si sta facendo permette di avere un costante monitoraggio sull’andamento della situazione. Con il termine «mindfulness» (consapevolezza) si definisce proprio la presenza o l’assenza di attenzione e di consapevolezza relativamente a quanto avviene nel presente (Walach et al., 2006) o, più semplicemente, un’oggettiva esperienza di consapevolezza (MacKillop e Anderson, 2007).

Dato che la mindfulness ha un ruolo importante nel mantenere una certa dose di attenzione ed evitare comportamenti negativi, alcuni studiosi (Lee e Lai, 2014) si sono chiesti se questo fattore possa diminuire il rischio di comportamenti di dipendenza da Internet negli adolescenti. Lungi dal pensare che solo negli adolescenti la mindfulness possa influire sui loro comportamenti online, è possibile certamente ipotizzare un effetto di questo fattore, associato all’autoregolazione, sull’utilizzo problematico di Internet.

Internet può essere analizzato all’interno di un continuum che ha come estremi, da una parte, l’uso funzionale in grado di potenziare le abilità dell’uomo e, dall’altra, l’uso problematico che può avere ripercussioni critiche nella vita quotidiana.
Sicuramente studi longitudinali in tale ambito ci permetteranno sempre più di comprendere quali variabili personali, sociali e ambientali possano spostare il nostro modo di utilizzare il web verso un polo o l’altro.

Mutismo selettivo: quali contributi dall’ipnosi?

Attualmente il mutismo selettivo è considerato un disturbo difficile da trattare. L’ipnosi si è dimostrata efficace nel trattamento dei disturbi del linguaggio ad esordio infantile e nel trattamento del mutismo selettivo, come mostra il caso di Stella.

Il mutismo selettivo (MS) è un disturbo che emerge durante l’infanzia ed i bambini che ne soffrono, a fronte di una capacità di produrre linguaggio integra, non parlano in contesti in cui ci si aspetta che lo facciano (es. scuola, asilo). Riescono invece ad esprimersi verbalmente in ambienti familiari come quello domestico.

Il mutismo selettivo colpisce 1-2 bambini su dieci e si presenta più spesso nelle bambine (American Psychiatric Association, 2013). Si tratta di un disturbo che perdura nel tempo se non trattato: ricerche longitudinali hanno mostrato che la durata media è di circa 8 anni e che, anche nei casi in cui il sintomo principale venga risolto, il bambino tenderà ad avere difficoltà relazionali, comunicative e di rendimento scolastico/accademico anche da adulto. (Remschmidt, Poller, Herpertz-Dahlmann, Henninghausen, & Gutenbrunner, 2001).

Il fatto che sia i bambini con mutismo selettivo che i loro familiari tendano a mostrare quadri ansiosi ha portato recentemente i ricercatori ad includere questo disturbo nella categoria dei disturbi d’ansia (Arie, Henkin, Tetin-Schneider, Apter, Sadeh, & Bar-Haim, 2007; Anstendig, 1999; Bögels, et al., 2010; Kristensen H. , 2000; Kristensen & Torgersen, 2001; American Psychiatric Association, 2013). In altre parole, la ricerca ci dice che questi bimbi non sono disubbidienti o ostinati a non parlare. Al contrario, vivono uno stato di forte disagio che gli impedisce di farlo.

Un altro fattore che sembra predisporre al disturbo è l’appartenere ad una famiglia immigrata nello stato di residenza.

 

Gli approcci terapeutici al mutismo selettivo

Attualmente il mutismo selettivo è considerato un disturbo difficile da trattare e nel corso degli anni sono stati utilizzati diversi approcci terapeutici.

Gli approcci di tipo farmacologico hanno tutti portato a risultati simili: nonostante alcuni miglioramenti, i pazienti rimanevano fortemente sintomatici (Black & Uhde, 1994; Manassis & Tannock, 2008).

Dal punto di vista degli interventi psicologici al mutismo selettivo, la letteratura empirica è ancora piuttosto povera e popolata per la maggior parte di lavori non sufficientemente rigorosi. Due reviews pubblicate sull’argomento supportano l’efficacia della terapia cognitivo-comportamentale (Sharp, Sherman, & Gross, 2007; Muris & Ollendick, 2015) insieme ad altri lavori (Lang, et al., 2015; Oerbeck, Stein, & Pripp, 2015) che rilevano come questo approccio abbia portato ad un miglioramento dopo circa 20-24 sedute. A seguito di questi interventi, che spesso richiedevano di lavorare con il bambino, con la famiglia e con il personale scolastico, la diagnosi di mutismo selettivo non era più applicabile per una percentuale di bambini che oscilla tra il 50% ed l’86%.

Perché utilizzare l’ipnosi con il mutismo selettivo?

L’ipnosi è una metodologia già utilizzata in modo efficace per varie forme di ansia (Hammond, 2010) anche molto gravi come l’ansia da stress acuto (Bryant, Moulds, Guthrie, & Nixon, 2005) e il disturbo post traumatico da stress (Solomon & Johnson, 2002) e si è dimostrata promettente anche nel trattare condizioni legate all’ansia infantile (Hammond, 2010; Glaesmer, Geupel, & Haak, 2015; Hizli, et al., 2015; Kekecs, Nagy, & Varga, 2014).

L’ipnoterapia si è dimostrata efficace nel trattamento di altri disturbi del linguaggio ad esordio infantile quali la balbuzie (Kaya & Alladin, 2012; Gibson & Heap, 1991; (Doughty, 1990; Kraft, 1994; Moss & Oakley, 1997) che come il mutismo selettivo sono accompagnati nella quasi totalità dei casi da una specifica forma di ansia sociale per tutte quelle situazioni che richiedono di parlare in pubblico, conoscere nuove persone, parlare ai superiori e addirittura rispondere al telefono (Iverach & Rapee, 2013).

Esistono inoltre alcuni studi sull’utilizzo di interventi ipnotici per il trattamento di disfonia di origine psicogena (Giacalone, 1981; Heap & Aravind, 2002).

 

Cos’è l’ipnosi?

Secondo la Society of Psychological Hypnosis (APA div. 30), l’ipnosi è una procedura attraverso la quale un operatore utilizza delle suggestioni volte a modificare sensazioni, percezioni, pensieri o comportamenti (American Psychological Association). Tali suggestioni vengono somministrate in uno stato diverso di coscienza noto come trance ipnotica.

L’ipnosi sta ricevendo sempre maggiore attenzione nel panorama scientifico internazionale perché si tratta di una metodica relativamente semplice da somministrare, a basso costo e senza effetti collaterali (Stoelb, Molton, Jensen, & Patterson, 2009).

Il caso presentato di seguito utilizza uno specifico approccio ipnotico che prende il nome dal suo fondatore, Milton H. Erickson. Esistono infatti due fondamentali approcci all’ipnosi: uno diretto o classico, che concettualizza lo stato di trance come uno stato prodotto dall’ipnotista nel soggetto, ed uno indiretto (o, per l’appunto, ericksoniano) che invece descrive la trance come uno stato di coscienza fisiologico che tende a presentarsi spontaneamente negli individui quando questi si sentono inclusi in una relazione accogliente, rispettosa e collaborativa detta rapport. In tale stato l’attenzione è estremamente focalizzata e tipicamente rivolta verso l’interno.

Tale modo di utilizzare l’ipnosi ha permesso di esplorare e sfruttare le trances che naturalmente si sviluppano durante le sedute psicoterapeutiche (Yapko, 2012) rendendola uno strumento versatile utilizzabile anche a supporto di altri modelli psicoterapeutici.

 

Il caso di Stella

Stella (nome di fantasia), portata da me dalla madre, è una bambina di 7 anni che da qualche tempo mostra i sintomi tipici del mutismo selettivo. La madre di Stella, una donna energica di origini straniere, trasferitasi in Italia ancora molto piccola, ha cresciuto la piccola senza il padre che ha avuto una storia di problemi con la giustizia. Le uniche persone oltre alla madre con cui Stella parla al momento della presa in carico, sono i nonni, con i quali ha vissuto per i primi anni della sua infanzia prima di trasferirsi a casa del nuovo compagno della madre.

Frequenta ancora l’asilo, le maestre infatti, a causa del suo non parlare hanno consigliato di inserirla a scuola con un anno di ritardo. Stella non socializza, aspetta seduta il momento di tornare a casa e, una volta rientrata, segue la madre di stanza in stanza e non tollera di dormire da sola.

Stella varca la porta dello studio molto arrabbiata, guarda ostinatamente per terra, si aggrappa alla madre che le ordina di entrare e di mettersi a sedere prima di ritirarsi in sala d’aspetto. Le relazioni che mi vengono consegnate parlano di una bambina che non esprime alcuna emozione, dotata di grande intelligenza e che non si ingaggia in nessuna forma di comunicazione con insegnanti o altri bambini.

In accordo con la filosofia ericksoniana ragiono sul principio dell’utilizzazione, sulla possibilità di rendere strumento quanto sta accadendo durante la sessione di lavoro. Erickson sviluppa questo concetto per gestire le resistenze al trattamento del paziente. Spesso, invece di interpretarle direttamente o contrastarle apertamente, Erickson sceglieva di sostenerle, a volte persino di prescriverle per promuovere la guarigione del paziente. ‘La resistenza è una forma di collaborazione del paziente‘ (Nardone, Watzlawick, Loriedo, 2006) sosteneva. In seguito estenderà questo principio a tutto ciò che accade in seduta: ogni evento in sessione può essere usato in senso terapeutico (per approfondire si veda Erickson & Rossi, 1979)

In questo momento Stella non può parlare ma può ascoltare, per questo decido di commentare i suoi disegni ad alta voce e mi propongo di suscitare in lei il desiderio di parlare. Per questo motivo, mentre la sua attenzione viene assorbita dai disegni, introduco delle suggestioni che raccontano di montagne apparentemente insormontabili che possono essere scalate poco alla volta e che col tempo fanno meno paura, di un altro caso di un bambino che non riusciva a muovere un braccio ma poteva immaginare di farlo e, piano piano, poteva cominciare a muoverlo senza che lo vedesse nessuno…

Le parlo anche di quanto deve essere bello essere liberi di fare ciò che si vuole e le chiedo: ‘Tu per esempio che vorresti fare?’ Al termine della seduta S. raggiunge un primo risultato, sposta la testa, che ha tenuto per tutto il tempo ostinatamente girata a destra, leggermente verso di me. E’ un movimento davvero minimale, una piccola cosa. Sulla porta, nel salutarla, le dico che, a volte, alcune cose scappano proprio, come la pipì.

Nelle due settimane che intercorrono tra la prima e la seconda seduta, ricevo una telefonata dalla madre di S. che mi racconta che la bambina ha cominciato a parlare con Dario, il suo compagno.

Scelgo di non enfatizzare questa conquista e colgo l’occasione per fare un intervento: le chiedo di chiedere alla piccola Stella se allora la prossima volta parlerà anche con me.

Per la seconda seduta, decido di preparare una scaletta di giochi dal ritmo incalzante, ognuno dei quali porterà un piccolo contributo rispetto ad uno o più aree sensibili. Voglio costruire ogni sessione attivando una serie di esperienze emotive che possano arricchire ed ampliare le sue possibilità di azione nel mondo. Il mio obiettivo è di coinvolgerla in modo da promuovere il suo desiderio di partecipare attivamente, ad interagire con un’altra persona, anche in modo non verbale per il momento. Voglio che Stella si diverta. Voglio farla salire su una giostra. Come riportato da studi idiografici sulla materia, infatti, il fatto che i bambini con mutismo selettivo non parlino non vuol dire che non vogliono che gli si parli. Al contrario, desiderano essere coinvolti nonostante il loro silenzio e temono e soffrono l’isolamento (Albrigsten, Eskeland & Mæhle, 2015).

Non so ancora se Stella avrebbe parlato anche con me e per questo preparo dei giochi che possano essere fatti anche in silenzio.

Alla seconda seduta, dopo 15 giorni, Stella arriva in studio insieme alla madre ed al suo compagno. Per la prima volta mi guarda negli occhi e mi sorride timidamente. ‘Ciao‘, mi dice.

Seguendo gli insegnamenti di Erickson, scelgo di utilizzare il setting in modo morbido, nel corso di ogni incontro vedrò sia Stella da sola, che Stella con la mamma, che mamma sola (nel caso sia necessario e possibile) muovendomi tra una stanza e l’altra, in modo da lasciarmi le mani libere e poter lavorare sul migliorare l’indipendenza reciproca di madre e bambina. Nel pensiero Ericksoniano, che poi filtrerà nella terapia familiare, il setting può diventare laboratorio per sperimentare le nuove capacità che il soggetto sviluppa in terapia. Tenendomi aperta la possibilità di spostarmi di stanza in stanza, avrei potuto aiutare Stella a fare lo stesso una volta rientrata tra le mura domestiche (Haley, 1973). Tale scelta è inoltre inquadrabile in una logica di esposizione comportamentale, nella quale il paziente, una volta costruito un senso di relativa sicurezza, viene invitato a sperimentare quelle condizioni in cui si trova in difficoltà e per le quali chiede aiuto al clinico.

Le mostro un video realizzato da una mia piccola collaboratrice, Alessandra, una bambina della sua stessa età. Opero questa scelta in quanto uno degli obiettivi del lavoro è ripristinare la capacità di interagire con i pari e volevo che Stella cominciasse ad esporsi a tali interazioni da una posizione in cui potesse sentirsi relativamente sicura e non in dovere di rispondere (Albrigsten, Eskeland & Mæhle, 2015). Si tratta di un messaggio in cui introduce una favola aggiungendo che a lei piace tanto e che sarebbe curiosa di sapere se anche Stella la troverà interessante. La favola che leggiamo insieme riprende suggestivamente alcune tematiche introdotte in prima seduta: una paperetta che non vuole fare il bagno e che viene spinta a farlo, senza successo, dagli altri animali. Persino quando arriva il lupo lei lo affronterà vedendo in lui l’ennesimo animale che vuole spingerla in acqua. La storia si conclude con la paperetta sulle rive dello stagno: la giornata è proprio piacevole e nulla le sembra più naturale che farsi un bel bagnetto. Stella mi chiede di rileggere la storia e le propongo di fare insieme i versi degli animali. Accetta.

Puntando a sviluppare la capacità di utilizzare il suo corpo come strumento di interazione e gioco, le propongo manina bella un gioco in cui tocco una alla volta le dita della sua mano per poi farle il solletico. Continua a divertirsi ed abbiamo stabilito un contatto fisico.

Sempre seguendo le logiche esposte sopra, propongo di comporre insieme un puzzle a tema Frozen che mi permette di disseminare suggestioni sul tema dell’affidarsi, del raccontarsi e del perdonare. Con il termine disseminazione ci si riferisce ad una tecnica ipnotica indiretta che punta a proporre delle suggestioni sotto forma di metafore, allusioni, analogie, mentre l’attenzione del soggetto in ipnosi è focalizzata su un compito specifico. Nel modello di intervento Ericksoniano, tali interventi vengono utilizzati per consentire al soggetto di raccogliere le suggestioni proposte senza che queste vengano respinte precocemente dai filtri del pensiero razionale (Erickson & Rossi, 1979; Gordon, 1978). Mi racconta di temere i bambini più grandi e le persone con la voce forte, per questo motivo lavoriamo in ipnosi per costruire una bolla che le permetta di sentirsi al sicuro anche fuori di casa. Stella mi segue veloce con il tipico ritmo sostenuto dei bambini.

Le propongo di colorare un disegno di Ariel la Sirenetta, un personaggio che le è caro, e, mentre lo fa, faccio per recarmi nell’altra stanza dalla madre. Prima di andare le dico che è libera di venire in qualsiasi momento ma che se fosse venuta con il disegno già colorato la madre sarebbe stata contenta. Stella decide di fare proprio così.

Parlo con la madre dell’importanza di costruire una rete sociale intorno alla famiglia e a Stella e terminiamo la seduta giocando a Jenga ed enfatizzando quanto possa essere divertente buttare giù la torre, una catastrofe divertente. Prima di andare via, registriamo un video di risposta ad Alessandra in cui Stella risponde che il libro le è piaciuto.

A seguito di questa seduta la bambina comincia a parlare con molti adulti, appare più rilassata, è comoda nel restare sola nella sua stanza. Non segue più la madre. In alcune occasioni ha accettato di pagare il conto in bar e ristoranti.
Seguiranno ancora 3 sedute di consolidamento dei risultati che – seguendo le stesse logiche di intervento – hanno permesso a Stella di interagire con altri bambini, ed un follow-up telefonico. La terapia è durata dunque 4 mesi e mezzo e si è svolta nell’arco di 5 sedute.

La depressione e la terapia metacognitiva di gruppo

La terapia metacognitiva di gruppo puo’ rappresentare un utile alternativa nella sfida del difficile trattamento delle depressioni che non rispondono ad altri trattamenti farmacologici o psicoterapeutici poiche’ si focalizza nello specifico sui meccanismi chiave del mantenimento della psicopatologia depressiva

 

La depressione e la ruminazione

La terapia metacognitiva puo’ prestarsi al trattamento – non solo dei disturbi d’ansia – ma anche della depressione. Il modello metacognitivo prevede infatti che vi siano alcuni fattori che favoriscono lo sviluppo e il mantenimento dei sintomi depressivi. Questo e’ particolarmente rivelante se pensiamo alla quota di pazienti che presentano depressioni gravi e croniche non rispondenti ai trattamenti farmacologici e/o alla combinazione di questi con la psicoterapia.

L’approccio metacognitivo riconosce un ruolo centrale al pensiero perseverativo nell’eziopatolgenesi della depressione (Wells e Matthews, 1994), e piu’ nello specifico alla ruminazione. In questo quadro per ruminazione si intende una modalita’ di pensiero ripetitivo e passivo proprio riguardo i sintomi della depressione, le relative conseguenze e le possibili cause: in altre parole significa pensare continuamente al fatto che si è depressi, ai propri sintomi, nonchè analizzare le cause, i significati e le conseguenze di tali sintomi depressivi (Nolen-Hoeksema 1991, p. 569). Vi sarebbero dunque una serie di conseguenze negative della ruminazione tra cui l’ulteriore decremento del tono dell’umore e aumento dei sintomi depressivi, la diminuzione delle capacita’ di problem-solving e della motivazione, il deficit nella concentrazione e l’aumento del distress. Secondo il modello metacognitivo la ruminazione è mantenuta da un’insieme di credenze metacognitive maladattive e dalla focalizzazione rigida e inflessibile dell’attenzione (Wells e Matthews, 1994).

 

Le credenze metacognitive positive sulla ruminazione

A partire da queste premesse Papageorgiou e Wells (2004) hanno messo a punto un ulteriore approfondimento del modello metacognitivo della depressione secondo cui le credenze metacognitive positive riguardo i vantaggi (in realta’ erroneamente percepiti) della ruminazione motivano implicitamente –quasi inconsapevolmente- l’individuo a uno stile di pensiero disfunzionale.

Per esempio molte persone sono convinte implicitamente che attraverso l’analisi interiore possono comprendere le cause e trovare soluzioni definitive. Questo sforzo mentale per conoscere e risolvere la depressione, ma anche i problemi quotidiani, può essere il motore più che l’antidoto. I pazienti depressi possono rimanere intrappolati in una catena di pensieri negativi, di riflessioni spossanti che lasciano un sapore d’impotenza e prolungano l’umore depresso. Questa è definita ruminazione mentale e una volta innescata può essere percepita come incontrollabile e quindi dannosa.

Dunque la complessa interdipendenza tra metacognizioni e ruminazione sarebbe un fattore determinante nella depressione (di seguito una serie di riferimenti a studi sperimentali e prospettici che supportano empiricamente il modello (Papageorgiou e Wells, 2001, 2003, 2004, 2009; Roelofs et al.2007). Alcuni studi hanno inoltre riscontrato che la presenza di ruminazione è in grado di predire l’insorgenza, la gravità e la durata della depressione (Just e Alloy, 1997; Kuehner e Weber, 1999; Spasojevic e Alloy, 2001). La ruminazione sarebbe inoltre associata a una minore responsività ai trattamenti sia farmacologici che psicoterapici  (Ciesla e Roberts, 2002; Jones et al. 2008).

 

La terapia metacognitiva di gruppo per la depressione

Il modello metacognitivo si presta ad essere applicato – al pari di altri approcci terapeutici – come terapia di gruppo. In linea generale, la terapia metacognitiva della depressione consiste in un lavoro specifico di identificazione e modificazione delle credenze metacognitive, dei processi ruminativi e attentivi rigidi e ripetitivi (Wells e Papageorgiou, 2004).  Ad esempio uno studio di Papageorgiou e Wells (2000) ha dimostrato che il training attentivo è associato a una significativa riduzione di sintomi depressivi e della ruminazione in pazienti con depressione ricorrente, con un mantenimento di tali esiti positivi anche a 12 mesi dal termine della terapia. Simili risultati sono stati ottenuti anche in altri studi (ad esempio Wells et al., 2012). In riferimento alla terapia di gruppo uno studio norvegese (Dammen et al., 2015) la terapia metacognitiva di gruppo si è dimostrata significativamente efficace nel trattamento dei sintomi depressivi – anche nel follow-up.

In particolare lo studio piu recente di Papageorgiu e Wells (2015)  ha voluto analizzare un campione di pazienti che presentavano una depressione grave non rispondente alle terapie. Cosa si intende con questo? Si intende un gruppo di pazienti che non avevano riscontrato beneficio nè dalla somministrazione di farmaci antidepressivi nè da una serie di (dodici) sedute di terapia cognitivo-comportamentale standard.

L’obiettivo dello studio era verificare l’efficacia della terapia metacognitiva somministrata in un setting di gruppo, in cui i pazienti di fatto hanno partecipato a 12 sedute (della durata di due ore ciascuna) di terapia metacognitiva di gruppo, con frequenza di una seduta a settimana. Il terapeuta di gruppo era l’ideatore (insieme ad Adrian Wells) del modello con 18 anni di esperienza nella somministrazione della terapia metacognitiva. Inoltre è stato effettuato un adattamento della terapia al format di gruppo: ad esempio le prime sedute si focalizzavano sull’incremento della motivazione al cambiamento  e alla diminuzione della sensazione di hopelessness, ai processi di socializzazione e di condivisione del modello metacognitivo della depressione e delle proprie credenze metacognitive con gli altri membri del gruppo.

In seguito, una serie di sedute esperienziali di gruppo si focalizzavano sull’appropriazione e sulla pratica di training attentivo e della detached mindfulness. In una fase successiva le sedute avevano invece l’obiettivo di modificare le credenze metacognitive riguardo la ruminazione attraverso tecniche verbali e comportamentali, e di conseguenza apprendere ed esperire nuove modalita’ di risposta (sia a livello attentivo, cognitivo e comportamentale) ai trigger depressogeni per evitare la riattivazione delle precedenti strategie di coping ruminative disfunzionali. Al termine della terapia di gruppo di 12 sedute, a distanza di due e sei mesi i pazienti sono stati sottoposti ad ulteriori sedute di mantenimento.

La misura di outcome principale utilizzata è il grado di recupero dalla patologia come definito da Frank et al. (1991): questo indice e’ particolarmente stringente poichè richiede sia la riduzione della sintomatologia depressiva entro un range di normalità che l’assenza dei criteri per la diagnosi di disturbo depressivo maggiore.

I risultati dello studio dimostrano che la terapia metacognitiva di gruppo ha avuto effetti statisticamente significativi nel miglioramento dei sintomi depressivi, della ruminazione e nella modificazione delle credenze metacognitive, con un mantenimento anche al follow-up di sei mesi. Al termine della terapia (e anche nel follow-up) il 70 % dei pazienti non presentava piu’ i criteri per la diagnosi di disturbo depressivo maggiore.

In conclusione la terapia metacognitiva di gruppo puo’ rappresentare un utile alternativa nella sfida del difficile trattamento delle depressioni che non rispondono ad altri trattamenti farmacologici o psicoterapeutici poiche’ si focalizza nello specifico sui meccanismi chiave del mantenimento della psicopatologia depressiva.

 

Congresso Internazionale Terapia Metacognitiva Milano 2016

Presentazione del libro: Il femminile in criminologia, la donna vittima e carnefice (2016)

Le notizie di cronaca, gli approfondimenti giornalistici, le trasmissioni televisive ci informano sempre più frequentemente sulle orrende violenze familiari, di cui spesso le donne sono protagoniste. In qualità di studiose della psiche e delle dinamiche criminologiche, le autrici hanno voluto approfondire questi avvenimenti così delicati, che sembrano investirci e moltiplicarsi.

Il libro, curato dalle criminologhe Sonia Bucolo, Nicoletta Rosi e dalla psicologa Amelia Rizzo, nasce infatti da un attento studio delle tematiche relative alle espressioni del femminile nella criminologia ed affronta varie condizioni in cui la donna può essere vittima dell’atto criminoso o principale attrice.

Capitolo dopo capitolo vengono analizzate non solo le cause contestuali, criminodinamiche e psicologiche ma anche gli effetti di tali avvenimenti, con una particolare attenzione alla diffusione dei modelli internazionali di prevenzione, che si innestano nella catena consequenziale dell’escalation criminosa, potendola talvolta spezzare. Il volume racchiude, a tale scopo, tre sezioni.

Nello specifico, la Dott.ssa Sergi Ilaria, autrice della prima sezione, ha approfondito le tematiche relative alla violenza sulle donne, dando particolare enfasi alle diverse tipologie di violenze subite, nella disamina di una varietà di approcci teorici esplicativi e nel confronto fra i modelli internazionali di trattamento dei partner violenti.
La Dott.ssa Violi Eleonora, nella seconda sezione, ha approfondito gli aspetti culturali e psicosociali legati al femminicidio, con particolare riferimento alla criminogenesi e alla criminodinamica nel contesto nazionale.
La Dott.ssa Isaja Francesca, autrice della terza sezione, ha invece approfondito la tematica relativa al figlicidio materno, tracciando un’attenta analisi della delicata fase della maternità nei suoi aspetti psicologici più profondi.

Il volume offre alcuni spunti di riflessione psicologica, certamente non esaustivi, ma frutto di attente analisi e ricerche. La comprensione delle dinamiche che ruotano attorno al femminile nella criminologia, potrebbe gettare le basi per la strutturazione di conoscenze condivise ed interdisciplinari, un ponte fra le scienze criminologiche, le scienze psicologiche e le scienze sociali.

L’ansia matematica: uno studio nelle classi seconde delle scuole secondarie di primo grado

Questo articolo ha partecipato al Premio State of Mind 2014 Sezione Junior

L’ansia matematica: uno studio nelle classi seconde delle scuole secondarie di primo grado

Autore: Eleonora Mercadante (Università degli Studi di Urbino ‘Carlo Bo’)

Abstract

L’ansia matematica può venir identificata genericamente con la paura per la matematica. Tutto ciò può portare a una vera e propria fobia ossia ad un ripudio ed un evitamento dell’aritmetica. Il presente lavoro si è posto di rilevare se esiste una relazione fra ansia matematica e apprendimento matematico e verbale; rilevare se esiste una relazione tra ansia matematica e memoria di lavoro; verificare se questa relazione sia dominio specifica, cioè limitata solo all’elaborazione di materiali numerici, o si estende anche a materiali verbali; esaminare le correlazioni esistenti tra ansia matematica, memoria di lavoro, competenze matematiche e competenze verbali; cercare di chiarire le relazioni causa-effetto tra ansia matematica, memoria di lavoro e apprendimento matematico; rilevare se esistono delle differenze di genere nell’ansia matematica.

I risultati affermano che l’ansia matematica sembra avere un’influenza solo sulle prestazioni matematiche più complesse che richiedono un maggiore carico cognitivo e non sembra invece influenzare le capacità di calcolo e di elaborazione numerica che sono abilità computazionali, di solito automatizzate e che richiedono meno risorse cognitive. Non sono state rilevate differenze significative nelle prestazioni della memoria di lavoro numerica  e verbale tra i soggetti ad alta ansia matematica e quelli con bassa ansia matematica, né correlazioni significative tra i livelli di ansia matematica e le prestazioni della memoria di lavoro numerica e verbale. Non risultano esserci differenze di genere per quanto riguarda l’ansia scolastica, ma esistono, differenze significative tra maschi e femmine nei livelli di ansia matematica totale e specificatamente nell’ansia da valutazione.

 

Abstract (English)

The mathematics anxiety can be identified generally by the fear of math. This can lead to a real phobia or a rejection and an avoidance of arithmetic. The present work want to see if there is a relationship between mathematics anxiety and mathematical and verbal learning; detect whether there is a relationship between mathematics anxiety and working memory; determine whether this relationship is domain specific, is limited only to the development of digital materials, or also extends to verbal materials; examine the correlation between math anxiety, working memory, math skills and verbal skills; try to clarify the cause-effect relationships between mathematics anxiety, working memory and learning mathematics; detect whether there are gender differences in mathematics anxiety.

The results affirm that the mathematics anxiety seems to have an influence only on the performance more complex, requiring greater cognitive load and doesn’t have an influence on the ability of calculating and numerical processing which are computational abilities, usually automated and which require less cognitive resources. There isn’t a significant difference in the performance of numerical and verbal working memory among subjects with high math anxiety and those with low math anxiety, no significant correlations between the levels of mathematics anxiety and performance of numerical and verbal working memory. It seems there aren’t  gender differences regarding school anxiety, but there are significant differences between males and females in the total levels of math anxiety and anxiety specific for the evaluation.

 

Keywords: math anxiety, math phobia, working memory, mathematical learning, gender differences

ALLEGATO 1ALLEGATO 2ALLEGATO 3

 

I conflitti nella coppia: differenze conciliabili nel rapporto di coppia (2015) – Recensione

Alla base dei conflitti nella coppia, c’è spesso un’azione o una mancata azione del partner e c’è una tendenza generale ad attribuire la responsabilità del conflitto al compagno/a e ad alcuni suoi tratti di personalità per noi considerati negativi o inaccettabili.

Marianna Palermo, OPEN SCHOOL Studi Cognitivi Milano

Introduzione

[blockquote style=”1″]Non importa quante cose abbiamo in comune con la persona che amiamo, ognuno di noi è un essere unico; non importa quanto ci amiamo, le differenze tra di noi causeranno talvolta dei conflitti. Ci sentiamo feriti o ignorati, risentiti o arrabbiati e le nostre discussioni spesso acuiscono il problema. Qualcosa deve cambiare e di solito vorremmo che a cambiare fosse il partner.[/blockquote]

Questa introduzione al testo di Christensen, Doss e Jacobson, tradotto in italiano da Monica Dalla Valle e Nerina Fabbro e intitolato “Differenze conciliabili”, riassume in poche parole ma incisive la situazione vissuta da chi è protagonista delle storie raccontate nel libro, utilizzate come esempio per comprendere quali possano essere le difficoltà e i conflitti nella coppia, quali possano essere le cause che ne sono alla base e come potervi far fronte per evitare la degenerazione del rapporto o addirittura la rottura.

Jacobson e Christensen nei loro studi con le coppie si resero conto che talvolta la terapia comportamentale risultava insufficiente nel trattamento e spesso insorgevano delle ricadute. Questo indusse i due psicologi a pensare ad un trattamento alternativo, ossia la terapia comportamentale integrata di coppia che poneva l’accento soprattutto sull’accettazione piuttosto che sul cambiamento.

Rispetto alla precedente edizione del testo degli stessi autori, questa presenta alcune diversità: 1) si induce il lettore o la coppia a focalizzarsi su un problema centrale specifico; 2) sono stati inseriti dei questionari standardizzati con le informazioni relative alla correzione degli stessi; 3) è stato introdotto l’acronimo DEEP per indicare D= le differenze tra se stessi e il partner che potrebbero indurre il conflitto, E= le vulnerabilità emotive di ciascun partner; E= gli stressor esterni che possono contribuire al conflitto; P= i pattern di comunicazione. Tali aspetti saranno approfonditi nel prosieguo dell’articolo.

La formazione del rapporto di coppia

Una domanda che spesso ci si pone quando si parla di amore e di relazioni affettive è : “Come mai tra le tante persone che si incontrano nella propria vita ci si innamora proprio di quella?” Per fornire una risposta a tale domanda, ci fornisce un aiuto la teoria dell’attaccamento (Attili, 2007), la quale sostiene che l’innamoramento come l’attaccamento alla figura materna o a quella che fornisce accudimento abbiano una base innata e per motivi evoluzionistici siamo portati a creare un legame affettivo con un’altra persona. Secondo Bowlby (1988), ognuno costruisce durante l’infanzia e in base al rapporto con i suoi genitori degli schemi mentali, definiti modelli operativi interni che tendono ad essere stabili nel tempo e ad influenzare le relazioni successive: tali modelli si riferiscono alla visione che l’individuo sviluppa di sé, dell’altro e della relazione stessa con l’altro.

Una volta scelta quella persona, la coppia ripercorre diverse fasi. La prima è quella caratterizzata principalmente dall’attrazione fisica, mentre nella seconda entrano in gioco anche i sistemi di attaccamento e di accudimento reciproci e in parte legati ad una riattualizzazione del proprio stile di attaccamento coi propri genitori (Attili, 2007). La terza fase è quella dell’amore, in cui il rapporto si stabilizza e comincia a concretizzarsi maggiormente, per poi arrivare alla fase in cui prevalgono la routine quotidiana, l’impegno reciproco, la sicurezza affettiva e della presenza dell’altro.
È soprattutto quando il rapporto si stabilizza che possono insorgere dei conflitti nella coppia, legati soprattutto alla percezione dei difetti e delle diversità dell’altro: ad una prima fase di idealizzazione del partner e del rapporto, segue una fase in cui emergono le differenze che talvolta appaiono appunto inconciliabili. Quando non si riesce a ritrovare un equilibrio e talvolta si aggiungono anche degli eventi stressanti, è possibile che il legame vada incontro ad una rottura che richiede un’elaborazione. La separazione infatti rappresenta la fine di un rapporto affettivo e vengono quasi ripercorse le fasi del lutto (Attili, 2004).

l conflitti nella coppia

La prima e la seconda parte del testo si focalizza sulle discussioni e i conflitti nella coppia. Ciò che risulta importante è cercare di comprendere il punto di vista di ciascun partner rispetto a quello specifico conflitto, per dar voce ai pensieri e alle emozioni sottostanti di ciascuno.

Secondo Peterson è possibile ricondurre le discussioni nello specifico a 4 eventi: le critiche, le pretese, i comportamenti inadeguati ripetuti e i rifiuti. Alla base dei conflitti nella coppia, c’è dunque spesso un’azione o una mancata azione del partner e c’è una tendenza generale ad attribuire la responsabilità del conflitto al compagno/a e ad alcuni suoi tratti di personalità per noi considerati negativi o inaccettabili. Questo induce spesso delle accuse reciproche che impediscono di trovare una negoziazione o un modo funzionale per risolvere il conflitto in quella specifica situazione. Nel momento si perde di vista l’evento in sé che ha generato la discussione e ci si sposta su un piano di recriminazioni.

La visione che viene proposta dal testo è quella di considerare i problemi relazionali come delle differenze: anche quegli aspetti che inizialmente potevano attrarre, vengono a lungo andare percepite come delle differenze eccessive e inconcepibili. Secondo gli autori ciò che è importante tener presente è che il passato di ciascuno influenza il presente e anche il futuro: ad esempio il rapporto instaurato coi propri genitori, la qualità del matrimonio dei propri genitori, la cultura e i valori condivisi sono aspetti del proprio passato che possono influenzare il modo in cui attualmente ci si relaziona con gli altri e in particolare con il partner.

Un altro aspetto da tener presente è che molto spesso le emozioni che vengono espresse sono quelle più superficiali, che reputiamo più accettabili per non far accedere l’altro eccessivamente alla nostra intimità, ma tali emozioni possono fuorviare dal reale motivo che ha indotto il litigio. Riconoscere e condividere le proprie emozioni nascoste è sicuramente un primo passo per comprendere la reale natura del conflitto.

Inoltre, secondo gli autori, ciascuno presenta delle vulnerabilità e dei punti sensibili spesso legati al proprio vissuto, alle relazioni coi genitori o alle precedenti relazioni coi pari o coi partner. Per questo se l’azione o la mancata azione dell’altro va a sollecitare tali punti deboli, questo ci rende vulnerabili o ci induce a contrattaccare. Dunque, è importante tener presente che la storia di vita e le vulnerabilità emotive di ciascuno entrano in gioco nelle relazioni di coppia e in particolare nelle situazioni di conflitto. Per questo, esserne consapevoli può essere un presupposto fondamentale.

A queste vulnerabilità personali, possono poi aggiungersi degli eventi esterni stressanti sui quali possono focalizzarsi tutte le nostre attenzioni portandoci a perdere di vista il partner e le sue preoccupazioni.

Se non vi è la consapevolezza di questi aspetti, spesso si ricorre a delle modalità comunicative disfunzionali che generano dei circoli viziosi e che tendono a stabilizzarsi nei vari conflitti. Tali strategie anziché risolvere il problema spesso lo fomentano e generano un’escalation emotiva in entrambi i partner.

In questo modo secondo gli autori sono state individuate le principali componenti di un conflitto, ossia le differenze esistenti tra i partner e in parte determinate dal passato di ciascuno, le vulnerabilità emotive, i fattori esterni stressanti e infine i pattern comunicativi disfunzionali; questi aspetti definiscono la cosiddetta analisi DEEP dei conflitti nella coppia.

Accettazione e cambiamento per risolvere i conflitti nella coppia

Nella terza parte viene chiarita la differenza tra accettazione e cambiamento. Il cambiamento comporta che uno dei due partner agisca in maniera diversa (ad esempio può essere meno critico o affettuoso), mentre l’accettazione comporta che si comprendano le caratteristiche dell’altro e le si accetti senza tentare di cambiarle. La strategia più adattiva risulta quella della combinazione tra accettazione e cambiamento. Per ristabilire l’armonia nella coppia è necessario che alcune caratteristiche fisiche o della personalità dell’altro siano accettate e comprese, ma al contempo vi possono essere degli aspetti dell’altro che risultano inaccettabili per ciascuno e che è opportuno tentare di cambiare. Le differenze e le vulnerabilità di ciascuno è importante che siano accettate, mentre i circoli viziosi e le modalità comunicative disfunzionali possono essere modificati.

A questo punto, una volta definite le componenti del DEEP di quella specifica coppia, vengono forniti dagli autori dei consigli utili per evitare che il conflitto degeneri: ad esempio esplicitare il proprio stato emotivo, spiegare all’altro il motivo della propria emozione, far riferimento anche alle proprie emozioni profonde e cercare di capire anche la posizione del compagno in quel momento.

La quarta parte del testo si sofferma invece sul tema del cambiamento e su possibili strategie che potrebbero innescarlo: ad esempio è possibile porre un ultimatum se sono presenti dei problemi molto gravi o se è necessario prendere decisioni importanti; potrebbe essere anche utile fare richieste specifiche anziché generali e che riguardino la relazione stessa col partner.

Secondo gli autori sia la presa di consapevolezza di quanto accade nella coppia e nello specifico durante il conflitto sia la comunicazione sono dei fattori che possono aiutare a superare il momento conflittuale senza danneggiare irrimediabilmente la relazione. Pensare a delle azioni costruttive e positive anziché continuare a lamentarsi e a criticare il partner può innescare dei cambiamenti prima in se stessi e poi nell’altro.

Nell’ultima parte del libro, vengono descritte, invece, quelle situazioni di violenza, abuso o infedeltà di cui si può essere vittima nella relazione di coppia. Mentre le violenze fisiche sono considerate negative e gravi per tutti e dunque è importante sottrarsi a tali relazioni chiedendo aiuto, nei casi di abuso psicologico o di infedeltà ciascuno può considerare sbagliati o immorali comportamenti differenti. Una volta compreso ciò che non si è disposti a tollerare all’interno del rapporto, è importante che questo venga comunicato al partner.

Infine vengono fornite informazioni sulle figure professionali che si occupano di terapia di coppia e alle quali è possibile rivolgersi nel caso in cui la lettura del manuale non fosse sufficiente per risolvere le difficoltà presenti.

La lettura del testo è consigliata a tutti coloro che stanno vivendo dei conflitti nella coppia o che vorrebbero migliorarne la qualità, psicologi e psicoterapeuti che lavorano con le coppie, studenti di psicologia o psicoterapia che si interessano di relazioni affettive. Il testo risulta dunque un manuale di auto-aiuto per le coppie che potrebbe essere letto da ciascun partner singolarmente o da entrambi simultaneamente.

Deficit del controllo inibitorio nel DOC e nel GAP

DEFICIT DEL CONTROLLO INIBITORIO NEL DOC E NEL GAP

Dal VI FORUM sulla FORMAZIONE in PSICOTERAPIA – Assisi 2015

Monia Torrieri 1, Gabriele Caselli 1,2 & Clarice Mezzaluna 1
1 Scuola di Specializzazione in Psicoterapia Cognitiva e Cognitivo-Comportamentale –Sede di San Benedetto del Tronto (AP)
2 Scuola di Specializzazione in Psicoterapia Cognitiva e Cognitivo-Comportamentale – Sede di Milano

INTRODUZIONE

Il Disturbo Ossessivo Compulsivo (DOC) e il Gioco d’Azzardo Patologico (GAP) sebbene rappresentino due quadri psicopatologici ben distinti, mostrano alcune analogie sintomatologiche comuni. Infatti, diversi studi hanno osservato che la causa dei comportamenti compulsivi nel DOC è ascrivibile ad un deficit del controllo inibitorio similmente a quanto verificato per il comportamento impulsivo presente nel GAP. Il deficit del controllo inibitorio è alla base della relazione tra impulsività e compulsività e sarebbe ascrivibile a precisi meccanismi neuropsicologici sottostanti entrambi i costrutti. Compulsività e impulsività rappresenterebbero quindi il polo opposto della stessa medaglia.

Tenendo in considerazione che nel DOC la compulsività è legata all’obiettivo di evitare l’evento minaccioso durante la fase del conflitto decisionale, implicando il coinvolgimento del controllo attenzionale, mentre nel GAP l’impulsività all’azione è scatenata dal deficit del discontrollo motorio, abbiamo ipotizzato che il deficit inibitorio comune ad entrambi i disturbi si localizzi in aree cerebrali contraddistinte.

Obiettivo dello studio è stabilire a quale livello di elaborazione delle informazioni si colloca il deficit inibitorio riscontrato sia nel DOC che nel GAP. Ci aspettiamo che il deficit del controllo inibitorio nel GAP si collochi nella fase di selezione delle risposte motorie e viceversa nel DOC si manifesti nella fase del controllo attenzionale, stabilendo pertanto una differenziazione tra la fase di percezione dello stimolo e la fase finale di emissione della risposta motoria.

Shakespeare in business: imparare ad essere un buon leader con le opere di Shakespeare

Nei lavori di William Shakespeare è possibile individuare i differenti ruoli che un leader può assumere e le diverse competenze necessarie per ricoprire con successo un ruolo manageriale.

 

Senza dubbio William Shakespeare (Stratford-upon-Avon, 23 aprile 1564 – Stratford-upon-Avon, 23 aprile 1616) è uno dei più grandi autori di teatro di sempre. La ragione sta nell’universalità delle sue storie e dei suoi personaggi. A quattrocento anni dalla sua morte, le sue opere ed i suoi personaggi sono più che mai attuali; non solo, si può tranquillamente affermare che il Bardo di Statford-upon-Avon sia un vero maestro di leadership e che nelle sue storie ci siano tutti i segreti della gestione aziendale.

Nei lavori di William Shakespeare, infatti, è possibile individuare i differenti ruoli che un leader può assumere e le diverse competenze necessarie per ricoprire con successo un ruolo manageriale. Altro, dunque, che ‘Shakespeare in love’, oggi il Bardo di Stratford-upon-Avon è sempre più ‘in business‘ e ci aiuta a vedere l’impresa come possibile palcoscenico dei grandi conflitti dell’animo umano, il luogo deputato ad una ritrovata coscienza tragica della vita e ci propone i suoi drammi come modelli comunicativi per leaders.

Ma chi è veramente un leader e quali caratteristiche deve possedere per essere definito tale?

Il termine leader deriva dal verbo inglese to lead e significa, letteralmente, colui che guida. La piccola enciclopedia Hoepli del 1895 sottolinea una derivazione ippica del termine: ‘Leader è il cavallo che si pone in testa nella gara e fa l’andatura‘. Il leader è dunque colui che sa guidare un gruppo di persone, colui che conduce una squadra al raggiungimento di determinati obiettivi.

Quando pensiamo al leader in azienda, spesso pensiamo al capo, ma non è detto che tutti i capi siano leaders, infatti non tutti possiedono quelle che si definiscono caratteristiche di leadership. Il vero leader è colui che possiede alcuni tratti caratteriali ed alcune competenze trasversali che sono da ritenersi indispensabili per ricoprire con successo un ruolo manageriale.

Sino alla fine del XVI secolo si riteneva che i grandi leaders fossero tali per nascita e che i migliori nell’esercitare la leadership fossero coloro che incarnavano con forza l’autorità.

Shakespeare si espresse con fermezza contro questa visione della leadership: alcuni dei suoi personaggi, infatti, falliscono proprio perché basano la loro autorità sul diritto di nascita, perché convinti che potere ed autorità siano legati indissolubilmente alla persona. Riccardo II era convinto che possedere il titolo di re fosse sufficiente, affinché tutti gli obbedissero, mentre Antonio era convinto che il suo potere non derivasse da Roma, ma che risiedesse in lui e che potesse dunque essere usato a suo piacimento. Questi due personaggi, così come accade ad alcuni che al giorno d’oggi occupano ruoli manageriali, credevano che il fatto di possedere un titolo garantisse loro sufficiente autorità per governare. Sia Riccardo II, sia Antonio erano convinti che la leadership potesse essere individualizzata e separata dall’organizzazione. Entrambi saranno destinati all’umiliazione e alla morte.

Ci sono poi Riccardo III, MacBeth e Coriolano che credevano che l’autorità non fosse un diritto divino, ma che dipendesse dalla capacità di manipolare e conquistare il potere; tutti e tre usarono l’arma del terrore per conquistare e mantenere il potere: Riccardo III conquistò il trono con un omicidio, creando in questo modo un clima di sfiducia; Macbeth, spinto dall’ambizione, uccise il Re al quale era stato precedentemente fedele; Coriolano governò punendo e, alla fine, rimase solo.

Tra tutti i personaggi shakespeariani, l’unico vero leader di successo è Enrico V, che si rese conto che per diventare un buon re doveva imparare il modo per esserlo e per riuscirci si rivolse ai suoi futuri sudditi.

Se dunque proviamo a leggere Shakespeare in chiave manageriale, ci accorgiamo che Enrico V è un vero leader, perché capisce che non può fare nulla senza le persone che comanda, è un maestro nel management delle persone, è un esempio perfetto di ciò che si intende per leadership di successo: un gruppo disparato di persone (i nobili), intorno ad un re, per una causa comune (la conquista del territorio francese). Se consideriamo il re come il leader, i nobili come il team di persone che lavora insieme, la nazione come l’azienda e la Francia come un importante progetto, capiamo perché ogni manager dovrebbe leggere Shakespeare, che può essere considerato un vero maestro di leadership contemporanea.

La presentazione dei vari personaggi shakespeariani e dei relativi stili di leadership ci conduce ad una domanda: leader si nasce o si diventa?

Molti studiosi delle teorie della personalità sono fautori della prima ipotesi e sostengono che determinate qualità e tratti caratteriali si hanno sin dalla nascita; secondo questi studiosi, cioè, si nasce con doti di intelligenza, con abilità nel motivare gli altri, con la capacità di prendere decisioni, con la capacità di comunicare efficacemente, ecc….

Ralph Stogdill (1948) concluse che cinque tratti tendono a differenziare i leaders dalla media dei followers, ovvero l’intelligenza, il predominio, la fiducia in se stessi, il livello di energia e la conoscenza delle attività.

Secondo la teoria dello stile comportamentale, invece, leader si diventa, non si nasce: questo è l’opposto del tradizionale assunto dei teorici dei tratti. Di conseguenza, il comportamento del leader può essere sistematicamente perfezionato e sviluppato.

Qualunque teoria vogliate far vostra, cari managers, leggete ed imparate da Shakespeare: non credetevi mai infallibili e, soprattutto, vi serva da monito il destino toccato in sorte a Riccardo II, a Re Lear e ad Antonio.

Due ipotesi: predatori o impulsivi

Si può, grosso modo, classificare il comportamento aggressivo in: premeditato e impulsivo. L’aggressione premeditata è deliberata, eseguita anche a freddo.

Questo articolo è stato pubblicato da Giancarlo Dimaggio sul Corriere della Sera il 13/02/2016

Lo farà ancora? Di fronte al comportamento violento è l’unica domanda che mi interessa. Chi ha picchiato, rubato, stuprato, ucciso recidiverà? La sfida per ricercatori e psicoterapeuti è a tre livelli: prevedere, prevenire e curare. È di quelle responsabilità che fan tremare le vene dei polsi. Distinguerò tra un ragazzo geloso e un vero stalker? Terrò in carcere un soggetto che invece, se aiutato, sarebbe libero dall’impero della rabbia? Consiglierò la libertà di un uomo che con quasi certezza tornerà alla violenza? I miei strumenti saranno capaci di cambiare quelli la cui aggressività può essere controllata?

 

Aggressione premeditata (o del predatore)

Lontani dal seminare certezze, abbiamo conoscenze da offrire. La prima: si può, grosso modo, classificare il comportamento aggressivo in: premeditato e impulsivo. L’aggressione premeditata è deliberata, eseguita anche a freddo. È un comportamento predatorio: l’obiettivo è garantirsi risorse. Denaro, status, partner sessuali. Si attiva perché c’è una preda in vista. Una ragazza che rientri nei parametri che la definiscono desiderabile. Oppure perché un pericolo minaccia i propri possedimenti. Mi hai sfidato? Vuoi sottrarmi la ragazza, controllare il territorio in cui spaccio? Peggio per te, devo sottometterti. Con ogni mezzo a mia disposizione. Come diceva Pablo Escobar, il boss del cartello di Medellin ritratto nel telefilm Narcos: “Plata o plomo”. Soldi o piombo. L’aggressore premeditato corrisponde quasi completamente al profilo dello psicopatico, personalità a sangue freddo, incapace di rimorso, disinteressato al dolore degli altri.

Siamo chiari: per questo tipo di personalità, gli strumenti di cura sono spuntati, inutile provarci. In sua presenza, l’obiettivo è proteggere la comunità. Allo stato attuale della conoscenza scientifica l’idea che si debba tentare di riabilitarla è moralismo d’accatto, il prezzo lo pagano le vittime future.

 

Aggressione da impulsivività

Altra storia è l’aggressione impulsiva, lì il terapeuta può agire. Con la mia amica e collega Patrizia Velotti, curatrice del libro “Comprendere il male”, abbiamo svolto una ricerca pubblicata su Comprehensive Psychiatry. Emergevano due profili di comportamento antisociale. Il primo: gli aggressivi di natura. La loro violenza è indipendente dalla capacità di osservare il proprio animo. Predatori, potenziali psicopatici. Il secondo: persone con minor tasso di aggressività che tendevano al comportamento antisociale soprattutto in presenza di scarse capacità di osservarsi: tecnicamente le chiamiamo bassa mentalizzazione, metacognizione o mindfulness.

Come funziona? Semplice: subiscono un torto. Gli va, alla lettera, il sangue al cervello e aggrediscono, senza pensare. È il profilo dell’aggressore impulsivo. Ma tra minaccia percepita e attacco, la mente ha un tempo di latenza, in cui si può inserire lo psicoterapeuta. Li si porti allora a soffermarsi sul dolore provato prima di aggredire l’altro e, quando lo intravedono, li si aiuti a cercare altre strade per placarlo. Possono capire che il torto non era grave, che la mancanza di attenzione della compagna non era un’offesa irreparabile e invece di reagire con violenza è possibile il dialogo. Scoprono che quella ferita si può lenire, l’aggressione diventa superflua.

Test di Rorschach e fMRI: uno studio pilota

Questo articolo ha partecipato al Premio State of Mind 2014 – Sezione Junior 

Test di Rorschach e fMRI: uno studio pilota

Marzia Di Girolamo

 

Abstract

Neuroscienze e psicologia clinica hanno spesso viaggiato parallelamente, evitando il più possibile punti di contatto ma comunque muovendosi molto spesso nella stessa direzione, se non altro perché rimangono ancorate l’una all’altra dal fatto di avere un comune oggetto di studio: la mente umana e le sue manifestazioni comportamentali.

La ricerca qui presentata tenta di inserirsi nel dialogo tra neuroscienze e psicologia clinica tramite un percorso intermedio: la psicodiagnosi. Essa propone di valutare se si possono determinare caratteristiche di funzionamento a prescindere dal fatto che il soggetto metta in atto dei comportamenti, sfruttando la possibilità che le neuroimmagini offrono di monitorare l’attività neuronale del cervello a riposo (resting-state). Ci si chiede, altresì, se indagini di questo tipo possano contribuire alla validazione dei reattivi psicodiagnostici.

Neuroscience and clinical psychology have often moved in parallel, avoiding as much as possible points of contact but still moving very often to the same direction, at least because they are anchored to each other having a common object of study: the human mind related to the human behaviour. This research attempts entering the dialogue between neuroscience and clinical psychology through an intermediate route: psychodiagnosis. It considers the possibility to value personality characteristics regardless of the fact that the subject enacts behaviours, taking advantage of the possibility – granted by neuroimaging – to monitor the neuronal activity of the brain at resting-state. We also wonder if such research can contribute to validate psycho- diagnostic tests.

Parole chiave: Rorschach, fMRI, Default Mode Network, Resting State, HVI

ALLEGATO 1

ALLEGATO 2

ALLEGATO 3

Il disturbo post-traumatico da stress post partum: incidenza, fattori di rischio e strategie di intervento

Stress post partum: l’esperienza del parto è considerata una condizione potenzialmente traumatica non solo se associata ad eventi oggettivamente traumatici ad esempio, difficoltà e lunghezza del parto, complicazioni connesse allo stato di salute del bambino e della madre ma anche in quanto emozionalmente attraversata da una forte carica di stress, dal timore del dolore fisico  e da preoccupazioni per il nascituro.

Elena Santoro, OPEN SCHOOL STUDI COGNITIVI

Il disturbo post-traumatico da stress post partum: la diagnosi

Accanto alla solida tradizione di studi sulla depressione postnatale, in anni più recenti è emersa una particolare attenzione nei confronti dei disturbi ansiosi e dei sintomi da stress associati al periodo del post-partum, nello specifico quelli del Disturbo Post-traumatico da Stress post partum (Olde, van der Hart, Kleber, & van Son, 2006). Il parto si differenzia per molti aspetti dal resto degli eventi traumatici con cui una persona può confrontarsi nel corso della propria esistenza. Per iniziare, si tratta di un’esperienza vissuta dalla maggior parte delle donne in modo volontario, ricercata, prevedibile, vista positivamente dalla società, e nello stesso tempo può provocare delle ferite all’integrità corporea non sempre presenti nelle altre esperienze traumatiche (Ayers, Harris, Sawyer, Parfitt, & Ford, 2009).

Nonostante queste sue tipicità, l’esperienza del parto è considerata una condizione potenzialmente traumatica non solo se associata ad eventi oggettivamente traumatici ad esempio, difficoltà e lunghezza del parto, complicazioni connesse allo stato di salute del bambino e della madre (Affleck, Tennen, & Rowe, 1991; DeMier, Hynan, Harris, & Manniello, 1996) ma anche in quanto emozionalmente attraversata da una forte carica di stress, dal timore del dolore fisico  e da preoccupazioni per il nascituro (Di Blasio, Ionio, & Confalonieri, 2009; Garthus-Niegel, von Soest, Vollrath, & Eberhard-Gran, 2013).

Le ricerche sul disturbo post-trumatico da stress post partum sono esponenzialmente aumentate a seguito delle modifiche introdotte nel DSM-IV (American Psychiatric Association, 1994) nella definizione stessa di eventi traumatici (CRITERIO A) non considerati più come “eventi estremi al di fuori della comune esperienza umana” (DSM III; American Psychiatric Association, 1980) ma esperienze stressanti in cui [blockquote style=”1″]la persona ha vissuto, ha assistito, o si è confrontata con un evento o con eventi che hanno implicato morte, o minaccia di morte, o gravi lesioni, o una minaccia all’integrità fisica propria o di altri[/blockquote] (American Psychiatric Association, 1994). Il parto, dunque, non era inizialmente classificabile come uno stressor potenzialmente traumatico poiché rientrava nel range delle esperienze normali per la maggior parte delle donne, e diventava oggetto di studio solo quando connesso ad esperienze oggettivamente negative e traumatiche come nel caso di un bambino nato morto (Turton, Hughes, Evans, & Fainman, 2001), di morte perinatale (Hunfeld, Wladimiroff, & Passchier, 1997), o di un parto prematuro (Holditch-Davis, Bartlett, Blickman, & Miles, 2003).

Ad oggi, gli studiosi concordano nel ritenere il parto un’esperienza stressante e traumatica in sé (Ayers, 2004; Boorman, Devilly, Gamble, Creedy, & Fenwick, 2014; Leeds & Hargreaves, 2008), infatti, sia a seguito di un parto difficile e atipico, sia di un parto “normale” con gravidanza a termine e assenza di problemi di salute nel bambino e nella madre, le neo-mamme possono sviluppare il disturbo post-traumatico da stress post partum vero e proprio (PTSD) o sintomi sotto-soglia (PTSS) (Alcorn, O’Donovan, Patrick, Creedy, & Devilly, 2010; Olde et al., 2005). Circa il 30% delle donne valuta il proprio parto come traumatico (Boorman et al., 2014; Soet, Brack, & DiIorio, 2003).

Una percentuale di donne che varia tra 1-7% presenta il disturbo post-traumatico da stress post partum secondo i criteri diagnostici del DSM IV (Ayers et al., 2008; Maggioni, Margola, & Filippi, 2006; Stramrood et al., 2011; Zaers, Waschke, & Ehlert, 2008). Gli studi Europei (Di Blasio et al., 2009; Di Blasio & Ionio, 2002, 2005; Maggioni et al., 2006; Soderquist, Wijma, & Wijma, 2002) confermano che una percentuale di donne che varia tra 1-3% sviluppa il disturbo post-traumatico da stress post partum. Percentuali più elevate di sintomi, tra il 24% e il 34%, si evidenziano quando si considerano i sintomi in forma parziale (Ayers, 2004; Iles et al., 2011; Maggioni et al., 2006; Soet et al., 2003).

La sintomatologia del disturbo post traumatico da stress post partum

I sintomi tipici del disturbo post-traumatico da stress sono la persistente ri-esperienza del trauma attraverso sogni o flashback, l’evitamento degli stimoli associati all’evento traumatico come persone o luoghi e, infine, i sintomi di hyperarousal, ovvero uno stato di persistente attivazione fisiologica.  Ad esempio, in un studio di caso una donna con disturbo post-traumatico da stress post partum durante una sessione di terapia riviveva l’esperienza del parto (flashback) vedendo se stessa che giaceva nella sala parto (Ayers et al., 2008). Un’altra neo-madre sperimentava intenso stress quando entrava in contatto con cues interni o esterni che le ricordavano aspetti del parto (Stramrood et al., 2011). Per quanto riguarda la sintomatologia da stress specificamente connessa all’esperienza del parto, bisogna tener presente che l’attivazione può risentire dei cambiamenti fisiologici e ormonali nonché della stanchezza del travaglio e del parto, spesso lungo e faticoso. Inoltre, la neo-maternità e la routine medica che caratterizzano lo specifico post-partum può rendere difficile alle donne evitare i reminder traumatici, rappresentati dal neonato, dalle ostetriche, medici e dall’ospedale stesso. Ciò potrebbe determinare un maggior numero di sintomi di hyperarousal e meno sintomi di evitamento (Ayers et al., 2009). Gli studi infatti evidenziano che 12-15% delle donne nel postparto presentano sintomi di ri-esperienza, 2-7% sintomi di evitamento e 25-27% sintomi di hyperarousal (Lemola, Stadlmayr, & Grob, 2007; Maggioni et al., 2006; Soet et al., 2003).

Gli studi hanno evidenziato un’elevata comorbilità tra sintomi postraumatici da stress e sintomi depressivi post-partum (Alcorn et al., 2010; Leeds & Hargreaves, 2008; Parfitt & Ayers, 2009; Söderquist, Wijma, Thorbert, & Wijma, 2009; Zaers et al., 2008). I due disturbi, infatti, condividono alcune caratteristiche e sintomi specifici come ad esempio la diminuzione di interesse per attività significative, sentimenti di distacco dagli altri, scarsa affettività, difficoltà a dormire o a mantenere il sonno, difficoltà di concentrazione e memoria (Söderquist et al., 2009). Inoltre, la depressione rende le persone particolarmente suscettibili agli eventi traumatici configurandosi come un fattore di rischio specifico per risposte da stress post partum .

Il disturbo post traumatico da stress post-partum: i fattori di Rischio

Il modello multidimensionale proposto da Slade (2006) permette di sintetizzare i fattori di rischio associati alle risposte da stress post partum. Su un asse, sono disposti i fattori predisponenti (in gravidanza o pre-esistenti), i fattori precipitanti (aspetti del travaglio-parto) e i fattori di mantenimento (aspetti postnatali); sull’altro asse invece, sono specificati i fattori interni (individuali), esterni (ambientali) e i prodotti della loro interazione. Tra i fattori predisponenti individuali rientrano: le complicazioni in gravidanza (Maggioni et al., 2006), l’intensa paura per il travaglio ed il parto (Söderquist, Wijma, & Wijma, 2004; Zambaldi, Cantilino, & Sougey, 2009), i sintomi depressivi e ansiosi in gravidanza (Maggioni et al., 2006; Zaers et al., 2008; Zambaldi et al., 2009), una storia di disturbi psichiatrici (Ayers, 2004; Czarnocka & Slade, 2000), l’ansia di tratto (Czarnocka & Slade, 2000; Söderquist et al., 2004; Soet et al., 2003), traumi sessuali nel passato o abuso sessuale durante l’infanzia (Ayers et al., 2009; Soet et al., 2003).

Per quanto riguarda l’interazione tra aspetti individuali e contestuali, una gravidanza non pianificata (Beck et al., 2011) e lo scarso supporto sociale percepito in gravidanza (Czarnocka & Slade, 2000; Soet et al., 2003; Zambaldi et al., 2009) sono identificati come fattori di rischio predisponenti per il PTSD post-partum. A livello individuale, l’essere primipara (Denis, Parant, & Callahan, 2011), la paura intensa per sé o per il bambino e in generale le emozioni negative esperite durante il travaglio e il parto (Denis et al., 2011; Goutaudiera et al., 2012; Leeds & Hargreaves, 2008), la mancanza o la perdita di controllo durante il parto e un vissuto d’impotenza (Ayers, 2007; Maggioni et al., 2006; Soet et al., 2003), la percezione d’intenso dolore (Denis et al., 2011; Stramrood et al., 2011), la dissociazione (Goutaudiera et al., 2012; Olde et al., 2005; Zambaldi et al., 2009) e la violazione delle aspettative riguardanti il parto (Czarnocka & Slade, 2000; Maggioni et al., 2006; Soet et al., 2003) rappresentano i fattori di rischio precipitanti per il disturbo post-traumatico da stress post partum.

Tra i fattori precipitanti esterni associati alle risposte da stress post traumatico rientrano: il tipo di parto ed in particolare un cesareo di urgenza, non programmato o il ricorso a particolari strumentazioni come la ventosa (Ayers et al., 2009; Beck et al., 2011; Ford, Ayers, & Bradley, 2010; Goutaudiera et al., 2012; Söderquist et al., 2004; Stramrood et al., 2011), benché molti studi non confermino tale associazione (Ayers et al., 2009; Maggioni et al., 2006). I fattori precipitanti che originano dall’interazione tra aspetti individuali ed esterni sono: la percezione di mancanza di supporto da parte del partner e dello staff medico e la mancanza di informazioni adeguate (Maggioni et al., 2006; Söderquist et al., 2004; Soet et al., 2003). Tra i fattori che concorrono al mantenimento dei sintomi di disturbo post-traumatico da stress post partum rientrano le valutazioni e credenze negative (Czarnocka & Slade, 2000; Edworthy, Chasey, & Williams, 2008), i sintomi di depressione postnatale (Beck et al., 2011; Denis et al., 2011; Leeds & Hargreaves, 2008) e lo scarso supporto sociale percepito (Ford et al., 2010).

Il disturbo post traumatico da stress post-partum: le strategie di intervento

Mentre la copiosa letteratura sugli interventi rivolti al trattamento del disturbo post-traumatico da stress non connesso al parto include tra i più efficaci la terapia cognitivo comportamentale focalizzata sul trauma (CBT), la terapia di esposizione e l’EMDR (Eye Movement Desensitisation and Reprocessing), sono pochi gli studi sui trattamenti rivolti al disturbo post-traumatico da stress post partum (Lapp, Agbokou, Peretti, & Ferreri, 2010).

Gli studi in questo ambito fanno principalmente riferimento ad interventi di debriefing o di counselling (Cunen, McNeill, & Murray, 2014; Lapp et al., 2010). Il debriefing consiste in un’intervista psicologica strutturata effettuata solitamente dal personale ostetrico a seguito del parto. L’intervista indaga l’esperienza vissuta dalla persona, le sue cognizioni, le attribuzioni dell’evento e le emozioni provate. Alcuni studi hanno identificato effetti positivi sui sintomi di disturbo post-traumatico da stress post partum rilevando una diminuzione dei sintomi post-debriefing (Gamble et al., 2005; Harvey, Bryant, & Tarrier, 2003), altri non hanno identificato alcun effetto (Priest, Henderson, Evans, & Hagan, 2003; Selkirk et al., 2006), altri ancora un’influenza potenzialmente negativa con incremento dei sintomi post-intervento (Kershaw, Jolly, Bhabra, & Ford, 2005). Il debriefing e il counseling nel dopo parto, ad oggi, non sono però identificati nè  raccomandati come interventi efficaci da introdurre ed utilizzare nella prassi ospedaliera (Cunen, McNeill, & Murray, 2014; Lapp et al., 2010; National Institute for Clinical Excellence, 2005).

Solo uno studio qualitativo di due casi clinici ha indagato l’effetto della terapia cognitivo-comportamentale (CBT) sul disturbo post-traumatico da stress post partum (Ayers, McKenzie-McHarg, & Eagle, 2007) identificando risultati positivi. Nello specifico, l’utilizzo congiunto della riesposizione all’evento e la ristrutturazione cognitiva vengono identificati come tecniche efficaci per il trattamento del disturbo post-traumatico da stress post partum. Infatti, secondo il modello CBT le emozioni, i pensieri negativi e le valutazioni sono aspetti centrali, di mantenimento del disturbo post-traumatico (Ayers et al., 2007).

L’EMDR è riconosciuto come trattamento efficace per il disturbo post-traumatico da stress non connesso al parto (National Institute for Clinical Excellence, 2005). Ad oggi, solo uno studio pilota ha evidenziato la sua efficacia nel post-partum: le 4 donne con disturbo post-traumatico da stress post partum sottoposte alle sedute di EMDR mostrarono una riduzione della sintomatologia postraumatica da stress a seguito del trattamento e il mantenimento degli effetti benefici dell’EMDR si è osservato in 3 di loro anche a distanza di 1-3 anni dal trattamento. Come sottolineato dagli autori stessi (Sandström, Wiberg, Wikman, Willman, & Högberg, 2008) per giungere a conclusioni certe circa l’efficacia dell’EMDR nel trattamento del disturbo post-traumatico da stress post partum sono necessari ulteriori studi.

Infine, gli studi di Di Blasio et al. (Di Blasio et al., 2009, 2015; Di Blasio & Ionio, 2002) hanno identificato nell’Expressive Writing sulla specifica esperienza del travaglio e del parto, un intervento in grado di ridurre la sintomatologia postraumatica post partum, in particolare i sintomi di evitamento a breve termine (2 giorni dopo), e i sintomi di hyperarousal a medio (2 mesi/ 3 mesi post-writing session) e a lungo termine (12 mesi post-intervento) in un gruppo di donne che avevano avuto un parto “normale”.

In particolare, gli studi hanno evidenziato che i vissuti negativi legati al parto, quando espressi ed elaborati tramite la scrittura espressiva, perdono la loro connotazione traumatica e determinano un miglioramento dello stato di salute psicologico riducendo le risposte da stress post partum. Pennebaker stesso, ideatore del paradigma teorico e clinico dell’Expressive Writing, sostiene che [blockquote style=”1″]per migliorare lo stato di salute sembra necessario tradurre le esperienze in parole, integrare pensieri e sentimenti e rendere coerente e significativa la propria storia: in una parola, operare connessioni che diano significato e senso alle esperienze[/blockquote] (1999, p. 43).

Intervista al Prof. Metin Basoglu, fondatore del Trauma Studies presso il King’s College di Londra

L’intervista è stata rivolta al professor Metin Basoglu, MD, PhD, fondatore ed ex direttore del Trauma Studies presso l’Istituto di Psichiatria del King’s College di Londra e fondatore del Centro di Ricerca e Terapia Comportamentale (DABATEM) di Istanbul, in Turchia.

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Il professor Metin Basoglu è internazionalmente riconosciuto come un’autorità delle tematiche traumatiche inerenti guerre, torture, disastri naturali e nel trattamento dei sopravvissuti. Uno dei suoi obiettivi di carriera di guida è stato quello di sviluppare un modello di assistenza sanitaria, che potesse soddisfare le esigenze di assistenza psicologica di milioni di sopravvissuti al trauma di massa, in tutto il mondo. Il suo lavoro con i sopravvissuti al terremoto del 1999 in Turchia, ha portato allo sviluppo di un trattamento breve e in gran parte di auto-aiuto (Control-Focused Behavioral Treatment – CFBT) che è stato un passo importante verso tale modello di intervento.

1. Come fondatore di DABATEM, potrebbe descrivere perché è nato il Centro?

Eventi traumatici di massa, come guerre, disastri naturali, violenza politica e tortura, colpiscono milioni di persone in tutto il mondo. La maggior parte di esse ha poche possibilità di ottenere un’assistenza professionale. DABATEM è stata fondata nel 1995 con l’obiettivo di sviluppare un modello di salute mentale finalizzato a soddisfare le esigenze di grandi popolazioni superstiti. Tale compito è impegnativo e richiede interventi molto brevi, che possano anche essere auto-somministrati, senza alcun coinvolgimento terapeuta. Poiché nessuno dei trattamenti “evidence-based” sviluppati nel mondo occidentale è stato ritenuto adatto a questo scopo, abbiamo avuto bisogno di sviluppare un nuovo intervento.

2. Che cosa è questo intervento e qual è la sua base teorica?

Esso si basa sulla teoria dell’apprendimento, la quale afferma che lo stress traumatico è causata da un senso di impotenza indotto da eventi stressanti, imprevedibili e incontrollabili. L’evidenza mostra che l’evitamento cognitivo e / o comportamentale è fortemente associato ad ansia e impotenza. Ciò implica che aiutare una persona incrementando il senso di controllo, sull’ansia causata da esposizione a un trauma ricordato, ridurrebbe il senso di impotenza e porterebbe ad una remissione sintomatologica. Questa ipotesi è stata confermata da diversi studi clinici. A causa della sua attenzione al senso di controllo, abbiamo chiamato l’intervento Control-Focused Behavioral Treatment o CFBT in breve.

3. Come il CFBT è diverso da altri trattamenti che includono l’esposizione?

Il CFBT si basa su un paradigma teorico radicalmente diverso. A differenza di altri trattamenti che mirano alla riduzione dell’ansia, CFBT punta alla tolleranza dell’ansia o al miglioramento del senso di controllo dell’ansia. La riduzione dell’ansia non è un obiettivo realistico quando le persone devono affrontare continue minacce alla sicurezza. Si ha bisogno di un intervento di costruzione della resilienza che aumenti la capacità di tollerare o controllare l’ansia. CFBT è anche diverso dai trattamenti cognitivo-comportamentali volti a concentrarsi esclusivamente sulla prevenzione e che non prevedono interventi cognitivi sistematici o qualsiasi tecnica di gestione dell’ansia.

4. Come funziona in breve il CFBT?

In breve, esso implica il minor coinvolgimento possibile del terapeuta. Nel CFBT il terapeuta spiega il razionale del trattamento, incoraggia all’auto-esposizione, monitora i progressi e assiste con esercizi di esposizione solo quando necessario. La ricerca mostra che quasi l’80% dei sopravvissuti può recuperare con l’auto-esposizione dopo la prima seduta, mentre solo il 20% necessita di oltre 3 sedute di esposizione assistita dal terapeuta. Il trattamento può anche essere efficacemente distribuito in una singola seduta, in oltre il 90% dei casi, utilizzando il Trattamento con Simulatore di Terremoto, un’applicazione avanzata di CFBT progettata per aumentare il senso di controllo sui tremori, all’interno di un simulatore di terremoti.
Non abbiamo ancora condotto studi analoghi con traumi di guerra e sopravvissuti alla tortura, ma un recente studio del trattamento, su 60 traumatizzati richiedenti asilo, ha dimostrato che il recupero significativo può essere realizzato con circa 6 sedute condotte col terapeuta. Queste sessioni potrebbero essere ridotte ulteriormente, quando i sopravvissuti possono iniziare da soli a condurre l’esposizione, passando ad auto-esposizioni.

5. Come può questo trattamento essere diffuso alle masse?

Poiché il modello è in fase avanzata con i sopravvissuti del terremoto, risponderò alla tua domanda in relazione ai terremoti. L’evidenza suggerisce che il CFBT può essere consegnato come un intervento auto-somministrato attraverso tutti i mezzi possibili, includendo il professionale o il laico terapista, manuali di auto-aiuto, e la comunicazione dei mass media. Esso include due aspetti: (1) un programma di assistenza mirato a particolari gruppi superstiti, come quelli dislocati, rifugi, scuole, fabbriche, o comunità più colpite e (2) la diffusione della conoscenza del trattamento al pubblico attraverso i mass media, come TV, Internet, social media, ecc..

Il programma di sensibilizzazione prevede la consegna step-by-step di 4 sessioni CFBT. Il trattamento dei partecipanti è interrotto, dopo ogni sessione, con la consegna di proseguire gli esercizi di esposizione in autonomia. L’idea è quella di ridurre al minimo l’ingresso del terapeuta, facendo affidamento sull’auto-esposizione, al fine di risparmiare tempo prezioso al terapeuta per i non-partecipanti ad ogni sessione. In uno studio abbiamo scoperto che il 76% dei sopravvissuti migliora dopo la 1° sessione, 88% dopo la 2°, il 97% dopo la 3 ° e 100% dopo la 4 °.

Il modello prevede anche strategie di preparazione ‘pre-disastro’, compresa la formazione di operatori sanitari, la diffusione delle conoscenze del trattamento al pubblico, e, quando possibile, l’uso di simulatori di terremoto per aumentare la tolleranza ai possibili effetti traumatici del terremoto.

6. Potrebbe esaminare il rapporto costo-efficacia di questo programma di sensibilizzazione?

Solo in termini di costi di tempo del terapeuta. La cura di 5.000 sopravvissuti, dopo il terremoto del 1999 in Turchia, è costata 30 dollari a caso, all’epoca stavamo ancora sviluppando il modello. Allo stato attuale ci aspettiamo un costo di 17,5 dollari a caso per paesi come la Turchia. Se il nostro manuale di auto-aiuto venisse utilizzato come intervento di prima linea, il costo potrebbe essere sostanzialmente inferiore, a seconda del numero di persone che utilizzano il manuale. Con tale basso costo, sarebbe economicamente affrontabile indirizzare grandi popolazioni di superstiti alla cura. Per esempio, si sarebbe potuto distribuire tale trattamento a tutta la popolazione superstite, che necessitava di aiuto dopo il terremoto dell’Aquila del 2009. Diffondere la conoscenza del trattamento attraverso i mass media, come la TV e social media, potrebbe ridurre i costi ancora di più. Anche se non abbiamo ancora avuto la possibilità di provare questo metodo di diffusione, abbiamo buoni motivi per credere che avrebbe aiutato un sacco di gente.

7. Potrebbe dire qualche parola circa il libro che avete pubblicato inerente questo lavoro?

Questo libro è in realtà inteso come uno strumento di formazione per gli operatori. Esso prevede non solo una descrizione dettagliata del modello, ma anche gli strumenti necessari per la sua attuazione, come test di screening per lo stress traumatico, scale per la valutazione dell’esito del trattamento, un manuale di auto-aiuto per i sopravvissuti del terremoto, e un manuale di trattamento strutturato per i professionisti e i terapisti laici. Operatori sociali interessati ad utilizzare il nostro modello, ma che non hanno un diretto contatto con noi per la formazione, possono trovare ciò di cui hanno bisogno in questo libro.

8. Cosa ne pensa il futuro per DABATEM e la vostra carriera?

Ho passato 30 anni della mia vita su questa impegnativa idea. Ci sono voluti più di 40 studi per portare il modello al suo stato attuale ed è necessario più lavoro per completarlo. Ora sono in una fase della mia carriera in cui posso essere più utile attraverso la diffusione di queste conoscenze, con programmi di formazione, pubblicazioni, e il mio blog. Spero che la mia collega più giovane, prof. Ebru Salcioglu, che ora porta avanti la bandiera della missione di DABATEM, volgerà la mia idea a completamento. Il nostro lavoro svolto finora spera di motivare gli altri nel contribuire a questo processo.

Metin Basoglu, Ebru Salcioglu ‘A Mental Healthcare Model for Mass Trauma Survivors. Control-Focused Behavioral Treatment of Earthquake, War and Torture Trauma’. Cambridge University Press 2011

Interview with Professor Metin Basoglu, MD, PhD, founder and former Head of Trauma Studies at the Institute of Psychiatry of King’s College London and founder of the Istanbul Center for Behavior Research and Therapy (DABATEM) in Turkey.

Professor Metin Basoglu is internationally recognized as an authority on war, torture, and natural disaster trauma and treatment of survivors. One of his career-guiding goals has been to develop a mental healthcare model that can address the psychological care needs of millions of mass trauma survivors around the world. His work with survivors of the 1999 earthquakes in Turkey that led to the development of a brief and largely self-help intervention (Control- Focused Behavioral Treatment – CFBT) has been an important step towards such a model.

1. As the founder of DABATEM, could you describe why the Center was born?

Mass trauma events, such as wars, natural disasters, political violence, and torture, affect millions of people around the world. Most have little chance of getting professional care. DABATEM was founded in 1995 with a view to developing a mental healthcare model with a potential to meet the needs of large survivor populations. Such a challenging task requires very brief interventions that can also be self-administered without any therapist involvement. As none of the “evidence-based” treatments developed in the western world is suitable for this purpose, we needed to develop a novel intervention.

2. What is this intervention and its theoretical basis?

It is based on learning theory, which tells us that traumatic stress is caused by helplessness induced by unpredictable and uncontrollable stressor events. Evidence shows that cognitive and / or behavioral avoidance is strongly associated with helplessness anxiety. This implies that helping a person to gain sense of control over anxiety by exposure to trauma reminders would reduce helplessness and lead to recovery. This hypothesis was confirmed by several clinical trials. We have also seen many survivors discover this intervention by themselves and recover without any professional help. Because of its focus on sense of control, we called it Control-Focused Behavioral Treatment or CFBT in short.

3. How is CFBT different from other treatments involving exposure?

It is based on a radically different theoretical paradigm. Unlike other treatments that aim for anxiety reduction, CFBT aims for anxiety tolerance or enhancement of sense of control over anxiety. Anxiety reduction is not a realistic aim when people face continued threats to safety. You need a resilience-building intervention that increases ability to tolerate or control anxiety. CFBT is also different from cognitive-behavioral treatments in focusing solely on avoidance and not involving any systematic cognitive interventions or any anxiety management technique.

4. How brief is CFBT?

By brief, I mean involving as little therapist involvement as possible. In CFBT the therapist explains the treatment rationale, encourages self-exposure, monitors progress, and assists with exposure exercises only when needed. Research shows that nearly 80% of survivors recover with self-exposure after the first session, while only 20% need up to 3 more therapist-assisted exposure sessions. Treatment can also be effectively delivered in a single session in over 90% of the cases using Earthquake Simulation Treatment, which is an enhanced application of CFBT designed to increase sense of control over tremors in an earthquake simulator.

We haven’t yet conducted comparable studies with war and torture survivors but a recent treatment study of 60 traumatized asylum-seekers showed that significant recovery can be achieved with mean 6 therapist-delivered sessions. These sessions could be reduced further by switching to self-exposure earlier in treatment when the survivors can conduct exposure on their own.

5. How can this treatment be disseminated to masses?

As the model is at a more advanced stage with earthquake survivors, I’ll answer your question in relation to earthquakes. Evidence suggests that CFBT can be delivered as a self-administered intervention through all means possible, including professional or lay therapists, self-help manuals, and mass media. It involves two components: (1) an outreach program targeting particular survivor groups, such as those dislocated to shelters, schools, factories, or most affected communities and (2) dissemination of treatment knowledge to the public through mass media, such as TV, Internet, social media, etc.

The outreach program involves step-by-step delivery of 4 CFBT sessions. Treatment of responders after each session is discontinued with instructions to continue exposure exercises on their own. The idea is to minimize therapist input by relying on self- exposure, sparing precious therapist time for non-responders to each session. In a study we found that 76% of the survivors improved after the 1st session, 88% after the 2nd, 97% after the 3rd, and 100% after the 4th.

The model also involves pre-disaster preparedness strategies, including training of care providers, dissemination of treatment knowledge to the public, and whenever possible, increasing people’s resilience against earthquake trauma through the use of earthquake simulators.

6. Did you examine the cost-effectiveness of this outreach program?

Only in terms of therapist time costs. Care of 5,000 survivors after the 1999 earthquake in Turkey cost us 30 USD per case while we were still developing the model. In its present state we anticipate a cost of 17.5 USD per case in countries like Turkey. If our self-help manual is used as the first-line intervention, the cost could be substantially lower, depending on the number of people who utilize the manual. With such low cost, it would be economically feasible to target large survivor populations for care delivery. For example, you could have delivered care to the entire survivor population in need of help after the 2009 L’Aquila earthquake. Disseminating treatment knowledge through mass media, such as TV and social media, could reduce the costs even further. Although we didn’t yet have a chance to test this dissemination method, we have good reasons to believe it would help a lot of people.

7. Can you say a few words about the book you have published on all this work?

This book is actually intended as a training tool for care providers. It provides not only a detailed description of the model but also the tools needed to implement it, such as screening tools for traumatic stress, scales for treatment outcome evaluation, a self-help manual for earthquake survivors, and a structured Treatment Delivery Manual for professional and lay therapists. Care providers who are interested in using our model but who do not have access to us for training may find the knowledge they need in this book.

8. What do you think the future holds for DABATEM and your career?

I spent 30 years of my life on this challenging idea. It took more than 40 studies to bring the model to its present state and more work is needed to complete it. I am now at a stage in my career where I can be most useful by disseminating my knowledge through training programs, publications, and my blog. I am hoping my younger co- worker, Prof. Ebru Salcioglu, who is now carrying the flag of DABATEM’s mission, will bring my idea to a completion. Our work so far will hopefully motivate others to contribute to this process.

Ingannare il proprio giudice interiore con la Self Mirroring Therapy

Autori: Alibrandi M., Speciale M., Vinai P.

“Accidenti a me! Mi prenderei a schiaffi! Sono stato proprio stupido, non valgo niente!” Quante volte ci rivolgiamo a noi stessi in questo modo. Per alcuni pazienti, è proprio questa mancata accettazione di sé e delle proprie imperfezioni a mantenere una patologia, come per esempio quella ossessiva. Ma lo stesso giudice interiore, rigido e pronto a puntare il dito contro noi stessi, spesso non è altrettanto severo con gli altri e in particolare con le persone a cui vogliamo bene: la legge non è uguale per tutti!

Per evitare questa discrepanza e indurre il giudice ad avere nei nostri confronti  lo stesso atteggiamento che ha con le altre persone,  possiamo fare in modo che ci osservi come se fossimo “un altro”.

La Self Mirroring Therapy  facilita proprio questo meccanismo di “decentramento”  attraverso la videoregistrazione di se stessi e la successiva visione di sé attraverso il video.

Quando osserviamo un’altra persona esprimere un’emozione si attivano gli stessi circuiti motori, viscero-motori ed affettivi che sono coinvolti quando noi stessi produciamo quella stessa espressione emotiva; tale meccanismo, mediato dal sistema dei neuroni specchio, ci permette di comprendere a fondo le emozioni altrui e di provare empatia, tanto più facilmente quanto più identifichiamo l’altro come simile a noi.

La self mirroring therapy, prevedendo la videoregistrazione di se stessi in alcuni momenti salienti della terapia e la successiva visione di se attraverso il video, fa sì che il paziente, osservando le proprie espressioni emotive da fuori, sfrutti a proprio vantaggio quelle abilità innate di comprensione dell’altro, mediate dai neuroni specchio, superando  le difficoltà di riconoscere le proprie emozioni  solamente attraverso la capacità autoriflessiva.

L’effetto terapeutico è un rapido ed immediato insight sulle proprie convinzioni disfunzionali e sulle emozioni correlate, talmente evidente da non poter “sfuggire”. Inoltre durante l’autosservazione   vengono spontaneamente attivati  stati emotivi di  accudimento, compassione, accettazione e perdono verso se stesso, in cui il proprio “giudice severo” si trasforma in un amico che ci capisce davvero e ci vuole bene.

 

Prossimi eventi formativi sulla Self Mirroring Therapy

Self Mirroring Therapy per i Disturbi Alimentari – 27 Febbraio 2016 – Scarica la BROCHURE

Self Mirroring Theray per gli Attacchi di Panico – 12 Marzo 2016 – Scarica la BROCHURE

Self Mirroring Therapy per il Disturbo Ossessivo Compulsivo – 9 Aprile 2016 – Scarica la BROCHURE

La sottoscrizione del contratto giuridico e del contratto psicologico nelle organizzazioni lavorative

Il lavoratore ed il datore di lavoro firmano un accordo “mentale” non scritto, il cosiddetto contratto psicologico, ovvero il complesso delle aspettative che il lavoratore nutre nei confronti dell’azienda e, allo stesso tempo, il complesso delle aspettative che il datore di lavoro ha nei confronti di un proprio collaboratore. Il contratto psicologico, a differenza di quello giuridico, ha una natura molto più fluida e si evolve nel tempo in relazione ai cambiamenti sociali e culturali.

Il contratto giuridico e il contratto psicologico

L’epoca attuale è caratterizzata da un mercato del lavoro in continuo cambiamento, dove [blockquote style=”1″]gli individui non sperimentano più stabilità e sicurezza, ma si confrontano con lavoro flessibile ed organizzazioni fluide[/blockquote] (M. Savickas, 2011). In tale contesto viene a modificarsi anche il rapporto individuo-organizzazione, dal contratto psicologico alla concezione della carriera. All’interno di una tale mutata cornice culturale e tecnologica, le organizzazioni attuano cambiamenti rapidi nella loro forza lavoro e nelle politiche di impiego e tutto ciò ha un impatto considerevole sull’adempimento del contratto psicologico.

Al momento del suo ingresso in azienda, il lavoratore firma un accordo scritto, il cosiddetto “contratto giuridico”, che segue le disposizioni del contratto nazionale del lavoro. Il contratto giuridico definisce i diritti e i doveri delle Parti e stabilisce una serie di norme a cui il datore di lavoro da una parte ed il lavoratore dall’altra dovranno attenersi. Il riferimento normativo è l’art. 2094 del codice civile secondo cui è [blockquote style=”1″]prestatore di lavoro subordinato chi si obbliga, mediante retribuzione, a collaborare nell’impresa alle dipendenze e sotto la direzione dell’imprenditore, prestando il proprio lavoro, intellettuale o manuale.[/blockquote]

Contemporaneamente, il lavoratore ed il datore di lavoro firmano un accordo “mentale” non scritto, il cosiddetto contratto psicologico, ovvero il complesso delle aspettative che il lavoratore nutre nei confronti dell’azienda e, allo stesso tempo, il complesso delle aspettative che il datore di lavoro ha nei confronti di un proprio collaboratore. Il contratto psicologico, a differenza di quello giuridico, ha una natura molto più fluida e si evolve nel tempo in relazione ai cambiamenti sociali e culturali.

Le tipologie di contratto psicologico

Denise Rousseau ha identificato quattro tipologie di contratto psicologico, suddivise secondo criteri di durata (breve, lungo, indeterminato) e criteri di performance.
Il cosiddetto contratto transazionale è basato su uno “scambio” (transazione) di breve durata, in cui l’investimento emotivo è minimo per entrambi gli attori.

Il contratto di transizione (cosiddetto “di nessuna garanzia”) è caratterizzato dall’assenza di impegno da parte di entrambi gli attori, generalmente dovuto ad una situazione di rottura del contratto o da situazioni di cambiamento organizzativo, in cui si verifica un conflitto con il contratto precedente.
Il contratto relazionale, invece, è di tempo lungo o indeterminato, senza compiti di performance ben specificati, dove il rapporto tra gli attori è generalmente continuo e basato sulla fiducia e lealtà reciproche. In questo tipo di contratto è molto sentita l’appartenenza all’organizzazione e la partecipazione alle attività nei rispettivi ruoli.
Il contratto bilanciato, infine, è a tempo indeterminato ed è caratterizzato da precisi compiti di performance. Gli accordi tra le parti sono in evoluzione, basati sul successo non solo dell’azienda ma anche del lavoratore, il quale gode della possibilità di migliorare ed evolvere il proprio ruolo. Entrambe le parti collaborano attivamente e reciprocamente, essendo l’una elemento del successo dell’altra.

Il contratto psicologico permette di individuare i cambiamenti in atto nelle relazioni lavorative, di decifrare le forme di relazione tra lavoratore ed azienda e di comprendere le variazioni di coinvolgimento lavorativo ed organizzativo.
In passato il contratto psicologico riguardava soprattutto il fatto che il lavoratore si potesse aspettare dal datore di lavoro la sicurezza di un impiego ed una retribuzione adeguata in cambio di impegno, fedeltà e lealtà.

Oggi il contratto psicologico riguarda soprattutto le aspettative non scritte, secondo le quali il datore di lavoro supporta e stimola le capacità e le potenzialità del lavoratore, rendendo il lavoratore stesso più pronto ad inserirsi nelle dinamiche di mercato relative alla propria professionalità.
La maggior parte degli studiosi è concorde nel ritenere che il contratto psicologico si formi nelle prime fasi del rapporto lavorativo, e precipuamente, nella fase di selezione e di inserimento in azienda.

Conclusioni

È palese che il contratto psicologico, come tutti gli altri contatti, si presta ad essere interpretato in modo diverso dalle parti e questo può creare dei problemi. Talvolta basta una sola parola di troppo da parte di un nostro collega o superiore per sentirci completamente disprezzati nella nostra professionalità o addirittura nella nostra persona e spingerci quindi a tirare i remi in barca. Anche per molti anni a venire. Altre volte invece il contratto è rafforzato da elementi di gratitudine e di riconoscenza. Ma non sono necessariamente solo problemi. Il contratto psicologico, infatti, può fare miracoli, riuscendo a motivare anche la persona più demotivata dell’universo. Se ben gestito, il contratto psicologico può consentire di trasformare i dipendenti in artefici del successo dell’azienda. Nelle organizzazioni in cui il top management gestisce in modo proattivo e positivo il contratto psicologico, la classica tripartizione tra chi lavora per sbarcare il lunario, chi lo fa per mostrare la propria professionalità e chi lo fa per passione viene meno. Se creiamo un’organizzazione alla quale tutti si sentono orgogliosi di appartenere, tutti remeranno dalla stessa parte.

Il contratto psicologico incide dunque sul comportamento organizzativo degli individui; Edgar Schein (1965) lo considera come l’insieme di aspettative circa gli obblighi reciproci che una relazione di scambio deve comportare: per mantenersi nel tempo sono in gioco i due partner della relazione che hanno condiviso le aspettative reciproche iniziali. Quando lavoratore e datore di lavoro investono molto nel contratto relazionale, una sua rottura implica dei costi che sono decisamente più elevati rispetto a quelli che ci sarebbero stati se non ci fosse stato coinvolgimento emotivo o se il coinvolgimento fosse stato basso. Il lavoratore può percepire che la violazione rinneghi le promesse che gli sono state fatte o che vi sia un’incongruenza tra le sue credenze e quelle del top management dell’organizzazione. La violazione del contratto psicologico porta a reazioni di carattere emozionale, quali: disappunto, rabbia e senso di tradimento. Questa violazione può portare all’ insoddisfazione dei lavoratori, ad un alto turnover ed alla riduzione del committment.

 

PSICOLOGIA DEL LAVORO

Le cattive abitudini e i comportamenti automatici – Ciottoli di psicopatologia generale nr. 6

Per spiegare l’ottuso perseverare in comportamenti dannosi riconosciuti tali dal soggetto stesso devo rifarmi al bias della fallacia dei costi irrecuperabili (sunk cost bias) che ci fa insistere in imprese fallimentari solo perché ormai vi abbiamo investito molto e ritirarsi sarebbe ratificare le dolorosissime perdite.

CIOTTOLI DI PSICOPATOLOGIA GENERALE (RUBRICA) – LEGGI L’INTRODUZIONE

 

Un primario tra i più bravi del mio dipartimento di salute mentale mi spiegò come fosse riuscito ad attraversare praticamente indenne dalle punizioni dei superiori, costante minaccia alle libere uscite ed alle agognate licenze, il servizio militare di leva con due frasi standard che suonavano pressappoco così “ Abbiamo sempre fatto così” e “non abbiamo le chiavi, che se l’è portate il maresciallo che sta in ferie”. Col tempo pensai che fossero più in generale due passpartout per attraversare indenni la vita stessa.

Le abitudini, quali che siano, meritano una piccola riflessione. Quelle buone normalmente sgradevoli o faticose nell’immediato che cercano di inculcarci sin da piccoli e quelle cattive, piacevoli e scoperte autonomamente, che tentano di estirparci come un molare inguastito chiamandole vizi e disegnando scenari apocalittici a cui ci condurrebbero inevitabilmente. Sono un abitudinario egosintonico. Le abitudini ci consentono un enorme risparmio di energie, riducendo la necessità di dover ogni volta scegliere e la responsabilità connessa. L’abitudine diventa un automatismo irriflesso, come cambiare le marce per chi sia un esperto pilota, che lascia libera la mente per i compiti più nobili facendo persino a meno dell’attenzione, tutto scorre automaticamente liscio come l’olio.

Naturalmente fino a che gli scenari non cambiano e nasce la fatica di cambiare abitudine e con il cambio automatico (pure quello automatico) bisogna smetterla di schiacciare a fondo la frizione prendendo il pedale del freno col rischio di tamponamenti. Le abitudini sono un modo per mandare in vacanza il cervello, nel bene e nel male. Esagerando e con una punta di velenosa polemica mi azzardo a dire che il gran successo che nel nostro campo hanno avuto i protocolli trova radici nello stesso motivo di festività corticale.

Ma ti pare ogni volta cercare di capire il particolare modo di funzionare e di soffrire della persona che ho di fronte e ritagliare una terapia a sua precisa misura? Ma quanto mi costa? Vuoi mettere avere un modello standard, inquadrato grosso modo il tipo (brevilineo, longilineo, alto, basso, secco o grasso) e semmai fare qualche ritocchino. Vi starete spazientendo per il mio girare in tondo senza andare al centro del problema per cui è utile ragionare sulle abitudini. Rimedio subito.

 

Le abitudini e la genesi della sofferenza

Credo che le abitudini abbiano un ruolo decisivo se non nella genesi perlomeno nel mantenimento della sofferenza, ed uno, ancora più nefasto, come causa di quelle che universalmente chiamiamo “resistenze” . Brillante concetto condiviso da tutte le scuole e i diversi orientamenti teorici in quanto ci permette di ribaltare sul paziente la responsabilità dei nostri fallimenti. Ho provato ad ampliarlo per applicarlo anche agli insuccessi esistenziali personali espellendo lontano il cosiddetto “locus of control” e funziona davvero ma purtroppo si chiama paranoia. Ma una cosa per volta.

La genesi di un comportamento problematico va, a mio avviso, distinta dal suo reiterarsi e mantenersi. Si inizia a fumare per sentirsi grandi e conquistare la moretta del primo banco ma poi si continua a farlo anche nei bagni della casa di riposo sfuggendo alla caposala moldava quando si darebbe metà del trattamento di fine rapporto di tutta la vita lavorativa per avere qualche anno di meno. Si inizia a bere per distrarsi dall’ansia di una brutta figura ma si continua a farlo quando essere alcolisti è l’unica brutta figura che ancora riusciamo a fare. E pensate ad un ossessivo. Quando chiude tre volte tutti i cassetti della camera e accende e spegne 77 volte la luce ripetendo mentalmente la canzoncina che la madre gli cantava per addormentarlo non ricorda più perché lo fa. Se glielo chiederete vi dirà come il mio primario “abbiamo sempre fatto così” oppure “perché si! si fa così”. Anche per lui la chiave ce l’ha il maresciallo che è assente. Quel comportamento aveva un significato ben preciso che nel caso dell’ossessivo spesso è di prevenire una possibile colpa che porterebbe al suo ostracismo. Nel tempo è andato arricchendosi, complicandosi, imbarocchendosi, finendo per rendere oscuro il collegamento con lo scopo che lo aveva generato.

Tale scopo va recuperato e reso consapevole per poterci lavorare ma non meno importante è lavorare direttamente sul sintomo che è diventato una cattiva abitudine, il letto di un torrente pronto a riattivarsi ad ogni piena. Il sintomo da assuefazione. Penso ad esempio che alcuni assassini iniziano ad uccidere per i pesanti carichi genetici ed esperienziali che portano addosso ma poi possono diventare serial killer per le emozioni intense connesse all’uccidere che fungono da rinforzo. A Roma si direbbe “ce prendono gusto!!” Gli ossessivi sicuramente se la godono meno ma cosa sarebbe la loro vita se improvvisamente si liberassero dai rituali 7/8 ore al giorno?

Noi cerchiamo di motivare i pazienti al cambiamento presentandogli la guarigione come un guadagno ma loro sono più attenti per la sproporzione di sensibilità verso perdite e guadagni (doppia per le perdite) alla perdita che l’abbandono del sintomo comporterebbe e all’ignoto in cui li getterebbe. Molto più efficace è fargli costruire il sintomo come una perdita elencando i suoi costi diretti e indiretti. Meglio se in relazione allo stesso scopo o, più frequentemente, antiscopo al servizio del quale il sintomo era iniziato. Per restare sul nostro esempio l’ossessivo può vedere quanto il tempo dedicato ai rituali è sottratto a quella socialità che non vorrebbe perdere e ancora di più che la sintomatologia stessa, nata per essere perfetto e non ostracizzato diventa a sua volta motivo di imperfezione ed esclusione.

 

Sunk cost bias: la fallacia dei costi irrecuperabili

Per spiegare l’ottuso perseverare in comportamenti dannosi riconosciuti tali dal soggetto stesso devo rifarmi al bias della fallacia dei costi irrecuperabili che ci fa insistere in imprese fallimentari solo perché ormai vi abbiamo investito molto e ritirarsi sarebbe ratificare le dolorosissime perdite. Così si continuano a finanziare aziende decotte mettendo soldi buoni nella voragine. Più nel nostro piccolo, si legge un libro brutto solo perché lo si è comprato o si scia nella tormenta perché ormai abbiamo lo sky-pass. Si proseguono terapie che non danno risultati e, peggio, si mantengono relazioni affettive descritte come la causa prima di tutti i nostri mali solo perché ormai sono una infinità di anni che si sta insieme ed allora sarebbe stato tutto vano.

La regola con cui funzioniamo è quella che il piccolo principe descrive poeticamente dicendo che il valore della nostra rosa è dato dal suo valore in sé più tutti i sacrifici che abbiamo fatto per lei. Questo plus-valore cresce continuamente e paradossalmente è maggiore proprio per le imprese difficili e fallimentari che smuovono intense emozioni, per cui da esse è più difficile tirarsi indietro. La fallacia dei costi irrecuperabili è un forte elemento di stabilità utilissimo nelle relazioni parentali. Ogni genitore sa che più ha dovuto spendere per un figlio e più ciò lo rende importante. Se non fosse così molti piccoli rischierebbero il cassonetto.

 

Bandire la parola “ormai” e affrontare il problema per la prima volta

Contemporaneamente è un pesante fattore di mantenimento di dolorosi comportamenti disfunzionali. In questi casi è utile fare con il paziente una valutazione ex novo della partita in cui è impegnato valutando in sé lo scopo per cui si sta dando tanto da fare, depurandolo da quanto ci ha già investito. Personalmente bandisco dal vocabolario del paziente la parola “ormai” e gli chiedo cosa farebbe se si trovasse per la prima volta oggi di fronte al problema. Una volta che ha scelto mi impegno con lui in una discussione su cosa cambi il fatto che non sia la prima volta per evidenziargli l’irrazionalità del suo comportamento. Parallelamente mi impegno a cercare di ridurre il vissuto di colpa per aver sbagliato nel passato e a perdonarsi eventualmente secondo il motto latino per cui “errare è umano ma perseverare è diabolico”.

Per attenuare il senso di colpa è estremamente utile mantenere distinti la correttezza del processo decisionale su cui il soggetto, in genere valuta se stesso, dagli esiti effettivi della scelta che erano imprevedibili al momento in cui è stata compiuta. Posso fare la scelta giusta e cacciarmi nei guai o, al contrario sbagliare completamente scelta e avere successo. Sempre su questa linea di attenuazione del vissuto di colpa si può spiegare come i bisogni e i gusti cambino nel tempo e congruentemente con loro mutino anche le convinzioni sul mondo, su ciò che è bene e ciò che è male. Kahneman da pag 322 e seg. argomenta come con l’avanzare dell’età e il modificarsi della posizione sociale cambino le idee politiche e contemporaneamente le convinzioni sul mondo. Altrettanto avviene a chi diventa vegetariano o vegano o, più banalmente, si innamora.

 

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