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Burnout negli insegnanti: cos’è e quali trattamenti possono aiutare

Burnout negli insegnanti: Il burnout (dall’inglese “bruciato”) è una condizione di stress e logorio lavorativo protratto e intenso che determina perdita di interesse nella propria professione, svuotamento interiore e inefficienza nell’attività lavorativa. Colpisce frequentemente gli insegnanti, come dimostra una ricerca del 2002 condotta di Lodolo D’Oria e i suoi collaboratori per il Comune di Milano nel 1992/2001 che ha mostrato che, su oltre 3000 persone, le più colpite sono gli insegnanti.

Questo articolo è stato pubblicato da Giovanni Maria Ruggiero su Linkiesta il 6/02/2016

La figura dell’insegnante nella storia

Un tempo l’insegnante era un notabile della vita dei paesi che erano il nerbo della vita sociale italiana ed era chiamato professore. Insieme al medico e all’avvocato rivestiva il ruolo di una provinciale nobiltà di toga rispettata quanto quella di spada, rappresentata dal militare di carriera. Quando è iniziata la sua decadenza sociale? Dopo la seconda guerra mondiale, con il crollo dell’ultimo tentativo della civiltà militare di restaurare il proprio dominio sulla società, tentativo finito in una catastrofe apocalittica e in una mostruosa riproposizione del sacrificio umano tribale in una forma particolarmente cruenta e di massa.

Insieme al maresciallo, l’insegnante ha fatto una misera fine e oggi occupa un gradino più basso rispetto al medico e all’avvocato. Il suo mestiere lo isola dagli altri adulti e lo pone a contatto con un’orda di giovani individui carichi di ormoni e poveri di rispetto, condannandolo a un’eterna convivenza infantilizzante con ragazzoni e ragazzone che non riescono a tributargli l’antico timore gerarchico e al contempo non possono certo concedergli la magia di riaccoglierlo nella loro fatata giovinezza.

Il burnout negli insegnanti

A questo aggiungiamo uno stipendio insufficiente e un mestiere che rischia facilmente di essere ripetitivo e rutinario e il quadro del burnout già si presenta davanti a noi.
Il burnout (dall’inglese “bruciato”) è una condizione di stress e logorio lavorativo protratto e intenso che determina perdita di interesse nella propria professione, svuotamento interiore e inefficenza nell’attività lavorativa. Il burnout negli insegnanti è molto frequente, come dimostra una ricerca del 2002 condotta di Lodolo D’Oria e i suoi collaboratori per il Comune di Milano nel 1992/2001 che ha mostrato che, su oltre 3000 persone, le più colpite sono gli insegnanti.

Beninteso, il rischio non dipende solo dalla condizione esterna. Predispone l’individuo anche il suo carattere: l’eccessiva dedizione al sacrificio, il bisogno di affermazione attraverso il lavoro a discapito della vita privata, gli eterni e onnipresenti problemi familiari o relazionali e infine, quasi tautologicamente, la scarsa tolleranza dello stress.
Ma non dimentichiamo le mancanze organizzative: concorrono anche le classi numerose, la carenza di attrezzature, le eccessive pratiche burocratiche, la carenza di occasioni di aggiornamento, la limitata possibilità di carriera, la retribuzione insoddisfacente, e infine la precarietà. Proteggono invece l’appartenenza al sesso femminile, l’anzianità, il supporto dei colleghi e il riconoscimento del proprio lavoro da parte di superiori e utenti e anche di se stessi.

E non ci si consoli pensando che i tatti di una condizione relativamente semplice da studiare e sulla quale c’è già pieno accordo scientifico. Al contrario, la teoria clinica dice che esiste più di un burnout. Anzi, ce ne sono almeno tre. Il primo tipo di burnout colpisce chi lavora freneticamente per il successo fino all’esaurimento ed è quello di chi affronta lo stress lamentandosi della gerarchia organizzativa sul lavoro, con la sensazione che questa rappresenti un limite ai propri obiettivi e alle proprie ambizioni. Il secondo tipo di burnout nasce dalla noia e dalla mancanza di sviluppo personale ed è più strettamente associato a una strategia di evitamento. Questi lavoratori poco esigenti tendono a gestire lo stress prendendo sempre più le distanze dal lavoro fino ad approdare a un senso di spersonalizzazione e di cinismo. Infine l’ultimo tipo di burnout è il sottotipo esausto e sembra derivare da una strategia basata sulla rinuncia di fronte allo stress: anche se queste persone desiderano raggiungere un certo obiettivo, non riescono a trovare la motivazione necessaria a superare gli ostacoli per raggiungerlo.

Il trattamento del burnout negli insegnanti

L’aiuto migliore che una persona in stato di burnout può attendersi sono le cure psicologiche. Terapie di ristrutturazione cognitiva sono benvenute, con la loro focalizzazione sui pensieri più deprimenti. Il burnout negli insegnanti induce tipicamente a pensare che lo studente è ingrato e insensibile agli aiuti; non basta, pensa anche di essere abbandonato dall’istituzione, di non avere riconoscimento per i suoi sforzi.
Questo atteggiamento porta l’insegnante a sentirsi inutile e determina risposte aggressive che si alternano a disperazione e inutilità. L’obiettivo del trattamento cognitivo comportamentale è cambiare questo modo di pensare per ridurre l’intensità delle emozioni negative e creare un clima sereno e produttivo all’interno dell’ambiente lavorativo.

La meditazione è una pratica ampiamente usata per contrastare gli effetti di pensieri ed emozioni frustranti. Si raccomanda un tipo particolare di meditazione, la mindfulness, tecnica meditativa che si fonda sulla presa di coscienza (consapevolezza) delle sensazioni presenti che vengono accettate, senza giudizio, senza valutazioni, nel loro naturale fluire. Si impara a vivere nel presente, senza colpevolizzarsi per il passato né temendo il futuro, con benefici su molti disturbi emotivi e fisici, (Gilbert, 2005).

Per migliorare i rapporti con colleghi, superiori e allievi a scuola, è utile apprendere tecniche di assertività, abilità che serve a contrastare la tendenza alla passività e aggressività, apprendendo a rispondere a richieste eccessive con chiarezza, calma e salvaguardando il rapporto di fiducia con l’utenza e l’immagine lavorativa. La collaborazione con i colleghi è fondamentale per sfogare le proprie frustrazioni e preoccupazioni e diminuire il peso delle responsabilità. A questo fine il supporto dato da gruppi di sostegno con altre persone che vivono la stessa condizione di logoramento e la vicinanza dei familiari, evitano il sovraccarico di ansie e tiene lontani da comportamenti dannosi per sé e gli altri.

I disturbi alimentari: una patologia del controllo

Nel primo articolo di questa serie abbiamo introdotto il concetto di controllo. Il controllo non è soltanto un comportamento, ma prima ancora un’idea, un convincimento o, come si dice in gergo psicologico, una credenza. Per controllo s’intende la misura in cui abbiamo l’impressione di poter dominare gli eventi esterni sia le nostre emozioni. È la definizione più tautologica quella che meglio rende il suo significato: controllo è la convinzione che ogni cosa vada assolutamente tenuta sotto controllo.

MAGREZZA NON E’ BELLEZZA – I DISTURBI ALIMENTARI: una patologia del controllo (Nr. 2)

 

La credenza del controllo

Come tutte le credenze legate a uno stato di sofferenza emotiva, non si tratta di un obiettivo positivo: il controllo non è cercato per ottenere un beneficio, ma per evitare un danno. Insomma, c’è timore, ansia, non desiderio. Ed è qui che appare la natura del disagio.
Quale poi sia il danno temuto, rimane per lo più indefinito. Anzi, è tipico dello stato di sofferenza psicologica che i guai paventati dal soggetto rimangano in una sfera indefinita. Tuttavia, si può dire che siamo nell’ambito della realizzazione di sé e delle relazioni umane: il danno temuto è l’emarginazione, il senso d’inadeguatezza personale e sociale, insomma lo sforzo di maturazione che inevitabilmente attende la giovane donna all’uscita dai confini e dalle limitazioni della vita familiare.

Questo sforzo di maturazione richiede una grande flessibilità mentale. Il controllo, di per sé, non è un fatto negativo. Un certo grado di controllo della realtà è benvenuto. Per esempio, tutti noi cerchiamo di conservare un aspetto gradevole in vista di relazioni affettive e professionali soddisfacenti. Tutti noi ci impegniamo nello studio o nel lavoro per ottenere buoni risultati scolastici o professionali. Tutti noi cerchiamo di controllare la nostra vita lavorativa, sociale, relazionale e affettiva. Tuttavia, dobbiamo saper accettare che il controllo della realtà non può essere assoluto. Ce lo dice il buon senso. Una personalità matura e flessibile è in grado di accettare questo limite. O almeno dovrebbe esserlo.

In realtà, i dati della psicologia evidenziano che il percorso seguito dalla persona non sofferente di un disturbo emotivo è meno lineare. Per Langer (1975), il soggetto non sofferente è colui che è capace di accettare un livello di controllo relativo, e al tempo stesso – e in maggior misura- riesce a esperire uno stato di controllo illusorio superiore a quello che realmente possiede.
Al contrario, l’individuo sofferente è colui che non è capace di accettare il suo grado di controllo imperfetto (imperfezione in sé normale) ed è proprio per questa sua incapacità che è perennemente sopraffatto dall’impressione di non riuscire a governare né gli eventi né le sue stesse reazioni (Rapee et al. , 1996; Sassaroli et al. , 2008; Stapinski et al. , 2010). La non sofferenza, o almeno la minore sofferenza della persona non colpita da un disturbo psicologico, è quindi una singolare combinazione di maggiore flessibilità e maggiore capacità di illudersi, di immaginare un mondo più consono ai bisogni e alle debolezze individuali.

Naturalmente, questo è vero anche per altri tipi di sofferenza. Lo stato depressivo può essere in parte un cosiddetto errore cognitivo, una distorsione. Ma in esso si cela anche una maggiore verità. Secondo alcuni studiosi, infatti, è proprio nella depressione che si raggiunge una valutazione più realistica della propria importanza, brillantezza sociale e capacità personali (Alloy, Abramson, 1979; Dobson, Franche, 1989).

Il controllo nei disturbi alimentari

I disturbi alimentari diventano quindi simbolici non solo per l’ossessione verso il cibo o l’aspetto corporeo, ma più ancora per l’ossessione di controllare la realtà e l’ossessione per la perfezione nello sviluppo individuale e la centralità dell’autostima personale su cui fondare il proprio benessere. In forme differenti, l’angoscia di non riuscire a controllare la realtà, la tensione individuale a realizzarsi e svilupparsi, la centralità dell’amor proprio si ritrovano anche in altre epoche. Con amor proprio si indicava infatti in passato la moderna autostima. Certo, l’intonazione era diversa. Il termine autostima riflette la qualità quantificante ed economica della contemporaneità. Tuttavia, si possono individuare dei motivi comuni nel cambiamento storico delle idee. Lo vedremo nel prossimo articolo.

 

RUBRICA MAGREZZA NON E’ BELLEZZA – I DISTURBI ALIMENTARI

TRAC: “Trauma thRee country postrAumatiC”. Uno studio su PTSD, credenze e dissociazione

Un nuovo filone di ricerca (Peri et al., 2015) “neuroscience psychotherapy” indaga indici neurosensoriali e markers dissociativi in vittime di traumi ripetuti. I fattori culturali, inoltre, potrebbero assumere alcune implicazioni nella strutturazione e nell’espressione clinica del PTSD e nelle credenze associate ad esso. Per migliorare la comprensione dei meccanismi alla base del cambiamento psicoterapeutico, questo studio ha esaminato l’associazione tra cognizioni legati al trauma, dissociazione e memorie traumatiche.

Ciulli T., Mazzoni, G., La Mela, C., Nacasch N. 

Introduzione

La maggior parte delle persone sperimenteranno un evento traumatico durante la loro vita. Linee guida sono state sviluppate negli ultimi dieci anni in materia di trattamenti per il PTSD. Numerose ricerche empiriche supportano l’efficacia di terapie basate sull’esposizione al trauma quali, la Terapia Cognitivo-Comportamentale (CBT), compresa la versione manualizzata dell’Esposizione Prolungata (PE); Terapia Cognitiva (CT), la Terapia Cognitiva Processuale (CPT) e Eye Movement Desensitization and Reprocessing (EMDR). Tutti questi trattamenti seppur differenti, enfatizzano elementi quali emozioni, valutazioni e credenze relative alle memorie traumatiche.

Un nuovo filone di ricerca (Peri et al., 2015) “neuroscience psychotherapy” indaga indici neurosensoriali e markers dissociativi in vittime di traumi ripetuti. I fattori culturali, inoltre, potrebbero assumere alcune implicazioni nella strutturazione e nell’espressione clinica del PTSD e nelle credenze associate ad esso. Per migliorare la comprensione dei meccanismi alla base del cambiamento psicoterapeutico, questo studio ha esaminato l’associazione tra cognizioni legati al trauma, dissociazione e memorie traumatiche.

Metodo

A tre gruppi, Israeliano (N=39), Italiano (N=48) ed Americano (N=35), è stata somministrata la scala Post Traumatic Cognitions Inventory, la Dissociative Experience Scale e sono state raccolte informazioni riguardanti età e sesso.

Risultati

Non emerge nessuna differenza tra le medie delle scale DES e PTCI tra i sessi. Nei dati degli altri paesi, oltre a quelli Israeliani, emergono delle correlazioni positive tra le credenze negative sul mondo e dissociazione (Italia 0.291 p < 0.05 tra PTCI Negative World e DES; Stati Uniti 0.385 p < 0.05 tra PTCI Negative World e DES Funzionamento Dissociativo). Tra le culture sussiste una differenza significativa nei livelli delle scale DES.

Conclusioni

Questi risultati hanno importanti implicazioni per la progettazione e realizzazione di programmi di trattamento psicologico per vittime di traumi. Infine, data la globalizzazione delle nostre società (Schnyder, 2013), questa ricerca supporta l’idea che psicoterapeuti sensibili agli aspetti culturali possano cercare di comprendere le componenti culturali di un quadro clinico. Sono necessarie ulteriori ricerche per garantire interventi tarati sulla cultura specifica del paziente.

Malattie croniche e identità: una revisione della letteratura

Le malattie croniche si costituiscono sempre di più come una delle principali cause di invalidità e morte nella moderna civiltà Occidentale. Le malattie croniche appaiono avere anche un importante impatto psicologico, sia sull’individuo che ne è affetto, sia sul suo contesto sociale.

Giulia Borsari – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi Modena

Le malattie croniche si costituiscono sempre di più come una delle principali cause di invalidità e morte nella moderna civiltà Occidentale. In particolare, secondo il rapporto dell’OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità) del 2014, il 92% della mortalità in Italia è da attribuirsi a malattie croniche, in particolare a patologie cardiovascolari (37%) e tumori (29%). Grazie allo sviluppo tecnologico ed al progresso scientifico, inoltre, la mortalità è diminuita e malattie che fino a pochi anni fa erano considerate acute e letali oggi possono essere annoverate tra le malattie croniche (per esempio, l’HIV può oggi essere considerato una malattia cronica, grazie all’introduzione della terapia antiretrovirale, che rende meno probabile lo sviluppo dell’AIDS, mentre fino agli anni ’90 tale patologia era senza dubbio letale). Tuttavia, la probabilità di morte per malattia cronica tra i 30 e i 70 anni si attesta attorno al 10%, tanto che l’OMS parla di rischio di epidemia di malattie croniche.

 

Differenza tra malattie croniche e patologie acute

Tali patologie presentano caratteristiche peculiari che le differenziano dalle patologie acute. In particolare, nelle malattie croniche lo sviluppo è incerto e imprevedibile fin dal principio: i sintomi possono comparire all’improvviso, causando uno sconvolgimento nella quotidianità della persona, o gradualmente, passando per normali segni di invecchiamento fino a quando non causano un notevole grado di disagio e disabilità; molto spesso, poi, si verifica un’alternanza di periodi di relativo benessere e periodi di riacutizzazione dei sintomi e questo contribuisce al clima di incertezza e impossibilità a prevedere e controllare il decorso della patologia (e quindi la propria vita).

Inoltre, i trattamenti sono rivolti ad attenuare i sintomi o a rallentare lo sviluppo della patologia, piuttosto che alla guarigione, che non è un risultato persegibile e la malattia risulta quindi illimitata. È molto interessante notare il lessico stesso con cui si parla della cronicità: mentre nel caso di malattie acute è frequente il ricorso a metafore proprie del mondo della guerra, in cui è previsto un vincitore (si spera il paziente) ed un vinto (nel migliore dei casi la malattia) (per esempio, combattere la malattia, sconfiggerla), nel caso della malattia cronica si fa riferimento a metafore proprie del mondo del business (ad esempio: bisogna gestire la malattia, fronteggiare le difficoltà e sviluppare sistemi di supporto) (Scandlyn, 2000).

 

L’impatto sociale e psicologico delle malattie croniche

Considerando le caratteristiche delle malattie croniche è evidente la rilevanza dell’impatto che esse possono avere, sia per i singoli individui che ne sono affetti (e le loro famiglie), sia per i sistemi sanitari e la società. Tale impatto è senza dubbio economico in quanto tali condizioni riducono la produttività lavorativa a causa delle difficoltà fisiche e delle progressive disabilità che spesso comportano; inoltre, le spese mediche frequentemente prosciugano le risorse economiche del singolo. Negli Stati Uniti, per esempio, le spese dovute alle sole cardiopatie sono passate dai 298,2 miliardi di dollari del 2000 ai 351,8 miliardi di dollari del 2008 (Cittadinanzattiva, 2011).

Le malattie croniche, tuttavia, appaiono avere anche un importante impatto psicologico, sia sull’individuo che ne è affetto, sia sul suo contesto sociale. Infatti, le patologie croniche devono diventare parte della quotidianità del paziente e della sua famiglia, al fine di garantire una migliore gestione e la massima compliance con i trattamenti medici e le terapie farmacologiche spesso indispensabili. Numerosi studi hanno evidenziato la maggiore incidenza di disturbi d’ansia e dell’umore, fino ad un maggior rischio suicidario nei pazienti affetti da patologie croniche rispetto a campioni normativi (Ewan, Lowy, Reid, 1991; Siegel e Leaks, 2002; Nordenstrom, 2011).

In questi studi si sottolinea come spesso le patologie croniche comportino cambiamenti nella vita quotidiana del paziente che incidono in modo negativo sulla sua qualità di vita e su suo benessere percepito, indipendentemente dalle sue condizioni di salute. In particolare, risultano essere fattori importanti la perdita del lavoro (o la necessità di cambiare mansione, adattandosi ad un lavoro che non consente di sentirsi realizzati), la perdita del proprio ruolo sociale e familiare (ci si sente di dipendere dagli altri familiari e di essere un peso per loro, in quanto le attività dei congiunti e degli amici devono spesso cambiare per adattarsi alle necessità dell’individuo malato) e la perdita di controllo sul proprio corpo (da un lato la malattia permane nonostante le terapie atte a contenerla, dall’altro lato gli individui percepiscono di essere oggetto di cura, piuttosto che soggetti attivi e consapevoli di questo processo) (Trabucco, 1999; Sanders e Donovan, 2002; Ripamonti, 2010).

 

Malattie croniche e identità

Sembra pertanto plausibile ipotizzare che la continuità e la pervasività che caratterizzano la malattia cronica costringano coloro che ne sono affetti ad un processo di ridefinizione della propria identità personale (intesa come un senso generale di continuità e di valore di sé nel tempo e nello spazio – Breakwell, 1986) e sociale (intesa come l’insieme di sentimenti e caratteristiche che un individuo prova e si attribuisce nel considerare la propria appartenenza a specifici gruppi sociali – Tajfel, 1981). In particolare, tali patologie possono caratterizzarsi come un evento che porta ad una frattura biografica (bury, 1982), una crisi che l’individuo deve superare per proseguire nel percorso di costruzione dell’identità (Erikson, 19??) o come un’esperienza che minaccia alcuni principi identitari (Breakwell, 1986).

Dall’analisi della letteratura prodotta dagli anni ’80 (nel 1982 Bury, per primo, analizza l’impatto di una patologia cronica, l’artrite reumatoide, sull’identità degli individui che ne sono affetti) al 2014 emerge che il tema delle implicazioni psicologiche delle malattie croniche è stato trattato approfonditamente e da diverse prospettive teoriche; sono state inoltre analizzate molteplici malattia croniche, differenti sia per le caratteristiche stesse della patologia, sia per la potenziale debilitazione che ciascuna comporta (è stato analizzato l’impatto sull’identità di diabete, artrite reumatoide, fibrosi cistica, sindrome da stanchezza cronica, lupus eritematosus, malattie cardiocircolarie, HIV…).

Sebbene queste patologie presentino ciascuna caratteristiche peculiari e specifiche, è stato possibile individuare implicazioni psicologiche comuni. In particolare, emerge come il corpo, sia nella sua dimensione estetica, sia in quella funzionale, costituisca il principale elemento sul quale la malattia cronica agisce. Infatti, lo sviluppo di una patologia cronica comporta spesso cambiamenti dell’aspetto fisico (a causa dei sintomi stessi della patologia, per il diverso stile di vita che spesso si deve adottare, per l’eventuale necessità di protesi e per le progressive riduzioni di funzionalità); anche quando questi cambiamenti non si verificano spesso i pazienti vivono nel timore che possano svilupparsi senza preavviso (Nordenstrom, 2011; Kelly e Field, 1996).

Il corpo costituisce, d’altronde, una importante dimensione dell’identità, ed è proprio attraverso il corpo che ci si relaziona al proprio contesto sociale. Kelly e Field (1996) sottolineano la stretta connessione tra gli aspetti corporei del sé e l’identità, entrambi aspetti centrali e connessi nell’esperienza di malattia cronica, così che alterazioni delle funzioni corporee possono comportare cambiamenti nel concetto di sé. In particolare, gli autori sottolineano come il corpo, spesso dato per scontato, smette di esserlo quando il suo funzionamento si deteriora; inoltre, l’assunzione dei farmaci e la percezione di un inevitabile peggioramento possono costituire un ostacolo alla percezione di continuità nel tempo e nello spazio (aspetto centrale nella definizione di un’identità stabile e soddisfacente – Breakwell, 1986).

Secondo Musacchio, Alberghini et al (2007), l’individuo deve arrivare a costituirsi una nuova identità, intesa come immagine di un sé comunque integro, nonostante la malattia e i cambiamenti funzionali che essa comporta. Alle stesse conclusioni arrivano anche Siegel e Leaks (2002) che rilevano come l’individuo affetto da malattia cronica sperimenti cambiamenti identiari cercando di integrare la malattia nella propria vita e nella percezione e proiezione di sé nel lungo periodo.

Emerge, inoltre, che le patologie croniche sembrano costituire un importante fattore di invalidità per le persone che ne sono affette. Tale invalidità non si riferisce solo alla funzionalità fisica, che viene inevitabilmente danneggiata dalla malattia, ma anche alla funzionalità personale e sociale e, soprattutto, all’identità. Autori che hanno preso in considerazione specifiche dimensioni dell’identità personale (autostima, autoefficacia, immagine corporea) rilevano come, frequentemente, in patologie anche molto diverse tra loro i pazienti sperimentino una perdita di controllo, sia per quanto riguarda la possibilità di gestire i sintomi, sia per l’imprevedibilità stessa della malattia (Doeglas, Surmejer, Krol, Danderman et al, 1995; Bellg, 2003; Musacchio, Alberghini et al, 2007).

Questo può avere un impatto profondo sul senso di competenza degli individui (autoefficacia), soprattutto in una società che valorizza l’efficienza e la capacità di farcela da soli. Inoltre, la perdita di funzionalità comporta, spesso, la perdita di autostima, oltre che la percezione di una cesura con il tipo di persona che si era prima dell’insorgere della patologia, con la conseguente percezione di una frattura nel senso di continuità (Ripamonti, 2010).

Anche la dimensione dell’immagine corporea risulta essere danneggiata, in quanto, come già sottolineato, una malattia cronica ha spesso un impatto sul corpo, comportando una importante modificazione dello schema corporeo di una persona (Slade, 1994; Trabucco, 1998; Secchiaroli, Mancini e DePaola, 2009; Nordenstrom, 2011).

Ciò che non risulta essere chiaro, tuttavia, è quali siano i fattori maggiormente in grado di minacciare i differenti aspetti dell’identità della persona affetta da malattia cronica; non risulta rintracciabile un’ipotesi relativa al ruolo giocato ad esempio dalla gravità delle malattie croniche, anche se è possibile ipotizzare che sia il grado di invalidità che la patologia comporta ad incidere sul senso di autoefficacia e forse anche sul senso di continuità sperimentati dai pazienti.

Altri autori hanno indagato l’impatto dello sviluppo di una patologia cronica su dimensioni specifiche dell’identità sociale. In questo caso la visibilità della sintomatologia e della malattia sembrano avere un ruolo rilevante per l’autostima del paziente, determinando esiti che vanno dalla stigmatizzazione (percepita o subita, nel caso di patologie maggiormente visibili, che fanno sentire chi ne è affetto facilmente riconoscibile come malato e per questo trattato in modo differente) (Joachim e Acorn, 2000; Millen e Walker, 2000; Suurmejer, Reuvekamp et al, 2001; Jacoby, Snape e Baker, 2005; Scambrel, 2009) alla delegittimazione (nel caso di patologie non visibili, che spesso non vengono riconosciute dal contesto sociale dell’individuo che tratta il paziente come un malato immaginario) (Ewan , Lowy e Reid, 1991; Kkleinman, 1992; Glenton, 2003; Montali, Frigerio et al, 2010).

In entrambi i casi l’impatto sull’autostima è evidente: sia la visibilità che l’invisibilità delle malattie croniche fanno sentire la persona che ne è affetta diversa dagli altri e dal modello ideale di essere umano, generando sensi di colpa, vergogna e isolamento sociale.

 

Tre modelli teorici per spiegare l’impatto delle malattie croniche sull’identità

Numerosi autori hanno preso in considerazione l’esito della patologia cronica sull’identità più generale. Sembrano emergere tre modelli, che si differenziano per la possibilità di individuare o ricostruire una continuità nella vita e nell’esperienza dei pazienti.

Il modello della frattura identititaria nella malattia cronica

Gli autori i cui contributi rispecchiano maggiormente il modello della frattura identitaria tendono a vedere la malattia come un momento di scissione irreparabile, o quasi, tra la vita di prima e quella dopo la diagnosi, sottolineando la portata distruttiva delle malattie croniche, considerandola come una forza disgregante (Bury, 1982; Charmaz, 1983; Ville, Ravaud, Diard e Paicheler, 1994; Ridson, Eccleston, Crombez e McCracken, 2003). Alcuni dei contributi che si inseriscono in questo modello più generale evidenziano, tuttavia, come tale frattura possa limitarsi ad alcune aree dell’identità o non essere così irreparabile, lasciando quindi spazio per la speranza di una, almeno parziale, continuità, anche se solo nel lungo periodo e solo in alcuni ambiti (Sanders, Donovan e Dieppe, 2002; Asbring, 2001; Larun e Malterud, 2007).

Il modello dello slittamento biografico nelle malattie croniche

Un differente modello è quello dello slittamento biografico; gli autori che risultano essere più vicini a questo modello tendono ad evidenziare la possibilità, per le persone affette da patologia cronica, di una (seppure faticosa) ricostruzione di una continuità biografica, soprattutto quando la transizione viene percepita come coerente con la propria fase di vita (Hagestad, 1996; Ellis-Hill, 1997; Faircloth, Boylstein, Rittman, Young e Gubrium, 2004; Costa, 2008; Jacobi e McLeod, 2011) . È presumibile ipotizzare che questo modo di far fronte alla malattia sia favorito da una insorgenza tardiva (una malattia che compare in età avanzata sembra avere un impatto meno distruttivo sull’identità in quanto l’idea di malattia è socialmente connessa all’idea di invecchiamento) o da percorsi terapeutici non troppo invasivi, che permettono all’individuo di continuare a svolgere la propria normale quotidianità (Karnilowicz, 2010).

Il modello della ristruttutazione identitaria per le malattie croniche

Il terzo modello riscontrato in letteratura si è, invece, focalizzato sugli aspetti di ristrutturazione identitaria, in termini positivi, che la patologia può comportare, permettendo di costruire, proprio grazie alla patologia cronica stessa, una nuova identità (Radley e Green, 1987; Siegel e Leaks, 2002; Reynolds, 2003; Kralick, Koch, Price e Howard, 2004; McCann, Illingworth, Wengstrom, Hubbard e Kearney, 2010). Tale modello sembra evidenziare una sorta di dinamicità dell’identità, ovvero la sua capacità di cambiare a fronte di stimoli anche negativi che vengono rielaborati ed integrati grazie ad un processo di assimilazione e accomodamento (Breakwell, 1986). È all’interno di questo modello che sembrano assumere maggiore maggiore importanza le risorse individuali e sociali; gli studi che si inseriscono all’interno di questo modello evidenziano, infatti, come sia il senso di controllo sul proprio corpo e sulla terapia a permettere ai pazienti di mantenere un buon livello di autoefficacia, sottolineando contemporaneamente l’importanza che il supporto sociale e le rappresentazioni sociali delle malattie croniche possono avere nel mantenere adeguata l’autostima e il senso di specificità delle persone affette da patologie croniche.

 

Conclusioni

Emerge, quindi la possibilità di gradi diversi di integrazione della malattia cronica all’interno della propria identità, come modalità per far fronte ai problemi identitari generati da una patologia cronica; tale continuum sembra svilupparsi da una mancata integrazione ad un’integrazione quasi completa. Tuttavia, la molteplicità delle patologie considerate nei diversi studi e i loro diversi gradi clinici di visibilità e gravità non consentono di definite quali patologie possono permettere un grado maggiore o minore di integrazione. Appare importante sviluppare studi che permettano di individuare quali malattie croniche o quali fattori che le caratterizzano risultano favorire un grado di integrazione della patologia nella propria identità per una gestione clinica dei pazienti più utile sia a favorire una adeguata compliance al trattamento terapeutico, sia, soprattutto, nel mettere i pazienti nella condizione di sperimentare il maggior benessere psicofisico possibile, mantenendo una adeguata qualità di vita.

La stessa Organizzazione Mondiale della Sanità sottolinea, infatti, l’importanza della dimensione psicologica, oltre che quella fisica, per il benessere degli individui. Emerge infatti che una patologia non integrata comporta sofferenza persistente e duratura che invade tutti gli ambiti della vita dei pazienti che ne sono affetti; inoltre, non bisogna dimenticare che lo stesso contesto familiare e sociale all’interno del quale vive un individuo con patologia cronica viene inevitabilmente investito dalla diagnosi del proprio congiunto, sottolineando il coinvolgimento delle relazioni familiari nel contesto di cura.

L’eccitamento sessuale incrementa il risk-taking, anche nel gioco d’azzardo!

L’eccitamento sessuale può influenzare il processo di decision-making, spingendo il soggetto ad assumere un profilo di rischio più alto, anche in situazioni non connesse all’atto sessuale.

Un gruppo di ricercatori canadesi ha scoperto che l’eccitamento sessuale può influenzare il processo di decision-making, spingendo il soggetto ad assumere un profilo di rischio più alto, anche quando le situazioni dov’è chiamato ad agire non sono connesse alla copulazione.

Sebbene sia noto da tempo come l’arousal prodotto da stimoli sessuali possa ridurre la predisposizione all’uso del profilattico, nessuno studio in precedenza ha valutato l’impatto dei medesimi stimoli sul processo di decision making più in generale. Per tale motivo la dott.ssa Shayna Skakoon-Sparling e i suoi colleghi hanno reclutato 144 studenti del college, dicendo loro di stare indagando le differenze di genere in rapporto alle preferenze per i video.

I partecipanti erano avvertiti del fatto che sarebbero stati esposti a materiale sessualmente esplicito e che avrebbero dovuto svolgere dei compiti distraenti tra un video e l’altro.

Gli studenti erano poi divisi in due gruppi. Il primo gruppo guardava quattro video a contenuto sessualmente esplicito, mentre il secondo guardava quattro video che rappresentavano comuni interazioni tra uomo e donna di carattere non esplicito. Tra un video e l’altro, i partecipanti completavano un questionario che raccoglieva informazioni demografiche e uno per misurare il loro livello di eccitamento sessuale. Un terzo questionario, infine, proponeva degli scenari di risk-taking in ambito sessuale e non.

Stando ai risultati, i partecipanti che riportavano di essere eccitati sessualmente dopo la visione dei filmati risultavano essere più propensi al coinvolgimento in rapporti sessuali a rischio (es: rapporto non protetto con partner appena conosciuto). Tali risultati emergevano sia tra i maschi che tra le femmine, anche se la significatività era maggiore tra i maschi.

Uno dei risultati più interessanti era che la maggiore propensione al rischio di questi individui non si manifestava solo in situazioni connesse con il sesso.

In un secondo esperimento, infatti, i ricercatori identificarono tra i partecipanti la stessa tendenza per quanto riguardava il gioco d’azzardo. Questo secondo disegno di ricerca coinvolgeva 122 studenti del college che, invece di completare un questionario riguardante la disposizione ad assumersi il rischio nei rapporti sessuali, richiedeva ai partecipanti di giocare ad una versione di Blackjack a computer. Il gioco proponeva situazioni ambigue in cui il partecipante aveva la possibilità di optare tra una mano rischiosa o una più sicura.

I ricercatori notarono che la media delle partite rischiose aumentava quando i partecipanti erano eccitati sessualmente.

Questo risultato secondo il team di ricercatori è fondamentale, in quanto educare gli individui a diventare consapevoli di come le abilità di decision-making possano essere facilmente influenzate dall’eccitamento sessuale sarebbe il primo passo nell’aiutarli non cedere a comportamenti impulsivi potenzialmente rischiosi.

Seminario a Milano + Webinar – Il ruolo del trauma nella salute mentale. Il contributo della terapia EMDR (Ordine Psicologi Lombardia)

Data evento: 16/02/2016
Orari: dalle ore 20:30 su webinar o 20:15 in sede alle ore 22:00
Luogo evento: Piattaforma Webinar e Casa della Psicologia – Piazza Castello 2, Milano

L’ EMDR ha dimostrato di essere una terapia efficace nel trattamento del PTSD cronico e dei ricordi traumatici che sono alla base di molti disturbi mentali. L’obiettivo del trattamento EMDR è quello di affrontare gli aspetti del passato, presente e futuro in relazione ad eventi traumatici, al fine di elaborarli. Una volta desensibilizzati e rielaborati, i sintomi postraumatici mostrano una remissione significativa. Inoltre, i pazienti riportano cambiamenti comportamentali e una crescita postraumatica. L’applicazione del trattamento EMDR a individui che sono stati esposti a trascuratezza infantile e traumi interpersonali, risulta ad oggi un’area molto promettente. Secondo la ricerca scientifica e diversi studi randomizzati, la terapia EMDR risulta essere efficace non solo nel caso di traumi che soddisfano i criteri “A”, ma anche nel caso di “traumi relazionali dell’infanzia”. Secondo la prospettiva del modello della Elaborazione Adattiva dell’Informazione, le credenze negative, emozioni e sensazioni associate a stress cronico derivante da esperienze di violenza domestica, abuso di tipo fisico, sessuale o psicologico, rifiuto e trascuratezza, possono venire immagazzinati in maniera disfunzionale nelle reti mnestiche e possono contribuire allo sviluppo di disturbi mentali. Nel corso della presentazione, verranno mostrati i risultati della ricerca condotta sui cambiamenti post-trattamento EMDR, assieme a risultati provenienti dal campo della neurofisiologia, della clinica e dai resoconti personali dei pazienti.
Ci introdurrà a questo tema Isabel Fernandez, docente in varie scuole di Psicoterapia e in vari corsi di specializzazione in psicologia dell’emergenza, in psicologia clinica e delle organizzazioni.
Presidente Associazione per l’EMDR in Italia e docente corsi EMDR.
Membro del Consiglio Direttivo FISSP (Federazione Italiana Società Scientifiche di Psicologia) e dell’European Society for Traumatic Stress studies.
Autrice di varie pubblicazioni in riviste scientifiche e di libri sul Trauma e sull’EMDR.
Direttrice del Centro Ricerca e Studi in Psicotraumatologia, dove si occupa dello studio, l’insegnamento, la ricerca e l’intervento sui problemi legati alla psicotraumatologia e altri disturbi mentali.
Membro dello Standing Committee Crisis, Trauma and Disaster dell’European Federation of Psychologists Association. Delegata nazionale al Consiglio d’Europa per gli interventi di supporto psicologico in caso di disastri collettivi.

Vi aspettiamo il 16 febbraio alle 20:15 in sede, presso la Casa della Psicologia in Piazza Castello 2 a Milano, o alle 20:30 sulla piattaforma gotowebinar di OPL.

Per partecipare via web, ti invitiamo a iscriverti seguendo il form disponibile in questa pagina. Se desideri partecipare dal vivo puoi mandare una mail a [email protected] ma devi arrivare almeno un quarto d’ora prima dell’inizio del seminario (quindi alle 20:15).

Webinar – Il ruolo del trauma nella salute mentale. Il contributo della terapia EMDRConsigliato dalla Redazione

L’ EMDR ha dimostrato di essere una terapia efficace nel trattamento del PTSD cronico e dei ricordi traumatici che sono alla base di molti disturbi mentali. L’obiettivo del trattamento EMDR è quello di affrontare gli aspetti del… (…)

Tratto da: opl.it

 

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Impotenza sessuale maschile: caratteristiche, cause e trattamento

Obiettivo fondamentale di una psicoterapia efficace per l’impotenza sessuale maschile è stabilire un livello di intimità che metta entrambi a proprio agio, stimolando il desiderio sessuale e alleviando il disagio e la vergogna associati al disturbo.

Impotenza sessuale maschile: caratteristiche e dati del disturbo

Il disturbo maschile dell’erezione, definito comunemente impotenza sessuale, presenta una serie di caratteristiche distintive, necessarie per procedere alla diagnosi, secondo quanto riportato nel DSM-V (American Psychiatric Association, 2013):

  • Persistente o ricorrente incapacità di raggiungere o mantenere un’adeguata erezione, fino al completamento dell’attività sessuale, ovvero marcata riduzione della rigidità dell’erezione, nella misura minima del 75% delle occasioni di attività sessuale, e per un periodo di almeno sei mesi
  • L’anomalia causa notevole disagio o difficoltà interpersonali
  • La disfunzione non è meglio attribuibile ad altro disturbo psichiatrico (diverso da una disfunzione sessuale) e non è dovuta esclusivamente agli effetti fisiologici diretti di una sostanza o di una condizione medica generale.

I dati sul fenomeno dell’impotenza sessuale maschile mostrano tutta la sua rilevanza per il benessere personale e di coppia: uno degli studi italiani più autorevoli, risalente al 2000, mostra come circa il 13% della popolazione maschile italiana (circa tre milioni, inclusi single e vedovi) presenti impotenza sessuale, considerando i pazienti che soffrono sia di episodi ricorrenti, sia occasionali. Di questi, il 70% ha più di sessant’anni (Parazzini e coll., 2000).

 

Le cause dell’impotenza sessuale maschile

Le cause riconosciute dell’impotenza sessuale maschile sono di natura sia organica che psicologica, con la componente psicologica che amplifica e aggrava i problemi di natura fisica.

 

Cause organiche dell’impotenza

Riguardo alle cause organiche si riconosce un’impotenza sessuale maschile di natura arteriosa che determina un deficit di riempimento e una di natura venosa, che si manifesta con un deficit di mantenimento. Nel primo caso la rigidità del pene non è sufficiente per consentire la penetrazione (la pressione del sangue nelle arterie cavernose è troppo bassa per riuscire a distendere completamente i corpi cavernosi), mentre nel secondo l’erezione completa, se raggiunta, scompare molto rapidamente. All’interno dei trattamenti oggi disponibili si ricordano le protesi peniene (strutture meccaniche o idrauliche, che realizzano uno stato di erezione a richiesta, attraverso un dispositivo manuale), la chirurgia vascolare e l’utilizzo di sostanze vasoattive, la più nota delle quali è la papaverina (Dèttore, 2001).

Cause comportamentali dell’impotenza

L’ impotenza sessuale maschile può anche essere causata da cattive abitudini di vita, come la mancanza di esercizio fisico, il riposo insufficiente, il fumo (con riduzione della velocità del flusso ematico nelle arterie che irrorano i corpi cavernosi del pene e un deterioramento delle vie respiratorie), e l’abuso di alcol e droghe (Metz e McCarthy, 2004).

Circolo vizioso di depressione e impotenza sessuale

E’ importante sottolineare che ogni uomo affetto da una malattia cronica debilitante vive spesso un grave stato depressivo che può a sua volta essere causa di scarse prestazioni sessuali: si viene così a creare un circolo vizioso autoalimentato che esaspera lo stato depressivo e l’insoddisfazione per la vita sessuale (Dèttore, 2001).

 

Fattori psicogeni dell’impotenza

I fattori psicogeni che condizionano in maniera rilevante l’attività sessuale sono ansia e stress cronico (Dèttore, 2001). Essi possono essere di per sé responsabili del deficit erettile (senza cause organiche evidenziabili con gli attuali strumenti di diagnosi) o possono svilupparsi conseguentemente a un deficit erettile organico, amplificandolo e mantenendolo.

Impotenza e ansia da prestazione sessuale

L’ansia da prestazione sessuale (timore dell’insuccesso) impedisce di vivere la propria sessualità come momento di piacere, di modo che essa diviene fonte di angosce legate a fallimento e derisione, con crollo dell’eccitazione e accentuazione della vasocostrizione, mentre l’erezione necessita di una piena vasodilatazione arteriosa dei vasi del pene. Alla paura si associa aggressività e senso di colpa e di inadeguatezza nei confronti del/la partner, con conseguente paura di abbandono ed evitamento dell’attività sessuale, vissuta esclusivamente come fonte di sofferenza e squalifica.

Impotenza e stress cronico

Lo stress cronico (per esempio preoccupazioni economiche o problemi di salute) provoca, da parte sua, un abbassamento dei livelli di testosterone (l’ormone maschile) che deprime l’attività sessuale e il piacere che ne deriva. Fattori stressanti che interessano la relazione di coppia, oltre che il singolo, influenzano negativamente la capacità di iniziare e/o mantenere un’erezione adeguata: i conflitti, la distanza emotiva o l’insoddisfazione verso la relazione sono infatti in grado di compromettere quella complicità su cui si basa la sicurezza di poter avere un’erezione (Metz e McCarthy, 2004).

 

Psicoterapia per l’impotenza sessuale maschile

Ecco perché obiettivo fondamentale di una psicoterapia efficace per l’impotenza sessuale maschile è di stabilire un livello di intimità che metta entrambi a proprio agio, stimolando il desiderio sessuale e alleviando il disagio e la vergogna associati al disturbo erettile, che riguardano sì il partner affetto, ma coinvolgono altresì il benessere di coppia complessivo.

Cause organiche e psicologiche (sia individuali che attinenti alla sfera della vita di coppia) si integrano e influenzano in un grave circuito di automantenimento che deve essere tempestivamente interrotto: ecco perché il moderno approccio per l’impotenza sessuale maschile non può che essere multidisciplinare e integrato, in cui sempre più medici specialisti, in prima linea uro-andrologi o endocrinologi, integrano la loro formazione professionale con una solida preparazione sessuologica e psicoterapeutica (Dèttore, 2001).

 

Terapia cognitivo-comportamentale per l’impotenza sessuale maschile

La terapia a orientamento cognitivo-comportamentale per l’impotenza sessuale maschile prevede, accanto a momenti di psicoeducazione (migliore conoscenza delle cause del problema e, più in generale, dei meccanismi sottostanti al processo di erezione), tecniche comportamentali (come la Focalizzazione Sensoriale II ideata da Masters e Johnson che prevede il coinvolgimento della partner, puntando quindi sul rapporto di coppia) e cognitive (esame delle credenze relative al sesso e all’erezione).

La procedura di focalizzazione sensoriale per la disfunzione erettile

La procedura di Focalizzazione Sensoriale prevede, in generale, che i partner interagiscano accarezzandosi a turno il corpo nudo, in un ambiente rilassato, includendo gradualmente l’area genitale. Fulcro del metodo è, per espresso ordine del terapeuta, il divieto assoluto della penetrazione, con la possibilità di raggiungere l’orgasmo con qualsiasi tecnica a scelta, ma senza impiegare in alcun modo la penetrazione. In tal modo, la sfera sessuale, divenuta connotata negativamente in seguito alla disfunzione sessuale, viene affrontata gradatamente; la manifestazione di affetto attraverso il contatto fisico viene agevolata, senza essere evitata, situazione frequente, dal momento che essa viene considerata tra i preliminari di un rapporto sessuale.

Per favorire la stimolazione tattile e migliorare la comunicazione sessuale si possono utilizzare lubrificanti, oli profumati, anche vibratori.

 

Durante la Focalizzazione Sensoriale II la partner stimola manualmente il pene dell’uomo fino a un’erezione, più o meno completa, e poi smette finché essa non diminuisce, per poi riprenderla attraverso una nuova stimolazione. Lo scopo è dimostrare all’uomo che l’erezione può calare, ma poi essere recuperata e che, soprattutto, non è indispensabile che un uomo normale debba costantemente mantenere l’erezione, tipica idea disfunzionale alla base dell’ansia da prestazione, bersaglio altresì delle tecniche cognitive (Master e Johnson, 1970, citato in Dèttore, 2001).

A questo punto la Kaplan (1970) suggerisce la pratica del coito inesigente in cui la donna inserisce il pene eretto del partner in vagina, stando in genere sopra di lui e compiendo dei movimenti lenti e poco ampi, come ulteriore passo verso il rapporto sessuale vero e proprio (citato in Dèttore, 2001). A tale pratica può favorevolmente essere abbinato un training sulle fantasie sessuali, così da incrementare ulteriormente la propria eccitazione e impedire, contemporaneamente, l’insorgere di eventuali pensieri ansiogeni (Dèttore, 2001).

 

Tecniche cognitive per l’impotenza sessuale

Le tecniche cognitive per l’impotenza sessuale maschile si focalizzano sulla ristrutturazione cognitiva di atteggiamenti, modi di pensare e convinzioni disfunzionali irrealistici riguardanti il sesso (con l’analisi dei pensieri automatici negativi al fine di sostituirli con pensieri più adeguati e meno ansiogeni). Tipici pensieri irrazionali e ansiogeni sono del tipo ‘L’erezione, una volta persa, non può essere nuovamente raggiunta‘, oppure ‘L’uomo deve sempre prendere l’iniziativa e gestire il rapporto sessuale’ o ancora ‘La vita dell’anziano è asessuata‘.

Lo sviluppo morale nel bambino: teorie recenti – Introduzione alla psicologia

Sviluppo morale nel bambino: Ci siamo lasciati la scorsa volta parlando delle teorie di Piaget e di Kohlberg. Ben presto, però, tali teorie sono state criticate in quanto si osservò come in culture diverse molti degli stadi  di sviluppo si mescolavano oppure erano presenti contemporaneamente. Di fatto, forme di moralità diverse sono proprie di differenti contesti culturali e subculturali.

INTRODUZIONE ALLA PSICOLOGIA RUBRICA DI DIVULGAZIONE SCIENTIFICA IN COLLABORAZIONE CON LA SIGMUND FREUD UNIVERSITY DI MILANO

Lo sviluppo morale: introduzione

Lo sviluppo della moralità nel bambino, come già detto nell’articolo della scorsa settimana, risulta essere una tematica di grossa portata sia da un punto di vista psicologico sia da quello sociale. Capire come si genera la moralità nel bambino aiuta a comprendere meglio se stessi nell’interazione sociale e aiuta a orientare i criteri educativi quando si svolge un ruolo di educatore/genitore. Per questo è importate approfondire le altre teorie esistenti in merito allo sviluppo morale.

Lo sviluppo morale: Altre teorie

Ci siamo lasciati la scorsa volta parlando delle teorie di Piaget e di Kohlberg. Ben presto, però, tali teorie sono state criticate in quanto si osservò come in culture diverse molti degli stadi  di sviluppo si mescolavano oppure erano presenti contemporaneamente. Di fatto, forme di moralità diverse sono proprie di differenti contesti culturali e subculturali.

Lo sviluppo morale secondo Turiel

Negli anni ‘70 studi più estesi iniziarono a mostrare proprio queste anomalie nella sequenza degli stadi di sviluppo delle moralità. Una delle più produttive linee di ricerca emerse in quegli anni fu quella di Elliot Turiel : la teoria del dominio.

Secondo tale teoria nei bambini a partire dai 39 mesi si differenziano 2 rispettivi domini (ambiti) concettuali: le convenzioni sociali e gli imperativi morali. Azioni nel dominio della moralità hanno effetti intrinseci, mentre azioni che riguardano la sfera sociale non hanno effetti intrinseci interpersonali ed è per questo che trasgredire le convenzioni è ritenuto meno grave che disobbedire alle norme morali universalmente riconosciute. Moralità e convenzioni occupano quindi ambiti distinti, paralleli.

Lo sviluppo morale secondo Gilligan

La seconda maggiore critica alla teoria di Kohlberg fu rivolta da Carol Gilligan che, tra l’altro, gli rimproverò di avere utilizzato solo maschi nelle interviste, ricavandone una visione incompleta e sbilanciata. Gilligan sviluppò un concetto di moralità del prendersi cura in alternativa alla moralità della giustizia e dei diritti. Moralità, quindi, non come obbligo a non trattare gli altri in modo scorretto, ma come non sottrarsi dall’aiutare qualcuno nel bisogno.

Lo sviluppo morale secondo Bandura

Bandura (1991), più tardi, assumendo una prospettiva di interazionismo cognitivo-sociale, ha contestato a Kohlberg la concezione di una gerarchia precostituita di forme di moralità, pur riconoscendo l’esistenza di forme di ragionamento morale universali. La prospettiva teorica di Bandura considera lo sviluppo morale all’interno di un processo interattivo globale, dove entrano fattori individuali-personali e ambientali-sociali.

In questa teoria è stata data un’attenzione specifica all’organizzazione dei controlli interni, considerata come parte integrante della moralità: di essa fanno parte le auto-sanzioni, che possono assumere carattere anticipatorio e prevenire comportamenti contrari ai propri modelli.

Bandura ha approfondito i meccanismi e le condizioni che nel corso della socializzazione determinano l’attivazione e la disattivazione dei controlli morali interni, agendo così come cause del comportamento immorale da parte di persone e gruppi pur capaci delle più elevate forme di ragionamento morale. Egli ha individuato alcuni di questi meccanismi:

  • la giustificazione morale, attraverso la quale comportamenti socialmente deleteri vengono resi accettabili personalmente e socialmente attraverso una loro ricostruzione cognitiva o forme di ideologizzazione;
  • la dislocazione della responsabilità, nella quale opera un processo di attribuzione causale delle responsabilità di un atto a persone o a circostanze, per es., facendo riferimento all’autorità di superiori gerarchici, depositari del potere decisionale;
  • la diffusione della responsabilità, dove le decisioni del gruppo o le esigenze del sistema frammentano o oscurano le responsabilità individuali, in modo che tutti siano colpevoli o nessuno lo sia;
  • la non considerazione o distorsione delle conseguenze, nella quale opera una minimizzazione o una selezione strumentale nella rappresentazione delle conseguenze positive o negative dell’atto;
  • la svalutazione, realizzata attraverso il biasimo o la negazione di caratteristiche umane di altre persone.

Questi processi di disattivazione o disimpegno dei controlli morali non agiscono insieme e subitaneamente, ma in diversi modi e a seconda delle circostanze: vi è così una graduale diminuzione delle auto-sanzioni, che può portare a un progressivo allentamento delle capacità inibitorie.

Caprara e collaboratori, basandosi sulle concezioni teoriche di Bandura, misero a punto uno strumento standardizzato (Scala di Disimpegno Morale) atto a misurare i meccanismi cognitivi del disimpegno morale in bambini della scuola elementare e preadolescenti.

D’altra parte nell’ambito del comportamentismo lo sviluppo morale è stato studiato, in primo luogo, come un aspetto dell’apprendimento: l’individuo impara le norme di comportamento morale attraverso la sequenza delle esperienze in cui alcuni atti sono soggetti a rinforzi positivi, mentre altri sono soggetti a punizioni. In questo ambito è stato utilizzato un quadro teorico composito dove gli assunti comportamentisti si fondono con quelli a carattere sociale, cognitivo e familiare.

Alcuni studiosi di ispirazione comportamentista hanno formulato una teoria del doppio binario per quanto riguarda i rapporti fra lo sviluppo del ragionamento e quello del comportamento morale: il primo seguirebbe una sequenza stadiale su basi cognitive, mentre l’azione morale verrebbe sviluppata nel contesto dell’apprendimento sociale. Fra i diversi orientamenti di ispirazione comportamentista, che si sono occupati più estesamente dello sviluppo morale, il principale è il Social Learning. In questa impostazione, si ritiene che i bambini inizialmente apprendano i comportamenti moralmente rilevanti attraverso l’osservazione e l’imitazione di modelli appropriati; questi comportamenti aumentano di frequenza se sono opportunamente rinforzati.

Inoltre, emerge che vi sono due tipi di disposizioni temperamentali che possono avere un peso significativo ai fini dello sviluppo della coscienza morale. La prima è una componente di disagio affettivo e consiste nella maggiore o minore propensione a sviluppare arousal, stati emotivi di paura, ansietà, sensi di colpa o rimorso in rapporto ad una trasgressione commessa o anticipata nella rappresentazione. La seconda si esprime nella diversa capacità di resistere ad un impulso proibito, di esercitare un autocontenimento, di sostituire un atto desiderabile a quello proibito.

Queste tendenze non sono solo espressione di fattori biologici, ma derivati dell’interazione della natura del bambino e la sua esperienza relazionale.

Lo sviluppo morale: conclusioni

Le teorie pionieristiche di Piaget e Kohlberg hanno contribuito a descrivere le linee generali di sviluppo morale. Uno dei fondamentali assi portanti di queste linee di sviluppo è quello che conduce da una moralità di tipo eteronomo ad una moralità orientata nel senso dell’autonomia e guidata da principi di tipo universale. Si deve sottolineare che, malgrado le evidenti differenze tra le prospettive teoriche, emerge come sia centrale il processo di internalizzazione, che consente al bambino di sostituire progressivamente al controllo morale, imposto da agenti esterni un sistema di principi interni legati all’identità personale, la coerenza del Sé. Tale processo si mantiene permanente nel tempo e orienta il comportamento in circostanze ed occasioni differenti.

 

RUBRICA: INTRODUZIONE ALLA PSICOLOGIA

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Disponibilità emotiva genitoriale e depressione in adolescenza: uno studio empirico

Questo articolo ha partecipato al Premio State of Mind 2014 Sezione Junior

Disponibilità emotiva genitoriale e depressione in adolescenza: uno studio empirico

Autore: Ilaria Fioretti (Università degli Studi di Chieti ‘Gabriele D’Annunzio’)

Abstract

A partire da un crescente corpus di ricerche (Carr, 2008; Kerr et al., 2006) che sostengono che condizioni familiari non ottimali possono influenzare lo status psicopatologico dei figli in età evolutiva, abbiamo cercato di verificare se la disponibilità emotiva genitoriale sia correlata con la depressione in adolescenza. Il campione è costituito da 437 ragazzi (213 maschi e 224 femmine), 286 madri e 271 padri. Il campione dei ragazzi è stato suddiviso per fasce di età: una relativa alla fase di latenza (N=60) con età media di 10,15 anni, e una alla prima adolescenza (N=376) con età media di 12,67.

Le somministrazioni, effettuate collettivamente, hanno previsto l’uso dei seguenti strumenti: Children Depression Inventory (CDI), Rosenberg Self-Esteem Scale (RSE) e Lum Emotional Availability of Parents (LEAP). Madri e padri hanno compilato la forma genitoriale della LEAP costruita in maniera speculare a partire dal questionario dei bambini. Abbiamo, infine, effettuato dei colloqui con i genitori che ci hanno accordato la loro disponibilità. Con il gruppo della prima adolescenza abbiamo utilizzato l’Intervista sull’Esperienza dei Genitori di preadolescenti e adolescenti (IEG-Ad), mentre l’Intervista al Genitore di un figlio in età di Latenza (IGL) è stata utilizzata per i genitori del gruppo dei bambini in età di latenza. Dai risultati ottenuti possiamo concludere che la disponibilità emotiva genitoriale è correlata negativamente con i livelli di depressione negli adolescenti. I livelli medi di depressione risultano maggiori nei casi di conflittualità familiare. Il modo in cui i ragazzi percepiscono i genitori emotivamente disponibili, inoltre, è correlato al modo in cui i genitori ritengono di essere emotivamente disponibili nei confronti dei loro figli. Le relazioni con gli adulti significativi, quindi, risultano fondamentali in età evolutiva e se positive sembrano fungere da fattori protettivi verso sintomatologie di natura depressiva.

 

Abstract (English)

In the last years, research has been interested to study of the relationship between parents and children, and their developmental outcomes both in childhood and in adolescence (Duhig, Phares, 2005). There was evidence that the children who live in situation of poor family relationships are more likely to developing mental disorders (Eshbaugh, 2008). The idea of this work was designed by observing the growing evidence of centrality of parental role in the development and psychological well-being of young adolescents. Literature emphasizes that the family conditions affect the status of children in childhood psychopathology (Burge, Hammen, 1991; Carr, 2008; Kerr, Preuss, King, 2006).

 

Keywords: disponibilità emotiva, genitori, adolescenza, depressione, sviluppo

 

ALLEGATO 1ALLEGATO 2 – ALLEGATO 3

 

In quali occasioni i cinesi perdono la faccia?

The Chinese Mind: cronache psicologiche dalla Cina

Abbiamo già accennato al concetto di faccia nell’articolo Perdere la faccia. Per faccia si intende la valutazione della propria immagine pubblica a seguito dell’interpretazione soggettiva dell’impatto delle proprie azioni in una data situazione sociale (Brown and Lewinson, 1987).
Ma in quali occasioni i cinesi percepiscono di “perdere la faccia”?

Lo studio di Zuo (1997) è estremamente utile per comprendere tale fenomeno. L’autore ha intervistato 192 cittadini cinesi residenti nella Repubblica Popolare Cinese nell’area del Wuhan e ha chiesto loro di immedesimarsi in 30 specifici episodi e di valutare il grado in cui percepivano di poter perdere la faccia.

Dalle analisi sono emerse quattro macrocategorie di situazioni implicate nel concetto di perdere la faccia (in altre parole, “si perde la faccia quando il soggetto attua….”):
– Comportamenti contro la morale: discorsi o azioni che violano l’etica sociale e gli standard morali condivisi dalla società, oppure azioni criminali che violano le leggi nazionali. Al contrario, il rispetto e l’attenersi alle leggi con comportamenti di integrità consentono di “guadagnare” faccia.
– Comportamenti che denotano incompetenza e/o incapacità: se non si riesce a portare a termine con successo un compito o attività nel momento in cui si ritiene che l’individuo abbia le capacità per farlo oppure la performance è notevolemente inferiore a quella di altri, è molto probabile che la persona perda la faccia.
– Cattive abitudini: Cattive abitudini e comportamenti ritenuti sgraziati, rozzi e poco eleganti nella vita quotidiana, come ad esempio slacciarsi la cintura dei pantaloni mentre si mangia, essere disordinati, poco curati nell’aspetto e nell’igiene, allacciarsi i bottoni in modo sbagliato, utilizzare un linguaggio scurrile e persino polemizzare per piccole quantità di denaro sono episodi in relazione ai quali si perde la faccia. Viceversa, essere puliti e ordinati, eleganti e ben educati facilita il mantenimento della faccia.
– Condivisione e divulgazione della privacy. Si perde la faccia se una persona, anche accidentalmente, mostra parti del corpo generalmente coperte, subisce un’ invasione della propria privacy e quando pensieri o intenzioni “cattive” vengono inferite o indovinate da altri.

Lo studio di Zuo (1997) riporta risultati simili e sovrapponibili a quello di Chu (1991) precedente in termini temporali e effettuato su un campione della popolazione di Taiwan.
Quindi, le categorie sopra descritte rimandano ai valori dell’etica confuciana di benevolenza, rettitudine e decoro. I comportamenti appropriati vengono enfatizzati nelle interazioni con l’altro in cui la persona può manifestare e ricevere rispetto dall’interlocutore; in tal senso il concetto di faccia è strettamente connesso alla reputazione che ci si costruisce all’interno della propria rete sociale.

La mancata diagnosi del disturbo bipolare nel Regno Unito

A circa il 10% dei pazienti britannici, nel corso di cure primarie, vengono prescritti antidepressivi per la depressione o per l’ansia. In realtà Hughes e colleghi hanno dimostrato di come spesso si tratti di un disturbo bipolare non diagnosticato.

Questi ricercatori, dalla Leeds e York Partnership NHS Foundation Trust e dalla Scuola di Medicina presso l’Università di Leeds, hanno intervistato alcuni giovani medici generali, raccontando il tutto in uno studio pubblicato successivamente sul British Journal of General Practice.

Il Disturbo Bipolare si presenta spesso in comorbilità con la depressione, e può essere difficile da diagnosticare. Inoltre capita spesso che le persone che allo stesso tempo hanno vissuto periodi di sintomi di umore elevato (ad es. maggiore energia e attività, una maggiore fiducia, over-loquacità, elevata distrazione), spesso non riconoscano questi eventi come significativi e non ne parlano al loro medico. Tutto questo è però molto pericoloso, in quanto può portare a un trattamento inappropriato, come ad esempio la prescrizione di antidepressivi senza l’affiancamento di un farmaco stabilizzatore dell’umore. Tale scenario, potrebbe infatti aumentare il rischio di permanenza di un umore instabile.

Lo studio di Hughes, ha rilevato che tra le persone di età compresa tra i 16 e i 40 anni a cui vengono prescritti farmaci antidepressivi per la depressione o per l’ansia, circa il 10% soffriva di Disturbo Bipolare non riconosciuto. In particolar modo, questa assenza di diagnosi, era maggiormente diffusa tra i pazienti più giovani, e tra coloro che avevano riportato episodi depressivi maggiormente gravi. Lo studio sottolinea quindi, come gli operatori sanitari dovrebbero rivedere le storie di vita dei pazienti affetti da Ansia o Depressione, in particolare quelle dei pazienti più giovani.

Il dottor Tom Hughes, che oltre ad essere l’autore principale dello studio, è anche Consulente Psichiatra alla Leeds e York Partnership NHS Foundation Trust e all’Università di Leeds, ha detto:

Il Disturbo Bipolare è un problema serio, caratterizzato da alti livelli di disabilità e da un elevato rischio di suicidio. Quando esso è presente nei pazienti depressi, può essere facilmente trascurato. Una sotto-diagnosi e una sovra-diagnosi delle malattie possono creare grossi problemi. I nostri medici generali praticanti occupano una buona percentuale del miglior servizio sanitario nazionale nel mondo. Ci auguriamo che questo studio possa essere d’aiuto a loro e ai loro pazienti, così da migliorare il riconoscimento di questa condizione importante e invalidante.

Il professor Roger Jones, redattore del British Journal of General Practice, ha detto:

Il Dottor Tom Hughes ei suoi colleghi consigliano ai medici di medicina generale di guardare con maggior attenzione quei pazienti affetti da Depressione e Disturbi d’Ansia, soprattutto quelli più giovani e coloro che non stanno ottenendo effetti benefici dal proprio trattamento. Rivedere la storia di vita relativamente alla comparsa dei sintomi, potrebbe fornire alle persone la possibilità di ricevere un miglior trattamento e un recupero più veloce.

Non cambiare mai – Ciottoli di Psicopatologia Generale Nr. 3

L’innata tendenza al confermazionismo si è sviluppata comportando un qualche vantaggio evolutivo come la possibilità di trasmettere l’esperienza di generazione in generazione e di fare previsioni su un mondo che si reputa sempre uguale a se stesso.

CIOTTOLI DI PSICOPATOLOGIA GENERALE – LEGGI L’INTRODUZIONE

Questa tendenza alla testardaggine e al non voler cambiare idea è sostenuta da un’ampia gamma di bias che producono comunque l’effetto di stabilizzare le credenze del soggetto anche a dispetto delle falsificazioni disponibili. Nella vita quotidiana la vediamo all’opera nel fenomeno dell’autoinganno e nelle strategie di influenzamento dell’opinione pubblica per interessi economici o politici. Ritengo che una tendenza innata vada, per quanto possibile, controllata quando produce effetti negativi ma, contemporaneamente utilizzata a fin di bene nel lavoro terapeutico.

Il nostro scopo non è che i nostri pazienti diventino dei perfetti ragionatori aristotelici ma che siano felici raggiungendo i loro scopi utilizzando a tal fine la logica come suggerisce Baron. Insomma non si vive per ragionare ma si ragiona per vivere meglio e più lungo. I bias cognitivi sono sempre stati visti come una minaccia per la buona salute mentale e bersaglio privilegiato della terapia, soprattutto cognitiva. La mia idea è dunque quella di proporre l’utilizzo dei bias così ben descritti da Kaneman nel suo ultimo libro ‘Pensiero veloce, Pensiero lento‘ come possibili tecniche o strategie terapeutiche avvantaggiandosi proprio della loro innata e inconsapevole potenza.

La credibilità di un affermazione è direttamente proporzionale alla sua ripetizione. Ripetere continuamente una falsità la fa apparire vera. Su questo si fonda la pubblicità. Più una cosa viene ripetuta più acquista verità. Sui mass media questo fenomeno è conosciuto come ‘la cascata della disponibilità’: si parla di un evento, si parla del fatto che se ne parla, si commenta il fatto che se ne metaparla e sembra reale il gioco degli specchi moltiplicatorio. Il rimuginio fa questo al negativo. Le credenze dolenti del paziente sono al centro della sua attenzione e memoria selettiva e dei processi di rimuginio e gli appaiono sempre più vere. Se da un lato questo va evidenziato ed arginato perché non utilizzarlo in positivo? Ad esempio nei processi di ristrutturazione cognitiva.

Un’ abitudine cui i pazienti, abituati con le procedure Ret, rinunciano mal volentieri e trovano estremamente utile è registrare le sedute per poi riascoltarle due o tre volte durante la settimana e magari trascriverle. Questo lavoro accompagna il paziente durante la settimana e gli suggerisce temi da approfondire da riproporre nella seduta successiva. Ancora è molto utile scrivere le credenze funzionali che rappresentano il punto d’arrivo del lavoro su un cartoncino e chiedere al paziente di rileggerle più volte durante la settimana, particolarmente in presenza degli attivanti che innescano normalmente le credenze disfunzionali, impararle a memoria. Ancora più efficace riascoltarle direttamente dalla voce del terapeuta registrata sullo smartphone. Non si tratta semplicemente di una rassicurazione che comunque avrebbe il vantaggio di essere completamente autogestita dal paziente ma di una vera ristrutturazione in vivo.

In seduta avvalendosi del principio per cui si finisce per credere davvero in ciò a cui si deve credere per partito preso, si può invertire il ruolo per cui è il paziente a dover criticare le idee disfunzionali che vengono sostenute dal terapeuta. Ancora si può chiedere al paziente di elencare tutti i motivi per cui oggi le cose potrebbero andare diversamente da come lui si aspetta da sempre che vadano e da come gli sembra siano sempre andate. E’ un esercizio, da seduta o da homework, di fantasia dal titolo ‘Stavolta no…perché….’.

Per favorire il decentramento che prima dell’adozione della terminologia terzocentrista si chiamava ‘mettersi nei panni dell’altro e guardare le cose da un’altra prospettiva’ ci si può avvalere dell’ euristica degli affetti secondo la quale simpatie, antipatie e gusti determinano le credenze sul mondo e non solo viceversa, anzi se una cosa mi piace ne vedo i pregi e ignoro i difetti e non, come si potrebbe pensare, mi piace perché non ha difetti. Essa gioca un ruolo importante nell’innamoramento e nel fanatismo: due classiche situazioni in cui la lucidità del giudizio è offuscata dalla passione.

Le convinzioni opposte a quelle disfunzionali del paziente non devono rimanere affermazioni astratte ma attribuite ad un personaggio, meglio se costruito sulla base di una persona realmente conosciuta dal paziente con una sua storia che susciti emozioni positive, comprensione, affetto. Come nei film quando ci si trova a capire le ragioni del cattivone di turno. Persino la visione politica del mondo che ciascuno ha cambia, non per il semplice passare del tempo secondo il detto per cui si nasce incendiari e si muore pompieri ma perché cambia la propria posizione nella scala sociale e con essa la visione delle cose e della stessa giustizia.

Quindi è importante aiutare il paziente, costruendo storie, a immedesimarsi con stati d’animo e sentimenti di qualcuno che la pensa diversamente da lui e non semplicemente di considerarne le idee. L’euristica dell’affetto crea un mondo più ordinato e senza conflitti di quello reale: le cose che ci piacciono sono anche buone, giuste, vantaggiose e senza controindicazioni e viceversa: tutto ciò è molto attraente e rassicurante. In senso opposto, la terapia per ridurre la quota di autoinganno potrebbe essere il luogo dove si legittimano le preferenze ed i gusti senza per questo distorcere la realtà per sostenerli. Non sarebbe meglio potersi dire ‘Sono innamorata di lui anche se è un violento e un fedifrago’ piuttosto che raccontarsi che non lo è ed anzi sotto sotto cova un animo gentile. Liberarci dal dovere della coerenza accettando che molte preferenze e gusti non sono dettati da ragionevolezza ma sono lo stesso nostri e intensissimi,ci permetterebbe una maggiore lucidità.

Gli esseri umani hanno una potente, irresistibile tendenza a dare agli eventi delle spiegazioni causali, a ricercare le cause e di conseguenza, laddove non siano evidenti, formulare ipotesi causali ad hoc. Al contrario l’importanza del caso, decisivo probabilmente nel 99% delle occasioni, è sistematicamente sottovalutata. Il vantaggio illusorio che da l’ipertrofia della causalità è che gli eventi siano controllabili, che abbiamo voce in capitolo e possiamo farci qualcosa mentre in quasi tutte le questioni decisive non è così. Il prezzo che questa illusione comporta è il senso di responsabilità che a volte assume i connotati della colpa come nel DOC e nella depressione. Il bilancio è a mio avviso negativo perché le cose negative accadono comunque e al danno si aggiunge la delusione e magari la colpa.

Un ottimo esercizio in proposito è elencare tutti i fattori esterni incontrollabili che concorrono a determinare un certo risultato. Non lo chiamerei ‘la torta delle possibilità o del caso‘ perché mentre il reale ha un limite al 100%, il possibile non lo ha. Provate a immaginare tutti i possibili motivi per cui potreste non arrivare a leggere fino in fondo questo ciottolo. E’ chiaro che frugate tra gli avvenimenti distraesti che in genere avvengono intorno a voi a quest’ora del giorno (sete, pipì, telefonate del capo, ricordarsi l’anniversario per la moglie, l’urgenza delle pratiche da consegnare) invece è l’11 settembre e se guardaste dalla finestra il Bau Bau quatto quatto…. Non è l’eccezione ma piuttosto la regola sin dai tempi del Big Bang, del brodo primordiale e nel momento del vostro personale inizio quando uno spermatozoo a caso arrivato molto in ritardo ma in concomitanza dell’ovulo anch’esso attardatosi tra le ciglia delle tube di Eustachio…… La causalità ha avuto il suo successo nelle scienze di base come la fisica e la chimica ed è stata estesa a spiegare i fenomeni psicologici, sociali e storici dove non ha lo stesso potere euristico ed il caso entra prepotentemente.

Attenzione, fa talmente parte del nostro modo di ragionare che anche i libri di storia, le cronache di un campionato di calcio, le elezioni politiche, l’esito della preparazione della majonese sono descritti in termini di cause ed effetti. Ma ciò soltanto a posteriori, al netto degli eventi casuali. Un buon terapeuta dovrebbe avere in mente una serie di eventi storici o di vita quotidiana che nessuno aveva previsto in precedenza e che successivamente tutti si affrettano a spiegare con cause apparentemente evidenti.

Occupiamoci ora del contenimento e del possibile utilizzo positivo di uno dei più importanti bias confermazionista ovvero quello del cosiddetto ancoraggio per cui qualsiasi valutazione non si discosta molto dalla prima impressione seppure la si sappia indotta da un contesto completamente diverso o assolutamente fallace. E’ questo il motivo dell’efficacia della calunnia ‘Se c’è del fumo almeno un po’ di arrosto deve esserci’.

La letteratura sull’ancoraggio è copiosa, divertente e costituisce una buona guida per non essere truffati tutti i giorni da venditori senza scrupoli e politici (perdonate la ripetizione), per cui non tenterò neppure di riassumerla. Mi limito a due consigli che hanno lo scopo di utilizzare in positivo questo bias. In primo luogo se la comunicazione della gravità della diagnosi è sempre più diffusa in nome alla cosiddetta medicina difensiva essa finisce per essere, soprattutto nel nostro campo, una profezia che si auto avvera (in proposito leggetevi i resoconti degli esperimenti sui Q.I. dei bimbi riferiti agli insegnanti di una prima classe o, per rimanere nel campo, l’esperimento noto come la beffa di Roshenam riportato nella realtà inventata di Watzlavich).

Sempre a proposito di ancoraggio va sottolineata l’importanza dei primi contatti, dalla telefonata alla prima seduta. E’ bene che essa si chiuda in un clima positivo, di fiducia e ottimismo e che il paziente si porti a casa un primo piccolo compito che lo leghi al comune lavoro.

Persino più forte dell’ancoraggio è il potere della cosiddetta ‘euristica della disponibilità‘ secondo la quale stimiamo la probabilità di un evento dalla facilità con cui ce ne vengono in mente degli esempi. Per cui nello stimare il rischio d ammalarsi di tumore ignoriamo le statistiche ma diamo peso al povero zio, alla cugina di Ernestino ed al collega di lavoro che in un attimo….

E’ dopo aver visto un incidente stradale dal vivo o averne sentito lo straziante racconto dai sopravvissuti ed essere stati emotivamente coinvolti che spostiamo il piede dal gas al freno, non certo quando i cartelli luminosi ci informano sulle statistiche ufficiali.

Il lavoro terapeutico deve dunque evidenziare come il soggetto nel cercare prove a sostegno delle sue idee disfunzionali utilizzi spregiudicatamente la memoria selettiva e contemporaneamente abbia un oblio selettivo verso le prove contrarie. Insieme si tratterà di andare a cercare i ricordi contrari (le cosiddette eccezioni), trarli fuori da sotto i cumuli di polvere, farseli raccontare e arricchirli di particolari e dettagli in maniera che diventino belle storie degne di stare in prima fila sugli scaffali mnesici.

Un primo esercizio lo potete fare su voi stessi per poi riutilizzarlo con i pazienti perché riguarda una convinzione che sembra abbiamo tutti e cioè che, nei vari rapporti ‘ho dato più di quanto abbia ricevuto‘. Ciò dipende proprio dall’euristica della disponibilità perché mi ricordo di più i miei sforzi che mi sono costati emotivamente che quelli dell’altro. Proprio a partire dalla certezza che è una distorsione comune a tutti si invita il soggetto a cercare dei contro esempi e ad articolarli di particolari perché tornino ad essere vividi ricordi.

Ciò che sembra decisivo nello stabilizzare una credenza è il numero dei ricordi-esempio che vengono in mente e la facilità con cui ciò avviene ( a pag 148 Kaneman riporta numerosi esperimenti straordinariamente interessanti quanto divertenti). Anche le valutazioni che si fanno su di sé sono influenzate dai ricordi disponibili su di sé e si modificano radicalmente in poco tempo se l’attenzione si sposta su questi ricordi. Soprattutto nei problemi di autostima è estremamente utile ricostruire insieme al paziente una storia di vita in cui deve ricercare esplicitamente tutte le cose per cui può dirsi bravo e apprezzarsi da rileggere quando sente montare il demone autosvalutativo. Un homework che persegue lo stesso scopo è ‘L’esame di coscienza inverso‘ ovvero aggiornare ogni sera un diario in cui annotare tutte le cose anche molto piccole in cui può dirsi bravo.

Un altro modo per salvare le credenze dalla temuta falsificazione e dunque non doverle abbandonare è di mantenerle vaghe, indefinite (il massimo di tale lassità la si osserva nella schizofrenia) ma è presente in tutti quotidianamente. I concetti sono nuvole e ci capiamo per approssimazione o, direi, tavole di rorschach su cui proiettare. Fingiamo di capirci riferendoci a prototipi e non si va tanto per il sottile.

Ho ben presente in mente una signora che si arrovellava sul fatto che il suo partner fosse o meno innamorato di lei e oscillava continuamente tra il si e il no senza mai riuscire a far capire al malcapitato ma neppure a me cosa davvero intendesse. In questo senso andrebbe grandemente rivalutato la tecnica del laddering down oscurato dalla grande fama del suo gemello il laddering up. Con il down si aiuta il soggetto a chiarirsi ed a chiarire agli altri cosa davvero intenda con una certa parola. Cosa intendi esattamente per essere innamorato?, Da cosa ti accorgi che uno è innamorato? Cosa si fa quando si è innamorati che non si fa quando non lo si è?

La maggior parte dei concetti che usiamo anche in discussioni professionali tra esperti sono assolutamente indefiniti e mantengono equivoci grossolani. Nella costante battaglia contro il confermazionismo del paziente il terapeuta deve scontrarsi con la sua sicumera. Quando parla di se stesso il paziente è assolutamente certo di essere nel vero. Chi può conoscerlo meglio di se stesso. Lo steso vale per gli esperti in qualsiasi campo che sono i più riottosi a cambiare idea anche quando manifestamente sbagliata.

Il grado di certezza con cui crediamo ad una cosa è dato esclusivamente dalla coerenza e dalla facilità di elaborazione della storia che ci inventiamo per sostenerla e paradossalmente con pochi dati si costruiscono ottime storie perché si è più liberi da vincoli reali (vedi ad esempio il delirio dove i dati di realtà sono un inciampo).

Del resto è facile fare un esperimento mentale. Se vi chiedessi di inventare una storia di sana pianta sarebbe più bella e ricca se doveste includervi obbligatoriamente tre elementi da me suggeriti o 15 elementi. Una tecnica che chiamo ‘La storia ad ostacoli’ consiste nel farsi raccontare la storia che sostiene la previsione delirante o semplicemente catastrofica nei disturbi d’ansia o pessimistica nelle depressioni e poi metterci degli inciampi e suggerire dei vincoli cui la storia deve attenersi. Espressamente per i pazienti deliranti o drammaticamente confermazionisti ho sperimentato la cosiddetta ‘Costruzione del delirio‘ in cui io fornisco una idea francamente bizzarra e assurda e chiedo all’interlocutore di cercarne prove a sostegno a partire dall’osservazione della stanza stessa della terapia e/o dal mio comportamento. Il soggetto si accorge presto che a volerle cercare si trovano prove che giustificano tutto e l’incontrario di tutto.

 

 

RUBRICA CIOTTOLI DI PSICOPATOLOGIA GENERALE

Attaccamento e capacità di distinguere le emozioni negative del partner

Nelle relazioni di coppia la capacità di leggere l’altro è un fattore molto importante sia per la comunicazione che per la risoluzione di eventuali conflitti. Non vedere le difficoltà del partner, oppure scambiarle per altro, può portare a difficoltà nella diade e a una mancata sincronia.

A cosa servono le emozioni negative? Anche se sono fastidiose, disturbanti e a volte difficili da gestire, una delle funzioni delle emozioni ha una ricaduta sociale ed è la loro capacità comunicativa del nostro stato all’altro.

Solitamente le persone che ci conoscono bene capiscono se qualcosa non va, senza tante parole e anche solo guardandoci in faccia, proprio per la funzione comunicativa delle emozioni che magari mostrano agli altri segnali di preoccupazione o di tristezza senza che noi neanche ce ne accorgiamo. A questo punto, l’altra persona ha anche la possibilità di muoversi sulla base del nostro stato emotivo, per come lo ha percepito da questi segnali non verbali. Per esempio, può fare qualcosa che ci faccia sorridere se ci vede tristi oppure tranquillizzarci se ci vede preoccupati.

Va da sé che nelle relazioni di coppia la capacità di leggere l’altro è un fattore molto importante sia per la comunicazione che per la risoluzione di eventuali conflitti. Non vedere le difficoltà del partner, oppure scambiarle per altro, può portare a difficoltà nella diade e a una mancata sincronia.

Uno studio recente (Overall et al., 2015) ha valutato se e in che misura l’ attaccamento dei soggetti potesse influire sulla loro capacità di percepire correttamente le emozioni del partner e sulla propria reazione a questa percezione, in termini di comportamenti ostili e di difesa.

L’attaccamento nelle relazioni intime è stato valutato in base a due dimensioni: evitamento e ansia. Le persone con un alto livello di evitamento credono che il partner non sia affidabile a livello emotivo e di conseguenza evitano di instaurare legami troppo vicini con lui, sopprimendo i propri bisogni di vicinanza (Bowlby, 1969). Per non sentirsi vulnerabili, queste persone tendono a limitare la vicinanza emotiva (Pietromonaco & Feldman Barrett, 1997; Tan, Overall, & Taylor, 2012; Tidwell, Reis, & Shaver, 1996) e solitamente gestiscono le proprie emozioni negative sopprimendole, allontanandosi dal partner e rifiutando il suo supporto (Diamond, Hicks, & Otter-Henderson, 2006; Fraley & Shaver, 1998; Mikulincer, 1998; Simpson, Winterheld, Rholes, & Oriña, 2007).

Le persone con un alto livello di ansia cercano la vicinanza e l’accettazione da parte del partner, ma allo stesso tempo temono di poter essere respinte o abbandonate (Bowlby, 1969). Di conseguenza, sono solitamente iper-sensibili verso il rifiuto e arrivano a vivere forme di stress molto forte quando ci sono delle difficoltà nelle relazioni intime, come i conflitti espliciti o la percezione di poco sostegno da parte del partner (e.g., Campbell, Simpson, Boldry, & Kashy, 2005; Simpson et al., 2007). Inoltre, solitamente hanno difficoltà a gestire in modo appropriato le emozioni, e tendono a rimuginare sui problemi, amplificandone l’effetto emotivo negativo (Mikulincer & Florian, 1998).

Lo studio di Overall e colleghi ha preso in considerazione queste due dimensioni e due particolari capacità di leggere le emozioni altrui: l’accuratezza nell’identificare lo stato emotivo del partner (capire, per esempio, se l’altro è arrabbiato o preoccupato) e la capacità di identificarne l’intensità (per esempio, distinguere quando è infastidito da quando è furioso). La domanda a cui i ricercatori hanno tentato di rispondere è: il fatto di avere punteggi alti di ansia o di evitamento nelle relazioni intime influenza in qualche modo la capacità di identificare lo stato emotivo del partner in termini di qualità e quantità?

Passiamo alla metodologia: come hanno cercato di rispondere a questa domanda? Nel primo studio, i ricercatori hanno videoregistrato 57 coppie eterosessuali mentre discutevano di tematiche conflittuali inerenti la loro relazione in cui un partner chiedeva all’altro di cambiare qualche suo comportamento o atteggiamento; in seguito, hanno mostrato a ciascuno dei due partner il filmato e gli hanno chiesto di indicare, ogni 30 secondi, la propria emozione e l’emozione che secondo loro stava provando in quello stesso momento il partner.

Nel secondo studio sono state arruolate 151 coppie e a ogni partner è stato chiesto di tenere nota delle proprie emozioni negative inerenti la relazione di coppia, così come quelle che percepivano nel partner, ogni sera per 3 settimane consecutive.

In entrambi gli studi, lo stato emotivo dichiarato da ciascun partner come proprio è stato utilizzato come parametro per valutare l’accuratezza nella percezione delle emozioni da parte dell’altro. In sostanza, concentrandoci per esempio sull’uomo, confrontando quello che la donna indicava come emozione del partner (in termini di tipologia e di intensità) e quello che l’uomo indicava come propria emozione, si poteva avere un indice di accuratezza di quanto la donna sapesse leggere emotivamente il partner (e viceversa per gli uomini).

In più, il comportamento dei membri della coppia durante la discussione è stato valutato da osservatori indipendenti in termini di azioni ostili oppure costruttive ai fini della risoluzione del conflitto. Per quanto riguarda il secondo studio, questo stesso parametro è stato indicato dai soggetti rispetto a loro stessi (indicando anche, a fine giornata, quanto avevano messo in atto una serie di comportamenti ostili elencati dai ricercatori).

Raccogliere dati nei due contesti (di laboratorio e naturalistico) ha consentito ai ricercatori di ampliare maggiormente le considerazioni conclusive, a partire dai risultati ottenuti.

In entrambi gli studi i risultati sono concordi. Le persone con alti livelli di evitamento nelle relazioni intime sono state in grado di indicare correttamente le emozioni del partner, ma hanno mostrato una tendenza a sovrastimare l’intensità dell’emozione negativa del partner (hanno indicato, per esempio, rabbia quando il partner era solamente infastidito); ovviamente, percepire le emozioni del partner come più intense ha anche portato queste persone a reagire con comportamenti più ostili e difensivi rispetto a soggetti con minore livello di evitamento.

Di contro, alti livelli di ansia nell’attaccamento non si sono dimostrati associati né all’accuratezza nell’identificare l’emozione o l’intensità emotiva del partner, né ai comportamenti ostili.

Cosa ci dicono questi risultati? Gli autori suggeriscono che la tendenza dei soggetti evitanti a sovrastimare l’intensità delle emozioni negative dei partner faciliti la tendenza a avere più comportamenti ostili e distruttivi nella coppia come piano B: le persone con un pattern evitante utilizzerebbero come strategia principe per avere a che fare con il partner l’evitamento delle emozioni forti e del conflitto. Una volta, però, che questa strategia non funziona, questi soggetti tenderebbero a difendersi in un modo esagerato davanti alle emozioni negative dell’altro: le loro reazioni ostili e difensive servirebbero a proteggerle dalla minaccia costituita dalle emozioni negative del partner permettendo di ristabilire un allontanamento e rimettendo la situazione sotto il loro controllo. In questo modo, la capacità dell’altro di essere dannoso e di ferire la persona evitante diminuirebbe.

Il fatto poi di sovrastimare le emozioni negative del partner potrebbe collocarsi in quest’ottica di allarme: dal momento in cui le emozioni negative del compagno sono per me pericolose, perché rischiano di sovrastarmi, allora starò sempre all’erta, con il rischio di vederle più intense di quelle che non sono in realtà (e di contrattaccare con eccessiva enfasi), permettendo così all’escalation emotiva dell’altro di fermarsi.

Psicologia virtuale: il mio terapeuta è un computer! Nuove tecnologie nell’assessment e prospettive future

Possiamo sostituire lo psicologo, inteso come un essere umano dotato di strumenti e nozioni, con la sua sola funzione, separandola dall’uomo stesso, attraverso dei servizi di psicologia virtuale?

Andrea Arrigoni – Open school Psicoterapia Clinica e Ricerca 

E’ da poco disponibile Pavlok: un braccialetto elettronico che promette di far scomparire i nostri comportamenti sgraditi e sostituirli con altri più accettabili. Come il nome stesso suggerisce si tratta di una piccola macchina per elettrocuzione portatile. L’apparecchio, che si presenta nero e con una grande saetta gialla sul dorso, è bluetooth, e tramite una app sullo smartphone, è possibile dosare le scosse a seconda di quali sono le abitudini, vizi o dipendenze che vogliamo perdere.

Il fatto che un prodotto come questo possa essere stato concepito fa pensare che vi sia una notevole attenzione alla salute mentale, che questa domanda sia sempre più precisa ed i potenziali pazienti, sempre più (non sempre meglio) informati. Un buona testimonianza di ciò sono il numero e la varietà crescenti di app dedicate alla salute mentale, negli store online di Apple e Android. Se ne possono trovare molte con la funzione di diari emotivi, più o meno affidabili che hanno l’obiettivo di tenere traccia del proprio umore e delle proprie emozioni nel tempo, osservabile poi sotto forma di grafico.

Psicologia Virtuale: le ultime app

Con un altro obiettivo troviamo ‘Self-help Anxiety Management‘ che è stata sviluppata presso la University of the West of England da un team multidisciplinare di psicologi ed informatici e offre servizi di psicologia virtuale (anche detta cyberpsicologia), attraverso psicoeducazione e strumenti pratici, per es. esercizi quotidiani, per aiutare a tenere sotto controllo l’ansia e perfino sostenere al bisogno la persona durante un attacco di panico.

Il Centro Italiano Studi Mindfulness ha recentemente curato l’edizione per il nostro paese di ‘Mindfulness‘, che contiene strumenti per la pratica quotidiana con firme (o meglio ‘voci’) di rilievo come quella dello stesso Jon Kabat-Zinn. Nel negozio online di Apple è possibile trovare anche Sleepio, che si presenta come una app contenente tecniche CBT per la terapia dell’insonnia e che addirittura è in formula di abbonamento.

Proprio come detto poc’anzi, questo ci rimanda alla tendenza, precedentemente sottolineata, all’auto-medicazione psicologica.

Di natura molto diversa, sempre in tema di psicologia virtuale, è ciò che è stato concepito presso l’Institute for Creative Technology di Los Angeles ed è molto più di una app per lo smatphone o di un braccialetto: si chiama Ellie ed è un Virtual Human (o VH). Un sistema in grado di comunicare con una persona in un vero dialogo, e nel contempo rilevare segnali di distress emotivo dalla postura, dalle espressioni facciali e dal parlato della persona, fino a condurre ad una eventule diagnosi.

Essendo stata finanziata dalla ricerca militare, pensando quindi soprattutto ad un’utenza di reduci, le diagnosi cui il sistema è in grado di condurre, sono di disturbi dell’ansia, dell’umore e di disturbo post-traumatico da stress. I suoi creatori hanno pensato di dotare il sistema di un avatar: una rappresentazione grafica animata con la CGI della terapeuta che conduce il colloquio seduta su una poltrona, in modo da offrire alla persona un esperienza vicina a quella reale.

Si tratta anche in questo caso di uno strumento di psicologia virtuale, solo molto più completo avanzato ed autonomo di una app, proprio in quanto apre alla macchina le porte della diagnosi che fino ad ora era compito delle persone, fossero queste professionisti della salute mentale o gli utenti stessi.

I benefici della psicologia virtuale

Da una meta-analisi della letteratura in merito, Weisband e Kiesler (1996), affermano che comunicare con un computer offra benefici alla raccolta di informazioni in fase di assessment, in quanto le persone che interagiscono con questi sistemi di psicologia virtuale, possono contare sul fatto che chi riceve le loro informazioni non è un essere umano, facendo sì che la persona senta meno pressante il giudizio sociale rispetto a quanto dovrà dire. I creatori della macchina riprendono proprio questa idea, nello sviluppare Ellie come VH da impiegare nella sanità come strumento di assessment.

Per sperimentare l’effetto che la percezione della mera presenza di un osservatore (mere presence) o della convinzione che l’osservatore giudichi direttamente le loro risposte (mere belief), il team ha sottoposto un campione di 239 individui (149 maschi e 90 femmine di età compresa tra i 18 ed i 65 anni) a colloqui con un avatar (SimSensei). Ai partecipanti veniva detto che avrebbero affrontato una seduta di assessment con un avatar su di uno schermo. Per alcuni si trattava di un Virtual Human e dunque avrebbero interagito con una macchina, mentre per i restanti l’avatar era controllato a distanza da un essere umano (condizione chiamata ‘Wizard of Oz’). I soggetti sperimentali potevano così trovarsi davanti ad un pupazzo elettronico, governato quindi da un vero clinico, pensando che fosse tale o meno, oppure interagire con il VH, anche in questo caso, consapevoli o inconsapevoli della sua natura. In tutti i casi i colloqui avvenivano alla sola presenza dell’avatar, per evitare le conseguenze derivanti dalla presenza di una persona nella stanza (mere presence). Confermando quanto previsto nelle ipotesi, i risultati mostrarono una maggiore self-disclosure nel momento in cui i partecipanti pensavano di avere a che fare con un Virtual Human, che fosse realmente così meno.

 

Possibili effetti della psicologia virtuale

Giunti a questo punto, la domanda è: possiamo sostituire lo psicologo, inteso come un essere umano dotato degli strumenti della psicologia, con la sua sola funzione, separandola dall’uomo stesso attraverso una forma di psicologia virtuale? In questo senso, in fondo, le funzioni umane che vengono affidate alle macchine diventano sempre più complesse, a partire dal primo telaio meccanizzato, fino ad arrivare ai giorni nostri, dove assistiamo alla comparsa di camion capaci di guidarsi da soli, trasformando notevolmente il ruolo del conducente in un supervisore del viaggio e lasciando che la macchina si faccia carico di funzioni prima prettamente umane.

Rivolgiamo lo sguardo al futuro e proviamo ad immaginare un ‘iShrink‘. Potrebbe essere incluso un casco per la realtà virtuale, tramite il quale il paziente potrebbe tornare al setting con il suo terapeuta-avatar. In questo senso, la ricerca sull’uso della realtà virtuale in ambito clinico è ricca (Vincelli, Riva e Molinari, 2007) e si potrebbero affrontare disturbi come fobie o attacchi di panico, ad esempio tramite desensibilizzazione in un ambiente controllato che si pone a metà strada tra lo studio del terapeuta, sicuro ma lontano dal reale, ed il mondo di tutti i giorni, dove si sacrifica il senso di protezione in favore del realismo.

Il terapeuta-avatar potrebbe essere generato automaticamente nell’aspetto fisico e nel nome, in modo da far sì che non ci siano due pazienti con lo stesso terapeuta e creare un senso di unicità del proprio percorso terapeutico. Potrebbe trattarsi di un servizio di psicologia virtuale in abbonamento come Sleepio o l’utente potrebbe pagare la seduta virtuale con lo smartphone a prezzi concorrenziali. Come si vede fare a Siri, l’assistente elettronico di Apple, iShrink potrebbe sfruttare le informazioni ottenute dalla totalità dei suoi utenti per creare una sorta di esperienza e diventare sempre più precisa e realistica nell’interazione. Potrebbe aggiornarsi automaticamente e offrire al paziente il trattamento più moderno, con un terapeuta oggettivo, imparziale, che non si ammala mai e che non risente mai di una brutta giornata. Si tratta di un volo pindarico ma possiamo chiederci quanto sia grande la distanza che ci separa da una simile innovazione se ci chiediamo cosa deve fare un terapeuta, o meglio: quali sono le caratteristiche della funzione del terapeuta che la psicologia virtuale dovrebbe sostituire?

Possiamo provare a identificare queste funzioni con: la capacità di ascoltare in maniera non giudicante, utilizzare queste informazioni inserendole in quadro che permetta di affrontare il disturbo tramite la diagnosi e la conoscenza di tecniche terapeutiche, ed infine la costruzione di una relazione che si ponga come cornice stabile sia in senso supportivo sia come strumento di sperimentazione interpersonale.

Psicologia virtuale e l’ascolto non giudicante

Per ciò che attiene la prima parte di questo abbozzo di definizione, l’ascolto non giudicante, come si è visto in precedenza, la macchina ha di per sé il pregio di essere concepita come tale dalla persona che vi interagisce, favorendo l’apertura (disclosure) e dunque la raccolta delle informazioni (Weisband e Kiesler 1996). Per lo psicoterapeuta che conduce l’assessment o la terapia, il giudizio è sospeso e questo stato di sospensione va segnalato e talora ricordato al paziente mentre per la macchina e per la psicologia virtuale il giudizio è impossibile, proprio in quanto non umana.

Psicologia virtuale e conoscenze

La seconda parte da trattare attiene alla conoscenza della materia, con la diagnosi e le tecniche di trattamento. Suddividendo ulteriormente e soffermandoci sulla diagnosi, Ellie ha già dato prova di essere uno strumento di psicologia virtuale utile, specialmente tenendo conto che riesce ad acquisire informazioni da molti canali contemporaneamente, senza privilegiarne uno in particolare. Un essere umano, d’altro canto, non è in grado di mantenere costantemente ed equamente distribuita l’attenzione su ogni canale, tenendo conto che tra i vari input ci sono anche i suoi stessi pensieri, come ipotesi di diagnosi, aree da approfondire, esperienze pregresse e così via. La macchina può indubbiamente beneficiare di una precisione notevole e di una conoscenza della materia che è completa quanto può esserlo un preciso elenco di istruzioni dato ad un sistema che per sua natura non dimentica ne tralascia mai nulla di quanto sa o quanto vede.

Tuttavia, parte rilevante del bagaglio di informazioni necessarie per accogliere e successivamente rielaborare ciò che un paziente comunica ha a che fare con l’esperienza e, anche conseguentemente, con l’intuizione e queste doti, almeno allo stato attuale, rimangono squisitamente umane. Inoltre dobbiamo tenere presente che è comunque l’uomo a stabilire cosa la macchina debba cercare e cosa ignorare e come mettere insieme le informazioni entro una cornice che abbia senso per il paziente quanto per i professionisti che se ne occupano.

Psicologia virtuale e relazione terapeutica

Infine il terzo elemento del nostro tentativo di definizione ha a che vedere con la sfera interpersonale. Esiste letteratura riguardante la capacità dell’uomo di provare emozioni o empatia verso oggetti non umani. E’ questo il campo di lavoro dell’affective computing: comprendere come si sviluppino legami emotivi con sistemi informatici che vanno oltre il mero utilizzo degli stessi. Sul grande schermo, il film ‘Her‘ ipotizzava proprio la possibilità, invero neppure troppo remota, di provare emozioni complete verso un’entità non umana. La relazione che si instaura tra paziente e terapeuta è però qualcosa che va al di là del semplice sperimentare emozioni verso un oggetto ed ha a che fare con il concetto di alleanza terapeutica.

E’ questo un altro vasto argomento che potrebbe aprire a lunghe dissertazioni in campo di psicologia virtuale, ma mi limiterò ad avvalermi della definizione proposta da Safran e Muran (2000) per far luce su questa parte della nostra domanda. Per gli autori, l’alleanza si crea nella negoziazione interpersonale tra paziente e terapeuta e comporta una serie di momenti di rottura e di riparazione nella relazione. Queste rotture possono essere più tendenti al ritiro, con un minore investimento ed una minor partecipazione, o possono essere caratterizzate da confronto. Nel colmare queste rotture il paziente verifica anche come una relazione momentaneamente indebolita possa a tutti gli effetti essere migliorata, e così la relazione col terapeuta assume anche la funzione di spazio di sperimentazione di sicurezza nelle relazioni. Detto in altri termini, questa relazione diventa una nuova esperienza di attaccamento.(Schore e Schore, 2008)

Tornando alla macchina e al futuro della psicologia virtuale, sappiamo che è possibile provare emozioni verso di essa, rimanendo tuttavia consapevoli della sua natura, ma viene da chiedersi quanto un sistema complesso come un Virtual Human possa far sperimentare rotture e riparazioni relazionali come esperienza terapeutica per il paziente e, dall’altro lato, quanto un paziente possa essere motivato alla riparazione della relazione se si tratta di una relazione che almeno in una direzione, è frutto di simulazione. Provare emozioni in modo unidirezionale verso una macchina potrà mai essere paragonato ad una relazione di attaccamento?

Come visto in precedenza (Lucas, Gratch, King, Morency 2004) il fatto di pensare di stare interagendo con un essere umano pone tutte quelle questioni (apertura, onestà e desiderabilità sociale) che mettono a rischio la raccolta di informazioni, così importante nel lavoro psicoterapeutico, ma forse è proprio questa una delle qualità più importanti della relazione terapeutica. Il paziente tende a pensare di essere giudicato e può esserci molto che non dice per timore di essere percepito negativamente, e il compito del terapeuta è saperlo e, nel contesto di una relazione sicura, riuscire a superare questa eventuale empasse. Il terapeuta è un essere umano, che può sbagliare e tentare di porre rimedio ai propri errori proprio garantendo quell’imperfezione che crea relazione.

Giunti a questo punto viene da chiedersi non solo quale sarà il futuro di questa macchina e di quelle che verranno dopo di lei, ma anche quale possa essere il futuro dello psicologo in un mondo che si avvale di strumenti sempre più complessi. Anche sotto le pressioni economiche, arriveremo mai a veder sostituito lo psicologo (un essere umano in possesso di competenze) con uno strumento, una mera funzione esecutiva?

Forse un giorno la psicologia virtuale consentirà di fare terapia nel proprio soggiorno, con un casco per realtà virtuale ed un tablet e la terapia ‘vecchia maniera’ verrà apprezzata come oggi si apprezzano i prodotti fatti mano. Prima che quel giorno arrivi converrà tenere d’occhio Ellie, le sue figlie e le sue nipoti.

Le fasi evolutive della maternità e lo stress correlato

Un recente studio condotto dai ricercatori dell’Arizona State University si è occupato delle fasi evolutive della maternità, analizzando il benessere psicologico e il rapporto con i figli di circa 2200 donne americane. I risultati rivelano un dato interessante, descrivendo un andamento a “V” del benessere delle madri nel corso del tempo, con un picco verso il basso nel periodo in cui i bambini frequentano la scuola media.

Essere madri è un mestiere difficile e molto stressante. Ma come cambia nel corso del tempo? Quali sono i momenti più complessi dell’essere genitore? I figli che crescono rendono le cose più facili?

Un recente studio condotto dai ricercatori dell’Arizona State University si è occupato di questi temi, analizzando il benessere psicologico e il rapporto con i figli di circa 2200 donne americane. I risultati rivelano un dato interessante, descrivendo un andamento a “V” del benessere delle madri nel corso del tempo, con un picco verso il basso nel periodo in cui i bambini frequentano la scuola media. Risultati simili sono stati registrati in relazione ai livelli di stress materno con un picco nel medesimo periodo, questa volta verso l’alto. Insomma, la vera sfida non è quella del trovarsi all’improvviso ad occuparsi di un neonato, delle notti insonni, dell’allattamento, dei pannolini o dell’inserimento al nido. O meglio, la sfida non finisce qui e anzi si rinnova nel corso del tempo, con nuove richieste a cui rispondere e nuove modalità comunicative da mettere a punto quando i ragazzi mettono piede in quel tumultuoso territorio che chiamiamo adolescenza. I cambiamenti ormonali si affiancano ad una fase di sperimentazione che passa attraverso la rottura delle regole; la ricerca di indipendenza dalle figure genitoriali trova la forma ora del distacco, ora dell’aggressività.

Accanto a questa radicale trasformazione delle interazioni tra genitore e figlio esiste un secondo fattore che potrebbe spiegare come mai proprio nel periodo della scuola media sia così stressante essere madri. Gli autori lo chiamano ‘contagio da stress’ e lo descrivono come un trasferimento alle madri delle difficoltà emotive incontrate dai bambini in prima persona: una nuova scuola, nuovi compagni e un’atmosfera che non è più ludica e familiare rendono l’ingresso alla scuola media un momento difficile e impongono alle madri la necessità di trovare modalità efficaci per proteggere e supportare i figli.

Ma non è solo la relazione che si trova in un momento complesso e richiede con urgenza una ridefinizione: con lo spostarsi della maternità più avanti negli anni, l’ingresso nella pre-adolescenza dei bambini coincide sempre più spesso con una fase di vita che comunemente chiamiamo ‘crisi di mezza età’. Le donne si trovano a dover gestire le difficoltà dei figli e la complessità del rapporto che hanno con loro proprio in un periodo in cui anche la relazione con se stesse impone quesiti profondi ed esige la ricerca di un nuovo equilibrio, con l’effetto di una crescita dei livelli di stress e una diminuzione del benessere percepito nel proprio ruolo di genitore.

Importante, affermano gli autori, cogliere il segnale forte che i risultati dello studio ci mandano, rispondendo ad una esigenza che si tende a sottovalutare, quella delle madri che si trovano ad attraversare una fase delicata senza ricevere sufficiente supporto dall’esterno. Ulteriori indagini potranno fare chiarezza circa le modalità più adeguate per fornire sostegno alle famiglie, aiutandole ad affrontare anche questa sfida in modo funzionale ed efficace.

Psicoanalisi vs Psicoterapia Cognitiva: intervista di RETE DUE a Giovanni Maria Ruggiero

Daniel Paul Bilenko, giornalista per la radiotelevisione svizzera RSI, ha intervistato Giovanni Maria Ruggiero riguardo all’articolo di Oliver Burkeman sulla “rivincita della psicoanalisi” nell’ambito del programma radiofonico Finestra Aperta Sera.

 

Gli articoli pubblicati sulla vicenda:

 

Adolescenza e devianza: quali sono i comportamenti rischiosi

Al giorno d’oggi, l’adolescenza si presenta come un’età di transizione sempre più lunga, in un contesto sociale articolato e complesso all’interno del quale l’ingresso nell’età adulta è sempre più posticipato e non esistono norme e valori univoci che possano stabilirne l’adeguatezza.

Francesca Adriana Boccalari, OPEN SCHOOL STUDI COGNITIVI 

 

La fase dell’adolescenza nel ciclo di vita dell’individuo

La letteratura psicologica più recente ha abbandonato la rappresentazione dell’adolescenza come inevitabile condizione di disagio e sofferenza, rappresentazione che affonda le proprie radici nella tradizione romantica ottocentesca e continua a godere tuttora di molta popolarità presso i mass media. La “crisi adolescenziale” non é né l’unica, né l’ultima, né tantomeno la più importante nella vita di una persona: essa si caratterizza invece per la sua valenza dinamica e positiva di momento di riorganizzazione e di svolta nel processo di sviluppo di un individuo.
Questa nuova visione è il risultato della concezione dello sviluppo umano come collocato all’interno del ciclo di vita: il cambiamento e lo sviluppo non sono limitati al periodo iniziale della vita, ma riguardano tutta l’esistenza, dal momento che tutte le funzioni psichiche subiscono mutamenti evolutivi incessanti lungo l’intero corso della vita (Baltes e Reese, 1986; Oliverio, 2003).

L’adolescenza non è dunque necessariamente caratterizzata da oscillazioni estreme e comportamenti devianti e, perciò, questi non devono essere sottovalutati ed ascritti alla fase che la persona sta attraversando. Non sempre, infatti, si tratta di segni transitori: a volte essi possono preannunciare importanti disadattamenti psichiatrici in età adulta. Il criterio che permette di distinguere i percorsi di sviluppo normali da quelli patologici non è pertanto quello fenomenologico e comportamentale, bensì quello temporale di transitorietà o al contrario di persistenza.

L’adozione di questa prospettiva olistica, interazionista e costruttivista, caratterizza sempre di più la psicologia dello sviluppo contemporanea, dalla quale l’adolescenza non viene più descritta come un percorso simile per tutti indipendentemente dalla cultura, dalle differenze individuali, dal contesto di vita e dalle opportunità che questo offre. Essa non è più descrivibile in modo unitario, ma presenta grandi differenze individuali di percorso (Koops, 1996).

Allo stesso tempo è cresciuta la consapevolezza che lo sviluppo non è un processo lineare e che non esistono percorsi fissi e uguali per tutti. Esso non avviene passando per strade obbligate bensì attraverso percorsi possibili, altamente individualizzati e differenziati, risultanti dall’interazione nel tempo tra l’individuo e il suo contesto di vita (Bonino, 2001b). In quest’ottica, le traiettorie di sviluppo sono molto irregolari e non possono essere previste deterministicamente: a seconda delle condizioni del sistema, piccole influenze possono produrre grandi effetti, e grandi influenze possono avere effetti ridotti.

Al giorno d’oggi, l’adolescenza si presenta come un’età di transizione sempre più lunga, in un contesto sociale articolato e complesso all’interno del quale l’ingresso nell’età adulta è sempre più posticipato e non esistono norme e valori univoci che possano stabilirne l’adeguatezza.
La possibilità di maggiori libertà individuali e realizzazioni personali, unita alla mancanza di punti di riferimento chiari e certi, consente l’elaborazione di valori e progetti personali, ma rende più problematica quest’età “sospesa” nella quale non si realizza ancora una vera e completa partecipazione sociale (Caprara e Fonzi, 2000). I percorsi di sviluppo adolescenziali vanno considerati come il risultato di una complessa interazione di un individuo concreto, dotato di specifiche capacità cognitive, caratteristiche personali e una propria storia, con un particolare contesto sociale nel quale il soggetto svolge un ruolo attivo (De Vit e Van der Veer, 1991). Ne consegue che l’azione dell’adolescente non è mai priva di senso e non è solo il risultato delle semplici pressioni ambientali. Essa è autoregolata, ha obiettivi e scopi precisi, e serve per esprimere valori e convinzioni, per risolvere problemi e per costruire una propria identità.

In altre parole, la maggior parte dei comportamenti adolescenziali risulta da scelte tra alternative, basate su valori e credenze sottoposte ad un controllo personale, in relazione alle regole sociali. Occorre pertanto andare oltre la forma esteriore di un comportamento per comprendere quali obiettivi un adolescente si propone di raggiungere con quell’azione: ciò significa che comportamenti apparentemente simili possono avere scopi molto diversi (ad esempio, per un adolescente l’impegno nello studio può essere messo in atto per compiacere i genitori, in una relazione di dipendenza, o può essere lo strumento per raggiungere una maggiore autonomia attraverso il successo scolastico) e comportamenti molto diversi possono avere obiettivi simili (l’affermazione di sé può realizzarsi attraverso comportamenti pericolosi e ad alto rischio, come l’uso di droghe, o con comportamenti socialmente utili, come l’impegno a favore degli altri) (Silbereisen, Eyferth e Rudinger, 1986).

L’adolescenza e la devianza

Il comportamento adolescenziale “deviante” è frutto di una molteplicità di fattori di rischio che riguardano l’area biologica, psicologica e sociale (Maguin e Loeber, 1996; McCord, McCord, Zola 1959).
Solo la loro interazione porta all’affermazione di un comportamento deviante, tenendo conto che l’effetto dei fattori di rischio dipende non solo dalla fase di sviluppo in cui il soggetto si trova, ma anche dalla presenza o meno di fattori protettivi in grado di ridurre, o annullarne le conseguenze. La probabilità di manifestare delinquenza e violenza cresce con il numero dei fattori di rischio implicati, pertanto la presenza di un singolo fattore non spiegherà mai, di per sé, l’agito antisociale. Esso è il risultato dell’incrocio e dell’interazione di fattori individuali, sociali, familiari e ambientali che si collocano all’interno di un percorso evolutivo e che si colorano di significati e potenzialità patogene diverse a seconda del momento in cui si presentano e interagiscono. Detto ciò, non é semplice comprendere le interazioni tra i diversi fattori e le dinamiche che contribuiscono alla determinazione dello sviluppo in senso patologico o deviante.

Lo studio dei comportamenti a rischio adolescenziali ha acquisito importanza a partire dagli anni Ottanta, quando si è compreso come la maggior parte delle cause di malattia e di morte nella seconda decade della vita avessero un’origine comportamentale. Il termine “comportamento a rischio” è stato utilizzato per definire una serie di comportamenti pericolosi per la salute tra cui l’uso di sostanze, il comportamento sessuale precoce o rischioso, la guida pericolosa, il comportamento suicida e omicida, i disordini alimentari e la delinquenza. Tali comportamenti possono, direttamente o indirettamente, mettere a repentaglio il benessere psicologico e sociale (es. l’attività sessuale precoce e non protetta che può portare ad una gravidanza precoce) e la salute fisica (es. la guida pericolosa e il fumo di sigaretta) e, una volta stabiliti diventano la maggiore causa di problemi di sanità anche nell’età adulta (U.S. Preventive Service Task Force, 1989).

Queste condotte presentano tra loro molte differenze, ma possono servire a raggiungere obiettivi di crescita simili: possono avere una “equivalenza funzionale”(Silbereisen e Noack, 1988). Affermare questo implica la necessità di andare oltre la semplice descrizione di un comportamento, per comprendere quali significati esso assume per chi lo attua. In adolescenza, in particolare, i comportamenti a rischio consentono al ragazzo di mettere alla prova le proprie abilità e competenze, di concretizzare i livelli di autonomia e controllo raggiunti e di sperimentare nuovi stili di comportamento (Palmonari, 1997). L’assunzione del rischio e la sperimentazione aiutano gli adolescenti a raggiungere indipendenza, maturità e a strutturare una propria identità. Tuttavia, tale assunzione di rischio può portare a mettere in atto comportamenti estremamente dannosi per la salute propria e altrui.

L’indagine sui meccanismi psicologici coinvolti nei comportamenti pericolosi ha dimostrato che alcuni fenomeni risultano essere particolarmente rilevanti per la percezione, e quindi l’attuazione, del rischio: l’ottimismo irrealistico e la sensation seeking.
L’ottimismo irrealistico é un bias cognitivo che produce una sottostima del rischio che si corre personalmente rispetto a una generica persona media (Weinstein, 1980). La sensation seeking (Zucherman, 1971) può essere descritta come il grado di novità e intensità di sensazioni ed esperienze che una persona ricerca attivamente. Alti livelli di sensation seeking definiscono una preferenza per esperienze nuove ed intense e sono correlati con l’attuazione di comportamenti sessuali precoci e non protetti, l’uso di droga e alcol e altri comportamenti a rischio.

La sensazione di invulnerabilità, unita alla sottovalutazione delle conseguenze negative a lungo termine e alla ricerca continua di sensazioni forti, sarebbe perciò determinante nel far assumere all’adolescente rischi significativi per la propria salute fisica e mentale.
Come detto in precedenza, gli effetti nocivi dei fattori di rischio sono mediati dalla presenza di fattori protettivi, i quali svolgono una funzione di riduzione della vulnerabilità del soggetto a esiti maladattivi. Tali fattori possono intervenire a più livelli: direttamente sul disturbo comportamentale attenuandolo, interrompendo la catena attraverso la quale il rischio conduce al disturbo, o prevenendo l’azione dei fattori di rischio stessi (Coie, Watt, West, Hawkins, Asarnow, Markman, Ramey, Shure, Long, 1993). Tra i fattori protettivi più efficaci nella riduzione degli agiti antisociali vi sono l’appartenenza al genere femminile, atteggiamenti prosociali sviluppati durante l’infanzia e buone performance cognitive (Piquero, Brezina, Turner, 2005).

Trattamento dell’anoressia nervosa: conosciamo i meccanismi di cambiamento psicologico?

Nel trattamento dell’anoressia nervosa i fattori aspecifici sono stati poco studiati. Una famosa review si è posta l’obiettivo di suggerire quali costrutti e processi siano importanti per comprende i cambiamenti evidenziati nei pazienti con anoressia nervosa trattati con la psicoterapia.

La ricerca clinica ha ampiamente dimostrato l’efficacia della psicoterapia nel produrre miglioramenti significativi del funzionamento psicosociale e della qualità della vita dei pazienti. Al contrario, ancora oggi la ricerca non ha ancora pienamente compreso come e sotto quali condizioni gli interventi psicologici funzionano.

Molti studi hanno puntato l’attenzione sui fattori così detti ‘aspecifici’ o ‘comuni’, cioè fattori non associati allo specifico intervento applicato, ma a elementi potenzialmente presenti in ogni terapia. Alcuni dei più conosciuti fattori aspecifici sono la relazione terapeutica, l’instillare speranza e il facilitare la padronanza di sé.

Nel trattamento dell’anoressia nervosa i fattori aspecifici sono stati poco studiati e per tale motivo la revisione proposta da Wollburg e colleghi si è posta l’obiettivo di suggerire alcuni costrutti e processi potenzialmente importanti per comprende i cambiamenti evidenziati nei pazienti con anoressia nervosa trattati con la psicoterapia. Gli autori hanno selezionato cinque costrutti e analizzato gli studi in cui questi sono stati valutati e misurati.

Primo costrutto nel trattamento dell’anoressia nervosa: la soddisfazione dei bisogni di base

La soddisfazione dei bisogni di base è definita come ‘il nutrimento dall’ambiente sociale, essenziale o necessario per i processi di crescita, l’integrità e il benessere futuro‘. Molti studi hanno trovato una relazione positiva tra la soddisfazione dei bisogni e il benessere. Il lavoro sui bisogni è supportato dalla self-determination theory e dalla consistency theory che considerano la soddisfazione dei bisogni come prerequisito essenziale per il cambiamento terapeutico. Queste teorie, su cui si sono basati alcuni approcci terapeutici per l’anoressia nervosa, suggeriscono che i pazienti tendono a ottenere risultati migliori, rispetto a quelli le cui necessità non sono supportate, quando:

  • Percepiscono che il terapeuta si prende genuinamente cura di loro
  • Si sentono capaci nel processo di trattamento dell’anoressia nervosa
  • Si sentono di poter fare scelte importanti riguardo al trattamento dell’anoressia nervosa
  • Considerano il trattamento dell’anoressia nervosa un’esperienza piacevole
  • Comprendono i processi del trattamento dell’anoressia nervosa e si sentono in grado di controllarne alcuni aspetti.

Secondo gli autori vi sono prove indirette che i pazienti con anoressia nervosa abbiano una compromissione della capacità di soddisfare i propri bisogni psicologici di base, tanto da non essere in grado di raggiungere e/o mantenere il proprio benessere. Inoltre, vi è la prova che questi bisogni sono spesso frustrati dalla psicopatologia stessa. Per cui, trattamenti che mirano a soddisfare queste esigenze comunemente frustrate potrebbero produrre effetti positivi.

Secondo costrutto nel trattamento dell’anoressia nervosa: le aspettative e l’alleanza terapeutica

Le aspettative, così come l’alleanza terapeutica, sembrano essere importanti predittori di esito positivo del trattamento dell’anoressia nervosa. Alcuni studi evidenziano che la costruzione di una precoce alleanza terapeutica predice il cambiamento sintomatologico e che avere aspettative positive nei confronti del trattamento dell’anoressia nervosa favorisce un miglior ingaggio nella psicoterapia.

Costruire una forte alleanza terapeutica è un lavoro particolarmente impegnativo con i pazienti sottopeso perché il terapeuta deve trovare un equilibrio tra uno degli obiettivi principali del trattamento dell’anoressia nervosa, cioè il recupero di peso, e la soddisfazione delle necessità psicologiche del paziente.

Terzo costrutto nel trattamento dell’anoressia nervosa: l’evitamento esperienziale e la flessibilità psicologica

Gli autori suggeriscono che il passaggio da uno stile evitante, rigido, inflessibile a una maggiore apertura e flessibilità cognitivo-affettiva potrebbe essere un mediatore chiave del progresso terapeutico dei pazienti con anoressia nervosa.

Una forma particolare di evitamento, definito esperienziale, che descrive una persona ‘Non disposta a rimanere in contatto con esperienze private particolari (per es. sensazioni corporee, emozioni, pensieri, ricordi, predisposizioni comportamentali) che prende provvedimenti per modificare la forma o la frequenza di questi eventi e il contesto in cui si possono verificare‘, è da alcuni considerato un aspetto centrale della psicopatologia del disturbo e un meccanismo da affrontare durante il trattamento dell’anoressia nervosa. Dall’altro lato è stato più volte dimostrato che un aumento dei livelli di perfezionismo e inflessibilità cognitiva hanno un effetto negativo sull’esito del trattamento dell’anoressia nervosa. La rigidità cognitiva e la lotta per la perfezione potrebbero facilitare comportamenti tipici dei pazienti con anoressia, come il digiuno o le peculiari regole dietetiche, e quindi rappresentare fattori di mantenimento del disturbo dell’alimentazione.

L’evidenza scientifica supporta l’idea che l’aumento della flessibilità psicologica e la riduzione dell’evitamento esperienziale siano associati con l’aumento del benessere e la riduzione della psicopatologia specifica del disturbo dell’alimentazione.

Quarto costrutto nel trattamento dell’anoressia nervosa: la motivazione e le cognizioni disfunzionali

Alcuni studi e teorie supportano l’ipotesi che la motivazione interna sia uno dei principali meccanismi di cambiamento a breve e a lungo termine dei pazienti affetti da anoressia nervosa.

I pazienti che sono motivati a cambiare potrebbero essere più propensi a modificare o abbandonare le convinzioni o le cognizioni che mantengono la loro psicopatologia. Tuttavia, la relazione tra cambiamenti motivazionali e modificazione dei processi cognitivi, non è stata esaminata sistematicamente. L’evidenza suggerisce che i processi cognitivi e comportamentali specifici sono direttamente legati al successo nel trattamento dell’anoressia nervosa, anche se sono raramente contestualizzati in termini di esperienze motivazionali e affettive che li precedono o li seguono.

Quinto costrutto nel trattamento dell’anoressia nervosa: l’approccio positivo correlato agli stati dell’umore

È stato suggerito che l’approccio positivo correlato agli stati dell’umore possa facilitare il progresso del trattamento dell’anoressia nervosa e portare a un aumento del benessere e a un miglioramento ad ampio spettro della psicopatologia del disturbo. In questo contesto dovrebbe essere considerato il ruolo dell’ansia come moderatore del successo nel trattamento dell’anoressia nervosa. Si ipotizza, infatti, che l’ansia possa determinare quanto i pazienti siano in grado di tollerare il rischio del cambiamento. A supporto di questa ipotesi, alcuni autori hanno evidenziato un più lento aumento di peso in pazienti che manifestano una psicopatologia più grave e maggiori livelli di ansia.

Questa revisione, seppur con il limite di un approccio top-down alla letteratura scientifica e la natura preliminare dei modelli teorici proposti, sostiene un principio fondamentale che fa da guida al mondo scientifico: per ottenere progressi scientifici occorre formulare ipotesi e gettare reti esplorative che catturino i processi di cui la ricerca potrà occuparsi.

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