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Valutazione del personale: il rischio di distorsione di giudizio nei selezionatori

Nel processo di valutazione del personale è importante che lo psicologo del lavoro sia adeguatamente preparato rispetto agli errori di valutazione in cui è possibile incorrere, in modo da poter condurre un processo di selezione etico e responsabile.

Uno dei settori operativi della Psicologia applicata è quello del mondo del lavoro, molti psicologi infatti mettono in campo la loro professionalità in attività soprattutto dedicate alla formazione, alla ricerca e selezione e alla valutazione del personale.

Qui mi occuperò in particolare del processo di selezione e valutazione del personale e di come le distorsioni di giudizio proprie del valutatore possano incidere in esso.

È bene infatti tener conto che il processo di valutazione del personale è caratterizzato da attività molto delicate che avranno, in seguito alla selezione del candidato ritenuto ideale, un impatto non indifferente sull’azienda. È quindi importante che chi seleziona sia adeguatamente preparato rispetto agli errori di valutazione in cui è possibile incorrere, in modo da poter condurre un processo di selezione che possa essere definito etico e responsabile.

Nel processo di selezione è possibile distinguere tre fasi: Reclutamento, Valutazione e Inserimento. Durante la fase di valutazione del personale è possibile distinguere l’utilizzo di tecniche standardizzate (test psicometrici psicoattitudinali), oggettive e replicabili, e di tecniche non standardizzate (colloqui e interviste), caratterizzate dalla soggettività acquisita del selezionatore. Ed è proprio in quest’ultima area che verranno analizzati i possibili errori di giudizio nei quali potrebbe incorrere un valutatore.

 

Le distorsioni di giudizio nella valutazione del personale

Come è facilmente intuibile le distorsioni di giudizio non sono totalmente eliminabili, ogni persona ha infatti opinioni preconcette, positive o negative, che possono far assumere determinati comportamenti discriminanti o di favoreggiamento nell’ambito del giudizio o, più in generale, nei rapporti sociali. È possibile riassumere questo concetto in una parola: pregiudizio. Il selezionatore esperto dovrà saper infatti riconoscere ed essere consapevole dei propri pregiudizi cercando, nel processo di valutazione del personale, di minimizzarli o di utilizzarli come elemento di partenza non per formarsi un’opinione a priori del candidato, ma per approfondire determinati ambiti.

Oltre i pregiudizi, un errore di valutazione ampiamente diffuso è quello dato dall’effetto alone. Questo effetto si verifica quando si attribuisce ad un candidato in fase di colloquio un giudizio positivo o negativo in base ad una sua caratteristica (ad esempio, l’abbigliamento, l’aspetto fisico o il modo di relazionarsi). Se questa caratteristica, positiva o negativa che sia, influenza il giudizio del selezionatore a tal punto di estenderlo ad altre caratteristiche del candidato, si parla di effetto alone. Un semplice esempio di effetto alone su una attribuzione di caratteristica positiva, può essere l’estensione del giudizio di bello a quello di bravo; agli occhi del valutatore il candidato potrà risultare quindi automaticamente bravo solamente grazie al suo aspetto fisico esteriore.

Talvolta è possibile che il candidato venga valutato in modo eccessivamente positivo o negativo, in questi casi si parla di effetto indulgenza o, al contrario, di effetto severità. Il primo è facile che si verifichi quando il datore di lavoro ha una necessità immediata di inserire una persona all’interno del proprio contesto lavorativo, per esempio a causa di un aumento di lavoro, e quindi sorvoli su alcune caratteristiche a favore di un giudizio veloce e incompleto. Il secondo effetto invece si verifica in situazioni sostanzialmente opposte, cioè quando il giudizio è caratterizzato da eccessiva severità e se il profilo del candidato non corrisponde in ogni suo singolo aspetto a quello richiesto, viene facilmente scartato.

Un altro effetto, nella valutazione del personale, è quello definito di tendenza centrale, ovvero la tendenza ad attribuire al candidato valori di giudizio medi o nella norma, senza sbilanciarsi su valori alti o bassi. Il rischio è di emettere giudizi non riuscendo a valorizzare le prestazioni eccellenti e senza individuare quelle scarse.

Altro errore di giudizio che si verifica di frequente è la valutazione positiva del candidato che possiede caratteristiche simili o in linea con quelle del selezionatore, e la valutazione negativa di chi possiede caratteristiche distanti o diverse da esso; questo viene definito effetto di equazione personale. L’effetto di contrasto invece si verifica quando chi valuta mette in relazione il proprio giudizio del candidato con altre osservazioni fatte precedentemente. L’errore che ne deriva è di non considerare la valutazione del candidato nel momento attuale, ma solo in relazione alla valutazione di altri candidati precedenti.

Un errore di valutazione che tutti fanno, anche nella vita quotidiana, è quello dovuto all’effetto primacy, generalmente definito della prima impressione. In questo caso il selezionatore tende a dare un peso maggiore alle prime informazioni che riceve, come ad esempio aspetto fisico e abbigliamento, e tenderà inoltre a ricordarle alla fine, quando dovrà formulare un giudizio. Il rischio è che le informazioni successive alla prima impressione vengano considerate poco rilevanti o addirittura tralasciate. Il giudizio sulla prima impressione viene formulato nei primissimi secondi di incontro tra selezionatore e candidato, favorendo la costruzioni a priori dell’immagine del candidato e indirizzando il valutatore alla ricerca di elementi che confermino la sua idea iniziale. L’effetto primacy è una delle distorsioni di giudizio più comuni e difficili da mettere in discussione, è infatti molto arduo mettere in atto uno sforzo critico per modificare il nostro primo giudizio. L’effetto opposto è ciò che viene definito effetto recency, generalmente poco frequente nei processi di selezione e valutazione del personale. Quest’ultimo riguarda la propensione a ricordare solo la ultime informazioni fornite dal candidato, soprattutto quelle con valore positivo.

Giunti a questo punto e presentate le principali possibili distorsioni di giudizio, la domanda sorge spontanea: è quindi possibile mettere a punto un giudizio oggettivo e privo di errori? La risposta è, senza dubbio, no. È al contrario possibile invece ridurre al minimo la possibilità che si verifichino errori di valutazione da parte di chi seleziona. Come fare questo? Utilizzando alcuni accorgimenti puramente tecnici nel processo di valutazione del personale, come ad esempio test oggettivi o avvalendosi di più pareri, formando i selezionatori su come avvengono i processi di giudizio e sui possibili errori di valutazione e, naturalmente, con l’esperienza. Nel momento in cui il selezionatore diventa consapevole dei possibili errori di giudizio che può incontrare, delle conseguenze che essi hanno, e delle modalità che potrebbe mettere in atto per riconoscerli, contenerli e controllarli, arriverebbe a portare un grande valore aggiunto al proprio lavoro, al candidato stesso e, non meno importante, all’azienda per la quale lavora.

Big Five e Teorie della personalità – Introduzione alla psicologia

La teoria dei Big Fivetra le diverse teorie sulla personalità, è considerata quella maggiormente in grado di spiegare più variabilità individuale tra i soggetti.

INTRODUZIONE ALLA PSICOLOGIA RUBRICA DI DIVULGAZIONE SCIENTIFICA IN COLLABORAZIONE CON LA SIGMUND FREUD UNIVERSITY DI MILANO 

La Teoria dei Big Five: introduzione

Nella storia della psicologia si sono susseguite e confrontate diverse teorie sulla personalità e sul suo sviluppo.

Allo stato attuale, la teoria dei cinque grandi fattori della personalità (teoria dei Big Five) è considerata quella maggiormente in grado di spiegare più variabilità individuale tra i soggetti. Il termine Big Five è stato usato per la prima volta da Goldberg (1981), anche se fu Norman (1963) a dar inizio ad un lavoro approfondito sui cinque grandi fattori. Questa teoria elaborata da McCrae e Costa risulta, tra i modelli incentrati su un approccio nomotetico allo studio della personalità, uno dei più condivisi e testati sia a livello teorico che empirico.

 

La Teoria dei Big Five: la storia

Tra le più importanti teorie della personalità vi sono le teorie dei tipi e quelle dei tratti psicologici.

Nel dettaglio, con il termine «tratti» si è soliti indicare quelle caratteristiche della personalità, per lo più ritenute di origine genetica (Eysenck, 1990), e quindi difficilmente modificabili, che influenzano il comportamento umano in modo stabile. I tratti si oppongono agli stati che sono definiti come disposizioni transitorie della personalità e, in quanto tali, sono, facilmente modificabili.

Attualmente le teorie dei tratti sono considerate più scientifiche rispetto a quelle dei tipi. Di conseguenza, la personalità è data dalla somma dei tratti di un individuo che sarebbero in grado di spiegare il comportamento osservato. Quindi, i tratti rappresentano variabili latenti (ossia non osservabili direttamente) che spiegano il comportamento umano manifesto.

 

La Teoria dei Big Five: le teorie di riferimento

Le teorie dei tratti della personalità più note sono quella di Cattell, quella di Eysenck e successivamente quella dei «Cinque grandi fattori della personalità» (teoria dei «Big Five»). Queste tre non sono le uniche esistenti ma si evidenziano per l’indiscutibile importanza che hanno avuto e che continuano ad avere.
Secondo Cattell i tratti primari costitutivi della personalità sarebbero sedici:

  • A – distaccato, freddo;
  • B – superficiale, inintelligente;
  • C – immaturo, labile;
  • E – deferente, mite;
  • F – rigido, depresso;
  • G – incostante, volubile;
  • H – timido, impacciato;
  • I – duro, realista;
  • L – fiducioso, tollerante;
  • M – convenzionale, pratico;
  • N – ingenuo, sprovveduto;
  • O – tranquillo, sicuro;
  • Q1 – conservatore, tradizionalista;
  • Q2 – dipendente, imitativo;
  • Q3 – indolente, incontrollato;
  • Q4 – rilassato, placido.

Questi tratti sono misurati soprattutto dal test 16 PF (Cattell, Eber e Tatsuoka, 1970). Essi sono i tratti più significativi n grado di spiegare la maggior parte della varianza della personalità negli adulti normali.

Uno dei problemi principali è che i fattori di Cattell sono difficilmente replicabili sia per le etichette utilizzate sia per la bontà dei dati ottenuti.

Più tardi Eysenck presentò la teoria trifattoriale, cioè basata su tre fattori: Estroversione (E), Nevroticismo (N) e Psicoticismo (P).

Eysenck nell’arco della sua attività scientifica ha costruito una serie di test di personalità atti a misurare questi tre fattori, ciascuno dei quali era un miglioramento rispetto ai precedenti. Si tratta di pochi tratti non in grado di coprire tutto l’insieme delle caratteristiche individuali.

 

La Teoria dei Big Five

Così, nascono i Big Five. Secondo questa teoria vi sono cinque grandi fattori della personalità che rappresentano il punto di convergenza delle teorie dei tratti precedentemente presentate. Le 5 dimensioni elencate di seguito, corrispondono alle macro-categorie più usate per descrivere le diversità tra individui.

Le cinque categorie sono:

  1. Estroversione. Il polo positivo di questo fattore è rappresentato dall’emozionalità positiva e dalla socialità, laddove quello negativo è rappresentato dall’introversione, ossia dalla tendenza ad «esser presi» più dal proprio mondo interno che da quello esterno.
  2. Amicalità. Il polo positivo di questo fattore è rappresentato da cortesia, altruismo e cooperatività; il polo negativo da ostilità, insensibilità ed indifferenza;
  3. Coscienziosità. Questo fattore contiene nel suo polo positivo gli aggettivi che fanno riferimento alla scrupolosità, alla perseveranza, alla affidabilità ed alla autodisciplina e, nel suo polo negativo, gli aggettivi opposti;
  4. Nevroticismo. Il polo positivo di questo fattore è rappresentato da vulnerabilità, insicurezza ed instabilità emotiva. Il polo opposto è rappresentato dalla stabilità emotiva, dalla dominanza e dalla sicurezza.
  5. Apertura all’Esperienza. Il polo positivo di questo fattore è rappresentato da creatività, anticonformismo ed originalità. Il polo opposto è, invece, identificato dalla chiusura all’esperienza, ossia dal conformismo e dalla mancanza di creatività ed originalità.

 

Valutazione della personalità con il modello Big Five

La valutazione della personalità attraverso il modello dei Big Five può avvenire mediante la compilazione da parte del soggetto di un questionario (strutturato attraverso la scala di Likert), oppure mediante la valutazione della condotta in un contesto di simulazione (come ad esempio l’Assessment center).

Per gli autori della versione italiana (Caprara, Barbaranelli e Borgogni), ognuna di queste cinque dimensioni è costituita di due sottodimensioni così definite:

  1. Estroversione:dinamismo, dominanza
  2. Amicalità: cooperatività/empatia, cordialità/ atteggiamento amichevole
  3. Coscienziosita’: scrupolosità, perseveranza
  4. Stabilita’ emotiva: controllo delle emozioni, controllo degli impulsi
  5. Apertura mentale: apertura alla cultura, apertura all’esperienza.

I fattori della teoria dei Big Five sono stati riscontrati in diverse popolazioni, in diverse età e in diversi studi basati sia su questionari che sul linguaggio naturale.

 

RUBRICA: INTRODUZIONE ALLA PSICOLOGIA

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Psicologia, nel Lazio il primo sportello di consulenza gratuita per le vittime di abuso professionale

Il 18 febbraio l’Ordine degli Psicologi del Lazio apre uno sportello di assistenza legale gratuita, rivolto ai cittadini vittime di abuso di professione psicologica. Un servizio innovativo e dedicato, che risponderà a tutti gli interrogativi dell’utente fino ad accompagnarlo nell’eventuale percorso legale. Il primo passo, è on line: un e-book e un vademecum per smascherare i casi “sospetti”.

Roma 17 febbraio 2016. Il fenomeno dell’abuso di professione è in preoccupante ascesa. Secondo una ricerca resa nota dall’EURES nel 2014, le professioni abusive in Italia sono oltre 30 mila, in tutti i campi, ma per oltre il 50% interessano la dimensione della salute. Per tutelare i cittadini da questo crescente allarme sociale, l’Ordine degli Psicologi del Lazio ha deciso di attivare un nuovo servizio: uno sportello di consulenza e assistenza legale gratuita, rivolto a tutti coloro che abbiano il sospetto di avere subito truffe o raggiri da parte di sedicenti specialisti della psiche.

 

«Negli ultimi anni – spiega Nicola Piccinini, presidente dell’Ordine degli Psicologi del Lazio – solo ai nostri uffici sono arrivate decine di segnalazioni di possibili abusi: 30 per condotta irregolare o scorretta presentazione delle proprie competenze; oltre 50 per usurpazione del titolo professionale in occasione di master e corsi; più di 100 per esercizio abusivo della professione. Insomma il fenomeno è serio e, anche alla luce della recente sentenza del Tar del Lazio che disciplina con maggiore severità il counseling psicologico, impone un’azione di tutela del pubblico più decisa e incisiva. D’ora in avanti, perciò, l’Ordine degli Psicologi del Lazio assumerà nei confronti di questa problematica un ruolo inedito, raccogliendo con maggiore prontezza le sollecitazioni della cittadinanza e facendo proprie le sue istanze»

 

In effetti il servizio predisposto dagli Psicologi del Lazio, in funzione a partire dal 18 febbraio, 27° anniversario dell’istituzione dell’Ordine degli Psicologi, rinnoverà in modo significativo il rapporto tra Ordine e pubblico. L’ente, in presenza di potenziali illeciti, non si limiterà più a indirizzare automaticamente il cittadino all’autorità di pubblica sicurezza, ma si porrà concretamente al suo servizio: approfondendo nel merito la segnalazione, fornendo immediati chiarimenti sui titoli dello specialista “sospetto” e, soprattutto, offrendo un servizio di consulenza legale gratuita nella predisposizione della pratica, per affiancarlo nell’eventuale percorso di rivalsa. In presenza di gravi reati, poi, l’Ordine giungerà a costituirsi parte civile.

Prima di richiedere la consulenza degli uffici, tuttavia, l’utente potrà esaminare la propria posizione autonomamente. Visitando il sito web degli Psicologi del Lazio, infatti, potrà scaricare un e-book gratuito, da cui ricavare in modo facile e intuitivo una prima valutazione della prestazione professionale che ha ricevuto e, secondariamente, una mappa delle possibili azioni da intraprendere. Tutte le informazioni sul servizio sono disponibili all’indirizzo www.ordinepsicologilazio.it.

 

 

Il re è nudo! – Il potere del leader ha bisogno della sua follia

E’ noto che più si sale nella gerarchia aziendale e più è difficile trovare persone che dicano la verità, bambini innocenti che osino gridare: ‘Il re è nudo!

 

Il re è nudo è una celebre frase della fiaba ‘I vestiti nuovi dell’imperatore’ di Hans Christian Andersen. Nella fiaba si narra di un re che amava i vestiti e che cadde in una trappola così raccontata:

Una volta arrivarono due impostori: si fecero passare per tessitori e sostennero di saper tessere la stoffa più bella che mai si potesse immaginare. Non solo i colori e il disegno erano straordinariamente belli, ma i vestiti che si facevano con quella stoffa avevano lo strano potere di diventare invisibili agli uomini che non erano all’altezza della loro carica e a quelli molto stupidi.

I truffatori finsero di lavorare sui tessuti, ovviamente inesistenti, ma nessuno osò denunciare la truffa in atto proprio per quel meccanismo che prevedeva che a non vedere i tessuti fossero gli incapaci e gli stupidi.

L’epilogo è noto: il re viene vestito con i vestiti inesistenti e sfila per la città nudo:

E così l’imperatore aprì il corteo sotto il bel baldacchino e la gente che era per strada o alla finestra diceva: «Che meraviglia i nuovi vestiti dell’imperatore! Che splendido strascico porta! Come gli stanno bene!».

Nessuno voleva far capire che non vedeva niente, perché altrimenti avrebbe dimostrato di essere stupido o di non essere all’altezza del suo incarico.

«Ma non ha niente addosso!» disse un bambino «Signore, sentite la voce dell’innocenza!» replicò il padre, e ognuno sussurrava all’altro quel che il bambino aveva detto. «Non ha niente addosso! C’è un bambino che dice che non ha niente addosso!». «Non ha proprio niente addosso!» gridava alla fine tutta la gente. E l’imperatore, rabbrividì perché sapeva che avevano ragione, ma pensò: «Ormai devo restare fino alla fine». E così si raddrizzò ancora più fiero e i ciambellani lo seguirono reggendo lo strascico che non c’era.

 

Il leader e il giullare

Come non associare le figure allegoriche della fiaba di Andersen, ai protagonisti che circondano il re dei nostri giorni che spesso sono soli con il loro potere, privi di verifiche concrete sui loro comportamenti, circondati da collaboratori, che vivono in uno stato di soggezione gerarchica? In realtà i leader avrebbero bisogno di persone sincere, di folli che, ricorrendo all’arma dell’umorismo, riescono a limitare le conseguenze dell’arroganza e dell’ostilità. In questo senso, il potere del leader ha bisogno della sua follia.

Il Re Lear shakespeariano aveva un buffone di corte, che aveva la funzione, importantissima, di dire la verità al potere. Re Lear fallisce perché, in un certo senso, non dà ascolto alle parole del suo buffone e rimane agganciato ad un solo punto di vista. Il principe Hal, invece, diventa un grande sovrano perché sa ascoltare i suggerimenti e le lezioni di un altro straordinario personaggio comico: Falstaff, furfante memorabile, ma anche inimitabile maestro di saggezza popolare. Sono gli individui come Falstaff e il Fool, che si muovono lontano dal cuore dell’organizzazione, a dire al leader la verità e a ricordargli la natura terrena e provvisoria del suo potere.

Anche Erasmo da Rotterdam, nel suo ‘Elogio della Follia‘, esamina il rapporto tra il leader ed il giullare. Sotto le apparenze della follia, il giullare può dire ciò che per altri è indicibile; usando le risorse dell’umorismo, il folle protegge il re dal rischio di diventare arrogante e malato di narcisismo.

Nei tempi passati i sovrani, dunque, gradivano il giullare di corte, a cui era consentito dire, ridendo e facendo ridere, la verità, per esempio su quanto effimero sia il potere. Erano, in definitiva, la coscienza critica, ma nascosta, del re.

Oggi, all’interno delle organizzazioni, leadership e followership sono ruoli in relazione ed il follower può esercitare un’influenza verso l’alto in modo attivo, in altre parole ‘a dispetto dello squilibrio di potere, l’influenza può essere esercitata da entrambi i ruoli come parte di uno scambio sociale’ (Hollander, 1992).

La followership non può essere sudditanza e neppure silente attesa dell’entrata del leader come se fosse il Re Sole; d’altra parte il leader non deve essere malato di narcisismo, ovvero avere una personalità che la psicologia clinica definisce maniacale.

 

Narcisismo e Leadership: gli svantaggi delle apparenze. - Immagine di Costanza Prinetti
Narcisismo e Leadership: gli svantaggi delle apparenze.

Il profilo del disturbo borderline di personalità secondo l’MMPI-2

Uno dei test più utilizzati nella pratica clinica ma anche nella ricerca come supporto alla diagnosi dei disturbi psichiatrici, così come anche del disturbo borderline di personalità è l’MMPI-2 (Hathaway & McKinley, 1989).
E’ possibile delineare uno specifico profilo MMPI-2 in pazienti con Disturbo Borderline di Personalità?

 

Il disturbo borderline di personalità

Il Disturbo Borderline di Personalità si manifesta nel 2% della popolazione, in prevalenza nelle donne, ed è il disturbo di personalità più frequentemente osservato nella pratica clinica, a causa della sofferenza che genera e per i frequenti ricoveri e ospedalizzazioni che comporta.
La caratteristica principale del Disturbo Borderline di Personalità (DBP) è la presenza di bruschi e rapidi cambiamenti dell’umore, instabilità nei comportamenti e nelle relazioni interpersonali, impulsività e instabilità dell’immagine di sé.
Ad oggi, la psicoterapia sembra essere il trattamento di elezione per la cura del Disturbo Borderline di Personalità e, proprio per questo motivo, una valutazione psicodiagnostica che porti ad una diagnosi ben definita e alla successiva pianificazione dell’intervento, appare di importanza fondamentale per un intervento tempestivo.

Uno dei test più utilizzati nella pratica clinica ma anche nella ricerca come supporto alla diagnosi dei disturbi psichiatrici, così come anche del Disturbo Borderline di Personalità è l’MMPI-2 (Hathaway & McKinley, 1989).
E’ possibile delineare uno specifico profilo MMPI-2 in pazienti con Disturbo Borderline di Personalità?

Lo studio

Uno studio RCT di Nasiri et al. (2013) ha cercato di fornire una risposta a questo quesito. Nella ricerca, il profilo medio MMPI-2 ottenuto in 50 donne con Disturbo Borderline di Personalità in trattamento ambulatoriale è stato confrontato con quello ottenuto da un campione di 50 donne selezionate al di fuori dei contesti ambulatoriali.

I risultati hanno evidenziato differenze significative tra le medie dei due profili ottenuti. In particolare, pazienti con diagnosi di Disturbo Borderline di Personalità hanno ottenuto un punteggio molto elevato sia nella scala F che nelle scale cliniche 1, 3, 4, 7 e 8.

Il profilo del disturbo borderline di personalità secondo l'mmpi-2

Fig. 1 Tratto da Nasiri et al (2013): confronto tra i profili medi MMPI-2 ottenuti nel gruppo BDP e nel gruppo non BDP.

Tali risultati sono in linea anche con i risultati ottenuti in studi precedenti (Edell, 1987; Hurt, 1985 e Gandolfo, 1991) e sono interpretabili sulla base dell’eterogeneità sintomatologica (disturbi d’ansia, di funzionamento della personalità e sintomi psicotici transitori) che caratterizza il disturbo Borderline e che produce sull’MMPI-2 un’elevazione notevole di molte scale cliniche di base.

Tuttavia lo studio presentato, seppure fornisca risultati incoraggianti, presenta alcuni limiti. In particolare, il limite più evidente è stata la pressoché totale assenza di studi recenti in merito con cui poter confrontare i risultati ottenuti; in secondo luogo il campione era costituito esclusivamente da donne e questo riduceva di gran lunga la possibilità di poter generalizzare i risultati. Infine, il gruppo di controllo era rappresentato da soggetti appartenenti a popolazione non clinica mentre interessante sarebbe comprendere se l’MMPI-2 sia in grado di discriminare in maniera fine il Disturbo Borderline di Personalità dagli altri disturbi di personalità descritti nel modello alternativo del DSM-5.

Ansia sociale: tecniche di gestione dei pensieri negativi. Detached Mindfulness vs Ristrutturazione Cognitiva

Trattamento dell’ansia sociale: il recente studio di Gkika e Wells (2015) rappresenta un buon esempio di trial clinico controllato in cui vengono confrontate due specifiche tecniche terapeutiche che si fondano su approcci differenti per il trattamento dei pensieri negativi disfunzionali. Dunque non si verifica l’efficacia di un protocollo di intervento in generale rispetto a un gruppo di controllo, ma si comparano due differenti tecniche, possiamo dire due segmenti afferenti a protocolli clinici piu’ complessi. In particolare stiamo parlano della comparazione della tecnica della detached mindfulness (DM) e quella della ristrutturazione cognitiva o valutazione dei pensieri (in inglese “thoughts evaluation”) per intervenire sui pensieri negativi che innescano e mantengono la fobia e l’ansia sociale.

 

I fattori chiave nell’ ansia sociale secondo il modello di Clark e Wells

La ristrutturazione cognitiva è empiricamente dimostrata come una tecnica in grado di migliorare i sintomi della fobia sociale (Mattick et al. 1989; Taylor et al.1997), anche se non interverrebbe su altri fattori cognitivi in gioco nei soggetti con ansia sociale. Tra questi fattori, facendo riferimento al modello di Clark e Wells (1995) possiamo elencarne almeno due:

  • L’elaborazione o processamento anticipatorio, ovvero un rimuginio riguardo le situazioni sociali imminenti che implica previsioni ansiose, ricordi negativi, pensieri intrusivi e impulsi a evitare;
  • La focalizzazione su un’immagine di sé negativa, ovvero prevalenza di immagini mentali di sé negative e distorte nel momento in cui vengono alla memoria situazioni sociali vissute in precedenza rispetto a situazioni passate neutre (non sociali). Questo fattore sarebbe connesso a un aumento dell’ansia e delle credenze negative riguardo le performaces sociali.

Wells (2009) ipotizza che siano determinanti nel mantenimento della sintomatologia non tanto i contenuti, bensì i processi cognitivi di focalizzazione rigida dell’attenzione e di rimuginio su determinati pensieri e immagini mentali. Questi processi attentivi e cognitivi esitano in convinzioni metacognitive che mantengono il disturbo. Dunque le credenze, i pensieri e le immagini mentali negative (ad esempio, “se mostro la mia ansia, gli altri penseranno che sono debole”) vengono considerate sia come esito che come trigger di ulteriore rimuginio, ruminazione e focalizzazione rigida dell’attenzione sul sé. Di conseguenza sarebbe il rimuginio rigido focalizzato sul sé la principale causa del disturbo e non di per sé i contenuti di pensieri e credenze.

 

 

Il confronto tra detached mindfulness e ristrutturazione cognitiva nella riduzione dell’ansia sociale

Partendo da queste premesse l’ipotesi di Gkika e Wells (2015) e’ che la ristrutturazione cognitiva avrebbe un effetto instabile e incompleto nella risoluzione dei sintomi dell’ansia sociale dal momento in cui non interviene sulla gestione dei processi cognitivi sopra descritti, ma solo sui contenuti cognitivi. Lo scopo dello studio é quello di valutare l’effetto unicamente specifico di due tecniche e non dei relativi protocolli (di cui solitamente le tecniche sono parte sia nella pratica clinica che nei trial di ricerca). In particolare le ipotesi formulate sono le seguenti:

  1. Entrambe le tecniche di detached mindfulness e di ristrutturazione cognitiva sarebbero significativamente correlate a una diminuzione dell’ansia sociale, del rimuginio anticipatorio, delle credenze negative e di un’ immagine di sé negativa;
  2. La tecnica di detached mindfulness sarebbe pero’ associata a cambiamenti maggiori nei fattori sopra descritti rispetto alla tecnica di ristrutturazione cognitiva.

All’interno di un disegno cross-over a misure ripetute a tutti partecipanti è stato richiesto di praticare per 15 minuti -prima di un discorso pubblico- le tecniche oggetto dello studio. Va detto che il campione ha una dimensione piuttosto limitata, ovvero 12 soggetti con elevati livelli di ansia sociale.

La tecnica della detached mindfulness (Wells and Matthews, 1994) ha come finalità quella di promuovere una “metaconsapevolezza”, ovvero una osservazione e consapevolezza decentrata della propria attivita’ cognitiva.

La tecnica della ristrutturazione cognitiva invece ha come obiettivo la rivalutazione, la disamina e la disputa dei contenuti dei pensieri e delle credenze negative che avviene principalmentete mediante domande socratiche (Greenberg and Padesky, 1995) risultati dimostrano che la pratica di entrambe le tecniche, sia la detached mindfulness che la ristrutturazione cognitiva, è associata alla riduzione dell’ansia di stato; mentre la detached mindfulness agirebbe in modo specifico riducendo anche il rimuginio anticipatorio, l’attenzione focalizzata sulla propria immagine, e il livello di convinzione sulle proprie credenze. In secondo luogo, secondo i dati la detached mindfulness sarebbe associata a una maggior quota di cambiamento in tutte le variabili di outcome considerate (ad eccezione dell’ansia di stato ridottasi in modo equivalente a seguito di entrambe le tecniche).

Un altro risultato interessante e’ che la ristrutturazione cognitiva se e quando praticata dopo la detached mindfulness e’ associata a un peggioramento del rimuginio anticipatorio. Gli autori spiegano il fenomeno asserendo che il lavoro di ristrutturazione dei pensieri negativi potrebbe portare il soggetto nuovamente a sopravalutare l’importanza dei processi di pensiero, rinforzando quindi in qualche misura il rimuginio sulle situazioni sociali future. Attenzione dunque all’utilizzo eclettico – altamente frequente tra gli psicoterapeuti cognitivi – di tecniche afferenti a diversi approcci, poiche’ gli effetti della combinazione di tecniche specifiche non sono ancora saldamente conosciuti e verificati a livello empirico.

Seppure questi dati aprono ipotesi esplicative intriganti vanno pero’ trattati con cautela poiche’ lo studio risente di alcuni importanti limiti tra cui la limitata dimensione del campione di soggetti estratti da una popolazione non clinica e la tipologia di disegno sperimentale. Certamente, lo studio dimostra empiricamente l’efficacia della detached mindfulness nella riduzione dell’ansia sociale e dei fattori cognitivi in essa coinvolti.

 

Congresso Internazionale Terapia Metacognitiva Milano 2016

Senso di colpa e vergogna: quale relazione con rabbia e aggressività?

Si pensa solitamente a vergogna e senso di colpa come a due esperienze emozionali private che fanno parte della morale, correlate profondamente con il senso di sé, e collegate alle relazioni interpersonali. Accade spesso che la vergogna venga confusa con il senso di colpa, in realtà le due componenti emozionali presentano molteplici differenze.

Valentina Di Dodo – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi Modena

 

Il senso di colpa segue la trasgressione e attiva l’angoscia della punizione, mentre la vergogna è accompagnata dalla percezione di un fallimento totale o parziale della propria dignità e dalla sensazione del pericolo dell’abbandono affettivo, questo avviene perché si manifesta la percezione di essere divenute delle persone spregevoli.

Con il senso di colpa la persona mette in discussione il ‘cosa ho fatto’, infatti, questo stato affettivo vede come elemento fondamentale la possibilità della riparazione, attuata conseguentemente a ciò che è accaduto in precedenza; data questa spinta all’azione è possibile considerare il senso di colpa come un’emozione primitiva. Con la vergogna, invece, l’individuo mette in discussione il ‘come sono’, questo fa sì che si abbiano pochissime possibilità di porre rimedio a ciò che è accaduto. La difficoltà principale risiede nel fatto che questa emozione è il frutto di uno stato interno del sé e non il prodotto di un conflitto esterno, infatti, la vergogna mina l’integrità del sé e delle proprie capacità.

Storicamente non sempre viene fatta una distinzione tra vergogna e senso di colpa, così accade che spesso i due concetti si sovrappongono, questo deriva dalla numerosità di aspetti comuni tra i due stati affettivi. Si potrebbero fare numerosi esempi relativi a queste somiglianze, per citarne alcuni è opportuno dire che entrambi questi stati affettivi fanno parte delle cosiddette emozioni morali, in altre parole promuovono un tipo di comportamento cosiddetto morale e tentano di inibire quei comportamenti che, invece, implicherebbero una trasgressione. Un altro esempio con riferimento alla vicinanza concettuale di queste due emozioni ci è dato dal il fatto che vergogna e senso di colpa sono emozioni con una valenza negativa ed entrambe si presentano in risposta a quelle situazioni in cui la persona si trova a dovere affrontare un fallimento personale o una trasgressione, verificatesi generalmente in un contesto interpersonale.

 

Senso di colpa e vergogna: due emozioni diverse

È opportuno, tuttavia, sottolineare che vergogna e senso di colpa, pur presentando una serie di somiglianze, sono due emozioni profondamente diverse.

Una condizione tipica di vergogna vede la persona concentrarsi principalmente sulla condizione del sé personale, con la percezione dolorosa di un sé negativo. Si insinua, così, la sensazione di sentirsi una persona incompetente e cattiva, accompagnata da un senso di restringimento, quasi a sentirsi più piccoli, inutili e deboli. Un elemento molto interessante che riguarda la vergogna riguarda la presenza o meno di altre persone, infatti, si è visto che affinché si manifesti un sentimento di vergogna non è necessario che la situazione coinvolga osservatori esterni, questo accade perché il soggetto si trova a raffigurarsi mentalmente un pubblico immaginario, e grazie alla finta presenza di altre persone il sentimento di vergogna si genera ugualmente, anche in circostanze di solitudine.

Di contro una tipica situazione di senso di colpa è meno dolorosa e penosa del sentimento di vergogna, quest’emozione riguarda generalmente qualcosa che va oltre il proprio sé, si può affermare, infatti, che il sentimento di colpa riguarda la valutazione negativa di uno specifico comportamento verso un’altra persona, perciò il proprio sé non viene incluso nella sofferenza emotiva del soggetto, ciò non avviene quando nel soggetto si vengono a creare sentimenti di vergogna. Il senso di colpa genera soprattutto situazioni di rimorso e rimpianto in riferimento al comportamento precedentemente messo in atto, con un conseguente stato di tensione.

È quindi evidente come vergogna e colpa siano, al contrario di quanto si pensasse in passato, due stati affettivi simili, ma non sovrapponibili, in quanto le diversità sono evidentemente molteplici.

 

Neuroanatomia del senso di colpa e della vergogna

A livello cognitivo vergogna e colpa sono elaborate dalla corteccia prefrontale ventromediale (VMPC), quest’informazione ci deriva da studi su pazienti con un danno cerebrale alla VMPC (Damasio e altri, 2007). Dallo studio emerge che questi soggetti lesionati mantengono un buon grado di intelligenza generale, ma risultano sensibilmente carenti per ciò che concerne le abilità di gestione delle emozioni sociali, nello specifico risultano compromesse le reazioni di vergogna e colpa, unitamente a quelle di compassione e al controllo della rabbia.

Quello che è osservabile in questa tipologia di pazienti è che nel caso siano sottoposti a dilemmi morali, che prevedono un coinvolgimento personale medio-alto, tendono a mostrare un comportamento legato quasi esclusivamente ad una risoluzione razionale della questione. Questi risultati hanno suggerito agli autori che la corteccia prefrontale ventromediale ha un effettivo coinvolgimento con le emozioni sociali, difatti il suo danneggiamento interferisce con l’elaborazione affettiva normale soprattutto in quei dilemmi morali che implicano una violazione personale di quella che è considerata, in base agli standard del contesto culturale di base, una violazione della norma morale.

 

Lo sviluppo della vergogna

La vergogna compare generalmente dopo il secondo anno di vita, più tardivamente rispetto alle emozioni cosiddette di base, poiché è necessario lo sviluppo del sé personale dal momento che questo stato emozionale implica necessariamente la percezione di un giudizio dell’altro, perciò il bambino deve essere arrivato ad una maturazione tale per cui possa essere in grado di effettuare una scissione tra se stesso e l’altro, per questo motivo è definita come un’emozione sociale. La vergogna ha a che fare, quindi, con l’immagine di sé e soprattutto con la autoconsapevolezza. La gioia, la rabbia e tante altre emozioni cosiddette di base risultano di natura differente rispetto la vergogna o l’imbarazzo perché non sono emozioni auto-riferite, non vanno, cioè, a toccare esclusivamente la consapevolezza di sé e non è in discussione unicamente la valutazione di se stessi nei confronti degli altri e da parte degli altri. Si potrebbe asserire che ci si vergogna di vergognarsi e ci si vergogna di aver fatto vergognare qualcuno.

La vergogna è stata definita da Izard come un’emozione complessa, rientrando, infatti, in quel tipo di emozioni che devono essere apprese. Si può affermare, inoltre, che questo stato affettivo possa essere considerato un indice di autoregolazione, dal momento che è implicato un legame con il rispetto delle norme sociali. La vergogna quindi è intimamente legata alla competenza sociale, in altre parole è connessa alla valutazione e alla comprensione degli standard culturali a cui la persona cerca di aderire. Il sentimento di vergogna nasce quando l’individuo devia rispetto alla norma sociale, percependo quel senso di fallimento tipico di quest’emozione. La vergogna può sembrare un affetto con una valenza altamente negativa, in realtà essa ha un forte potere adattivo e protettivo nei confronti dell’integrità dell’identità personale. Quest’emozione entra in gioco, infatti, quando l’individuo si espone all’osservazione degli altri, siano essi realmente presenti o immaginati; c’è la possibilità di essere vulnerabile nel caso in cui si verifichi un fallimento della persona, dato dal non apparire agli altri, veri o immaginari, come la persona crede che essi vorrebbero, così si ha come conseguenza l’insuccesso nel presentare una buona immagine di sé.

Il sé si forma attraverso le esperienze intersoggettive, la vergogna ha, perciò, il compito fondamentale di organizzarlo e conservarlo. Quest’emozione, così importante per la conservazione dell’integrità personale, può fungere anche come regolatore di buona distanza nella relazione anche in senso fisico, infatti, un certo grado di imbarazzo e vergogna regolano lo spazio privato e fungono da segnale quando l’altro è avvertito come intruso.

 

Vergogna e psicopatologia

L’intensa sensibilità verso questa emozione può avere effetti disturbanti o patologici sullo sviluppo della personalità. L’individuo, infatti, può mettere in atto nei riguardi dello stile di vita relazionale delle modifiche, che possono tendere a una limitazione della libertà di azione, dovuta al timore di dover fare i conti con questa condizione emotiva sgradevole. È quanto accade, ad esempio, nell’individuo affetto da fobia sociale, che elabora in senso negativo la costruzione del suo sé sociale. Il fobico sociale, infatti, è animato da un grande desiderio di dare una buona impressione di sé, unitamente all’insicurezza ed all’incertezza della sua riuscita. Appare, quindi, indubitabile che nello sviluppo e nel mantenimento della fobia è centrale la paura del giudizio dell’altro.

La vergogna è uno stato emotivo che caratterizza anche alcuni disturbi di personalità, questo sentimento è presente tipicamente nel disturbo evitante di personalità, e in maniera marcata anche nelle persone affette da disturbo borderline di personalità. Spesso la vergogna è il sentimento che contraddistingue uno schema di pensiero dominato da inadeguatezza.

Le persone che sperimentano nel profondo della propria interiorità la sensazione di avere qualcosa che non va, di non essere sufficientemente adeguati o degni di essere amati, vivono con profondo dolore il rapporto con gli altri, manifestando spesso un atteggiamento di insicurezza, o al contrario compensandolo con una falsa sicurezza. Questo è un sentimento di vergogna profondo e diffuso, difficile da rivelare agli altri, e a volte negato anche a se stessi. Questi sentimenti dolorosi hanno come conseguenza l’orientarsi verso stili di vita caratterizzati dal distacco dagli altri.

 

Perché si prova il senso di colpa?

Il senso di colpa, così come la vergogna, fa parte di quelle emozioni definite da Izard complesse. Si inizia a delineare più tardivamente rispetto alle emozioni di base, è fortemente legato alla morale e più in generale è connesso al modo di esprimere un comportamento in un determinato contesto.

Per capire cosa si intende per senso di colpa è necessario rendersi conto che la colpa non è una proprietà interna delle azioni umane, ma deriva dal modo in cui la persona giudica le azioni umane. In ogni cultura c’è un certo consenso circa le azioni che rendono gli individui colpevoli, perciò nel tenere un dato comportamento può subentrare la sensazione di essersi discostati eccessivamente dalla norma, avendo messo in atto un modo d’agire trasgressivo e incongruente con il pensiero di ciò che sarebbe giusto fare. Sentire una colpa implica che il soggetto si sia accorto di avere avuto la possibilità di agire in un altro modo, di agire meglio, con la consapevolezza dell’occasione persa di determinare un altro corso degli eventi.

Il senso di colpa si manifesta con auto-rimproveri o rimorsi apparentemente assurdi, con condotte delittuose o sofferenze che il soggetto si auto-infligge.

Inizialmente il senso di colpa fu studiato da Freud in relazione al disturbo di malinconia in ‘Lutto e malinconia‘ (Freud, 1915), in cui l’autore poneva il focus dei suoi studi in una dimensione intrapsichica. A partire dalla metà del secolo scorso il focus ha subìto uno spostamento, infatti, acquisisce una maggiore importanza il livello sociale, il senso di colpa così viene correlato al contesto in cui la persona si trova inserita, tenendo sempre presente che la dimensione personale rimane un punto saliente per la percezione di quest’emozione.

Il senso di colpa non necessita di una base oggettiva, infatti, così come accade per la vergogna, non è indispensabile che l’accadimento che genera colpa sia reale, può essere, infatti, presente anche un giudizio su qualcosa di immaginario, facente parte della rappresentazione mentale che la persona ha del comportamento da seguire nelle diverse situazioni in cui si trova.

La capacità di provare senso di colpa, è strettamente connessa alla disponibilità a sentire il dispiacere per l’eventuale danno provocato all’altro con il nostro agire, seppure involontariamente. Il dispiacere per il dolore che il nostro modo di comportarci può provocare negli altri è un vissuto che, qualora non si trasformi in giudizio o condanna paralizzante, può rivelarsi estremamente fruttuoso, perciò la colpa ha una valenza adattiva, infatti, può aprire spazi di riflessione ben più ampi di quelli generati da un’immediata concordanza e, soprattutto, può indurre la necessità di attivarsi in un gesto di riparazione.

 

Rabbia e aggressività

Infine, la rabbia è un’emozione definita da diversi autori come innata e basilare, infatti, è tra i primi affetti a formarsi, inizia a delinearsi presto nel bambino, tra i 3 e gli 8 mesi.

La rabbia è un’emozione provocata da una moltitudine di eventi, e genera un impulso all’azione aggressiva verso la fonte che provoca questo sentimento, generalmente, però, le persone tendono a reprimere l’impulso ad aggredire che percepiscono, è per questo motivo che la rabbia è considerata una sensazione principalmente interna, che le persone non esprimono necessariamente con un comportamento reale. Apparentemente la rabbia si manifesta quando le persone percepiscono una minaccia nei confronti di qualcosa che ritengono appartenente a loro, anche la perdita di status o di autostima può innescare questo sentimento, si è così notato che l’aggressione verso gli altri e al contempo l’aggressione verso se stessi sono entrambe manifestazioni di rabbia. Ovviamente anche la rabbia, come tutte le altre emozioni, ha una funzione adattiva, infatti, spinge la persona all’azione quando è minacciata da qualcosa.

 

Correlati neurofisiologici della rabbia

A livello cognitivo, affinché si generi l’emozione di rabbia, la situazione viene analizzata nella corteccia frontotemporale, successivamente si ha l’attivazione del sistema limbico, in particolar modo del nucleo centrale dell’amigdala, come risultato di questo processo si ha la produzione di noradrenalina e adrenalina nel sangue da parte del midollo surrenale. A questo punto aumentano anche i livelli di glucosio nel sangue, per aiutare l’individuo a prepararsi all’attacco. Il ruolo dell’amigdala nella creazione dei comportamenti aggressivi è stato dimostrato con alcuni esperimenti su animali, ai quali veniva asportata questa porzione di cervello, questi dopo l’asportazione manifestavano una diminuzione dei comportamenti aggressivi.

 

Relazione di senso di colpa e vergogna con rabbia e aggressività

Diverse ricerche hanno portato ad esaminare la relazione che intercorre tra la vergogna e il senso di colpa e tra la rabbia e l’aggressività.

La distinzione tra la vergogna e la colpa è una questione molto importante, poiché le differenze possono avere implicazioni differenti per ciò che riguarda l’espressione e la regolazione dell’aggressività.

Come già affermato in precedenza vergogna e senso di colpa, pur essendo emozioni molto simili, si distinguono per il vissuto fenomenologico che generano: con la colpa si percepisce il desiderio di riparare al danno fatto, di scusarsi, di confessare l’accaduto, mentre la vergogna spinge maggiormente ad attuare comportamenti di isolamento, si manifesta il desiderio di nascondersi, di sprofondare nel pavimento.

Miller (1985) ha effettuato uno studio con cui è riuscito ad identificare due tipi di interazione tra la vergogna e la rabbia: può esserci una situazione per cui si passa da una situazione di rabbia a una di vergogna, con il passaggio da una condizione di attività ad una di passività, oppure ci si può imbattere in una situazione per cui si passa da una condizione di vergogna a una di rabbia, quindi in questo caso il passaggio è da una condizione di passività ad una di attività.

In realtà nei diversi studi presi in esame non si fa riferimento esplicitamente alla vergogna in relazione all’aggressività, tuttavia in più studi è emerso che, apparentemente, sono i partecipanti presi da vergogna che mostrano dei livelli più alti di aggressività. Si può quindi asserire che numerosi studi hanno individuato la vergogna come un’esperienza emozionale di dolore acuto, il quale da solo può generare rabbia, la quale a sua volta è possibile che muti in comportamenti connotati di aggressività.

Gli studi che hanno maggiormente sostenuto empiricamente il collegamento tra la vergogna e la rabbia sono quelli effettuati da Averill (1982), Wicker, Payne e Morgan (1983), e dalla Tangney (1990). Negli studi di Averill le descrizioni dei soggetti riferite alle proprie esperienze di rabbia erano imputate principalmente a un sentimento di rabbia, il quale derivava dalla percezione della perdita della proprio autostima. Nello studio di Wicker i punteggi dei partecipanti sulle esperienze di vergogna mostravano che non era presente solo il desiderio di nascondersi, tipico della vergogna, ma era presente anche un altro aspetto del disagio provato, infatti, dallo studio è emerso che i soggetti sentivano il desiderio anche di punire gli altri, risultante dalla rabbia che si genera unitamente alla vergogna.

Infine June Price Tangney ha effettuato quattro studi, tra loro indipendenti, su soggetti adulti, riportando una consistente correlazione tra la propensione alla vergogna e il prendersela con qualcuno, in contrasto con la correlazione negativa tra la colpa e la sua esternalizzazione. Si può quindi dire che gli studi mostrano una correlazione positiva tra vergogna, rabbia e aggressività, e una correlazione inversa tra senso di colpa, rabbia e aggressività.

Per esemplificare prendiamo in esame due studi indipendenti della Tangney. Nel primo studio ai partecipanti viene chiesto di compilare alcuni test standardizzati: il Self-Conscious Affect and Attribution Inventory (SCAAI; Tangney e altri, 1988), il Trait Anger Scale (TAS; Spielberg e altri, 1983), e il Symptom Checklist 90 (SLC-90; Derogotis e altri, 1973), di quest’ultimo sono state proposte in particolare le sottoscale della rabbia-ostilità e quella dell’ideazione paranoide.

Nel secondo studio la Tangney e coll. hanno ampliato la valutazione di vergogna e colpa, nonché quella di rabbia, ostilità e aggressività, aggiungendo ai test somministrati nel primo studio il Test of Self-Conscious Affect (TOSCA), una revisione dello SCAAI costruito su scenari immaginari su cui i soggetti devono dare le loro risposte.

Il primo studio è stato effettuato su 243 studenti universitari tra i 18 e i 55 anni, con un’età media di 21,1 anni, di cui il 71% erano femmine. Il secondo studio ha visto partecipare, invece, 252 studenti universitari con un’età compresa tra i 17 e i 39 anni, con una media di 19,4 anni, di cui il 71% erano femmine. I risultati di questi due studi sottolineano che la vergogna e il senso di colpa sono esperienze affettive distinte, le quali hanno diverse implicazioni nell’esperienza della rabbia e dell’ostilità. Purtroppo essendo gli studi basati statisticamente sulla correlazione non è possibile definire quale possa essere il preciso rapporto causale tra questi stati affettivi. Per esempio la correlazione positiva che è emersa tra la vergogna e la rabbia può riflettere due diversi processi, o la combinazione di entrambi: una prima possibilità è che si manifesti dapprima un sentimento di rabbia e la persona potrebbe iniziare a provare vergogna per la rabbia provata, in particolar modo se la rabbia va a generare un comportamento ostile e aggressivo nei confronti degli altri. In realtà, però, il passaggio dalla rabbia alla vergogna sembra poco probabile perché la propensione alla vergogna è collegata direttamente all’attivazione data dalla rabbia e indirettamente all’ostilità verso gli altri, ma non è presente un collegamento tra il grado di aggressione verbale o fisica e la vergogna stessa.

La seconda possibilità, che rispecchia la preferenza dell’autrice, riguarda il fatto che un’iniziale vergogna genera una conseguente rabbia e ostilità. Questo passaggio dalla vergogna alla rabbia è sostenuto da diverse osservazione effettuate clinicamente e da alcuni studi realizzati empiricamente, i quali suggeriscono che è probabile che la rabbia sia generata in generale da emozioni negative, proprio come la vergogna, che creerebbe una minaccia alla propria autostima.

Come hanno suggerito anche Lewis (1971) e Miller (1985), le persone in preda alla vergogna possono ricevere una forte motivazione a reagire proveniente dalla spinta tipica del sentimento di rabbia, infatti, questa può essere in grado di offrire sollievo dall’auto-condanna e dall’esperienza debilitante che deriva dal sentimento di vergogna. Così, l’individuo dirige l’ostilità provata verso se stesso all’esterno e incolpa gli altri, risparmiando il proprio sé dalla condanna interiore che deriva dall’emozione della vergogna.

Il senso di colpa, invece, risulta negativamente correlato alla rabbia, probabilmente perché la colpa genera un vissuto meno devastante e minaccioso, perciò questo non è sufficiente perché si verifichi un’attivazione tale per cui scaturisca della rabbia rivolta verso gli altri nel tentativo di sistemare le cose, questo accade anche perché il senso di colpa è generato da un comportamento di per sé scorretto nei confronti di qualcuno, per cui la rabbia non aiuterebbe a ripristinare l’equilibrio rotto.

 

Vergogna e tossicodipendenza

Per concludere è interessante notare che la vergogna è stata spesso citata nei lavori sulla tossicodipendenza come una fattore capace di contribuire alla formazione e al mantenimento della dipendenza, inoltre, sembra che essa possa essere generata dalla tossicodipendenza stessa, quindi in un certo senso la vergogna e la dipendenza da sostanze sono legate in un circolo vizioso: la vergogna genera tossicomania e la tossicodipendenza genera a sua volta altra vergogna.

L’individuo, infatti, se ha una propensione alla vergogna, potrebbe trovare giovamento nell’assumere sostanze, questo accade perché la sostanza stupefacente diminuisce il grado di coscienza, in questo modo si verifica l’alleviamento della pena generata dall’emozione di vergogna. Così continuando a cercare di attutire il dolore si finirebbe col diventare tossicodipendenti, ma nel momento in cui la persona si trova ad essere tossicodipendente ciò diventa fonte di ulteriore vergogna, la conseguenza è che il soggetto perde il controllo del proprio sentimento di vergogna che cercherebbe di controllare non più attraverso delle risorse cognitive di elaborazione delle emozioni, ma attraverso la sostanza.

Alcuni studi (Tangney e Dearing, 2002) evidenziano come le persone affette da dipendenza da sostanze abbiano livelli di vergogna più alti rispetto a coloro che soffrono di altri disturbi mentali e alla popolazione normale. In altri studi si è potuto constatare, inoltre, che alti livelli di vergogna sarebbero associati a ricadute nelle donne facenti parte degli alcolisti anonimi (Wiechelt e Sales, 2001). Tangney e Dearing hanno studiato come la vergogna nei bambini di circa 10 anni potesse trasformarsi in tossicodipendenza una volta diventati giovani adulti, trovando una correlazione positiva anche in questo caso.

Tuttavia gli studi che correlano la vergogna alla tossicodipendenza sono da considerare con cautela, infatti, le ricerche svolte empiricamente sono ancora poche e i campioni dei soggetti sono spesso esigui e scelti all’interno della popolazione d’interesse.

Altre ricerche (Tangney e altri, 2005) si sono concentrate, invece, sulla distinzione della dipendenza dalla frequenza d’uso delle droghe e dell’alcol in relazione alle emozioni di vergogna e senso di colpa. È risultato che l’inclinazione alla vergogna era maggiormente associata con i punteggi della dipendenza da droghe e alcol, mentre per quanto riguarda la frequenza d’uso non si è vista una correlazione con la vergogna provata dal soggetto.

Di contro, in questi studi è emerso che il senso di colpa avrebbe un ruolo protettivo nell’insorgere di una dipendenza; gli autori hanno pensato che questo possa essere legato alla minore pena generata dal senso di colpa, che provocherebbe una spinta al soffocamento del dolore minore rispetto alla spinta che si avrebbe provando un sentimento di vergogna.

Alimentazione e psiche – Report dal workshop di Roma, 6 Febbraio 2016

Qual è il rapporto tra alimentazione e psiche? Come possono i professionisti della salute integrare le proprie professionalità per meglio assolvere alle esigenze del paziente?

Di questo ed altro si è parlato nel corso di un evento formativo, organizzato a Roma il 6 febbraio scorso da U.P.A.I.Nu.C. in collaborazione con Formotion Academy, destinato a tutte quelle professionalità (medici, biologi nustrizionisti, dietisti, psicologi, psicoterapeuti) che si pongono l’obiettivo di promuovere il benessere e la salute attraverso la consapevolezza delle proprie abitudini alimentari e la strutturazione di un rapporto sano con il cibo, tenendo presente, oltre alle variabili biologiche, le variabili sociali ed emotive dell’alimentazione.

I lavori si aprono con l’intervento del dottor Mascitelli, medico psichiatra, il quale mette a fuoco la complessa interazione che intercorre tra cibo e psiche: se esiste un solo modo di nutrirsi, esistono infiniti modi di alimentarsi, in relazione alle influenze culturali cui siamo sottoposti. Il cibo è dotato di profondi significati emotivi e relazionali, perché rappresenta, sin da quando nasciamo, un elemento che media la nostra relazione con il mondo, implicato nella nostra sopravvivenza.

Su questo premesse si innesta la relazione tenuta dalla dottoressa Demarinis che mette a fuoco l’importanza dell’alimentarsi con consapevolezza; la consapevolezza, che si verifica quando ‘la cognizione di qualcosa si fa interiore, profonda, perfettamente armonizzata col resto della persona‘, ci rende ragione dei comportamenti che mettiamo in atto.

In questo senso, diviene importante essere consapevoli dei motivi che ci inducono ad alimentarsi in un modo piuttosto che in un altro. Possiamo individuare alcuni fattori che influenzano i nostri stili alimentari:

  • Mangiare cibi industriali ricchi di grassi e di zucchero, ma poveri di nutrienti (vitamine, antiossidanti ed oligoelementi); questi cibi, piacevoli al palato e molto diffusi, inducono uno stato di malnutrizione di fatto, perché fanno ingrassare senza, però, attenuare la percezione di fame;
  • Mangiare per abitudine, senza aver realmente fame, solo perché è l’ora del pranzo o della cena;
  • Mangiare per costrizione (spesso si verifica con i bambini che vengono spinti a mangiare dai genitori) o dare il cibo come premio;
  • Mangiare per accontentare gli altri (seguendo il principio cibo=amore) o quando siamo in compagnia, per socializzare;
  • Mangiare da soli davanti la televisione, cosa che spesso porta a mangiare di più del necessario, perché interferisce con la percezione del senso di sazietà;
  • Mangiare per compensare carenze affettive o per attenuare uno stato di malessere, usando il cibo come un farmaco.

In linea di massima, le nostre scelte in fatto di alimentazione non nascono dalla consapevolezza, bensì sono frutto di condizionamenti culturali e di meccanismi psichici automatizzati. Per questa ragione diventa importante mangiare con consapevolezza, scegliendo un’alimentazione che sia veramente nostra; ciò non significa adottare dei criteri alimentari troppo rigidi e restrittivi, quanto piuttosto ridare significato all’atto di scegliere cosa mangiare (che spesso vissuto con stress e frustrazione), dedicando del tempo a noi stessi e alla nostra salute.

Nell’intervento successivo, che conclude la mattinata, il dottor Lupardini, medico psichiatra, si focalizza sui meccanismi neuroendocrini che regolano l’assunzione di cibo; diventa importante che il professionista aiuti la persona a comprendere che, in campo alimentare, è possibile accedere ad una vasta gamma di scelte, ognuna contraddistinta da un determinato impatto sul corpo.

I lavori riprendono nel pomeriggio con la relazione della dottoressa Demarinis che analizza le dipendenze alimentari.

La dipendenza, di qualunque tipo, segue un processo ciclico articolato in quattro fasi:

  • Fase di craving, la fase attivante, ossia il bisogno compulsivo di assumere la sostanza;
  • Fase di assunzione, con i suoi effetti gratificanti;
  • Fase di ansia anticipatoria, connessa con la fine dell’effetto gratificante e la preoccupazione per l’inizio della fase successiva, di astinenza;
  • Fase di astinenza, con sintomi di malessere associati ad aspetti emotivi di tipo depressivo e ad irritabilità.

Di frequente, le dipendenze di vario tipo, incluse quelle di natura alimentare, si sviluppano come tentativi di autoterapia per fare fronte ad eventi stressanti e, in questo quadro, i comportamenti dipendenti implicano la tendenza a dipendere da azioni o situazioni esterne per regolare gli stati soggettivi interni.

A seguire, l’intervento del dottor Mascitelli finalizzato ad inquadrare i disturbi del comportamento alimentare; viene effettuato un confronto tra i criteri diagnostici del DSM IV e quelli presenti del DSM V, nel quale sono stati introdotti anche disturbi quali l’ortoressia (l’ossessione per l’alimentazione sana e i cibi biologicamente puri) e la vigoressia (l’ossessione per avere un corpo muscoloso che nasce dal timore di apparire troppo deboli).

In generale, la persona affetta da un disturbo del comportamento alimentare è contraddistinta da minore consapevolezza delle proprie emozioni ed usa il cibo come regolatore emozionale nell’ambito di strategie di regolazione delle emozioni disfunzionali.

Nella relazione conclusiva la dottoressa Demarinis si sofferma sul colloquio motivazionale inteso come strumento di intervento che aiuta il professionista ad stimolare, nel paziente, la motivazione al cambiamento e a rafforzare, di conseguenza, l’impegno a cambiare i comportamenti dannosi, facendo leva sulla consapevolezza e lavorando sugli elementi di resistenza che ostacolano la messa in atto di comportamenti più funzionali.

Il workshop si chiude con un roleplaying nel quale due partecipanti presentano un caso che hanno avuto modo di trattare nella loro pratica professionale e che rappresenta lo spunto per un confronto collettivo sulle tematiche affrontate.

Aggressività e sessualità: il rapporto figura/sfondo tra dolore e piacere (2015) – Recensione

Questa opera a cura di Mariano Pizzimenti, si inserisce all’interno di una sempre più ampia cornice in cui la Psicoterapia della Gestalt dà un suo personale contributo allo sviluppo scientifico delle teorie psicologiche. La necessità sempre più impellente di analizzare le procedure terapeutiche e manualizzarne l’intervento attraverso uno scambio di vissuti, idee ed esperienze, validate da un approccio scientifico, trova in questo libro, appartenente ad una collana diretta da Margherita Spagnuolo Lobb, un tentativo molto ben riuscito verso lo sviluppo di tale prospettiva.

 

Interessante osservare come la crescita di tali procedure non sia assolutamente svincolata dalle precedenti teorie, ma vi sia un attento recupero di queste che vengono adattate e portate ad evoluzione su specifici concetti volti a costituire una solida base teorica di più fruibile trasmissione manualistica.

Il libro introduce l’argomento dell’aggressività e della sessualità ricostruendo il suo percorso di sviluppo a partire dallo svincolo che compie Perls dal modello psicanalitico freudiano. Il punto di partenza preso in considerazione è quello di “aggressività dentale” che si allontana da quello più conosciuto di “libido”, sostenendo che prima del sesso, gli organismi viventi sono guidati dalla fame. Perls introduce il concetto di “distruggere per poter assimilare ciò che non sarebbe assimilabile in natura” mettendo in un rapporto di equilibrio fame/aggressività e sessualità rispetto a quello antitetico proposto da Freud.

La parte introduttiva avvia un’accurata ricostruzione dell’evoluzione del concetto di aggressività facendola risultare non più come qualcosa di distruttivo, bensì come una possibilità di sviluppo della persona. Insomma un moto normale dell’organismo per ottenere qualcosa nell’ambiente al nascere di un bisogno. Tale bisogno, non sempre è riconosciuto dall’individuo in forma intenzionale e quindi, diviene parte di un lavoro terapeutico il portare l’individuo nel riconoscere e nominare la sua aggressività la quale è sempre guidata da un intenzionalità.

L’aggressività è ben descritta in tutte le sue forme: respiratoria (tipica del bambino che viene al mondo); orale (fa parte dello sviluppo ed è ancora non proprio in senso distruttivo di trasformazione dell’oggetto); dentale (inizio della comprensione dell’ambiente che si presenta in una modalità non ancora assimilabile); anale (si differenzia dalle precedenti, che si realizzano in un’ assimilazione dall’ambiente verso l’individuo, in un senso opposto, perché si realizza inversamente in un rapporto dal soggetto verso l’ambiente); genitale (si sviluppa nel momento in cui vi è una precisa identificazione del soggetto verso le sue sensazioni genitali). Infine è possibile parlare di ”aggressività sessuale” come una delle possibili forme che il soggetto può assumere nella ricerca di contatto con l’altro essere umano, basata più sullo scambio che sull’appropriazione. Qui l’autore fornisce una utile visione di quelli che sono i disturbi dell’aggressività sessuale da intendersi come una strategia di sopravvivenza che di fronte alla difficoltà porta il soggetto a dar vita al “sintomo”. Segue quindi un’analisi dettagliata dei disturbi sessuali categorizzata in una modalità non del tutto aderente alle fasi della curva della risposta sessuale: impotenza erettile e lubrificatoria, eiaculazione precoce, l’impotenza orgasmica e l’omofobia e possesso.

Nel capitolo successivo si ripercorre inizialmente l’evoluzione della terapia sessuale dall’inizio del ‘900 alla terapia mansionale. L’approccio Gestaltico, non avendo una approfondita tradizione scientifica di studi sui disturbi sessuali trae ottimi spunti in primis dal lavoro di Masters e Johnson e dal lavoro successivo della Kaplan ritenendo fondamentale l’attenzione alla forma e all’osservazione di “ciò che accade qui ed ora”; ma anche dalle teorie di Reich ed il suo concetto di “appagamento orgasmico”. Da tale approccio la sessualità è sia quindi definita come “estasi sensoriale”, ma anche come esperienza e conoscenza del mondo soggettivo dell’altro, diverso dal nostro, ponendo l’importanza del senso di condivisione.

Piuttosto interessante il lavoro proposto sulla coppia, il quale porta un valido contributo ed attente riflessioni su specifiche dinamiche relazionali che, si ruotano in un contesto di sessualità, ma volte allo sviluppo di un profondo stato di intimità con se stesso, l’altro e l’ambiente; aspetto che, in manuali che trattano nello specifico un intervento mirato sul sintomo, spesso è considerato in secondo piano.

Il libro prosegue con un’ indagine sulle origini e gli effetti dei disordini relazionali affettivi e la loro complessità in epoca attuale e si realizza su più tracce: quella antropologica, sociale e psicologico evolutiva. L’evoluzione ha comportato dei cambiamenti morfologici e con essi quelli dei bisogni e delle relazioni, rendendo sempre più complesso un possibile appagamento all’interno di essa. Bisogni e desideri in perenne conflitto devono trovare uno stato di equilibrio all’interno della coppia orientata verso un processo di co-creazione in una sana promozione dell’autonomia.

In sintesi un’opera ricca di esempi ed utili considerazioni, rende più chiaro e fruibile una visione ed un approccio teorico ai fini di un minuzioso e preciso lavoro terapeutico. ciò è adatto non solo per chi appartiene alla corrente teorica della Gestalt, ma anche per altri terapeuti che desiderano arricchire la propria conoscenza riguardo la problematica clinica della sessualità, delle relazioni di coppia e non solo.

Geologia di un padre di Valerio Magrelli (2014) – Recensione

Geologia di un padre è il ritratto di una relazione padre/figlio, disegnato in stile puntillista, attraverso frammenti di memoria consegnati a foglietti di appunti raccolti in un decennio e poi unificati in un’opera che è omaggio e congedo allo stesso tempo.

Uno scrittore appartenente a una generazione ben conscia della psicoanalisi decide di raccontare il padre. Non un padre ma il proprio padre. Uno sciame di Edipi, Saturni, Creonti si affaccia quindi alla mente del potenziale lettore evocando complessi e ambivalenze, detti e non detti. Per la verità nel libro di Valerio Magrelli non si troverà tutto questo: l’autore compie uno sforzo palese di espressione diretta, priva di infingimenti e di narcisismi. Se una parola chiave si deve cercare nel vocabolario psicologico essa è identificazione.

Il tema di fondo sotteso da Geologia di un padre è infatti l’interrogativo su quanto ci sia nel figlio del proprio genitore (e quanto, di seguito, rimarrà di proprio nella discendenza genetica). Il simbolo concreto di questo interrogativo si manifesta già sulla copertina del libro, dove figura un disegno di Giacinto Magrelli (padre di Valerio) rielaborato graficamente da Zest (figlio di Valerio) attraverso un’inversione cromatica tra bianco e nero rispetto all’originale.

Nella costruzione del testo, Valerio Magrelli ricorre a frammenti di memoria, raccolti nel corso di dieci anni su foglietti sparsi di appunti progressivamente accumulati. Ne risulta infine un ritratto organizzato alla stregua di un saggio scritto da Walter Benjamin: tessere di mosaico si intersecano e si innestano l’una nell’altra, fondendosi poi con una trama intermittente di riferimenti letterari. E come per il Benjamin di Senso unico, le citazioni sono [blockquote style=”1″]come predoni armati che balzano fuori all’improvviso e strappano l’assenso al lettore ozioso.[/blockquote]

L’incastro si incastra ricorsivamente, allorché si osserva che la prefazione si compone di disegni architettonici di Giacinto Magrelli; che l’appendice consta di poesie a lui dedicate dal figlio; infine che Geologia di un padre [blockquote style=”1″] costituisce l’ultimo pannello di una serie avviata nel 2003 da Nel condominio di carne[/blockquote] e proseguita con La vicevita e Addio al calcio. Di tali opere, Geologia di un padre [blockquote style=”1″]recupera brani e brandelli […] riportandoli in circolo, innestandoli su un nuovo tronco narrativo.[/blockquote]

Giacinto e Valerio apparentemente non potrebbero essere più diversi: ingegnere dalla mano felice, eppure uomo assai poco concreto e versato nei rapporti economici il primo; uomo destinato alle lettere, eppure piuttosto incline alla soluzione di problemi pratici il secondo. L’accordo (anche in senso musicale) tra i due si rende possibile attraverso la pratica del bello: le passeggiate nelle quali il padre porta il figlio a vedere e apprezzare Borromini in una Roma ancora non del tutto annichilita dal traffico costituiscono forse il ricordo fusionale più intenso. Le coordinate spazio/temporali mutano e mostrano un rapporto padre/figlio declinato in tutte le sue possibili mutazioni. Il figlio non ha paura di mostrarsi ragazzino che ammira le imprese del genitore e la sua straordinaria capacità di non piegarsi e non compromettersi; come non dissimula quel senso di indulgente superiorità, quel paradossale cambiamento di ruolo che si genera di fronte all’invecchiamento. Allora le debolezze del padre diventano icone dell’affetto filiale. Il modo di guardare lo stesso quadro cambia a seconda di come i medesimi tratti vengono guardati: quando Franz Kline dava il titolo a un’opera a partire dagli spazi bianchi e non dalle pennellate, in qualche modo, esprimeva il medesimo concetto.

Geologia di un padre parte dalla fine, o meglio, oltre la fine. Arriva un momento nel quale l’illusione di aver seppellito “qualcuno” viene meno. Quando la bara è stata chiusa, il defunto aveva ancora un aspetto umano. Quando viene tumulata, l’interno non è più visibile e rimane il ricordo di quando il morto vi era stato posto. L’esterno è curato: la bara è una sorta di mobile. Viene scelta come se dovesse conservarsi a lungo e in vista; proteggere e accompagnare un’entità individuale e individuabile. L’abitudine italiana di foderare di zinco l’interno delle bare ribadisce quest’illusione. Quando passano gli anni, però, ciò che rimane è la resa, una certa quantità di materiale di origine organica che non ha più forma. L’esperienza di vedere la resa di una persona che ha costituito parte della propria famiglia è probabilmente quanto di più vicino vi sia alla percezione diretta della propria mortalità.

Accanto agli aspetti tragici, però, l’esperienza offre anche una dimensione grottesca: in Geologia di un padre Magrelli racconta icasticamente cosa avviene quando l’umidità invade una tomba di famiglia e diviene necessario effettuare dei lavori per recuperare quei corpi trasformati in rese. L’aggettivo che egli usa per descrivere i resti è “torrefatti”. Umanità divenuta infine fondi di caffè. Ironia e lutto. Pudore e curiosità per anticipare il risultato di un evento rinviabile ma comunque atteso.

La meditazione sulla morte è anche meditazione su presenza e assenza. La morte dell’uno, in una coppia, è la morte della coppia. La separazione è separazione per ambedue. Come l’altro non è più per me, io non sono più per l’altro. In questo modo la morte stessa diventa l’espressione di un paradosso. Un paradosso simile, del resto, era adombrato dalle parole di Epicuro: quando ci sono io, la morte non c’è; quando c’è la morte non ci sono io; non v’è dunque ragione di temerla.

L’atmosfera del libro vira spesso dal sottofondo cupo alla policroma allegria del divertissement. Uno dei sintomi micronevrotici confessati dall’autore è la propria a lungo perdurante incapacità di visitare il paese d’origine del padre. Finché, dopo avere a lungo accumulato materiale informativo in gran copia, Valerio Magrelli giunge infine a Pofi, patria del genitore, pervaso dall’emozione di un Freud in visita a Roma. Salvo fuggirne subito colpito, piuttosto che dall’estasi delle proprie radici, dal disagio di fronte agli infissi di alluminio che vi vede trionfare sulle facciate delle case, epifania della perdizione estetica.

Si può segnalare anche che Geologia di un padre contiene una delle più riuscite allitterazioni della letteratura italiana recente. La si trova nella descrizione di un episodio singolare, quando alla notturna esperienza di un’invasione di blatte nella casa paterna segue un’improvvisata disinfestazione, che si conclude accumulando in un bustone della spazzatura una significativa quantità di insetti neri:

[blockquote style=”1″]un sacco croccante di orrori ridicoli.[/blockquote]

 

 

Valerio Magrelli parla di Geologia di un Padre

Entero-Rappresentazione: confronto tra un campione di pazienti ricoverati e un gruppo di controllo

Questo articolo ha partecipato al Premio State of Mind 2014 – Sezione Junior

Entero-Rappresentazione: confronto tra un campione di pazienti ricoverati e un gruppo di controllo
Nista Erika e Lucci Giuliana*
*Fondazione Santa Lucia IRCCS, Roma, Italia

ABSTRACT

I concetti di “schema corporeo” (relativo alla localizzazione del corpo nello spazio) e di “immagine corporea” (che include le componenti soggettive cognitivo-affettive delle rappresentazioni corporee) non sono nuovi, da anni hanno fatto la loro comparsa sulla scena delle Neuroscienze. In breve, le ricerche neuroscientifiche hanno evidenziato la possibilità di rappresentare il nostro corpo sia in relazione al mondo nel quale ci muoviamo e agiamo, sia in riferimento al nostro mondo interiore, fatto di nozioni, credenze ed emozioni. Normalmente l’oggetto di questi studi di rappresentazione corporea è il corpo “esterno”. Ad oggi, però, nessuno si è occupato di indagare il versante interiore della rappresentazione corporea, di come, cioè, le persone si rappresentano il proprio corpo interiore, specie nel contesto di malattie organiche il cui bersaglio è, appunto, il corpo interno. In questo lavoro è stata indagata la rappresentazione del corpo interiore in pazienti affetti da varie patologie organiche e in un gruppo di soggetti di controllo. I dati raccolti lasciano ipotizzare che la rappresentazione corporea interna debba essere indagata come fenomeno di processi impliciti altrimenti difficili da valutare.

The concepts of “body schema” (concerning the location of the body in space) and “body image” (which include the subjective and cognitive-affective components of the corporeal representations) are not new, these concepts for years have made their appearance in neuroscience. In a short time, the neuroscientific research have shown the ability to represent our body in relation to the world in which we move and act and referring to our inner world made of notions, beliefs and emotions. Usually the object of these corporeal representation studies is the “external” body. To date, however, no one has worked on investigating the inner side of the corporeal representation , that is how people represent their inner body especially in the context of organic disease whose target is, in fact, the inner body. In this work it was investigated the representation of the inner body in patients suffering from various organic diseases and in a control group. The collected data allow to assume that the internal representation of the body should be investigated as a phenomenon of implicit processes that are difficult to evaluate.

Parole chiave: Enterocezione; Rappresentazione corporea; Immagine corporea; Insula; Consapevolezza enterocettiva.

ALLEGATO 1

ALLEGATO 2

ALLEGATO 3

Burnout: Freelancer do it different!

Il contesto lavorativo e sociale sta cambiando, questo porta con sé sfide nuove e molto diverse da quelle in cui si adoperano lavoratori assunti che occupano il famoso posto fisso.

Si valuta che nel 2020 il 50% della forza lavoro negli USA sarà costituita da liberi professionisti. Se ci guardiamo indietro, invece, nel 1995 solo il 10% dei lavoratori americani era freelancer, non assunto. Cosa significa freelancer? Freelancer è un lanciatore libero, un soldato libero insomma, che combatte la sua battaglia senza un’azienda di riferimento. Nei secoli scorsi si sarebbe detto mercenario, assoldato da un diverso committente ogni volta, che non risponde a nessuno se non a se stesso e alle proprie scelte.

Il contesto lavorativo e sociale sta cambiando, quindi, e questo porta con sé nuove sfide che anche intuitivamente possiamo immaginare molto diverse da quelle in cui si adoperano lavoratori assunti che occupano il famoso posto fisso.

Il burnout, invece, è una sindrome psicologica riferita al soggetto-lavoratore che letteralmente descrive il suo bruciarsi, il fatto di mettere a rischio la propria salute psicologica a causa di un contesto lavorativo invalidante per diverse ragioni (modalità di leadership, richieste dell’ambiente, difficoltà interpersonali con i colleghi, ansia e stress).

Parliamo quindi di una sindrome che può connotarsi con diverse caratteristiche, ma che prende ossigeno dal contesto lavorativo. Va da sé che se il contesto lavorativo è in così grande cambiamento e fermento, sarà da rivedere anche tutta la psicopatologia che ad esso si riferisce. Un recente studio dell’Australian Institute of Business, ad opera della dottoressa Barclay, ha identificato un particolare tipo di burnout, da riferirsi ai lavoratori liberi professionisti che quindi non possono contare su un contratto di dipendenza e sulle garanzie (e i vincoli) che questo comporta.

La ricerca ha compreso una fase bibliografica iniziale di analisi degli studi precedenti, sottolineando la mancanza di letteratura inerente la particolare situazione lavorativa dei freelancer, una raccolta dati attraverso questionari e infine la conduzione di interviste approfondite di un’ora circa ciascuna, interpellando lo stesso campione che aveva risposto ai questionari nella fase precedente.

Da un’analisi qualitativa delle interviste raccolte sono emersi alcuni fattori cruciali nella descrizione da parte dei liberi professionisti della loro sintomatologia legata al burnout. Il primo fattore è il sonno: si va da una generale fatica a spegnere l’interruttore e prendere sonno, alla sensazione di dormire sempre e comunque troppo poco, fino a un pattern intermittente, in cui a un paio di ore di sonno si alternano un paio di ore di veglia.

Il secondo fattore è costituito da tempo e controllo, ma in un senso positivo: la prima ragione per cui gli intervistati hanno deciso di diventare lavoratori autonomi non è il guadagno economico, ma la possibilità di gestire in modo indipendente e flessibile il proprio tempo; di conseguenza, le risposte alle interviste hanno evidenziato un maggiore senso di agency e una maggiore percezione di significato personale che deriva dall’avere il controllo del proprio programma lavorativo.

Un terzo fattore è costituito dallo stress e dalla pressione: mentre gli intervistati hanno fatto fatica a identificare una precisa fonte di stress, hanno definito bene quale fosse la principale area su cui questo si ripercuoteva: la relazione di coppia.

Il quarto fattore è relativo al supporto e all’isolamento, anche in questo caso in un senso positivo: la maggior parte dei freelancer percepiva una buona dose di sostegno e di persone o enti a cui chiedere un supporto e ha riportato la sensazione di isolamento come difficoltà tipica del passato lavoro da dipendente.

Infine, l’ultimo fattore degno di nota ha a che fare con la personalità introversa o estroversa dei rispondenti: mentre i soggetti che si definivano come introversi, coerentemente, hanno anche specificato di preferire lavorare da soli, gli estroversi erano per lo più alla ricerca di partner in affari, o al massimo momentaneamente soli ma in transito da un partner all’altro.

I risultati dei dati raccolti hanno mostrato che i liberi professionisti hanno una percezione fondamentalmente diversa rispetto ai lavoratori dipendenti di alcuni costrutti cruciali per il rischio di burnout. Controllo, tempo, lavoro e supporto sociale. Ne deriva che anche la loro percezione del burnout e di cosa voglia dire bruciarsi lavorativamente parlando sia molto diversa rispetto alla concezione canonica che deriva dalla letteratura finora raccolta: di fronte a questa consapevolezza, anche le strategie gestionali o psicologiche utilizzate per prevenire e alleviare questa sindrome vanno riviste e adattate per questa particolare categoria di lavoratori.

Riassumendo, i dati raccolti dalla Barclay hanno rilevato tre tipi di sintomi relativi al burnout nei freelancer, che si scostano qualitativamente dal burnout rilevato nei dipendenti e riportato nella letteratura: sintomi fisici di esaurimento di risorse, con ricadute in particolare sul sistema immunitario e digerente; affaticamento cerebrale, caratterizzato da poca concentrazione, distraibilità, poca memoria e sensazione di essere mentalmente esausti; mancanza di sfida e iniziativa, con disinteresse nel proprio lavoro una volta raggiunta una soddisfacente stabilità economica.

Al contrario, le dimensioni tipiche identificate dalla letteratura e riferite in particolare al burnout nei lavoratori dipendenti hanno a che fare con l’affaticamento emotivo, la depersonalizzazione e un minore senso di autoefficacia.

Infine, la maggior parte dei soggetti intervistati riportava esperienze di burnout precedenti, nel periodo in cui lavoravano alle dipendenze di qualcun altro, e la carriera da freelancer in questo senso ha rappresentato più una cura a questo burnout, che non una causa.

La Barclay conclude la sua disamina con 5 suggerimenti con cui i freelancer possono prevenire il rischio di burnout:

  • Conoscere i propri segnali precoci rispetto al rischio di burnout (sia mentali che fisici)
  • Imparare a spegnere il cervello disconnettendolo dal lavoro e intervallando la produttività con l’inattività e il relax
  • Bilanciare il proprio lavoro per avere la possibilità di lavorare sia soli che in team
  • Definire compiti sulla base delle proprie energie mentali e delle proprie capacità cognitive, ma NON dell’urgenza
  • Assecondare i cicli di sonno veglia canonici, senza forzare la mano ai ritmi circadiani

Le radici comuni dell’ansia – Ciottoli di Psicopatologia Generale Nr. 4

L’ansia è tipicamente umana necessitando di un sistema cognitivo in grado di fare previsioni a medio e lungo termine. Per il breve termine e il presente immediato si parla di paura più legata al dato percettivo.

CIOTTOLI DI PSICOPATOLOGIA GENERALE (RUBRICA) – LEGGI L’INTRODUZIONE

 

L’ansia è tipicamente umana necessitando di un sistema cognitivo in grado di fare previsioni a medio e lungo termine. Per il breve termine e il presente immediato si parla di paura più legata al dato percettivo. I vari disturbi d’ansia si distinguono per la categoria di eventi che vengono temuti e, dunque in altre parole per lo scopo minacciato e sono invece identici per tre caratteristiche relative proprio all’evento temuto:

  • La sovrastima della sua probabilità
  • La sovrastima della sua gravità
  • La sovrastima della possibilità di controllo su di esso.

Trattandosi di tre errori di valutazioni probabilistiche si potrebbe dedurne che sarebbe utile più che una psicoterapia un corso di statistica. Purtroppo tali errori si fondano su specifici bias cognitivi in cui cadono anche esperti matematici in quanto eredità genetica, errori sistematici che si sono rivelati utili per salvare la pelle ai nostri antenati. Il compito che ci si può porre è quello di evidenziarli rendendoli consapevoli in modo da arginarne gli effetti e talvolta correggerli. Inoltre, come già proposto in altri ciottoli, utilizzarli biecamente a vantaggio del lavoro terapeutico.

Kahneman argomenta in modo scientificamente solidissimo (soprattutto pag 45 e pg 453 e seg.) come il comportamento umano sia il prodotto della collaborazione, non sempre facile, tra due modi di funzionare che chiama sistema 1 e sistema 2 e che per semplicità di esposizione chiamerò intuizione e raziocinio. In estrema sintesi possiamo dire che l’intuizione è automatica, intuitiva, rapida, efficiente, in genere guida l’azione e ci azzecca soprattutto per questioni che riguardano la sopravvivenza, distingue il normale dall’eccezione di fronte alla quale ne genera subito una interpretazione causale attraverso l’invenzione di una storia plausibile che fornisca soluzioni praticabili immediate.

Il raziocinio invece è il punto di vista da cui prendiamo decisioni, la voce narrante del nostro dialogo interno, ciò a cui ci riferiamo quando diciamo io, orienta volontariamente l’attenzione e corregge le proposte dell’intuizione. La sua attivazione è faticosa e comporta dispendio di energie.

Nel suggerire possibili tecniche è utile distinguere gli interventi sui primi due punti comuni da quelli sul terzo punto che è particolarmente presente nel DOC dove la sovrastima del possibile controllo sull’evento temuto genera un ulteriore circolo vizioso secondo cui se è possibile , è anche doveroso e colpevole non farlo che è esso stesso (essere colpevole) l’evento temuto dagli ossessivi. Partiamo proprio dai suggerimenti specifici per gli ossessivi. In loro è presente una sorta di ipertrofia funzionale del raziocinio. Il sistema 2, per non essere colpevole di negligenza, riesamina senza sosta i prodotti dell’intuizione e siccome non accetta margini di incertezza, non vuole lasciare la minima probabilità al dubbio, si impegna in un lavorio incessante che tuttavia assorbe molte risorse ed è incompatibile con altri lavori. Poiché l’autocontrollo volontario diminuisce necessariamente quando si è sotto sforzo mentale e persino fisico, in presenza di compulsioni impegnarsi in un qualsiasi lavoro fisico o mentale è di grande aiuto.

Ad esempio di fronte alle compulsioni covert può essere utile attivarsi in compiti come la progettazione di un evento o eseguire esercizi matematici a mente o anche giocare con l’immaginazione a sudoku o realmente a scassaquindici (sempre che ancora esistano quei quadratini di plastica per giocarvi). Ancora, siccome il sistema del raziocinio è attivo quando non ci sono emergenze in corso che decretano l’assoluta priorità dell’intuizione può essere utile esporsi, anche solo in immaginazione, a delle minacce. E’ un po’ come dire che di fronte a stringenti emergenze reali il rimuginio e il dubbio sono un lusso che non ci si può permettere. Non si ha notizia di alcun ossessivo perito in un incendio perché attardatosi a mettere in ordine o a rilavarsi le mani (personalmente ho descritto il caso di un gravissimo ossessivo guarito in seguito all’incendio del suo negozio con un danno di 3 milioni di euro che attribuì a me, ma questa è un’altra storia).

Viene anche in mente il modo adeguato con cui gli ipocondriaci, anche gravi, fronteggiano malattie reali. Certamente però non possiamo trasformarci in piromani o untori per guarire i nostri pazienti. Un potente sostegno ai vissuti di responsabilità e di colpa sono l’insieme dei bias che ci fanno da un lato sovrastimare la causalità e dall’altro sottostimare il caso e la fortuna. Il vissuto di impotenza che si sperimenta nello scoprire l’importanza del caso e del fortuito e dunque la scarsa influenza che abbiamo nel determinare l’andamento delle cose, è un vero sollievo per l’ossessivo che in effetti mostra una riduzione sintomatologica nelle situazioni manifestamente al di fuori del suo controllo.

Per convincerlo di ciò, è importante che comprenda a fondo il concetto di regressione verso la media (effetto su cui anche i terapeuti dovrebbero riflettere prima di prendersi i meriti dei miglioramenti o le colpe dei peggioramenti). In realtà la maggior parte delle cose avviene fuori da ogni nostro controllo. A tal proposito può essere utile costruire in seduta una torta delle cause (cosa diversa dalla torta delle probabilità che riguarda invece gli esiti) in cui il terapeuta imponga la presenza di una porzione denominata caso e ne fornisca diversi esempi prima di farne stimare al paziente il peso percentuale.

Altrettanto si può far narrare una storia al paziente che anticipi gli eventi futuri che appariranno lineari e quasi necessari per poi suggerire una serie di accadimenti positivi e negativi che potrebbero drasticamente alterare il corso previsto delle cose. A tal fine si possono anche ricordare una lunga serie di eventi storici assolutamente non previsti che hanno deviato l’andamento che il buon senso suggeriva e si può chiedere al paziente di andare a ricercare simili evenienze nella vita sua o della propria famiglia. Anche la storia famigliare più banale è costellata da eventi (lutti, fallimenti, incontri, malattie, vincite, opportunità) che hanno rappresentato punti di svolta.

Tornando proprio ai suoi specifici temi ossessivi per i quali chiede continue e mai sufficienti rassicurazioni si può, al contrario, con un pizzico di sadismo, suggerirgli tutta una serie di fatti possibili che vanificherebbero le sue strategie di prevenzione allo scopo di spingerlo verso l’accettazione del rischio per il semplice motivo che non può essere altrimenti. Se da un lato lo si guida per mano verso l’evento temuto (per convincerlo che non è in suo potere e dunque dovere prevenirlo) si tratta poi, una volta giuntivi, di decatastrofizzarlo.

Ridimensionare la sovrastima della gravità dell’evento (che riguarda il secondo punto della nostra triade) è l’operazione decisiva in tutti i disturbi d’ansia. Decisamente più dell’intervento sulla sovrastima della probabilità (riguardante il primo punto) che resta comunque sul versante della rassicurazione e non può mai garantire che ciò che si teme non si verificherà davvero.

Ma come si fa a decatastrofizzare il mostro? Varie strategie sono utilizzabili a seconda dell’interlocutore. In primo luogo gran parte di ciò che stimiamo terribile è tale perché lo conosciamo poco e dunque altro non è che paura dell’ignoto. In questo caso si deve esplorare prima in immaginazione e poi anche concretamente le situazioni temute (la efficacissima tecnica dell’esposizione). Questa costruzione di scenari che sostituiscano il vuoto predittivo può essere aiutata dall’osservazione di altri soggetti che vivono quella realtà e di come se la cavano e dal ricordo di situazioni analoghe vissute in passato dal soggetto stesso. Altre volte il paziente ci dice che teme una certa cosa ‘proprio perché l’ha sperimentata ed è stata intollerabile‘.

Gli si può far notare che se è lì a raccontarvela evidentemente è riuscito a tollerarla, ma si rischia di scivolare in un braccio di ferro su ciò che è o meno tollerabile, e sulla qualità della vita. Semmai si possono sottolineare i costi quantunque diluiti del tentativo di azzerare il rischio di tale evenienza e della comunque sostanziale impossibilità. Più utile è mostrargli che quella esperienza non potrà ripetersi perché lui non è più lo stesso. Ad esempio condividono il nome ‘perdita e abbandono’ ma sono esperienze diverse l’essere lasciati con estranei in una colonia a cinque anni e/o rimanere orfano di entrambi i genitori nella fanciullezza, dall’essere mollato dalla fidanzata, per quanto gnocca, a trent’anni.

L’impatto emotivo è il prodotto dell’incontro tra un evento stressante e la vulnerabilità individuale che col tempo si modifica. Mi imbarazza ammetterlo ma è la versione ben detta del ‘ci si abitua a tutto‘. Insomma pur appartenendo alla stessa categoria i fatti non sono mai identici e bisogna evitare una over-inclusion per cui una stazione ferroviaria è assimilata ad una bara che viene calata nel gelido terreno (sempre di partenze e distacchi si tratta, mha!) e il soggetto stesso non è mai identico anche a motivo della precedente esperienza.

L’obiettivo del lavoro di decatastrofizzazione o, come preferisco definirlo con Jung, ‘costruzione dell’Ombra‘ deve mirare semplicemente a pensare all’evento come tollerabile ancorché sgradevole, non preferito e da evitare per quanto possibile.

Un ulteriore tecnica di decatastrofizzazione è quella che chiamo ‘frammentazione’. Il soggetto quando ci dice che una certa cosa è intollerabile spesso la immagina come una nebulosa indistinta dai confini incerti. Può essere molto utile con il laddering down cercare di fargli precisare esattamente quali aspetti concreti della faccenda ritenga inaffrontabili. Se ogni singolo elemento costitutivo viene valutato superabile perché la somma dovrebbe non esserlo?

Per personale esperienza suggerisco che quando una scalinata sembra inaffrontabile bisogna tralasciare l’insieme e concentrarsi su ogni singolo gradino. Fatto il primo il secondo diventa a sua volta il primo e fatto il novecentonovantanovesimo anche il millesimo sarà il primo. Fuor di metafora, cosa esattamente vuol dire essere soli e quale aspetto della solitudine è intollerabile? Si tratta di un vero e proprio lavoro di ridefinizione e ristrutturazione cognitiva.

Non posso esimermi dall’occuparmi del più scontato degli interventi ovvero quello sul primo punto della triade, la sovrastima della probabilità. Si tratta sostanzialmente della tanto richiesta rassicurazione. Non mi piace molto per vari motivi. E’ quello che già fanno parenti e amici quando dicono ‘vedrai che non succederà!‘, ‘ma a che vai a pensare!, è impossibile, non può succedere, non è mai capitato, ecc, ecc‘. A ben guardare contiene un fondo di falsità che potrebbe minare l’autorevolezza del terapeuta (come fa a garantire certe cose che magari esulano il suo campo?). Ostacola il lavoro di decatastrofizzazione e accettazione del rischio perché l’evento temuto continua ad essere escluso dal campo del possibile.

Crea una dipendenza dalla fonte di rassicurazione appesantendo la relazione. Di contro possiamo pensare che è giusto rendere consapevole il paziente degli errori di ragionamento che commette, si tratta pur sempre di bias che generano sofferenza, aiutandolo ad autocorregersi senza affidarsi all’autorevolezza di una fonte esterna. L’intuizione finalizzata alla sopravvivenza indirizza selettivamente l’attenzione e la memoria alla ricerca delle minacce. Più ne trova, più per il bias della disponibilità, sembra probabile l’evento temuto.

Il suggerimento non può essere semplicemente quello di distrarsi rinunciando alla mission stessa dell’intuizione. Occorre piuttosto concentrarsi su una lista di situazioni scoperte in seduta in cui l’evento temuto non si è verificato e gli esiti sono stati favorevoli. Ancora si può sfruttare l’effetto alone confirmatorio. Si tratta di arricchire le situazioni temute con valutazioni positive condensate in aggettivi (del resto persino un orologio rotto fa l’ora perfetta due volte al giorno: qualcosa di buono la si può sempre trovare) e poi partire da essi nel riportarle alla mente. La domanda iniziale è ‘proviamo a scoprire quel poco che ci potrebbe essere di buono o qualche piccolo vantaggio della situazione solitudine….. malattia invalidante…..povertà economica…..perdita del lavoro……ecc, ecc’ .

Di fronte ad una domanda complessa che richiederebbe attente e complesse valutazioni il sistema intuitivo per non restare senza soluzioni si affretta a tradurla in una più semplice. Ad esempio la domanda ‘Quanto Mario avrà successo nella vita?‘ A cui praticamente non c’è risposta viene tradotta in ‘Quanto è bravo oggi Mario?’ che ovviamente è tutt’altra cosa. Egualmente la domanda dell’ansioso ‘Quanto è probabile l’evento X?‘ diventa facilmente ‘Quanto temo l’evento X?‘ che ovviamente è tutt’altra faccenda e scambia la gravità per la probabilità.

Non è difficile insegnare il ragionamento sottostante il calcolo delle probabilità multiple per cui in una successione di eventi in cui ciascuno ne presuppone un altro, la probabilità dell’evento finale è il prodotto di tutte le probabilità dei passaggi precedenti e dunque, in genere, infinitesimale. Per fare un esempio. Se c’è il 50% di probabilità che nevichi e il 50% che la neve ghiacci e il 50% che io scivoli sul ghiaccio cadendo e il 50% che cadendo mi rompa una gamba provate a calcolare la probabilità della mia frattura. Non è il ricorrente 50% ma solo il 6,25% ed in genere per gli eventi temuti dagli ossessivi i passaggi sono molti molti di più.

Kaneman mostra come siamo molto più portati a ragionamenti induttivi che deduttivi per cui, soprattutto quando siamo preoccupati dalle minacce, non ci rassicurano molto le statistiche generali e restiamo concentrati su singoli casi confermatori. Per questo è importante l’uso in terapia di aneddoti positivi, meglio ancora se trovati direttamente dal paziente.

Infine lo strumento principe contro la sovrastima della probabilità che in condizioni di minaccia fa sovrastimare gli eventi rari è indubbiamente la torta delle probabilità in cui di fronte ad un elemento che fa temere l’approssimarsi dell’evento temuto fino a darlo per certo si chiede di elencare tutte le altre possibilità che potrebbero spiegarlo e poi si chiede di attribuire a ciascuno la probabilità tenendo conto delle cosiddette probabilità a priori, ovvero della sua evenienza nella popolazione generale

 

RUBRICA CIOTTOLI DI PSICOPATOLOGIA GENERALE

Invasione da Marte di Hadley Cantril (1940) – I grandi esperimenti di psicologia Nr. 3

#3: Invasione da Marte di Hadley Cantril (1940)
Vi presentiamo una serie di articoli relativi ai più grandi esperimenti in ambito sociologico e psicologico. Per fare ciò abbiamo cercato di risalire alle fonti originarie, ai primi articoli divulgati dagli autori. In questo modo sarà più facile vivere le loro scoperte a partire dalle loro stesse ipotesi e respirare un’aria in cui, liberi (purtroppo) da vincoli etici, tutto era possibile in nome della scienza.

L’esperimento

30 Ottobre 1938. Siamo negli Stati Uniti, è sera e la radio è sintonizzata sul canale CBS, danno della musica da ballo. Ad un tratto, la musica si interrompe e il presentatore prende parola.

[blockquote style=”1″]Signore e signori, vogliate scusare per l’interruzione del nostro programma di musica da ballo, ma ci è appena pervenuto uno speciale bollettino della Intercontinental Radio News. Alle 7:40, ora centrale, il professor Farrell dell’Osservatorio di Mount Jennings, Chicago, Illinois, ha rilevato diverse esplosioni di gas incandescente che si sono succedute a intervalli regolari sul pianeta Marte. Lo spettroscopio indica che si tratta di idrogeno e che si sta avvicinando verso la terra a enorme velocità. (…)[/blockquote]

In seguito a questo primo messaggio, riprende il programma musicale. Tuttavia, le interruzioni si ripetono e le notizie sono sempre più inquietanti. Ad un tratto, si sentono urla di persone terrorizzate. Dopo poco, gli studi della CBS vengono invasi dalla polizia e le trasmissioni vengono interrotte.
Il panico si è disseminato in tutta la nazione, in alcuni paesi la gente scende in strada, disperata, a chiedere aiuto, a mettersi in salvo, a cercare di riunirsi ai propri cari, per prepararsi all’invasione aliena. Circa un milione di persone prega, piange, cerca disperatamente un modo per fuggire alla morte per mano dei marziani.

La trasmissione radiofonica “Mercury Theatre on Air” è stata costruita per riproporre attraverso la radio grandi opere della letteratura, come il libro di Wells “La guerra dei mondi”, da cui vengono estratti i brani letti dal presentatore. Per rendere più accattivante il programma, si sceglie di leggere brani del romanzo fantascientifico interrompendo una finta trasmissione musicale. Chi non ha seguito l’inizio del programma non capisce cosa stia succedendo, chi l’ha seguito rimane perplesso, non capisce realmente cosa stia succedendo, chi non sta ascoltando la radio riceve notizie allarmanti da amici o parenti e in pochi minuti un’intera nazione viene assalita dal terrore di un’invasione.

Ascolta l’audio del programma della CBS:

Questo episodio di cronaca non nasce come esperimento scientifico, ma è chiaro a tutti che un fenomeno di tale portata va approfondito: non è forse mai successo che persone di ogni fascia di età e in ogni parte degli USA abbiano una reazione così intensa e impaurita come questa notte. Un gruppo di sociologi, guidati da Hadley Cantril, cerca di capire cosa sia successo tra la popolazione.

Il gruppo della Cantril si muove cercando di intervistare più persone possibili. Un tale fenomeno era imprevedibile, pertanto si cerca di raccogliere alcuni dati dalle persone rimaste shockate dalla trasmissione. Incontrano 135 persone, a cui fanno domande dettate dal buon senso, senza poter avere alcuna ipotesi da testare o strumenti da applicare.

La sig.ra Ferguson, del New Jersey, dice: [blockquote style=”1″]Sapevo che si trattava di qualcosa di terribile, ero terrorizzata, ma non sapevo cosa fosse. Ho sempre saputo che, quando sarebbe giunta la fine del mondo, tutto sarebbe stato così veloce da non accorgersene neanche. Perché mai Dio ci avrebbe avvertiti con queste notizie? Quando ci dissero che strada prendere, di salire sulle colline, e i bimbi cominciarono a piangere, tutta la famiglia decise di uscire. Prendemmo delle coperte, mia nipote volle prendere anche il gatto e il canarino. Eravamo davanti al garage quando il ragazzo dei vicini venne a dirci che si trattava di una finzione.[/blockquote]

Le domande dei sociologi

Questa e altre dichiarazioni simili hanno portato i sociologi a porsi due domande fondamentali:

Perché questa trasmissione ha spaventato così tanto la popolazione rispetto ad altri programmi di fantascienza?

Gli studiosi attribuiscono la responsabilità di una reazione così inaspettata alla qualità del prodotto radiofonico. Chiunque avesse per caso ascoltato quella trasmissione, seppur ben informato, si sarebbe chiesto almeno per un attimo cosa stesse realmente succedendo. Il realismo del programma ha infranto i metri di giudizio a cui la popolazione era abituata. La radio, strumento di comunicazione per eccellenza negli anni ’30 e ’40, non solo ha favorito la diffusione del messaggio, ma gli ha conferito una sorta di autorità. Il continuo riferimento ad autorità scientifiche e ad istituzioni governative, inoltre, ha rinforzato la credibilità del pericolo imminente, mentre il senso di smarrimento descritto dai finti testimoni oculari ha generato un clima di tensione e imprevedibilità.

Perché ha spaventato alcune persone e altre no?

Per rispondere a questa domanda, il team di sociologi divide gli ascoltatori in diverse categorie, in base alle reazioni descritte:
– Coloro che hanno continuato a cercare la coerenza interna del programma, certi che si trattasse di una finzione.
– Coloro che hanno cercato informazioni sull’evento al di fuori del programma, rendendosi conto che tale notizia non poteva essere trasmessa attraverso un solo canale, deducendo quindi che doveva trattarsi di una messinscena.
– Coloro che hanno cercato informazioni al di fuori del programma, ma hanno continuato a credere che si trattasse di un evento reale, perché troppo spaventati per accettare spiegazioni alternative o perché le modalità con cui cercavano altre informazioni era evidentemente inefficace.
– Coloro che non hanno neppure messo in discussione la veridicità della notizia.

Ciò che sembra aver creato e diffuso il panico in tale situazione viene ricondotto a una mancanza di giudizio critico, probabilmente dovuta a una forte attivazione emotiva. L’improvviso terrore ha impedito ad alcune categorie di ascoltatori di compiere le normali operazioni di verifica della notizia, accettata quindi quasi automaticamente come realtà. Vengono successivamente individuate alcune caratteristiche comuni a chi ha reagito alla trasmissione con panico e terrore: alta suggestionabilità, standard di giudizio inappropriati, insicurezza nelle proprie capacità interpretative o assenza di critica. Il momento storico è caratterizzato da un momento di crisi economica, che può aver alimentato sentimenti di insicurezza nella popolazione: è un decennio di eventi poco chiari, quasi inspiegabili e un’inspiegabile invasione aliena pare essere una reale probabilità, a cui non c’è via d’uscita. Di qui il panico collettivo.

Oggi sappiamo che l’attivazione emotiva può effettivamente interferire sulle nostre capacità cognitive, pensiamo ad esempio al mood congruity effect nel caso dell’accessibilità ai ricordi (Bower, Monteiro & Gilligan, 1978). Sicuramente i dati raccolti in occasione di questo evento hanno mostrato la necessità di un approfondimento della relazione tra pensieri e emozioni: cinquant’anni dopo questo studio, viene teorizzato il contagio emotivo (Hatfield, Cacioppo & Rapson, 1993).

Il nostro piccolo segreto (2015) di Franco Montanari – L’alzheimer e il rapporto tra madre e figlia

In un pomeriggio all’apparenza come tanti Marta e Rosa si riconoscono complici nonostante tutto. Un frammento di vita per due anime legate per sempre da qualcosa di molto più grande di un piccolo segreto.

 

Racconta la storia di una donna malata di Alzheimer, Marinella Manicardi, che riceve in casa una figlia che non riconosce quale tale ma con cui si instaura un sereno rapporto di complicità presentandosi ella come parrucchiera.

Si tratta di una decina di minuti di delicatezza nati dal racconto di vita vissuta di Elisa Iacobucci, che ha poi contribuito a scrivere il soggetto, che Montanaro riporta silenziosamente. Nel filmato, infatti, nulla è spiegato e la chiave interpretativa è affidata alla recitazione ed ai gesti. Alle immagini e al suono, che s’avvale d’una tecnica innovativa di particolare realismo. In questo caso non c’è nessuna provocazione. E non c’è nessuna didascalia che non sia il cercare di evocare dei sentimenti nello spettatore. Il linguaggio nuovo, per così dire, usato da Montanaro sta nell’aver lasciato parlare la realtà tingendola, attraverso le inquadrature e le espressioni, di poesia (Il Corriere della Sera)

 

 

Franco Montanaro ha collaborato con Ermanno Olmi e IpotesICinema di Bologna. Ha realizzato di recente a Bologna il cortometraggio a tematica sociale ”Il Nostro Piccolo Segreto”,
in concorso  ai David di Donatello 2015/16.

Il film narra la storia di vita vissuta del rapporto tra una madre affetta dal morbo di Alzheimer e sua figlia. Il cortometraggio è stato realizzato da un gruppo di 10 ragazzi/e senza scopo di lucro e vanta la partecipazione di Marinella Manicardi.

E’ attualmente visibile e votabile al concorso online fino al 29 Febbraio  http://www.cinemaitaliano.info/news/34313/cort-on-line-16-il-nostro-piccolo-segreto.html

La narrazione di un paziente sottoposto a trapianto cardiaco: temi e piani di vita semi-adattivi

Il presente articolo ha lo scopo di raccogliere in letteratura ciò che allo psicoterapeuta può essere utile conoscere quando all’attenzione clinica si presentano persone che chiedono un aiuto a seguito di un evento acuto che cambierà inevitabilmente molti aspetti della vita: il trapianto cardiaco.

Elisa Covini, Antonia Pierobon – OPEN SCHOOL Psicoterapia Clinica e Ricerca

 

Possiamo collocare all’interno della disciplina nota come psicologia della salute, l’insieme degli interventi di competenza dello psicologo nel percorso di ricovero delle persone affette da una malattia organica. Alcune condizioni cliniche (come ad esempio le malattie croniche) comportano nelle persone un forte cambiamento nello stile di vita, nelle relazioni, negli scopi che fino a quel momento potevano essere messi in discussione con più o meno flessibilità.

È proprio questa flessibilità, questa capacità di adattamento alle condizioni di vita che cambiano, che aiuta le persone a modificare gli schemi e a ricostruire un futuro adattandosi agli eventi ambientali (Dobbie et al., 2008, Pierobon et al., 2011).

Il presente articolo ha lo scopo di raccogliere in letteratura ciò che allo psicoterapeuta può essere utile conoscere quando all’attenzione clinica si presentano persone che chiedono un aiuto a seguito di un evento acuto che cambierà inevitabilmente molti aspetti della vita: il trapianto cardiaco. Entreremo quindi più in dettaglio in merito alle caratteristiche del trapianto cardiaco e presenteremo un caso clinico con lo scopo di esplicitare il lavoro terapeutico che ha permesso di organizzare in modo più funzionale piani di vita narrati in modo confuso, caotico e disorganizzato anche sul piano temporale.

 

L’intervento dello psicologo nei casi di trapianto cardiaco

Con il termine patologia cardiaca racchiudiamo una serie di condizioni cliniche che hanno caratteristiche, non solo mediche, ma anche psicologiche differenti. Nelle condizioni cliniche per le quali si richiede trapianto cardiaco, l’attività dello psicologo agisce su più livelli:

La diagnosi

L’attesa dell’intervento chirurgico

La gestione della convalescenza post-trapianto cardiaco.

Nelle prime due fasi descritte, il nostro intervento si basa su aspetti di accettazione della malattia cronica presente, di mantenimento dell’aderenza alle prescrizioni cliniche e di preparazione all’intervento. La fase del post-trapianto cardiaco implica elevate quote di stress e può condurre alla comparsa di aspetti psicopatologici, caratterizzati da sintomi ansiosi e depressivi specie nei pazienti di giovane età e con disturbi psichiatrici in anamnesi (Dew & DiMartini, 2005; Conway et al., 2013).

In particolare, si è stimato che la frequenza per diagnosi psichiatriche è del 12% per PTSD e del 41% per Depressione Maggiore dove, inoltre, la presenza di un episodio depressivo in anamnesi pre-trapianto è un fattore di rischio indipendente e significativo di neoplasie post-trapianto (Favaro et al., 2011). Altri studi invece più specificatamente hanno dimostrato come l’incidenza di Depressione Maggiore è del 15 % nel primo anno post-intervento e del 30% nei tre anni successivi al trapianto cardiaco (Zipfel et al., 2002; Owen et al., 2006). È inoltre utile tenere in considerazione quali sono i fattori che incrementano lo stress psicologico: in letteratura emergono l’utilizzo di strategie di coping passive, basso supporto sociale e carente senso di controllo (Dew&DiMartini, 2005).

 

Il modello LIBET applicato nei casi di trapianto cardiaco

La concettualizzazone del caso è sviluppata utilizzando il modello LIBET (Life themes and plansImplications of biasedBeliefs: Elicitation and Treatment, Sassaroli & Ruggiero, 2012). Innanzitutto consideriamo il ruolo che un evento significativo può avere in relazione ai piani di vita del paziente. Vale a dire l’insieme degli scopi che l’individuo persegue a lungo termine, che gli consentono di dare una direzione, un senso e un ordine alla sua vita, indaghiamo come questi si siano strutturati e comprendiamo come per un certo periodo abbiano aiutato la persona ad evitare di trovarsi nel luogo doloroso. Alcuni eventi di vita possono comportare la rottura del piano, specie se precario e se inflessibile: l’esperienza clinica ci suggerisce che il trapianto cardiaco può essere annoverato tra questi.

Nella fase post-trapianto cardiaco è utile valutare attentamente questi aspetti e indagare i piani di vita e ridefinire il sé dell’individuo, incrementando innanzitutto le risorse a disposizione. Infatti dalla letteratura emerge che per incrementare il benessere psicologico post-trapianto cardiaco sia utile potenziare le risorse quali la percezione di controllo sulla propria salute, l’ottimismo e il confronto con altri pazienti che condividono la medesima esperienza. È inoltre efficace sostenere il supporto sociale per facilitare il passaggio verso una nuova ritrovata indipendenza (Conway et al., 2013). Questo ci potrebbe condurre, nell’ottica del modello LIBET, ad intervenire favorendo la costruzione di piani di vita più funzionali in questa direzione.

 

Trapianto cardiaco: il caso di Roberto

Roberto ha 50 anni, è sposato e ha tre figli, ha lavorato come impiegato in un’azienda ed è appassionato di meccanica. È affetto da Cardiomiopatia Dilatativa da una decina d’anni. Nella fase successiva al trapianto cardiaco le aree di valutazione coinvolgono lo stato emotivo, i disturbi di rilevanza psichiatrica pregressi e attuali, l’aderenza alle prescrizioni cliniche, il ritorno a lavoro, la sfera sessuale (Sommaruga et al., 2003).

Al primo accesso al Servizio di Psicologia, presso la Fondazione Salvatore Maugeri, IRCCS, Istituto Scientifico di Montescano (PV), Roberto osserva gli operatori, non racconta molto di sé, evita il contatto visivo. Gli chiediamo di descriversi e scopriamo, attraverso la scrittura, buone capacità metacognitive ed il bisogno di raccontare il vero Roberto. Così inizia il percorso che, a pochi giorni dal trapianto cardiaco, lo porta a raccontare e raccontarsi ed emergono così i piani di vita che fino a quell’evento erano stati presenti nella vita di Roberto, piani che hanno comportato un costo emotivo e che hanno anche permesso di non accedere al tema di vita di tipo ansioso, che sottende un senso di inadeguatezza e fragilità.

Nel primo colloquio il paziente narra una storia familiare di perdita legata a numerosi lutti dovuti alla malattia cardiaca di origine genetica. Si è strutturato un progetto di intervento, finalizzato all’incremento del benessere psicologico per mezzo di una narrazione coerente di sé e della propria storia, che includesse due percorsi: il primo legato alle fasi di elaborazione del lutto (KublerRoss, 1976) o in questo caso di perdita di funzionalità legata alla malattia ingravescente (negazione-distacco/rabbia/contrattazione-patteggiamento/depressione/accettazione), il secondo focalizzato sul riconoscimento dei piani semiadattivi, su come questi si siano strutturati e su quali risorse poter attivare allo scopo di mettere in atto strategie più efficaci.

Decidiamo insieme a Roberto di lavorare sul riconoscimento del piano di vita controllante e ipercompensativo, appreso dai genitori, da piccolo. Il bisogno di tenersi in movimento e di non fermarsi davanti alle difficoltà l’ha spinto a fare sempre di più, a sfruttare il tempo a disposizione per aiutare gli altri e per dedicarsi alle sue passioni. È sempre stato un abile lavoratore e un amico sul quale poter contare, non ha mai fallito. Roberto si descrive come ‘spensierato, altruista e determinato‘ raccontando così lo sviluppo del piano: in età giovane Roberto era calmo tranquillo e socievole, amico di tutti. Lavora con voglia e intraprendenza per migliorare capacità e salario, ha hobby e sport di tutti i generi. Con la notizia della malattia cardiaca arriva la mazzata; nella vita di Roberto qualcosa inizia ad incrinarsi, inizia ad isolarsi, ad avvicinarsi a quel tema doloroso che fino ad allora aveva tenuto distante:

Non me la sento di dire che era una cosa che mi è appartenuta perché il mio isolarmi e il mio non lamentarmi erano funzionali a non far trapelare i miei stati di salute agli altri per non destare preoccupazioni o paure nei miei cari.

Roberto si descrive nel limbo perché la percezione interna permane consona allo stato di salute (Roberto sofferente), ma il paziente evita di manifestare all’esterno aspetti legati al tema per non per perdere il ruolo (Roberto isolato e freddo). Mantiene l’iperattività su un piano sociale e lavorativo e si isola dai propri e altrui bisogni affettivi con stati emotivi caratterizzati da tristezza, rabbia, distacco verso l’esterno. Osserviamo in questa fase la messa in atto di un piano prudenziale di evitamento. In questo limbo ci sono rari ma intensi episodi di irascibilità, nel momento in cui Roberto rabbioso non riesce a controllare la ribellione interna tra il vissuto e la negazione esterna di malattia.

Roberto distingue bene infatti quella che è la sofferenza psichica da quella fisica dicendo:

La sofferenza fisica ognuno di noi l’affronta in qualche modo, invece quella psichica può essere più difficile: il mio pensiero al riguardo è che se un individuo si lascia sopraffare, entra in una situazione pericolosa carica di incertezze.

Il percorso psicologico ha portato a raggiungere l’obiettivo prefissato: dare voce al dialogo interno di Roberto, a quello che diceva tra sé e sé e non faceva trapelare, ad una narrazione più coerente con la propria storia di vita. In termini più tecnici, l’intervento si è bastato sull’integrazione dell’approccio terapeutico cognitivo-comportamentale in ambito riabilitativo cardiologico  con il modello LIBET.

In particolare, accanto alla critica logica ed empirica delle credenze distorte si è aggiunta l’attenzione per gli stati ritenuti intollerabili del tema di vita e la pianificazione di un impegno a perseguire un piano di vita più funzionale. Molta attenzione è stata dedicata all’accoglimento validante delle emozioni del paziente e alla condivisione degli stati emotivi e dei pensieri che l’hanno accompagnato e lo accompagneranno in un momento di rottura e di rinascita della sua vita.

Elettori informati o elettori ingannati? Il voto può essere influenzato dalla voce o dalla statura del candidato

Secondo diversi studi spesso sono caratteristiche apparentemente superficiali e giudizi immediati ad influenzare le decisioni degli elettori.

Se domandassimo a un gruppo di amici statunitensi, che vivono in Iowa o nel New Hampshire, chi vogliono votare alle prossime elezioni presidenziali, tra Jeb Bush e Bernie Sanders, le risposte potrebbero essere non dissimili da queste: ‘Il più alto, quindi Jeb Bush!‘, oppure: ‘Bernie Sanders: ha una voce più profonda e il suo nome mi ricorda come ho chiamato da sempre il mio migliore amico!’

Per quanto queste affermazioni possano apparirci ridicole, non sono in realtà così diverse dalle modalità superficiali che il nostro cervello utilizza, talvolta, per prendere decisioni.

 

Il tono della voce nella scelta di un candidato

Casey Klofstad, professore associato di scienze politiche all’Università di Miami, ha studiato come fattori sociali e biologici influenzano i processi umani di decision making. Lo scorso anno, in collaborazione con la moglie, biologa, specializzata nel canto degli uccelli, ha realizzato uno studio in cui, durante la sessione sperimentale, i soggetti erano invitati ad ascoltare voci, femminili e maschili, modificate, che dicevano ‘Ti esorto a votare per me a Novembre!‘; dopo, i partecipanti erano chiamati a prendere parte a delle finte elezioni e i risultati finali mostrano come ci sia una preferenza, sia maschile che femminile, a scegliere i candidati con una voce più bassa.

Tali risultati sono un’ulteriore dimostrazione del fatto che, spesso, sono caratteristiche apparentemente superficiali e giudizi immediati ad influenzare le decisioni dei votanti.

 

L’altezza fisica, lo sguardo, le caratteristiche della fisionomia che influenzano le scelte di voto

Un’altra ricerca ha poi mostrato come la maggior parte dei presidenti americani abbia un’altezza superiore alla media e che i votanti tendano a scegliere i candidati più alti.

In uno studio del 2005, invece, lo psicologo Alexander Todorov presentò ai soggetti sperimentali le foto di due candidati e chiese di scegliere quello che sembrava loro più competente: più dei due terzi delle volte, il criterio di scelta dell’apparente competenza, da parte dei partecipanti, si basò sulla presenza di una mandibola squadrata o di uno sguardo intenso.

Inoltre vi è un effetto primacy ben documentato nelle votazioni: i candidati che sono elencati prima sulla scheda elettorale ottengono, in media, il 2,3% di voti in più, rispetto a quando sono elencati più in basso sulla stessa. In più, è stato riscontrato anche che avere un nome dal suono familiare aiuta il successo del candidato.

A questo punto la domanda sorge spontanea: perchè tutti questi ragionamenti superficiali? La spiegazione ha a che fare con i processi euristici di decisione o, più semplicemente, con le nostre scorciatoie mentali. Noi umani, infatti, abbiamo bisogno di usare il nostro cervello efficientemente e lo facciamo, riducendo la quantità di sforzo che passiamo a valutare ogni interazione, decisione o attività. Le euristiche ci aiutano a elaborare la mole di informazioni in cui ci imbattiamo ogni giorno; di conseguenza, prendiamo decisioni non spuntando faticosamente una lista di pro e contro, ma valutando le informazioni, o gli stimoli, che sono più facilmente disponibili.

Ci sono certamente casi in cui sono proprio le nostre scorciatoie o preconcetti a distorcere la verità e a farci cadere nei cosiddetti bias cognitivi. Ad esempio, la preferenza vocale per il tono descritta da Klofstad è piuttosto obsoleta: il tono della voce può infatti aiutarci a capire quale candidato abbia più testosterone, qualità che non equivale però necessariamente all’essere un leader migliore.

Le tre I degli elettori nella democrazia

Daniel Oppenheimer, professore di psicologia presso l’Università della California e co-autore di ‘Democracy Despite Itself’, sostiene che ci sono tre ‘I’ che uniscono gli elettori: ignoranza, irrazionalità e incompetenza. Egli afferma che, come votanti, non riflettiamo sulle nostre convinzioni cardinali per poi cercare il candidato che meglio le soddisfa, piuttosto facciamo spesso il contrario: scegliamo il candidato che ci piace, sulla base di indizi molto soggettivi e superficiali, e, successivamente, plasmiamo le nostre convinzioni per soddisfare le nostre preferenze.

La maggior parte delle persone non ha un’idea chiara dell’opinione dei candidati su molte questioni; ciò sta a significare che la corrispondenza degli ideali decantata non è spesso reale quanto supposta.

Con questo non si vuole denunciare che i processi euristici di decisione sono necessariamente sbagliati, anzi, spesso portano a buoni esiti e sono espressione di un vantaggio evolutivo conquistato. ‘Solo che a volte non lo sono’ dice Oppenheimer.

I bravi politici conoscono bene la superficialità con cui gli elettori prendono gran parte delle loro decisioni, e questo è il motivo per cui, durante la campagna elettorale, vengono spesi tanto tempo ed energia per elaborare un’immagine efficace del candidato: anche quelli che sembrano disordinati o senza copione agli occhi di un profano, stanno probabilmente calcolando come mostrarsi ai loro elettori.

Di fronte a tutte queste propensioni implicite, ciò che possiamo fare è provare consciamente a remare contro alcuni dei nostri istinti più basici, e quindi, quando decidiamo di votare per un candidato, chiederci perché ci piace e con che cosa siamo d’accordo rispetto a quello che rappresenta. Insomma, invece di negare il nostro grado di superficialità innato, provare ad abbracciarlo e guidarlo. Dopo tutto, siamo umani!

Burnout negli insegnanti: cos’è e quali trattamenti possono aiutare

Burnout negli insegnanti: Il burnout (dall’inglese “bruciato”) è una condizione di stress e logorio lavorativo protratto e intenso che determina perdita di interesse nella propria professione, svuotamento interiore e inefficienza nell’attività lavorativa. Colpisce frequentemente gli insegnanti, come dimostra una ricerca del 2002 condotta di Lodolo D’Oria e i suoi collaboratori per il Comune di Milano nel 1992/2001 che ha mostrato che, su oltre 3000 persone, le più colpite sono gli insegnanti.

Questo articolo è stato pubblicato da Giovanni Maria Ruggiero su Linkiesta il 6/02/2016

La figura dell’insegnante nella storia

Un tempo l’insegnante era un notabile della vita dei paesi che erano il nerbo della vita sociale italiana ed era chiamato professore. Insieme al medico e all’avvocato rivestiva il ruolo di una provinciale nobiltà di toga rispettata quanto quella di spada, rappresentata dal militare di carriera. Quando è iniziata la sua decadenza sociale? Dopo la seconda guerra mondiale, con il crollo dell’ultimo tentativo della civiltà militare di restaurare il proprio dominio sulla società, tentativo finito in una catastrofe apocalittica e in una mostruosa riproposizione del sacrificio umano tribale in una forma particolarmente cruenta e di massa.

Insieme al maresciallo, l’insegnante ha fatto una misera fine e oggi occupa un gradino più basso rispetto al medico e all’avvocato. Il suo mestiere lo isola dagli altri adulti e lo pone a contatto con un’orda di giovani individui carichi di ormoni e poveri di rispetto, condannandolo a un’eterna convivenza infantilizzante con ragazzoni e ragazzone che non riescono a tributargli l’antico timore gerarchico e al contempo non possono certo concedergli la magia di riaccoglierlo nella loro fatata giovinezza.

Il burnout negli insegnanti

A questo aggiungiamo uno stipendio insufficiente e un mestiere che rischia facilmente di essere ripetitivo e rutinario e il quadro del burnout già si presenta davanti a noi.
Il burnout (dall’inglese “bruciato”) è una condizione di stress e logorio lavorativo protratto e intenso che determina perdita di interesse nella propria professione, svuotamento interiore e inefficenza nell’attività lavorativa. Il burnout negli insegnanti è molto frequente, come dimostra una ricerca del 2002 condotta di Lodolo D’Oria e i suoi collaboratori per il Comune di Milano nel 1992/2001 che ha mostrato che, su oltre 3000 persone, le più colpite sono gli insegnanti.

Beninteso, il rischio non dipende solo dalla condizione esterna. Predispone l’individuo anche il suo carattere: l’eccessiva dedizione al sacrificio, il bisogno di affermazione attraverso il lavoro a discapito della vita privata, gli eterni e onnipresenti problemi familiari o relazionali e infine, quasi tautologicamente, la scarsa tolleranza dello stress.
Ma non dimentichiamo le mancanze organizzative: concorrono anche le classi numerose, la carenza di attrezzature, le eccessive pratiche burocratiche, la carenza di occasioni di aggiornamento, la limitata possibilità di carriera, la retribuzione insoddisfacente, e infine la precarietà. Proteggono invece l’appartenenza al sesso femminile, l’anzianità, il supporto dei colleghi e il riconoscimento del proprio lavoro da parte di superiori e utenti e anche di se stessi.

E non ci si consoli pensando che i tatti di una condizione relativamente semplice da studiare e sulla quale c’è già pieno accordo scientifico. Al contrario, la teoria clinica dice che esiste più di un burnout. Anzi, ce ne sono almeno tre. Il primo tipo di burnout colpisce chi lavora freneticamente per il successo fino all’esaurimento ed è quello di chi affronta lo stress lamentandosi della gerarchia organizzativa sul lavoro, con la sensazione che questa rappresenti un limite ai propri obiettivi e alle proprie ambizioni. Il secondo tipo di burnout nasce dalla noia e dalla mancanza di sviluppo personale ed è più strettamente associato a una strategia di evitamento. Questi lavoratori poco esigenti tendono a gestire lo stress prendendo sempre più le distanze dal lavoro fino ad approdare a un senso di spersonalizzazione e di cinismo. Infine l’ultimo tipo di burnout è il sottotipo esausto e sembra derivare da una strategia basata sulla rinuncia di fronte allo stress: anche se queste persone desiderano raggiungere un certo obiettivo, non riescono a trovare la motivazione necessaria a superare gli ostacoli per raggiungerlo.

Il trattamento del burnout negli insegnanti

L’aiuto migliore che una persona in stato di burnout può attendersi sono le cure psicologiche. Terapie di ristrutturazione cognitiva sono benvenute, con la loro focalizzazione sui pensieri più deprimenti. Il burnout negli insegnanti induce tipicamente a pensare che lo studente è ingrato e insensibile agli aiuti; non basta, pensa anche di essere abbandonato dall’istituzione, di non avere riconoscimento per i suoi sforzi.
Questo atteggiamento porta l’insegnante a sentirsi inutile e determina risposte aggressive che si alternano a disperazione e inutilità. L’obiettivo del trattamento cognitivo comportamentale è cambiare questo modo di pensare per ridurre l’intensità delle emozioni negative e creare un clima sereno e produttivo all’interno dell’ambiente lavorativo.

La meditazione è una pratica ampiamente usata per contrastare gli effetti di pensieri ed emozioni frustranti. Si raccomanda un tipo particolare di meditazione, la mindfulness, tecnica meditativa che si fonda sulla presa di coscienza (consapevolezza) delle sensazioni presenti che vengono accettate, senza giudizio, senza valutazioni, nel loro naturale fluire. Si impara a vivere nel presente, senza colpevolizzarsi per il passato né temendo il futuro, con benefici su molti disturbi emotivi e fisici, (Gilbert, 2005).

Per migliorare i rapporti con colleghi, superiori e allievi a scuola, è utile apprendere tecniche di assertività, abilità che serve a contrastare la tendenza alla passività e aggressività, apprendendo a rispondere a richieste eccessive con chiarezza, calma e salvaguardando il rapporto di fiducia con l’utenza e l’immagine lavorativa. La collaborazione con i colleghi è fondamentale per sfogare le proprie frustrazioni e preoccupazioni e diminuire il peso delle responsabilità. A questo fine il supporto dato da gruppi di sostegno con altre persone che vivono la stessa condizione di logoramento e la vicinanza dei familiari, evitano il sovraccarico di ansie e tiene lontani da comportamenti dannosi per sé e gli altri.

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