expand_lessAPRI WIDGET

L’ansia matematica: uno studio nelle classi seconde delle scuole secondarie di primo grado

Questo articolo ha partecipato al Premio State of Mind 2014 Sezione Junior

L’ansia matematica: uno studio nelle classi seconde delle scuole secondarie di primo grado

Autore: Eleonora Mercadante (Università degli Studi di Urbino ‘Carlo Bo’)

Abstract

L’ansia matematica può venir identificata genericamente con la paura per la matematica. Tutto ciò può portare a una vera e propria fobia ossia ad un ripudio ed un evitamento dell’aritmetica. Il presente lavoro si è posto di rilevare se esiste una relazione fra ansia matematica e apprendimento matematico e verbale; rilevare se esiste una relazione tra ansia matematica e memoria di lavoro; verificare se questa relazione sia dominio specifica, cioè limitata solo all’elaborazione di materiali numerici, o si estende anche a materiali verbali; esaminare le correlazioni esistenti tra ansia matematica, memoria di lavoro, competenze matematiche e competenze verbali; cercare di chiarire le relazioni causa-effetto tra ansia matematica, memoria di lavoro e apprendimento matematico; rilevare se esistono delle differenze di genere nell’ansia matematica.

I risultati affermano che l’ansia matematica sembra avere un’influenza solo sulle prestazioni matematiche più complesse che richiedono un maggiore carico cognitivo e non sembra invece influenzare le capacità di calcolo e di elaborazione numerica che sono abilità computazionali, di solito automatizzate e che richiedono meno risorse cognitive. Non sono state rilevate differenze significative nelle prestazioni della memoria di lavoro numerica  e verbale tra i soggetti ad alta ansia matematica e quelli con bassa ansia matematica, né correlazioni significative tra i livelli di ansia matematica e le prestazioni della memoria di lavoro numerica e verbale. Non risultano esserci differenze di genere per quanto riguarda l’ansia scolastica, ma esistono, differenze significative tra maschi e femmine nei livelli di ansia matematica totale e specificatamente nell’ansia da valutazione.

 

Abstract (English)

The mathematics anxiety can be identified generally by the fear of math. This can lead to a real phobia or a rejection and an avoidance of arithmetic. The present work want to see if there is a relationship between mathematics anxiety and mathematical and verbal learning; detect whether there is a relationship between mathematics anxiety and working memory; determine whether this relationship is domain specific, is limited only to the development of digital materials, or also extends to verbal materials; examine the correlation between math anxiety, working memory, math skills and verbal skills; try to clarify the cause-effect relationships between mathematics anxiety, working memory and learning mathematics; detect whether there are gender differences in mathematics anxiety.

The results affirm that the mathematics anxiety seems to have an influence only on the performance more complex, requiring greater cognitive load and doesn’t have an influence on the ability of calculating and numerical processing which are computational abilities, usually automated and which require less cognitive resources. There isn’t a significant difference in the performance of numerical and verbal working memory among subjects with high math anxiety and those with low math anxiety, no significant correlations between the levels of mathematics anxiety and performance of numerical and verbal working memory. It seems there aren’t  gender differences regarding school anxiety, but there are significant differences between males and females in the total levels of math anxiety and anxiety specific for the evaluation.

 

Keywords: math anxiety, math phobia, working memory, mathematical learning, gender differences

ALLEGATO 1ALLEGATO 2ALLEGATO 3

 

I conflitti nella coppia: differenze conciliabili nel rapporto di coppia (2015) – Recensione

Alla base dei conflitti nella coppia, c’è spesso un’azione o una mancata azione del partner e c’è una tendenza generale ad attribuire la responsabilità del conflitto al compagno/a e ad alcuni suoi tratti di personalità per noi considerati negativi o inaccettabili.

Marianna Palermo, OPEN SCHOOL Studi Cognitivi Milano

Introduzione

[blockquote style=”1″]Non importa quante cose abbiamo in comune con la persona che amiamo, ognuno di noi è un essere unico; non importa quanto ci amiamo, le differenze tra di noi causeranno talvolta dei conflitti. Ci sentiamo feriti o ignorati, risentiti o arrabbiati e le nostre discussioni spesso acuiscono il problema. Qualcosa deve cambiare e di solito vorremmo che a cambiare fosse il partner.[/blockquote]

Questa introduzione al testo di Christensen, Doss e Jacobson, tradotto in italiano da Monica Dalla Valle e Nerina Fabbro e intitolato “Differenze conciliabili”, riassume in poche parole ma incisive la situazione vissuta da chi è protagonista delle storie raccontate nel libro, utilizzate come esempio per comprendere quali possano essere le difficoltà e i conflitti nella coppia, quali possano essere le cause che ne sono alla base e come potervi far fronte per evitare la degenerazione del rapporto o addirittura la rottura.

Jacobson e Christensen nei loro studi con le coppie si resero conto che talvolta la terapia comportamentale risultava insufficiente nel trattamento e spesso insorgevano delle ricadute. Questo indusse i due psicologi a pensare ad un trattamento alternativo, ossia la terapia comportamentale integrata di coppia che poneva l’accento soprattutto sull’accettazione piuttosto che sul cambiamento.

Rispetto alla precedente edizione del testo degli stessi autori, questa presenta alcune diversità: 1) si induce il lettore o la coppia a focalizzarsi su un problema centrale specifico; 2) sono stati inseriti dei questionari standardizzati con le informazioni relative alla correzione degli stessi; 3) è stato introdotto l’acronimo DEEP per indicare D= le differenze tra se stessi e il partner che potrebbero indurre il conflitto, E= le vulnerabilità emotive di ciascun partner; E= gli stressor esterni che possono contribuire al conflitto; P= i pattern di comunicazione. Tali aspetti saranno approfonditi nel prosieguo dell’articolo.

La formazione del rapporto di coppia

Una domanda che spesso ci si pone quando si parla di amore e di relazioni affettive è : “Come mai tra le tante persone che si incontrano nella propria vita ci si innamora proprio di quella?” Per fornire una risposta a tale domanda, ci fornisce un aiuto la teoria dell’attaccamento (Attili, 2007), la quale sostiene che l’innamoramento come l’attaccamento alla figura materna o a quella che fornisce accudimento abbiano una base innata e per motivi evoluzionistici siamo portati a creare un legame affettivo con un’altra persona. Secondo Bowlby (1988), ognuno costruisce durante l’infanzia e in base al rapporto con i suoi genitori degli schemi mentali, definiti modelli operativi interni che tendono ad essere stabili nel tempo e ad influenzare le relazioni successive: tali modelli si riferiscono alla visione che l’individuo sviluppa di sé, dell’altro e della relazione stessa con l’altro.

Una volta scelta quella persona, la coppia ripercorre diverse fasi. La prima è quella caratterizzata principalmente dall’attrazione fisica, mentre nella seconda entrano in gioco anche i sistemi di attaccamento e di accudimento reciproci e in parte legati ad una riattualizzazione del proprio stile di attaccamento coi propri genitori (Attili, 2007). La terza fase è quella dell’amore, in cui il rapporto si stabilizza e comincia a concretizzarsi maggiormente, per poi arrivare alla fase in cui prevalgono la routine quotidiana, l’impegno reciproco, la sicurezza affettiva e della presenza dell’altro.
È soprattutto quando il rapporto si stabilizza che possono insorgere dei conflitti nella coppia, legati soprattutto alla percezione dei difetti e delle diversità dell’altro: ad una prima fase di idealizzazione del partner e del rapporto, segue una fase in cui emergono le differenze che talvolta appaiono appunto inconciliabili. Quando non si riesce a ritrovare un equilibrio e talvolta si aggiungono anche degli eventi stressanti, è possibile che il legame vada incontro ad una rottura che richiede un’elaborazione. La separazione infatti rappresenta la fine di un rapporto affettivo e vengono quasi ripercorse le fasi del lutto (Attili, 2004).

l conflitti nella coppia

La prima e la seconda parte del testo si focalizza sulle discussioni e i conflitti nella coppia. Ciò che risulta importante è cercare di comprendere il punto di vista di ciascun partner rispetto a quello specifico conflitto, per dar voce ai pensieri e alle emozioni sottostanti di ciascuno.

Secondo Peterson è possibile ricondurre le discussioni nello specifico a 4 eventi: le critiche, le pretese, i comportamenti inadeguati ripetuti e i rifiuti. Alla base dei conflitti nella coppia, c’è dunque spesso un’azione o una mancata azione del partner e c’è una tendenza generale ad attribuire la responsabilità del conflitto al compagno/a e ad alcuni suoi tratti di personalità per noi considerati negativi o inaccettabili. Questo induce spesso delle accuse reciproche che impediscono di trovare una negoziazione o un modo funzionale per risolvere il conflitto in quella specifica situazione. Nel momento si perde di vista l’evento in sé che ha generato la discussione e ci si sposta su un piano di recriminazioni.

La visione che viene proposta dal testo è quella di considerare i problemi relazionali come delle differenze: anche quegli aspetti che inizialmente potevano attrarre, vengono a lungo andare percepite come delle differenze eccessive e inconcepibili. Secondo gli autori ciò che è importante tener presente è che il passato di ciascuno influenza il presente e anche il futuro: ad esempio il rapporto instaurato coi propri genitori, la qualità del matrimonio dei propri genitori, la cultura e i valori condivisi sono aspetti del proprio passato che possono influenzare il modo in cui attualmente ci si relaziona con gli altri e in particolare con il partner.

Un altro aspetto da tener presente è che molto spesso le emozioni che vengono espresse sono quelle più superficiali, che reputiamo più accettabili per non far accedere l’altro eccessivamente alla nostra intimità, ma tali emozioni possono fuorviare dal reale motivo che ha indotto il litigio. Riconoscere e condividere le proprie emozioni nascoste è sicuramente un primo passo per comprendere la reale natura del conflitto.

Inoltre, secondo gli autori, ciascuno presenta delle vulnerabilità e dei punti sensibili spesso legati al proprio vissuto, alle relazioni coi genitori o alle precedenti relazioni coi pari o coi partner. Per questo se l’azione o la mancata azione dell’altro va a sollecitare tali punti deboli, questo ci rende vulnerabili o ci induce a contrattaccare. Dunque, è importante tener presente che la storia di vita e le vulnerabilità emotive di ciascuno entrano in gioco nelle relazioni di coppia e in particolare nelle situazioni di conflitto. Per questo, esserne consapevoli può essere un presupposto fondamentale.

A queste vulnerabilità personali, possono poi aggiungersi degli eventi esterni stressanti sui quali possono focalizzarsi tutte le nostre attenzioni portandoci a perdere di vista il partner e le sue preoccupazioni.

Se non vi è la consapevolezza di questi aspetti, spesso si ricorre a delle modalità comunicative disfunzionali che generano dei circoli viziosi e che tendono a stabilizzarsi nei vari conflitti. Tali strategie anziché risolvere il problema spesso lo fomentano e generano un’escalation emotiva in entrambi i partner.

In questo modo secondo gli autori sono state individuate le principali componenti di un conflitto, ossia le differenze esistenti tra i partner e in parte determinate dal passato di ciascuno, le vulnerabilità emotive, i fattori esterni stressanti e infine i pattern comunicativi disfunzionali; questi aspetti definiscono la cosiddetta analisi DEEP dei conflitti nella coppia.

Accettazione e cambiamento per risolvere i conflitti nella coppia

Nella terza parte viene chiarita la differenza tra accettazione e cambiamento. Il cambiamento comporta che uno dei due partner agisca in maniera diversa (ad esempio può essere meno critico o affettuoso), mentre l’accettazione comporta che si comprendano le caratteristiche dell’altro e le si accetti senza tentare di cambiarle. La strategia più adattiva risulta quella della combinazione tra accettazione e cambiamento. Per ristabilire l’armonia nella coppia è necessario che alcune caratteristiche fisiche o della personalità dell’altro siano accettate e comprese, ma al contempo vi possono essere degli aspetti dell’altro che risultano inaccettabili per ciascuno e che è opportuno tentare di cambiare. Le differenze e le vulnerabilità di ciascuno è importante che siano accettate, mentre i circoli viziosi e le modalità comunicative disfunzionali possono essere modificati.

A questo punto, una volta definite le componenti del DEEP di quella specifica coppia, vengono forniti dagli autori dei consigli utili per evitare che il conflitto degeneri: ad esempio esplicitare il proprio stato emotivo, spiegare all’altro il motivo della propria emozione, far riferimento anche alle proprie emozioni profonde e cercare di capire anche la posizione del compagno in quel momento.

La quarta parte del testo si sofferma invece sul tema del cambiamento e su possibili strategie che potrebbero innescarlo: ad esempio è possibile porre un ultimatum se sono presenti dei problemi molto gravi o se è necessario prendere decisioni importanti; potrebbe essere anche utile fare richieste specifiche anziché generali e che riguardino la relazione stessa col partner.

Secondo gli autori sia la presa di consapevolezza di quanto accade nella coppia e nello specifico durante il conflitto sia la comunicazione sono dei fattori che possono aiutare a superare il momento conflittuale senza danneggiare irrimediabilmente la relazione. Pensare a delle azioni costruttive e positive anziché continuare a lamentarsi e a criticare il partner può innescare dei cambiamenti prima in se stessi e poi nell’altro.

Nell’ultima parte del libro, vengono descritte, invece, quelle situazioni di violenza, abuso o infedeltà di cui si può essere vittima nella relazione di coppia. Mentre le violenze fisiche sono considerate negative e gravi per tutti e dunque è importante sottrarsi a tali relazioni chiedendo aiuto, nei casi di abuso psicologico o di infedeltà ciascuno può considerare sbagliati o immorali comportamenti differenti. Una volta compreso ciò che non si è disposti a tollerare all’interno del rapporto, è importante che questo venga comunicato al partner.

Infine vengono fornite informazioni sulle figure professionali che si occupano di terapia di coppia e alle quali è possibile rivolgersi nel caso in cui la lettura del manuale non fosse sufficiente per risolvere le difficoltà presenti.

La lettura del testo è consigliata a tutti coloro che stanno vivendo dei conflitti nella coppia o che vorrebbero migliorarne la qualità, psicologi e psicoterapeuti che lavorano con le coppie, studenti di psicologia o psicoterapia che si interessano di relazioni affettive. Il testo risulta dunque un manuale di auto-aiuto per le coppie che potrebbe essere letto da ciascun partner singolarmente o da entrambi simultaneamente.

Deficit del controllo inibitorio nel DOC e nel GAP

DEFICIT DEL CONTROLLO INIBITORIO NEL DOC E NEL GAP

Dal VI FORUM sulla FORMAZIONE in PSICOTERAPIA – Assisi 2015

Monia Torrieri 1, Gabriele Caselli 1,2 & Clarice Mezzaluna 1
1 Scuola di Specializzazione in Psicoterapia Cognitiva e Cognitivo-Comportamentale –Sede di San Benedetto del Tronto (AP)
2 Scuola di Specializzazione in Psicoterapia Cognitiva e Cognitivo-Comportamentale – Sede di Milano

INTRODUZIONE

Il Disturbo Ossessivo Compulsivo (DOC) e il Gioco d’Azzardo Patologico (GAP) sebbene rappresentino due quadri psicopatologici ben distinti, mostrano alcune analogie sintomatologiche comuni. Infatti, diversi studi hanno osservato che la causa dei comportamenti compulsivi nel DOC è ascrivibile ad un deficit del controllo inibitorio similmente a quanto verificato per il comportamento impulsivo presente nel GAP. Il deficit del controllo inibitorio è alla base della relazione tra impulsività e compulsività e sarebbe ascrivibile a precisi meccanismi neuropsicologici sottostanti entrambi i costrutti. Compulsività e impulsività rappresenterebbero quindi il polo opposto della stessa medaglia.

Tenendo in considerazione che nel DOC la compulsività è legata all’obiettivo di evitare l’evento minaccioso durante la fase del conflitto decisionale, implicando il coinvolgimento del controllo attenzionale, mentre nel GAP l’impulsività all’azione è scatenata dal deficit del discontrollo motorio, abbiamo ipotizzato che il deficit inibitorio comune ad entrambi i disturbi si localizzi in aree cerebrali contraddistinte.

Obiettivo dello studio è stabilire a quale livello di elaborazione delle informazioni si colloca il deficit inibitorio riscontrato sia nel DOC che nel GAP. Ci aspettiamo che il deficit del controllo inibitorio nel GAP si collochi nella fase di selezione delle risposte motorie e viceversa nel DOC si manifesti nella fase del controllo attenzionale, stabilendo pertanto una differenziazione tra la fase di percezione dello stimolo e la fase finale di emissione della risposta motoria.

Shakespeare in business: imparare ad essere un buon leader con le opere di Shakespeare

Nei lavori di William Shakespeare è possibile individuare i differenti ruoli che un leader può assumere e le diverse competenze necessarie per ricoprire con successo un ruolo manageriale.

 

Senza dubbio William Shakespeare (Stratford-upon-Avon, 23 aprile 1564 – Stratford-upon-Avon, 23 aprile 1616) è uno dei più grandi autori di teatro di sempre. La ragione sta nell’universalità delle sue storie e dei suoi personaggi. A quattrocento anni dalla sua morte, le sue opere ed i suoi personaggi sono più che mai attuali; non solo, si può tranquillamente affermare che il Bardo di Statford-upon-Avon sia un vero maestro di leadership e che nelle sue storie ci siano tutti i segreti della gestione aziendale.

Nei lavori di William Shakespeare, infatti, è possibile individuare i differenti ruoli che un leader può assumere e le diverse competenze necessarie per ricoprire con successo un ruolo manageriale. Altro, dunque, che ‘Shakespeare in love’, oggi il Bardo di Stratford-upon-Avon è sempre più ‘in business‘ e ci aiuta a vedere l’impresa come possibile palcoscenico dei grandi conflitti dell’animo umano, il luogo deputato ad una ritrovata coscienza tragica della vita e ci propone i suoi drammi come modelli comunicativi per leaders.

Ma chi è veramente un leader e quali caratteristiche deve possedere per essere definito tale?

Il termine leader deriva dal verbo inglese to lead e significa, letteralmente, colui che guida. La piccola enciclopedia Hoepli del 1895 sottolinea una derivazione ippica del termine: ‘Leader è il cavallo che si pone in testa nella gara e fa l’andatura‘. Il leader è dunque colui che sa guidare un gruppo di persone, colui che conduce una squadra al raggiungimento di determinati obiettivi.

Quando pensiamo al leader in azienda, spesso pensiamo al capo, ma non è detto che tutti i capi siano leaders, infatti non tutti possiedono quelle che si definiscono caratteristiche di leadership. Il vero leader è colui che possiede alcuni tratti caratteriali ed alcune competenze trasversali che sono da ritenersi indispensabili per ricoprire con successo un ruolo manageriale.

Sino alla fine del XVI secolo si riteneva che i grandi leaders fossero tali per nascita e che i migliori nell’esercitare la leadership fossero coloro che incarnavano con forza l’autorità.

Shakespeare si espresse con fermezza contro questa visione della leadership: alcuni dei suoi personaggi, infatti, falliscono proprio perché basano la loro autorità sul diritto di nascita, perché convinti che potere ed autorità siano legati indissolubilmente alla persona. Riccardo II era convinto che possedere il titolo di re fosse sufficiente, affinché tutti gli obbedissero, mentre Antonio era convinto che il suo potere non derivasse da Roma, ma che risiedesse in lui e che potesse dunque essere usato a suo piacimento. Questi due personaggi, così come accade ad alcuni che al giorno d’oggi occupano ruoli manageriali, credevano che il fatto di possedere un titolo garantisse loro sufficiente autorità per governare. Sia Riccardo II, sia Antonio erano convinti che la leadership potesse essere individualizzata e separata dall’organizzazione. Entrambi saranno destinati all’umiliazione e alla morte.

Ci sono poi Riccardo III, MacBeth e Coriolano che credevano che l’autorità non fosse un diritto divino, ma che dipendesse dalla capacità di manipolare e conquistare il potere; tutti e tre usarono l’arma del terrore per conquistare e mantenere il potere: Riccardo III conquistò il trono con un omicidio, creando in questo modo un clima di sfiducia; Macbeth, spinto dall’ambizione, uccise il Re al quale era stato precedentemente fedele; Coriolano governò punendo e, alla fine, rimase solo.

Tra tutti i personaggi shakespeariani, l’unico vero leader di successo è Enrico V, che si rese conto che per diventare un buon re doveva imparare il modo per esserlo e per riuscirci si rivolse ai suoi futuri sudditi.

Se dunque proviamo a leggere Shakespeare in chiave manageriale, ci accorgiamo che Enrico V è un vero leader, perché capisce che non può fare nulla senza le persone che comanda, è un maestro nel management delle persone, è un esempio perfetto di ciò che si intende per leadership di successo: un gruppo disparato di persone (i nobili), intorno ad un re, per una causa comune (la conquista del territorio francese). Se consideriamo il re come il leader, i nobili come il team di persone che lavora insieme, la nazione come l’azienda e la Francia come un importante progetto, capiamo perché ogni manager dovrebbe leggere Shakespeare, che può essere considerato un vero maestro di leadership contemporanea.

La presentazione dei vari personaggi shakespeariani e dei relativi stili di leadership ci conduce ad una domanda: leader si nasce o si diventa?

Molti studiosi delle teorie della personalità sono fautori della prima ipotesi e sostengono che determinate qualità e tratti caratteriali si hanno sin dalla nascita; secondo questi studiosi, cioè, si nasce con doti di intelligenza, con abilità nel motivare gli altri, con la capacità di prendere decisioni, con la capacità di comunicare efficacemente, ecc….

Ralph Stogdill (1948) concluse che cinque tratti tendono a differenziare i leaders dalla media dei followers, ovvero l’intelligenza, il predominio, la fiducia in se stessi, il livello di energia e la conoscenza delle attività.

Secondo la teoria dello stile comportamentale, invece, leader si diventa, non si nasce: questo è l’opposto del tradizionale assunto dei teorici dei tratti. Di conseguenza, il comportamento del leader può essere sistematicamente perfezionato e sviluppato.

Qualunque teoria vogliate far vostra, cari managers, leggete ed imparate da Shakespeare: non credetevi mai infallibili e, soprattutto, vi serva da monito il destino toccato in sorte a Riccardo II, a Re Lear e ad Antonio.

Due ipotesi: predatori o impulsivi

Si può, grosso modo, classificare il comportamento aggressivo in: premeditato e impulsivo. L’aggressione premeditata è deliberata, eseguita anche a freddo.

Questo articolo è stato pubblicato da Giancarlo Dimaggio sul Corriere della Sera il 13/02/2016

Lo farà ancora? Di fronte al comportamento violento è l’unica domanda che mi interessa. Chi ha picchiato, rubato, stuprato, ucciso recidiverà? La sfida per ricercatori e psicoterapeuti è a tre livelli: prevedere, prevenire e curare. È di quelle responsabilità che fan tremare le vene dei polsi. Distinguerò tra un ragazzo geloso e un vero stalker? Terrò in carcere un soggetto che invece, se aiutato, sarebbe libero dall’impero della rabbia? Consiglierò la libertà di un uomo che con quasi certezza tornerà alla violenza? I miei strumenti saranno capaci di cambiare quelli la cui aggressività può essere controllata?

 

Aggressione premeditata (o del predatore)

Lontani dal seminare certezze, abbiamo conoscenze da offrire. La prima: si può, grosso modo, classificare il comportamento aggressivo in: premeditato e impulsivo. L’aggressione premeditata è deliberata, eseguita anche a freddo. È un comportamento predatorio: l’obiettivo è garantirsi risorse. Denaro, status, partner sessuali. Si attiva perché c’è una preda in vista. Una ragazza che rientri nei parametri che la definiscono desiderabile. Oppure perché un pericolo minaccia i propri possedimenti. Mi hai sfidato? Vuoi sottrarmi la ragazza, controllare il territorio in cui spaccio? Peggio per te, devo sottometterti. Con ogni mezzo a mia disposizione. Come diceva Pablo Escobar, il boss del cartello di Medellin ritratto nel telefilm Narcos: “Plata o plomo”. Soldi o piombo. L’aggressore premeditato corrisponde quasi completamente al profilo dello psicopatico, personalità a sangue freddo, incapace di rimorso, disinteressato al dolore degli altri.

Siamo chiari: per questo tipo di personalità, gli strumenti di cura sono spuntati, inutile provarci. In sua presenza, l’obiettivo è proteggere la comunità. Allo stato attuale della conoscenza scientifica l’idea che si debba tentare di riabilitarla è moralismo d’accatto, il prezzo lo pagano le vittime future.

 

Aggressione da impulsivività

Altra storia è l’aggressione impulsiva, lì il terapeuta può agire. Con la mia amica e collega Patrizia Velotti, curatrice del libro “Comprendere il male”, abbiamo svolto una ricerca pubblicata su Comprehensive Psychiatry. Emergevano due profili di comportamento antisociale. Il primo: gli aggressivi di natura. La loro violenza è indipendente dalla capacità di osservare il proprio animo. Predatori, potenziali psicopatici. Il secondo: persone con minor tasso di aggressività che tendevano al comportamento antisociale soprattutto in presenza di scarse capacità di osservarsi: tecnicamente le chiamiamo bassa mentalizzazione, metacognizione o mindfulness.

Come funziona? Semplice: subiscono un torto. Gli va, alla lettera, il sangue al cervello e aggrediscono, senza pensare. È il profilo dell’aggressore impulsivo. Ma tra minaccia percepita e attacco, la mente ha un tempo di latenza, in cui si può inserire lo psicoterapeuta. Li si porti allora a soffermarsi sul dolore provato prima di aggredire l’altro e, quando lo intravedono, li si aiuti a cercare altre strade per placarlo. Possono capire che il torto non era grave, che la mancanza di attenzione della compagna non era un’offesa irreparabile e invece di reagire con violenza è possibile il dialogo. Scoprono che quella ferita si può lenire, l’aggressione diventa superflua.

Test di Rorschach e fMRI: uno studio pilota

Questo articolo ha partecipato al Premio State of Mind 2014 – Sezione Junior 

Test di Rorschach e fMRI: uno studio pilota

Marzia Di Girolamo

 

Abstract

Neuroscienze e psicologia clinica hanno spesso viaggiato parallelamente, evitando il più possibile punti di contatto ma comunque muovendosi molto spesso nella stessa direzione, se non altro perché rimangono ancorate l’una all’altra dal fatto di avere un comune oggetto di studio: la mente umana e le sue manifestazioni comportamentali.

La ricerca qui presentata tenta di inserirsi nel dialogo tra neuroscienze e psicologia clinica tramite un percorso intermedio: la psicodiagnosi. Essa propone di valutare se si possono determinare caratteristiche di funzionamento a prescindere dal fatto che il soggetto metta in atto dei comportamenti, sfruttando la possibilità che le neuroimmagini offrono di monitorare l’attività neuronale del cervello a riposo (resting-state). Ci si chiede, altresì, se indagini di questo tipo possano contribuire alla validazione dei reattivi psicodiagnostici.

Neuroscience and clinical psychology have often moved in parallel, avoiding as much as possible points of contact but still moving very often to the same direction, at least because they are anchored to each other having a common object of study: the human mind related to the human behaviour. This research attempts entering the dialogue between neuroscience and clinical psychology through an intermediate route: psychodiagnosis. It considers the possibility to value personality characteristics regardless of the fact that the subject enacts behaviours, taking advantage of the possibility – granted by neuroimaging – to monitor the neuronal activity of the brain at resting-state. We also wonder if such research can contribute to validate psycho- diagnostic tests.

Parole chiave: Rorschach, fMRI, Default Mode Network, Resting State, HVI

ALLEGATO 1

ALLEGATO 2

ALLEGATO 3

Il disturbo post-traumatico da stress post partum: incidenza, fattori di rischio e strategie di intervento

Stress post partum: l’esperienza del parto è considerata una condizione potenzialmente traumatica non solo se associata ad eventi oggettivamente traumatici ad esempio, difficoltà e lunghezza del parto, complicazioni connesse allo stato di salute del bambino e della madre ma anche in quanto emozionalmente attraversata da una forte carica di stress, dal timore del dolore fisico  e da preoccupazioni per il nascituro.

Elena Santoro, OPEN SCHOOL STUDI COGNITIVI

Il disturbo post-traumatico da stress post partum: la diagnosi

Accanto alla solida tradizione di studi sulla depressione postnatale, in anni più recenti è emersa una particolare attenzione nei confronti dei disturbi ansiosi e dei sintomi da stress associati al periodo del post-partum, nello specifico quelli del Disturbo Post-traumatico da Stress post partum (Olde, van der Hart, Kleber, & van Son, 2006). Il parto si differenzia per molti aspetti dal resto degli eventi traumatici con cui una persona può confrontarsi nel corso della propria esistenza. Per iniziare, si tratta di un’esperienza vissuta dalla maggior parte delle donne in modo volontario, ricercata, prevedibile, vista positivamente dalla società, e nello stesso tempo può provocare delle ferite all’integrità corporea non sempre presenti nelle altre esperienze traumatiche (Ayers, Harris, Sawyer, Parfitt, & Ford, 2009).

Nonostante queste sue tipicità, l’esperienza del parto è considerata una condizione potenzialmente traumatica non solo se associata ad eventi oggettivamente traumatici ad esempio, difficoltà e lunghezza del parto, complicazioni connesse allo stato di salute del bambino e della madre (Affleck, Tennen, & Rowe, 1991; DeMier, Hynan, Harris, & Manniello, 1996) ma anche in quanto emozionalmente attraversata da una forte carica di stress, dal timore del dolore fisico  e da preoccupazioni per il nascituro (Di Blasio, Ionio, & Confalonieri, 2009; Garthus-Niegel, von Soest, Vollrath, & Eberhard-Gran, 2013).

Le ricerche sul disturbo post-trumatico da stress post partum sono esponenzialmente aumentate a seguito delle modifiche introdotte nel DSM-IV (American Psychiatric Association, 1994) nella definizione stessa di eventi traumatici (CRITERIO A) non considerati più come “eventi estremi al di fuori della comune esperienza umana” (DSM III; American Psychiatric Association, 1980) ma esperienze stressanti in cui [blockquote style=”1″]la persona ha vissuto, ha assistito, o si è confrontata con un evento o con eventi che hanno implicato morte, o minaccia di morte, o gravi lesioni, o una minaccia all’integrità fisica propria o di altri[/blockquote] (American Psychiatric Association, 1994). Il parto, dunque, non era inizialmente classificabile come uno stressor potenzialmente traumatico poiché rientrava nel range delle esperienze normali per la maggior parte delle donne, e diventava oggetto di studio solo quando connesso ad esperienze oggettivamente negative e traumatiche come nel caso di un bambino nato morto (Turton, Hughes, Evans, & Fainman, 2001), di morte perinatale (Hunfeld, Wladimiroff, & Passchier, 1997), o di un parto prematuro (Holditch-Davis, Bartlett, Blickman, & Miles, 2003).

Ad oggi, gli studiosi concordano nel ritenere il parto un’esperienza stressante e traumatica in sé (Ayers, 2004; Boorman, Devilly, Gamble, Creedy, & Fenwick, 2014; Leeds & Hargreaves, 2008), infatti, sia a seguito di un parto difficile e atipico, sia di un parto “normale” con gravidanza a termine e assenza di problemi di salute nel bambino e nella madre, le neo-mamme possono sviluppare il disturbo post-traumatico da stress post partum vero e proprio (PTSD) o sintomi sotto-soglia (PTSS) (Alcorn, O’Donovan, Patrick, Creedy, & Devilly, 2010; Olde et al., 2005). Circa il 30% delle donne valuta il proprio parto come traumatico (Boorman et al., 2014; Soet, Brack, & DiIorio, 2003).

Una percentuale di donne che varia tra 1-7% presenta il disturbo post-traumatico da stress post partum secondo i criteri diagnostici del DSM IV (Ayers et al., 2008; Maggioni, Margola, & Filippi, 2006; Stramrood et al., 2011; Zaers, Waschke, & Ehlert, 2008). Gli studi Europei (Di Blasio et al., 2009; Di Blasio & Ionio, 2002, 2005; Maggioni et al., 2006; Soderquist, Wijma, & Wijma, 2002) confermano che una percentuale di donne che varia tra 1-3% sviluppa il disturbo post-traumatico da stress post partum. Percentuali più elevate di sintomi, tra il 24% e il 34%, si evidenziano quando si considerano i sintomi in forma parziale (Ayers, 2004; Iles et al., 2011; Maggioni et al., 2006; Soet et al., 2003).

La sintomatologia del disturbo post traumatico da stress post partum

I sintomi tipici del disturbo post-traumatico da stress sono la persistente ri-esperienza del trauma attraverso sogni o flashback, l’evitamento degli stimoli associati all’evento traumatico come persone o luoghi e, infine, i sintomi di hyperarousal, ovvero uno stato di persistente attivazione fisiologica.  Ad esempio, in un studio di caso una donna con disturbo post-traumatico da stress post partum durante una sessione di terapia riviveva l’esperienza del parto (flashback) vedendo se stessa che giaceva nella sala parto (Ayers et al., 2008). Un’altra neo-madre sperimentava intenso stress quando entrava in contatto con cues interni o esterni che le ricordavano aspetti del parto (Stramrood et al., 2011). Per quanto riguarda la sintomatologia da stress specificamente connessa all’esperienza del parto, bisogna tener presente che l’attivazione può risentire dei cambiamenti fisiologici e ormonali nonché della stanchezza del travaglio e del parto, spesso lungo e faticoso. Inoltre, la neo-maternità e la routine medica che caratterizzano lo specifico post-partum può rendere difficile alle donne evitare i reminder traumatici, rappresentati dal neonato, dalle ostetriche, medici e dall’ospedale stesso. Ciò potrebbe determinare un maggior numero di sintomi di hyperarousal e meno sintomi di evitamento (Ayers et al., 2009). Gli studi infatti evidenziano che 12-15% delle donne nel postparto presentano sintomi di ri-esperienza, 2-7% sintomi di evitamento e 25-27% sintomi di hyperarousal (Lemola, Stadlmayr, & Grob, 2007; Maggioni et al., 2006; Soet et al., 2003).

Gli studi hanno evidenziato un’elevata comorbilità tra sintomi postraumatici da stress e sintomi depressivi post-partum (Alcorn et al., 2010; Leeds & Hargreaves, 2008; Parfitt & Ayers, 2009; Söderquist, Wijma, Thorbert, & Wijma, 2009; Zaers et al., 2008). I due disturbi, infatti, condividono alcune caratteristiche e sintomi specifici come ad esempio la diminuzione di interesse per attività significative, sentimenti di distacco dagli altri, scarsa affettività, difficoltà a dormire o a mantenere il sonno, difficoltà di concentrazione e memoria (Söderquist et al., 2009). Inoltre, la depressione rende le persone particolarmente suscettibili agli eventi traumatici configurandosi come un fattore di rischio specifico per risposte da stress post partum .

Il disturbo post traumatico da stress post-partum: i fattori di Rischio

Il modello multidimensionale proposto da Slade (2006) permette di sintetizzare i fattori di rischio associati alle risposte da stress post partum. Su un asse, sono disposti i fattori predisponenti (in gravidanza o pre-esistenti), i fattori precipitanti (aspetti del travaglio-parto) e i fattori di mantenimento (aspetti postnatali); sull’altro asse invece, sono specificati i fattori interni (individuali), esterni (ambientali) e i prodotti della loro interazione. Tra i fattori predisponenti individuali rientrano: le complicazioni in gravidanza (Maggioni et al., 2006), l’intensa paura per il travaglio ed il parto (Söderquist, Wijma, & Wijma, 2004; Zambaldi, Cantilino, & Sougey, 2009), i sintomi depressivi e ansiosi in gravidanza (Maggioni et al., 2006; Zaers et al., 2008; Zambaldi et al., 2009), una storia di disturbi psichiatrici (Ayers, 2004; Czarnocka & Slade, 2000), l’ansia di tratto (Czarnocka & Slade, 2000; Söderquist et al., 2004; Soet et al., 2003), traumi sessuali nel passato o abuso sessuale durante l’infanzia (Ayers et al., 2009; Soet et al., 2003).

Per quanto riguarda l’interazione tra aspetti individuali e contestuali, una gravidanza non pianificata (Beck et al., 2011) e lo scarso supporto sociale percepito in gravidanza (Czarnocka & Slade, 2000; Soet et al., 2003; Zambaldi et al., 2009) sono identificati come fattori di rischio predisponenti per il PTSD post-partum. A livello individuale, l’essere primipara (Denis, Parant, & Callahan, 2011), la paura intensa per sé o per il bambino e in generale le emozioni negative esperite durante il travaglio e il parto (Denis et al., 2011; Goutaudiera et al., 2012; Leeds & Hargreaves, 2008), la mancanza o la perdita di controllo durante il parto e un vissuto d’impotenza (Ayers, 2007; Maggioni et al., 2006; Soet et al., 2003), la percezione d’intenso dolore (Denis et al., 2011; Stramrood et al., 2011), la dissociazione (Goutaudiera et al., 2012; Olde et al., 2005; Zambaldi et al., 2009) e la violazione delle aspettative riguardanti il parto (Czarnocka & Slade, 2000; Maggioni et al., 2006; Soet et al., 2003) rappresentano i fattori di rischio precipitanti per il disturbo post-traumatico da stress post partum.

Tra i fattori precipitanti esterni associati alle risposte da stress post traumatico rientrano: il tipo di parto ed in particolare un cesareo di urgenza, non programmato o il ricorso a particolari strumentazioni come la ventosa (Ayers et al., 2009; Beck et al., 2011; Ford, Ayers, & Bradley, 2010; Goutaudiera et al., 2012; Söderquist et al., 2004; Stramrood et al., 2011), benché molti studi non confermino tale associazione (Ayers et al., 2009; Maggioni et al., 2006). I fattori precipitanti che originano dall’interazione tra aspetti individuali ed esterni sono: la percezione di mancanza di supporto da parte del partner e dello staff medico e la mancanza di informazioni adeguate (Maggioni et al., 2006; Söderquist et al., 2004; Soet et al., 2003). Tra i fattori che concorrono al mantenimento dei sintomi di disturbo post-traumatico da stress post partum rientrano le valutazioni e credenze negative (Czarnocka & Slade, 2000; Edworthy, Chasey, & Williams, 2008), i sintomi di depressione postnatale (Beck et al., 2011; Denis et al., 2011; Leeds & Hargreaves, 2008) e lo scarso supporto sociale percepito (Ford et al., 2010).

Il disturbo post traumatico da stress post-partum: le strategie di intervento

Mentre la copiosa letteratura sugli interventi rivolti al trattamento del disturbo post-traumatico da stress non connesso al parto include tra i più efficaci la terapia cognitivo comportamentale focalizzata sul trauma (CBT), la terapia di esposizione e l’EMDR (Eye Movement Desensitisation and Reprocessing), sono pochi gli studi sui trattamenti rivolti al disturbo post-traumatico da stress post partum (Lapp, Agbokou, Peretti, & Ferreri, 2010).

Gli studi in questo ambito fanno principalmente riferimento ad interventi di debriefing o di counselling (Cunen, McNeill, & Murray, 2014; Lapp et al., 2010). Il debriefing consiste in un’intervista psicologica strutturata effettuata solitamente dal personale ostetrico a seguito del parto. L’intervista indaga l’esperienza vissuta dalla persona, le sue cognizioni, le attribuzioni dell’evento e le emozioni provate. Alcuni studi hanno identificato effetti positivi sui sintomi di disturbo post-traumatico da stress post partum rilevando una diminuzione dei sintomi post-debriefing (Gamble et al., 2005; Harvey, Bryant, & Tarrier, 2003), altri non hanno identificato alcun effetto (Priest, Henderson, Evans, & Hagan, 2003; Selkirk et al., 2006), altri ancora un’influenza potenzialmente negativa con incremento dei sintomi post-intervento (Kershaw, Jolly, Bhabra, & Ford, 2005). Il debriefing e il counseling nel dopo parto, ad oggi, non sono però identificati nè  raccomandati come interventi efficaci da introdurre ed utilizzare nella prassi ospedaliera (Cunen, McNeill, & Murray, 2014; Lapp et al., 2010; National Institute for Clinical Excellence, 2005).

Solo uno studio qualitativo di due casi clinici ha indagato l’effetto della terapia cognitivo-comportamentale (CBT) sul disturbo post-traumatico da stress post partum (Ayers, McKenzie-McHarg, & Eagle, 2007) identificando risultati positivi. Nello specifico, l’utilizzo congiunto della riesposizione all’evento e la ristrutturazione cognitiva vengono identificati come tecniche efficaci per il trattamento del disturbo post-traumatico da stress post partum. Infatti, secondo il modello CBT le emozioni, i pensieri negativi e le valutazioni sono aspetti centrali, di mantenimento del disturbo post-traumatico (Ayers et al., 2007).

L’EMDR è riconosciuto come trattamento efficace per il disturbo post-traumatico da stress non connesso al parto (National Institute for Clinical Excellence, 2005). Ad oggi, solo uno studio pilota ha evidenziato la sua efficacia nel post-partum: le 4 donne con disturbo post-traumatico da stress post partum sottoposte alle sedute di EMDR mostrarono una riduzione della sintomatologia postraumatica da stress a seguito del trattamento e il mantenimento degli effetti benefici dell’EMDR si è osservato in 3 di loro anche a distanza di 1-3 anni dal trattamento. Come sottolineato dagli autori stessi (Sandström, Wiberg, Wikman, Willman, & Högberg, 2008) per giungere a conclusioni certe circa l’efficacia dell’EMDR nel trattamento del disturbo post-traumatico da stress post partum sono necessari ulteriori studi.

Infine, gli studi di Di Blasio et al. (Di Blasio et al., 2009, 2015; Di Blasio & Ionio, 2002) hanno identificato nell’Expressive Writing sulla specifica esperienza del travaglio e del parto, un intervento in grado di ridurre la sintomatologia postraumatica post partum, in particolare i sintomi di evitamento a breve termine (2 giorni dopo), e i sintomi di hyperarousal a medio (2 mesi/ 3 mesi post-writing session) e a lungo termine (12 mesi post-intervento) in un gruppo di donne che avevano avuto un parto “normale”.

In particolare, gli studi hanno evidenziato che i vissuti negativi legati al parto, quando espressi ed elaborati tramite la scrittura espressiva, perdono la loro connotazione traumatica e determinano un miglioramento dello stato di salute psicologico riducendo le risposte da stress post partum. Pennebaker stesso, ideatore del paradigma teorico e clinico dell’Expressive Writing, sostiene che [blockquote style=”1″]per migliorare lo stato di salute sembra necessario tradurre le esperienze in parole, integrare pensieri e sentimenti e rendere coerente e significativa la propria storia: in una parola, operare connessioni che diano significato e senso alle esperienze[/blockquote] (1999, p. 43).

Intervista al Prof. Metin Basoglu, fondatore del Trauma Studies presso il King’s College di Londra

L’intervista è stata rivolta al professor Metin Basoglu, MD, PhD, fondatore ed ex direttore del Trauma Studies presso l’Istituto di Psichiatria del King’s College di Londra e fondatore del Centro di Ricerca e Terapia Comportamentale (DABATEM) di Istanbul, in Turchia.

READ THE INTERVIEW IN ENGLISH

Il professor Metin Basoglu è internazionalmente riconosciuto come un’autorità delle tematiche traumatiche inerenti guerre, torture, disastri naturali e nel trattamento dei sopravvissuti. Uno dei suoi obiettivi di carriera di guida è stato quello di sviluppare un modello di assistenza sanitaria, che potesse soddisfare le esigenze di assistenza psicologica di milioni di sopravvissuti al trauma di massa, in tutto il mondo. Il suo lavoro con i sopravvissuti al terremoto del 1999 in Turchia, ha portato allo sviluppo di un trattamento breve e in gran parte di auto-aiuto (Control-Focused Behavioral Treatment – CFBT) che è stato un passo importante verso tale modello di intervento.

1. Come fondatore di DABATEM, potrebbe descrivere perché è nato il Centro?

Eventi traumatici di massa, come guerre, disastri naturali, violenza politica e tortura, colpiscono milioni di persone in tutto il mondo. La maggior parte di esse ha poche possibilità di ottenere un’assistenza professionale. DABATEM è stata fondata nel 1995 con l’obiettivo di sviluppare un modello di salute mentale finalizzato a soddisfare le esigenze di grandi popolazioni superstiti. Tale compito è impegnativo e richiede interventi molto brevi, che possano anche essere auto-somministrati, senza alcun coinvolgimento terapeuta. Poiché nessuno dei trattamenti “evidence-based” sviluppati nel mondo occidentale è stato ritenuto adatto a questo scopo, abbiamo avuto bisogno di sviluppare un nuovo intervento.

2. Che cosa è questo intervento e qual è la sua base teorica?

Esso si basa sulla teoria dell’apprendimento, la quale afferma che lo stress traumatico è causata da un senso di impotenza indotto da eventi stressanti, imprevedibili e incontrollabili. L’evidenza mostra che l’evitamento cognitivo e / o comportamentale è fortemente associato ad ansia e impotenza. Ciò implica che aiutare una persona incrementando il senso di controllo, sull’ansia causata da esposizione a un trauma ricordato, ridurrebbe il senso di impotenza e porterebbe ad una remissione sintomatologica. Questa ipotesi è stata confermata da diversi studi clinici. A causa della sua attenzione al senso di controllo, abbiamo chiamato l’intervento Control-Focused Behavioral Treatment o CFBT in breve.

3. Come il CFBT è diverso da altri trattamenti che includono l’esposizione?

Il CFBT si basa su un paradigma teorico radicalmente diverso. A differenza di altri trattamenti che mirano alla riduzione dell’ansia, CFBT punta alla tolleranza dell’ansia o al miglioramento del senso di controllo dell’ansia. La riduzione dell’ansia non è un obiettivo realistico quando le persone devono affrontare continue minacce alla sicurezza. Si ha bisogno di un intervento di costruzione della resilienza che aumenti la capacità di tollerare o controllare l’ansia. CFBT è anche diverso dai trattamenti cognitivo-comportamentali volti a concentrarsi esclusivamente sulla prevenzione e che non prevedono interventi cognitivi sistematici o qualsiasi tecnica di gestione dell’ansia.

4. Come funziona in breve il CFBT?

In breve, esso implica il minor coinvolgimento possibile del terapeuta. Nel CFBT il terapeuta spiega il razionale del trattamento, incoraggia all’auto-esposizione, monitora i progressi e assiste con esercizi di esposizione solo quando necessario. La ricerca mostra che quasi l’80% dei sopravvissuti può recuperare con l’auto-esposizione dopo la prima seduta, mentre solo il 20% necessita di oltre 3 sedute di esposizione assistita dal terapeuta. Il trattamento può anche essere efficacemente distribuito in una singola seduta, in oltre il 90% dei casi, utilizzando il Trattamento con Simulatore di Terremoto, un’applicazione avanzata di CFBT progettata per aumentare il senso di controllo sui tremori, all’interno di un simulatore di terremoti.
Non abbiamo ancora condotto studi analoghi con traumi di guerra e sopravvissuti alla tortura, ma un recente studio del trattamento, su 60 traumatizzati richiedenti asilo, ha dimostrato che il recupero significativo può essere realizzato con circa 6 sedute condotte col terapeuta. Queste sessioni potrebbero essere ridotte ulteriormente, quando i sopravvissuti possono iniziare da soli a condurre l’esposizione, passando ad auto-esposizioni.

5. Come può questo trattamento essere diffuso alle masse?

Poiché il modello è in fase avanzata con i sopravvissuti del terremoto, risponderò alla tua domanda in relazione ai terremoti. L’evidenza suggerisce che il CFBT può essere consegnato come un intervento auto-somministrato attraverso tutti i mezzi possibili, includendo il professionale o il laico terapista, manuali di auto-aiuto, e la comunicazione dei mass media. Esso include due aspetti: (1) un programma di assistenza mirato a particolari gruppi superstiti, come quelli dislocati, rifugi, scuole, fabbriche, o comunità più colpite e (2) la diffusione della conoscenza del trattamento al pubblico attraverso i mass media, come TV, Internet, social media, ecc..

Il programma di sensibilizzazione prevede la consegna step-by-step di 4 sessioni CFBT. Il trattamento dei partecipanti è interrotto, dopo ogni sessione, con la consegna di proseguire gli esercizi di esposizione in autonomia. L’idea è quella di ridurre al minimo l’ingresso del terapeuta, facendo affidamento sull’auto-esposizione, al fine di risparmiare tempo prezioso al terapeuta per i non-partecipanti ad ogni sessione. In uno studio abbiamo scoperto che il 76% dei sopravvissuti migliora dopo la 1° sessione, 88% dopo la 2°, il 97% dopo la 3 ° e 100% dopo la 4 °.

Il modello prevede anche strategie di preparazione ‘pre-disastro’, compresa la formazione di operatori sanitari, la diffusione delle conoscenze del trattamento al pubblico, e, quando possibile, l’uso di simulatori di terremoto per aumentare la tolleranza ai possibili effetti traumatici del terremoto.

6. Potrebbe esaminare il rapporto costo-efficacia di questo programma di sensibilizzazione?

Solo in termini di costi di tempo del terapeuta. La cura di 5.000 sopravvissuti, dopo il terremoto del 1999 in Turchia, è costata 30 dollari a caso, all’epoca stavamo ancora sviluppando il modello. Allo stato attuale ci aspettiamo un costo di 17,5 dollari a caso per paesi come la Turchia. Se il nostro manuale di auto-aiuto venisse utilizzato come intervento di prima linea, il costo potrebbe essere sostanzialmente inferiore, a seconda del numero di persone che utilizzano il manuale. Con tale basso costo, sarebbe economicamente affrontabile indirizzare grandi popolazioni di superstiti alla cura. Per esempio, si sarebbe potuto distribuire tale trattamento a tutta la popolazione superstite, che necessitava di aiuto dopo il terremoto dell’Aquila del 2009. Diffondere la conoscenza del trattamento attraverso i mass media, come la TV e social media, potrebbe ridurre i costi ancora di più. Anche se non abbiamo ancora avuto la possibilità di provare questo metodo di diffusione, abbiamo buoni motivi per credere che avrebbe aiutato un sacco di gente.

7. Potrebbe dire qualche parola circa il libro che avete pubblicato inerente questo lavoro?

Questo libro è in realtà inteso come uno strumento di formazione per gli operatori. Esso prevede non solo una descrizione dettagliata del modello, ma anche gli strumenti necessari per la sua attuazione, come test di screening per lo stress traumatico, scale per la valutazione dell’esito del trattamento, un manuale di auto-aiuto per i sopravvissuti del terremoto, e un manuale di trattamento strutturato per i professionisti e i terapisti laici. Operatori sociali interessati ad utilizzare il nostro modello, ma che non hanno un diretto contatto con noi per la formazione, possono trovare ciò di cui hanno bisogno in questo libro.

8. Cosa ne pensa il futuro per DABATEM e la vostra carriera?

Ho passato 30 anni della mia vita su questa impegnativa idea. Ci sono voluti più di 40 studi per portare il modello al suo stato attuale ed è necessario più lavoro per completarlo. Ora sono in una fase della mia carriera in cui posso essere più utile attraverso la diffusione di queste conoscenze, con programmi di formazione, pubblicazioni, e il mio blog. Spero che la mia collega più giovane, prof. Ebru Salcioglu, che ora porta avanti la bandiera della missione di DABATEM, volgerà la mia idea a completamento. Il nostro lavoro svolto finora spera di motivare gli altri nel contribuire a questo processo.

Metin Basoglu, Ebru Salcioglu ‘A Mental Healthcare Model for Mass Trauma Survivors. Control-Focused Behavioral Treatment of Earthquake, War and Torture Trauma’. Cambridge University Press 2011

Interview with Professor Metin Basoglu, MD, PhD, founder and former Head of Trauma Studies at the Institute of Psychiatry of King’s College London and founder of the Istanbul Center for Behavior Research and Therapy (DABATEM) in Turkey.

Professor Metin Basoglu is internationally recognized as an authority on war, torture, and natural disaster trauma and treatment of survivors. One of his career-guiding goals has been to develop a mental healthcare model that can address the psychological care needs of millions of mass trauma survivors around the world. His work with survivors of the 1999 earthquakes in Turkey that led to the development of a brief and largely self-help intervention (Control- Focused Behavioral Treatment – CFBT) has been an important step towards such a model.

1. As the founder of DABATEM, could you describe why the Center was born?

Mass trauma events, such as wars, natural disasters, political violence, and torture, affect millions of people around the world. Most have little chance of getting professional care. DABATEM was founded in 1995 with a view to developing a mental healthcare model with a potential to meet the needs of large survivor populations. Such a challenging task requires very brief interventions that can also be self-administered without any therapist involvement. As none of the “evidence-based” treatments developed in the western world is suitable for this purpose, we needed to develop a novel intervention.

2. What is this intervention and its theoretical basis?

It is based on learning theory, which tells us that traumatic stress is caused by helplessness induced by unpredictable and uncontrollable stressor events. Evidence shows that cognitive and / or behavioral avoidance is strongly associated with helplessness anxiety. This implies that helping a person to gain sense of control over anxiety by exposure to trauma reminders would reduce helplessness and lead to recovery. This hypothesis was confirmed by several clinical trials. We have also seen many survivors discover this intervention by themselves and recover without any professional help. Because of its focus on sense of control, we called it Control-Focused Behavioral Treatment or CFBT in short.

3. How is CFBT different from other treatments involving exposure?

It is based on a radically different theoretical paradigm. Unlike other treatments that aim for anxiety reduction, CFBT aims for anxiety tolerance or enhancement of sense of control over anxiety. Anxiety reduction is not a realistic aim when people face continued threats to safety. You need a resilience-building intervention that increases ability to tolerate or control anxiety. CFBT is also different from cognitive-behavioral treatments in focusing solely on avoidance and not involving any systematic cognitive interventions or any anxiety management technique.

4. How brief is CFBT?

By brief, I mean involving as little therapist involvement as possible. In CFBT the therapist explains the treatment rationale, encourages self-exposure, monitors progress, and assists with exposure exercises only when needed. Research shows that nearly 80% of survivors recover with self-exposure after the first session, while only 20% need up to 3 more therapist-assisted exposure sessions. Treatment can also be effectively delivered in a single session in over 90% of the cases using Earthquake Simulation Treatment, which is an enhanced application of CFBT designed to increase sense of control over tremors in an earthquake simulator.

We haven’t yet conducted comparable studies with war and torture survivors but a recent treatment study of 60 traumatized asylum-seekers showed that significant recovery can be achieved with mean 6 therapist-delivered sessions. These sessions could be reduced further by switching to self-exposure earlier in treatment when the survivors can conduct exposure on their own.

5. How can this treatment be disseminated to masses?

As the model is at a more advanced stage with earthquake survivors, I’ll answer your question in relation to earthquakes. Evidence suggests that CFBT can be delivered as a self-administered intervention through all means possible, including professional or lay therapists, self-help manuals, and mass media. It involves two components: (1) an outreach program targeting particular survivor groups, such as those dislocated to shelters, schools, factories, or most affected communities and (2) dissemination of treatment knowledge to the public through mass media, such as TV, Internet, social media, etc.

The outreach program involves step-by-step delivery of 4 CFBT sessions. Treatment of responders after each session is discontinued with instructions to continue exposure exercises on their own. The idea is to minimize therapist input by relying on self- exposure, sparing precious therapist time for non-responders to each session. In a study we found that 76% of the survivors improved after the 1st session, 88% after the 2nd, 97% after the 3rd, and 100% after the 4th.

The model also involves pre-disaster preparedness strategies, including training of care providers, dissemination of treatment knowledge to the public, and whenever possible, increasing people’s resilience against earthquake trauma through the use of earthquake simulators.

6. Did you examine the cost-effectiveness of this outreach program?

Only in terms of therapist time costs. Care of 5,000 survivors after the 1999 earthquake in Turkey cost us 30 USD per case while we were still developing the model. In its present state we anticipate a cost of 17.5 USD per case in countries like Turkey. If our self-help manual is used as the first-line intervention, the cost could be substantially lower, depending on the number of people who utilize the manual. With such low cost, it would be economically feasible to target large survivor populations for care delivery. For example, you could have delivered care to the entire survivor population in need of help after the 2009 L’Aquila earthquake. Disseminating treatment knowledge through mass media, such as TV and social media, could reduce the costs even further. Although we didn’t yet have a chance to test this dissemination method, we have good reasons to believe it would help a lot of people.

7. Can you say a few words about the book you have published on all this work?

This book is actually intended as a training tool for care providers. It provides not only a detailed description of the model but also the tools needed to implement it, such as screening tools for traumatic stress, scales for treatment outcome evaluation, a self-help manual for earthquake survivors, and a structured Treatment Delivery Manual for professional and lay therapists. Care providers who are interested in using our model but who do not have access to us for training may find the knowledge they need in this book.

8. What do you think the future holds for DABATEM and your career?

I spent 30 years of my life on this challenging idea. It took more than 40 studies to bring the model to its present state and more work is needed to complete it. I am now at a stage in my career where I can be most useful by disseminating my knowledge through training programs, publications, and my blog. I am hoping my younger co- worker, Prof. Ebru Salcioglu, who is now carrying the flag of DABATEM’s mission, will bring my idea to a completion. Our work so far will hopefully motivate others to contribute to this process.

Ingannare il proprio giudice interiore con la Self Mirroring Therapy

Autori: Alibrandi M., Speciale M., Vinai P.

“Accidenti a me! Mi prenderei a schiaffi! Sono stato proprio stupido, non valgo niente!” Quante volte ci rivolgiamo a noi stessi in questo modo. Per alcuni pazienti, è proprio questa mancata accettazione di sé e delle proprie imperfezioni a mantenere una patologia, come per esempio quella ossessiva. Ma lo stesso giudice interiore, rigido e pronto a puntare il dito contro noi stessi, spesso non è altrettanto severo con gli altri e in particolare con le persone a cui vogliamo bene: la legge non è uguale per tutti!

Per evitare questa discrepanza e indurre il giudice ad avere nei nostri confronti  lo stesso atteggiamento che ha con le altre persone,  possiamo fare in modo che ci osservi come se fossimo “un altro”.

La Self Mirroring Therapy  facilita proprio questo meccanismo di “decentramento”  attraverso la videoregistrazione di se stessi e la successiva visione di sé attraverso il video.

Quando osserviamo un’altra persona esprimere un’emozione si attivano gli stessi circuiti motori, viscero-motori ed affettivi che sono coinvolti quando noi stessi produciamo quella stessa espressione emotiva; tale meccanismo, mediato dal sistema dei neuroni specchio, ci permette di comprendere a fondo le emozioni altrui e di provare empatia, tanto più facilmente quanto più identifichiamo l’altro come simile a noi.

La self mirroring therapy, prevedendo la videoregistrazione di se stessi in alcuni momenti salienti della terapia e la successiva visione di se attraverso il video, fa sì che il paziente, osservando le proprie espressioni emotive da fuori, sfrutti a proprio vantaggio quelle abilità innate di comprensione dell’altro, mediate dai neuroni specchio, superando  le difficoltà di riconoscere le proprie emozioni  solamente attraverso la capacità autoriflessiva.

L’effetto terapeutico è un rapido ed immediato insight sulle proprie convinzioni disfunzionali e sulle emozioni correlate, talmente evidente da non poter “sfuggire”. Inoltre durante l’autosservazione   vengono spontaneamente attivati  stati emotivi di  accudimento, compassione, accettazione e perdono verso se stesso, in cui il proprio “giudice severo” si trasforma in un amico che ci capisce davvero e ci vuole bene.

 

Prossimi eventi formativi sulla Self Mirroring Therapy

Self Mirroring Therapy per i Disturbi Alimentari – 27 Febbraio 2016 – Scarica la BROCHURE

Self Mirroring Theray per gli Attacchi di Panico – 12 Marzo 2016 – Scarica la BROCHURE

Self Mirroring Therapy per il Disturbo Ossessivo Compulsivo – 9 Aprile 2016 – Scarica la BROCHURE

La sottoscrizione del contratto giuridico e del contratto psicologico nelle organizzazioni lavorative

Il lavoratore ed il datore di lavoro firmano un accordo “mentale” non scritto, il cosiddetto contratto psicologico, ovvero il complesso delle aspettative che il lavoratore nutre nei confronti dell’azienda e, allo stesso tempo, il complesso delle aspettative che il datore di lavoro ha nei confronti di un proprio collaboratore. Il contratto psicologico, a differenza di quello giuridico, ha una natura molto più fluida e si evolve nel tempo in relazione ai cambiamenti sociali e culturali.

Il contratto giuridico e il contratto psicologico

L’epoca attuale è caratterizzata da un mercato del lavoro in continuo cambiamento, dove [blockquote style=”1″]gli individui non sperimentano più stabilità e sicurezza, ma si confrontano con lavoro flessibile ed organizzazioni fluide[/blockquote] (M. Savickas, 2011). In tale contesto viene a modificarsi anche il rapporto individuo-organizzazione, dal contratto psicologico alla concezione della carriera. All’interno di una tale mutata cornice culturale e tecnologica, le organizzazioni attuano cambiamenti rapidi nella loro forza lavoro e nelle politiche di impiego e tutto ciò ha un impatto considerevole sull’adempimento del contratto psicologico.

Al momento del suo ingresso in azienda, il lavoratore firma un accordo scritto, il cosiddetto “contratto giuridico”, che segue le disposizioni del contratto nazionale del lavoro. Il contratto giuridico definisce i diritti e i doveri delle Parti e stabilisce una serie di norme a cui il datore di lavoro da una parte ed il lavoratore dall’altra dovranno attenersi. Il riferimento normativo è l’art. 2094 del codice civile secondo cui è [blockquote style=”1″]prestatore di lavoro subordinato chi si obbliga, mediante retribuzione, a collaborare nell’impresa alle dipendenze e sotto la direzione dell’imprenditore, prestando il proprio lavoro, intellettuale o manuale.[/blockquote]

Contemporaneamente, il lavoratore ed il datore di lavoro firmano un accordo “mentale” non scritto, il cosiddetto contratto psicologico, ovvero il complesso delle aspettative che il lavoratore nutre nei confronti dell’azienda e, allo stesso tempo, il complesso delle aspettative che il datore di lavoro ha nei confronti di un proprio collaboratore. Il contratto psicologico, a differenza di quello giuridico, ha una natura molto più fluida e si evolve nel tempo in relazione ai cambiamenti sociali e culturali.

Le tipologie di contratto psicologico

Denise Rousseau ha identificato quattro tipologie di contratto psicologico, suddivise secondo criteri di durata (breve, lungo, indeterminato) e criteri di performance.
Il cosiddetto contratto transazionale è basato su uno “scambio” (transazione) di breve durata, in cui l’investimento emotivo è minimo per entrambi gli attori.

Il contratto di transizione (cosiddetto “di nessuna garanzia”) è caratterizzato dall’assenza di impegno da parte di entrambi gli attori, generalmente dovuto ad una situazione di rottura del contratto o da situazioni di cambiamento organizzativo, in cui si verifica un conflitto con il contratto precedente.
Il contratto relazionale, invece, è di tempo lungo o indeterminato, senza compiti di performance ben specificati, dove il rapporto tra gli attori è generalmente continuo e basato sulla fiducia e lealtà reciproche. In questo tipo di contratto è molto sentita l’appartenenza all’organizzazione e la partecipazione alle attività nei rispettivi ruoli.
Il contratto bilanciato, infine, è a tempo indeterminato ed è caratterizzato da precisi compiti di performance. Gli accordi tra le parti sono in evoluzione, basati sul successo non solo dell’azienda ma anche del lavoratore, il quale gode della possibilità di migliorare ed evolvere il proprio ruolo. Entrambe le parti collaborano attivamente e reciprocamente, essendo l’una elemento del successo dell’altra.

Il contratto psicologico permette di individuare i cambiamenti in atto nelle relazioni lavorative, di decifrare le forme di relazione tra lavoratore ed azienda e di comprendere le variazioni di coinvolgimento lavorativo ed organizzativo.
In passato il contratto psicologico riguardava soprattutto il fatto che il lavoratore si potesse aspettare dal datore di lavoro la sicurezza di un impiego ed una retribuzione adeguata in cambio di impegno, fedeltà e lealtà.

Oggi il contratto psicologico riguarda soprattutto le aspettative non scritte, secondo le quali il datore di lavoro supporta e stimola le capacità e le potenzialità del lavoratore, rendendo il lavoratore stesso più pronto ad inserirsi nelle dinamiche di mercato relative alla propria professionalità.
La maggior parte degli studiosi è concorde nel ritenere che il contratto psicologico si formi nelle prime fasi del rapporto lavorativo, e precipuamente, nella fase di selezione e di inserimento in azienda.

Conclusioni

È palese che il contratto psicologico, come tutti gli altri contatti, si presta ad essere interpretato in modo diverso dalle parti e questo può creare dei problemi. Talvolta basta una sola parola di troppo da parte di un nostro collega o superiore per sentirci completamente disprezzati nella nostra professionalità o addirittura nella nostra persona e spingerci quindi a tirare i remi in barca. Anche per molti anni a venire. Altre volte invece il contratto è rafforzato da elementi di gratitudine e di riconoscenza. Ma non sono necessariamente solo problemi. Il contratto psicologico, infatti, può fare miracoli, riuscendo a motivare anche la persona più demotivata dell’universo. Se ben gestito, il contratto psicologico può consentire di trasformare i dipendenti in artefici del successo dell’azienda. Nelle organizzazioni in cui il top management gestisce in modo proattivo e positivo il contratto psicologico, la classica tripartizione tra chi lavora per sbarcare il lunario, chi lo fa per mostrare la propria professionalità e chi lo fa per passione viene meno. Se creiamo un’organizzazione alla quale tutti si sentono orgogliosi di appartenere, tutti remeranno dalla stessa parte.

Il contratto psicologico incide dunque sul comportamento organizzativo degli individui; Edgar Schein (1965) lo considera come l’insieme di aspettative circa gli obblighi reciproci che una relazione di scambio deve comportare: per mantenersi nel tempo sono in gioco i due partner della relazione che hanno condiviso le aspettative reciproche iniziali. Quando lavoratore e datore di lavoro investono molto nel contratto relazionale, una sua rottura implica dei costi che sono decisamente più elevati rispetto a quelli che ci sarebbero stati se non ci fosse stato coinvolgimento emotivo o se il coinvolgimento fosse stato basso. Il lavoratore può percepire che la violazione rinneghi le promesse che gli sono state fatte o che vi sia un’incongruenza tra le sue credenze e quelle del top management dell’organizzazione. La violazione del contratto psicologico porta a reazioni di carattere emozionale, quali: disappunto, rabbia e senso di tradimento. Questa violazione può portare all’ insoddisfazione dei lavoratori, ad un alto turnover ed alla riduzione del committment.

 

PSICOLOGIA DEL LAVORO

Le cattive abitudini e i comportamenti automatici – Ciottoli di psicopatologia generale nr. 6

Per spiegare l’ottuso perseverare in comportamenti dannosi riconosciuti tali dal soggetto stesso devo rifarmi al bias della fallacia dei costi irrecuperabili (sunk cost bias) che ci fa insistere in imprese fallimentari solo perché ormai vi abbiamo investito molto e ritirarsi sarebbe ratificare le dolorosissime perdite.

CIOTTOLI DI PSICOPATOLOGIA GENERALE (RUBRICA) – LEGGI L’INTRODUZIONE

 

Un primario tra i più bravi del mio dipartimento di salute mentale mi spiegò come fosse riuscito ad attraversare praticamente indenne dalle punizioni dei superiori, costante minaccia alle libere uscite ed alle agognate licenze, il servizio militare di leva con due frasi standard che suonavano pressappoco così “ Abbiamo sempre fatto così” e “non abbiamo le chiavi, che se l’è portate il maresciallo che sta in ferie”. Col tempo pensai che fossero più in generale due passpartout per attraversare indenni la vita stessa.

Le abitudini, quali che siano, meritano una piccola riflessione. Quelle buone normalmente sgradevoli o faticose nell’immediato che cercano di inculcarci sin da piccoli e quelle cattive, piacevoli e scoperte autonomamente, che tentano di estirparci come un molare inguastito chiamandole vizi e disegnando scenari apocalittici a cui ci condurrebbero inevitabilmente. Sono un abitudinario egosintonico. Le abitudini ci consentono un enorme risparmio di energie, riducendo la necessità di dover ogni volta scegliere e la responsabilità connessa. L’abitudine diventa un automatismo irriflesso, come cambiare le marce per chi sia un esperto pilota, che lascia libera la mente per i compiti più nobili facendo persino a meno dell’attenzione, tutto scorre automaticamente liscio come l’olio.

Naturalmente fino a che gli scenari non cambiano e nasce la fatica di cambiare abitudine e con il cambio automatico (pure quello automatico) bisogna smetterla di schiacciare a fondo la frizione prendendo il pedale del freno col rischio di tamponamenti. Le abitudini sono un modo per mandare in vacanza il cervello, nel bene e nel male. Esagerando e con una punta di velenosa polemica mi azzardo a dire che il gran successo che nel nostro campo hanno avuto i protocolli trova radici nello stesso motivo di festività corticale.

Ma ti pare ogni volta cercare di capire il particolare modo di funzionare e di soffrire della persona che ho di fronte e ritagliare una terapia a sua precisa misura? Ma quanto mi costa? Vuoi mettere avere un modello standard, inquadrato grosso modo il tipo (brevilineo, longilineo, alto, basso, secco o grasso) e semmai fare qualche ritocchino. Vi starete spazientendo per il mio girare in tondo senza andare al centro del problema per cui è utile ragionare sulle abitudini. Rimedio subito.

 

Le abitudini e la genesi della sofferenza

Credo che le abitudini abbiano un ruolo decisivo se non nella genesi perlomeno nel mantenimento della sofferenza, ed uno, ancora più nefasto, come causa di quelle che universalmente chiamiamo “resistenze” . Brillante concetto condiviso da tutte le scuole e i diversi orientamenti teorici in quanto ci permette di ribaltare sul paziente la responsabilità dei nostri fallimenti. Ho provato ad ampliarlo per applicarlo anche agli insuccessi esistenziali personali espellendo lontano il cosiddetto “locus of control” e funziona davvero ma purtroppo si chiama paranoia. Ma una cosa per volta.

La genesi di un comportamento problematico va, a mio avviso, distinta dal suo reiterarsi e mantenersi. Si inizia a fumare per sentirsi grandi e conquistare la moretta del primo banco ma poi si continua a farlo anche nei bagni della casa di riposo sfuggendo alla caposala moldava quando si darebbe metà del trattamento di fine rapporto di tutta la vita lavorativa per avere qualche anno di meno. Si inizia a bere per distrarsi dall’ansia di una brutta figura ma si continua a farlo quando essere alcolisti è l’unica brutta figura che ancora riusciamo a fare. E pensate ad un ossessivo. Quando chiude tre volte tutti i cassetti della camera e accende e spegne 77 volte la luce ripetendo mentalmente la canzoncina che la madre gli cantava per addormentarlo non ricorda più perché lo fa. Se glielo chiederete vi dirà come il mio primario “abbiamo sempre fatto così” oppure “perché si! si fa così”. Anche per lui la chiave ce l’ha il maresciallo che è assente. Quel comportamento aveva un significato ben preciso che nel caso dell’ossessivo spesso è di prevenire una possibile colpa che porterebbe al suo ostracismo. Nel tempo è andato arricchendosi, complicandosi, imbarocchendosi, finendo per rendere oscuro il collegamento con lo scopo che lo aveva generato.

Tale scopo va recuperato e reso consapevole per poterci lavorare ma non meno importante è lavorare direttamente sul sintomo che è diventato una cattiva abitudine, il letto di un torrente pronto a riattivarsi ad ogni piena. Il sintomo da assuefazione. Penso ad esempio che alcuni assassini iniziano ad uccidere per i pesanti carichi genetici ed esperienziali che portano addosso ma poi possono diventare serial killer per le emozioni intense connesse all’uccidere che fungono da rinforzo. A Roma si direbbe “ce prendono gusto!!” Gli ossessivi sicuramente se la godono meno ma cosa sarebbe la loro vita se improvvisamente si liberassero dai rituali 7/8 ore al giorno?

Noi cerchiamo di motivare i pazienti al cambiamento presentandogli la guarigione come un guadagno ma loro sono più attenti per la sproporzione di sensibilità verso perdite e guadagni (doppia per le perdite) alla perdita che l’abbandono del sintomo comporterebbe e all’ignoto in cui li getterebbe. Molto più efficace è fargli costruire il sintomo come una perdita elencando i suoi costi diretti e indiretti. Meglio se in relazione allo stesso scopo o, più frequentemente, antiscopo al servizio del quale il sintomo era iniziato. Per restare sul nostro esempio l’ossessivo può vedere quanto il tempo dedicato ai rituali è sottratto a quella socialità che non vorrebbe perdere e ancora di più che la sintomatologia stessa, nata per essere perfetto e non ostracizzato diventa a sua volta motivo di imperfezione ed esclusione.

 

Sunk cost bias: la fallacia dei costi irrecuperabili

Per spiegare l’ottuso perseverare in comportamenti dannosi riconosciuti tali dal soggetto stesso devo rifarmi al bias della fallacia dei costi irrecuperabili che ci fa insistere in imprese fallimentari solo perché ormai vi abbiamo investito molto e ritirarsi sarebbe ratificare le dolorosissime perdite. Così si continuano a finanziare aziende decotte mettendo soldi buoni nella voragine. Più nel nostro piccolo, si legge un libro brutto solo perché lo si è comprato o si scia nella tormenta perché ormai abbiamo lo sky-pass. Si proseguono terapie che non danno risultati e, peggio, si mantengono relazioni affettive descritte come la causa prima di tutti i nostri mali solo perché ormai sono una infinità di anni che si sta insieme ed allora sarebbe stato tutto vano.

La regola con cui funzioniamo è quella che il piccolo principe descrive poeticamente dicendo che il valore della nostra rosa è dato dal suo valore in sé più tutti i sacrifici che abbiamo fatto per lei. Questo plus-valore cresce continuamente e paradossalmente è maggiore proprio per le imprese difficili e fallimentari che smuovono intense emozioni, per cui da esse è più difficile tirarsi indietro. La fallacia dei costi irrecuperabili è un forte elemento di stabilità utilissimo nelle relazioni parentali. Ogni genitore sa che più ha dovuto spendere per un figlio e più ciò lo rende importante. Se non fosse così molti piccoli rischierebbero il cassonetto.

 

Bandire la parola “ormai” e affrontare il problema per la prima volta

Contemporaneamente è un pesante fattore di mantenimento di dolorosi comportamenti disfunzionali. In questi casi è utile fare con il paziente una valutazione ex novo della partita in cui è impegnato valutando in sé lo scopo per cui si sta dando tanto da fare, depurandolo da quanto ci ha già investito. Personalmente bandisco dal vocabolario del paziente la parola “ormai” e gli chiedo cosa farebbe se si trovasse per la prima volta oggi di fronte al problema. Una volta che ha scelto mi impegno con lui in una discussione su cosa cambi il fatto che non sia la prima volta per evidenziargli l’irrazionalità del suo comportamento. Parallelamente mi impegno a cercare di ridurre il vissuto di colpa per aver sbagliato nel passato e a perdonarsi eventualmente secondo il motto latino per cui “errare è umano ma perseverare è diabolico”.

Per attenuare il senso di colpa è estremamente utile mantenere distinti la correttezza del processo decisionale su cui il soggetto, in genere valuta se stesso, dagli esiti effettivi della scelta che erano imprevedibili al momento in cui è stata compiuta. Posso fare la scelta giusta e cacciarmi nei guai o, al contrario sbagliare completamente scelta e avere successo. Sempre su questa linea di attenuazione del vissuto di colpa si può spiegare come i bisogni e i gusti cambino nel tempo e congruentemente con loro mutino anche le convinzioni sul mondo, su ciò che è bene e ciò che è male. Kahneman da pag 322 e seg. argomenta come con l’avanzare dell’età e il modificarsi della posizione sociale cambino le idee politiche e contemporaneamente le convinzioni sul mondo. Altrettanto avviene a chi diventa vegetariano o vegano o, più banalmente, si innamora.

 

RUBRICA CIOTTOLI DI PSICOPATOLOGIA GENERALE

I Mercoledì Del Cognitivismo a Milano da Marzo a Novembre Introduzione alla Psicologia e Psicoterapia Cognitiva

Incontri di introduzione alla psicologia e psicoterapia cognitiva

 

Gli incontri sono gratuiti e aperti a tutti gli interessati (studenti di psicologia e di medicina; professionisti nell’ambito dei disturbi psicologici), previa prenotazione e fino ad esaurimento posti 

I mercoledì del cognitivismo a MilanoSITCC logo SFU logo orizzontale piccolo

Programma degli incontri

SCARICA LA BROCHURE

 

Mercoledì 16 marzo 2016 (18:30-20:00)

Puoi tollerarlo. Trattare l’ansia con la REBT

Dr. Giovanni Maria Ruggiero

Nel modello razionale emotivo di Albert Ellis l’ansia è una preoccupazione eccessiva che dipende dl fatto che valutiamo in maniera irrazionalmente terribile e intollerabile gli eventi. Irrazionale non significa che esageriamo la portata dei rischi delle situazioni quotidiane. Il modello razionale emotivo non è banalmente ottimistico. Semmai, irrazionale vuol dire che esageriamo la terribilità di un evento catastrofizzandolo, riteniamo di non essere in grado di accettarlo e ci convinciamo che quell’evento non deve assolutamente accadere.

 

Mercoledì 13 aprile 2016 (18:30-20:00)

Il ruolo della famiglia: come aiutare i genitori delle ragazze con disturbi alimentari

Dr.ssa Sara Novero

I problemi legati all’alimentazione sono in continuo aumento tra gli adolescenti e non solo. Oltre al ragazzo, il disturbo alimentare coinvolge anche i genitori. Questi, di fronte al problema del figlio, reagiscono molto spesso in modo non adeguato, in quanto non riescono a comprendere e ad accettare una preoccupazione così intensa per il cibo, spesso unita a quella per il peso e per l’immagine corporea. Durante l’incontro, si cercherà di capire come aiutare i genitori a conoscere e a riconoscere le varie forme di disturbo alimentare cercando di comprendere, prevenire e affrontare il problema senza lasciarsi sopraffare dall’ansia e peggiorare così la situazione. Importante è anche considerare la famiglia come una risorsa e pensare il disturbo alimentare come una malattia e non come una scelta personale. I genitori devono sapere che quello che è accaduto alla figlia o al figlio non è la conseguenza di una mancanza di volontà, ma il frutto di una malattia che ha un nome, delle cause e che risponde a specifiche cure.

 

Mercoledì 11 maggio (18:30-20:00)

Esperienze di mindfulness

Dr. Andrea Bassanini

La cosiddetta ‘mindfulness’ si riferisce a un tipo di attenzione consapevole, intenzionale e non giudicante alla propria esperienza nel momento in cui essa viene vissuta. Durante l’incontro, che manterrà la forma esperienziale, i partecipanti avranno modo sperimentare direttamente la pratica di Mindfulness nei suoi aspetti più elementari e introduttivi.Come confermato dalla letteratura scientifica, la pratica della Mindfulness è uno strumento utile per migliorare le capacità in diversi ambiti personali e di relazione, da quelli familiari a quelli professionali.

 

Mercoledì 8 giugno (18:30-20:00)

‘Perché sono così triste adesso che ho questo bellissimo bambino?’: conoscere la depressione post partum

Dr.ssa Carolina Alberta Redaelli

Il momento della nascita di un figlio è uno dei cambiamenti più grandi che una persona possa sperimentare.
La gravidanza, il parto e il primo periodo della maternità, che rappresentano un momento di grande vulnerabilità per la donna, potrebbero inoltre risultare diversi da quanto aspettato e immaginato. Diventare madre è un cambiamento di vita meraviglioso, ma che porta con sè incognite e difficoltà difficilmente prevedibili. Il post partum inoltre è caratterizzato da un rapido cambiamento ormonale che può favorire l’insorgere di un’alterazione dell’umore, nella maggior parte dei casi transitoria. Il 10-15% delle madri manifesta invece una depressione post-partum. Questi sintomi non sono transitori e possono avere conseguenze più o meno significative non solo sulla salute mentale della donna, ma anche sulla relazione madre-bambino, sullo sviluppo del bambino e sull’intero nucleo familiare. E’ tuttavia possibile aiutare queste donne a affrontare in modo più sereno l’avventura della maternità. La depressione post partum infatti può essere curata, la prima cosa da fare è riconoscerla.

 

Mercoledì 14 Settembre (18:30-20:00)

Comprendere e superare il trauma: il trattamento EMDR

Dr.ssa Monia Albertazzi

Cos’è il trauma e come è possibile elaborarlo? Durante l’incontro, che vuole essere principalmente interattivo, si cercherà di comprendere quando si può parlare di trauma e come questo può essere elaborato attraverso l’uso della terapia EMDR. EMDR È l’acronimo di Eye Movement Desensitization and Reprocessing: questo tipo di terapia si focalizza sul ricordo del trauma, andando a lavorare nel punto del cervello dove le reti neurali trattengono il ricordo in una dimensione altamente disturbante per una persona; uno stesso ricordo doloroso, ma non più disturbante, si ricolloca, si riorganizza nelle reti di memoria in modo più adattivo. Il trauma non esce dal nostro cervello perché è impossibile dimenticare, però può avere una collocazione migliore, una forma meno disturbante: il ricordo esce dall’isolamento in cui si trovava incapsulato e si collega ad altre reti. Attraverso casi clinici vedremo l’EMDR in azione.

 

Mercoledì 12 ottobre (18:30-20:00)

Servirebbe? Perché ci preoccupiamo tanto secondo il modello MCT

Dr. Giovanni Maria Ruggiero

Nel modello metacognitivo di Adrian Wells ci preoccupiamo troppo perché focalizziamo troppo la nostra attenzione sugli eventi potenzialmente minacciosi. Questa attenzione a sua volta è così focalizzata per scelte strategiche scorrette che facciamo nella gestione delle nostre attività mentali. Erroneamente riteniamo che un problema si risolva concentrando tutta la nostra attenzione su di esso. Oppure riteniamo -altrettanto erroneamente- che non possiamo fare a meno di pensarci perché siamo fatti così, è la nostra natura. Entrambe queste strategie possono essere abbandonate, con beneficio del nostro benessere mentale.

 

Mercoledì 9 novembre (18:30-20:00)

Come la psicoterapia cambia il cervello

Dr.ssa Leonor J.Romero Lauro

Non esiste una mente senza cervello. Durante una psicoterapia avvengono cambiamenti importanti, nel modo di pensare, di pensarsi, di riconoscere e regolare le emozioni, nel tono dell’umore, nelle relazioni con gli altri e nel comportamento. Tutti questi cambiamenti hanno un riflesso nel cervello, grazie ad una sua grande proprietà: la plasticità. Nell’incontro verranno presentate e discusse le evidenze neuro scientifiche sugli effetti della terapia a livello cerebrale.

 

Tutti gli incontri si terranno dalle 18:30 alle 20:00 presso la

Sigmund Freud University – Ripa di Porta Ticinese, 77-Milano 

 

PER MOTIVI ORGANIZZATIVI E’ GRADITA LA RICHIESTA DI ISCRIZIONE AL SEGUENTE INDIRIZZO E-MAIL:  

[email protected]

PER INFORMAZIONI :

DIREZIONE SCIENTIFICA:

  • Dr.ssa Sandra Sassaroli

COORDINAMENTO DIDATTICA:

  • Dr.ssa Carolina Alberta Redaelli

RESPONSABILE DELL’ORGANIZZAZIONE:

  • Allison Colton

 

 

SCARICA LA BROCHURE DEGLI INCONTRI

Relatori:

Dr. Giovanni Maria Ruggiero: Medico chirurgo, specialista in Psichiatria e Psicoterapia Cognitiva. Direttore di ‘Psicoterapia Cognitiva e Ricerca’, Scuola di Specializzazione in Psicoterapia Cognitiva, Milano e Bolzano. Responsabile Ricerca di ‘Studi Cognitivi’, Scuola di Specializzazione in Psicoterapia Cognitiva, Milano, Modena e San Benedetto del Tronto. Docente presso Sigmund Freud University di Milano. E’ socio SITCC, socio SPR.

Dr.ssa Sara Novero: Psicologa, Psicoterapeuta, socia fondatrice dell’Associazione Nutrimente per la prevenzione, cura e conoscenza dei Disturbi dei Comportamento Alimentare, codidatta presso Studi Cognitivi di Milano. Collabora con l’Ambulatorio per la diagnosi e la cura dei disturbi alimentari dell’Azienda Ospedaliera San paolo (Mi), ha lavorato come psicologa scolastica. Lavora come libera professionista presso Studi Cognitivi di Milano. E’ socia SITCC.

Dr. Andrea Bassanini: Psicologo, Psicoterapeuta, Istruttore MBSR, MBCT e Protocolli Mindfulness-Based, Terapeuta ACT. Dal 2006 si interessa alla pratica di consapevolezza, all’ACT (Acceptance and Commitment Therapy) e alle loro applicazioni in psicoterapia e ha svolto percorsi di formazione e di pratica. È socio SITCC, socio ACT Italia, socio IAM. Già Professore a Contratto presso il Dipartimento di Psicologia dell’Università degli Studi di Milano-Bicocca e Professore a Contratto presso la Sigmund Freud University di Milano. Codidatta presso Studi Cognitivi Milano

Dr.ssa Carolina Alberta Redaelli: Psicologa, psicoterapeuta cognitivo-comportamentale, docente. Ha conseguito il I e II livello EMDR, il Primary REBT e il Master in Psicoterapia efficace per il bambino e per l’adolescente. Ha svolto una collaborazione pluriennale presso le unità operative e gli ambulatori di Psichiatria dell’Ospedale San Raffaele Turro e presso l’Ambulatorio dei Disturbi della Condotta Alimentare dell’Ospedale San Paolo. Attualmente svolge attività clinica e di ricerca presso Studi Cognitivi Milano. Collabora con le scuola di specializzazione di Studi Cognitivi come docente. E’ socia SITCC, socia EMDR ITALIA e socia Nutrimente.

Dr.ssa Monia Albertazzi: Medico Psicoterapeuta. Ha lavorato presso l’Ospedale San Raffaele, occupandosi principalmente di persone affette da Disturbi del comportamento alimentare e Disturbi di Personalità. Dal 2007 lavora come libera professionista presso Studi Cognitivi di Milano. Ha svolto i due livelli di formazione EMDR, ha fatto il percorso di supervisione diventando prima Practitioner e poi, dal 2010, Supervisore EMDR. Ha svolto diversi corsi sul Trauma e sulla Dissociazione Strutturale.Dal 2013 è didatta presso la scuola di specializzazione in psicoterapia cognitivo-comportamentale di Studi Cognitivi di Milano. E’ socia SITCC e socia EMDR ITALIA

Dr.ssa Leonor J.Romero Lauro: Psicologa, Psicoterapeuta Cognitivo Comportamentale, Phd in Neuroscienze Cognitive. Lavora come ricercatrice in Psicobiologia e Psicologia Fisiologica, presso il Dipartimento di Psicologia dell’Università di Milano-Bicocca. I suoi interessi di ricerca vertono sulla plasticità cerebrale e sui correlati neurali di funzioni cognitive superiori come linguaggio, memoria e regolazione emotiva, indagate mediante tecniche di neuroimaging e tecniche di stimolazione cerebrale non invasiva . Collabora con la scuola di specializzazione Studi Cognitivi dove è docente e codidatta. E’ socia SITCC e socia SINP.

 

 

Insoddisfazione nei bilanci di vita – Ciottoli di Psicopatologia Generale Nr. 5

La cosiddetta depressione è, insieme all’ansia, il principale motivo di sofferenza degli esseri umani, dalle forme più gravi fino a croniche forme di insoddisfazione che non impediscono il vivere quotidiano ma lo rendono faticoso e insapore.

CIOTTOLI DI PSICOPATOLOGIA GENERALE (RUBRICA) – LEGGI L’INTRODUZIONE

La cosiddetta depressione è, insieme all’ansia, il principale motivo di sofferenza degli esseri umani e di fatturato per psicoterapeuti e aziende farmaceutiche. Dalle forme più gravi che confinano nel letto con lo sguardo al soffitto e rendono off limit la doccia, si transita attraverso forme lievi e l’emozione della tristezza, fisiologica, utile e dunque da non trattare ma piuttosto da ascoltare, fino a croniche forme di insoddisfazione che non impediscono il vivere quotidiano ma lo rendono faticoso e insapore.

I neuroscienziati hanno spiegato come esperienze di sana tristezza da perdita possano scivolare in soggetti con un particolare assetto recettoriale (ipersensibilità dei recettori serotoninergici presinaptici inibitori) in un circolo vizioso automantenentesi di depressione che si giova di un trattamento prolungato con inibitori della ricaptazione della serotonina e che produce una down-regulation di tali recettori troppo zelanti. Dopo tutto questo sfoggio di paroloni persino inglesi, mi chiedo se non si possano seguire o affiancare anche altre strade per uscire dal loop gelido della disperazione.

La questione è tanto più importante se si tiene conto che anche se non è il problema primario, principale o iniziale, si sovrappone come secondario in quasi tutti i disturbi emotivi. Sono tristi e insoddisfatti gli ossessivi , i panicosi, gli ipocondriaci, i depressi e, al contrario di quanto taluni credano, anche gli psicotici che non se la spassano affatto nel loro mondo privato. Se ciò non fosse ancora sufficiente ad interessarvi alla questione potrei rammentarvi tutti i familiari dei malati mentali e anche no, ma mi sembra sciocco cercare di argomentare sulla presenza dell’insoddisfazione nel mondo: pensate alle vostre che già basta.

Perché proviamo insoddisfazione?

Mi pare più interessante cercare di capire perché ci si metta su quella china che parte dall’insoddisfazione e scivola attraverso la tristezza fino alla disperazione. In estrema sintesi mi pare che si sia insoddisfatti per due diversi ordini di motivi.

Il primo motivo di insoddisfazione riguarda il gap tra lo stato reale delle cose e lo stato desiderato ovvero quanto siamo lontani dal raggiungimento dei nostri scopi e se essi sono o meno perduti per sempre. Il secondo motivo di insoddisfazione riguarda quanto il soggetto stesso è lontano dal suo ideale del sé. In questo caso si è insoddisfatti per come non si è stati in grado di modificare favorevolmente l’andamento delle cose. La prima è una insoddisfazione sull’oggetto che ne attiva una più profonda sul soggetto stesso che genera ulteriori effetti secondari di mantenimento come la rinuncia e il disimpegno.

Associazionismo coerente

La scoperta del cosiddetto ‘associazionismo coerente‘ secondo cui se è vero che un pensiero genera emozioni e comportamenti coerenti con esso (è la base della teoria cognitiva e del modello ABC) è vero anche l’inverso per cui i comportamenti e addirittura le posture assunte volontariamente generano pensieri congrui con essi. Insomma il detto ‘canta che ti passa‘ ha un fondamento scientifico che William James aveva intuito quando affermava che ‘Non ridiamo perché siamo felici ma piuttosto siamo felici perché ridiamo’.

Ciò da dignità scientifica a tutti quegli interventi volti a far divertire il soggetto depresso che non ne ha alcuna voglia. Ad esempio potrebbero essere proposti video di gag che fanno ridere in modo transculturale, immediato e irriflesso: non dunque sottile ironia ma la gente che cade, le torte in faccia, ecc. Questa tendenza alla coerenza interna non riguarda soltanto il rapporto tra pensieri, emozioni e comportamenti ma soprattutto proprio la coerenza del pensiero. Abbiamo la fallace impressione di essere sempre stati insoddisfatti come siamo ora e la certezza che saremo sempre così.

La mancata percezione del cambiamento nella genesi e mantenimento dell’ insoddisfazione

Non vediamo i cambiamenti avvenuti e non ce ne aspettiamo di futuri. Addirittura quando cambiamo idea non ci ricordiamo davvero come la pensavamo in passato, ricordiamo i fatti magari ma non i nostri giudizi su essi. Ci sembra di averla sempre pensata allo stesso modo anche quando ciò è contraddetto da specifici ricordi e testimonianze.

Immagino i vari periodi di vita come blocchi transitori di coerenza. Un procedere dell’esistenza attraverso crisi di cambiamento, una sorta di rivoluzioni khuniane e lunghi periodi di stabilità. Se è vero che si nasce rivoluzionari, si diventa riformisti e si muore conservatori, l’aspetto più interessante è che si è convinti di essere sempre stati identici a se stessi. Rispetto a questa cecità al cambiamento che ci porta a credere che le cose saranno sempre come ora, il che certamente è sgradevole in momenti neri e costituisce proprio l’errore del suicida, credo sia utile frugare nella storia del soggetto alla ricerca di periodi diversi e ricostruire come era la vita, le emozioni e le attività anche con l’ausilio di foto, interviste a testimoni, film o musiche d’epoca. Contemporaneamente si può chiedere al paziente di inventare e magari scrivere storie riguardanti il suo futuro fornendo alcuni elementi positivi che devono necessariamente contenere, su di esse si può poi lavorarci insieme arricchendole.

Abbiamo visto come l’insoddisfazione dipenda dal confronto tra uno stato reale e uno stato desiderato. In effetti come i recettori sensoriali anche nella valutazione degli stati (ad es: ricchezza o felicità) siamo molto sensibili alle variazioni e ai confronti, insomma non stati di ricchezza ma guadagni e/o perdite.

Per questo l’esito dipenderà molto dalla baseline scelta come riferimento che sia esterna o un altro periodo della propria vita. Se confronto la relazione con il mio partner con il momento iniziale dell’innamoramento, il mio stato di salute con la prestanza dei diciott’anni o il mio reddito con quello di un top manager, sono evidentemente alla ricerca di secchiate di insoddisfazione.

E’ sperimentalmente dimostrato che gli esseri umani hanno una naturale avversione alle perdite sperimentate come minacce e anche che ciò sia un meccanismo salvavita evolutivamente vantaggioso sebbene possa non essere un utile consigliere quando si ragiona sugli investimenti azionari. Poiché il motivo di insoddisfazione interna di molti riguarda proprio il considerarsi paurosi e non sufficientemente audaci può essere utile una psicoeducazione sul valore evolutivo della paura e della prudenza e soprattutto sul fatto che siamo così e non possiamo modificarlo. Nel modello biopsicologico prevale la negatività e la fuga su positività e approccio.

Il negativo vince sul positivo. Un solo scarafaggio rende disgustoso un intero piatto di ciliegie ma una ciliegia non rende gradevole un cesto di scarafaggi. Ancora, un solo cattivo gesto rovina una amicizia ma non viceversa. In natura e anche in molti sport sono in vantaggio i difensori sugli attaccanti.

Ciò spiega anche perché gli antiscopi finiscono per imporsi sugli scopi: è un funzionamento biologicamente determinato per salvare la pelle prima di dedicarsi ai piaceri. Dobbiamo dunque normalizzare gli evitamenti per rabbonire l’eventuale secondario, salvo poi sfidarli, ma sottolineando che si tratta di compiere un gesto innaturale, quasi eroico e non spontaneo.

Lo stesso meccanismo di sopravvalutazione delle perdite e sottovalutazione dei guadagni entra in gioco nelle resistenze al cambiamento terapeutico in quanto la guarigione è vista come un possibile guadagno ma viene confrontata con il rischio di perdita dell’abbandonare il sintomo. Quindi per accrescere la motivazione alla terapia occorre descrivere la sintomatologia come una perdita (i costi che comporta) piuttosto che la guarigione come un guadagno.

Il tempo (e i bias cognitivi) dell’insoddisfazione

Il tempo classico dell’insoddisfazione è quello della tarda maturità quando si iniziano a fare i bilanci della propria esistenza nei vari campi in cui la si è spesa. Nel farli siamo vittime di un bias interessantissimo che Kahneman descrive con decine di affascinanti esperimenti a pag 420 e seguenti. Detto in parole povere, il valore edonico di un esperienza (quanto ne godiamo e/o quanto ne soffriamo) è valutato molto diversamente se viene valutato in diretta, da quello che chiama il Sé esperienziale, o nel ricordo da quello che chiama il Sé mnemonico. Quest’ultimo, che è quello attivo quando facciamo i bilanci o quando decidiamo se ripetere o meno una certa esperienza, commette una serie di errori grossolani.

Il primo è che conta molto più della media ponderata, che sarebbe il calcolo corretto ( l’area logaritmica sotto la curva tempo/ piacere o dolore), l’intensità di picco e quella finale. Il secondo gravissimo errore è la assoluta disattenzione per la durata. Così si può giudicare negativa un esperienza affettiva o lavorativa di grande soddisfazione per trent’anni perché ha avuto un momento acuto di crisi oppure è finita male, mentre si giudica migliore una esperienza di pochi mesi senza infamia né lode ma conclusasi bene.

Kahneman (421 e seg) sottolinea la differenza tra Sé esperienziale che vive in diretta e il Sé mnemonico che valuta le esperienze secondo il bias ‘picco-fine‘ e la cecità per la durata, portando a confondere l’esperienza con il ricordo di essa.

Kahneman vede come effetti della tirannia del Sé mnemonico, che è quello che fa consuntivi e decide le esperienze future, l’idea che se una cosa non la ricordo è inutile viverla (vedi l’ossessione per le foto). Spesso più che a vivere si è impegnati ad allestire ricordi. Kahnenam (pag 442 e seg.) riporta molteplici esperimenti per evidenziare come le cose ci diano piacere o dolore (condizioni brutte o belle: ad esempio disabilità, guai economici ecc) solo quando ci soffermiamo a pensarci, altrimenti non influenzano la vita quotidiana del Sé esperienziale, né modificano il tono dell’umore. Per questo sono importanti tutti quei compiti come i diari mirati che costringono a spostare l’attenzione selettiva su quanto c’è di buono e di bello intorno a sé.

Infine quando facciamo bilanci che generano insoddisfazioni abbiamo l’impressione che ci manchi qualcosa per essere felici. Kaneman chiama ‘miswanting‘ (pag 449) il credere che certe cose ci renderanno felici (un partner, una casa, una macchina, un lavoro, un figlio) mentre al massimo lo fanno nella fase iniziale, poi diventano normali e non contano più (disattenzione per il tempo). Rispetto a questo bias sarà importante ridimensionare l’aspettativa di felicità rispetto ad un oggetto esterno e quindi la sofferenza per non averlo e lo si può fare ricordando periodi della propria vita in cui la cosa c’era ma non la felicità e osservando se davvero coloro che la possiedono sono felici.

 

RUBRICA CIOTTOLI DI PSICOPATOLOGIA GENERALE

Disturbi alimentari: il digiuno delle Sante e la moderna anoressia

Non è facile paragonare il digiuno delle sante del medioevo e le anoressiche della modernità. L’astinenza dal cibo della santa aveva un valore di rinuncia, di autodisciplina. A queste pratiche non si può attribuire un obiettivo di autoaffermazione, come si fa per la moderna anoressia.

MAGREZZA NON E’ BELLEZZA – I DISTURBI ALIMENTARI: Le sante digiunatrici (Nr. 3)

Non è facile paragonare il digiuno delle sante del medioevo e le anoressiche della modernità. Allo stesso modo la depressione non è riducibile all’umore melanconico o flemmatico dell’antichità. Nel corso del tempo significati e comportamenti evolvono, modificando profondamente i criteri d’interpretazione. Lo stile di pensiero magico delle età precedenti il secolo dei Lumi portava spesso a intendere gli stati interiori in termini di forze demoniache o angeliche. Sicché non sempre è facile operare un confronto con le età passate.

Questa difficoltà si riscontra anche per i disturbi psicologici. Per quanto riguarda il digiuno, in passato non si trattava di astinenza da un bene abbondante e onnipresente come è diventato oggi il cibo. In un’economica di sussistenza come quella che ha dominato per secoli, il cibo era scarso per tutti, salvo che per le classi privilegiate.

Pochi avevano accesso a quell’abbondanza che permette il lusso dell’astinenza volontaria. Quando ciò avveniva, essa assumeva spesso un carattere religioso, come nel ben noto caso di santa Caterina da Siena.

 

Il digiuno tra storia e misticismo: Santa Caterina da Siena

Il digiuno della santa aveva un valore di rinuncia, di mortificazione e di autodisciplina. Tuttavia, è difficile attribuire a queste pratiche un obiettivo di autoaffermazione e di incremento dell’autostima, come si fa per la moderna anoressia. In Caterina manca, almeno a livello cosciente, il carattere individualistico della moderna anoressia.

Al contrario, la santa conferiva a quelle pratiche di digiuno un valore di autonegazione, sebbene sia innegabile che nelle sante medievali l’astensione dal cibo si iscrivesse in una più ampia condotta di vita che consentiva alle donne di svolgere una funzione sociale ben più incisiva di quella loro riservata tradizionalmente.

Caterina poté, grazie alla rinuncia al mondo, non solo sottrarsi al matrimonio ma anche acquisire una formazione culturale che altrimenti le sarebbe stata preclusa. Imparò a leggere e a scrivere ed ebbe un ruolo politico e sociale di primo piano nella società del tempo. Partecipò a missioni diplomatiche presso la sede papale, contribuendo al ritorno del pontefice da Avignone a Roma.

 

Dalle sante digiunatrici alle anoressiche: analogie e differenze

La condotta di Caterina può essere interpretata, in termini moderni, come segno di affermazione personale. Il digiuno era il segnale di una volontà di fuga da un ruolo sociale predeterminato: quello di moglie e di madre.

Era questa l’opinione di Rudolph M. Bell, professore di storia alla Rutgers University (1985). Sia le sante digiunatrici che le ragazze anoressiche parteciperebbero di un medesimo meccanismo psicologico, che però per Bell è fortemente legato a un ambiente sociale oppressivo per la condizione femminile – ambiente che spinge la giovane donna di ieri e di oggi a liberarsi di un mondo intollerabilmente soffocante attraverso il rifiuto della società, della vita e del proprio corpo.

 

Il digiuno come scelta consapevole

Generalizzare, però, comporta sempre dei rischi. Per la storica Caroline W. Bynum (1987), i comportamenti di digiuno delle sante medievali contengono elementi che possono essere riferibili a una patologia anoressica moderna. Secondo la Bynum, tuttavia, prevale l’effetto di una scelta intenzionale, perfettamente consapevole e riconducibile alla cultura della mortificazione e dell’astinenza del cristianesimo medievale.

Va inoltre sottolineato che in Caterina, come in altre sante, il digiuno rimase sempre e soltanto uno strumento. Si può discutere se l’obiettivo finale fosse la santità o l’affermazione sociale, ma in ogni caso si trattava di un percorso felice ed efficace, che effettivamente portò le sante ascetiche medievali a diventare delle personalità di primo piano.

 

Digiuno: il passaggio da mezzo a fine. La magrezza come valore in sé

Nelle anoressiche di oggi il desiderio di autonomia e di affermazione è molto più problematico. L’anoressica è contemporaneamente attratta e intimorita dal mondo adulto delle relazioni sociali e dell’affermazione di sé.

Incapace di accettare e gestire la precarietà e la mobilità della competizione pubblica, va alla ricerca di un parametro quantificabile e controllabile e al tempo stesso carico di valore simbolico. Il peso è un numero, un parametro quantificabile. Il peso, poi, rimanda all’aspetto corporeo.

E non si tratta affatto di un rimando soltanto simbolico. Il corpo è uno strumento pratico di relazione sociale tra i più incisivi. Con il nostro corpo, con la sua bellezza, ci presentiamo e ci facciamo accogliere e/o respingere, accettare e giudicare dal mondo. Un bell’aspetto è un buon biglietto da visita. Tuttavia, con l’aspetto corporeo si ricade nell’ambiguo, nel giudizio soggettivo qualitativo e non quantificabile. Cosa definisce una bella presenza, un corpo attraente? È una difficile negoziazione continua con l’altro, che può gradirci o meno e che soprattutto assai raramente esprime giudizi privi di margini di ambiguità. La sensazione di mancanza di controllo è quindi massima, ed è proprio ciò che teme l’anoressica.

Di qui la sua scelta paradossale: il controllo del corpo diventa fine a se stesso, in una corsa autodistruttiva in cui l’obiettivo iniziale, la conquista di uno strumento infallibile per poter essere accettati e piacere agli altri, è presto dimenticato a favore della magrezza, che diventa un valore in sé.

 

RUBRICA MAGREZZA NON E’ BELLEZZA – I DISTURBI ALIMENTARI

Arte terapia come strumento di formazione manageriale

L’arte terapia serve per far lavorare le persone sulle competenze relazionali per una crescita interiore e professionale a tutto vantaggio della motivazione, della creatività e dell’efficacia.

 

Arte e psicoanalisi

Che esista una sorta di corrispondenza tra psicoanalisi ed arte è un dato oramai acquisito: da sempre infatti gli artisti hanno dimostrato una vocazione per la psicologia e da sempre la psicoanalisi ha avuto una sua dimensione letteraria.

Sigmund Freud (Freiberg, 6 maggio 1856 – Londra, 23 settembre 1939) ha avuto il merito di individuare le analogie tra il contenuto della creazione artistica e quello della psicoanalisi. Secondo il padre della psicoanalisi, gli artisti ed i poeti sono i veri scopritori dell’inconscio:

I poeti sono alleati preziosi e la loro testimonianza deve essere presa in attenta considerazione, giacché essi sono soliti sapere una quantità di cose fra cielo e terra che la nostra filosofia neppure sospetta. Particolarmente nelle conoscenze dello spirito essi sorpassano di gran lunga noi comuni mortali, poiché attingono a fonti che non sono state ancora aperte alla scienza. (Freud, 1906).

L’arte rappresenta per Freud uno dei modi per correggere la realtà ed un mezzo per consentire all’uomo di soddisfare quelle pulsioni (generalmente sessuali o aggressive) che la sua coscienza ritiene inaccettabili. In questo senso l’arte è simile al gioco del bambino o al sogno dell’adulto. L’arte ha, per Freud, una funzione consolatoria e rappresenta una sorta di difesa contro le frustrazioni ed i traumi dell’esistenza, una riserva psichica in cui lasciar sfogare liberamente le pulsioni umane:

La vita, così come ci è imposta, è troppo dura per noi; ci reca troppi dolori, disinganni, compiti insolubili. Per sopportarla abbiamo bisogno di qualche palliativo. I soddisfacimenti sostitutivi che l’arte offre agli uomini sono illusioni che contrastano con la realtà. (Freud, 1929).

Per Freud l’arte ha la stessa funzione per tutti gli uomini, ovvero appagare i desideri inconsci, un appagamento coinvolto tanto nel processo di produzione, quanto in quello di fruizione dell’opera d’arte.

Qualunque esperienza d’arte, sia essa produzione o fruizione, può dunque aiutarci a superare i lutti, la rabbia repressa, gli ostacoli e anche a raggiungere i nostri obiettivi.

Se non viviamo le nostre emozioni in maniera corretta possiamo creare dentro di noi delle ferite che, nel tempo, possono sfociare in malattie psichiche o psicosomatiche. Il vissuto emozionale non elaborato può condizionarci inconsciamente per tutta la vita, nella sfera personale, familiare, ma anche in quella lavorativa.

Nessuno ci ha dato un libretto delle istruzioni per essere consapevoli e per gestire al meglio le nostre emozioni; l’arte offre la possibilità di uno sviluppo della personalità, che si realizza attivando risorse ed energie precedentemente bloccate.

Arte terapia: cos’è e come si è evoluta

Con il termine arte terapia si indica l’insieme delle tecniche che utilizzano le arti visive (e, con un significato più ampio, anche la danza, la musica, il teatro) come mezzi terapeutici finalizzati alla crescita dell’individuo nella sfera emotiva, affettiva e relazionale.

I primi gruppi di arte terapia nacquero negli anni ’40 del Novecento in strutture manicomiali come mezzo di sollievo per coloro che si trovavano in condizioni di sofferenza psichica. Inizialmente il metodo fu utilizzato su degenti che per lunghi periodi vivevano forti stati depressivi. Il professor Adrian Hill scoprì che attraverso la proposta pittorica lo stato di salute psichica dei degenti andava migliorando.

Con il passare del tempo, l’arte terapia si è evoluta ed è diventata un modello di funzionamento dell’Io. L’arte – intesa sia come produzione, sia come fruizione – può essere un punto da cui partire per iniziare un percorso di conoscenza e di rielaborazione del proprio vissuto personale e professionale.

L’arte terapia serve per far lavorare le persone sulle competenze relazionali per una crescita interiore e professionale a tutto vantaggio della motivazione, della creatività e dell’efficacia.

 

Arte terapia in azienda

Anche all’interno di un’azienda, infatti, si manifestano stati emozionali e mentali impegnativi; anche in ambito organizzativo, attraverso la sperimentazione di materiali artistici, si può attivare un processo di conoscenza di sé per crescere, fare squadra, innovare, migliorare le relazioni interpersonali, gestire lo stress, i conflitti ed i cambiamenti organizzativi. L’arte aiuta ad incrementare la creatività per la risoluzione dei problemi e favorisce lo sviluppo della competenze trasversali; in questo senso, quindi, l’arte terapia può rappresentare uno strumento originale di formazione manageriale.

Volete migliorare le vostre capacità di coaching? Fate una capatina al British Museum e soffermatevi sul Discobolo di Mirone (455 a.C. ca.), una delle statue più conosciute al mondo, considerata anche simbolo dell’attività sportiva in genere; questa figura si presta molto bene all’analisi delle tensioni del corpo umano impegnato in un’azione. Ed infatti il coaching nasce come tecnica per incrementare le performance sportive e può essere considerato un vero e proprio metodo di allenamento: infatti, così come un allenatore stimola l’atleta ad esercitare e sviluppare i muscoli, il manager- coach promuove nel proprio collaboratore l’espressione e lo sviluppo del suo potenziale umano con lo scopo di migliorarne le performance ed il raggiungimento degli obiettivi.

Volete eccellere nell’arte di costruire un team vincente? Potete scegliere se fare una visita al MoMA di New York, dov’è conservata la prima versione de ‘La Danza’ (1909) di Matisse o al Museo dell’ Hermitage di San Pietroburgo, dov’è conservata la seconda versione, quella del 1910. L’opera di Matisse, tra le più famose della sua produzione espressionistica, sintetizza in maniera esemplare la sua poetica e il suo stile: le figure danzano cercando di mantenere unito il cerchio, le due persone in basso a sinistra si staccano e cercano di riunirsi grazie al movimento di tutti gli altri. E’ una danza che esprime una sorta di lotta per il mantenimento dell’armonia e dell’unione, affinché la danza continui.

Volete gestire al meglio i cambiamenti organizzativi e volete mettere in atto soluzioni e meccanismi che favoriscano la fluidità dei rapporti? Il Musée Marmottan Monet di Parigi, con la sua splendida collezione di arte impressionista, fa al caso vostro: nella pittura impressionista, infatti, le immagini trasmettono sempre una sensazione di mobilità e di continuo cambiamento. Secondo i pittori impressionisti la realtà muta continuamente di aspetto, la luce varia ad ogni istante, le cose si muovono spostandosi nello spazio: la visione di un momento è già diversa nel momento successivo. Tutto scorre, tutto cambia, come in ‘Impression. Soleil levant’ di Claude Monet (1872): un istante dopo la visione può essere già diversa, perché la luce è cambiata e, con sé, anche la tonalità di colore che essa diffonde nell’atmosfera.

Attaccamento: cos’è e come si trasmette da una generazione all’altra

La teoria dell’attaccamento secondo Bowlby

Valentina Di Dodo, OPEN SCHOOL STUDI COGNITIVI

Nel corso del secolo scorso hanno preso piede numerosi studi sul tipo di relazione che intercorre tra il bambino e la figura d’attaccamento.

A partire dalla prima metà del 1900 si vedevano già affiorare le prime teorie, più o meno verificate, sul ruolo dell’attaccamento nello sviluppo psico-fisico del bambino, fino ad arrivare agli studi di John Bowlby, considerato ad oggi il padre di questa teoria. Bowlby non è stato il primo ad occuparsi di questi argomenti, anche se inizialmente si rifaceva a studi e ricerche di altri viene comunque considerato il fondatore della teoria dell’attaccamento; questo perché non si è limitato come altri allo studio degli istinti e delle pulsioni, teoria suggerita da S. Freud, nel rapporto madre-bambino. Bowlby ha approfondito l’argomento con studi sperimentali, indagando sulle motivazioni intrinseche che legano il bambino ad una figura primaria, la madre, oltre alla ricerca di cibo. Lo psichiatra inglese notò che il piccolo non ricercava solo il nutrimento e si accorse che il legame, l’attaccamento, era legato alla ricerca di protezione, di serenità, di calore affettivo, di sensibilità da parte della madre. Fu allora che iniziò ad interrogarsi su quali fossero le conseguenze dei diversi tipi d’attaccamento, che identificò come sicuro o insicuro, su quali fossero i meccanismi che si attivano all’interno di questa relazione particolare e, in base a questi meccanismi, quale fosse il modo migliore per dare ai bambini un attaccamento sicuro.

È utile fare una distinzione tra tre concetti simili tra loro nella teoria sviluppata da Bowlby: l’attaccamento, il comportamento di attaccamento e il sistema dei comportamenti di attaccamento.

Con il termine attaccamento si fa riferimento al tipo di attaccamento di una persona che può essere sicuro o insicuro. Avere un attaccamento sicuro significa sentirsi sicuri e protetti, mentre avere un attaccamento insicuro implica una moltitudine di emozioni concomitanti e contrastanti verso la propria figura primaria, come possono essere amore, dipendenza, paura del rifiuto, vigilanza e irritabilità. Il comportamento di attaccamento viene definito come [blockquote style=”1″]ogni forma di comportamento che appare in una persona che riesce ad ottenere o a mantenere la vicinanza a un individuo preferit[/blockquote]o [Bowlby 1969], il comportamento di attaccamento è quindi attivato da una situazione di separazione dalla figura primaria, o dalla minaccia di essa, ed è eliminato con la nuova vicinanza. La differenza tra l’attaccamento e il comportamento di attaccamento è descritta da Bowlby in “Una base sicura”, scritto del 1988, dove specifica che l’attaccamento in sé non è la ricerca della vicinanza in una situazione momentanea, bensì un comportarsi in un modo pressoché invariato nel corso del tempo, che non cambia in modo repentino, come invece accade per il comportamento di attaccamento, ma che muta nel corso del tempo in modo molto lento.

Altra distinzione riguarda i soggetti verso cui si manifestano attaccamento e comportamento di attaccamento, infatti, mentre quest’ultimo può manifestarsi in condizioni diverse verso persone diverse, il primo si manifesta prevalentemente verso una sola figura di riferimento. Per quanto riguarda il sistema dei comportamenti di attaccamento si fa riferimento al modo in cui il bambino, o l’adulto, mantiene una relazione con la sua figura di attaccamento; così viene postulata l’esistenza di un’organizzazione psicologica interna che ha delle caratteristiche specifiche che comprendono schemi di sé e della figura di attaccamento. Quindi l’attaccamento e il comportamento di attaccamento si basano sul sistema dei comportamenti di attaccamento; infatti, secondo Bowlby il legame del bambino alla madre è il prodotto dell’attività di diversi sistemi comportamentali che sfociano nel tentativo di mantenere una vicinanza costante del bambino con la madre.

L’attaccamento si sviluppa nella prima infanzia attraversando alcune fasi ed evolvendo in attaccamento sicuro o insicuro. La possibilità di avere un attaccamento sicuro fornisce al bambino una “base sicura”. Questo concetto è stato rielaborato da Bowlby sul finire degli anni ’60 e si riferisce ad un ambiente caratterizzato da una madre, che permette al bambino di sentirsi pienamente protetto ed accettato; il bambino si sente sostenuto dalla base sicura e questo gli permette di rimanere solo con se stesso e di esplorare il mondo circostante senza timore.

I modelli operativi interni dell’attaccamento

Si dice che le persone ripropongano spesso situazioni già vissute. Sono stati svolti numerosi studi a favore dell’idea che questo avvenga anche per i comportamenti di attaccamento. Gli adulti ripropongono i modelli di relazione interiorizzati nell’infanzia grazie ai modelli operativi interni, ovvero [blockquote style=”1″]rappresentazioni mentali che contengono un grande numero di informazioni, su di sé e sulle figure di attaccamento, che riguardano la maniera più probabile in cui ciascuno risponderà all’altro con il cambiare delle condizioni ambientali.[/blockquote] Tali rappresentazioni mentali conducono le modalità di comportamento in quelle situazioni in cui il soggetto si prende cura di un altro e gli offre protezione.

Esiste una condizione particolare in cui un soggetto adulto riattiva i propri modelli operativi interni, le rappresentazioni delle esperienze passate e le modalità in cui si è relazionato alle figure significative nella propria infanzia: diventare genitore.

La genitorialità riguarda, infatti, il prendersi cura di un altro rispondendo alle sue richieste e ai suoi bisogni. L’elemento di continuità delle relazioni di attaccamento, dall’adulto al bambino, tuttavia non è dato dalla ripetizione fedele di quelle relazioni che hanno caratterizzato l’infanzia del genitore, piuttosto dal modo in cui l’adulto le ha rielaborate, proponendo un ambiente sensibile e responsabile all’interno del quale si sviluppa il legame di attaccamento tra il genitore e il bambino.

Sono state effettuate numerose ricerche in questa direzione, esse hanno cercato di verificare la corrispondenza tra la qualità dello stile di attaccamento dell’adulto e quella del bambino. Questa corrispondenza viene indagata con un approccio teorico e metodologico che fa riferimento agli studi fatti sui bambini attraverso la Strange Situation e gli studi sui genitori attraverso l’Adult Attachment Interview, ne risulta perciò da un lato il comportamento di attaccamento del bambino, e dall’altro una rappresentazione delle relazioni significative del genitore che influiscono, positivamente o negativamente, sulla formazione del legame tra il bambino e il genitore stesso.

L’Adult Attachment Interview per indagare l’attaccamento adulto

Sebbene inizialmente l’attaccamento sia stato studiato solo nel corso della prima infanzia, grazie a studi più recenti è stato messo in evidenza che gli stili di attaccamento potevano essere tradotti in corrispondenti pattern negli adulti. Lo strumento principalmente usato per la valutazione dei modelli operativi interni nel soggetto adulto è un’intervista semi-strutturata, somministrabile già a partire dall’adolescenza in cui al soggetto vengono poste alcune domande dirette relative alle sue relazioni da bambino con le proprie figure di attaccamento, mettendo in luce l’influenza esercitata da queste relazioni primarie nello sviluppo: l’Adult Attachment Interview (AAI).

I modelli operativi interni si riferiscono ad una rappresentazione interna del mondo, della figura di attaccamento e di se stesso; secondo la teoria dell’attaccamento la ripetizione delle relazioni si verifica perché l’esperienza interna e il comportamento nelle relazioni sono strutturati secondo modelli operativi interni o modelli rappresentazionali: i primi legami vengono interiorizzati dal bambino e rielaborati in modelli operativi interni che vanno ad influenzare le esperienze successive le quali potranno essere interpretate sulla base di rappresentazioni interne di sé e degli altri.

È stato ipotizzato che i bambini che esperiscono un attaccamento sicuro  sviluppano un modello degli altri come affidabili e disponibili, e un modello di se stessi come degni delle cure che ricevono; viceversa i bambini che non ricevono cure adeguate possono sviluppare sentimenti di rabbia e di angoscia nei confronti degli altri, e nei propri confronti sentimenti di insicurezza. Da qui hanno inizio le ricerche di Mary Main e collaboratori, i quali ritengono che le differenze nelle relazioni di attaccamento debbano riflettere le differenze delle rappresentazioni interne di queste relazioni tanto negli adulti quanto nei bambini.

Per esplorare in modo sperimentale la questione, la Main e Goldwyn hanno elaborato l’AAI, un’intervista semistrutturata composta da una serie di domande proposte al soggetto in un ordine preciso e prestabilito: nella parte iniziale viene chiesto al soggetto di indicare alcuni aggettivi che possano descrivere il rapporto con ognuno dei genitori durante l’infanzia; per ogni aggettivo viene, inoltre, chiesto di riportare alcuni ricordi che possano esemplificarli. Si chiede poi a quale genitore era più legato da bambino, e se si fosse mai sentito rifiutato da uno dei due o da entrambi. Nella parte conclusiva invece l’accento viene posto sul rapporto che il soggetto ha nel presente con i propri genitori, dando spazio alla descrizione dei cambiamenti nel rapporto. L’intervista pone il soggetto in una condizione in cui c’è il pericolo di contraddirsi o di non riuscire a sostenere le affermazioni precedenti o successive.

La struttura dell’Adult Attachment Interview si basa su due principi fondamentali: il primo riguarda il fatto che la ricostruzione del passato viene fatta alla luce delle esperienze attuali del soggetto; il secondo riguarda il fatto che c’è un’idealizzazione  del passato, in particolare delle esperienze negative dell’infanzia, che viene approfondita separatamente attraverso uno studio parallelo sul racconto autobiografico.

La codifica delle trascrizioni dell’AAI non è basata sulla descrizione della propria infanzia, piuttosto vuole indagare sul modo in cui le esperienze infantili, e in modo particolare i loro effetti sullo sviluppo della persona, si riflettono sul funzionamento corrente della vita del soggetto e il modo in cui da questo vengono valutate; le narrazioni correnti non sono altro che l’accurata rielaborazione del soggetto delle proprie esperienze infantili mentre questo le racconta.

Il sistema di codifica messo a punto da Goldwyn e da Mary Main produce tre classificazioni principali di attaccamento nell’adulto, che rappresentano tre modalità distinte di narrare le proprie esperienze infantili. I soggetti vengono classificati come “autonomi o sicuri”  quando la loro presentazione e valutazione del rapporto di attaccamento con i propri genitori da bambino risulta coerente, le risposte in questo primo caso sono date in modo chiaro, pertinente e fornendo una sintesi appropriata. È stato appurato che risultano adulti con pattern “autonomo” non solo quei bambini che hanno esperito un attaccamento sicuro, infatti, in alcuni casi i soggetti hanno un background decisamente difficile, purché essi risultino coerenti e non presentino contraddizioni nel raccontare e valutare queste esperienze.

Sono classificati come “distanzianti” quei partecipanti al test che descrivono i loro genitori in termini estremamente positivi, che però incappano in varie contraddizioni durante il racconto, un esempio di tale situazione potrebbe essere dato da un soggetto che riferendosi alla propria madre dice: “Lei era affettuosa nei miei confronti” ma poi più avanti nell’intervista si contraddice affermando: “quando mi sono ferito sono andato via, perché sapevo che lei sarebbe stata in collera con me”. Queste affermazioni, pur essendo contraddittorie, sembrano passare inosservate agli occhi del soggetto. I partecipanti classificati come “distanzianti” sostengono, inoltre, di non riuscire a ricordare le proprie esperienze di attaccamento, ma studi recenti hanno mostrato che essi non sono privi di una memoria autobiografica riguardante il proprio attaccamento, piuttosto essi tendono a minimizzare le proprie relazioni di attaccamento.

Quei soggetti che mostrano, invece una preoccupazione confusa, arrabbiata o passiva verso la figura di attaccamento vengono classificati come “preoccupati”; le trascrizioni dei racconti di questi soggetti mostrano l’uso di parole gergali o di assurdità e spesso contengono frasi poco chiare, non pertinenti e non sintetiche, sembra quasi che queste persone non siano in grado di rimanere concentrate sul focus del discorso e divaghino tra un ricordo e l’altro in modo confuso quasi incapaci di fermarsi. Si pensa che i soggetti “distanzianti” e “preoccupati” abbiano avuto un attaccamento insicuro.

C’è un’ultima categoria, introdotta in seguito sempre da Goldwyn e Main, che classifica i soggetti come “irrisolti-disorganizzati” che vede un riscontro con il pattern “disorganizzato” nella Strange Situation. Questi soggetti hanno fatto esperienza di situazioni traumatiche come una perdita o un abuso; le indicazioni che rimandano a questo tipo di pattern sono manifestate in errori momentanei nel ragionamento durante il racconto di queste esperienze traumatiche.

Negli ultimi decenni l’Adult Attachment Interview è stato applicato in un numero sempre crescente di studi sulla rappresentazione mentale degli adulti sulle loro esperienze di attaccamento infantile. È stato supposto che la rappresentazione mentale dell’attaccamento di un adulto sia collegata alla rappresentazione dell’attaccamento presente nei suoi stessi figli.

La codifica di questo test non è basata sulla relazione di attaccamento vera e propria, piuttosto sul modo in cui i soggetti hanno rielaborato le loro esperienze infantili e riflettono su di esse soffermandosi sugli effetti attuali che queste hanno sul loro funzionamento come adulti e come genitori. La codifica dell’AAI porta ad una delle tre classificazioni di attaccamento nell’adulto: autonomo (F), distanziante (DS) e preoccupato (E). Gli adulti con una classificazione F tendono a valutare le loro relazioni e le loro esperienze di attaccamento in modo coerente, sia quando danno una valutazione positiva, sia quando ne danno una negativa, e considerano queste esperienze importanti per la formazione della loro personalità.

Gli adulti classificati come DS tendono a minimizzare l’importanza che ha avuto l’attaccamento per la formazione delle loro vite o a idealizzare le esperienze avute nell’infanzia senza essere, però, in grado di fornire una descrizione concreta. Gli adulti con la classificazione E tendono a massimizzare l’importanza dell’attaccamento, essi sono ancora molto coinvolti con le loro esperienze passate e non sono in grado di descriverle coerentemente e di riflettere in modo non preoccupato su di esse: ira o passività caratterizzano lo stile di descrizione fornito da questi adulti. Gli adulti con le classificazioni DS ed E sono considerati entrambi insicuri. Una classificazione aggiuntiva riguarda lo stile di attaccamento irrisolto (U), questo tipo di codifica viene usato se l’intervistato mostra segni di traumi irrisolti, solitamente collegati alla perdita della figura di attaccamento.

In uno studio meta-analitico Marinus H. van IJzendoorn e Marian J. Bakermans-Kranenburg vogliono indagare sul modo in cui sono distribuiti i diversi pattern di attaccamento nelle madri non cliniche, nei padri non clinici, in campioni di adolescenti e giovani adulti senza figli, in un substrato culturale socio-economicamente svantaggiato, ed infine in gruppi clinici. Inoltre si vuole vagliare l’ipotesi che i genitori con bambini disturbati mostrino rappresentazioni più insicure dei loro legami d’attaccamento.

Dagli studi è emerso che nel campione di 584 madri non cliniche nel 58% dei casi esse potevano essere classificate come autonome, nel 24% come distanzianti e nel 18% dei casi erano classificate come preoccupate.

Lo studio sui padri ha prodotto dei risultati analoghi: il 62% dei padri è classificato come autonomo, il 22% come distanziante e il 16% come preoccupato. Anche nel caso degli adolescenti e dei giovani adulti senza figli sono stati trovati risultati che richiamano quelli ottenuti in precedenza nelle madri e nei padri non clinici. Nel 56% dei casi gli adolescenti e i giovani adulti potevano essere classificati con un pattern di attaccamento autonomo, nel 27% dei casi con un pattern distanziante e nel 17% dei casi con un pattern preoccupato.

Per quanto riguarda gli ambienti socio-economicamente svantaggiati è stata rilevata una presenza di madri che potevano essere classificate prevalentemente come disorganizzate o come distanzianti, questo risultato è stato associato ad una presenza maggiore di situazioni traumatiche dovute alla perdita della figura di attaccamento in età precoce, ma non c’è nessun dato che provi che l’attaccamento nell’adulto sia legato alla cultura.

L’ipotesi che i genitori con bambini con un disturbo psicologico mostrino rappresentazioni più insicure dei loro legami d’attaccamento risulta confermata dai dati raccolti: nel gruppo degli adulti con figli trattati clinicamente i genitori classificati come autonomi sono una minoranza, solo il 14%, mentre il 41% dei genitori è classificato come distanziante e il 45% come spaventato.

In sintesi emerge che le distribuzioni AAI nei campioni di madri, padri e adolescenti non clinici sono abbastanza simili tra loro  e indipendenti da variazioni cross-culturali. La categoria F è risultata essere più piccola rispetto alle aspettative nella distribuzione della classificazione della Strange Situation nella diade madre-bambino non trattati clinicamente.

La trasmissione intergenerazionale dell’attaccamento

In passato si è pensato che l’attaccamento fosse un argomento che poteva riferirsi solo ai bambini; il concetto di attaccamento, infatti, si adattava perfettamente all’idea che la relazione che si instaura tra il bambino e i suoi genitori sia particolarmente importante nel generare determinati comportamenti che il piccolo mette in atto nei confronti del mondo che lo circonda. In tempi più recenti, però, alcuni autori si sono interrogati su cosa accadesse una volta che una persona diventasse adulta; non era plausibile che il legame di attaccamento svanisse o che venisse accantonato, è così che presero piede alcuni studi sull’attaccamento transgenerazionale, in modo particolare sulla trasmissione genitore-bambino di uno stile di attaccamento piuttosto che un altro, e sul modo in cui avviene nel tempo questa trasmissione, senza che si verifichino necessariamente dei circoli viziosi per quegli stili di attaccamento meno positivi.

Mentre un tempo la relazione di attaccamento era ricercata nello stretto rapporto all’interno della diade madre-bambino, o al massimo della triade madre-padre-bambino, oggi vengono presi in considerazione altri elementi importanti: abbiamo visto l’importanza dell’ambiente, ma non della cultura, in cui si instaura la relazione; abbiamo visto anche che giocano un ruolo fondamentale sia la sensibilità dell’adulto, sia il temperamento del bambino, e su questo punto è stata rilevata una forte correlazione, anche se ancora non è possibile stabilirne il rapporto causa-effetto.

Grazie a questi studi è stato possibile rilevare che tra lo stile di attaccamento ottenuto attraverso la somministrazione dell’AAI all’adulto e quello ottenuto attraverso la Strange Situation del bambino è presente una corrispondenza diretta nel 75% dei casi. A questo punto numerosi studi si sono volti alla ricerca dell’esistenza di una trasmissione lineare dello stile di attaccamento, ma è stato appurato che nella realtà questa linearità non esiste, c’è piuttosto una forte influenza dovuta all’ambiente di crescita del bambino nella sua totalità.

Studi più recenti compiuti da Van IJzendoorn e altri hanno potuto riscontrare tutto questo attraverso delle ricerche meta-analitiche, studi longitudinali e trasversali, ma allo stesso tempo è stata mossa una forte critica alle metodologie con cui le ricerche vengono svolte. Sarebbe fondamentale, secondo questo autore, incrementare il numero di ricerche scientifiche, per poter stabilire inequivocabilmente il rapporto che intercorre tra le variabili in studio, per non limitare i risultati a semplici correlazioni.

Dall’amore all’odio…e viceversa!

Non è un mistero così indecifrabile come Amore generi Odio. Più sottile e raro il movimento contrario, ma la chiave non è difficile da trovare anche in quel caso.

Questo articolo è stato pubblicato da Giovanni Maria Ruggiero su Linkiesta il 13/02/2016

Non è un mistero così indecifrabile come Amore generi Odio. Più sottile e raro il movimento contrario, ma la chiave non è difficile da trovare anche in quel caso. Amore, anche quando non è ricambiato, è una relazione. Esso genera aspettative ed è figlio del Desiderio e, in quanto tale, può facilmente deludersi e deluderci. E una volta deluso, tramutare il suo contenuto nel suo contrario.

L’oggetto d’amore, fino a un momento prima idealizzato, a cui erano destinate tutte le nostre lodi e tutti i nostri migliori elogi, improvvisamente si rivela al di sotto delle nostre bramose aspettative. O meglio, improvvisamente non soddisfa più tutte le nostre illusioni. Nell’Amore che si tramuta in Odio c’è un fondo egoistico e desiderante che era presente fin dall’origine e che nel tramutarsi non ha fatto altro che rivelarsi; non è cambiato, purtroppo. Un fondo di desiderio che vuole essere soddisfatto e che, acquattato dietro tutti i romanticismi in cui si nasconde l’amante con la sua pretesa di abbassarsi e di dileguarsi nell’adorazione dell’amato, sta li, pronto a esplodere nell’ira di chi si sente intitolato a ricevere tutto perché tutto ha dato nel suo amore. Anche quando nulla gli era stato richiesto.

È questo il meccanismo che può portare ad arrossare di sangue quello che era iniziato nel rosa della festa di San Valentino. È un ciclo interpersonale, se perdonate il gergo tecnico. Ovvero un legame tra persone ma soprattutto un legame tra le menti delle persone, una relazione tra le loro idee e le loro emozioni, in cui ogni pensiero genera dei comportamenti che influiscono la mente dell’altro e, così facendo, generano nuovi pensieri nell’altro e quindi nuove emozioni e nuovi comportamenti che torneranno indietro a colui che aveva fatto nascere questa vicenda di relazioni e di pensieri. E tornando indietro ancora nutrono nuovi pensieri, nuove emozioni e nuove azioni, in un perenne e circolare agire e reagire.

I cicli interpersonali sono stati studiati in Italia soprattutto da Antonio Semerari e Giancarlo Dimaggio che molto ci hanno illuminato con le loro ricerche sulla personalità e anche sull’odio e sull’amore. E non è una notizia consolante notare che, tra i vari cicli studiati da Semerari e Dimaggio, quello che somiglia di più alle pene d’amore pronte a degenerare in furenti meditazioni di odio è il ciclo della cosiddetta personalità borderline. Borderline: termine che si sta diffondendo anche nel grande pubblico, magari nella forma abbreviata border, come un tempo para e paranoia erano diventate popolari.

Nel ciclo borderline troviamo all’inizio quella stessa fame di vicinanza e di relazione che caratterizza l’aurora dell’amore nascente. Nel borderline il fenomeno è ancor più pervasivo e invadente, dato che questa personalità nutre fame di relazione non solo per la persona amata, ma anche per tutta la sua intera cerchia sociale, per i suoi moltissimi amici, anche occasionali o semplicemente conoscenti, in una sorta di caricatura dell’amore universale. E questa fame si accompagna all’idealizzazione, similmente a quanto capita nell’amore: gli altri sono meravigliosi, perfetti, ricchi di virtù e di umanità e l’incontro con loro è abbondante di promesse e di future soddisfazioni.

Non è difficile capire come questo atteggiamento porti inevitabilmente alla delusione, che nel borderline è a sua volta un atteggiamento estremo, che esplode in rabbia. E alla rabbia si accompagna un senso d’ingiustizia, in cui gli altri ci deludono non per un loro limite umano da accettare umanamente, ma per la loro malafede e cattiveria. Di qui l’esplosione dell’amore in odio, meccanismo che possiamo ritrovare anche nelle delusioni d’amore. Chi è portatore d’amore spesso si ritiene portatore anche di una particolare giustizia a cui l’amato deve corrispondere, se è davvero una persona all’altezza di questa meraviglia. E se non lo è, allora viola una regola non da poco, una regola che ha una qualità morale. E se qualcuno viola una regola morale costui ha commesso ingiustizia ed è degno di rabbia e poi di odio, in un crescendo che sembra non aver fine.

O meglio, c’è una fine. Talvolta purtroppo nella violenza e perfino nell’omicidio –che spesso prende la forma del femminicidio – e che troppe volte si pone a conclusione di una relazione d’amore.

Per fortuna la fine più diffusa è quasi il suo opposto, almeno nella personalità borderline. Il protagonista dello scoppio d’ira e odio ben presto si pente del suo gesto, sempre secondo uno stile eclatante e teatrale. La colpa dello screzio, del litigio è totalmente assunta dalla stessa persona che fino a poco prima era indignata su quanto il suo partner avesse deluso le sue aspettative.

La personalità borderline s’immerge nella colpa con la stessa totalitarietà con la quale si era immersa nell’amore e nell’odio. La colpa è il terzo episodio di questa sacra rappresentazione. Una simile trafila la possiamo trovare anche nell’innamoramento e al di fuori della psicopatologia del borderline. L’amante si pente molto facilmente, troppo facilmente dei suoi scoppi d’ira e si flagella, chiede perdono tra le lagrime e di nuovo inizia a idealizzare la figura amata. E in tale modo è tornato alla casella di partenza e ha concluso il suo giro. Ed essendo tornato alla casella di partenza può iniziare un altro giro in una perenne giostra di amore, odio e colpa, un serpente che si morde la coda e che tutto contiene nel suo cerchio magico.

L’amore è un cerchio tra due persone in cui l’altro polo è l’odio, un ciclo interpersonale. E se il male sta nella relazione, la soluzione è dentro di noi. Sta a noi riuscire a trasformare l’odio in un fastidio non troppo espresso per i limiti dell’altro, in una capacità non solo di non odiare, ma anche di comprendere i difetti altrui, di non indulgere in risposte brusche, di non deteriorare la nostra sensibilità, perfino di rendere l’odio, se ridotto a uno spizzico, una spezia del cibo amoroso. In fondo ogni veleno, a piccole dosi, è una medicina. E viceversa.

Men, Women and Children – Recensione del film di J. Reitman

Men, Women and Children (2014) è un film incentrato sulle vicende di un gruppo di adolescenti nativi digitali e dei loro genitori coinvolti a loro volta da questa nuova metodica di interazione sociale.

Men, Women and Children è un film del 2014 scritto e diretto dal regista Canadese Jason Reitman. Il film è incentrato sulle vicende di un gruppo di adolescenti nativi digitali e dei loro genitori coinvolti a loro volta da questa nuova metodica di interazione sociale.

Don e Helen Truby, coppia sposata. Lei cercherà una relazione extra-coniugale attraverso un sito di incontri, lui che da tempo soddisfa le proprie esigenze sessuali attingendo alla pornografia, contatterà un servizio di prostitute online.

Il figlio della fedifraga coppia, Chris Truby, anch’esso totalmente dipendente dalla pornografia, svilupperà problemi di erezione non riuscendo a trarre eccitazione se non dalla visione di pratiche sessuali non comuni.

Ci imbatteremo poi in Donna Clint, ex attrice fallita, madre di Hannah, che apre un sito web in cui posta foto di sua figlia per cercare di immetterla nel mondo dello spettacolo. Un giorno Donna riceverà una mail da uno sconosciuto con la richiesta di un servizio fotografico della ragazza in posizioni erotiche, Donna acconsentirà alla richiesta entrando in un vortice al limite dell’illecito.

Tim Mooney un ex stella del football, ha lasciato la squadra a causa del divorzio dei suoi genitori dovuto all’abbandono della madre, di cui adesso riceve notizie solo attraverso Facebook (ad un certo punto lei addirittura lo bloccherà dai suoi contatti). Dopo il trauma, Tim cercherà rifugio emotivo in un famoso gioco di ruolo online. Dopo evidenti problemi di distacco dalla realtà, a Tim vengono prescritti dei farmaci antidepressivi da parte del terapeuta della scuola. L’unico contatto umano e reale di Tim è con una ragazza, Brandy Beltmeyer.

Brandy Beltmeyer ha una madre estremamente iperprotettiva, Patricia, che monitora in modo ossessivo tutte le sue attività su Internet: cronologia, password e account. Brandy troverà il modo di avere una sua figura in rete attraverso Tumblr, dove la ragazza posterà diverse sue foto e stati per esprimere se stessa, con l’uso di un personaggio estremo.

Infine Allison Doss, ex ragazza in carne, da tempo innamorata di un ragazzo della sua scuola più grande di lei, dimagrirà fortemente dopo che Brandon , il ragazzo in questione, la denigrerà per il suo aspetto. Entrata quindi nel vortice dell’anoressia, la ragazza troverà supporto nella frequentazione di siti malsani in cui ragazze con disturbi alimentari si supportano a vicenda e suggeriscono tecniche per non mangiare.

Le tematiche affrontate in Men, Women and Children toccano temi attualissimi che spaziano dalla cultura dei videogiochi all’anoressia, dall’infedeltà coniugale a pornografia e materiale illecito su rete.

 

La cultura e le interazioni dei social network in Men, Women and Children

Le scene sono piene di atti comunicativi verbalizzati e scritti (carine le serie di vignette che emergono quando i personaggi scrivono qualcosa attraverso i messaggi o i social network) e ci fanno sorridere essendo un piccolo specchio dove inevitabilmente ognuno di noi può ritrovare la propria immagine.

Facebook, instangram, tumblr, tweetter, grinder,tender, Legacy of Magic hanno sostituito i vecchi muretti dove ci si incontrava il pomeriggio, i vecchi rullini e quelle belle foto cartacee che avrebbero creato i nostri album fotografici da condividere a casa con amici e parenti, gli appuntamenti al buio, nascondino e mosca cieca. Senza cadere comunque nella retorica del si stava meglio quando si stava peggio, il film apre una serie infinita di domande e riflessioni tra cui quella che a mio avviso muove ogni cosa, ovvero il sociale ed il suo cambiamento.

Cosa spinge le persone ad iscriversi ad un social network? Quanto c’è di realistico e di idealistico nei profili social? Questa quantità di informazioni può essere utile nell’analizzare la vita ed il modo di essere delle persone?

 

La teoria del flow nell’esperienza dei social network

Si è cercato di rispondere a tali quesiti partendo dalla teoria dei bisogni di Maslow (Riva G., 2008) dove si spiega tale spinta attingendo ai bisogni di stima, di sicurezza, di autorealizzazione ma a parer mio, attraverso una ricerca sul web, una teoria molto interessante è quella condotta da alcuni psicologi dello IULM e della Cattolica di Milano (Mauri M., Cipresso P., Balgera A., Villamira M., Riva G., 2011) che sostengono:

I social network hanno la capacità di produrre delle esperienze ottimali, definite di Flow (Flusso), che sono in grado di rifornire una ricompensa intrinseca ai propri utenti. Secondo la teoria di Csikszentmihalyi (1998), il flow è quello stato in cui tutto si svolge in armonia con le nostre decisioni; è uno stato che presuppone passione, creatività e il pieno coinvolgimento delle migliori abilità della persona. L’esperienza ottimale che si vive dipende direttamente da chi la compie, non solo perché si diventa protagonisti di quello che si sta facendo ma, perché si è totalmente coinvolti nell’attività al punto che nient’altro può distrarre in quel momento. Nel Flow un individuo è in grado di accantonare qualunque altro pensiero e preoccupazione, per immedesimarsi totalmente nel compito, fino ad arrivare a perdere il senso del tempo e la comparsa temporanea delle necessità fisiche di base.  

E ancora:

Un’altra motivazione che spinge le persone ad iscriversi ad un Social Network, fa riferimento al bisogno personale di lasciare una traccia di sé. Tale bisogno è sempre stato una necessità insita in tutti gli esseri umani, di tutte le epoche storiche. Se in passato si usavano i ritratti, oggi si usano le pagine dei social network. Un tempo i ritratti davano un senso di eternità e ci fornivano molte informazioni del soggetto raffigurato (carattere, ambizioni, status sociale), così, oggi, i profili Facebook possono indicarci i tratti psicologici, gli interessi e molte altre informazioni dei loro possessori. Proprio per questo molte ricerche (Quercia, D., Kosinski, M., Stillwell, D. & Crowcroft, J., 2011) che presenteremo hanno analizzato la personalità degli utenti, arrivando a comprendere che tutte le informazioni, le attività svolte online possono dirci qualcosa della personalità reale (offline) di ognuno, in quanto costruiscono una sorta di memoria storica delle proprie attività.

Zuckenberg sembra aver intuito questa tendenza al voler lasciare un segno nel mondo virtuale e dal 2011 ha introdotto il Timeline una sorta di diario aperto che permette alla bacheca degli utenti di conservare gli ultimi aggiornamenti ed in più di estrapolare all’occorrenza notizie relative ad un determinato periodo.

Quindi,attraverso il Timeline si ripercorrono un alcune tappe che abbiamo deciso di dichiarare, se poi contiamo le immagini del profilo e di copertina che scegliamo, i link a cui mettiamo i like, gli interessi che manifestiamo attraverso appunto le notizie, le reti di amicizie e le condivisioni, probabilmente, calcolando comunque che quello del profilo è un vero e proprio processo di creazione e di desiderata voglia di manifestarci al massimo della nostra esponenzialità, si può pensare che nelle indagini prossime future nel campo della psicologia e non solo, che oltre ai test psicometrici, l’attenta analisi dei linguaggi verbali e non e in ultimo la conoscenza dell’ambiente sociale del paziente, anche l’osservare la pagina facebook potrebbe essere un ulteriore indicatore di personalità.

cancel