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Violenza domestica: come i partner abusanti utilizzano i propri figli per controllare le partner ed ex partner?

La letteratura scientifica suggerisce che i partner abusanti utilizzino i propri figli per controllare le partner ed ex partner in vari modi.
I padri biologici, ad esempio, possono servirsi delle “battaglie” per la custodia dei minori al fine di “tenere traccia” delle loro madri o utilizzare le visite ai figli come opportunità per continuare ad abusare le loro madri. Questo fenomeno è divenuto così esteso che ha portato allo sviluppo di centri di visita controllati, che consentissero all’abusante di vedere i propri figli, ma non la partner o ex partner.

Maddalena Ischia, OPEN SCHOOL STUDI COGNITIVI 

 

Introduzione: la violenza domestica e i partner abusanti

Stime conservative indicano che ogni anno, solo negli Stati Uniti, le donne aggredite dai loro partner o ex partner siano almeno da 2 a 4 milioni (Browne & Williams, 1993; Edleson, 1999; Tjaden & Thoennes, 1998; Tomkins et al.,1994).

In Italia, i dati non sembrano essere migliori: si stima che siano circa 250 le donne che, ogni giorno, subiscono violenze da parte di un membro della propria famiglia, in particolare dal partner o ex partner (SVS, Soccorso Violenza Sessuale Clinica L. Mangiagalli Milano, 2006).
La violenza domestica, che comprende gli atti di vessazione compiuti dal partner intimo o da altri membri del nucleo familiare, è un fenomeno molto complesso, che include un modello di comportamento attraverso il quale gli autori mantengono il potere e controllo sulle loro vittime (Dobash, Dobash, Wilson, E Daly, 1992; Johnson, 1995).

Oltre all’abuso fisico (schiaffi, percosse, calci, minacce con un oggetto o un’arma), il maltrattamento include violenza sessuale (costrizione al rapporto sessuale tramite minacce, intimidazione o uso di forza fisica), vessazioni psicologiche (comportamenti volti ad intimidire e perseguitare, minacce di abbandono o maltrattamenti, minaccia di allontanamento dai figli, minacce verso persone care alla vittima, sorveglianza ossessiva, isolamento dalla rete amicale e familiare, aggressione verbale), e vessazioni economiche (rifiuto di concedere soldi, rifiuto di contribuire finanziariamente alle esigenze del nucleo familiare) (Bancroft,2002; Pence & Paymar, 1993; SVS, Soccorso Violenza Sessuale Clinica L. Mangiagalli Milano, 2006).

Per comprendere meglio questo fenomeno, ricerche precedenti hanno esaminato un certo numero di modi in cui i maltrattanti abusano e controllano le loro vittime. Ad esempio, alcune ricerche hanno indagato i modi in cui i maltrattanti abusano economicamente delle loro partner (Brush & Raphael, 2000; Lloyd & Taluc,1999; Shepard e Pence, 1988), e la misura in cui le terrorizzano psicologicamente (Street & Arias 2001; Tolman, 1992).

Recentemente, una certa attenzione è stata dedicata anche alle modalità con cui i partner abusanti molestano o minacciano i cari delle loro partner o ex partner, ai fini di controllarle (Goodkind, Gillum, Bybee, & Sullivan, 2003; Riger, Racha, e Camacho, 2002).
Sebbene la ricerca indichi che milioni di bambini negli Stati Uniti sono esposti al maltrattamento delle loro madri (Carlson, 1984; Straus, 1992), e che molti sono essi stessi abusati (Edleson, 2001), poco si sa sul modo in cui questi vengono utilizzati da coloro che abusano per manipolare o danneggiare le loro madri.

 

L’utilizzo dei figli da parte dei partner abusanti

La letteratura scientifica suggerisce che i partner abusanti utilizzino i propri figli per controllare le partner ed ex partner in vari modi.
I padri biologici, ad esempio, possono servirsi delle “battaglie” per la custodia dei minori al fine di “tenere traccia” delle loro madri (Bancroft & Silverman, 2002; Saunders, 1994), o utilizzare le visite ai figli come opportunità per continuare ad abusare le loro madri (Saunders, 1994; Shepard, 1992). Questo fenomeno è divenuto così esteso che ha portato allo sviluppo di centri di visita controllati, che consentissero all’abusante di vedere i propri figli, ma non la partner o ex partner (Oehme & Maxwell, 2004; Thoennes & Pearson, 1999).

I partner abusanti, inoltre, possono minacciare di fare del male o rapire i bambini qualora la partner o ex partner non si comporti come loro desiderano (Bancroft & Silverman, 2002).
I bambini possono poi essere utilizzati come fonti di informazioni rispetto alle attività o agli spostamenti compiuti dalla loro madre. Non è infrequente, infatti, che i maltrattanti interroghino i propri figli sulle attività svolte dalla loro madre, in modo da avere sotto controllo tutti gli aspetti della vita della donna. Ciò può essere eseguito in modo sottile, cosicché il bambino non realizzi di essere manipolato.

Utilizzare i figli per controllare il comportamento delle loro madri può risultare una strategia particolarmente efficace, in quanto le madri solitamente antepongono il benessere e le esigenze dei propri figli alle loro.
Risulta pertanto importante esaminare la misura in cui i partner abusanti si impegnano in questi tipi di comportamenti, così come comprendere i fattori predittivi di queste strategie. Per esempio, ci si potrebbe aspettare che gli uomini che sono padri biologici dei bambini siano più propensi ad utilizzare il sistema giudiziario per controllare le loro partner, rispetto a coloro che non possiedono diritti legali sui figli.

Ci si potrebbe inoltre aspettare che i partner abusanti che vivono con le loro vittime possano utilizzare i bambini per “tenere traccia” delle attività svolte dalla loro madre, o minacciare di fare loro del male qualora la donna dovesse lasciarli.
Qualora invece il partner maltrattante abbia concluso la sua relazione con la partner, potrebbe utilizzare i figli per convincere la donna a riprendere la relazione o per monitorare i suoi spostamenti.

Nel 2007, Beeble, Bybee, e Sullivan (2007) hanno effettuato uno studio su un campione composto da 156 donne maltrattate, che avevano subìto violenza fisica da parte di un partner intimo durante i quattro mesi precedenti.
Sebbene tale studio sia di natura esplorativa, gli autori hanno ipotizzato che l’uso dei bambini fosse collegato ad una serie di fattori.
In particolare, gli autori ipotizzavano che i padri biologici fossero più propensi ad utilizzare i bambini per controllare il loro partner o ex-partner, a causa sia di un loro diritto legale di avere accesso ai bambini, che di un naturale “senso di diritto” sulla loro prole.
Gli autori hanno inoltre esaminato se l’uso dei bambini variava in base allo stato attuale del rapporto dell’aggressore con la donna (partner vs ex partner).

Infine, hanno ipotizzato che gli aggressori per i quali il Tribunale aveva stabilito il diritto di visita ai figli, li utilizzassero più spesso rispetto a quelli che non avevano ricevuto tale disposizione, o rispetto a coloro che attualmente vivevano con i loro figli.
Dai risultati dello studio è emerso in primo luogo come l’utilizzo dei figli da parte dei partner abusanti sia un fenomeno molto diffuso: la maggioranza delle donne (88%) ha infatti riferito che i loro aggressori avevano usato i loro figli per controllarle in vari modi e a vari livelli.
Tale controllo è stato attribuito dalle vittime alle seguenti finalità: rimanere nella loro vita (70%), tenere traccia di loro (69%), molestarle (58%), intimidirle (58%), e spaventarle (44%).
Quasi la metà (47%) delle donne ha riportato che gli aggressori avevano cercato di mettere i loro figli contro di loro, mentre il 45% ha riferito che gli aggressori avevano tentato di utilizzare i bambini per convincerle a riprendere una relazione.

Gli autori hanno rilevato inoltre che l’uso dei bambini contro le donne da parte dei maltrattanti differiva sulla base del tipo di relazione tra questo e il bambino. I padri biologici, infatti, erano significativamente più propensi a usare i bambini contro le loro partner o ex rispetto ai patrigni (uomini legalmente sposati con la madre del bambino), alle figure paterne (uomini che avevano giocato un ruolo genitoriale significativo con il bambino), e a quelle classificate come “non paterne” (partner attuali o precedenti che non avevano giocato un ruolo genitoriale significativo nella vita del bambino).

Le donne che avevano chiuso o stavano terminando il loro rapporto con l’aggressore (M = 2.39; DS = .93) avevano vissuto in modo significativamente maggiore l’uso dei bambini rispetto alle donne che stavano continuando la relazione con il maltrattante (M = 1.69; DS = .76), con F (1, 54) = 13.33, MSE = .82, P <.01).
In aggiunta, gli aggressori per i quali il Tribunale aveva disposto visita ai figli, utilizzavano questi in misura significativamente più alta contro le loro partner o ex partner (M =2.93; DS = .86), rispetto a coloro che non avevano ricevuto queste disposizioni (M = 2.19; DS = .90; p <.01), o che vivevano con i bambini (M = 1.91; DS = .89; p <.01).

 

Considerazioni e conclusioni

La letteratura esaminata mostra come molti partner abusanti utilizzino i bambini per continuare a controllare e abusare le loro partner o ex-partner.

Nello studio condotto da Beeble, Bybee, e Sullivan (2007), il settanta per cento dei partner abusanti ha usato i bambini per rimanere nella vita delle partner o ex-partner, mentre più della metà ha usato i figli anche per molestarle. Poco meno della metà dei partner abusanti ha cercato di mettere i bambini contro le loro madri, mentre altri hanno usato i bambini per convincere le donne a riprendere una relazione con loro.
Il rapporto dell’abusante con i bambini è risultato essere una caratteristica distintiva per comprendere le condizioni in cui si è verificato l’uso dei bambini: i padri biologici utilizzavano i bambini contro le loro madri più dei patrigni, delle figure paterne e non paterne.

Ci sono un certo numero di possibili spiegazioni per questa constatazione.
La prima spiegazione potrebbe essere sintetizzata nella frase “l’occasione fa l’uomo ladro”: i padri biologici potrebbero avere più accesso ai loro figli rispetto ai patrigni o alle figure non paterne, cosa che potrebbe dare loro maggiori opportunità di usarli contro le loro madri.
A questo proposito, alcuni padri biologici potrebbero sentire un senso di proprietà sui propri figli (Bancroft, 2002; Bancroft & Silverman, 2002), il che potrebbe portarli a sentirsi giustificati ad utilizzarli per nuocere alle loro madri. I padri biologici potrebbero anche avere relazioni più strette con i bambini rispetto ai patrigni, e alcuni potrebbero sfruttare quella vicinanza chiedendo ai bambini di convincere le madri a riprendere una relazione con loro, o attribuendo la colpa per la rottura del rapporto alle loro madri. Altri ancora potrebbero utilizzare la minaccia di una battaglia per la custodia dei figli per controllare le loro partner o ex-partner (si vedano, ad esempio, Bancroft & Silverman, 2002; Saunders, 1994).

Studi futuri saranno necessari per capire meglio come la relazione con il bambino interessa la capacità e la volontà dell’abusante di usarli per danneggiare o controllare la loro madre.

Anche l’accesso dei partner abusanti ai bambini attraverso le visite ordinate dal Tribunale è risultata essere una caratteristica distintiva che aiutava a comprendere le condizioni in base alle quali gli aggressori utilizzavano i bambini contro le loro partner o ex-partner.
Gli abusanti che avevano diritto di visitare i figli, secondo quanto stabilito dal Tribunale, hanno infatti utilizzato i bambini più di quelli che ne erano privi. Anche in questo caso, è possibile che questi aggressori abbiano più accesso ai bambini, e, di conseguenza, più opportunità di utilizzarli contro le loro partner o ex-partner, rispetto agli aggressori che non hanno tali diritti.
Va evidenziato, tuttavia, che l’ordine di visita stabilito dal Tribunale è stato segnalato dalle madri nei confronti di uno qualsiasi dei loro figli, elemento che non ha reso possibile collegare le modalità di visita per un bambino specifico all’uso di quel bambino da parte dell’aggressore. Allo stesso modo, nulla sappiamo sulle caratteristiche individuali del bambino (ad esempio, età, sesso) che potrebbero essere associate con un elevato rischio per questo tipo di manipolazione.

Un’analisi più precisa di questi aspetti richiederà un’attenta raccolta di informazioni sulle caratteristiche specifiche dei minori, nonché del tipo di contatto avuto con l’aggressore.

In sintesi, è possibile affermare che sono necessarie ulteriori ricerche in questo settore per esaminare le diverse modalità in cui i bambini vengono utilizzati contro le loro madri, nonché i predittori di tale comportamento, così come le conseguenze di tali atti sulle madri ed i loro figli.
Lo studio di questo fenomeno risulta essere importante per una serie di motivi.
Da un punto di vista prettamente clinico, è importante capire come le tattiche utilizzate possano traumatizzare le donne, e portarle a comportarsi in modi che possono risultare poco comprensibili ai professionisti che le assistono. Si pensi, in questo senso, al fatto che le vittime di violenza domestica possano decidere improvvisamente di riiniziare una relazione con il partner maltrattante, o rifiutarsi di interromperla.
Inoltre, ai clinici che lavorano con i bambini potrebbe essere utile comprendere quanto comune sia l’utilizzo di queste tattiche, per aiutarli a sviluppare efficaci strategie di coping.

A livello politico, la comprensione di come i bambini sono utilizzati come “armi” da molti partner abusanti è di cruciale rilevanza per la creazione di politiche (policy) in materia di visite e custodia.
Ad esempio, molte comunità ancora non hanno Centri di visita sorvegliati che le donne possono utilizzare quando l’aggressore ha il diritto legale di vedere il bambino, ma solo quando tale accesso mette in pericolo l’incolumità della madre. Se la prevalenza di questo fenomeno fosse meglio compresa, così come le sue conseguenze sia per le madri e per i bambini, tali centri potrebbero diventare una priorità maggiore nelle comunità.

Infine, utilizzare i bambini per nuocere e controllare le loro madri è una strategia che può avere gravi conseguenze negative, sia per le donne, che per i loro bambini.
Ad oggi, nulla si sa su come i bambini affrontino l’essere utilizzati in questo modo. Si sa anche poco su come le diverse tattiche influenzano i comportamenti delle donne, così come il loro benessere psicologico.
Far luce su questo fenomeno complesso può portare ad una risposta comunitaria migliore per le vittime e i loro bambini, rendendo più difficile per coloro che abusano impegnarsi con successo in tali tattiche in futuro.

Il doppio senso della supervisione – Ciottoli di Psicopatologia Generale Nr. 8

La realtà si manifesta solo nell’interazione con un osservatore. La sua rappresentazione è dunque frutto parimenti della cosa in sé e degli schemi percettivi e cognitivi dell’osservatore.

CIOTTOLI DI PSICOPATOLOGIA GENERALE (RUBRICA) – LEGGI L’INTRODUZIONE

 

La realtà, ammesso che esista indipendentemente, si manifesta solo nell’interazione con un osservatore. La sua rappresentazione è dunque frutto parimenti della cosa in sé e degli schemi percettivi e cognitivi dell’osservatore.

Tutto questo non è il delirio estremo di costruttivisti radicali ma è dimostrato scientificamente vero dalla teoria standard dei quanti: non esistono cose ma soltanto avvenimenti ovvero interazioni tra cose: se non c’è interazione spariscono davvero pure le cose, mica poco!

In terapia abbiamo un soggetto A che ci descrive il mondo in cui è immerso e che gli genera disagio.

Un intervento di basso livello, la valutazione è mia e riguarda l’eleganza (che però mi è difficile definire più operativamente anche se mi capisco da solo) e la stabilità nel tempo dell’efficacia, riguarda l’aggiustamento (critica e discussione) di questa costruzione in modo che sia più adattiva ovvero più idonea a consentire il perseguimento degli scopi di A.

Un intervento di livello superiore riguarda invece la consapevolizzazione e la relativizzazione (non necessariamente la sostituzione) degli schemi percettivi costruttivi del soggetto stesso che sono congruenti con i suoi scopi. In supervisione abbiamo un T e un S.

T descrive il mondo della sua relazione con A il quale gli descrive il mondo in cui è immerso e che gli genera disagio. S può fare un intervento, magari utile ma di basso livello, nel senso sopradescritto, correggendo la costruzione che T ha di A al fine di perseguire meglio lo scopo della guarigione di A. Interventi del tipo: aggiustiamo la diagnosi, vediamo le tecniche utilizzabili, come superare le resistenze ecc.

Ma S può fare anche un intervento di livello superiore mostrando e relativizzando gli schemi percettivi costruttivi con cui T vede A, con ciò evidenziando gli scopi che muovono T.

Questo secondo tipo di intervento anche se apparentemente meno utile nell’immediato è più efficace ed economico perché gli scopi e gli schemi conseguentemente attivi di T verso A lo sono presumibilmente anche nelle relazioni di T con A2, A3, A4, An, ovvero non con il singolo paziente ma con la categoria generale dei pazienti e forse, più in generale degli esseri umani.

Ovviamente il regresso può continuare all’infinito: nella costruzione che S fa di A, di T e della loro relazione entrano in gioco soprattutto gli schemi di S. Non si può ovviare a tutto e comunque alla fine un punto di vista dal quale si predica resta sempre (un pulpito fuoricampo, gli occhi che guardano ma non vedono loro stessi).

Si può ovviare in parte al punto cieco, avendo più S ed è proprio questo il senso di un gruppo di supervisione e più in generale dell’intervisione. Non serve che S sia necessariamente più esperto ma soprattutto che sia esterno.

 

 

RUBRICA CIOTTOLI DI PSICOPATOLOGIA GENERALE

Webinar: Alcologia: la consulenza, la diagnosi e il trattamento

Webinar articolato in due sessioni successive: Alcologia: la consulenza, la diagnosi e il trattamento

Martedì 1 marzo dalle 20,30 alle 22

Martedì 15 marzo dalle 20,30 alle 22

 

Normalità o patologia? Quale è il confine che definisce e distingue il consumo di alcolici sano da quello problematico? L’insufficiente conoscenza scientifica dell’argomento e la larga diffusione del consumo di alcolici, fa sì che le persone che gradualmente sviluppano un rapporto patologico con l’alcol – e spesso anche chi sta loro vicino – sottovalutino i segnali precoci della insorgenza del problema. I pregiudizi, le false credenze e lo stigma sociale che si associano alla patologia alcologica determinano gravi ritardi nella richiesta di aiuto e la attuazione di maldestri tentativi di risolvere il problema. Ma sempre più spesso capita che le persone – direttamente interessate, o in qualità di partner o familiare – si rivolgano ad un professionista della salute chiedendo una consulenza sulle tematiche alcologiche.

Se tale professionista è uno psicologo con una formazione specialistica adeguata, questi sarà in grado di raccogliere nei colloqui col paziente ed i familiari quegli elementi informativi che gli consentono di formulare una diagnosi alcologica e di orientare agli interventi trattamentali multidisciplinari più opportuni. In questi due incontri dedicati al Disturbo da uso di alcol verrà introdotto l’argomento in una prospettiva scientifica; verranno illustrate le modalità indicate per la costruzione del setting consulenziale col paziente ed i familiari; verranno descritti alcuni strumenti diagnostici; verranno analizzati i trattamenti, con attenzione specifica ai trattamenti psicoeducazionale e psicoterapeutico; verranno spiegate alcune modalità di presa in carico in equipe multidisciplinari e in collaborazione con i gruppi di auto-aiuto.

Cinzia Sacchelli è psicologa, psicoterapeuta. Laureata presso la Università degli Studi di Padova, si è specializzata in Psicoloterapia dopo aver frequentato Il Centro Studi Psicoanalitici di via Ariosto a Milano. Dal 1991 opera nell’ambito delle dipendenze, prima collaborando con alcune Comunità Terapeutiche e con un reparto ospedaliero di Alcologia; poi lavorando come Psicologo in un SerT. Nel 1999 si è trasferita a Milano, dove per la ASL Milano ha avviato con un gruppo di colleghi un Nucleo Operativo Alcologia (NOA) di cui da allora è Responsabile. Ha effettuato numerose attività didattiche ed alcune pubblicazioni di settore. Dal 2014 è Presidente della sezione lombarda della Società Italiana Alcologia.

Per garantire agli iscritti una maggiore capacità di approfondimento della tematica oggetto del seminario quest’ultimo è stato articolato in due appuntamenti, vi aspettiamo pertanto il 1 marzo e il 15 marzo alle 20.15 presso la Casa della Psicologia in Piazza Castello 2 a Milano, o alle 20.30 degli stessi giorni sulla piattaforma gotowebinar di OPL.

 

Per partecipare via web, ti invitiamo a iscriverti seguendo il form disponibile in questa pagina (https://attendee.gotowebinar.com/register/3144381526915035394). Se desideri partecipare dal vivo puoi mandare una mail a [email protected] ma devi arrivare almeno un quarto d’ora prima dell’inizio di ciascun seminario (quindi alle 20.15).

Atteggiamenti verso il lavoro e comportamento organizzativo: hope, job satisfaction e organizational committment

Gli atteggiamenti verso il lavoro sono una sintesi dell’interazione tra le tendenze affettive, cognitive e comportamentali. Gli atteggiamenti più studiati nella psicologia del lavoro sono tre: hope, job satisfaction e organizational committment.

Gli atteggiamenti verso il lavoro sono una categoria di differenze individuali che influisce sul comportamento di una persona, anche all’interno di un’azienda.

Sono sentimenti, convinzioni e tendenze comportamentali relativamente stabili nei confronti di idee, dilemmi, oggetti e persone. Sono importanti perché rappresentano la modalità in cui le persone esprimono ciò che provano.

Apparentemente gli atteggiamenti sembrano un concetto semplice ma ciò che risulta complesso sono gli effetti sul comportamento. Di fatti, le componenti degli atteggiamenti sono:

  • Emotive: sensazioni ed emozioni, stati d’animo su una persona o un oggetto;
  • Cognitive: pensieri, credenze, conoscenze e informazioni, in relazione a un oggetto o una persona;
  • Comportamentali la predisposizione ad agire sulla base di una valutazione negativa o positiva circa un oggetto o una persona.

Queste componenti funzionano in sinergia; l’atteggiamento quindi è una sintesi dell’interazione tra le tendenze affettive, cognitive e comportamentali. Alcuni di questi atteggiamenti sono più importanti di altri perché hanno a che fare con la prestazione lavorativa. Tre sono in particolar modo gli atteggiamenti legati al lavoro: hope, job satisfaction e organizational committment.

 

Tre atteggiamenti verso il lavoro

Hope

L’hope è un concetto che fa riferimento alla forza di volontà di una persona, cioè la determinazione nel perseguire gli obiettivi ma con in più la raffigurazione di una mappa mentale che il lavoratore utilizza per definire i modi per raggiungerli (assomiglia molto alla visualizzazione praticata dagli sportivi prima di una qualificazione o di una competizione). Hope equivale a volontà, mappa mentale, convinzione positiva del superamento degli ostacoli.

Esistono questionari che permettono di valutare la dimensione ‘Ottimismo‘ (vedi Snyder, LaPointe, Crowson, Early 1998). Ad una affermazione come Ho raggiunto un certo livello di successo nella vita si attribuisce un punto da 1 (assolutamente falso) a 4 (Assolutamente vero). Una persona con elevato livello di Hope ama confrontarsi con obiettivi stimolanti e relativamente complessi, fa uso del dialogo interno, si impegna in modo costante e non si lascia condizionare dal rischio di fallire. In altre parole, immagina un percorso per raggiungere l’obiettivo e alimenta la propria motivazione.

Al contrario, una persona con basso Hope manifesta apprensione verso il futuro, accumula stress sul lavoro, si fa condizionare dalle emozioni negative, ha una percezione distorta delle proprie capacità. In azienda, i manager con alto livello di hope sono più collaborativi, alimentano canali di comunicazione e si prefiggono obiettivi difficili ma raggiungibili. Un modo in cui questi manager aiutano i colleghi ad essere più efficienti, è quello di parcellizzare un grande obiettivo in tanti sotto-obiettivi. Il principio è come quello che si applica quando impariamo a guidare l’automobile: la successione dei vari step porta all’automatizzazione del processo e al raggiungimento dello scopo.

 

Job Satisfaction

La Job Satisfaction si riferisce alla soddisfazione lavorativa. Si intende la misura in cui le persone si sentono realizzate nello svolgere il proprio lavoro, rispetto al quale sviluppano emozioni positive. Studi e osservazioni hanno dimostrato che un basso livello di job satisfaction può causare turnover, ritardi, assenteismo e problemi di salute mentale. La scala che misura l’intensità della soddisfazione sul posto di lavoro (Hackman, Oldham 1980) aiuta ad esplicitare i cinque aspetti di questo concetto che sono:

  • Retribuzione
  • Sicurezza sul posto di lavoro
  • Rapporti sociali
  • Supervisione
  • Crescita personale

Nonostante la job satisfaction a prima vista sembra suggerire prestazioni efficaci sul lavoro, molti studi hanno dimostrato che non esiste una relazione lineare tra le due dimensioni. Questo perché vi sono atteggiamenti di carattere complessivo che permettono di prevedere macrocomportamenti, laddove atteggiamenti specifici sono correlati a comportamenti specifici. Inoltre ulteriori studi hanno dimostrato che, globalmente parlando, la job satisfaction è positivamente correlata con la performance dell’intera azienda. Un’azienda con dipendenti soddisfatti tende a lavorare meglio e produrre di più. Lo stesso concetto vale per quei dipendenti che lavorano con i clienti, per cui è importante essere soddisfatti per un servizio ricevuto.

La job satisfaction, quando alta e positiva, fornisce un rientro in termini di valore sociale aggiunto e anche economico. Infatti, la perdita di un dipendente, per un’azienda, rappresenta un costo aggiuntivo nel momento in cui viene assunto un nuovo dipendente.

 

Organizational Committment

L’Organizational Committment è un concetto che sta per identificazione. Si intende l’intensità con cui un dipendente si sente coinvolto nell’azienda e si identifica con essa. Una forte organizational committment si manifesta con accettazione dei valori e degli obiettivi aziendali, associati al desiderio di realizzarli. I dipendenti che hanno una forte identificazione con l’azienda per cui lavorano affermano ‘noi fabbrichiamo prodotti di alta qualità’, mentre chi non si sente veramente parte di essa tende a rivolgersi in terza persona ‘loro non offrono un servizio di qualità‘.

Questo atteggiamento, quando positivo, si correla con la tendenza a rimanere in azienda per un tempo più lungo e ad una maggior efficacia della prestazione. Il concetto di organizational committment è un concetto più ampio rispetto a quello di job satisfaction perché fa riferimento all’intera azienda e non riguarda solo il lavoro svolto dal dipendente.

Inoltre il committment iniziale è connesso alle caratteristiche individuali (personalità e attitudini) del lavoratore o del manager, quindi può variare da persona a persona. Con il passare del tempo, se la persona continua a esperire buoni rapporti con i colleghi, buone condizioni lavorative (sia fisiche, che logistiche e psicologiche) e buone prospettive di avanzamento, l’organizational committment tende a rafforzarsi perché:

  • I dipendenti rafforzano i rapporti con i colleghi e con l’azienda
  • L’anzianità aziendale permette di sviluppare atteggiamenti verso il lavoro più positivi
  • Con l’età, le opportunità di lavoro offerte dal mercato possono diminuire, cosi che i lavoratori tendono a rimanere in azienda più a lungo

 

Tutti questi atteggiamenti verso il lavoro, insieme a molti altri semanticamente appartenenti alla psicologia del lavoro e del comportamento organizzativo come l’intelligenza emotiva, la motivazione, la leadership, la gestione del conflitto ecc., determinano ciò che viene chiamato clima psicologico (e organizzativo) dell’azienda.

Un’analisi accurata del clima che si respira in azienda permette al management di rilevare il livello di soddisfazione/insoddisfazione diffuso, rilevare eventuali disagi e cause collegate, fotografare le reazioni dei dipendenti rispetto a un evento o un fatto aziendale. Ma non solo, anche i sistemi di comunicazione, lo stile di direzione, la chiarezza della struttura e dei ruoli, i risultati perseguiti dall’organizzazione.

L’Effetto Pigmalione di Rosenthal e Jacobson – I Grandi esperimenti di psicologia nr. 4

Effetto Pigmalione: vi presentiamo una serie di articoli relativi ai più grandi esperimenti in ambito sociologico e psicologico. Per fare ciò abbiamo cercato di risalire alle fonti originarie, ai primi articoli divulgati dagli autori. In questo modo sarà più facile vivere le loro scoperte a partire dalle loro stesse ipotesi e respirare un’aria in cui, liberi (purtroppo) da vincoli etici, tutto era possibile in nome della scienza.

 

#4: L’ Effetto Pigmalione di Rosenthal & Jacobson (1965)

Nel 1965, Robert Rosenthal (professore di Psicologia Sociale ad Harvard) e Lenore Jacobson (maestra di scuola elementare a San Francisco) decidono di studiare l’effetto dell’aspettativa dell’insegnante sul rendimento degli alunni. Voci narrano che l’idea derivi dal famoso caso Clever Hans, un cavallo che nei primi del ‘900 si diceva avesse la capacità di risolvere problemi matematici. In realtà lo psicologo Oskar Pfungst viene chiamato a studiare il comportamento del cavallo e spiega, in un lavoro del 1907, che l’animale non è realmente in grado di contare, ma utilizza i segnali corporei del suo addestratore, seppur non volontariamente attuati, per tentare di azzeccare l’opzione corretta.

I due studiosi si chiedono se ci possa essere un effetto simile anche nel genere umano e se, ad esempio, dei bambini sarebbero stati tanto sensibili quanto il furbo cavallo nell’avvertire alcune aspettative su di sé. L’ambiente più facile per indagare questa ipotesi è quello scolastico, dove ad esempio il ruolo dell’addestratore può essere rivestito dagli insegnanti. È così che i ricercatori tentano di rispondere alla loro domanda e di verificare se l’effetto aspettativa, effetto Pigmalione,  può essere più rilevante della classe frequentata, delle abilità di partenza, del sesso o dell’appartenenza a una minoranza.

L’esperimento dell’ effetto Pigmalione

Rosenthal e Jacobson comunicano a diversi insegnanti il nome di alcuni bambini della classe che hanno ottenuto punteggi elevati all’Harvard test of Inflected Acquisition. In realtà questo test non esiste e i nomi sono stati scelti in maniera casuale. Misurano il QI di ciascuna classe in cui viene proposto lo studio e lasciano che il tempo e le aspettative dell’insegnante facciano il loro dovere. L’anno dopo, ripropongono ai bambini il test del QI.

In media, gli studenti indicati come promettenti migliorano il loro QI di 4 punti in più rispetto al resto della classe: questo miglioramento tuttavia non è statisticamente significativo, potrebbe essere solamente dettato dal caso. Ma analizzando solo i bambini dei primi due anni di scuola la situazione cambia notevolmente: gli studenti giudicati promettenti all’interno della prima classe, in particolare, mostrano di superare i compagni di oltre 15 punti. Un altro dato interessante è che i risultati migliori appaiono nelle prove di ragionamento, mentre le prove di carattere verbale tendono a omologare la classe. Anche il sesso sembra avere un certo peso nel raggiungimento di punteggi più alti: in particolare, le femmine mostrano miglioramenti maggiori nelle prove di ragionamento, mentre i maschi migliorano di più in quelle verbali. Infine, i bambini appartenenti a minoranze sono più avvantaggiati dall’avere aspettative positive nei loro confronti rispetto agli altri: a detta degli studiosi, questo dato potrebbe essere spiegato dal fatto che gli insegnanti si aspettano solitamente prestazioni peggiori da questo gruppo di studenti.

Effetto pigmailone: i risultati dell’esperimento

I risultati mostrano come le aspettative verso il comportamento dell’altro possono essere profezie che si auto-avverano. Perché ciò avviene in misura maggiore nelle classi più giovani? I ricercatori avanzano delle ipotesi. In primo luogo, i bambini più piccoli sono maggiormente plasmabili e flessibili, come già dimostrato alcuni anni prima. Ma è anche vero che i bambini più piccoli sono meno “etichettati”, non hanno ancora una chiara reputazione e questo aiuterebbe gli insegnanti ad avere più fiducia nelle loro capacità. Ma potrebbe essere anche una combinazione dei due fattori: gli insegnanti potrebbero credere che bambini più piccoli siano più flessibili. O ancora, gli alunni più giovani potrebbero essere più sensibili a segnali di manifestazione delle aspettative nei loro confronti e quindi essere più simili al cavallo Clever Hans.

Oppure la differenza la fanno gli insegnanti coinvolti e su questo punto alziamo le mani e ci fermiamo: gli autori non hanno studiato la variabile “insegnante”, quindi può darsi che semplicemente le insegnanti di quei primi due anni avessero un particolare atteggiamento verso gli scolari. Non lo scopriremo mai, ma di certo avere come insegnante una persona che crede positivamente in te migliora le noiose ore di scuola, ora come negli anni ‘60.

 

Effetto pigmalione: video

 

Terapia Assistita con gli animali: una nuova esperienza al carcere di San Vittore

Lavorare affiancati da un cane, ci spinge a un miglioramento del saper essere piuttosto che del saper fare e i risultati si misurano su rilassamento e divertimento.

Silvia Carlini

 

La Terapia Assistita con gli Animali (TAA) in carcere è un’esperienza diffusa negli USA e anche sul territorio nazionale ma, un’attività all’interno del reparto psichiatrico del carcere di San Vittore, è un’esperienza unica in Europa che ci permette di sviluppare al massimo le potenzialità del ruolo animale a confronto con i problemi psichiatrici.

L’esperienza affiancata e supportata dal team psichiatrico del carcere ci porta ogni settimana a confrontarci con un piccolo gruppo scelto che ha poche affinità ma proprio grazie all’inserimento del cane, sta sviluppando collaborazione e socializzazione.

L’ostacolo linguistico (sono stranieri) viene superato dalla voglia di relazionarsi ed entrare in contatto con il cane semplicemente perché l’animale nel ruolo di mediatore, conduce le emozioni direttamente al corpo, quindi all’azione, senza che prima vengano elaborate a livello razionale, senza che l’emozione passi attraverso il pensiero e ad un’analisi a livello cognitivo.

Allora ecco che prima dell’incontro settimanale i detenuti aiutano a preparare la stanza che li accoglierà; durante l’attività c’è chi prova a improvvisarsi interprete a vantaggio dei compagni e, senza conflitti o rivalità, si lavora come un gruppo coeso.

L’esperienza mediata dal cane, ci permette di riconoscere meglio le nostre emozioni, che influiscono sul nostro modo di interpretare la realtà determinando il nostro agire, dandoci la possibilità di migliorare noi stessi e i nostri rapporti interpersonali proprio perché al centro del rapporto c’è la relazione e non la prestazione.

Lavorare affiancati da un cane, ci spinge a un miglioramento del saper essere piuttosto che del saper fare e i risultati si misurano su rilassamento e divertimento.

Attraverso il rapporto con gli animali s’intende ancora promuovere una ‘rieducazione affettiva’ dei carcerati, abituandoli nuovamente a prendersi cura di qualcuno attraverso una serie di gesti semplici come dargli da bere, dei premietti da mangiare o spazzolarli. Con le attività dedicate all’accudimento degli animali si raggiunge la dimensione epimeletica per il rafforzamento dell’autostima, fortificare la pro-socialità e sviluppare l’empatia.

Quando gli ospiti ammirano gli esercizi di un cane, questa fase estetica, ha un forte effetto decentrativo, diminuisce la chiusura in se stessi e l’ossessività; con le Terapie Assistite con gli Animali, si combatte il senso di solitudine e gli episodi di violenza e di autolesionismo.

Un progetto pilota al carcere di San Vittore che consentirà, grazie al monitoraggio delle attività, di avere degli importanti riscontri sul rapporto tra animali e pazienti psichiatrici in reclusione.

 

Il cervello degli adolescenti: ciò che è necessario sapere per aiutare a crescere i nostri figli (2015) – Recensione

Cervello degli adolescenti: Nell’ultimo decennio la neurofisiologia e le neuroscienze hanno mostrato come, a fronte di una rivoluzione ormonale e di un sistema limbico – sede dell’integrazione delle emozioni e delle esperienze – sovraccarico e immaturo, i lobi frontali – necessari per soppesare le azioni, giudicare i comportamenti e prendere decisioni – siano l’ultima regione a svilupparsi e a connettersi con le restanti aree cerebrali.

Eleonora Minacapelli, OPEN SCHOOL STUDI COGNITIVI 

Introduzione

[blockquote style=”1″]«Voglio farmi delle mèche rosse» buttò lì con nonchalance. Rimasi di sasso. «È davvero il mio bambino?» pensai.[/blockquote]

È così, con sguardo di madre e di neurologa affermata, che Frances E. Jensen affronta il tema del cervello degli adolescenti. Dopo essersi imbattuta nel ruolo di genitore di due figli teenager e aver a lungo studiato i processi di sviluppo del cervello umano, l’autrice dà sfogo all’inchiostro del suo sapere scrivendo un libro utile alla famiglia e al professionista alle prime esperienze.

Quale genitore faccia a faccia con un figlio quattordicenne non ha assistito a improvvisi malumori, scoppi di rabbia o momenti d’incontenibile espansività ed euforia? Solitamente la causa di tutto ciò viene concordemente attribuita a una generale immaturità dei ragazzi adolescenti, intesa in primis come una mancanza di esperienza nella vita. Jensen ci mostra, invece, come il cervello degli adolescenti, sia di fatto diverso da quello adulto, sia nella sua connettività, sia nella sua funzionalità, spiegando così gran parte dei comportamenti bizzarri o sconclusionati che spesso siamo soliti vedere in questi ragazzi.

[blockquote style=”1″]Gli adolescenti hanno un’incredibile capacità di apprendimento e potranno anche sembrare adulti e pensare sotto molti profili come degli adulti, ma è di cruciale importanza sapere che cosa non sono in grado di fare, insomma quali sono i loro limiti cognitivi, emotivi e comportamentali.[/blockquote]

 

Il cervello degli adolescenti e quello adulto

Nell’ultimo decennio la neurofisiologia e le neuroscienze hanno mostrato come, a fronte di una rivoluzione ormonale e di un sistema limbico – sede dell’integrazione delle emozioni e delle esperienze – sovraccarico e immaturo, i lobi frontali – necessari per soppesare le azioni, giudicare i comportamenti e prendere decisioni – siano l’ultima regione a svilupparsi e a connettersi con le restanti aree cerebrali. La connettività, infatti, si sposta lentamente dalla parte posteriore a quella anteriore dell’encefalo, cablandosi a partire dalle strutture che mediano le nostre interazioni con l’ambiente e regolano i nostri processi sensoriali, fino ad arrivare solo in un secondo momento alle funzioni psichiche superiori.

Questo rende già l’idea di come gli attimi d’irritazione e “isteria” spesso rilevati tra gli adolescenti, siano da attribuire non solo ad un fattore ormonale, ma soprattutto ad un’attività immatura delle strutture deputate al supporto dell’emotività, cui si associa un’assenza di controllo inibitorio da parte delle aree più evolute del nostro cervello. Se, infatti, fino a qualche tempo fa la variabilità emotiva era attribuita unicamente a fattori ormonali, questa, spiega l’autrice, si configura oggi come una credenza da sfatare, poiché i livelli ormonali dei ragazzi e degli adulti non differiscono poi così sensibilmente tra loro, cosa non altrettanto vera per i loro processi di controllo.

Scendendo a un livello microscopico, se alla nascita il nostro cervello è fornito già di quasi tutti i neuroni che ci serviranno per la vita, ciò non è altrettanto vero per le sinapsi, strutture di connessione tra neuroni, che continueranno a prodursi con l’esperienza e l’apprendimento. È così che pian piano si creerà un ispessimento della sostanza grigia, evidente proprio in età adolescenziale, capace di rendere i ragazzi particolarmente rapidi nell’imparare cose nuove. Allo stesso tempo, tuttavia, tale profusione di materia cerebrale causerà una sorta di dissonanza cognitiva, per cui il cervello stenterà a captare i segnali giusti in mezzo al generale rumore di fondo. Uno degli effetti di tale confusione è, ad esempio, una peggiore prestazione degli adolescenti rispetto ai bambini nei compiti di “go-no-go” (inibizione della risposta automatica), suggerendo come gli adolescenti impieghino più tempo a capire quando non fare una cosa! Via via che il corpo cresce, l’encefalo attuerà così uno “sfoltimento” delle proprie connessioni, chiamato pruning sinaptico, che porterà all’ottimizzazione comunicativa tipica dell’età adulta.

 

Il cervello degli adolescenti, le dipendenze patologiche e il disagio psichico

Partendo dalla neurofisiologia e dalla neurobiologia, Jensen approda dunque a una serie di temi caldi per i genitori di figli adolescenti, spiegando il rapporto tra il cervello degli adolescenti e il sonno, il tabacco, l’alcol, l’erba, le droghe pesanti, fino ad arrivare alla malattia mentale. Spiega come la privazione di sonno in questi ragazzi comporti un’inibizione del pruning sinaptico, causando una difficoltà nell’organizzare le informazioni in base alle priorità. Spiega come il mondo odierno tenda a esporre i giovani a rischi maggiori rispetto a qualsiasi altro periodo storico per il solo fatto di avere una comunicazione facilitata attraverso l’uso di Internet e dei media in genere.

Tale libertà, commenta, mal si accompagna alla difficoltà di ponderare costi/benefici e di resistere alla gratificazione, capacità sviluppate più tardi nella crescita. Affronta il tema delle dipendenze e delle differenti capacità di liberarsi dall’abuso di sostanze in base allo step di sviluppo raggiunto al momento del primo contatto con esse. Aggiunge informazioni sulle conseguenze cognitive, emotive e comportamentali emergenti dal contatto ripetuto o una tantum con sostanze stupefacenti, ma non solo. Suggerisce quindi delle linee guida per distinguere tra i normali cambiamenti d’umore tipici di quest’età e i campanelli di allarme del disagio psichico, dai sintomi ansiosi e depressivi agli esordi psicotici. Una carrellata, insomma, di conoscenze utili a comprendere come i tipi di segnali e stimoli presenti durante lo sviluppo influenzino sensibilmente il modo di funzionare del cervello nei successivi anni di vita, ponendo anche uno sguardo sulle differenze di genere.

Jensen aggiunge, infine, un’interessante sezione sugli effetti traumatici degli sport da contatto e sui disturbi della condotta che portano al coinvolgimento giudiziario, facendoci vivere dall’interno dell’encefalo una partita di football e una rapina a mano armata.

 

Conclusioni

Il libro si conclude, quindi, con un capitolo dedicato alla post-adolescenza e cioè alla giovane età adulta, osservando, come già fatto da Daniel Siegel nel suo libro “La mente adolescente”, che lo sviluppo cognitivo continui anche dopo il raggiungimento della maggiore età e stimolando noi tutti a una riflessione in tal senso, soprattutto in termini giuridici e di responsabilizzazione sociale.

Una lettura utile a chi è privo di conoscenze sulle neuroscienze in genere e sullo sviluppo adolescenziale in particolare. Da utilizzare per piacere o in contesto di sostegno psicologico e psicoterapeutico per il training della coppia genitoriale. Nota forse dolente: qualche suggerimento opinabile sugli stili educativi da adottare. Le linee guida dell’autrice, infatti, sebbene spesso basate sui risultati di ricerche scientifiche internazionali, lasciano, talvolta, trasparire una dose d’influenza autobiografica, non del tutto scevra da una quota di giudizio personale. D’altra parte, però, quale mamma impegnata a parlare di figli non farebbe altrettanto?

Il digiunatore da circo del cinquecento – Storia dei disturbi alimentari

A partire dal Cinquecento i casi di digiuno prolungato furono vissuti sempre più come manifestazioni strambe e sensazionali, con una trasformazione graduale dell’epifania sacra in stravagante fenomeno da circo.

MAGREZZA NON E’ BELLEZZA – I DISTURBI ALIMENTARI: Digiunatori da Circo (Nr.4)

 

Il digiuno prolungato tra frode e spettacolo

Tra le sante digiunatrici e le moderne ragazze anoressiche c’è stato un intermezzo in cui l’astensione dal cibo, venuto meno il significato religioso medievale, assunse il senso di spettacolo da fiera paesana. Come scrivono Vandereycken e van Deth (1994), il processo di secolarizzazione rese meno credibile il valore sacro del digiuno, il suo essere segno di santità, mentre lo sviluppo della scienza medica ne faceva un problema di salute. Il sentimento del sacro fu sostituito dalla meraviglia unita al sospetto dubbioso.

A partire dal Cinquecento i casi di digiuno prolungato furono vissuti sempre più come manifestazioni strambe e sensazionali, con una trasformazione graduale dell’epifania sacra in stravagante fenomeno da circo, passando per la possessione diabolica e per la vera e propria frode. Abbiamo così i tre anni di digiuno totale di Jeanne Balam in Francia (1599); i dieci anni di astinenza alimentare di Apollonia Schreier in Svizzera (1611); i tredici mesi di digiuno della diciannovenne Martha Taylor in Inghilterra (1667); gli anni di restrizione nutritiva – un cucchiaio di latte al giorno, con un pezzetto di pane e burro grande come una moneta – di Mary Vaugthton alla fine del Seicento, ancora in Inghilterra; fino ai quarant’anni di digiuno della tedesca Maria Furtner fino alla morte, avvenuta nel 1884.

Queste fanciulle digiunatrici erano visitate da dignitari e potenti, con offerte di denaro e doni di vario genere, di cui beneficiava non solo la fanciulla, ma anche la comunità che la ospitava. Non mancavano, però, i controlli da parte di medici illustri ed esperti di vario tipo, che a volte confermavano il digiuno, altre volte scoprivano la truffa.

Nel 1813 Ann Moore, diventata così celebre da accumulare una fortuna di 400 sterline (per l’epoca una somma enorme), fu smascherata. Ann riusciva a nutrirsi da una salvietta intrisa di sugo di carne. Nel 1736, in Olanda, era stata scoperta la simulazione di Anna Maria Eeltiens, che venne condannata a un’ora di gogna davanti alla chiesa del paese con la scritta ‘pubblico impostore’.

 

Scheletri viventi e artisti della fame: la desacralizzazione del digiuno

La scoperta di queste frodi rappresentava la prova della desacralizzazione del digiuno. Nell’Ottocento questi fenomeni vennero sempre più trattati e descritti come simulazioni isteriche. Ma tra di essi c’erano anche i primi casi di anoressia.

Tipico dell’Ottocento fu il fenomeno degli scheletri viventi e degli artisti della fame. A partire dal Settecento, si registrano casi di ragazze (ma anche individui di sesso maschile) che si esibiscono mostrando la loro – reale o simulata – capacità di sopravvivere senza mangiare.

Questi artisti esibivano il proprio corpo emaciato nelle fiere di paese e nei circhi. Questo tipo di spettacoli rimase popolare fino alla fine dell’Ottocento. Una delle descrizioni più note di questi artisti da circo si trova in una novella di Kafka, ‘Ein Hungerkünstler’ (letteralmente, un artista della fame, che in italiano è stata tradotta con ‘Un digiunatore‘).

Kafka la scrisse nel 1922, quando la passione popolare per i digiunatori si era ormai affievolita (il racconto inizia proprio con le parole: ‘In questi ultimi decenni l’interesse pei digiunatori è molto diminuito‘).

RUBRICA MAGREZZA NON E’ BELLEZZA – I DISTURBI ALIMENTARI

 

Franz Kafka, Un digiunatore (1922)

In questi ultimi decenni l’interesse pei digiunatori è molto diminuito. Mentre prima meritava metter su spettacoli di questo genere per proprio conto, oggi sarebbe assolutamente impossibile. Erano altri tempi quelli. Tutta la città si occupava allora del digiunatore; a ogni giorno di digiuno aumentava l’interesse del pubblico; tutti volevano vedere il digiunatore, almeno una volta al giorno; e negli ultimi giorni c’erano perfino degli abbonati che sedevano intere giornate davanti alla sua piccola gabbia; anche di notte avevano luogo delle visite alla luce delle fiaccole, per aumentare l’effetto; quando il tempo era bello la gabbia veniva trasportata all’aperto, e allora erano specialmente i bambini a cui veniva mostrato il digiunatore; mentre per gli adulti costituiva spesso solo uno spasso, a cui si partecipava perché era di moda, i bimbi lo guardavano ammirati a bocca aperta, tenendosi per precauzione per la mano, mentre egli, pallido, nella sua maglia nera, con le costole esageratamente sporgenti, sdegnando perfino una poltrona, se ne stava seduto sopra paglia sparsa qua e là, facendo a volte un cenno cortese con la testa, a volte rispondendo alle domande con un sorriso sforzato o allungando un braccio attraverso le sbarre per far palpare la sua magrezza; e finiva poi per sprofondarsi in se stesso senza occuparsi più di nessuno, neppure del battito dell’orologio – così importante per lui – unico mobile della sua gabbia, per guardare fissamente cogli occhi semichiusi dinanzi a sé, succhiando di quando in quando un sorso d’acqua da un minuscolo bicchierino, per inumidirsi le labbra.

Oltre agli spettatori consueti e mutevoli c’erano anche dei guardiani fissi, scelti dal pubblico, che per una strana coincidenza eran di solito macellai e, sempre a tre per volta, avevan il compito di sorvegliare il digiunatore giorno e notte, perché, clandestinamente, non riuscisse a nutrirsi in qualche modo. Ma era solo una formalità, adottata per tranquillità della folla, poiché gli iniziati sapevano bene che il digiunatore, durante il periodo, non avrebbe toccato nessuna qualità di cibo, a nessun costo, neppure se vi fosse stato costretto; lo impediva il rispetto verso la sua arte. Ma naturalmente, non tutti i guardiani potevano intendere ciò; a volte si formavano dei gruppi di sorveglianti notturni che compivano il loro dovere molto superficialmente, si ritiravano di proposito in un cantuccio lontano, per darsi tutti a giuocar a carte, con l’intenzione evidente di dare al digiunatore il modo di fare un piccolo spuntino che, a loro parere, avrebbe potuto consumare ricorrendo a qualche segreta riserva. Per il digiunatore nulla era più penoso di questi guardiani; lo facevano diventare melanconico, gli rendevano terribilmente difficile il digiuno; a volte riusciva a vincere la sua debolezza e cantava durante la veglia finché aveva fiato, per mostrar a quella gente quanto ingiustamente sospettavano di lui, ma serviva a poco, perché quelli invece lo ammiravano per la sua abilità di mangiare perfino mentre cantava. Preferiva di molto quei guardiani che si sedevano proprio vicino alla gabbia e, non contenti della fioca illuminazione notturna della sala, lo illuminavano con lampadine elettriche tascabili, che l’impresario metteva a loro disposizione. Quella luce cruda non lo disturbava per nulla; tanto, dormire non poteva, mentre gli riusciva di appisolarsi un poco sempre, con qualsiasi illuminazione e a qualsiasi ora, anche se la sala era piena di gente e di fracasso; egli era dispostissimo a passare la notte con quei guardiani senza dormire mai; era pronto a scherzare con loro, a raccontare loro qualche storia della sua vita errante, ad ascoltare a sua volta i loro racconti, e tutto soltanto per tenerli svegli, per convincerli continuamente che non c’era nulla da mangiare nella gabbia e che egli digiunava come nessuno di loro avrebbe potuto fare. La sua felicità toccava il colmo, però, quando faceva giorno e, a sue spese, veniva portata loro un’abbondantissima colazione, su cui si gettavano con l’appetito proprio delle persone sane dopo una faticosa veglia notturna. C’era, è vero, della gente che vedeva in questa colazione una scandalosa circonvenzione dei guardiani da parte sua, ma era un andar troppo oltre, e quando si chiedeva a quelle persone, se fossero disposte ad assumersi la veglia notturna senza colazione, per andare in fondo alla cosa, si dileguavano, pur restando fedeli ai loro sospetti.

Questo d’altronde faceva parte di quei sospetti che circondavano comunque l’arte del digiuno. Nessuno infatti, era in condizione di passar tutti quei giorni e quelle notti ininterrottamente come guardiano accanto al digiunatore, e nessuno dunque poteva sapere, per propria esperienza, se il digiuno veniva osservato davvero senza interruzioni, in maniera assoluta; solo il digiunatore in persona era in grado di saperlo e di essere così anche lo spettatore pienamente soddisfatto del suo digiuno. Egli invece non era soddisfatto mai, per un’altra ragione: forse non era dimagrito per il digiuno – tantoché alcune persone, pur dolenti, erano costrette a rinunciare a quello spettacolo perché non sopportavano la sua vista – ma piuttosto perché non era soddisfatto di sé. Egli solo sapeva – e nessuno iniziato lo sospettava – quanto fosse facile il digiunare. Era la cosa più facile del mondo. Non lo nascondeva neanche, ma non gli si prestava fede e, nel migliore dei casi, lo si riteneva modesto, più spesso avido di pubblicità o addirittura un imbroglione, a cui il digiunare certo era facile, perché sapeva renderselo tale, e aveva anche la faccia tosta di lasciarlo intendere. Tutto questo ormai l’aveva dovuto sopportare, e nel corso degli anni ci s’era perfino abituato, ma nell’intimo questo malcontento lo rodeva sempre, tant’è vero che mai, dopo nessun periodo di digiuno – questa testimonianza non gli si poteva negare – aveva lasciato la gabbia spontaneamente. Come termine massimo del digiuno l’impresario aveva fissato quaranta giorni, non gli permetteva di superare mai quel limite, neppure nelle metropoli… e non senza ragione. L’esperienza insegnava che sino a quaranta giorni si poteva aumentare gradatamente l’attenzione di una città con una pubblicità sempre più intensa; più a lungo il pubblico non rispondeva più; si notava una sensibile diminuzione dell’affluenza; c’era naturalmente qualche divario, sotto quest’aspetto, tra un paese, tra una città e l’altra, ma la regola era che quaranta giorni costituissero il limite massimo. Il quarantesimo giorno la porta della gabbia inghirlandata veniva aperta, una folla di spettatori entusiasmati gremiva l’anfiteatro, una banda militare suonava, due medici entravano nella gabbia per fare le misurazioni di rito al digiunatore, con un megafono venivano diffusi tra la gente i risultati dell’esame medico, e finalmente arrivavano due giovani signore, felici di esser state designate dalla sorte, per aiutare il digiunatore a uscire dalla gabbia, scendere due scalini e arrivare sino al tavolino ove era imbandito un pranzo da malati, preparato con cura. A questo punto il digiunatore si ribellava sempre. Porgeva di buon grado, sì, le braccia scheletriche alle signore chine su di lui, che gli tendevano le mani pronte per aiutarlo, ma non si voleva alzare. Perché smettere il digiuno proprio ora, dopo quaranta giorni? Avrebbe resistito ancora a lungo per un tempo illimitato; perché farlo smettere proprio ora ch’era nel punto culminante del digiuno, anzi non c’era ancora arrivato? Perché defraudarlo della gloria di continuare ancora a digiunare, di diventare non solo il più grande digiunatore di tutti i tempi – questo, forse, lo era già – ma di superare perfino se stesso sino a un punto incredibile, perché sentiva che le sue possibilità di digiunare erano addirittura illimitate? Perché quella folla che dimostrava di ammirarlo tanto, aveva tanta poca pazienza con lui? Se resisteva lui a digiunare ancora, perché non voleva resister lei? E levava lo sguardo verso gli occhi di quelle signore, apparentemente così gentili, in realtà così crudeli, scuotendo la testa troppo pesante per il suo debole collo. E poi era stanco, se ne stava bene lì nella paglia e doveva invece rizzarsi in tutta la sua lunghezza, per andare verso quel cibo, il cui solo pensiero gli procurava una nausea, che solo per riguardo alle signore cercava faticosamente di soffocare. Ma poi avveniva quel che capitava sempre. Interveniva l’impresario e senza dir una parola – la musica non permetteva di scambiarne neppure due – levava le braccia sul digiunatore, come se invitasse il cielo a guardare una buona volta sulla paglia la sua opera, quel povero martire – e questo il digiunatore lo era, ma in tutt’altro senso, – afferrava il poveretto per la esile vita, facendo credere, con un eccesso di precauzione, di aver a che fare con un oggetto molto fragile, per consegnarlo poi – non senza averlo di nascosto scosso un poco, facendogli così oscillare in qua e in là senza controllo le gambe e il busto – alle signore, che erano intanto mortalmente impallidite. Da quel momento il digiunatore tollerava tutto; la testa pendeva sul petto, come se fosse rotolata lì per caso, fermandosi per una qualche ragione inspiegabile; il corpo era tutto incavato; le gambe con le ginocchia serrate per istinto di conservazione, raspavano il suolo come se non fosse quello vero, ma lo stessero, a quel modo, soltanto cercando; e tutto il peso, per quanto modesto del suo corpo, gravava sopra una delle signore, che, cercando aiuto intorno e tutta ansimante – non s’era certo immaginata così quell’incarico onorifico – prima allungava il collo quanto era possibile, per preservare il viso dal contatto col digiunatore, ma poi, vedendo che non ci riusciva e che la sua più fortunata collega, non le veniva in soccorso, ma si contentava di reggere tremando davanti a sé la mano del digiunatore – un mucchietto d’ossa – scoppiava in lacrime tra le risate di soddisfazione della sala, per venir subito sostituita da un inserviente pronto già da tempo. Poi veniva il pasto, di cui l’impresario faceva ingerire qualche boccone al digiunatore caduto in un dormiveglia simile a un deliquio, mentre parlava allegramente, per distrarre l’attenzione del pubblico dallo stato pietoso in cui il poveretto si trovava; poi veniva ancora un brindisi al pubblico e l’impresario dava a intendere che glielo aveva sussurrato il digiunatore stesso; la banda sottolineava tutto con una rumorosa fanfara finale, la folla si disperdeva e nessuno aveva più diritto di essere scontento dello spettacolo, tranne il digiunatore, lui soltanto sempre.

Così aveva vissuto per molti anni con brevi e regolari intervalli di riposo, in mezzo a un apparente benessere, rispettato dal mondo, eppur quasi sempre immerso in una cupa malinconia, che diveniva sempre più cupa perché nessuno riusciva a prenderla sul serio. E come, d’altronde, consolarlo? Che poteva ancora desiderare? E se per caso capitava una volta una persona di buon cuore, che lo compativa e gli voleva spiegare come quella malinconia probabilmente venisse dal digiuno, poteva anche accadere, specie quando il digiuno era già molto lungo, che il digiunatore rispondesse con un impeto di furore e, tra lo spavento di tutti, si mettesse a scuotere le sbarre della gabbia come una bestia. Ma in casi simili l’impresario ricorreva a una punizione, che usava di preferenza. Scusava il digiunatore dinanzi al pubblico radunato, ammetteva che si poteva perdonare il contegno del digiunatore solo pensando a un’irascibilità, provocata dalla fame, e solo difficilmente immaginabile da chi era sazio; veniva poi, come di conseguenza, a parlare, per spiegarla nello stesso senso, dell’asserzione del digiunatore di poter prolungare il digiuno molto più di quel che già non facesse; lodava il nobile intento, la buona volontà, la grande abnegazione, contenuti certo anche in questa asserzione; ma tentava poi subito di svalutarla mostrando semplicemente delle fotografie, subito messe in vendita, in cui si vedeva il digiunatore giunto al quarantesimo giorno, in un letto, quasi esausto dalla debolezza. Questa maniera di storcere la verità, per quanto ben nota al digiunatore, riusciva pur sempre a snervarlo ogni volta ed era veramente troppo per lui. Quello che era la conseguenza di un’anticipata fine del digiuno, veniva presentata qui come la causa! Era impossibile lottare contro una simile incomprensione, contro questa universale incomprensione. Ogni volta era rimasto ad ascoltare ansiosamente e fiducioso, attaccato alle sbarre, l’impresario, ma quando comparivano le fotografie, abbandonava ogni volta la gabbia per ricadere con un sospiro sulla paglia, mente il pubblico tranquillizzato poteva riavvicinarsi e guardarlo.

I testimoni di queste scene, quando ci ripensavano qualche anno dopo, non riuscivano quasi più a comprender se stessi, perché nel frattempo era intervenuto quel mutamento cui s’è già accennato; ed era sopraggiunto quasi d’improvviso; ci sarà stata certo qualche ragione profonda; ma chi si prendeva la briga di andar a cercarla? Comunque un bel giorno il digiunatore, così viziato dal pubblico, si vide abbandonato dalla folla desiderosa di divertirsi, che affluiva ormai ad altri spettacoli. Un’ultima volta l’impresario se lo trascinò dietro in fretta per mezza Europa, per vedere se qua e là non rispuntasse l’antico entusiasmo; ma tutto fu vano; come per una segreta intesa si era destata una vera avversione per il digiuno come spettacolo. Naturalmente questo fenomeno non s’era potuto verificare in realtà da un momento all’altro e ora tornavano in mente, in ritardo, alcuni segni precursori di cui, a suo tempo, nell’ebbrezza del successo, non s’era tenuto abbastanza conto, né sufficientemente ostacolata l’apparizione; ma era troppo tardi ormai per combatterli in qualche modo. Era bensì certo che sarebbe tornato un giorno l’ora fortunata del digiuno, ma non era sufficiente conforto per quelli che vivevano allora. Cosa doveva fare il digiunatore? Uno, che s’era visto acclamare da migliaia di persone, non poteva esibirsi nei baracconi delle piccole fiere di campagna; per mettersi a fare un altro mestiere il digiunatore non solo era troppo vecchio, ma soprattutto troppo fanaticamente attaccato alla sua arte. Così egli congedò l’impresario, compagno di una carriera senza pari, e subito si fece scritturare da un gran circo; per riguardo alla sua suscettibilità non volle neppure vedere le clausole del contratto.

Un gran circo con quella marea di persone, di animali e di arnesi, che si equilibrano e si completano l’un con l’altro, può sempre utilizzare chicchessia, in qualunque momento, anche un digiunatore, naturalmente purché abbia pretese relativamente modeste; inoltre, in questo caso particolare, non era soltanto lui a essere scritturato, ma anche il suo nome da tempo ormai celebre; anzi per la singolarità di quest’arte, che con l’aumentare degli anni non soffriva diminuzioni, non si poteva neanche dire che in questo caso un artista ormai invecchiato, non più nel pieno splendore dei suoi mezzi, si fosse rifugiato nel tranquillo impiego di un circo, ché anzi il digiunatore assicurava, e gli si poteva credere, che avrebbe continuato a digiunare come prima; affermava persino che, se lo lasciavano fare – e gli fu promesso senz’altro – avrebbe proprio ora stupito il mondo e con ragione; un’asserzione, questa, che, considerando l’umore del tempo – e il digiunatore nel suo entusiasmo se ne dimenticava facilmente – suscitava nella gente del mestiere solo un sorriso.

In fondo anche il digiunatore s’era reso conto del reale stato delle cose e considerò quindi naturale che non lo si mettesse con la sua gabbia nel mezzo della pista, come un numero sensazionale, ma fuori, in un posto del resto comodamente accessibile, in vicinanza delle stalle. Grandi cartelli variopinti incorniciavano la gabbia, spiegando al pubblico cosa c’era da vedere in quel luogo. Quando, durante le pause dello spettacolo, la gente s’affollava verso le stalle per vedere le bestie, era quasi inevitabile che passasse davanti al digiunatore e si soffermasse un attimo davanti a lui; forse c’era chi si sarebbe trattenuto ancora più a lungo se non ci fossero stati, nello stretto corridoio, quelli che venivano dietro e non comprendevano la ragione di quell’indugio sulla via che portava alle ambite stalle, rendendo così impossibile una visita più prolungata e pacata. Questa era anche la ragione per cui il digiunatore tremava al pensiero di queste ore di visita, di cui pure era ansioso come dello scopo della sua vita. Nei primi tempi non vedeva l’ora che queste pause dello spettacolo arrivassero; la vista di quella massa ondeggiante di gente, che s’avvicinava, l’aveva incantato, sinché non s’era presto convinto – anche la più tenace, quasi consapevole illusione non aveva resistito all’esperienza – che intenzionalmente erano tutti, senza eccezione, dei visitatori delle stalle. Lo spettacolo della gente che s’avvicinava da lontano, rimase la sensazione migliore, perché appena era giunta vicino a lui, egli veniva come sopraffatto dal gridìo e dalle dispute di due gruppi che si formavano di continuo: uno di coloro, che volevano guardarselo comodamente – e presto divenne per il digiunatore il gruppo più sgradito – ma non per una vera comprensione, bensì per capriccio e puntiglio; e un altro di coloro, che prima di tutto volevan giungere alle stalle. Passato il grosso del pubblico, venivano poi i ritardatari e proprio questi, cui nessuno impediva di fermarsi quanto volevano, gli passavano dinanzi, allungando il passo, senza quasi degnarlo di un’occhiata, per arrivare in tempo a veder gli animali. E non era davvero molto frequente il caso fortunato di un padre di famiglia che, arrivando lì coi figlioli, accennava col dito al digiunatore, spiegando loro minuziosamente di che si trattasse, ricordando i tempi andati, in cui aveva assistito a esibizioni simili ma molto più grandiose; i bambini, scarsamente preparati su questo argomento dalla scuola e dalla vita – che poteva significare per loro patir la fame? – continuavano a starsene lì, senza capire, ma nello splendore dei loro occhi incuriositi pareva di intravedere il riflesso di tempi nuovi, lontani ancora e più caritatevoli. Forse, si diceva a volte il digiunatore, tutto sarebbe andato meglio se non lo avessero collocato tanto vicino alle stalle. Così la gente aveva una scelta troppo facile, per tacere poi che le esalazioni delle stalle, l’irrequietezza delle bestie nella notte, il passaggio dei pezzi di carne cruda per le belve, i ruggiti che ne accompagnavano i pasti lo disturbavano molto e lo deprimevano continuamente. Non osava però rivolgersi alla direzione del circo per protestare; in fondo doveva alla presenza delle bestie quella folla di spettatori, tra cui poteva pur capitarne di quando in quando uno destinato a lui e chissà dove l’avrebbero cacciato, se richiamava l’attenzione della direzione sopra di sé e quindi anche sul fatto che, in conclusione, egli costituiva solo un ostacolo sulla via che conduceva alle stalle.

Un piccolo ostacolo, però, che si faceva sempre più piccolo: ci si abituò alla stranezza, in tempi come i nostri, di reclamare l’attenzione del pubblico sopra un digiunatore, e con questa abitudine il suo destino fu segnato. Poteva digiunare quanto voleva … ed egli lo faceva; ma nulla lo poteva più salvare, nessuno più si curava di lui. Si provi qualcuno a spiegare l’arte del digiuno! A chi non la conosce, non si può darne un’idea. I bei cartelloni con le iscrizioni divennero sudici e illeggibili; e vennero strappati via e a nessuno venne in mente di sostituirli; la piccola tabella poi, col numero dei giorni di digiuno compiuti, che nei primi tempi veniva rinnovata ogni giorno, rimase per lungo tempo sempre la stessa, poiché dopo le prime settimane al personale del circo anche quella piccola fatica era parsa troppo; e così il digiunatore continuava a digiunare, come aveva sognato un tempo, e gli riusciva senza sforzo come aveva predetto, ma nessuno contava più i giorni, nessuno, nemmeno il digiunatore, sapeva quanto alta era ormai la sua prova e il suo cuore si sentì oppresso. E se una volta, in quel tempo, qualche sfaccendato si fermava dinanzi alla gabbia, considerava con ironia la cifra altissima e parlava di imbroglio, era, in questo senso, la più stupida menzogna che l’indifferenza e un’innata malignità avevan potuto inventare; poiché non era il digiunatore ad ingannare – egli lavorava onestamente – ma il mondo lo frodava del premio che si meritava.

E passarono ancora molti giorni ed anche questo finì. Un giorno la gabbia dette nell’occhio a un custode, che chiese agli inservienti perché si tenesse lì quella gabbia ancora buona ad usarsi, senza utilizzarla, con tutta quella paglia fradicia; nessuno lo sapeva, sinché uno, col soccorso dei cartelli, non si ricordò del digiunatore. La paglia venne smossa con delle stanghe e vi si trovò il digiunatore. «Digiuni dunque ancora?» chiese il custode, «quando ti deciderai a smettere?». «Perdonatemi voi tutti» sussurrò il digiunatore; ma soltanto il custode che teneva l’orecchio accosto alle sbarre, lo intese.

«Ma certo» disse il custode, toccandosi la fronte con un dito per accennare al personale lo stato in cui si trovava il poveretto, «ti perdoniamo.» «Ho voluto sempre che ammiraste il mio digiuno» continuò il digiunatore. «E noi, infatti, ne siamo ammirati» disse condiscendente il custode. «E invece non dovete ammirarlo» replicò il digiunatore. «E allora non lo ammireremo» rispose il custode, «ma poi perché non dobbiamo farlo?». «Perché sono costretto a digiunare» continuò il digiunatore. «Ma senti un po’» disse il custode «perché non ne puoi fare a meno?». «Perché io» disse il digiunatore, sollevando un poco la sua piccola testa e parlando con le labbra appuntite come per un bacio proprio all’orecchio del custode, «perché non riuscivo a trovar il cibo che mi piacesse. Se l’avessi trovato non avrei fatto tante storie e mi sarei messo a mangiare a quattro palmenti come te e gli altri». Furono le sue ultime parole, ma nei suoi occhi spenti si leggeva ancora la ferma, anche se non più superba convinzione di continuare a digiunare.

«E ora fate ordine!» disse il custode; e il digiunatore fu sotterrato insieme alla paglia. Nella gabbia fu messa poi una giovane pantera. E vedere nella gabbia sì a lungo deserta dimenarsi quella fiera fu un sollievo per tutti, anche per gli spettatori più ottusi. Non le mancava nulla. Il cibo che le piaceva, glielo portavano senza tante storie i guardiani; non sembrava neppure che la belva rimpiangesse la libertà; quel nobile corpo, perfetto e teso in ogni parte sin quasi a scoppiarne, pareva portare con sé anche la libertà; sembrava celarsi in qualche punto della dentatura; e la gioia di vivere emanava con tanta forza dalle fauci, che agli spettatori non era facile resistervi. Ma si dominavano, circondavano la gabbia e non volevano saperne di andar via.

La fase dell’adolescenza nell’era moderna e i comportamenti a rischio

Adolescenza: Lo studio dei comportamenti a rischio adolescenziali è recente e ha acquisito maturità scientifica solo dagli anni ottanta del secolo scorso, quando si è compreso come la maggior parte delle cause di malattia e di morte in quell’ età dipendano da comportamenti a rischio. Comportamenti pericolosi per la salute come l’uso di sostanze, il comportamento sessuale precoce o rischioso, la guida pericolosa, il comportamento suicida e omicida, i disordini alimentari e la delinquenza. 

Questo articolo è stato pubblicato da Giovanni Maria Ruggiero su Linkiesta il 20/02/2016

L’adolescenza nell’era moderna

Un tempo, a quindici anni non si era adolescenti ma già giovani adulti. L’adolescenza è un’invenzione moderna, questa età inquieta in cui si è ancora economicamente dipendenti dalle figure familiari e s’intraprende un lungo percorso di preparazione scolastica al mondo del lavoro; e al tempo stesso si è già fisicamente cresciuti e psicologicamente pieni di aspirazioni, sogni e progetti che non sono più quelli infantili, il desiderio di esplorare il mondo è li, davanti a noi. E infine, e questo è il terzo ingrediente che fa saltare tutto, la dipendenza economica si unisce però a una disponibilità, a un benessere sconosciuti alle età passate della sussistenza economica. Si è nell’epoca del consumismo, e tra lavoretti part time e paghette passate dai genitori l’adolescente, pur dipendente, ha anche una sua indipendenza che lo rende già soggetto economico, cliente e consumatore. Soprattutto consumatore di cultura: musica prima di ogni cosa, e poi cinema, serie TV, informatica, insomma ogni genere di media.

Questo adolescente è quindi uno strano soggetto, un individuo e un cittadino a metà, dipendente e indipendente, oggetto e agente, attore e comparsa. Promuove e sostiene una cultura che è dominante soprattutto nel campo musicale, almeno dai tempi di Presley, mentre in altri campi è assente per oggettiva immaturità. Questa sua instabilità destabilizzante si prolunga in una giovinezza infinita che è poi un’infinita adolescenza, negli studi universitari e nella ricerca del primo impiego. E anche in quei casi in cui non si studia all’università e ci si inserisce prima nel mondo del lavoro, permane questa sensazione di eterna attesa e di eterna adolescenza.

L’adolescenza è quindi destabilizzazione per eccellenza. Lo fu in maniera divertente e musicale negli anni ’50, psichedelica e idealista nei ’60, cupamente utopica nei ’70, e poi si è quasi paradossalmente stabilizzata nella sua labilità e nella sua natura di età imperfetta negli anni successivi.
Eppure la letteratura psicologica ha abbandonato la rappresentazione dell’adolescenza come condizione di disagio e sofferenze. La crisi adolescenziale non è l’unica e forse nemmeno la più importante nella vita di una persona. Il cambiamento e lo sviluppo –e quindi la destabilizzazione– non sono limitati al periodo iniziale della vita, ma riguardano tutta l’esistenza, dal momento che tutte le funzioni psichiche subiscono mutamenti incessanti lungo l’intero corso della vita.

È vero che l’allargarsi delle libertà individuali e delle possibilità di realizzazione personale rende più problematica quest’età sospesa nella quale non si realizza ancora una vera e completa partecipazione sociale e gli scopi personali non sono ancora chiari e ben definiti. Accade quindi che per un adolescente l’impegno nello studio possa essere messo in atto per compiacere i genitori in una relazione di dipendenza, o possa essere lo strumento per raggiungere una maggiore autonomia attraverso il successo scolastico. Oppure che l’affermazione di sé possa realizzarsi attraverso comportamenti pericolosi e ad alto rischio, come l’uso di droghe, o con comportamenti socialmente utili, come l’impegno a favore degli altri.

 

I comportamenti a rischio nell’adolescenza

Lo studio dei comportamenti a rischio adolescenziali è recente e ha acquisito maturità scientifica solo dagli anni ottanta del secolo scorso, quando si è compreso come la maggior parte delle cause di malattia e di morte in quell’età dipendano da comportamenti a rischio. Comportamenti pericolosi per la salute come l’uso di sostanze, il comportamento sessuale precoce o rischioso, la guida pericolosa, il comportamento suicida e omicida, i disordini alimentari e la delinquenza. Questi comportamenti mettono in pericolo il benessere psicologico, sociale e fisico: l’attività sessuale precoce e non protetta che può portare a una gravidanza precoce, la guida pericolosa e il fumo di sigaretta.

Tuttavia, questi comportamenti a rischio hanno un senso e una funzione. Questi comportamenti consentono al ragazzo o alla ragazza di mettere alla prova le proprie abilità e competenze, di mettere alla prova i livelli di autonomia e controllo raggiunti e di sperimentare nuovi stili di comportamento. L’assunzione del rischio e la sperimentazione aiutano gli adolescenti a raggiungere indipendenza, maturità e a costruire una propria identità. Tuttavia, tale assunzione di rischio può portare a mettere in atto comportamenti estremamente dannosi per la salute propria e altrui.

Accanto alla necessità di mettersi alla prova, di saggiare le proprie forze, vi sono altri due fattori alla base dei comportamenti destabilizzanti dell’adolescenza: l’ottimismo irrealistico e la ricerca di sensazioni (sensation seeking). Il primo è una distorsione cognitiva che fa sottostimare all’adolescente il rischio che corre. Questa distorsione ha il suo senso, perché concorre a incoraggiare l’adolescente a mettersi alla prova.

Naturalmente però concorre anche alla devianza e alla destabilizzazione. La ricerca di sensazioni è il desiderio e la ricerca attiva di novità e di intensità nelle esperienze. Che però si correla con comportamenti sessuali precoci e non protetti, l’uso di droga e alcol e altri comportamenti a rischio.

Insomma, l’adolescente è catapultato in una condizione nuova, sospeso tra i due estremi di una condizione perduta di certezza, l’infanzia, e una nuova di affascinante e terrificante incertezza, l’età adulta; tra gli agi e le sicurezze di quando era fanciullo, accudito dai genitori e dalle figure di riferimento, e la libertà e le nuove responsabilità della condizione adulta. I comportamenti, rischiosi e normali, messi in atto dai soggetti durante l’adolescenza hanno lo scopo di fornire una soluzione ai diversi compiti di sviluppo, che appaiono spesso indefiniti. Tra i comportamenti a rischio messi più frequentemente in atto oggi vi è l’utilizzo di stupefacenti, e in particolare di cannabis, che è la sostanza psicoattiva illegale maggiormente diffusa nel mondo. Uno dei luoghi comuni tra gli adolescenti è che la cannabis sia un prodotto pressoché innocuo, anche se ormai la sua pericolosità sia a breve che a lungo termine è stata accertata. Una destabilizzazione chimica, che ingannevolmente aiuta l’adolescente a sopportare la lunga attesa, la lunga anticamera che deve affrontare. Aiuto ingannevole, che anzi toglie armi mentali che saranno preziose nell’agognata età adulta successiva.

Guida perversa all’ideologia (2012) di S. Fiennes– Recensione

In questo film di Sophie Fiennes, Slavoj Žižek ci guida perversamente nel Grande Altro (in senso lacaniano) dell’Ideologia.

 

Il presupposto è, ovviamente, che le ideologie non sono affatto morte, come qualcuno ripete meccanicamente da anni. Secondo il filosofo e psicanalista sloveno un esempio di ottima salute di cui gode il sistema ideologico è dato dalla faticosa lotta che Barack Obama ha dovuto combattere per attuare la riforma sanitaria: prova di una irriducibile ideologia dell’individualismo sregolato.

La società in cui viviamo, con i suoi emissari che prendono le forme di Marketing, Religione, Famiglia, Istituzioni organizzate, ci guida silenziosamente lungo il corso della nostra vita e ci impone quelli che sono i suoi gusti, costumi e desideri; fino al punto di non essere più in grado di comprendere se questi sono davvero nostri o se ci sono stati instillati.

Fin qui niente di nuovo, quasi banale. Ma non è la cosa più inquietante: Žižek dimostra (citando Hollywood, in particolare Carpenter – ‘Essi vivono’ – e Frankenheimer – ‘Operazione diabolica’) che, se mai avessimo l’opportunità di cambiare questo status di surrogato di noi stessi, sentiremmo la dolorosa mancanza di ciò che siamo.

Sentiremmo il bisogno di difendere tutte quelle piccole cose che ci fanno sentire al sicuro e che ci tengono per mano lungo il cammino della nostra vita. Come dice David Pollens, psicoanalista che lavora a New York:

Molti vengono a chiederci aiuto e subito dopo cercano di impedirci di aiutarli […]. Come fai ad aiutare una persona quando ti dice, in un modo o nell’altro, ‘Non aiutarmi’? La psicoanalisi è tutta qui.

Un secondo esempio di condizione ambivalente nella quale si trova a vivere l’Uomo la troviamo nel capitolo del film dedicato al concetto di godimento (jouissance, per dirla come Lacan). Žižek ha già affrontato il tema in ‘Leggere Lacan. Guida perversa al vivere contemporaneo‘ (Bollati Boringhieri, 2009).

Godi!‘ è l’ossessione imposta dalla società contemporanea. Il Super-Io, prima depositario del divieto di godere (Freud), diventa ora il tiranno che impone il divieto di non godere (Lacan), a tal punto che «non ci si sente più in colpa quando ci si abbandona a piaceri illeciti, come prima, ma quando non si è in grado di approfittarne, quando si arriva a non godere». La condizione dei pazienti sul lettino è cambiata nei decenni:

Un tempo, si contava sulla psicoanalisi affinché consentisse al paziente di superare gli ostacoli che gli impedivano l’accesso a una normale soddisfazione sessuale (…). Oggi il godimento funziona effettivamente come uno strano dovere etico: gli individui si sentono in colpa non tanto perché, nel darsi a piaceri illeciti, violano le proibizioni morali, quanto perché non sono capaci di godere.

Godimento è cosa diversa dal semplice piacere, nella contrapposizione dovere-piacere il godimento si soddisfa solo includendo entrambe le polarità: provando piacere e al contempo sofferenza per aver eluso il dovere.

In un passaggio del film Žižek nota che la Coca-Cola ha il potere di protrarre il desiderio. Il paradosso di questa bevanda è che se sei assetato desideri berla, ma più la bevi e più provi sete. E’ il desiderio del desiderio stesso, il desiderio di continuare a desiderare. Il prodotto menzionato è figlio di un’ideologia, quella consumista.

Per Kafka l’uomo moderno ritrova l’unico contatto col Divino nella Burocrazia. Quest’altra ideologia, attraverso l’onnipotenza delle proprie procedure insensate ma obbligatorie, è espressione del godimento divino. Il produrre il nulla sul nulla, la mancanza di scopo, è il modo attraverso cui l’impianto burocratico genera il godimento che si riproduce all’infinito.

Che cosa è il Grande Altro dunque? Secondo Lacan è l’elemento base della struttura ideologica. Da un lato è l’ordine segreto delle cose, agente che garantisce il significato di ciò che facciamo. Molto più interessante è l’altra funzione, quella di mantenere intatte le apparenze.

Un esempio struggente ci è dato dal film di David Lean, Breve incontro. Due amanti decidono di darsi appuntamento al bar di una stazione ferroviaria per un addio estremamente malinconico, non potendo più portare avanti la loro passionale relazione. Ad un tratto fa il suo ingresso un’amica di famiglia della donna, descritta come stupida e decisamente invadente, che si accomoda al tavolo. Questa fastidiosa presenza irrompe nella loro intensa intimità e li travolge con un fiume di chiacchiere insensate. Parla fino a quando sopraggiunge il treno che li separerà per sempre portando via l’uomo.

La sconosciuta svolge la funzione di Grande Altro, durante la sua presenza i due amanti decidono di fingere di essere solo conoscenti e salvare le apparenze, per non minare la stabilità che l’entità suprema garantisce. Ma in una scena successiva la tragedia si esplicita in tutto il suo straziante dilemma: la protagonista guarda la stupida signora mentre continua a parlare e pensa ‘come vorrei potermi fidare di te’, la sofferenza accumulata per la separazione dall’amante vuole venir fuori, la protagonista vorrebbe incidere la sua Verità nella mente del Grande Altro. Ecco ancora una contraddizione, il Grande Altro ci obbliga a fingere ma vorremmo anche confessargli le nostre verità.

Ritengo che questa sia anche la funzione dell’analista. Attraverso il processo di transfert il terapeuta rappresenta sia un’ordine precostituito al quale il paziente si relaziona, fatto di un’immagine composta anche dalle proprie fantasie, e sia un testimone delle proprie sofferenze.

Žižek propone due stati psicoanalitici: la perversione e l’isterìa. Nel primo caso il soggetto ha la totale convinzione che i desideri del Grande Altro siano i propri, nel secondo caso c’è la messa in dubbio destabilizzante di questo principio. Questo è lo stato più creativo. C’è sempre in ognuno di noi almeno una traccia di isterìa.

Nel film di Scorsese ‘L’ultima tentazione di Cristo‘, l’esperienza tormentata di Gesù viene letta come un’esperienza d’isterìa, drammatizzata come una lotta coi propri demoni interiori. Il processo, in questo caso spirituale ma potremmo ipotizzarlo come analitico, di Cristo si conclude con la morte (che sappiamo essere una Rinascita). Negli ultimi minuti della propria vita, Cristo pone la domanda al cielo ‘Eloì, Eloì, lama sabactàni?’ (Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?) e realizza: il Grande Altro non esiste.

Il filosofo giunge alla conclusione che il cristianesimo è più ateo dell’ateismo stesso. Nella religione cattolica il figlio di Dio raggiunge il punto più alto della propria consapevolezza prima di lasciare gli uomini da uomo, comprendendo che il padre non esiste. Nell’ateismo le persone possono dedicare intere vite a una o più ideologie, talvolta senza nemmeno averne contezza.

Siamo essenzialemente soli, ma attraverso la relazione con gli altri, reali o fantasticati, possiamo esprimere la soggettività e questa nuova solitudine può rappresentare la nostra salvezza.

La relazione tra la tendenza a fantasticare e i sintomi depressivi: pensa positivo, ma impegnati!

Un recente studio ha indagato la relazione tra la tendenza a fantasticare, a sognare ad occhi aperti, e la presenza di sintomi depressivi.

Un recente studio pubblicato su Psychological Science (Oettingen, Mayer & Portnow, 2016) ha indagato la relazione che esiste tra la tendenza a sognare a occhi aperti, a fantasticare,  e la presenza di sintomi depressivi sia considerando queste due variabili nello stesso momento che in una prospettiva temporale più ampia (fino a 7 mesi).

 

Gli effetti della tendenza a fantasticare a distanza di 1 mese

Nello specifico, gli autori hanno svolto 4 studi sul tema. Nel primo, hanno chiesto a 88 partecipanti di fantasticare sulla conclusione di uno scenario solo abbozzato e hanno valutato per ogni partecipante la presenza di sintomi depressivi in due momenti a distanza di un mese uno dall’altro: le analisi dei dati hanno mostrato che più la conclusione immaginata era positiva, minore era il livello di sintomi depressivi nel momento specifico in cui si fantasticava; tuttavia, più una persona fantasticava in modo positivo, più i sintomi depressivi si facevano sentire un mese dopo.

 

Gli effetti della tendenza a fantasticare sull’arco di 7 mesi

Nel secondo studio gli autori hanno seguito la stessa procedura, ma applicandola a 109 bambini di circa 10 anni e valutando un periodo di tempo di 7 mesi anziché uno. Anche in questo caso, la tendenza a fantasticare su scenari positivi è risultata correlata con un maggiore benessere nel momento stesso in cui si fantastica, ma a una maggiore presenza di sintomi depressivi 7 mesi dopo.

 

Diario giornaliero sulla tendenza a fantasticare e risultati sui 6 mesi

Nel terzo studio, al posto della procedura utilizzata in precedenza, è stato utilizzato un diario che valutasse la tendenza a fantasticare di 73 soggetti in modo positivo nel corso della giornata, e di nuovo l’umore e stato valutato all’inizio dello studio e 6 mesi dopo. Ancora una volta, i risultati hanno replicato quanto emerso nei due studi precedenti: la tendenza dei soggetti a lasciarsi andare a fantasticherie positive nel corso della giornata era correlata con minori sintomi depressivi sul momento, ma con maggiori sintomi depressivi nel lungo termine (6 mesi dopo).

 

Gli effetti della tendenza a fantasticare su impegno e risultati accademici

L’ultimo studio ha coinvolto 148 studenti del college, che hanno completato la medesima procedura utilizzata negli studi 1 e 2 per quanto riguarda la tendenza a fantasticare in modo positivo; due mesi dopo gli allievi sono stati sottoposti alla seconda valutazione dell’umore e alla valutazione dell’impegno nelle attività accademiche. Infine, è stato registrato il dato relativo al successo accademico dei partecipanti, in termini di esami sostenuti e votazione finale. Ancora una volta, le fantasie positive erano legate a un umore migliore in un primo tempo, e a maggiori sintomi depressivi a distanza di due mesi.

Inoltre, il successo accademico e l’impegno nello studio erano in grado di mediare parzialmente la relazione tra le fantasticherie positive e i sintomi depressivi. Vale a dire, sembra esserci una linea che porta dalla tendenza a fantasticare in modo positivo a un minore impegno e un minore successo accademico, e da queste difficoltà a una maggiore presenza di sintomi depressivi.

 

La tendenza a fantasticare: dispersione di energie e diminuzione dell’impegno

Come interpretare questi risultati? Gli autori suggeriscono alcune possibilità.

Secondo loro, mentre le aspettative positive sarebbero basate su esperienze passate concrete ed effettivamente avvenute, fantasticare su scenari ideali sembrerebbe sprecare energia e ostacolare il successo sia in ambito accademico che relazionale.

Dall’analisi della letteratura, sembra che fantasticare sul futuro porti a una diminuzione delle energie, valutate sia attraverso questionari che attraverso la misurazione della pressione sanguigna, e a sua volta l’abbassamento di energia porterebbe a minori sforzi e una peggiore prestazione e, di conseguenza, a una maggiore probabilità di sviluppare sintomi depressivi (Kappes & Oettingen, 2001; Strauman, 2002).

Azzardando forse un po’ troppo, nella discussione ai risultati, gli autori ipotizzano che fantasticare sul futuro potrebbe incoraggiare le persone a godersi gli esiti di questi scenari in anticipo, abbassando così l’energia e l’impegno richiesti per raggiungere concretamente l’obiettivo.

Riassumendo, fantasticare in modo positivo sul futuro può essere sia un fattore di rischio che un fattore di protezione contro una sintomatologia di tipo depressivo. Quando le persone sognano a occhi aperti, questo le fa stare meglio, contrastando nel breve termine la tristezza; tuttavia, questo potrebbe anche portare le persone a perdersi sia in termini di energie che di direzionalità verso l’obiettivo, rendendo le fantasie un fattore di rischio per l’immobilità e, di conseguenza, la difficoltà a raggiungere l’obiettivo concretamente nel lungo termine.

Fate attenzione a quello che desiderate, ma soprattutto dopo averlo desiderato andatevelo a prendere!

L’azienda va in scena: il teatro d’impresa

Sia il teatro, sia la vita organizzativa sono pieni di conflitti e di problemi da risolvere: per questo, forse, il palcoscenico di un teatro ed un’azienda si assomigliano tanto.

 

Il teatro è il luogo delle relazioni e dei conflitti per eccellenza; è il luogo dove i personaggi operano scelte, mettono in atto strategie, cercano di superare ostacoli, risolvere problemi e raggiungere obiettivi.

Sia il teatro, sia la vita organizzativa (oltre che quella sociale) sono pieni di conflitti e di problemi da risolvere: per questo, forse, il palcoscenico di un teatro ed un’azienda si assomigliano tanto. In altre parole, un incontro tra teatro ed azienda è possibile con l’adozione di un approccio metaforico, interpretando, cioè, il contesto organizzativo con la metafora teatrale ed il teatro come metafora della vita organizzativa.

Il teatro può essere utilizzato da qualsiasi azienda per approfondire qualsiasi argomento di vita e cultura organizzativa. Innanzitutto può essere utilizzato come strumento formativo in grado di generare consapevolezza e crescita.

Il primo ad applicare la metodologia teatrale alla formazione aziendale fu Christian Poissonneau che, nel 1984, fondò a Montréal, in Canada, il Théatre à la carte. Ma è stato a Parigi che il teatro d’impresa ha sviluppato le caratteristiche e le metodologie che tuttora lo contraddistinguono.

Il carattere innovativo del teatro d’impresa in ambito formativo ha favorito il passaggio dall’aula, che è per antonomasia un contesto strutturato, al palcoscenico, che invece è un contesto semi-strutturato, che favorisce il coinvolgimento di mente e corpo dei partecipanti, alternando momenti di coinvolgimento emotivo a momenti di rielaborazione cognitiva. Il teatro d’impresa ‘dà la possibilità agli attori organizzativi di riflettere sui propri comportamenti per cambiare e migliorare se stessi e l’organizzazione in cui lavorano‘ (C. Poissonneau, 2003).

Questo metodo favorisce il processo di consapevolezza rispetto alle aree di miglioramento di ognuno, sviluppando nei partecipanti una reale motivazione al cambiamento. Tramite il teatro d’impresa è possibile intervenire a più livelli: individuale, di team, interfunzionale ed organizzativo, per lo sviluppo di competenze manageriali (gestione dei conflitti, motivazione al lavoro, creatività….), per incrementare lo spirito di squadra, per sviluppare le competenze in tema di leadership, per aumentare la collaborazione e la comunicazione intra ed interfunzionale, per sensibilizzare sui valori aziendali, per agevolare il cambiamento culturale ed organizzativo.

Il teatro d’impresa è uno strumento perfetto per comunicare emozionando: attraverso l’humor ed il gioco, infatti, esso dinamizza, motiva, aggrega; attraverso l’ironia ed il divertimento sdrammatizza la realtà e favorisce la riflessione e la consapevolezza. Sul palcoscenico l’individuo è attivamente impegnato a conoscersi e a sviluppare le sue risorse, egli ascolta il suo mondo interno, i suoi dubbi, i suoi blocchi, i suoi talenti, i suoi desideri ed avvia un dialogo interiore che lo conduce a cogliere possibili soluzioni ai suoi conflitti interni e di relazione con il mondo esterno.

L’uso dello psicodramma, cioè della psicoterapia consistente nel far recitare al soggetto un’azione scenica che richiama la sua storia personale con lo scopo di fare affiorare conflitti inconsci, ha origine nella Vienna degli anni Venti del Novecento con Jacob Levi Moreno, che scoprì l’efficacia che ha per l’individuo la rappresentazione scenica del suo vissuto. Lo psicodramma è dunque un metodo di sviluppo personale basato essenzialmente sulla ‘messa in azione’ dei contenuti del mondo interno. Nello psicodramma la persona gioca, concretizzando sulla scena le sue rappresentazioni mentali.

Nell’epoca attuale, caratterizzata da un mercato del lavoro in continuo cambiamento, dove ‘gli individui non sperimentano più stabilità e sicurezza, ma si confrontano con lavoro flessibile ed organizzazioni fluide‘ (M. Savickas, 2011), è estremamente importante che ogni individuo sviluppi la sua capacità riflessiva riguardo a se stesso, all’organizzazione in cui lavora e alla società che lo circonda.

In uno scenario così complesso ed estremamente diverso da quello del XX secolo, è fondamentale che ciascuno prenda coscienza del proprio sviluppo vocazionale nel corso dell’intera esistenza: il teatro può aiutarci in tutto questo, può prepararci a svolgere ruoli diversi, permettendoci di uscire da quelli in cui abbiamo fallito, può aiutarci a superare situazioni di crisi, può aiutarci ad imboccare la via del cambiamento che conduce all’autonomia e alla spontaneità creativa.

Sorridere, anche delle proprie difficoltà, e anche in un contesto aziendale, aiuta a stemperare le tensioni, aumenta la capacità di risolvere i problemi e facilita lo spirito di squadra. Chiamare in causa l’umorismo non significa certo invitare i managers a raccontare barzellette, magari nel bel mezzo di una riunione importante. Il discorso è diverso e riguarda l’insieme degli atteggiamenti vincenti per una leadership di successo. Credo che la migliore spiegazione di umorismo sia dovuta a Luigi Pirandello, a cui lascio la parola per concludere questo mio intervento sull’importanza di andare in scena anche in azienda:

Ebbene, noi vedremo che nella concezione di ogni opera umoristica, la riflessione non si nasconde, non resta invisibile, non resta cioè quasi una forma del sentimento, quasi uno specchio in cui il sentimento si rimira; ma gli si pone innanzi, da giudice; lo analizza, spassionandosene; ne scompone l’immagine; da questa analisi però, da questa scomposizione, un altro sentimento sorge o spira: quello che potrebbe chiamarsi, e che io difatti chiamo il sentimento del contrario.

Vedo una vecchia signora, coi capelli ritinti, tutti unti non si sa di quale orribile manteca, e poi tutta goffamente imbellettata e parata d’abiti giovanili. Mi metto a ridere. Avverto che quella vecchia signora è il contrario di ciò che una vecchia rispettabile signora dovrebbe essere. Posso così, a prima giunta e superficialmente, arrestarmi a questa impressione comica. Il comico è appunto un avvertimento del contrario. Ma se ora interviene in me la riflessione, e mi suggerisce che quella vecchia signora non prova forse nessun piacere a pararsi così come un pappagallo, ma che forse ne soffre e lo fa soltanto perché pietosamente s’inganna che parata così, nascondendo così le rughe e la canizie, riesca a trattenere a sé l’amore del marito molto più giovane di lei, ecco che io non posso più riderne come prima, perché appunto la riflessione, lavorando in me, mi ha fatto andar oltre a quel primo avvertimento, o piuttosto, più addentro: da quel primo avvertimento del contrario mi ha fatto passare a questo sentimento del contrario. Ed è tutta qui la differenza tra il comico e l’umoristico

(L. Pirandello, 1908).

Priming: un fenomeno mnemonico inconsapevole – Introduzione alla Psicologia

Il Priming è un sistema mnemonico inconsapevole che consente a uno stimolo, al quale si è stati esposti una prima volta, di essere riconosciuto successivamente senza averne consapevolezza. 

INTRODUZIONE ALLA PSICOLOGIA RUBRICA DI DIVULGAZIONE SCIENTIFICA IN COLLABORAZIONE CON LA SIGMUND FREUD UNIVERSITY DI MILANO 

Il Priming è una forma di riconoscimento mnemonico non cosciente che consente a uno stimolo, al quale si è stati esposti una prima volta, di essere identificato durante le successive esposizioni senza averne consapevolezza. Questa capacità evolutiva dell’essere umano provoca notevoli effetti sull’interpretazione e sulla valutazione dell’informazione.

L’Effetto Priming

Il concetto di priming deriva dalla psicologia cognitiva e consiste in una situazione di tipo stimolo sensoriale, che potrebbe essere verbale, uditivo, visivo, al quale si è stati esposti in passato, che influenza la percezione delle successive esposizioni allo stesso stimolo in futuro.
L’effetto priming, ampiamente studiato in vari ambiti della psicologia cognitiva, e usato in diversi studi di neuroscienze, consiste in un effetto di preparazione dell’esposizione allo stimolo. In inglese to prime significa innescare una serie di meccanismi che portano alla attivazione di informazioni presenti in memoria preparando e facilitando il soggetto nell’elaborazione cognitiva dello stimolo successivo

Il priming e le euristiche

In sostanza, con effetto priming si intende l’attivazione di determinate rappresentazioni mentali, scorciatoie, euristiche prima di compiere un’attività. Il Priming dunque e si avvale dell’ euristica del riconoscimento, secondo la quale ogni notizia è memorizzata all’interno dello schema mentale,, costruito nel tempo collegando a essa altre informazioni ricevute rispetto alla prima notizia acquisita. Quando un nuovo stimolo si presenta, a esempio una nuova notizia riguardante il tema di interesse, chi legge la notizia richiama alla mente l’intero schema interpretativo a essa collegato. Uno degli effetti ritenuti più importanti nel richiamare lo schema mentale alla memoria è dato dalla frequenza con la quale la notizia è presentata al lettore.

Il priming e la neuropsicologia

In termini neuropsicologi il priming consiste nell’attivazione di gruppi di neuroni circondati da connessioni poco forti tra loro. Quando questi neuroni sono attivati dalla percezione di un oggetto già visto il segnale si propaga immediatamente e diventa prioritario rispetto agli altri in arrivo. In questo modo, si innesca il ricordo che rappresenta l’informazione in arrivo e nella nostra mente si attivano una serie di immagini correlate all’oggetto in questione. A esempio se l’informazione riguarda il mare si attiveranno tutte le immagine contenenti mare presenti in memoria a scapito di altre che raffigurano oggetti diversi.

Il priming e i ricordi

Durante l’effetto priming si attiva un ricordo nella memoria implicita che influenza la risposta a uno stimolo successivo, aumentando l’accessibilità di informazioni presenti in memoria. A esempio, tornando a casa da lavoro passiamo davanti a una rosticceria da cui proviene un buon odore di pollo allo spiedo. Per cena si era deciso di cucinare un piatto a base di pesce, ma nel momento in cui apriamo il freezer, invece di tirare fuori il pesce vediamo una confezione di carne, e la prendiamo automaticamente. Il più delle volte pensiamo semplicemente di aver cambiato idea: tuttavia nella maggior parte dei casi non siamo consapevoli che ha avuto luogo un effetto priming. Infatti, il percepire l’odore di carne ha attivato dei ricordi che hanno influenzato la scelta della nostra cena. In realtà molti comportamenti e atteggiamenti sono assolutamente influenzati dall’effetto priming e sono determinati da stimoli non del tutto consapevoli. Il priming, dunque, sfrutta il meccanismo automatico dell’attivazione delle rappresentazioni mentali. Lo stimolo sensoriale del priming (una parola, un’immagine, un odore, un suono) influenza una particolare circostanza, un particolare comportamento o situazione sociale che andrà a incidere a sua volta sulle decisioni, sui comportamenti e sulle interpretazioni.

Il priming subliminale e i suoi effetti

Se il prime fosse di tipo subliminale, ossia informazioni percepite sotto-soglia dalla nostra coscienza, allora si parla di priming subliminale. Lo studioso Bornstein (1992) ha studiato l’effetto della mera esposizione su cui si basa l’efficacia della pubblicità. Questo effetto può essere ottenuto esponendo ripetutamente le persone ad uno stimolo senza che ne siano consapevoli, percezione subliminale, si ottiene in questo modo un maggiore atteggiamento positivo verso l’oggetto cui si è esposti, maggiore sarà la loro esposizione allo stimolo. Il priming subliminale ha anche ripercussioni sul giudizio sociale: se è attivata la rappresentazione mentale di un determinato costrutto, come una caratteristica personale, questa influenzerà l’idea di tutti coloro che presentano quella caratteristica personale. Quindi, se dei soggetti sono esposti subliminalmente a brevi parole che rimandano al concetto di razzismo, successivamente giudicheranno negativamente la foto di una persona sconosciuta rispetto a coloro che non sono stati esposti a questi prime subliminali (Bargh e Pietromonaco, 1982).

Il priming subliminale ha anche effetti sul comportamento. L’attivazione di stereotipi influenzano il comportamento delle persone in relazione allo stimolo percepito, attraverso delle rappresentazioni comportamentali (Dijksterhuis e Bargh, 2001). Quindi, se i partecipanti ad un esperimento rispondono a delle domande sulle persone anziane assumono atteggiamenti tipici di queste persone, come diventare più distratti e tendere a dimenticare più facilmente. Allo stesso modo, presentando subliminalmente parole collegate allo stereotipo degli anziani, i soggetti sperimentali hanno peggiore performance nei compiti di memoria o un rallentamento nei tempi di riposta. In questi casi, succede che l’attivazione mentale del concetto di anzianità attiva una serie di la rappresentazione mentali e stereotipiche del comportamento di queste persone (Dijksterhuis e Bargh, 2001).

Il priming subliminale: motivazione e scopi

il priming subliminale, ha effetto solo se si manifestano particolari condizioni: la motivazione e la consapevolezza di chi riceve lo stimolo devono essere definite e esplicite, poiché determinano l’efficacia della risposta data (Randolph-Seng e Nielsen, 2009). Per aumentare l’accessibilità dell’informazione attraverso il priming, lo scopo deve essere immediatamente disponibile, altrimenti il priming, da solo, non porta a fare cose che le persone non vogliono fare. È stato largamente dimostrato da studi psicologici che non si possono indurre scopi e obiettivi nei soggetti se non già presenti in loro. Infatti, gli effetti della comunicazione dei mass-media sono sempre mediati da variabili personali e sociali. Una influenza maggiore si verifica solo se si attivano o si manipolano gli scopi di cui gli individui sono già in possesso. La ricerca scientifica di matrice psicologico-sociale-cognitiva ha quindi recentemente dimostrato sperimentalmente quali sono le circostanze in cui gli stimoli presentati subliminalmente possono influenzare i bisogni (fame, sete), il comportamento di consumo e l’attivazione di bisogni (devo mangiare, devo bere), la scelta del prodotto da consumare (paninoteca o ristorante? Bibita o acqua?), sia in laboratorio sia in contesti naturali.

Vediamo quali sono queste condizioni attraverso cui agisce la pubblicità subliminale:

  1. a) Influenza sullo stato motivazionale: la valutazione soggettiva di un bisogno come la sete può essere influenzata subliminalmente aumentando l’accessibilità della rappresentazione cognitiva del concetto di sete.
  2. b) Influenza sul comportamento di consumo: La motivazione, quindi, interagisce con il priming subliminale influenza la consumazione del prodotto.

Quindi, la motivazione è una componente necessaria e deve essere presente, perché quando le persone non sono motivate, il priming subliminale attiva in memoria solo dei concetti non collegati a qualcosa di significativo. Infatti, quando le persone sono motivate il priming attiva degli scopi o degli obiettivi personali da perseguire.

  1. c) Influenza sulla scelta del marchio o del prodotto. Il fenomeno del priming influenza anche il settore del marketing. La pubblicità subliminale guida le decisioni dei consumatori nella scelta di un determinato marchio o prodotto. Tutto questo è possibile se il marchio o il prodotto è:
  • gradito alla persona (atteggiamento positivo);
  • è associato a un bisogno o scopo (motivazione);
  • sia accessibile immediatamente in memoria (accessibilità) (Karremans, Stroebe e Claus, 2006)

 

Sembrerebbe, dunque, confermato che il priming subliminale possa avere un effetto sulla scelta del prodotto solo guidato da una motivazione o bisogno presentato dalla persona esposta all’effetto.

Se questa evenienza è presente, allora il priming subliminale è in grado di influenzare la scelta e il consumo di un determinato prodotto, quello stimolato subliminalmente.

 

RUBRICA: INTRODUZIONE ALLA PSICOLOGIA

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Le scelte e il timore di sbagliare – Ciottoli di Psicopatologia Generale

Molteplici sofferenze più o meno nosograficamente psicopatologiche ruotano intorno alle scelte. Mi sembra di poterne distinguere tre tipi secondo una dimensione cronologica. Quelle precedenti alla scelta o paralisi decisionali che la fanno da padrone nel mondo ossessivo ma si infiltrano nella vita quotidiana appena la posta in palio diventa importante. Quelle del momento della scelta evidenti nei disturbi dell’umore nei due sensi di impulsività e di blocco. Quelle del dopo scelta caratterizzate dal rimpianto o dal rimorso.

CIOTTOLI DI PSICOPATOLOGIA GENERALE RUBRICA – LEGGI L’INTRODUZIONE

Nel 6° ciottolo abbiamo parlato dell’ abitudine. Ora soffermiamoci sul suo esatto contrario: la scelta. Essa è, temo, la vera condanna per aver mangiato il frutto dell’albero della conoscenza che ci accompagna dal momento della cacciata dal paradiso terrestre. Al suo confronto il sudore della fronte per il lavoro e i dolori del parto (già sento le colleghe furiose gridare vorrei vedere te) sono quisquilie, pinzillacchere. Il Padreterno, è tanto buono e caro ma su certe prerogative solo sue lo devi lasciar stare perché perde il senso dell’umorismo di cui, invece, aveva dato ampia prova nella creazione dell’universo. Lo vedo sull’uscio ghirlandato dell’Eden che ci scaglia dietro il libero arbitrio. Adamo prudente avverte la compagnia di lasciarlo a terra, non toccarlo. Possiamo pur sempre non usarlo, pensa, allontanandosi ma Eva che aveva letto di recente Watzlavich ed era rimasta colpita dalla sua frase sull’impossibilità di non comunicare, per fare la colta afferma decisa “ non si può non decidere”.

Da allora abbiamo fatto di tutto per toglierci di dosso questo fardello. Inventando storie incredibili di uno o più che prendono le decisioni per noi. A proposito la narrazione precedente non è vera e appartiene proprio ad una di queste storielle, la più vicina a noi che tuttora ha molti adepti. Se non erano dei allora era il destino, il fato, le congiunture astrali. Poi passano i secoli l’umanità diventa grande e fa fatica a continuare a credere alle storielle soprannaturali. Così dopo l’illuminismo occorre sostituire le spiegazioni celesti con qualcosa di più terreno come le grandi ideologie deterministiche che tutto spiegano e predicono. Da lì è un passo affidarsi ad un uomo forte, semidio o supereroe che ci conduce a cui affidare la procura generale per le nostre decisioni. Noi siamo brava gente che eseguiva solo gli ordini, semmai impiccate lui a testa in giù.

Tutto pur di non scegliere. Perché? Intanto perché è un lavoro impegnativo che se fatto a modino non sulle suggestioni immediate del sistema intuitivo, ottime salva-vita ma piuttosto raffazzonate sulle questioni complesse, richiede una bella sudata meningea. Poi perché si può sbagliare rischiando un danno e, forse peggio, la colpa e il rimorso per esserne la causa. Molteplici sofferenze più o meno nosograficamente psicopatologiche ruotano intorno alle scelte. Mi sembra di poterne distinguere tre tipi secondo una dimensione cronologica. Quelle precedenti alla scelta o paralisi decisionali che la fanno da padrone nel mondo ossessivo ma si infiltrano nella vita quotidiana appena la posta in palio diventa importante. Quelle del momento della scelta evidenti nei disturbi dell’umore nei due sensi di impulsività e di blocco. Quelle del dopo scelta caratterizzate dal rimpianto o dal rimorso. Procediamo con ordine.

Le paralisi decisionali sono generate dal timore di sbagliare e sono direttamente proporzionali all’importanza della posta in palio e al riverbero temuto sul proprio valore personale in caso di errore per cui le persone con scarsa autostima e i perfezionisti saranno più facilmente a rischio di questi blocchi che saranno a loro volta un vulnus proprio per il valore personale “ non decido per non sbagliare e considerarmi sbagliato, ma siccome non decido sono sbagliato”. Questi soggetti saranno preda delle sofferenze post-scelta come il rimpianto e il rimorso infilandosi in una spirale di autosvalutazione. Quello che potremmo chiamare il bias perfezionistico, oltre al timore dell’errore porta a ritenere, infatti, che ad un certo problema esista una soluzione perfetta, esente da difetti e che vada trovata. Un altro aspetto più generale del bias perfezionistico è l’aspettativa di essere in un mondo ideale in cui sia disponibile tutto, subito, senza fatica e soprattutto senza rinunce. Ne segue un senso di ingiustizia e di rabbia all’idea di dover scegliere e rinunciare con conseguente sdegnato ritiro sull’Aventino come un bambino capriccioso che non gioca più se non vince facile.

Torniamo ai meccanismi di paralisi da timore dell’errore. Il soggetto esamina le varie possibili alternative e sceglie provvisoriamente quella che gli appare come la migliore. A questo punto la scannerizza in dettaglio per scoprirne i possibili difetti e trovatone uno la rigetta. Ripete il processo su un’altra alternativa ma nessuna supera l’esame del bias perfezionistico. L’errore sta nel fatto che non cerca la soluzione migliore con un bilancio pro-contro favorevole ma una soluzione senza alcun contro. Ciò è ovviamente impossibile, altrimenti non si tratterebbe di una scelta. Ho visto massicciamente questo processo in persone che dicevano di non avere idee e addirittura pensavano di essere stupide. In verità qualsiasi idea si affacciasse alla loro mente era processata immediatamente e scartata come imperfetta senza neppure dargli il tempo di crescere e definirsi Si comportavano come un Erode iperprudente o un falsificazionista popperiano militante che fa strage di tutte le idee neonate. Per queste persone terrorizzate dall’errore, i pro o i cosiddetti guadagni contano poco, ciò che è importante sono i contro per evitare le perdite. In terapia nel cimentarsi con loro in un processo di “decision making” si possono trascurare i guadagni e concentrarsi esclusivamente sui contro assegnando loro un peso.

Soprattutto il problema va impostato come la ricerca della soluzione meno peggiore che è la stessa cosa del ricercare la soluzione migliore ma, detto così, attiva meccanismi di selezione delle alternative diversi. In sintesi vanno abbandonate le illusioni di perfezione e di onnipotenza.
Nei blocchi decisionali da timore di fallimento per evitare la colpa sarà molto utile evidenziare l’impossibilità di non scegliere che già Eva aveva intuito per trasposizione da Watzlavick, e focalizzarsi sul possibile rimpianto che si abbatterà inevitabile su chi non ha vissuto per evitare la colpa come sui resti smagriti dell’asino di Buridano.

Le paralisi decisionali hanno potente radice nella ben nota avversione alle perdite che è un automatismo del sistema intuitivo efficace nella protezione della sopravvivenza immediata ma costituisce di contro una vera e propria forza conservatrice che muove intense emozioni tanto che il rapporto del peso emotivo tra perdite e guadagni è 2 a 1: una perdita dà il doppio del dolore del piacere di un guadagno di pari entità.
Ciò costituisce un pericolosissimo fattore di perseverazione in situazioni fallimentari. Pur di non accettare una perdita si scommette il tutto per tutto e si finisce peggio. In guerra non ci si arrende. Una situazione paradigmatica è la ludopatia ma vale anche per certe imprese o relazioni disastrose dove si persevera per non ammettere la perdita. Terapeuticamente in questi casi è opportuno non accanirsi per una decisione immediata ma chiedere al soggetto di definire criteri di attivazione di una exit strategy: quando deciderei di rinunciare? Cosa dovrebbe succedere per farmi dire basta? Per poi ripresentarglieli una volta raggiunto tale livello.

Di fronte alla perseverazione e alla resistenza al cambiamento da un punto di vista terapeutico oltre a evidenziare la follia del bias “dei costi sommersi” di cui ho trattato nel ciottolo “6 sull’abitudine” è opportuno costruire in termini di perdita il mantenimento dello status quo piuttosto che come guadagno il cambiamento. Quindi confrontare due perdite: una possibile ( il cambiamento) ed una certa ( lo status quo) piuttosto che una perdita con un possibile guadagno.

Il senso di colpa che la paralisi decisionale tenta di prevenire è maggiore se ci riteniamo responsabili di errori di commissione molto più che di errori di omissione. Modificare il corso naturale degli eventi è sentito come più colpevole che lasciarli andare come vengono. Anche questo bias facilità il conservatorismo e si può tentare di superarlo rileggendo come errore di commissione una omissione dopo che si ha consapevolezza dei possibili esiti.

A volte la sofferenza non è generata da una vera e propria paralisi decisionale ma dal fatto che il soggetto ritiene di averla mentre invece dovrebbe cambiare vita. Si tratta di quelle persone insoddisfatte e annoiate delle situazioni che vivono e che si sono scelti e si rimproverano di non dare una svolta all’esistenza. A loro è opportuno spiegare il fenomeno cosiddetto “della curva dell’indifferenza ( pag. 320 e seg. ) per cui più si ha una cosa meno diventa importante accrescerla e anche possederla. Sto pensando al disinvestimento sulle storie stabili e al non godersi ciò che si ha finchè non lo si perde o si rischia di perderlo (che sia la salute, la ricchezza, un lavoro o una relazione). In tali casi è utile immaginare scenari in cui il bene scontato è stato perduto e storie plausibili che possano condurre a ciò. Ciò è applicabile in tutte le situazioni anche già abbastanza disastrate. Ricordate il “potrebbe piovere” di Frankestein Junior.

 

Esiste anche l’opposto delle paralisi decisionali. Chi appare onnipotente e sceglie senza difficoltà, talvolta impulsivamente. Sono gli ottimisti che all’estremo sconfinano con il disturbo maniacale. Ma mentre quest’ultimi sono facilmente identificabili ed in fase acuta generalmente ricoverati, i primi si nascondono tra noi, a volte lo siamo noi stessi, guidano aziende e istituzioni che possono portare al disastro. Kahneman ( pag 282 e seg.) dimostra che il bias ottimistico che è in gran parte genetico rende ciechi ai rischi e fa sopravvalutare se stessi. Se da un lato fa campare più a lungo, rende leader e decisori per gli altri, dall’altro può essere molto dannoso facendo sottovalutare il ruolo del caso e della fortuna a vantaggio della propria onnipotenza conducendo a progetti fallimentari e disastri. Sistematicamente quando si fa un progetto guardando all’obiettivo si sottovalutano le difficoltà e gli imprevisti che sono appunto tali e si ritengono necessari tempi più brevi e risorse minori di quanto in realtà necessiteranno ( insomma non fidatevi dei preventivi anche di operai in buona fede, non è colpa loro è la genetica umana). Sembra essere nella nostra natura vedere solo l’obiettivo trascurando le interferenze.

Una procedura ideata per le aziende ma utilizzabile anche in terapia è la cosiddetta “strategia post mortem” in cui si ribalta il punto di vista dal quale si osserva il progetto. Funziona così. Immaginiamo che tutto sia andato male (l’impresa è fallita, il paziente è morto, mia moglie se n’è andata), il disastro avvenuto e cerchiamo a posteriori di individuare tutti i possibili fattori imprevisti che lo hanno potuto causare. Si chiede al soggetto di non mettersi nei panni del costruttore ma del guastatore per scoprire le falle bisogna indossare gli occhiali del ladro non quelli del costruttore di antifurti.

Tuttavia la maggior parte delle sofferenze legate alle scelte è riferito al dopo quando non si realizzano i risultati attesi e si è assaliti da colpa, rammarico e autosvalutazione. Spesso alla sofferenza per aver fallito lo scopo reale sul quale era incentrata la scelta si sommerà quella per il giudizio negativo su di sé come cattivo decisore. Nel compiere questa operazione di svalutazione di sé vengono normalmente compiuti due errori di ragionamento.

In primo luogo si valutano le proprie abilità di decisore sull’esito effettivo della scelta e non sulla correttezza stessa del processo decisionale, è l’errore “del senno di poi”. Quando conosciamo l’esito di una vicenda ci sembra, erroneamente, che ci fossero già prima gli indizi sufficienti per prevederlo ma non è così. Gli storici hanno un compito più facile dei profeti. Un conto è spiegare, altro è prevedere . Basterà pensare alla “strategia post mortem” descritta sopra.

In secondo luogo quando valutiamo a posteriori una scelta fatta ( ad esempio tra due opzioni “A” e “B”) commettiamo due errori che ci inducono a ritenere di avere sbagliato. Il primo: gli svantaggi temuti che ci avevano fatto rifiutare l’opzione “A” non si sono effettivamente realizzati per cui non ne avvertiamo più la negatività. Il secondo: i vantaggi che ci hanno fatto scegliere l’opzione “B”, se si escludono i primissimi tempi, vengono considerati acquisiti, scontati, mentre gli eventuali svantaggi (ovviamente presenti) essendo causa di disagio attuale, richiamano costantemente l’attenzione.

Chiarisco con un esempio immaginando che un signore decida di rinunciare al 20% dello stipendio pur di non viaggiare per cento chilometri partendo alle 6,00 da casa tutte le mattine per raggiungere il posto di lavoro. Aveva messo sul piatto della bilancia la sua stanchezza, i costi e i rischi degli spostamenti, e aveva scelto di rinunciare a quel 20% in nome della qualità della vita. Però dopo i primi giorni della nuova vita inizia a pentirsi e ad autoaccusarsi erroneamente. Analizziamone gli errori: essendo decisamente più riposato lo scopo di non essere stanco e dunque di non svegliarsi ogni mattina alle 6,00 perde di importanza (pesa meno). Il fatto di non correre il rischio di un possibile incidente non è avvertito perché l’incidente, non si è verificato, ma anche nell’altra situazione avrebbe potuto non verificarsi comunque e dunque non c’è una differenza significativa. Il risparmio sui consumi dell’auto è spalmato nel tempo perché l’acquisto di una nuova auto è ammortizzato in parecchi anni e dunque non si ha la sensazione di un risparmio immediato. Ciò che resta invece assolutamente evidente e tangibile è quella riduzione del 20% di stipendio in busta paga che alla fine di ogni settimana ricorda al signore l’errore di scelta compiuto.

Più in generale gli svantaggi che vengono contabilizzati sono solo quelli dell’alternativa prescelta. Se si decide di fare il centro invece della tangenziale si vedrà solo il traffico del centro fantasticando una tangenziale libera. La volta successiva sulla tangenziale succederà assolutamente il contrario.
Riassumendo le sofferenze del dopo scelta: già sbagliare e perdere la posta in palio è motivo di rincrescimento in sè, ma si può peggiorare la situazione rimproverandosi di essere stati degli stupidi. Non tenendo conto che al momento della scelta non si avevano tutti i dati che si hanno in seguito e quindi un conto è che si sia fallito rispetto all’obiettivo, altro che si sia scelto malamente. Per questo terapeuticamente è utile analizzare i passi decisionali e giudicare il processo in sé distinguendolo dal suo esito reale, tenendo conto dell’esistenza del caso ed epurandolo dal bias del senno di poi.

Lo si può ripercorrere considerando le ragioni di ogni singolo bivio decisionale ovviamente con i dati di conoscenza a disposizione del momento e la consapevolezza che i bisogni, le preferenze e i gusti cambiano. Dopo la scelta, inoltre, non si tiene più conto dei criteri che avevano fatto preferire l’opzione A e scartare la B e dati per acquisiti i vantaggi di A ci si sofferma solo sui suoi difetti. Si decide di partire da un certo assetto motivazionale e la si valuta poi da uno diverso.

 

RUBRICA CIOTTOLI DI PSICOPATOLOGIA GENERALE

Come le nuove tecnologie hanno modificato il nostro stile di vita

Nuove tecnologie: Nel corso della nostra storia evolutiva, i nostri sistemi cognitivi sono stati modificati con l’avvento di invenzioni tecnologiche come gli strumenti primitivi, la lingua parlata, la scrittura e i sistemi aritmetici. Trenta anni fa, Internet è emerso come l’ultima invenzione tecnologica pronta a ridisegnare profondamente la mente umana e a trasformare i nostri pensieri e il nostro stile di vita.

Laura Prosdocimo, OPEN SCHOOL STUDI COGNITIVI

Le nuove tecnologie

Secondo Stefano Rodotà la tecnologia [blockquote style=”1″]libera la vita da antiche schiavitù, quelle dello spazio e del tempo, e questo è già realtà per milioni di persone. Internet non è soltanto il più grande spazio pubblico che l’umanità abbia conosciuto. È un luogo dove la vita cambia qualità e colore, dove sono possibili l’anonimato e la moltiplicazione delle identità, la conoscenza e l’ubiquità, la libertà piena e il controllo totale. In rete ognuno può essere davvero “uno nessuno e centomila”, come diceva Luigi Pirandello, e vedere realizzata l’aspirazione dello Zelig di Woody Allen: “Vorrei essere tante persone. Forse un giorno questo si avvererà”. La grande trasformazione tecnologica cambia il quadro dei diritti civili e politici, ridisegna il ruolo dei poteri pubblici, muta i rapporti personali e sociali, e incide sull’antropologia stessa delle persone. (Rodotà, 2005). [/blockquote]

[blockquote style=”1″]Se, in effetti, Internet ha molto da offrire a chi sa ciò che cerca, è anche in grado di completare la stupidità di chi naviga senza bussola[/blockquote] (Laplante, 1995). Questa frase di Laurent Laplante, giornalista canadese, inquadra perfettamente il dilemma che ha caratterizzato la rete sin dalla sua comparsa: Internet ha effetti negativi o positivi sul nostro modo di pensare e agire? La domanda è divenuta ancor più rilevante nel passaggio dal Web 1.0 al Web 2.0. Se il quesito iniziale è ancora pressoché insoluto, coloro che hanno tentato di dare una risposta si sono divisi fra quelli che hanno evidenziato i possibili effetti negativi del social web e quelli che ne hanno sottolineato le potenzialità per lo sviluppo umano (Baiocco L. et al. 2014).

L’uso dei social network è ormai generalizzato; in Italia ci sono 25 milioni di persone che usano Facebook (i profili aperti sono 28 milioni, 25 milioni sono quelli che nell’ultimo mese hanno effettivamente usato Facebook almeno una volta), oltre 9 milioni su Twitter, oltre 5 su LinkedIn (http://vincos.it); Badoo, uno dei social network fatti per trovare partner dichiara che in Badoo si può fare amicizia con più di 10 milioni (il 70% sono maschi e il 30% femmine).

 

Cosa cambia con le nuove tecnologie

Le nuove tecnologie sono seducenti quando ciò che offre soddisfa la nostra vulnerabilità umana; si scopre allora che siamo davvero molto vulnerabili. Ci sentiamo soli, ma abbiamo paura dell’intimità: le connessioni digitali possono offrire l’illusione della compagnia senza gli impegni dell’amicizia; la nostra vita in rete ci permette di nasconderci a vicenda anche mentre siamo allacciati l’uno all’altro (Turkle S., 2012); preferiamo comunicare per sms che parlare. La tecnologia ci offre delle alternative alla comunicazione faccia a faccia, ci permette di comunicare facilmente quando vogliamo liberarci a nostro piacimento, abbiamo la possibilità di ridurre il contatto umano. Quando è la tecnologia a costruire la nostra intimità le relazioni possono ridursi a semplici connessioni e con la connessione costante arrivano nuove ansie da disconnessione.

Le nuove tecnologie consistono in smartphone, tablet, pad ecc. a cui non si riesce più a rinunciare e il termine “nomofobia”, letteralmente “no mobile phobia” è stato coniato proprio per definire la paura di perdere o essere senza il proprio cellulare. Questo tipo di paura genererebbe dei veri e propri stati di ansia e frustrazione al pari di qualsiasi altra fobia e sarebbe collegata alla paura di non sentirsi più in contatto con amici e famigliari (King et al., 2013).
A partire dal 1996, grazie al pionieristico lavoro della statunitense Kimberly Young (1998), è stata ipotizzata e documentata una forma di dipendenza da Internet nota con l’acronimo di IAD, Internet Addiction Disorder. La IAD è una delle ultime forme delle cosiddette “dipendenze senza sostanze”.

Questo studio ha riportato risultati interessanti: i soggetti riconosciuti come affetti da internet addiction disorder erano in maggioranza donne, verso la mezza età, utilizzavano il pc per un tempo otto volte superiore agli altri individui e presentavano problemi rilevanti nella loro vita economica, lavorativa e relazionale e di sostegno. Inoltre prediligevano un uso di internet a scopo interazionale e relazionale ( chat, ad esempio). Per quanto riguarda gli uomini, essi mostravano una preferenza per i giochi aggressivi ed è risultato che utilizzassero internet maggiormente per siti pornografici e chat erotiche.

 

Come le nuove tecnologie hanno modificato lo stile di vita

Dal punto di vista clinico, è emerso che la personalità predisposta ad un disturbo da dipendenza da internet sia costituita da tratti ossessivo-compulsivi, instabilità sociale, inibizione relazionale ed una certa inclinazione al ritiro sociale, e dimensioni di sensation seeking.
Ciascuno di noi, da ben prima che arrivasse Internet, faceva parte di una quantità di reti: familiari, scolastiche, associative, lavorative. Ognuna di queste reti ha un proprio “oggetto sociale”, segni di (auto)riconoscimento, regole implicite ed esplicite che definiscono le relazioni fra chi ne fa parte; quel che è successo negli ultimi 15 anni è che ci siamo trovati in mano strumenti che ci permettono di:
– Gestire in modo molto più rapido ed economico la comunicazione all’interno delle reti di cui già facciamo parte (una mailing list o un gruppo segreto su Facebook sono mille volte più efficienti della catena di telefonate);
– Restare in contatto facilmente con persone che altrimenti avremmo perso, riducendo così il costo di mantenimento dei legami sociali “deboli” (il gruppo di persone che si sono conosciute in vacanza, la classe delle elementari); cercare e trovare persone che ancora non conosciamo ma con cui condividiamo passioni e interessi, creando nuove reti all’interno delle quali, spesso, sul terreno della passione comune germogliano amicizie e amori.

Le nuove tecnologie ridisegnano il paesaggio della nostra vita emotiva; ma ci offrono davvero la vita che vogliamo vivere?
I”Nativi digitali” cresciuti con Internet, gravitano verso “superficiali” comportamenti di elaborazione delle informazioni sono capaci di un rapido spostamento dell’attenzione e ridotte capacità di riflessione. Adottano comportamenti multitasking che sono collegati a una maggiore distraibilità e scarse capacità di controllo esecutivo. I nativi digitali presentano anche una maggiore prevalenza di comportamenti di dipendenza legate a Internet che rispecchiano degli alterati meccanismi di ricompensa e autocontrollo. Recenti indagini di neuroimaging hanno suggerito associazioni tra questi impatti cognitivi legati a Internet e i cambiamenti strutturali nel cervello. (Kep Kee L., Ryota K.,2015).

Certo, le nuove tecnologie hanno i loro indubbi vantaggi ma, come per tutte le cose, per trarne davvero vantaggio ci vuole equilibrio.
Gli studi di Ellison, Steinfield e Lampe (2007) e di Mazzoni e colleghi (Frozzi e Mazzoni, 2011; Mazzoni e Gaffuri, 2009; Mazzoni e Iannone, 2014) evidenziano come l’uso di Internet, in particolar modo dei Social Networking Sites (SNS), possa essere concepito come un organo funzionale (Leont’ev, 1974) che potenzia o sostiene le abilità umane.

Ricerche recenti hanno mostrato come l’utilizzo dei SNS possa portare a un maggior grado di benessere. Valkenburg, Peter e Schouten (2006) hanno evidenziato come la frequenza d’uso di un SNS tedesco influisca indirettamente sull’autostima e sul benessere psicologico di un campione di adolescenti, grazie anche alla frequenza dei feedback positivi ricevuti sul proprio profilo.

In un altro studio, analizzando la relazione tra i possibili benefici ricavabili dalla creazione e dal mantenimento delle relazioni interpersonali, l’autostima e l’uso dei SNS in studenti americani di college, è risultato che coloro che avevano una bassa autostima traevano maggior beneficio dall’utilizzo di Facebook rispetto a coloro che avevano un’autostima più elevata (Steinfield et al., 2008). I recenti contributi di Frozzi e Mazzoni (2011) e di Mazzoni e Iannone (2014), basati su un impianto teorico e metodologico simile a quello proposto da Steinfield, Ellison e Lampe (2008), hanno mostrato come i risultati rintracciati nel campione di studenti di college americani siano simili a quelli di studenti italiani alle prese con la transizione dalla scuola secondaria di secondo grado all’università.

La rete agevola e velocizza le attività umane in molti ambiti, lavorativi e non, producendo vantaggi economici (in termini di spostamenti in auto, treno e aereo, che caratterizzano i rapporti in presenza) e ambientali non secondari. Allo stesso tempo sostiene, migliora e potenzia alcuni aspetti essenziali che caratterizzano la vita umana, fra cui la socialità, la ricerca di informazioni e la gestione di varie incombenze personali e famigliari (Frozzi e Mazzoni, 2011; Mazzoni e Gaffuri, 2009).

L’influenza delle interazioni online sulla società porterebbe, quindi, a una trasformazione dei gruppi di quartiere in reti sociali, senza intaccare in modo significativo le interazioni faccia-a-faccia tra i suoi membri, ma rendendone più frequenti i contatti e rafforzandone anche i legami interpersonali (May, 2000).

L’autocontrollo e l’autoregolazione permettono di gestire attivamente una determinata situazione, dall’altro, la consapevolezza di ciò che si sta facendo permette di avere un costante monitoraggio sull’andamento della situazione. Con il termine «mindfulness» (consapevolezza) si definisce proprio la presenza o l’assenza di attenzione e di consapevolezza relativamente a quanto avviene nel presente (Walach et al., 2006) o, più semplicemente, un’oggettiva esperienza di consapevolezza (MacKillop e Anderson, 2007).

Dato che la mindfulness ha un ruolo importante nel mantenere una certa dose di attenzione ed evitare comportamenti negativi, alcuni studiosi (Lee e Lai, 2014) si sono chiesti se questo fattore possa diminuire il rischio di comportamenti di dipendenza da Internet negli adolescenti. Lungi dal pensare che solo negli adolescenti la mindfulness possa influire sui loro comportamenti online, è possibile certamente ipotizzare un effetto di questo fattore, associato all’autoregolazione, sull’utilizzo problematico di Internet.

Internet può essere analizzato all’interno di un continuum che ha come estremi, da una parte, l’uso funzionale in grado di potenziare le abilità dell’uomo e, dall’altra, l’uso problematico che può avere ripercussioni critiche nella vita quotidiana.
Sicuramente studi longitudinali in tale ambito ci permetteranno sempre più di comprendere quali variabili personali, sociali e ambientali possano spostare il nostro modo di utilizzare il web verso un polo o l’altro.

Mutismo selettivo: quali contributi dall’ipnosi?

Attualmente il mutismo selettivo è considerato un disturbo difficile da trattare. L’ipnosi si è dimostrata efficace nel trattamento dei disturbi del linguaggio ad esordio infantile e nel trattamento del mutismo selettivo, come mostra il caso di Stella.

Il mutismo selettivo (MS) è un disturbo che emerge durante l’infanzia ed i bambini che ne soffrono, a fronte di una capacità di produrre linguaggio integra, non parlano in contesti in cui ci si aspetta che lo facciano (es. scuola, asilo). Riescono invece ad esprimersi verbalmente in ambienti familiari come quello domestico.

Il mutismo selettivo colpisce 1-2 bambini su dieci e si presenta più spesso nelle bambine (American Psychiatric Association, 2013). Si tratta di un disturbo che perdura nel tempo se non trattato: ricerche longitudinali hanno mostrato che la durata media è di circa 8 anni e che, anche nei casi in cui il sintomo principale venga risolto, il bambino tenderà ad avere difficoltà relazionali, comunicative e di rendimento scolastico/accademico anche da adulto. (Remschmidt, Poller, Herpertz-Dahlmann, Henninghausen, & Gutenbrunner, 2001).

Il fatto che sia i bambini con mutismo selettivo che i loro familiari tendano a mostrare quadri ansiosi ha portato recentemente i ricercatori ad includere questo disturbo nella categoria dei disturbi d’ansia (Arie, Henkin, Tetin-Schneider, Apter, Sadeh, & Bar-Haim, 2007; Anstendig, 1999; Bögels, et al., 2010; Kristensen H. , 2000; Kristensen & Torgersen, 2001; American Psychiatric Association, 2013). In altre parole, la ricerca ci dice che questi bimbi non sono disubbidienti o ostinati a non parlare. Al contrario, vivono uno stato di forte disagio che gli impedisce di farlo.

Un altro fattore che sembra predisporre al disturbo è l’appartenere ad una famiglia immigrata nello stato di residenza.

 

Gli approcci terapeutici al mutismo selettivo

Attualmente il mutismo selettivo è considerato un disturbo difficile da trattare e nel corso degli anni sono stati utilizzati diversi approcci terapeutici.

Gli approcci di tipo farmacologico hanno tutti portato a risultati simili: nonostante alcuni miglioramenti, i pazienti rimanevano fortemente sintomatici (Black & Uhde, 1994; Manassis & Tannock, 2008).

Dal punto di vista degli interventi psicologici al mutismo selettivo, la letteratura empirica è ancora piuttosto povera e popolata per la maggior parte di lavori non sufficientemente rigorosi. Due reviews pubblicate sull’argomento supportano l’efficacia della terapia cognitivo-comportamentale (Sharp, Sherman, & Gross, 2007; Muris & Ollendick, 2015) insieme ad altri lavori (Lang, et al., 2015; Oerbeck, Stein, & Pripp, 2015) che rilevano come questo approccio abbia portato ad un miglioramento dopo circa 20-24 sedute. A seguito di questi interventi, che spesso richiedevano di lavorare con il bambino, con la famiglia e con il personale scolastico, la diagnosi di mutismo selettivo non era più applicabile per una percentuale di bambini che oscilla tra il 50% ed l’86%.

Perché utilizzare l’ipnosi con il mutismo selettivo?

L’ipnosi è una metodologia già utilizzata in modo efficace per varie forme di ansia (Hammond, 2010) anche molto gravi come l’ansia da stress acuto (Bryant, Moulds, Guthrie, & Nixon, 2005) e il disturbo post traumatico da stress (Solomon & Johnson, 2002) e si è dimostrata promettente anche nel trattare condizioni legate all’ansia infantile (Hammond, 2010; Glaesmer, Geupel, & Haak, 2015; Hizli, et al., 2015; Kekecs, Nagy, & Varga, 2014).

L’ipnoterapia si è dimostrata efficace nel trattamento di altri disturbi del linguaggio ad esordio infantile quali la balbuzie (Kaya & Alladin, 2012; Gibson & Heap, 1991; (Doughty, 1990; Kraft, 1994; Moss & Oakley, 1997) che come il mutismo selettivo sono accompagnati nella quasi totalità dei casi da una specifica forma di ansia sociale per tutte quelle situazioni che richiedono di parlare in pubblico, conoscere nuove persone, parlare ai superiori e addirittura rispondere al telefono (Iverach & Rapee, 2013).

Esistono inoltre alcuni studi sull’utilizzo di interventi ipnotici per il trattamento di disfonia di origine psicogena (Giacalone, 1981; Heap & Aravind, 2002).

 

Cos’è l’ipnosi?

Secondo la Society of Psychological Hypnosis (APA div. 30), l’ipnosi è una procedura attraverso la quale un operatore utilizza delle suggestioni volte a modificare sensazioni, percezioni, pensieri o comportamenti (American Psychological Association). Tali suggestioni vengono somministrate in uno stato diverso di coscienza noto come trance ipnotica.

L’ipnosi sta ricevendo sempre maggiore attenzione nel panorama scientifico internazionale perché si tratta di una metodica relativamente semplice da somministrare, a basso costo e senza effetti collaterali (Stoelb, Molton, Jensen, & Patterson, 2009).

Il caso presentato di seguito utilizza uno specifico approccio ipnotico che prende il nome dal suo fondatore, Milton H. Erickson. Esistono infatti due fondamentali approcci all’ipnosi: uno diretto o classico, che concettualizza lo stato di trance come uno stato prodotto dall’ipnotista nel soggetto, ed uno indiretto (o, per l’appunto, ericksoniano) che invece descrive la trance come uno stato di coscienza fisiologico che tende a presentarsi spontaneamente negli individui quando questi si sentono inclusi in una relazione accogliente, rispettosa e collaborativa detta rapport. In tale stato l’attenzione è estremamente focalizzata e tipicamente rivolta verso l’interno.

Tale modo di utilizzare l’ipnosi ha permesso di esplorare e sfruttare le trances che naturalmente si sviluppano durante le sedute psicoterapeutiche (Yapko, 2012) rendendola uno strumento versatile utilizzabile anche a supporto di altri modelli psicoterapeutici.

 

Il caso di Stella

Stella (nome di fantasia), portata da me dalla madre, è una bambina di 7 anni che da qualche tempo mostra i sintomi tipici del mutismo selettivo. La madre di Stella, una donna energica di origini straniere, trasferitasi in Italia ancora molto piccola, ha cresciuto la piccola senza il padre che ha avuto una storia di problemi con la giustizia. Le uniche persone oltre alla madre con cui Stella parla al momento della presa in carico, sono i nonni, con i quali ha vissuto per i primi anni della sua infanzia prima di trasferirsi a casa del nuovo compagno della madre.

Frequenta ancora l’asilo, le maestre infatti, a causa del suo non parlare hanno consigliato di inserirla a scuola con un anno di ritardo. Stella non socializza, aspetta seduta il momento di tornare a casa e, una volta rientrata, segue la madre di stanza in stanza e non tollera di dormire da sola.

Stella varca la porta dello studio molto arrabbiata, guarda ostinatamente per terra, si aggrappa alla madre che le ordina di entrare e di mettersi a sedere prima di ritirarsi in sala d’aspetto. Le relazioni che mi vengono consegnate parlano di una bambina che non esprime alcuna emozione, dotata di grande intelligenza e che non si ingaggia in nessuna forma di comunicazione con insegnanti o altri bambini.

In accordo con la filosofia ericksoniana ragiono sul principio dell’utilizzazione, sulla possibilità di rendere strumento quanto sta accadendo durante la sessione di lavoro. Erickson sviluppa questo concetto per gestire le resistenze al trattamento del paziente. Spesso, invece di interpretarle direttamente o contrastarle apertamente, Erickson sceglieva di sostenerle, a volte persino di prescriverle per promuovere la guarigione del paziente. ‘La resistenza è una forma di collaborazione del paziente‘ (Nardone, Watzlawick, Loriedo, 2006) sosteneva. In seguito estenderà questo principio a tutto ciò che accade in seduta: ogni evento in sessione può essere usato in senso terapeutico (per approfondire si veda Erickson & Rossi, 1979)

In questo momento Stella non può parlare ma può ascoltare, per questo decido di commentare i suoi disegni ad alta voce e mi propongo di suscitare in lei il desiderio di parlare. Per questo motivo, mentre la sua attenzione viene assorbita dai disegni, introduco delle suggestioni che raccontano di montagne apparentemente insormontabili che possono essere scalate poco alla volta e che col tempo fanno meno paura, di un altro caso di un bambino che non riusciva a muovere un braccio ma poteva immaginare di farlo e, piano piano, poteva cominciare a muoverlo senza che lo vedesse nessuno…

Le parlo anche di quanto deve essere bello essere liberi di fare ciò che si vuole e le chiedo: ‘Tu per esempio che vorresti fare?’ Al termine della seduta S. raggiunge un primo risultato, sposta la testa, che ha tenuto per tutto il tempo ostinatamente girata a destra, leggermente verso di me. E’ un movimento davvero minimale, una piccola cosa. Sulla porta, nel salutarla, le dico che, a volte, alcune cose scappano proprio, come la pipì.

Nelle due settimane che intercorrono tra la prima e la seconda seduta, ricevo una telefonata dalla madre di S. che mi racconta che la bambina ha cominciato a parlare con Dario, il suo compagno.

Scelgo di non enfatizzare questa conquista e colgo l’occasione per fare un intervento: le chiedo di chiedere alla piccola Stella se allora la prossima volta parlerà anche con me.

Per la seconda seduta, decido di preparare una scaletta di giochi dal ritmo incalzante, ognuno dei quali porterà un piccolo contributo rispetto ad uno o più aree sensibili. Voglio costruire ogni sessione attivando una serie di esperienze emotive che possano arricchire ed ampliare le sue possibilità di azione nel mondo. Il mio obiettivo è di coinvolgerla in modo da promuovere il suo desiderio di partecipare attivamente, ad interagire con un’altra persona, anche in modo non verbale per il momento. Voglio che Stella si diverta. Voglio farla salire su una giostra. Come riportato da studi idiografici sulla materia, infatti, il fatto che i bambini con mutismo selettivo non parlino non vuol dire che non vogliono che gli si parli. Al contrario, desiderano essere coinvolti nonostante il loro silenzio e temono e soffrono l’isolamento (Albrigsten, Eskeland & Mæhle, 2015).

Non so ancora se Stella avrebbe parlato anche con me e per questo preparo dei giochi che possano essere fatti anche in silenzio.

Alla seconda seduta, dopo 15 giorni, Stella arriva in studio insieme alla madre ed al suo compagno. Per la prima volta mi guarda negli occhi e mi sorride timidamente. ‘Ciao‘, mi dice.

Seguendo gli insegnamenti di Erickson, scelgo di utilizzare il setting in modo morbido, nel corso di ogni incontro vedrò sia Stella da sola, che Stella con la mamma, che mamma sola (nel caso sia necessario e possibile) muovendomi tra una stanza e l’altra, in modo da lasciarmi le mani libere e poter lavorare sul migliorare l’indipendenza reciproca di madre e bambina. Nel pensiero Ericksoniano, che poi filtrerà nella terapia familiare, il setting può diventare laboratorio per sperimentare le nuove capacità che il soggetto sviluppa in terapia. Tenendomi aperta la possibilità di spostarmi di stanza in stanza, avrei potuto aiutare Stella a fare lo stesso una volta rientrata tra le mura domestiche (Haley, 1973). Tale scelta è inoltre inquadrabile in una logica di esposizione comportamentale, nella quale il paziente, una volta costruito un senso di relativa sicurezza, viene invitato a sperimentare quelle condizioni in cui si trova in difficoltà e per le quali chiede aiuto al clinico.

Le mostro un video realizzato da una mia piccola collaboratrice, Alessandra, una bambina della sua stessa età. Opero questa scelta in quanto uno degli obiettivi del lavoro è ripristinare la capacità di interagire con i pari e volevo che Stella cominciasse ad esporsi a tali interazioni da una posizione in cui potesse sentirsi relativamente sicura e non in dovere di rispondere (Albrigsten, Eskeland & Mæhle, 2015). Si tratta di un messaggio in cui introduce una favola aggiungendo che a lei piace tanto e che sarebbe curiosa di sapere se anche Stella la troverà interessante. La favola che leggiamo insieme riprende suggestivamente alcune tematiche introdotte in prima seduta: una paperetta che non vuole fare il bagno e che viene spinta a farlo, senza successo, dagli altri animali. Persino quando arriva il lupo lei lo affronterà vedendo in lui l’ennesimo animale che vuole spingerla in acqua. La storia si conclude con la paperetta sulle rive dello stagno: la giornata è proprio piacevole e nulla le sembra più naturale che farsi un bel bagnetto. Stella mi chiede di rileggere la storia e le propongo di fare insieme i versi degli animali. Accetta.

Puntando a sviluppare la capacità di utilizzare il suo corpo come strumento di interazione e gioco, le propongo manina bella un gioco in cui tocco una alla volta le dita della sua mano per poi farle il solletico. Continua a divertirsi ed abbiamo stabilito un contatto fisico.

Sempre seguendo le logiche esposte sopra, propongo di comporre insieme un puzzle a tema Frozen che mi permette di disseminare suggestioni sul tema dell’affidarsi, del raccontarsi e del perdonare. Con il termine disseminazione ci si riferisce ad una tecnica ipnotica indiretta che punta a proporre delle suggestioni sotto forma di metafore, allusioni, analogie, mentre l’attenzione del soggetto in ipnosi è focalizzata su un compito specifico. Nel modello di intervento Ericksoniano, tali interventi vengono utilizzati per consentire al soggetto di raccogliere le suggestioni proposte senza che queste vengano respinte precocemente dai filtri del pensiero razionale (Erickson & Rossi, 1979; Gordon, 1978). Mi racconta di temere i bambini più grandi e le persone con la voce forte, per questo motivo lavoriamo in ipnosi per costruire una bolla che le permetta di sentirsi al sicuro anche fuori di casa. Stella mi segue veloce con il tipico ritmo sostenuto dei bambini.

Le propongo di colorare un disegno di Ariel la Sirenetta, un personaggio che le è caro, e, mentre lo fa, faccio per recarmi nell’altra stanza dalla madre. Prima di andare le dico che è libera di venire in qualsiasi momento ma che se fosse venuta con il disegno già colorato la madre sarebbe stata contenta. Stella decide di fare proprio così.

Parlo con la madre dell’importanza di costruire una rete sociale intorno alla famiglia e a Stella e terminiamo la seduta giocando a Jenga ed enfatizzando quanto possa essere divertente buttare giù la torre, una catastrofe divertente. Prima di andare via, registriamo un video di risposta ad Alessandra in cui Stella risponde che il libro le è piaciuto.

A seguito di questa seduta la bambina comincia a parlare con molti adulti, appare più rilassata, è comoda nel restare sola nella sua stanza. Non segue più la madre. In alcune occasioni ha accettato di pagare il conto in bar e ristoranti.
Seguiranno ancora 3 sedute di consolidamento dei risultati che – seguendo le stesse logiche di intervento – hanno permesso a Stella di interagire con altri bambini, ed un follow-up telefonico. La terapia è durata dunque 4 mesi e mezzo e si è svolta nell’arco di 5 sedute.

La depressione e la terapia metacognitiva di gruppo

La terapia metacognitiva di gruppo puo’ rappresentare un utile alternativa nella sfida del difficile trattamento delle depressioni che non rispondono ad altri trattamenti farmacologici o psicoterapeutici poiche’ si focalizza nello specifico sui meccanismi chiave del mantenimento della psicopatologia depressiva

 

La depressione e la ruminazione

La terapia metacognitiva puo’ prestarsi al trattamento – non solo dei disturbi d’ansia – ma anche della depressione. Il modello metacognitivo prevede infatti che vi siano alcuni fattori che favoriscono lo sviluppo e il mantenimento dei sintomi depressivi. Questo e’ particolarmente rivelante se pensiamo alla quota di pazienti che presentano depressioni gravi e croniche non rispondenti ai trattamenti farmacologici e/o alla combinazione di questi con la psicoterapia.

L’approccio metacognitivo riconosce un ruolo centrale al pensiero perseverativo nell’eziopatolgenesi della depressione (Wells e Matthews, 1994), e piu’ nello specifico alla ruminazione. In questo quadro per ruminazione si intende una modalita’ di pensiero ripetitivo e passivo proprio riguardo i sintomi della depressione, le relative conseguenze e le possibili cause: in altre parole significa pensare continuamente al fatto che si è depressi, ai propri sintomi, nonchè analizzare le cause, i significati e le conseguenze di tali sintomi depressivi (Nolen-Hoeksema 1991, p. 569). Vi sarebbero dunque una serie di conseguenze negative della ruminazione tra cui l’ulteriore decremento del tono dell’umore e aumento dei sintomi depressivi, la diminuzione delle capacita’ di problem-solving e della motivazione, il deficit nella concentrazione e l’aumento del distress. Secondo il modello metacognitivo la ruminazione è mantenuta da un’insieme di credenze metacognitive maladattive e dalla focalizzazione rigida e inflessibile dell’attenzione (Wells e Matthews, 1994).

 

Le credenze metacognitive positive sulla ruminazione

A partire da queste premesse Papageorgiou e Wells (2004) hanno messo a punto un ulteriore approfondimento del modello metacognitivo della depressione secondo cui le credenze metacognitive positive riguardo i vantaggi (in realta’ erroneamente percepiti) della ruminazione motivano implicitamente –quasi inconsapevolmente- l’individuo a uno stile di pensiero disfunzionale.

Per esempio molte persone sono convinte implicitamente che attraverso l’analisi interiore possono comprendere le cause e trovare soluzioni definitive. Questo sforzo mentale per conoscere e risolvere la depressione, ma anche i problemi quotidiani, può essere il motore più che l’antidoto. I pazienti depressi possono rimanere intrappolati in una catena di pensieri negativi, di riflessioni spossanti che lasciano un sapore d’impotenza e prolungano l’umore depresso. Questa è definita ruminazione mentale e una volta innescata può essere percepita come incontrollabile e quindi dannosa.

Dunque la complessa interdipendenza tra metacognizioni e ruminazione sarebbe un fattore determinante nella depressione (di seguito una serie di riferimenti a studi sperimentali e prospettici che supportano empiricamente il modello (Papageorgiou e Wells, 2001, 2003, 2004, 2009; Roelofs et al.2007). Alcuni studi hanno inoltre riscontrato che la presenza di ruminazione è in grado di predire l’insorgenza, la gravità e la durata della depressione (Just e Alloy, 1997; Kuehner e Weber, 1999; Spasojevic e Alloy, 2001). La ruminazione sarebbe inoltre associata a una minore responsività ai trattamenti sia farmacologici che psicoterapici  (Ciesla e Roberts, 2002; Jones et al. 2008).

 

La terapia metacognitiva di gruppo per la depressione

Il modello metacognitivo si presta ad essere applicato – al pari di altri approcci terapeutici – come terapia di gruppo. In linea generale, la terapia metacognitiva della depressione consiste in un lavoro specifico di identificazione e modificazione delle credenze metacognitive, dei processi ruminativi e attentivi rigidi e ripetitivi (Wells e Papageorgiou, 2004).  Ad esempio uno studio di Papageorgiou e Wells (2000) ha dimostrato che il training attentivo è associato a una significativa riduzione di sintomi depressivi e della ruminazione in pazienti con depressione ricorrente, con un mantenimento di tali esiti positivi anche a 12 mesi dal termine della terapia. Simili risultati sono stati ottenuti anche in altri studi (ad esempio Wells et al., 2012). In riferimento alla terapia di gruppo uno studio norvegese (Dammen et al., 2015) la terapia metacognitiva di gruppo si è dimostrata significativamente efficace nel trattamento dei sintomi depressivi – anche nel follow-up.

In particolare lo studio piu recente di Papageorgiu e Wells (2015)  ha voluto analizzare un campione di pazienti che presentavano una depressione grave non rispondente alle terapie. Cosa si intende con questo? Si intende un gruppo di pazienti che non avevano riscontrato beneficio nè dalla somministrazione di farmaci antidepressivi nè da una serie di (dodici) sedute di terapia cognitivo-comportamentale standard.

L’obiettivo dello studio era verificare l’efficacia della terapia metacognitiva somministrata in un setting di gruppo, in cui i pazienti di fatto hanno partecipato a 12 sedute (della durata di due ore ciascuna) di terapia metacognitiva di gruppo, con frequenza di una seduta a settimana. Il terapeuta di gruppo era l’ideatore (insieme ad Adrian Wells) del modello con 18 anni di esperienza nella somministrazione della terapia metacognitiva. Inoltre è stato effettuato un adattamento della terapia al format di gruppo: ad esempio le prime sedute si focalizzavano sull’incremento della motivazione al cambiamento  e alla diminuzione della sensazione di hopelessness, ai processi di socializzazione e di condivisione del modello metacognitivo della depressione e delle proprie credenze metacognitive con gli altri membri del gruppo.

In seguito, una serie di sedute esperienziali di gruppo si focalizzavano sull’appropriazione e sulla pratica di training attentivo e della detached mindfulness. In una fase successiva le sedute avevano invece l’obiettivo di modificare le credenze metacognitive riguardo la ruminazione attraverso tecniche verbali e comportamentali, e di conseguenza apprendere ed esperire nuove modalita’ di risposta (sia a livello attentivo, cognitivo e comportamentale) ai trigger depressogeni per evitare la riattivazione delle precedenti strategie di coping ruminative disfunzionali. Al termine della terapia di gruppo di 12 sedute, a distanza di due e sei mesi i pazienti sono stati sottoposti ad ulteriori sedute di mantenimento.

La misura di outcome principale utilizzata è il grado di recupero dalla patologia come definito da Frank et al. (1991): questo indice e’ particolarmente stringente poichè richiede sia la riduzione della sintomatologia depressiva entro un range di normalità che l’assenza dei criteri per la diagnosi di disturbo depressivo maggiore.

I risultati dello studio dimostrano che la terapia metacognitiva di gruppo ha avuto effetti statisticamente significativi nel miglioramento dei sintomi depressivi, della ruminazione e nella modificazione delle credenze metacognitive, con un mantenimento anche al follow-up di sei mesi. Al termine della terapia (e anche nel follow-up) il 70 % dei pazienti non presentava piu’ i criteri per la diagnosi di disturbo depressivo maggiore.

In conclusione la terapia metacognitiva di gruppo puo’ rappresentare un utile alternativa nella sfida del difficile trattamento delle depressioni che non rispondono ad altri trattamenti farmacologici o psicoterapeutici poiche’ si focalizza nello specifico sui meccanismi chiave del mantenimento della psicopatologia depressiva.

 

Congresso Internazionale Terapia Metacognitiva Milano 2016

Presentazione del libro: Il femminile in criminologia, la donna vittima e carnefice (2016)

Le notizie di cronaca, gli approfondimenti giornalistici, le trasmissioni televisive ci informano sempre più frequentemente sulle orrende violenze familiari, di cui spesso le donne sono protagoniste. In qualità di studiose della psiche e delle dinamiche criminologiche, le autrici hanno voluto approfondire questi avvenimenti così delicati, che sembrano investirci e moltiplicarsi.

Il libro, curato dalle criminologhe Sonia Bucolo, Nicoletta Rosi e dalla psicologa Amelia Rizzo, nasce infatti da un attento studio delle tematiche relative alle espressioni del femminile nella criminologia ed affronta varie condizioni in cui la donna può essere vittima dell’atto criminoso o principale attrice.

Capitolo dopo capitolo vengono analizzate non solo le cause contestuali, criminodinamiche e psicologiche ma anche gli effetti di tali avvenimenti, con una particolare attenzione alla diffusione dei modelli internazionali di prevenzione, che si innestano nella catena consequenziale dell’escalation criminosa, potendola talvolta spezzare. Il volume racchiude, a tale scopo, tre sezioni.

Nello specifico, la Dott.ssa Sergi Ilaria, autrice della prima sezione, ha approfondito le tematiche relative alla violenza sulle donne, dando particolare enfasi alle diverse tipologie di violenze subite, nella disamina di una varietà di approcci teorici esplicativi e nel confronto fra i modelli internazionali di trattamento dei partner violenti.
La Dott.ssa Violi Eleonora, nella seconda sezione, ha approfondito gli aspetti culturali e psicosociali legati al femminicidio, con particolare riferimento alla criminogenesi e alla criminodinamica nel contesto nazionale.
La Dott.ssa Isaja Francesca, autrice della terza sezione, ha invece approfondito la tematica relativa al figlicidio materno, tracciando un’attenta analisi della delicata fase della maternità nei suoi aspetti psicologici più profondi.

Il volume offre alcuni spunti di riflessione psicologica, certamente non esaustivi, ma frutto di attente analisi e ricerche. La comprensione delle dinamiche che ruotano attorno al femminile nella criminologia, potrebbe gettare le basi per la strutturazione di conoscenze condivise ed interdisciplinari, un ponte fra le scienze criminologiche, le scienze psicologiche e le scienze sociali.

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