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Presentazione del libro di Maria Rosa Madera “Superare i confini. Psicoterapia integrata e di comunità”

Presentazione del libro
di Maria Rosa Madera “Superare i confini. Psicoterapia integrata e di comunità”

Martedì 22 marzo 2016, ore 21:00
Casa della Psicologia, Piazza Castello 2, Milano

 

Cinque anni di studi, di ricerche e di approfondimenti sull’applicazione della Psicoterapia Integrata e di comunità. “Superare i confini”, più che un manuale per gli addetti ai lavori, è una narrazione dell’esperienza professionale dell’autrice. Maria Rosa Madera – psicologa e psicoterapeuta – accompagnerà il pubblico in sala alla scoperta di una tecnica terapeutica, quella della psicoterapia integrata, che scardina la psicologia tradizionale, superandone i limiti.

Converseranno con l’autrice: Riccardo Bettiga, psicologo, psicoterapeuta e presidente dell’Ordine degli Psicologi della Lombardia ed Elisa Marchioni, psicologa e psicoterapeuta. Modera Anna Baracco, psicoterapeuta, psicoanalista a orientamento Lacaniano, membro ALIPSI.

Ufficio stampa:

– Simona Seminario – [email protected] (335 1821270)
– Tommasina Cazzato – [email protected] (345 7357751)

Psicoterapia con pazienti stranieri secondo l’approccio cognitivo comportamentale: verso una prospettiva italiana

Una riflessione sull’efficacia della psicoterapia con pazienti stranieri, non fa solo riferimento ad un bisogno contingente al recente fenomeno migratorio italiano, bensì si rivolge alla realtà clinica che caratterizzerà l’utenza delle nostre strutture pubbliche e private da oggi agli anni a venire.

Simona Bianco, Claudia Emma Messore, Giulia Radice – OPEN SCHOOL Scuola di Psicoterapia Cognitiva e Ricerca

Psicoterapia con pazienti stranieri: introduzione

Negli ultimi anni in Italia il numero di persone migranti è aumentato notevolmente fino a superare, solo nell’ultimo decennio, i tre milioni di residenti stranieri (Caritas, 2010). Sebbene tra i cittadini stranieri prevalga una percezione positiva del proprio stato di salute (ISTAT, 2012), la salute mentale dei migranti è oggi, tanto in Italia così come in Europa, una problematica crescente, su cui vale la pena soffermarsi dal punto di vista clinico e sociale.

L’incontro tra servizi e pazienti stranieri conduce ogni giorno verso la rivelazione di nuove e peculiari espressioni di disagio psichico legate ad elementi culturali specifici (Tarricone et al. 2012) e obbliga a interrogarsi sull’efficacia e l’adeguatezza degli interventi proposti.

A differenza di altri paesi, coma la Francia, l’Inghilterra e soprattutto gli Stati Uniti, l’Italia si è trovata solo di recente a confrontarsi con il fenomeno migratorio e con la sua conseguente trasformazione identitaria, che ha portato il nostro paese a trasformarsi da luogo emigratorio a meta immigratoria, ed è anche per tale motivo che la letteratura italiana relativa alla psicoterapia con pazienti stranieri è meno florida rispetto a quella presente in altri paesi.

Obiettivo di questo lavoro è di operare una riflessione sulla psicoterapia con pazienti stranieri non-occidentali (Schraufnagel et al. 2006) secondo una prospettiva cognitivo comportamentale.

Una riflessione sull’efficacia della psicoterapia con pazienti stranieri non-occidentali ad orientamento cognitivo-comportamentale, non fa solo riferimento ad un bisogno contingente al recente fenomeno migratorio italiano, bensì si rivolge alla realtà clinica che caratterizzerà l’utenza delle nostre strutture pubbliche e private da oggi agli anni a venire.

Nella seguente review si è deciso di analizzare solo e unicamente studi inerenti i Disturbi d’Ansia e dell’Umore e pazienti stranieri. Tale decisione è stata dettata dalle seguenti ragioni: l’efficacia ampiamente riconosciuta l’approccio cognitivo comportamentale nel trattamento dei Disturbi d’Ansia e dell’Umore (Ruggiero & Sassaroli, 2013), la scarsità di dati relativi ad altri quadri psicopatologi. Inoltre, sebbene molti studi epidemiologici mostrino un eccesso di psicosi tra i migranti di prima e seconda generazione (Morgan, 2005), molti dei disturbi inizialmente diagnosticati come psicotici tendono a evolvere in quadri più coerenti con diagnosi di PTSD o depressione (Cremonese, 2014).

 

Psicoterapia con pazienti stranieri: precisazioni terminologiche preliminari

In primo luogo, prima di parlare di psicoterapia con pazienti stranieri, appare necessario operare una riflessione su alcuni termini, come razza, etnia, cultura e minoranza. Nonostante alcune differenze terminologiche possano talvolta apparire scontate, una chiara conoscenza della definizione di queste espressioni e del loro significato condiviso, diviene fondamentale all’interno della pratica clinica.

Psicologia crossculturale

L’espressione razza non indica una categoria di individui definita su criteri biologici, ma piuttosto un costrutto sociale usato per identificare ogni raggruppamento d’individui costituito in modo empirico sulla base di caratteri somatici esteriori comuni (razza, n.d.), come ad esempio, il colore della pelle.

Il termine etnia viene invece usato per indicare un gruppo di individui che condividono un medesimo patrimonio in termini di storia, lingua, rituali ecc. Si nota subito come i due termini qui sopra definiti siano solo parzialmente interscambiabili: individui della stessa razza possono appartenere a etnie differenti, sia in termini di storia sia di cultura (nativi hawaiani e i vietnamiti americani).

La parola cultura, invece, indica quell’insieme di credenze, norme e valori che determinano il significato attribuito alle esperienze ed eventi di vita. Ancora una volta tra i termini esiste solo una parziale sovrapposizione, per cui individui appartenenti alla medesima razza ed etnia, possono possedere caratteristiche culturali uniche (messicani vs cubani) (Schraufnagel et al. 2006).

All’interno di questo articolo si è quindi deciso di utilizzare il termine minoranza, inteso come gruppo di cittadini che nell’interno di uno stato si distinguono dalla maggioranza, secondo i casi, per la razza o per la lingua o per la religione, a cui s’accompagna molte volte una diversa coscienza nazionale (minoranza, n.d.), per indicare tutto ciò che si colloca al di fuori della cultura giudeo-cristiana occidentale euro-americana (non occidentale).

Va tuttavia rilevato che la scelta di tale termine ha un valore puramente di convenienza espositiva e che chi scrive riconosce i limiti dei termini adoperati.

 

Il rapporto tra cultura e malattia nella psicoterapia con pazienti stranieri

L’OMS definisce la salute mentale come:

Stato di benessere nel quale il singolo è consapevole delle proprie capacità, sa affrontare le normali difficoltà della vita, lavorare in modo utile e produttivo ed è in grado di apportare un contributo alla comunità” e chiarisce che “non c’è salute senza salute mentale

(OMS, 2005).

Questa definizione universalmente condivisa può tuttavia declinarsi in molti modi differenti. Immaginiamo di trovarci davanti una persona in evidente stato di sofferenza psicologica e di porle le domande elaborate da Kleinman (1980) per la comprensione del modello esplicativo di malattia del paziente:

  • Quale pensa che sia la causa del suo problema?
  • Perché pensa sia accaduto?
  • Cosa pensa che la malattia causi alla sua persona?
  • Quanto è grave la sua malattia? Durerà molto o poco tempo?
  • Di quali trattamenti avrebbe bisogno?
  • Cosa si aspetta di ottenere da questi trattamenti?
  • Qual è il problema principale che questa malattia le ha causato?

Come ci risponderebbe un nostro connazionale italiano? Certo le risposte possibili potrebbero essere tante, ma se ripetessimo l’esercizio un paio di volte e confrontassimo poi le risposte, potremmo verosimilmente scoprire alcuni punti in comune tra queste.

Se invece, nel ripetere l’esercizio, ponessimo nella pratica clinica tale domanda a un italiano e, allo stesso tempo, la ponessimo in contesti di psicoterapia con pazienti stranieri come, per es., un brasiliano, un nepalese e un etiope? Molto probabilmente le risposte ottenute da soggetti delle differenti nazionalità sarebbero molto diverse Tuttavia, ognuna di queste risposte sarebbe parimenti valida ai fini dell’obiettivo comune: la salute.

L’espressione di un disagio e l’idea di salute dipendono in gran misura dal modo in cui l’individuo interpreta gli eventi intorno a sé, la propria storia di vita e le relazioni causa-effetto che attribuisce agli eventi (Biorci 2009). In questo processo la cultura di appartenenza gioca un ruolo fondamentale.

Per Kleiman (1980) il modello esplicativo che il paziente produce della propria malattia è il risultato dell’insieme di nozioni e itinerari che egli stesso attiva a partire dall’esperienza della malattia e dalla ricerca della cura, dalle ipotesi e dalle cause di malattia messe in campo nei contesti familiari e sociali di appartenenza. L’analisi delle differenze e le riflessioni sul legame tra cultura e malattia mentale hanno coinvolto molti studiosi e visto la nascita dell’etnopsichiatria intesa come disciplina di studio sistematico delle teorie e delle pratiche psichiatriche di un determinato gruppo etnico che si occupa delle interpretazioni tradizionali delle malattie mentali e delle procedure di guarigione tradizionali (Tseng, 2001).

 

Il rapporto tra psicopatologia e immigrazione

In merito alla relazione tra psicopatologia e immigrazione, ci sono principalmente due linee di ricerca: una prende in considerazione l’immigrazione come fattore di rischio epidemiologico e ne studia l’impatto sull’incidenza dei disturbi mentali, l’altra studia la relazione tra cultura e psicopatologia.

La migrazione è stata identificata sia come fattore protettivo sia come fattore di rischio per alcuni disturbi psichiatrici. In Nord America, l’effetto migranti sani (la scoperta che persone recentemente immigrate sono più in salute rispetto alla popolazione di nativi) è stato ampiamente riportato tanto per ciò che concerne la salute mentale (Aglipay et al. 2012), quanto rispetto a quella somatica (Ng, 2011). D’altro canto, studi europei hanno riportato una maggiore prevalenza di disturbi mentali nella popolazione di migranti (Missinne e Bracke, 2010); risultati simili sono stati trovati anche in America del Nord ma solo per specifici sottogruppi di migranti (Cislo et al. 2010).

Anche le Linee Guida Canadesi per la Salute degli Immigrati (Kirmayer et al. 2011) affermano che la migrazione può essere considerata un fattore di rischio per la depressione (e probabilmente di altri disturbi mentali) se associata ad esperienze avverse. Ulteriori possibili fattori di rischio per l’insorgenza di disturbi depressivi e d’ansia nei migranti potrebbero essere individuati, come ipotizzato anche da Cimino (2015), da un maggiore carico famigliare e sociale, un elevato numero di figli da crescere, violenze domestiche, uno scarso livello di integrazione sociale e incertezze legate al futuro. Possiamo certamente osservare che gli studi fino ad ora condotti non permettano di chiarire definitivamente il peso della variabile migrazione all’interno dell’insorgenza di una condizione di disagio psicofisico. D’altra parte si potrebbe ipotizzare che sia il ritrovarsi a far parte di una minoranza, più che l’atto migratorio in sé a determinare la comparsa di uno stato di malessere.

In un altro filone di ricerche, la cultura è stata descritta come un fattore che influenza l’espressione sintomatica del disturbo mentale, in particolare dei disturbi ansioso-depressivi. Sebbene la ricerca epidemiologica cross-culturale abbia confermato la presenza di depressione maggiore e di disturbi ansiosi in tutto il mondo, l’espressione e l’interpretazione sintomatica e la risposta sociale a tali patologie varia ampiamente attraverso i differenti contesti culturali (Kirmayer et al. 1995). In generale, sebbene esista una gamma di emozioni universali, ci sono sentimenti più complessi che fanno riferimento a tratti dell’interazione sociale e a contesti specifici che variano a livello cross-culturale.

Tale variazione può influenzare l’esperienza e l’espressione di forme di disforia quali depressione e ansia, che hanno connotazioni cultura-specifiche. In generale, secondo la psichiatria evolutiva, la depressione è connessa alla risposta alla mancanza di relazioni interpersonali, status sociale o incentivi, mentre l’ansia è maggiormente correlata all’anticipazione di minacce al corpo o alla salute propria o altrui (Kirmayer, 2001). Le emozioni collegate a tali risposte sono elaborate in modalità distinte per contesti culturali e sociali che influenzano i sistemi neurali, la rappresentazione psicologica e i pattern interazionali nel corso di vita (Harrè et al. 1995).

In molte culture i disturbi dell’umore e disturbi d’ansia non sono visti come problemi relativi alla salute mentale, bensì difficoltà di ordine sociale o morale (Kyrmayer et al. 1989); si potrebbe dunque ipotizzare che una differente attribuzione di significato clinico alla sintomatologia ansioso depressiva possa condurre a un minor accesso di pazienti stranieri ai servizi di salute mentale e quindi al trattamento.

È infine molto interessante riportare quando notato da Nazroo e colleghi (2005), secondo cui una recente storia di immigrazione si condurrebbe maggiormente verso la tendenza alla manifestazione di disturbi somatici funzionali come equivalenti di sintomi ansioso-depressivi, mentre una più remota storia di migrazione comporterebbe, come correlato del processo di acculturazione e di adattamento al paese di accoglienza, una maggiore espressività della sofferenza psichica secondo le tradizionali tipologie della cultura occidentale rappresentati da sintomi ansiosi e depressivi. Per esempio, rispetto all’espressione dei disturbi depressivi e ansiosi, studi che mettono a confronto gruppi provenienti da background culturali differenti sia negli stessi paesi sia tra paesi differenti, hanno rilevato, nella presentazione della depressione, una maggiore frequenza di lamentele somatiche, una minor discriminazione tra disturbo ansioso e depressivo, e un più basso livello di sentimenti di colpa nelle popolazioni non occidentali (Caplan et al. 2010).

Ancora, in uno studio del 2013, Saraga et al. hanno messo a confronto 85 immigrati e 34 controlli afferenti all’Unità per i Disturbi d’Ansia e dell’Umore dell’Ospedale Universitario di Losanna, ed hanno rilevato che in pazienti con criteri DSM IV per il disturbo depressivo maggiore, la presentazione clinica dei migranti era caratterizzata da comorbidità con più diagnosi, in particolare ansia, disturbi somatoformi e PTSD, e da un decorso più grave e cronico non remissivo.

I fenomeni migratori ci permettono così di produrre nuove indagini, fornendoci informazioni interessanti sulla mutevolezza dell’espressione del disturbo mentale in funzione del luogo in cui si vive.

 

La psicoterapia con pazienti stranieri: l’approccio cognitivo-comportamentale

Come già detto precedentemente, l’esperienza migratoria rappresenta, per i pazienti stranieri, uno choc culturale ed identitario in cui il soggetto si trova di fronte alla sfida di dover ridefinire il proprio progetto di vita, di delinearne le coordinate nello spazio e nel tempo e ciò, secondo Cimino (2015), lo esporrebbe a un maggiore rischio di sviluppare disturbi mentali gravi. Questi dati hanno portato a riconsiderare il ruolo degli eventi di vita stressanti nello sviluppo e nella risposta alla cura, alle quali in precedenza veniva attribuita un’eziologia differente (Boydell, 2013).

Si può quindi affermare che le persone non esprimano il loro disagio secondo una modalità fissa e predeterminata dalla cultura di origine, ma possano modificare l’espressione del proprio malessere conformemente agli standard del paese ospitante.

Considerando queste evidenze, si potrebbe quindi ipotizzare che non sia necessario utilizzare una terapia transculturale, oppure una terapia ad hoc per ogni cultura, bensì un approccio maggiormente validato in occidente, con alcuni accorgimenti cultura-specifici. Ne è un esempio la Culturally Adapted Cognitive Behavior Therapy, (CA-CBT).

La Psicoterapia Cognitivo Comportamentale (CBT), come illustrato dall’Organizzazione Mondiale di Sanità, ha un ruolo elettivo nel trattamento dei disturbi d’ansia, disturbo ossessivo compulsivo (NICE 2004) e della depressione (OMS, 2012)

L’aspetto teorico cardine della CBT pone in interconnessione, pensieri (beliefs), emozioni e comportamenti. Il disturbo mentale e le problematiche della sfera emotiva sono visti come la conseguenza di pensieri disfunzionali che persistono nel tempo a causa di meccanismi di mantenimento (Semerari, 2000). Il soggetto che interpreta la realtà mediante pensieri disfunzionali e idee irrazionali, proverà quasi certamente sofferenza e in alcuni casi svilupperà psicopatologia. L’obiettivo della Psicoterapia Cognitivo Comportamentale è, quindi quello di individuare i pensieri disfunzionali per poi sostituirli con pensieri maggiormente adattivi e funzionali per il soggetto attraverso tecniche specifiche.

Il modello di malattia alla base della CBT, e dell’approccio cognitivo comportamentale in generale, è di stampo prettamente occidentale (Rathod et al. 2009). Molti elementi della cura, come ad esempio l’aspetto individuale e di lavoro, che il paziente deve fare per costruire in collaborazione con il terapeuta un nuovo benessere, riflettono la cultura all’interno della quale la CBT opera.

Un approccio di questo tipo alla malattia e alla cura potrebbe andare in contrasto, per esempio, con alcuni modelli di vita orientale centrati principalmente sul gruppo e sulla famiglia piuttosto che sul singolo. Anche la modalità collaborativa con cui terapeuta e paziente avanzano nella comprensione comune del disagio può apparire estremamente pragmatica e di difficile comprensione per alcune culture, che concepiscono il rapporto tra curante e curato in ottica di subordinazione del secondo nei confronti del primo (Rathod, 2009). Tuttavia è possibile adottare alcuni accorgimenti attraverso cui rendere la CBT fruibile anche quando l’idea di malattia, cura e psicoterapia con pazienti stranieri sia estremamente differente dal punto di vista culturale del terapeuta.

Ad esempio nella Chinese Taoist Cognitive Psychotherapy, (CTCP), che rappresenta un tentativo di incorporare i principi del Taoismo all’interno di una terapia cognitiva, il terapeuta si focalizza inizialmente sull’identificazione di stressors attuali e sulla valutazione dei beliefs, del sistema di valori, del conflitto e dello stile di coping, per poi assumere successivamente un ruolo più didattico: ad esempio, il terapeuta CTCP utilizza all’incirca cinque ore per illustrare al paziente i 32 caratteri taosti (Zhang et al.. 2002). Per comprendere meglio il ruolo didattico assunto dal terapeuta nella CTCP può essere utile far riferimento a uno dei principi terapeutici suggeriti da Hwang et al.. (2006) per la psicoterapia con pazienti stranieri cino-americani: i terapeuti possono guadagnare la fiducia del paziente presentando se stessi come figure autorevoli e in grado di fornire aiuto.

Ciò deriva dal fatto che nella cultura cinese la gerarchia dei ruoli, la struttura sociale e le figure autoritarie vengono viste con estremo rispetto (Lin, 2007; Zhang et al. 2002), molto più che nelle culture euro-americane. Per mantenere tale autorità il terapeuta potrebbe dover assumere un ruolo più proattivo, rivolgendo al cliente suggerimenti e indicazioni precise nell’insegnamento delle competenze e delle pratiche terapeutiche utili per il raggiungimento di un immediato sollievo sintomatico (Hwang et al. 2006). Tale modalità di conduzione terapeutica appare sotto molti punti di vista distante a quella abitualmente adottata dai terapeuti CBT occidentali.

Ancora, Organista e Muñoz (1997), forniscono una dettagliata serie di indicazioni utili per facilitare lo sviluppo di una buona relazione nella psicoterapia con pazienti stranieri latini/ispanici. In primo luogo, è necessario conoscere e aderire ad alcuni values specifici, tra cui l’espressione di rispetto nei confronti del paziente, esprimibile tramite l’uso di forme di cortesia quali señor o señora e il mantenimento di un atteggiamento orientato al para servirle (per servirla). Gli autori proseguono espongono le difficoltà nella psicoterapia con pazienti stranieri ispanici, soprattutto nell’applicare il modello ABCDE di Ellis.

Infatti, sebbene acquisiscano subito il concetto di pensiero positivo e pensiero negativo, la difficoltà di tradurre in spagnolo l’acronimo ABCDE rende spesso impraticabile questa tecnica. Si potrebbe tuttavia obiettare che tali difficoltà possano associarsi anche a eventuali barriere linguistiche. Ancora, Organista e Muños, suggeriscono di esplorare insieme al paziente le sue credenze religiose, anche quando questi riferisce di aver preferito l’atto del pregare allo svolgimento degli homework.

Si può quindi asserire che i beliefs culturali del paziente relativi alla malattia mentale, alla cura e alla psicoterapia cognitiva-comportamentale debbano essere considerati ai fini dell’efficacia della terapia stessa. Seppur tale affermazione trovi una ragione d’essere in ogni situazione terapeutica e di fronte a qualsiasi paziente, l’importanza del processo di modellamento o di adattamento (culturale) appare ancora più fondamentale all’interno di situazioni cliniche in cui la valutazione dei belief, dei processi di pensiero e delle modalità di gestione, valutazione ed espressione delle emozioni, necessita, da parte del clinico, di un ulteriore sforzo di decentramento al fine di gestire in modo opportuno -e non come un ostacolo- le differenze culturali che intercorrono nella psicoterapia con pazienti stranieri. Tali differenze, durante il trattamento, possono divenire più o meno evidenti e possono più o meno diventare oggetto di analisi, se non addirittura il focus della terapia.

 

Psicoterapia con pazienti stranieri: evidenze cliniche

La letteratura italiana riguardante la salute mentale delle minoranze presenti sul nostro territorio è ancora esigua e sono praticamente nulli i contributi specificatamente derivanti da terapeuti con formazione cognitivo comportamentale.

I dati a sostegno della valenza clinica delle terapie cognitivo comportamentali culturalmente adattate (CA-CBT) di seguito riportati fanno prevalentemente riferimento a studi condotti sul territorio americano, per cui eventuali riflessioni tratte dal lettore dovranno tenere conto di alcune premesse fondamentali: (a) tra Italia e Stati Uniti esistono profonde differenze di accessibilità e strutturazione dei servizi -pubblici e non- di salute mentale, (b) il background culturale americano –inteso come variabile ambientale- influenza in maniera unica la psicologia dei soggetti considerati (così come unica è l’influenza del background culturale italiano), (c) i soggetti considerati, pur facendo parte di minoranze etniche, sono nati e cresciuti sul suolo americano (afro americani, cinesi americani, latino/ispanici americani ecc).

 

Trattamento dei disturbi d’ansia per la psicoterapia con pazienti stranieri

Studi su soggetti afro americani con Disturbo di panico sono stati condotti da Carter et al. (2003) e da Friedman et al. (2006) I primi hanno selezionato un campione di 25 donne afro americane, istruite e appartenenti a una classe socio economica medio-alta, con sintomatologia tipo attacco di panico e agorafobia; il campione venne diviso casualmente in due gruppi: gruppo sperimentale CBT (11 sedute di gruppo) e gruppo di controllo lista di attesa.

Gli autori hanno riscontrato che le donne sottoposte a trattamento CBT, al termine delle 11 sedute mostravano una forte riduzione della sintomatologia ansiosa e depressiva, mentre i soggetti inseriti nel gruppo lista di attesa non presentavano miglioramenti. Al follow up il 54% delle donne appartenenti al gruppo CBT venne identificato come recovered e il 17% come migliorato. Tra i soggetti inseriti nel gruppo lista di attesa, il 95% non mostrò diminuzione dei sintomi. Al di là dei risultati, che, seppur promettenti, appaiono meno forti rispetto a quelli solitamente ottenuti con gruppo di pazienti euro-americani (Carter et al. 2012), l’aspetto forse più interessante dello studio proposto da Carter e colleghi, risiede, a nostro avviso, negli adattamenti al setting e al focus terapeutico operati dai ricercatori.

Come riportato dagli autori stessi, questo studio differisce dagli altri in quattro modi specifici:

  1. Il ricorso a un trattamento di gruppo per via del forte senso comunitario e di aggregazione presente all’interno della cultura afro americana;
  2. La creazione di gruppi etnicamente omogenei;
  3. Il ricorso esclusivo a terapeuti afro americani;
  4. L’inclusione, per tutto il corso della terapia, di temi legati alla razza e al rapporto tra questi e la malattia.

Durante il trattamento, gran parte del lavoro cognitivo fu orientato verso il belief secondo cui provare emozioni intense sia una manifestazione di debolezza personale. Inoltre, periodiche discussioni di gruppo venivano incentrate sul ruolo che l’appartenenza etnica può avere sull’esacerbazione dei sintomi e sull’aderenza al trattamento. Molto frequentemente le partecipanti discutevano dell’associazione tra lo stress causato dall’essere l’unica donna di colore sul posto di lavoro e il livello generale di ansia, o ancora come l’essere afro-americano possa influenzare la buona realizzazione di alcuni esercizi richiesti dalla terapia (per esempio esercizi di esposizione in vivo che prevedano il camminare in un negozio affollato o attraverso il quartiere). Secondo gli autori, questi adattamenti etnicamente specifici, nella psicoterapia con pazienti stranieri, risultarono efficaci nel ridurre i sintomi di panico.

Friedman et al. (2006) scelsero invece un campione misto (afro americani ed euro americani) con sintomi da attacco di panico (con o senza agorafobia). I soggetti furono sottoposti a un trattamento CBT di 16 sedute individuali. Tutti i soggetti mostrarono una simile e significativa riduzione della sintomatologia ansiosa, mentre si osservò una differenza significativa nell’ambito della sintomatologia depressiva, per cui i soggetti afro americani manifestarono ridotti miglioramenti rispetto ai soggetti euro americani.

Al contrario dello studio precedente, Friedman e colleghi non apportarono nessuna modifica culturalmente sensibile alla struttura del trattamento, mostrando quindi, apparentemente, la validità dell’approccio CBT anche quando a questo non si operano adattamenti etnici. È tuttavia da notare, come rilevato dagli autori stessi, che la maggior parte dei terapeuti coinvolti nello studio possedeva una buona formazione clinica con soggetti appartenenti a diverse etnie. Di conseguenza, sebbene non fosse stato esplicitamente proposto un lavoro incentrato sulle problematiche culturali, è probabile che tale aspetto fosse stato implicitamente considerato da parte dei terapeuti, esplicitamente esperti nella psicoterapia con pazienti stranieri appartenenti a minoranze. (Friedman et al. 2006).

Alfonso e Dziegielewki (2001) riportano l’efficacia positiva di un trattamento self-help CBT di nove settimane attraverso su un singolo soggetto latino con disturbo da attacco di panico. Sebbene la validità empirica dello studio sia quasi nulla, può qui essere utile per introdurre due forme di espressione dell’ansia caratteristiche delle popolazioni latine e/o ispaniche: Ataques De Nervios e Susto. Gli Ataques De Nervios (ADN) possono essere descritti come degli improvvisi episodi di ansia accompagnati da grida incontrollabili, attacchi di pianto, tremori, sensazione di calore nel petto che sale verso la testa e esperienze dissociative.

Questa specifica forma di espressione ansiosa sembra essere particolarmente diffusa tra gli individui di origine portoricana (Cintrón et al. 2005). Il Susto tradotto letteralmente è la paura o mal di paura e può essere descritto come la malattia che viene con la paura. Tradizionalmente la sua eziopatogenesi è legata a un’esperienza traumatica (da cui il nome) che conducono la persona a sviluppare disturbi del sonno, forte ansia, perdita di interessi. Sebbene sia considerata una sindrome culturalmente determinata, ovvero una condizione che ha un significato limitato al di fuori di contesti culturali specifici, è comunque ampiamente riconosciuta tra molti gruppi latini del Nord e Centro America, tanto da essere stata inserita all’interno dell’ultima edizione del Manuale Diagnostico dei Disturbi Mentali (DSM 5) (APA, 2013).

La differente modalità espressiva dell’ansia all’interno delle popolazioni latino/ispaniche, inoltre, inficia sull’attendibilità di alcuni degli strumenti statistici maggiormente diffusi per la valutazione della sintomatologia ansiosa (Carter et al. 2012). Hirai, Stanley e Novy (2006), per esempio, hanno valutato le proprietà psicometriche di Beck Anxiety Inventory (BAI), Penn State Worry Questionnaire (PSWQ), Anxiety Sensitivity Index, Worry Scale, Body Sensations Questionnaire, Trait Anxiety Scale su un campione composto di soggetti latini/ispanici (Messicani, portoricani, cubani ecc) con diagnosi di disturbo d’ansia generalizzato (GAD).

Gli autori hanno notato che all’interno delle popolazioni ispaniche/latine, il test più attendibile appariva essere il BAI, probabilmente a causa della forte componente fisiologica con cui questi soggetti tendono a esprimere la propria preoccupazione. Al contrario, test come il PSWQ risultavano poco utili, in quanto, esplorando le componenti più cognitive del disturbo, non fornivano una completa immagine della sintomatologia ansiosa del campione considerato. Nonostante questo e altri studi mostrino la presenza di profonde differenze tra individui euro americani e latino/ispanici nell’espressione delle componenti ansiose dello stato psicopatologico, sono ancora molto scarsi gli studi focalizzati sull’esito dei trattamenti orientati secondo una prospettiva CBT.

Nel contesto del Disturbo da stress post traumatico (PTSD), i più grandi contributi vengono sicuramente dagli studi condotti su immigrati e rifugiati politici. La maggior parte di questi studi è stata condotta su individui di origine asiatica.

Otto, Hinton e altri autori hanno focalizzato il loro lavoro sulla costruzione di un trattamento CBT culturalmente modellato e specificatamente rivolto a soggetti cambogiani e vietnamiti con Disturbo da stress post traumatico (Carter et al. 2012). Nei loro scritti tra i vari suggerimenti compaiono indicazioni relative a modifiche di setting, ad esempio spostando la terapia all’interno di un tempio buddista, e di gestione della sintomatologia ansiosa focalizzandosi principalmente sulle manifestazioni somatiche e sulle credenze culturali relative alla sua origine.

Per esempio, molti individui cambogiani con PTSD non solo mostrano un’alta comorbilità con Disturbo di panico, ma questo tende a manifestarsi in attraverso forti preoccupazioni per eventuali manifestazioni somatiche di dolore al collo, portando a quello che Hinton e colleghi (2005) definiscono neck-focused panic attack. Nel neck-focused panic attack, il primo sintomo a manifestarsi è una forte tensione ai muscoli del collo, spesso provocato da uno stato d’ansia. Tradizionalmente, secondo la cultura buddista, il collo è il luogo in cui risiede il chi (vento, soffio vitale).

Uno stato di dolore o tensione al collo è quindi vissuto con grande preoccupazione da questi individui, preoccupazione che può condurre a sua volta alla manifestazione di altri sintomi somatici, quali palpitazioni, vista annebbiata e vertigini (Hinton et al. 2005). Gli autori, utilizzando tali adattamenti all’interno di un trattamento CA CBT della durata di 12 sedute, in associazione a una terapia farmacologica e a un programma di incontri con un socialworker, osservarono un miglioramento della sintomatologia ansiosa e di quella correlata al PTSD dopo appena tre settimane (Hinton et al. 2005; Carter et al. 2012).

Sempre Hinton e colleghi (2012) hanno poi applicato un trattamento CA CBT a un campione di donne latine con diagnosi di PTSD e utilizzato tecniche improntate sulla mindfulness e sull’accettazione nel trattamento del PTSD in soggetti latini, cambogiani e vietnamiti (Hinton et al. 2004; Hinton et al. 2013) con buoni risultati.

Sempre all’interno del trattamento dei disturbi d’ansia vale la pena citare lo studio condotto da Zhang et al. (2002). A differenza delle ricerche precedenti, i soggetti qui considerati erano tutti nati e cresciuti nelle zone urbane della Cina. Zhang e colleghi hanno assegnato casualmente i soggetti selezionati con diagnosi di Disturbo d’Ansia Generalizzato (GAD) a tre gruppi sperimentali. I soggetti appartenenti al primo gruppo ricevevano unicamente una terapia farmacologica (benzodiazepine); ai soggetti del secondo gruppo veniva proposta una terapia CBT adattata in chiave taostia (Chinese Taoist Cognitive Psychotherapy, CTCP), il terzo gruppo prevedeva una combinazione dei due trattamenti.

I risultati mostrarono che sebbene tutti e tre i gruppi, durante il periodo di trattamento subirono un miglioramento della sintomatologia ansiosa, il gruppo che ottenne i migliori risultati, sia in termini di rapidità sia in termini di durata, fu il terzo. Infatti, mentre il primo gruppo migliorò molto rapidamente (ma altrettanto rapidamente tornò a manifestare la sintomatologia presente prima del trattamento), il secondo gruppo ottenne risultati più permanenti, ma con più gradualità temporale.

 

Trattamento dei disturbi dell’umore nella psicoterapia con pazienti stranieri

La letteratura inerente applicazione di un trattamento CBT specificatamente rivolto alle minoranze etniche con disturbi dell’umore risulta ad oggi molto scarsa. I pochi studi disponibili riguardano prevalentemente le minoranze ispaniche e latine.

Prima di avanzare nell’esposizione della review è necessario chiarire che sebbene tra latini e ispanici intercorrano delle differenze di significato culturale e identitario (Hayes-Bautista et al.. 2002) di seguito saranno utilizzati allo stesso modo per descrivere tutte le persone provenienti dal Centro e Sud America. Secondo Miranda (1976) tra le principali aspettative che i latini mostrano nei confronti di un trattamento psicologico si trovano: sollievo sintomatologico immediato, indicazioni e consigli e approccio incentrato sul problema. La CBT sembrerebbe rispondere bene a tali attese. Inoltre, secondo Organista e Muñoz (1997) l’utilizzo di strumenti quali manuali, homework e diari aiuterebbe i pazienti ispanici ad alleviare le problematiche legate allo stigma.

Secondo Interian et al. (2008), gran parte degli studi condotti su pazienti latini affetti da depressione, conferma l’efficacia di terapie orientate secondo un approccio cognitivo comportamentale. Tra queste riportiamo Comas-Diaz (1981), Rosselló e Bernal (1999), Interian et al. (2008) e Heilmann et al.. (2011).

Comas-Diaz (1981) selezionò un gruppo di 26 donne portoricane, successivamente assegnate casualmente a uno dei seguenti gruppi: gruppo terapia cognitiva, gruppo terapia comportamentale, gruppo lista d’attesa. I risultati mostrarono un forte miglioramento sia dei soggetti appartenenti al gruppo cognitivo (64%) sia a quelli del gruppo comportamentale (51%). A differenza degli studi in precedenza esposti, nessuna modificazione o adattamento culturale fu adottato durante il trattamento, sebbene, come evidenziato anche da Comas-Diaz, la scelta di condurre le terapie all’interno di un gruppo possa aver influenzato il positivo outcome terapeutico.

È infatti probabile che le pazienti si sentissero accolte all’interno del gruppo terapeutico rivedendo in questo una sorta di famiglia estesa. È inoltre d notare che tutte le donne selezionate erano madri single con un livello di istruzione medio di circa 6 anni.

Rosselló e Bernal (1999) focalizzano invece la loro attenzione su un gruppo di soggetti adolescenti nati e cresciuti in Porto Rico. Gli autori assegnarono casualmente ognuno dei 71 adolescenti con diagnosi di Disturbo Depressivo Maggiore (DSM III TR) (APA, 1987) a tre condizioni: trattamento CBT, trattamento ITP (Terapia Interpersonale) e lista di attesa. Ancora una volta i soggetti sottoposti a trattamento mostrarono maggiori miglioramenti rispetto a quelli inseriti nella lista d’attesa. Confrontando i due gruppi trattati, i migliori risultati, in termini di risoluzione della sintomatologia, vennero osservati nel gruppo ITP, dove l’82% dei soggetti risultava guarito dopo il trattamento, contro il 59% degli adolescenti sottoposti a CBT. Ancora, seppure gli autori non riferiscono di aver operato un qualsiasi adattamento culturale, è possibile ipotizzare che la concordanza etnica tra pazienti e terapeuti possa aver influenzato i risultati raggiunti.

Interian et al. (2008) selezionarono un campione di 29 individui ispanici con depressione maggiore di età compresa tra i 18 e i 65 anni. Vennero esclusi dallo studio i soggetti già in fase di trattamento psicoterapeutico, con diagnosi di disturbo bipolare, che facevano uso di sostanze o che mostravano rischio suicidario. I partecipanti presero parte ad un ciclo di 12 sedute individuali di culturally adapted CBT. Tutte le sedute vennero condotte in spagnolo; al fine di comprendere il ruolo dei fattori culturali, parte della terapia fu dedicata a esplorare da quanti anni i partecipanti risiedevano negli Stati Uniti e come si erano adattati al loro arrivo, quale era l’attuale situazione famigliare, e se e come si erano sentiti supportati dalla comunità. Buona parte dei partecipanti affermò di vedere la terapia come una distrazione e che proprio grazie a questo che trovavano sollievo.

Forte rilevanza venne anche data ai values culturali che secondo i pazienti rendevano più difficoltoso il processo di cambiamento (familismo ecc). I risultati mostrano una riduzione significativa del 57% dei punteggi ottenuti alla Beck Depression Inventory al termine del trattamento e del 54% al follow up di 6 mesi. I sintomi ansiosi (Beck Anxiety Inventory) e quelli somatici (Patient Health Questionnarie-15) apparvero ridotti rispettivamente del 67% e del 42% al termine del trattamento e del 64% e 37% al follow up. Tutte le differenze risultarono statisticamente significative.

Tra gli studi da segnalare si riporta quello condotto da Heilmann e colleghi (2011) su un campione di donne latino-americane di seconda generazione. Gli autori, programmando un intervento comprendente strumenti quali Schema Therapy, Interviste Motivazionali (Motivational Interviewing) e collaborative-mapping della durata di otto sedute di due ore ciascuna, osservarono un significativo miglioramento sia della sintomatologia depressiva, che delle capacità di resilienza. I miglioramenti ottenuti furono mantenuti al follow-up di un anno.

 

Psicoterapia con pazienti stranieri: conclusioni

La globalizzazione e la possibilità di spostarsi sempre più facilmente (ma non sempre senza grandi o piccole sofferenze), porta sempre più persone a muoversi verso nuove mete geografiche. Nel caso dell’Italia, questo ha determinato una crescita esponenziale delle minoranze, di persone con credenze, valori, significati e prospettive diverse dalle nostre. Pensare che ciascuna di queste persone sia portatrice di sofferenza, ci condurrebbe ad abbracciare l’ennesimo superficiale pregiudizio. Tuttavia, il dolore è universale e ciò ci impone la responsabilità, sia come professionisti della salute che come esseri umani, di sviluppare competenze, esperienze, tecniche e metodi che possano migliorare la loro qualità di vita.

Al termine di questa review è nostro avviso che la CBT possegga le qualità adeguate per essere utilizzata anche con individui appartenenti a minoranze, quando opportunamente modificata e adattata alle specifiche caratteristiche dell’utenza considerata.

Secondo Mazzetti (2003) nella psicoterapia con pazienti stranieri il professionista della salute può incorrere in due atteggiamenti speculari, ossia di sopravvalutazione e sottovalutazione delle differenze culturali. Il modello della mente alla base della CBT assumendo che le strutture della mente umana sono universali, così come i suoi meccanismi di funzionamento, permetterebbe al clinico di ridurre il rischio di incentrare il trattamento esclusivamente sugli aspetti culturali (sopravvalutazione delle differenze culturali). (Mazzetti, 2003).

Nel contempo, l’assunto per cui il contenuto dei beliefs sia unico e individuale consentirebbe di contenere l’atteggiamento di sottovalutazione delle differenze culturali. Gli essere umani non sono tutti uguali ciascuno di noi vive all’interno di un sistema di riferimento culturale proprio e singolare; è proprio questo a generare infinite credenze di malattia, cura e trattamento.

È chiaro che tutti i contributi qui riportati rappresentano solo delle linee guida e che, d’altro canto, la cultura entra in gioco anche quando paziente e terapeuta appartengono alla stessa etnia e nazione, in quanto si può non condividere parte dell’identità culturale, come età, credenze religiose, ideologia politica. Ernesto De Martino, etnoantropologo italiano, nel 1962 propone di affrontare l’alterità in un’ottica di etnocentrismo critico ovvero un incontro alla frontiera, dove il mettere in discussione le proprie modalità di interpretazione del mondo diventa funzionale alla conoscenza di sé e dell’altro (Cremonese, 2014); a nostro parere l’adattamento culturale della CBT dovrebbe avvenire tenendo sempre presente questo pensiero .

Risulta quindi evidente la necessità di creare un buon corpus di ricerca clinica specificatamente incentrato sulla realtà italiana.

I vissuti dei familiari del depresso: stargli vicino senza farsi fagocitare dalla depressione

È importante che nel momento in cui ci si rende conto di un significativo cambiamento nelle persone che ci stanno vicine e ci sentiamo in difficoltà a comunicare con loro, a chiedere ed a comprendere il perché di questi comportamenti, per evitare di soccombere alla confusione e a tutti i vissuti che ne derivano, sarebbe opportuno che trovassimo il coraggio e la prontezza di parlarne con qualcuno.

[blockquote style=”1″]Non passione ci vuole, ma compassione, capacità cioè di estrarre dall’altro la radice prima del suo dolore e di farla propria senza esitazione.[/blockquote]  F.M. Dostoevskij

Quando si è parlato della vittima della depressione, ovvero il depresso, si è detto che, generalmente, all’inizio, non è consapevole di essere malato di depressione. La stessa mancanza di consapevoleza spesso interessa anche coloro che vivono a stretto contatto con il depresso e che, Willy Pasini, nel suo libro “La vita è semplice”, chiama “ostaggi” della depressione, proprio per sottolineare quanto possa diventare forte il loro coinvolgimento nelle dinamiche depressive e quanto possano essere gravi le ripercussioni sulla loro vita.

Il depresso tende ad isolarsi, diventa taciturno, lo sguardo si spegne, perde slancio, la tristezza è l’unica essenza che riesca ad emanare, Quasimodo nei suoi versi: “Ognuno sta solo sul cuor della terra… ed è subito sera”, rende in maniera estremamente chiara questa condizione dello spirito.

Gli ostaggi, dal canto loro, fanno fatica a comprendere cosa stia accadendo e magari possono ritrovarsi a rimuginare su convinzioni molto lontane dalla realtà dei fatti, come ad esempio che si tratti di una malattia fisica, oppure che ci sia qualche problema riguardante direttamente la relazione o comunque una qualche preoccupazione che l’altro “non vuole” dire. Il depresso intanto, si allontana sempre di più, si distacca emotivamente e gli altri non riescono a trovare modalità adeguate per chiedere, per cercare di capire cosa stia accadendo e spesso il risultato è la confusione! Soprattutto nelle fasi iniziali della malattia, i potenziali ostaggi rispondono o applicando una sorta di legge del taglione, occhio per occhio/dente per dente: tu mi allontani/io ti allontano; tu non mi parli/io non ti parlo; tu non mi cerchi/io non ti cerco, isolando o punendo, oppure cercando continue rassicurazioni, diventando ossessivi, rimproverando l’altro di egoismo ed, anche, sperimentando vissuti di colpa molto forti.

Ecco che vengono poste le prime pietre di una babele dolorosissima: la persona che potrebbe avere un importantissimo ruolo di sostegno e vicinanza per il depresso cade, invece, ostaggio della depressione, in una rete aggrovigliata di pensieri, emozioni, comportamenti e vissuti penosissimi. Spesso quando si chiede aiuto ad un professionista, quando si ottiene una diagnosi si è già in fase avanzata… tante volte sia le vittime della depressione che le persone che stanno loro vicine non accettano la malattia. C’è da dire che, molto più spesso di quanto si possa credere, la depressione è una bestia sconosciuta ai più e, soprattutto, è una malattia negata, nel senso che non le è riconosciuta la natura di malattia. Quante volte i malati di depressione si sono sentiti accusare di non avere nulla, di fare i capricci, di essere semplicemente esseri lamentosi, pigri o capricciosi?! Addirittura, alcuni depressi arrivano a pensare che questo umore molto basso, la mancanza di energie, di voglia di vivere sia semplicemente una questione di carattere e che non ci sia rimedio!…

Quando si inizia ad avere un minimo di consapevolezza di quanto sta accadendo, i rapporti sono già corrotti e le esperienze vissute, il coinvolgimento totale, confuso, disperato in una relazione che ha il sapore di qualcosa di malato, lasciano spazio sempre più a sentimenti di colpa, impotenza, disperazione.

Una delle credenze, più pericolose e deleterie, delle persone vicine al malato, è: “Il mio amore ti salverà!” Questa credenza molto spesso si traduce in una serie di comportamenti ed atteggiamenti che avranno l’effetto di fagocitare ogni risorsa, ogni energia di colui che diventa, in tal modo, un ostaggio della depressione della persona amata e, come in un circolo vizioso, affioreranno e si rafforzeranno i vissuti di colpa, impotenza, rabbia, insofferenza.
Emergono questioni molto importanti, che riguardano l’accettazione della malattia, sia per il malato che per coloro che gli stanno vicino; poi ancora, rispetto ai parenti, assume particolare importanza il riconoscimento e l’accettazione dei propri limiti.

 

Cosa può fare e cosa non dovrebbe fare chi sta vicino ad una persona depressa

È importante che nel momento in cui ci si rende conto di un significativo cambiamento nelle persone che ci stanno vicine (particolare sofferenza, angoscia, tristezza, crisi di pianto, tendenza all’isolamento, disturbi del sonno, cambiamenti dell’appetito, uso/abuso di sostanze…) e ci sentiamo in difficoltà a comunicare con loro, a chiedere ed a comprendere il perché di questi comportamenti, per evitare di soccombere alla confusione e a tutti i vissuti che ne derivano, sarebbe opportuno che trovassimo il coraggio e la prontezza di parlarne con qualcuno. Chiedere sostegno ad una persona fidata, in grado di aiutarci a capire e a dare il giusto peso a quanto sta accadendo, può significare capire che, da soli, nonostante tutto l’amore che possiamo, non saremo sufficienti a trovare una soluzione adeguata alla nuova situazione.

Accettare ciò, riconoscere i propri limiti, alle volte, è difficile, ma estremamente importante, perché comporta la presa di coscienza di avere bisogno di uno specialista, di qualcuno che possieda strumenti adeguati per confrontarsi efficacemente con la depressione. Solitamente, l’atto di chiedere aiuto ad uno psicoterapeuta ha l’effetto di smorzare immediatamente la tensione, perché quando in una relazione confusa e malata fa ingresso una terza persona capace di dare ordine, di attribuire i giusti significati ai vissuti e di normalizzarli, le persone vicine al depresso hanno la possibilità anch’esse di essere aiutate nella ridefinizione del proprio ruolo e del senso di responsabilità e colpa nel prendersi cura di una persona con un disagio mentale di una certa gravità, questo comporta, automaticamente, un alleggerimento del carico.

 

Come riscattarsi dalla prigionia?

Come già detto, quando ci si occupa in maniera molto intensa di una persona con un disagio mentale come la depressione, molto spesso, ci si ritrova a provare sentimenti assai dolorosi, ed è importante poter contare su qualcuno, preferibilmente uno psicoterapeuta, che ci aiuti a capire quanto, in una condizione tanto difficile, sia normale provare sentimenti di inadeguatezza, insofferenza, irritazione, colpa, soprattutto quando guidati dalla credenza inglobante “Il mio amore ti salverà”, quando ci si ritrova a sostenere da soli il peso di una malattia come la depressione per mesi e mesi se non addirittura anni.

Recuperare energie, recuperare un equilibrio mentale sufficiente significa tornare a coltivare i propri spazi, tornare a sentire di avere una vita propria, tornare a ricordarsi delle attività piacevoli di un tempo lasciate in sospeso, dimenticate, perché occuparsi della persona amata, lentamente, non ci ha più permesso di sentirci in diritto di provare piacere. Recuperare e riprendere la propria vita personale può risultare difficile, ecco che il terapeuta ci aiuterà a leggere e rivedere in una prospettiva differente, più adattiva e funzionale, le modalità relazionali all’interno del sistema noi (accudenti), depresso e depressione.

 

Piccoli suggerimenti pratici per vivere accanto ad un depresso senza farsi fagocitare dalla depressione

Come già detto, per evitare di essere presi in ostaggio dalla depressione di una persona cara, dobbiamo evitare, con tutte le nostre forze, di farci divorare da questa malattia, impedendole di stravolgere la nostra esistenza, cercando di continuare a mantenere normalità nella vita di tutti i giorni, continuando a lavorare, non rinunciando alle attività piacevoli, a frequentare gli amici, soprattutto: non permettiamo a questa malattia di isolarci, di allontanarci da tutto ciò che può rappresentare un sollievo ed un aiuto. In determinate occasioni sembrerà difficile, se non addirittura crudele, poter dire al depresso: “Adesso devo andare perché ho un impegno… perché ho voglia di uscire… perché ho bisogno di allontanarmi un po’…”, ma ricordiamo che la capacità di allontanarci, per respirare un’aria più leggera, per ricaricarci, riportare equilibrio alla nostra economia mentale, sarà indispensabile alla nostra stabilità e alla nostra salute.

La depressione può rendere crudeli le sue vittime. Di fronte alle accuse, alle espressioni di insofferenza ed odio del depresso impariamo a distinguere la persona dalla malattia ed evitiamo di reagire con atteggiamenti di rabbia che, per quanto comprensibili, avrebbero solo l’effetto di peggiorare la situazione per poi ingabbiarci in vissuti di rabbia e di colpa ancora più forti e difficili da gestire. Cerchiamo, piuttosto, di non farci travolgere e proviamo ad elaborare risposte più costruttive, che diano anche la possibilità al depresso di comprendere che riconosciamo il suo dolore e la sua sofferenza.

Un depresso vive costantemente con un profondo senso di inadeguatezza ed inefficacia: evitiamo, quando siamo in sua compagnia, di rafforzare questi vissuti assumendo atteggiamenti di forte preoccupazione, di perenne compassione, di farlo vivere come se fosse di cristallo, o proteggendolo da tutto, proviamo piuttosto ad evitare di essere sempre pronti ad accudire, a sostituirci, a farci carico di compiti che potrebbe svolgere autonomamente. Pur tenendo a mente la forte resistenza alla vita tipica dei depressi, proviamo, gentilmente, a chiedere il suo aiuto, senza costringerlo, cerchiamo di coinvolgerlo in determinate attività, cerchiamo di farlo sentire utile ed efficace.

Ricordiamoci che chi soffre di depressione tende a deformare tutto e cercare di intraprendere una battaglia che abbia lo scopo di far cambiare al depresso il modo di vedere se stesso, gli altri ed il mondo, avrebbe solo l’effetto di prosciugare tutte le nostre energie e consumarci, lasciandoci senza forze per affrontare la nostra vita. Rispettiamo la sua sofferenza senza farci tentare di assurgerci, a tutti i costi, al ruolo di salvatori!

Le credenze e i vissuti della depressione: cosa passa nella mente di chi è depresso?

Credenze della depressione: Beck sostiene che i depressi sono portati ad attribuire a se stessi la responsabilità di ciò che percepiscono come fallimento, questo ha l’effetto di ridurre ulteriormente e drasticamente il senso di efficacia personale, un po’ come un circolo vizioso, esasperando i vissuti depressivi.

Il suo sguardo,
dall’osservare attraverso le sbarre,
è diventato così esausto
che non può vedere più nient’altro.
Per lui, è come se ci fossero migliaia di sbarre
e dietro le migliaia di sbarre,
nessun mondo.
Mentre non fa che girare in tondo
in cerchi ristretti,
la sua possente falcata è come
una danza rituale intorno ad un centro
dove una grande volontà
è immobile nella sua paralisi.
A volte le tende dell’occhio si alzano
senza un suono ed entra una forma,
penetra attraverso il silenzio serrato
delle spalle, arriva al cuore,
e muore.
La pantera, Rainer Maria Rilke

La teoria dell’impotenza appresa per spiegare la depressione

Martin Seligman e Steve Maier, giovanissimi allievi di Solomon, intorno alla metà degli anni ’60, misero a punto la teoria dell’impotenza appresa. Partendo da una serie di esperimenti sui cani scoprirono che gli animali ai quali era stato ripetutamente impedito di mettere in atto comportamenti adeguati a sfuggire a stimoli dolorosi, successivamente, quando veniva loro data la possibilità di evitarli, si comportavano continuando a soccombere alla sofferenza, senza neanche provare ad agire per tentare di eluderla: ai cani era stato insegnato ad essere impotenti. Seligman e Maier, in seguito, scoprirono anche che così come era stato insegnato ai cani ad essere impotenti, poteva loro essere insegnato ad essere efficaci.

In modo simile, Hiroto, sottopose ad esperimenti un gruppo di persone, giungendo alle stesse conclusioni. Seligman ed Hiroto provarono che la capacità di reagire di fronte a sconfitte e sofferenze non è un tratto innato ma può essere appreso. Seligman ebbe il merito di spiegare alcune forme di depressione attraverso la teoria dell’impotenza appresa, sostenendo che una persona depressa può aver sperimentato ripetutamente inefficacia ed impotenza rispetto ad alcune situazioni che l’hanno portata a credere di essere in ogni altra condizione o situazione ugualmente impotente, inadeguato, inefficace, incapace: “Non può perché crede di non potere…”

Le credenze della depressione secondo la teoria cognitiva

Epitteto, quasi duemila anni prima, diceva: [blockquote style=”1″]Noi non soffriamo per le cose del mondo, ma per le nostre credenze sulle cose del mondo.[/blockquote]

Beck, intorno alla metà degli anni ’60, afferma che gli individui maggiormente a rischio di depressione sono coloro che riconoscono il proprio valore personale solo se ricevono approvazione dagli altri o quando riescono a raggiungere obiettivi molto alti, o solo se riescono ad ottenere ciò che vogliono subito o se sono capaci di esercitare sempre controllo su tutte le situazioni che vivono. Sulla base di queste credenze della depressione quando queste persone si trovano ad affrontare situazioni difficili in cui sperimentano mancanza di controllo, o comunque scarsa efficacia ecco che tendono a sviluppare depressione. Beck sostiene che i depressi sono portati ad attribuire a se stessi la responsabilità di ciò che percepiscono come fallimento, questo ha l’effetto di ridurre ulteriormente e drasticamente il senso di efficacia personale, un po’ come un circolo vizioso, esasperando i vissuti depressivi.

Si è osservato che i depressi presentano una particolare inclinazione ad alterare le informazioni che connotano la proprie abilità in specifiche aree di competenza ed, in particolare, hanno la tendenza a sottovalutare le proprie capacità e a distorcere e sopravvalutare le situazioni.

Beck rispetto alle credenze della depressione ha individuato una triade cognitiva che caratterizza la depressione e che, più specificamente, individua schemi negativi di pensiero su di sé, relativamente al valore personale (“non valgo niente” “non sono amabile”); sul mondo (“Il mondo è ingiusto; la vita ce l’ha con me; gli altri non mi amano; sul futuro, nei termini di sfiducia e pensiero catastrofico (“mai nulla cambierà, andrà sempre male”).

Recenti studi nell’ambito della teoria metacognitiva evidenziano che ad irrobustire queste credenze della depressione e, quindi, a mantenere ed acuire la sintomatologia depressiva intervenga una credenza sovraordinata, ovvero la convinzione che esaminare meticolosamente e costantemente (ruminare) quanto di negativo si sperimenti rispetto al valore personale, al mondo e al futuro, in cerca di una soluzione, in realtà abbia come conseguenza quella di produrre effetti deleteri sulla depressione stessa.
La ruminazione può essere definita come una forma circolare di pensiero persistente, passivo, ripetitivo sui sintomi della depressione. (Rippere, 1977; Nolen-Hoeksema, 1991)

Le psicoterapie ad approccio metacognitivo intervengono aiutando le persone che soffrono di depressione a modificare lo stile rigido di pensiero da cui si lasciano soffocare, ovvero rimuginio e ruminazione, attraverso l’acquisizione di modalità più efficaci ed adattive.

I vissuti e le credenze della depressione

Fatta questa premessa, chi è, nei fatti, la vittima diretta della depressione? Cosa e come pensa, come si sente concretamente? Quali sono le credenze della depressione?

Una persona depressa si sente profondamente triste, abbattuta; sperimenta per la maggior parte del giorno un intenso senso di sconforto e solitudine, prova impotenza e stanchezza fisica e mentale, molto spesso passa parecchio tempo prima che si attivi per avere un consulto, prima che diventi consapevole di essere malata di depressione. Spesso accade che rifiuti la diagnosi, le terapie ed ogni altro aiuto. La persona depressa, sente di camminare avvolta nel buio; sente di stare in uno spazio dove non c’è posto per i propositi di cambiamento funzionale o per la speranza, per la pace interiore. È come se vivesse in uno stato di totale e perenne cecità, non riesce a vedere più niente. I ricordi, gli affetti, il passato, il futuro, tutto si perde ingoiato dall’oscurità: “nulla ha più senso, non esiste più niente e nessuno al mondo per cui valga la pena andare avanti, vivere…”.

Questo scenario depressivo può essere intriso da una fortissima agitazione, rabbia, angoscia, e conoscere contestualmente stati di forte rallentamento fisico o psichico: “non ce la faccio”. Tutti questi vissuti, si faranno sempre più spazio nella vita di quella persona, in maniera subdola, cronicizzandosi giorno dopo giorno, ed impedendo di costruire scenari alternavi che contemplino la “possibilità” che le cose cambino, migliorino… La persona depressa pensa che la vita non possa essere bella, mai più e che, forse, non lo sia mai stata: “Sarebbe meglio sparire o, meglio ancora, non essere mai nati”. Si sente spenta e inconsistente, non c’è più spazio nel suo mondo fisico per le cose piacevoli e neanche nella sua mente (cambia persino la loro capacità di percepire il gusto o l’odore dei cibi, tutto perde colore e spessore). Ha perso la capacità di pensare il piacere, di concepire la vita dentro e al di fuori di sé: “Alle volte, quando mi sveglio durante il giorno o in piena notte, non so… ho la forte sensazione fisica che vi sia solo buio tutt’intorno e che non esista nulla al di fuori di me, di questa profonda angoscia che mi stringe, della solitudine di questo insopportabile dolore o dello schifoso tepore del lenzuolo che mi avvolge… alle volte, penso di dover guardare fuori dalla finestra per capire se c’è ancora qualcosa, che esistono gli altri, il mondo… ma poi penso che non ce ne sia bisogno perché so che non c’è niente, non sento più la vita, non la sento più dentro. Vorrei spegnermi dentro i centimetri che mi contengono… Addormentarmi e non svegliarmi mai più…”

La persona depressa, si sente sola, inadeguata, fallita, incapace di vivere e, spesso, colpevole dei suoi stessi mali. Rumina costantemente e tenacemente come un mulino che macina sempre la medesima farina avariata, pensieri negativi… o come una bocca che mastica insistentemente un cibo amaro che non perde mai la sua amarezza e che, piuttosto, ad ogni movimento di mandibole, acquista un sapore sempre più cattivo.

Il depresso non sopporta gli altri, nessuno, perché non si sente compreso, perché sente che gli altri, spesso, non camminano al suo fianco, ma viaggiano ad una velocità troppo elevata, e richiedono energie che egli sente di non possedere. Qualche volta, gli altri, prigionieri inconsapevoli della depressione, provano con le maniere forti, danno ordini e poi accusano: “Sei cambiato: torna ad essere quello di prima!” “Stai diventando un parassita: fa qualcosa!” “Avresti tutto quello che serve per essere felice: perché non ci provi!” “Che cosa ti ho fatto, perché mi stai facendo questo?” “Mi stai rovinando la vita!” “Tutto gira intorno al tuo stare male, stai rovinando la vita di tutta la nostra famiglia: fa qualcosa!” “È impossibile starti accanto!” “Devi smetterla di pensare sempre a queste cose!” “Sei un egoista!” “Non fai che dormire: la tua è solo pigrizia!” “Devi tornare a lavorare, di questo passo, non so dove finiremo!” “Stai male perché ti conviene!” eccetera.

Gli altri, spesso, proprio perché incapaci di sentire profondamente, e disperati, perché sperimentano impotenza, insistono con atteggiamenti coercitivi ed usano violenza (verbale ed alle volte anche fisica) ed abusano… Questi ostaggi della depressione, parenti, amanti, amici, in equilibrio fra la condizione di carnefici e vittime inconsapevoli, continuano imperterriti con atteggiamenti e richieste che non possono essere accolti né tanto meno soddisfatti dal depresso, senza comprendere che sarebbe come chiedere ad una persona con un gesso alla gamba di correre alle olimpiadi e di vincerle… L’effetto sulla persona depressa è deleterio e spesso causa di aggravamento della patologia. Il depresso sperimenta contemporaneamente colpa ed odio verso gli altri e, quasi sempre, ripugnanza verso se stesso. Gli altri, spesso, con i loro atteggiamenti, non fanno che confermargli di essere la porzione più schifosa dell’intero consorzio umano e di meritare, forse, di non farne più parte e questo rafforza le credenze della depressione.

E’ fondamentale, quando si ha a che fare con una persona depressa, tenere sempre bene a mente che la depressione è una malattia: chi soffre di depressione è malato e la sua sofferenza è concreta, soltanto che per gli altri è difficile comprenderla.

I tratti callous-unemotional: l’importanza di prevenire la psicopatia in infanzia e adolescenza

Prevenire la psicopatia: a partire dalla fine degli anni ’90 del secolo scorso, la letteratura ha individuato una costellazione di tratti, definiti appunto callous-unemotional, che, se presenti fin dall’età scolare, associati al disturbo della condotta, possono essere in grado di predire la psicopatia in adolescenza e in età adulta.

 

La psicopatia: la definizione e la misurazione

Una delle prime definizioni scientifiche di Psicopatia venne redatta dallo psicologo canadese Robert Hare, il quale, basandosi sui tratti individuati e definiti già nel 1941 dallo psichiatra Hervey Cleckley, definì lo psicopatico come una persona totalmente incapace di provare empatia, rimorso, senso di colpa e improntata allo sviluppo di relazioni basate sull’uso della manipolazione, lo sfruttamento e , in casi estremi, violenza e aggressività (Hare, 1991).

Riprendendo la definizione di Cleckley, Hare sviluppò uno strumento atto alla misurazione dei tratti psicopatici: la Psychopathy Checklist (PCL, Hare, 1985) e la sua rivisitazione, ovvero la Hare Psychopathy Checklist – Revised (PCL-R, Hare, 1991). La scala definisce la psicopatia sulla base di due dimensioni sovraordinate, ossia una dimensione Interpersonale-Affettiva (Factor 1: Interpersonal/Affective) e una dimensione relativa allo stile di vita antisociale (Factor 2: Antisocial Lifestyle) che spesso contraddistingue la biografia degli psicopatici. A partire da questi due fattori troviamo una serie di sub-fattori che vanno ad identificare tratti più specifici della personalità psicopatica, tra cui la loquacità, la superficialità emozionale, l’assenza di empatia, l’impulsività e un deficit del controllo comportamentale.

Lo studio della psicopatia ha delle importantissime ripercussioni, soprattutto, a livello sociale (Cooke, Forth & Hare, 1998). Il tratto psicopatico, a differenza di molti altri disturbi caratterizzanti l’area delle nevrosi e in parte dei disturbi psicotici, si contraddistingue per una totale assenza di egodistonia e sofferenza. Lo psicopatico, in sintesi, non riconosce la presenza e la natura del suo disturbo, tende a non sperimentare nessuna sofferenza, dunque l’approccio clinico alla psicopatia non deve essere considerato in chiave “classica”, ovvero puramente riabilitativa.

Lo psicopatico non è, infatti, una persona da re-inserire o riadattare socialmente. Paradossalmente, Babiak e Hare (2006) hanno sottolineato come, in alcuni settori, tra cui in particolare spiccano il mondo finanziario e quello giuridico, la presenza di alcuni di questi tratti risulti addirittura predittiva di una carriera di successo ed economicamente soddisfacente. Ecco che allora prevenire la psicopatia diventa fondamentale per il contesto sociale ed economico in cui viviamo.

Tralasciando i casi più estremi di omicidio, quotidianamente assistiamo, tramite i notiziari, a notizie di truffe finanziarie, furti, violenze fisiche o psicologiche entro le mura domestiche, a cui spesso attribuiamo etichette demoniache, in assenza di una possibilità, da parte della nostra mente, di dare un volto e un nome a tali brutalità e al cinismo e alla freddezza che si celano dietro questi atti. In realtà, nella maggior parte di questi casi il volto (la maschera) che si nasconde dietro questi episodi è proprio quello di uno psicopatico: per questo capire e prevenire la psicopatia è importante.

 

Come prevenire la psicopatia

Ma esiste una cura per la psicopatia? La risposta ad oggi è no. La psichiatria, la psicologia e tutti gli approcci psicoterapeutici non hanno identificato un approccio ideale per la cura dei sintomi della psicopatia, al contrario sembra che in taluni casi la psicoterapia possa peggiorare la sintomatologia dello psicopatico, rendendolo ancor più abile a comprendere strumenti di manipolazione e ricatto nei confronti dell’altro (Patrick, 2006).

 

I predittori della psicopatia: tratti callous-unemotional

PsicopatiaL’unico strumento possibile sembra quello di prevenire la psicopatia, ossia quello di cercare di prevedere l’entità del disturbo già durante l’infanzia, se non nei primissimi mesi di vita. In tal senso, a partire dalla fine degli anni ’90 del secolo scorso, la letteratura ha individuato una costellazione di tratti, definiti appunto callous-unemotional, che, se presenti fin dall’età scolare, associati al disturbo della condotta, possono essere in grado di predire la psicopatia in adolescenza e in età adulta (Frick & Ellis, 1999; Frick & Moffitt, 2010).

Da notare come, nell’ultima versione del DSM (DSM-5), i tratti callous-unemotional siano stati inseriti per la prima volta come tratti a tutti gli effetti diagnosticabili. In particolare, il profilo del bambino/adolescente callous-unemotional, che emerge dal DSM-5, è quello di un individuo con disturbo della condotta che ha mostrato nel corso degli ultimi 12 mesi almeno tre delle seguenti caratteristiche in una o più delle relazioni sociali caratterizzanti la sua vita:
1) Mancanza di rimorso e/o senso di colpa
2) Mancanza di empatia
3) Mancanza di preoccupazione riguardo alle proprie performance in ambito scolastico o in altre attività rilevanti (a seconda dell’età)
4) Affettività superficiale.

Come si può evincere dalla descrizione riportata dal DSM, il profilo di questi bambini è pressoché identico a quello di psicopatici adulti, sebbene, ovviamente, le manifestazioni fenotipiche si presentino in maniera molto diversa. Ad esempio, difficilmente osserveremo un bambino con forti tratti psicopatici ingannare un adulto truffandolo o inducendolo a un investimento che, probabilmente, lo porterà in rovina, ma potremmo osservare un bambino capace di mentire con una spudoratezza sconcertante riguardo ad atti violenti e spesso premeditati come possono essere la sottomissione fisica e psicologica di un coetaneo o di un animale.

Tali bambini e adolescenti si distinguono, infatti, da altri loro coetanei con disturbi esternalizzanti quali deficit dell’ attenzione con iperattività (ADHD), disturbo oppositivo provocatorio o disturbo della condotta senza comorbidità con tratti psicopatici, per la freddezza emotiva, la razionalità e la premeditazione dei loro atti, connotando, dunque, la loro aggressività come aggressività proattiva, ossia premeditata e calcolata piuttosto che semplicemente figlia dell’impulso e della reattività emotiva.

Sebbene la prognosi di questi bambini risulti spesso significativamente negativa se comparata a quella di coetanei con altri disturbi comportamentali (Frick & Viding, 2009), intervenire su questi tratti il più precocemente possibile potrebbe essere la chiave di volta per un intervento più efficace. Se da un lato è vero che l’empatia non può essere insegnata, è altresì vero che esiste una possibilità di lavorare sulle abilità socio-cognitive sottostanti queste abilità, come training basati sul riconoscimento delle emozioni o sul perspective taking di natura affettiva, senza dimenticare l’importanza della componente relazionale che, se utilizzata non come strumento pedagogico classico o diciamo “comportamentista”, bensì come strumento di interazione e di scambio profondo e reciproco potrebbe portare a risultati importanti. Prevenire la psicopatia è dunque possibile.

In quest’ottica è fondamentale il ruolo delle famiglie e delle scuole, che hanno la responsabilità di identificare e segnalare i comportamenti sospetti senza sperimentare senso di colpa o di autoaccusa, in quanto la ricerca ha dimostrato come la causa primaria di questa condizione disfunzionale sia prettamente di natura genetica piuttosto che ambientale o familiare (Viding, Fontaine, McCrory, 2012). Ciò sembra essere testimoniato anche da studi che hanno messo in rilievo una innaturale mancanza di eye-contact e preferenza verso volti umani, in particolare quello materno, in questi individui fin dalle primissime settimane di vita (Dadds et al., 2012; Bedford et al., 2015).

Machiavelli for Managers: il potere dell’affrontare il cambiamento unendo le masse

Machiavelli risulta estremamente attuale: un leader, analogamente al principe, deve basare il proprio potere sulla gestione della tensione, sulla creazione del consenso ed adottare uno stile di leadership adatto alle risorse che guida. 

 

Oggi, nelle aziende, la valutazione dell’efficacia o del successo di una strategia viene sempre più spesso messa in relazione con la capacità di affrontare e gestire il cambiamento. Per continuare a svilupparsi in una situazione di globalizzazione dei mercati e di continue innovazioni tecnologiche rilevanti, le organizzazioni devono imparare a gestire al meglio il cambiamento, perché non può esserci sviluppo senza cambiamento. Sicché ai manager, che hanno responsabilità di guida ed indirizzo, viene richiesto di migliorare continuamente le proprie competenze legate a questa specifica dimensione.

Il cosiddetto change management, che oggi è al centro delle tematiche aziendali, ha rappresentato anche in passato un’esigenza dell’uomo e delle sue organizzazioni ed ha origini antiche. A questo proposito vorrei proporre una riflessione su un passo tratto dall’opera ‘Di Fortuna’ di Niccolò Machiavelli:

Colui con miglior sorte si consiglia
tra tutti li altri che ’n quel loco stanno,
che ruota al suo valor conforme piglia,
perché li umor che adoperar ti fanno,
secondo che convengon con costei,
son cagion del tuo bene e del tuo danno;
non però che fidar si possa in lei
né creder d’evitar suo duro morso,
suo duri colpi impetuosi e rei:
perché mentre girato sei dal dorso
di ruota per allor felice e buona,
la suol cangiar le volte a mezzo el corso
e, non potendo tu cangiar persona
né lasciar l’ordin di che ’l Ciel ti dota,
nel mezzo del cammin la t’abbandona.
Però, se questo si comprende e nota,
sarebbe un sempre felice e beato
che potessi saltar di rota in rota;
ma, perché poter questo ci è negato
per occulta virtù che ci governa,
si muta col suo corso el nostro stato.

Questi versi di Machiavelli sono più che mai attuali: egli infatti afferma che colui che meglio sa adattarsi alla realtà ottiene i risultati migliori. Machiavelli ritiene che il cambiamento sia la caratteristica principale della realtà e che, per interagire efficacemente con essa (quindi per raggiungere i propri obiettivi), l’uomo debba sviluppare adeguate competenze.

La gestione di una fase di cambiamento richiede infatti molta attenzione: è importante saper infondere fiducia, saper trasmettere un atteggiamento positivo e riuscire a trovare soluzioni creative per stimolare un senso di partecipazione e responsabilità a tutti i livelli aziendali. Il cambiamento ha anche un impatto psicologico molto importante e quindi è fondamentale riuscire a vincere il senso emotivo di vuoto legato alla perdita di vecchie e tradizionali maniere di agire.

Il cambiamento può essere riferito ad un ruolo, ad un luogo di lavoro, alle responsabilità di un lavoro, ecc; comunque, in tutti questi casi, un elemento fondamentale è il modo in cui reagiamo e gestiamo il cambiamento. E’ importante concedere alle persone un periodo di tempo ragionevole per abituarsi alla perdita delle vecchie abitudini; dopo di che è altrettanto importante che il personale si concentri sulle innovazioni apportate ed è altresì necessario stimolare un senso di entusiasmo e positività per facilitare un più rapido adattamento alla nuova realtà che si sta formando.

Tutti noi tendiamo a dare un supporto più entusiasta a idee e cambiamenti dei quali ci sentiamo partecipi. Tutti noi non siamo di principio contrari al cambiamento, siamo contrari al sentirci il cambiamento imposto, senza che sia richiesta una nostra attiva partecipazione. Non è mai troppo tardi per coinvolgere le persone, anche quando il cambiamento è già in corso, per far sì che tutti, gradualmente, lavorino per facilitare, anziché impedire, il cambiamento.

Nel passaggio da un modello organizzativo ad un altro, una delle principali minacce è costituita dal livello di maturità degli individui che, se inadeguata, non sapranno gestire la nuova realtà. Questo concetto è espresso in maniera chiara anche da Machiavelli nei Discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio:

Le storie degli antichi propongono infiniti esempi di quanta difficoltà abbia un popolo abituato a vivere sotto un principe, a conservare la libertà una volta acquisita.

Il cambiamento sarà tanto più duraturo quanto più verrà accettato e vissuto dalla maggior parte dell’organizzazione. L’apparente conferma delle strutture passate favorisce l’accettazione delle novità, in quanto, nella maggior parte dei casi, gli individui prestano più attenzione a ciò che appare piuttosto che a ciò che è realmente. Scrive sempre Machiavelli, nel capitolo 25 dei Discorsi:

Chi intende riformare lo stato di una città in modo duraturo, affinché il cambiamento sia percepito e accettato con favore da tutti, deve lasciare il più possibile inalterata la parvenza dell’antico sistema, in modo che al popolo non sembri di aver mutato ordinamento anche se di fatto questo sarà diversamente diverso dal passato.

Appare dunque chiaro che il pensiero di un intellettuale del Rinascimento italiano è in grado di influenzare ancor oggi le riflessioni sul management del XXI secolo.

Ora, è chiaro che Machiavelli non era di certo interessato alla gestione organizzativa aziendale; tuttavia egli dedicò molte delle sue energie all’analisi delle regole che sottostavano ai giochi politici ed istituzionali del suo tempo, fornendo ai posteri dettagliate spiegazioni sul governo degli Stati, con particolare attenzione al perseguimento del bene comune, che può essere ottenuto solo attraverso l’unione di tutti gli individui, ma a tal fine si rende necessaria la presenza di una figura forte, che unisca le masse e ne annienti le tendenze conflittuali.

Questo individuo virtuoso, spesso egoista, generatore di istituzioni forti e stabili, si incarna perfettamente nel Principe descritto da Machiavelli nell’opera ‘De Principatibus’. È facile a tal punto intuire come quest’ uomo possa essere facilmente elevato ad emblema di leader. Le qualità che secondo Machiavelli deve possedere un principe ideale sono: la disponibilità a imitare il comportamento di grandi uomini a lui contemporanei o del passato; la capacità di mostrare la necessità di un governo per il benessere del popolo; il comando sull’arte della guerra; la capacità di comprendere che la forza e la violenza possono essere essenziali per mantenere stabilità e potere; prudenza; saggezza; capacità di essere simulatore e gran dissimulatore; capacità di essere leone, volpe e centauro per forza, astuzia e ragione.

E inoltre, Machiavelli, estremamente realista, riteneva che il principe avesse sempre bisogno del favore dei suoi sudditi e che fosse necessario per lui possedere l’amicizia della gente. Ancora una volta Machiavelli risulta estremamente attuale: un leader, analogamente al principe, deve basare il proprio potere sulla gestione della tensione, sulla creazione del consenso ed adottare uno stile di leadership adatto alle risorse che guida ed all’ambiente in cui si trova ad operare.

Le abilità di Reversal Learning nella Sindrome di DiGeorge

Questo articolo ha partecipato al Premio State of Mind 2014 – Sezione Junior 

Le abilità di Reversal Learning nella Sindrome di DiGeorge

Jessyka Marciano (Università di Bologna)

Abstract

Il reversal learning è l’abilità di un soggetto di apprendere una regola e poi invertirla; danni alla corteccia orbitofrontale (OFC) sono connessi a disfunzioni nei processi di rinforzo legati all’apprendimento. Nella Sindrome di DiGeorge esiste una disfunzione del sistema che coinvolge OFC, in particolare, il network dopaminergico è cruciale nell’apprendimento.

Il presente studio è diviso in due parti: nella prima parte un compito di reversal-learning, con feedback probabilistico, è stato somministrato a 119 bambini con sviluppo tipico, suddivisi in 3 gruppi, per comprendere quando compare l’abilità di reversal-learning. Nella seconda parte, oltre al compito di reversal-learning è stata somministrata una WISC-R a 10 bambini con la Sindrome di DiGeorge, confrontati con 24 bambini a sviluppo tipico. I risultati suggeriscono che nei bambini a sviluppo tipico l’abilità di reversal-leraning appare simile e l’apprendimento sembra essere solo più lento nella S.di DiGeorge.

 

Abstract (english)

Reversal learning involves the adaptation of behaviour according to changes in stimulus-reward contingencies; a damage to the orbitofrontal cortex (OFC) has been linked to impaired renforcement processing. In DiGeorge Syndrome there is an impairment of the system that involves OFC, particulary, dopaminergic network is crucial in learning.

The present study is divided into two parts. In the first part a reversal-learning task with probabilistic feedback was administered to 119 children with typical development, split into 3 groups to observe when the reversal-learning ability appears. In the second part, a sample of 10 children with DiGeorge Syndrome completed WISC-R in addition to the reversal-learning task; they were then compared to 24 children with typical development. Results suggest that the ability of reversal-learning appears similarly in children with typical development, and learning seems to be merely slower in DiGeorge Syndrome.

 

Parole chiave: Bambini; Sindrome di DiGeorge; Reversal; Reward; Apprendimento

ALLEGATO 1ALLEGATO 2ALLEGATO 3

 

 

La depressione: il disturbo che toglie il piacere di vivere

La depressione è un disturbo dell’umore estremamente grave ed invalidante e molto più diffuso di quanto si possa pensare. La prerogativa essenziale della depressione è indubbiamente l’umore deflesso, la mancanza di piacere, di motivazione.

[blockquote style=”1″]Adesso ho perduto me stessa, sono stanca di bagagli, la mia borsa di pelle come un nero portapillole, mio marito e il bambino sorridono nella foto di famiglia; i loro sorrisi mi agganciano la pelle, piccoli ami sorridenti…[/blockquote]
Silvia Plath

Depressione: Introduzione

La depressione è una predatrice di vita, agisce come un cancro, fa razzia di amore e di rispetto. Deforma il passato, il presente e il futuro; deforma i ricordi, i pensieri; soffoca i progetti e le relazioni. Uccide il piacere. Toglie spessore ai colori, ai sapori e a tutti i sensi. La depressione anestetizza ogni slancio vitale, amputa gli arti dell’esistenza, spegne il desiderio, annulla scopi e motivazioni.

La depressione è una gabbia, una stanza senza finestre. Quando si soffre di questa malattia è come se si soffrisse di una particolare forma di cecità in cui l’attenzione diventa selettiva per tutto ciò che concerne la malattia stessa e che ha lo scopo di mantenerla: si vede solo tutto ciò che fa male, non si vede oltre il proprio profondo dolore: si esiste soli con la propria depressione, non c’è posto per niente e nessun altro. È una patologia fortemente tirannica, quando entra nella vita di un una persona ne diventa il cuore, il centro indiscusso, obbligandola a vivere unicamente di essa, per essa.

Qualsiasi ambito della vita viene a risentire della depressione, la persona si appiattisce ed è come se dimenticasse le procedure per funzionare in maniera adattiva e funzionale agli scopi. La depressione ha, fra le altre cose, l’effetto di oscurare e cancellare gli scopi e il senso proprio della vita; distorce la percezione del senso di sé, con la conseguenza di mantenere la persona depressa bloccata nella formulazione, costante e quasi ossessiva, di forme e contenuti di pensiero esclusivamente negativi, disperati, ostili, pessimistici.

Gli effetti della malattia, all’interno delle famiglie e nelle varie tipologie di relazioni, sono devastanti. Molto spesso il vissuto di chi vive accanto ad una persona malata di depressione è di smarrimento, confusione, impotenza, frustrazione ed esasperazione. Nel tentativo di aiutare il proprio caro, familiari, amanti o amici finiscono per farsi fagocitare dalla depressione dell’altro; avvertono nella vicinanza con il depresso un forte, insopportabile senso di logoramento, di intollerabilità fino a provare sentimenti di impotenza, sfinimento, odio; diventano frequenti le accuse di egoismo, insistenti esortazioni a fare, talvolta ordini ed insulti: “Non ti sopporto più: alzati!”, “Puzzi come una carogna: lavati!”, ed altre umiliazioni (costringere con la forza ad alzarsi ed a lavarsi, qualche volta, percuotendo…)… i comportamenti e gli atteggiamenti dei malati (che non si sentono, ovviamente, compresi) peggiorano, la malattia si acuisce. La sofferenza, l’angoscia, la disperazione, talvolta, diventano sentimenti talmente tanto dilaganti ed inarrestabili nella vita di una persona depressa da non lasciare spazio ad altro se non al suicidio come unica possibilità di alleviamento o cessazione di tanto dolore. Quando i vissuti depressivi raggiungono livelli così alti di intensità, per un depresso, neanche un figlio riesce a rappresentare motivo sufficientemente valido per continuare a vivere.

In una delle sue poesie, Silvia Plath, gravemente depressa e morta suicida all’età di trent’anni, recitava: [blockquote style=”1″]Adesso ho perduto me stessa, sono stanca di bagagli, la mia borsa di pelle come un nero portapillole, mio marito e il bambino sorridono nella foto di famiglia; i loro sorrisi mi agganciano la pelle, piccoli ami sorridenti…[/blockquote]

I membri di queste famiglie hanno spesso la sensazione di essere tutti malati. Una delle più grandi difficoltà risiede nella non accettazione; da un lato, la vittima spesso non accetta la malattia, non accetta la terapia psicologica o farmacologica; dall’altro, l’ostaggio, parente, amante, amico, cade nel gioco della depressione e, a propria volta, non riesce ad accettare che la depressione sia una malattia, una malattia grave, rispetto alla quale l’amore, l’affetto, le teorie naif, del senso comune, non bastano: per curarla sono necessari specifici strumenti terapeutici, tempo, pazienza, costanza, rete, sostegno e accettazione.

Depressione: il disturbo

La depressione è un disturbo dell’umore estremamente grave ed invalidante e molto più diffuso di quanto si possa pensare.
La prerogativa essenziale della depressione è indubbiamente l’umore deflesso, la mancanza di piacere, di motivazione. Essa può presentarsi attraverso un singolo episodio ed avere carattere di transitorietà oppure manifestarsi attraverso sintomi che perdurano nel tempo andando a danneggiare gravemente il funzionamento sociale della persona, in questo caso, si parlerà di disturbo depressivo maggiore ed andrà distinto da altre forme depressive meno gravi che rappresentano spesso reazioni normali a determinati eventi della vita di una persona e che, generalmente, regrediscono in tempi accettabili. In ogni caso, non è semplice tracciare confini netti fra ciò che può essere considerata tristezza, delusione, sconforto, reazione naturale ad un evento doloroso e l’inizio di una vera e propria depressione.

Nello specifico, fra i sintomi della depressione vengono indicati:
– Stato d’animo di tristezza profonda e persistente, scoramento per la maggior parte del giorno, quasi ogni giorno.
– Forte diminuzione o completa perdita di interesse o piacere per tutte, o quasi tutte, le attività per la maggior parte del giorno, quasi ogni giorno.
– Agitazione, irrequietezza o rallentamento psicomotorio quasi ogni giorno.
– Forte sensazione di spossatezza, affaticabilità, mancanza di slancio vitale, indebolimento, quasi ogni giorno.
– Disturbi d’ansia, come ad esempio attacchi di panico, preoccupazioni eccessive ed insistenti.
– Disturbi del sonno, come ad esempio non riuscire a prendere sonno la sera o svegliarsi troppo presto al mattino; o ancora letargia, senza per questo sentirsi riposati, quasi ogni giorno.
– Significativa perdita o anche aumento dell’appetito quasi tutti i giorni.
– Disturbi psicosomatici (es. disturbi a carico dell’apparato digerente, mal di testa, vertigini ecc.).
– Perdita di motivazioni personali, diminuzione della capacità di concentrazione e di pensiero; difficoltà nella risoluzione di problemi, incapacità di prendere iniziative, di attuare delle scelte, di assumersi responsabilità e di compiere la maggior parte delle azioni della vita quotidiana; incapacità di pensare con lucidità e progettare il proprio futuro.
– Ricerca dell’isolamento e della solitudine; mancanza di cura della propria persona e conseguente ritiro sociale e affettivo.
– Persistenti vissuti di agitazione, impotenza, rassegnazione, autosvalutazione, pessimismo, vittimismo, perdita del senso della vita, sentimenti di vuoto, inadeguatezza, fallimento, crisi di pianto continuo, disperazione, sensi di colpa inappropriati ed eccessivi, ruminazione costante; in alcuni casi si possono anche presentare deliri e perdita di contatto con la realtà.
– Continui pensieri di morte, ideazione suicidaria, progettazione di un piano specifico di suicidio, o vero e proprio tentativo di suicidio.

Questi sintomi non devono necessariamente essere tutti presenti, per fare diagnosi di episodio depressivo maggiore è sufficiente la presenza di almeno cinque dei sintomi sopra descritti.
I sintomi possono, comunque, variare da paziente a paziente e solitamente hanno uno sviluppo insidioso e facile ad acutizzarsi nel tempo se non trattato rapidamente ed efficacemente.

Depressione: la prevalenza

Le statistiche dicono che in Italia più di un milione e mezzo di persone soffrono di depressione ed almeno il 10% della popolazione italiana, dunque, circa sei milioni di persone, hanno sofferto almeno una volta, nel corso della loro vita, di un episodio depressivo.
Un rapporto dell’OMS, Organizzazione Mondiale della Sanità, annuncia che nel 2020 la depressione sarà la seconda causa di decessi e d’invalidità dopo le malattie cardiovascolari.

Depressione: le cause dell’insorgenza

Quando si pensa alle cause della depressione sembrerebbe più opportuno pensare a diversi potenziali fattori intervenienti.

-Fattori biologici: alterazione nella regolazione dei neurotrasmettitori serotonina e noradrenalina; o ancora fattori genetici: i dati, infatti, indicano che chi ha familiari con storie di depressione è maggiormente esposto al rischio di soffrire a propria volta di un disturbo depressivo.
-Fattori psicosociali: le persone che hanno generalmente una visione pessimistica della vita, con scarsa fiducia e scarsa stima di sé sono maggiormente predisposte a soffrire di depressione. Fattori precipitanti come lutti, separazioni, conflitti, fallimenti, trasferimenti, difficoltà lavorative e di realizzazione personale etc, possono avere un effetto tanto determinante quanto più una persona è predisposta per caratteristiche individuali e non dispone di strumenti personali e risorse sociali per affrontare tali situazioni stressanti.

 

L’effetto spettatore durante le emergenze: la diffusione della responsabilità – I grandi esperimenti di psicologia Nr. 5

#5: L’effetto spettatore durante le emergenze: la diffusione della responsabilità  di Jhon M. Darley &  Bibb Latané (1968)
Vi presentiamo una serie di articoli relativi ai più grandi esperimenti in ambito sociologico e psicologico. Per fare ciò abbiamo cercato di risalire alle fonti originarie, ai primi articoli divulgati dagli autori. In questo modo sarà più facile vivere le loro scoperte a partire dalle loro stesse ipotesi e respirare un’aria in cui, liberi (purtroppo) da vincoli etici, tutto era possibile in nome della scienza.

L’effetto spettatore durante le emergenze

Kitty Genovese è una ragazza di New York, gestisce un bar e vive con la sua compagna in un appartamento nel Queens. La notte del 13 marzo 1964, rientrando a casa, viene pugnalata alle spalle da Winston Moseley. I vicini dalle loro case gridano qualcosa all’aggressore, che in un primo momento si allontana. Poco dopo, Moseley torna a cercare la giovane, la trova agonizzante e la uccide. Questo caso di cronaca nera suscita scalpore nell’opinione pubblica per un risvolto particolarmente inquietante: si stima difatti che 38 persone abbiano assistito all’aggressione, ma nessuno è intervenuto. Sebbene l’aggressore abbia impiegato più di mezz’ora per uccidere la vittima, le persone che hanno assistito al crimine dalle loro abitazioni non sono scese in strada a prestare soccorso.

I vari opinionisti cercano di motivare tale comportamento con concetti come “decadenza morale”, “deumanizzazione provocata dall’urbanizzazione”, “alienazione” e via dicendo. Milgram e Hollander (1964) affermano che la persona che assiste a una situazione di emergenza, come un’aggressione, vive un conflitto interiore: da un parte vi sono le norme morali che impongono di aiutare il prossimo, dall’altra parte sussistono paure più o meno razionali relative a cosa potrebbe succedere.

Kitty genovese - Effetto Spettatore

Darley e Latané, due psicologi sociali, approfondiscono questo fatto. La loro opinione è che in alcuni casi le norme morali siano indebolite da altri fattori, ad esempio la presenza di altri osservatori. Questo porta a due conseguenze: la diffusione della responsabilità (così come della potenziale vergogna per non essere intervenuti) e il lecito dubbio che qualcun altro si sia già mosso per cercare aiuto, pur non avendone la certezza. Con questi presupposti, emerge una chiara ipotesi: più persone assistono a un’emergenza, più si riscontra la probabilità che ogni spettatore non intervenga o lo faccia più lentamente.

L’esperimento

Per verificare questa tesi, i ricercatori reclutano 72 studenti di psicologia, dicendo loro che sarebbero stati coinvolti in una discussione sulla vita universitaria. Ciascuno veniva portato in una stanza nella quale poteva comunicare con gli altri attraverso un citofono, in turni di due minuti a testa, al fine di salvaguardare l’anonimato (in realtà questa modalità rende lo studio più vicino all’episodio di Kitty Genovese). Durante la discussione, un ragazzo prende la parola, ma d’improvviso si sente male. I sintomi sembrano quelli di un attacco epilettico e in effetti il ragazzo ha precedentemente detto di soffrirne. I partecipanti sentono al citofono la sua richiesta d’aiuto: se – se qualcuno potesse … – ho bisogno – se qualcuno .. sento che sto male – mi, mi sta per venire un attacco – sento che sto per morire. Dopo queste parole, si sentono dei rantoli e poi più nulla. Per due minuti gli altri partecipanti non possono comunicare tra di loro.

La variabile indipendente è la numerosità del gruppo, che può variare da due a sei partecipanti. Il soggetto sperimentale è sempre e solo uno, gli altri (vittima e altri membri della discussione) sono solo voci registrate. La variabile dipendente principale è il tempo di latenza tra l’inizio dell’audio in cui si sente la vittima stare male e chiedere aiuto e l’uscita del soggetto dalla stanza per chiedere aiuto.

I risultati mostrano che l’85% dei partecipanti che sanno di essere l’unico interlocutore della vittima cercano aiuto in modo tempestivo (prima che la vittima smetta di parlare), mentre nel caso in cui la discussione avviene in gruppo solo il 31% dei soggetti interviene per chiedere supporto. La vittima ha quindi maggior probabilità di essere aiutata quando a essere presenti sono una o due persone, mentre questa probabilità cala quando ad assistere sono, ad esempio, in cinque. A 45 secondi dall’inizio della simulata crisi epilettica, la probabilità che intervenga l’unico interlocutore presente è del 50%, mentre se gli interlocutori sono cinque la probabilità si azzera. Questi risultati sembrano essere confermati al netto di altre variabili, come il sesso o alcuni tratti di personalità, ad esempio la desiderabilità sociale.

Alla fine dell’esperimento, viene chiesto ai soggetti di definire quali pensieri hanno avuto nel momento in cui hanno sentito la vittima star male. Emerge che i soggetti non riescono a definire con esattezza cos’hanno pensato, e affermano per lo più: non sapevo cosa fare, ho pensato che dovesse trattarsi di uno scherzo, non capivo cosa stava succedendo.

Nel commentare i risultati raccolti, gli autori affermano che probabilmente i soggetti non hanno deciso di non rispondere. Piuttosto emerge una sorta di conflitto interno, come se si chiedessero: devo fare qualcosa oppure no?, dato che sembra confermare la teoria di Milgram e Hollander. In seguito Latané e Darley (1969) continueranno i loro esperimenti sul bystander effect, affermando che potrebbero esserci due meccanismi alla base del fenomeno analizzato. In primo luogo, la mancanza di preoccupazione mostrata dagli altri membri del gruppo potrebbe comportare una valutazione sommaria e sottostimata dell’evento. Inoltre, la diffusione della responsabilità, come già mostrato, determinerebbe scarsa probabilità di intervento.

Questa spiegazione, seppur plausibile, non riesce a comprendere alcuni fenomeni di cui sono stati autori uomini e donne spettatori di grandi crimini, come la resistenza in Italia o la primavera araba. Qual è il fattore che muove l’uomo dalla posizione di spettatore a quella di attore e protagonista del suo tempo? Forse è questa la domanda che dobbiamo porci oggi e a cui occorre davvero trovare una risposta.

 

VIDEO: Effetto spettatore durante le emergenze

 

Videogiochi violenti e comportamenti aggressivi: esiste un legame?

Media e politica dissertano frequentemente dell’associazione esistente tra l’uso di videogiochi violenti e comportamenti aggressivi in chi ne fruisce. Ma che cosa c’è di vero? I videogiochi violenti hanno una relazione diretta con la violenza oppure no?

Chiara Cognetta e Antonio Ascolese – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi

 

Media e politica dissertano frequentemente dell’associazione esistente tra l’uso di videogiochi violenti e comportamenti aggressivi in chi ne fruisce. Ma che cosa c’è di vero? I videogiochi violenti hanno una relazione diretta con la violenza oppure no? Che legame esiste tra il comportamento violento che è possibile adottare all’interno di un videogioco e la nostra morale nella vita di tutti i giorni?

Alcune ricerche hanno mostrato che i videogiochi violenti portano a un aumento dell’aggressività nei giocatori, ma se e come questa aggressività si trasformi in violenza agita, è tutto da dimostrare. Allo stesso modo esistono diversi studi che hanno cercato di indagare in che modo e secondo quali direzioni gli aspetti morali incidano sulle modalità di gioco.

 Secondo John Murray, psicologo della Kansas State University, l’esposizione ai videogiochi violenti ha un effetto maggiore rispetto alla violenza veicolata da altre tecnologie, come ad esempio la televisione, a causa di diversi fattori, uno tra tutti l’interattività tipica dei videogiochi.

Da circa due decenni l’uso di videogiochi è un’attività molto diffusa tra gli adolescenti (ISFE, 2010): secondo alcune ricerche, il tempo speso nell’uso di videogiochi sta aumentando rapidamente (Escobar-Chaves & Anderson, 2008), ma il dato che preoccupa maggiormente gli studiosi del settore non è legato all’uso massiccio dei videogiochi, ma alla larga diffusione e preferenza di videogiochi violenti.

Secondo un recente report dell’osservatorio AESVI (Associazione Editori Sviluppatori Videogiochi Italiani, 2012) tra i 20 titoli più venduti nel 2011, la metà propone contenuti cruenti, violenti e aggressivi. Nonostante in generale la ricerca non sia stata in grado di stabilire con decisione quale sia la direzione causale nella relazione tra uso di videogame e comportamento, molti sono stati gli sforzi per avvicinarsi alla risposta.

 

Chi è violento sceglie videogiochi violenti?

Secondo Thalita Malagò, segretario generale di AESVI, il legame esistente tra videogiochi violenti e tendenza all’aggressività sarebbe infondato. Secondo questa linea di pensiero, l’errore starebbe nel pensare che i principali fruitori di videogames siano bambini e adolescenti e nel non considerare che chi preferisce videogames violenti, può avere una predisposizione pre-esistente alla violenza.

 

Teoria della catarsi

Un’interessante ricerca dal titolo ‘Violent video games and real-world violence: rhetoric versus data‘ (Markey et al., 2014), realizzata da alcuni ricercatori della Villanova University e della Rutgers University degli Stati Uniti, ha cercato di scoprire se esista una correlazione diretta tra i videogiochi violenti e il numero di crimini violenti. I ricercatori hanno basato il loro studio principalmente su 4 analisi comparative che prevedevano l’osservazione dei seguenti dati:

  • Cambiamenti nelle vendite di videogiochi violenti e nel numero di crimini violenti dal 1978 al 2011;
  • Andamenti mensili nelle vendite di videogames violenti e crimini violenti dal 2007 al 2011;
  • Quantità di ricerche online per guide e soluzioni per i videogiochi violenti;
  • Numero di crimini violenti dal 2004 al 2011;
  • Crimini violenti in seguito alla pubblicazione di tre videogiochi violenti molto popolari: Grand Theft Auto: San Andreas, Grand Theft Auto IV e Call of Duty: Black Ops.

I risultati di questa ricerca indicano come esista una correlazione inversa tra il numero di crimini commessi e l’uso di videogiochi violenti: secondo i dati ottenuti infatti, ad un aumento del consumo di videogiochi volenti, corrisponderebbe una riduzione di crimini violenti nei 6 mesi successivi alla pubblicazione del videogioco.

 

Videogiochi violenti e comportamenti aggressivi: esiste un legame? - FIG 1
Figura 1. Andamenti mensili nelle vendite di videogiochi e crimini violenti tra il 2007 e il 2011.

 

La spiegazione di questo fenomeno non ha riscontri nella ricerca, ma gli studiosi suggeriscono di poter ipotizzare che l’uso di videogiochi violenti possa funzionare, per chi ne fruisce, come uno strumento catartico: potendo canalizzare l’aggressività nel mondo virtuale, gli utenti sarebbero portati a non farlo nella vita di tutti i giorni. L’altra ipotesi fatta, ha portato i ricercatori a pensare che i 6 mesi successivi all’uscita di un nuovo videogioco, siano quelli usati dagli acquirenti per giocare, stando in casa davanti alla loro consolle e non per le strade, a commettere un reato criminoso o violento.

Se da un lato è possibile ipotizzare che non esista un legame tra la fruizione di videogames violenti e la manifestazione di comportamenti aggressivi (Ferguson & Kilburn, 2009), dall’altro lato molti studi inseriti all’interno della cornice teorica del General Aggression Model (GAM, Anderson et al., 2004; Bushman & Anderson, 2009) ipotizzano che variabili situazionali e comportamenti individuali interagiscano tra loro, generando un’influenza sulla persona, che porta a cambiamenti sul piano emotivo, cognitivo e fisiologico (Anderson & Bushman, 2001). In altre parole, i processi decisionali che conducono al comportamento aggressivo, dipendono dall’interpretazione e della valutazione della situazione in cui il soggetto è inserito.

È emerso che la fruizione di videogiochi violenti comporta un aumento di pensieri aggressivi e di variazioni fisiologiche (come l’aumento del battito cardiaco e della temperatura) successive al gioco, anche se i dati osservabili per lo studio delle conseguenze a lungo termine della fruizione sono carenti. Per valutare se esistano delle differenze negli effetti dovuti alla fruizione di contenuti violenti attraverso media differenti, la ricerca suggerisce almeno tre variabili che permetterebbero di discriminare tra videogames violenti e altri tipi di media col medesimo contenuto, considerando i primi come più dannosi (Anderson et al., 2010; Bushman, 2011).

  1. Alcune ricerche (ad esempio, Polman et al., 2008) hanno evidenziato come il giocatore che abbia la possibilità di agire attivamente all’interno di un gioco violento, abbia più possibilità di mettere in atto comportamenti aggressivi successivi alla fruizione, rispetto al giocatore che si è limitato ad osservare il gioco violento. Questo è comprensibile se si pensa che quando si gioca non si è semplici spettatori, ma si ha la possibilità di immergersi nella situazione, si possono prendere delle decisioni, possedendo le redini del gioco.
    Inoltre, grazie all’introduzione di nuovi paradigmi basati sul controllo del gioco tramite il movimento del corpo, il grado di immedesimazione aumenta esponenzialmente.
  2. Maggiore è la possibilità di personalizzare l’avatar con cui partecipare al videogioco –attribuendogli sembianze simili a quelle del giocatore-, maggiore sarà la possibilità che il partecipante metta in atto comportamenti aggressivi, rispetto al giocatore con un avatar dalle caratteristiche generiche (Fischer, Kastenmüller & Greitemeyer, 2010).
  3. Spesso il comportamento violento o aggressivo viene rinforzato dalla presenza di premi e gratificazioni. Tali gratificazioni vengono rilasciate anche nei casi in cui il giocatore metta in atto nel gioco comportamenti distruttivi, aggressivi o cruenti.

 

Teoria della frustrazione

Un recente studio condotto dell’Università di Oxford dal prof. Andrew Przybylski, insieme ad alcuni colleghi dell’università americana di Rochester tra i quali Richard Ryan, i cui risultati sono stati pubblicati nella prestigiosa testata Journal of Personality and Social Psychology, sposta il focus dell’aggressività dalla ripetizione, alle meccaniche di gioco, al gameplay.

Nello specifico, la ricerca è stata condotta su due gruppi di videogiocatori, ai quali è stato chiesto di utilizzare due versioni diverse di un gioco sparatutto ‘Half-Life 2’: nel primo caso i partecipanti giocavano alla versione originale del gioco, nel secondo caso era stata loro fornita una versione modificata, senza contenuti violenti. Ai giocatori che hanno utilizzato la versione modificata non è stata data la possibilità di accedere a un tutorial preliminare: gli studiosi hanno potuto notare come in questo caso i giocatori dichiaravano di sentirsi incompetenti e non preparati, mostrando un comportamento e un atteggiamento più aggressivo rispetto al gruppo a cui era stata fornita la versione originale, più violenta, del videogame.

Secondo il prof. Przybylski, questo può essere spiegato facendo riferimento al livello di frustrazione provato dai giocatori: più è alto il livello di frustrazione percepita, maggiore sarà il numero di comportamenti aggressivi e violenti messi in atto durante la partecipazione al gioco.

Secondo lo studioso, la necessità di padroneggiare i comandi di gioco (attraverso la preparazione e quindi anche attraverso l’uso di tutorial) è più importante dei contenuti, più o meno violenti, perché gli utenti hanno bisogno di uscire vincitori da una sessione di gioco.

 

Una nuova generazione di videogiochi

Negli ultimi venti anni, i progressi tecnologici hanno condotto alla creazione di esperienze di gioco sempre più realistiche. Nel tentativo di sviluppare prodotti che siano sempre più vicini al mondo reale e vissuto dagli utenti, sono stati introdotti e commercializzati videogiochi in cui la scelta morale del giocatore riveste un ruolo importante per lo sviluppo e la direzione della storia e del personaggio di gioco stesso. Ad esempio, sia nel gioco Fahreneit (Quantic Dream, 2005) che in Fallout III (Bethesda Softworks, 2008), il giocatore viene messo di fronte non solo a contenuti violenti, ma anche a delle scelte morali obbligate dalla storia stessa. In questi mondi virtuali è possibile sperimentare ciò che nella vita di tutti i giorni, non solo sarebbe impraticabile, ma potrebbe essere considerato un reato. Infatti in alcuni videogiochi violenti il giocatore si trova immerso in un mondo in cui egli stesso può uccidere, torturare, aggredire, picchiare, etc (Wonderly, 2008).

Quello che viene spontaneo chiedersi è in che misura commettere azioni considerate generalmente e nella vita di tutti i giorni come riprovevoli e immorali, possa influire sul giudizio morale nella vita quotidiana. Molti studiosi dell’etica, tra cui McCormik (2001), sostengono che ‘l’umanità oggi sia di fronte ad una nuova serie di questioni morali causati dalla nuova tecnologia’.

 

Il caso Dayz

Per approfondire quest’ultimo aspetto, si può pensare a DAYZ un videogioco che nel 2014 ha suscitato parecchio scalpore, divenendo famoso per un video diventato poi virale in rete, in cui veniva presentata una scena presa da una sessione del gioco stesso. Nel video diffuso online, vale a dire un estratto di una partita giocata, il giocatore principale decide di mettere due partecipanti al gioco online di fronte a un bivio: uccidere l’altro o salvarsi la vita.

Quando uno dei due partecipanti al duello riesce a fuggire, di fatto non uccidendo il compagno, né facendosi colpire, è il giocatore principale che lo colpisce sparandogli alle spalle. Dall’audio che è possibile ascoltare, si sentono chiaramente le risate degli altri partecipanti, che sottostanno alle regole crudeli e particolarmente aggressive imposte dal giocatore che ha introdotto il duello.

Dayz è un gioco online diverso da quelli che prevedono apocalissi alle quali sfuggire o zombie da sconfiggere: in Dayz la minaccia più grande può essere rappresentata dal compagno di gioco, che può decidere di aiutare, salvare la vita o uccidere. Il gioco, sviluppato da Bohemia Interactive, ha suscitato non poco stupore. A tal proposito, alcuni ricercatori dell’Università di Melbourne hanno scritto che ‘a differenza di altri giochi in cui la morte dei personaggi dura uno o due secondi prima della successiva materializzazione, in Dayz la morte è permanente e prevede la scomparsa definitiva del personaggio creato‘.

In altre parole la morte è più reale che in altre realtà virtuali poiché il personaggio, una volta morto, lo è per sempre. Questo da un lato intensifica le interazioni sociali tra i partecipanti, fornendo loro la percezione di poter investire emotivamente di più e permette una più solida immedesimazione, dall’altro lato pone i giocatori di fronte a dilemmi morali realmente percepibili.

Osservando il video della giocata, è possibile notare come il protagonista tanto discusso abbia messo in atto comportamenti violenti ed aggressivi, mostrando scarsa empatia nei confronti degli altri compagni partecipanti al giocoagendo in modo crudele e sadico.

Ryan Rigney, scrittore statunitense che lavora nell’industria dei videogame e autore dell’articolo ‘Why online games make players act like psycopaths, di fronte a questo tipo di comportamento virtuale, ha ipotizzato di poter paragonare quanto descritto e visto in quella scena di gioco, al comportamento di personalità psicopatiche.

 

Cosa si intende per psicopatico

Il termine psicopatico, attualmente in disuso, fa riferimento all’odierna definizione di personalità antisociale, che in linea di massima caratterizza quelle che un tempo venivano presentate, appunto, come personalità psicopatiche. Nel DSM V (Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders, 2013) gli individui che soffrono di questo disturbo vengono descritti come cinici, sprezzanti nei confronti delle emozioni, del mondo e della sofferenza altrui, con scarse o assenti capacità empatiche. Si tratta di persone che faticano a mantenere una solida relazione affettiva, possono divenire irresponsabili e mettere in atto comportamenti violenti, aggressivi, cruenti e crudeli. Possono presentare disforia, lamentare nervosismo e dimostrare scarse capacità di tollerare la noia e l’umore depresso.

Rigney, rifacendosi alla teoria del dott. Adam Perkins del King’s College di Londra, ha evidenziato come una persona che soffre di psicopatia riesce solo superficialmente a empatizzare con l’altro. Secondo Perkins si stratta proprio del tipo di persone che sono in grado di fare quel genere di cose per le quali chiunque avrebbe un rimorso di coscienza, senza, di fatto, provarne nessuno. Sono persone in grado di mettere in atto comportamenti per i quali la maggior parte delle persone non riuscirebbe poi a dormire la notte al solo pensiero di averli compiuti, mentre al contrario uno psicopatico, dormirebbe come un bambino.

Generalizzando, le persone considerabili psicopatiche o con disturbo di personalità antisociale, mettono in atto comportamenti aggressivi, violenti o crudeli senza alcun rimorso, senza nessuna emzoione di colpa. Possiedono uno stile cognitivo che non pone alcun accento sul valore e sul trattamento equo degli altri. Questo non significa che siano persone più violente di altre. Si tratta di persone solite e avvezze al pensiero logico, che agiscono calcolando metodicamente le conseguenze delle loro azioni, di cui secondo Perkins, riconoscono le conseguenze (anche e soprattutto negative).

Se esistono dei deterrenti riconosciuti dalla persona psicopatica o antisociale, come ad esempio la possibilità di finire in carcere, l’azione violenta ha più probabilità di non essere messa in atto. Secondo l’autore, questi disincentivi all’azione violenta però, non funzionano nel mondo virtuale, mondo in cui, in assenza di empatia, ci si può sentire liberi di rubare e uccidere.

Quanto espresso da Rigney fa nascere un dilemma, sintetizzabile in questo modo: le azioni e i comportamenti attuati nei videogiochi violenti sono paragonabili a quelle che riusciamo ad immaginare, ma che non avremmo mai il coraggio di fare? O nei videogames violenti ci comportiamo come se non ci fossero delle reali conseguenze (come invece avviene nel mondo reale) e dunque nella realtà ci comportiamo diversamente (con comportamenti meno aggressivi) perché abbiamo ben presenti le conseguenze negative dei nostri comportamenti?

In un recente studio italiano (Gabbiadini, Andrighetto & Volpato, 2012) si è ipotizzato che l’uso di videogames violenti in cui il giocatore è libero di mettere in atto comportamenti spregiudicati ed immorali (come ad esempio avere rapporti sessuali a pagamento con prostitute per aumentare il punteggio legato alla salute dell’avatar, GTA IV) possa indebolire il giudizio morale delle persone, anche al di fuori dei confini virtuali. Ai partecipanti dello studio è stato chiesto di riportare la frequenza con cui erano soliti giocare al videogioco GTA IV. Successivamente è stato chiesto loro di compilare un questionario per la misurazione del disimpegno morale (Bandura, Barbaranelli, Caprara & Pastorelli, 1996).

Il questionario è costruito per la misurazione di tre diversi momenti del processo di disimpegno morale:

  1. La ridefinizione della condotta immorale, che tende a minimizzare l’atto immorale compiuto;
  2. La distorsione delle condotte dell’atto immorale, ritenute meno gravi di quanto siano;
  3. La diversa considerazione della vittima che tramite attribuzione di colpa o biasimo, viene considerata meritevole dell’offesa ricevuta.

Dai risultati dello studio si può osservare come tanto più recentemente i partecipanti avevano giocato a GTA IV, maggiore era il punteggio relativo al grado di disimpegno morale, misurato considerando cinque sottocomponenti (giustificazione morale, confronto vantaggioso, diffusione di responsabilità, distorsione delle conseguenze, deumanizzazione) (Bandura, 1990).

E’ altresì importante notare come gli stessi effetti, sono stati rintracciati nel campione di partecipanti, indipendentemente dal genere e dall’età. Sicuramente interessante, lo studio sopracitato stimola una riflessione già citata: giocare a videogiochi violenti e dai contenuti immorali, causa un comportamento aggressivo e immorale, oppure persone di natura aggressiva o moralmente più permissive con se stessi, scelgono un videogioco di questo tipo?

 

Prospettive future e aspetti ancora da indagare sull’uso di videogiochi violenti

Nel tentativo di rispondere a questa domanda, sarà necessario che la ricerca si focalizzi maggiormente su più aspetti, magari concentrandosi sul legame che esiste tra il disimpegno morale e gli aspetti comportamentali ad esso correlati. Ad oggi alcuni studiosi ipotizzano che il disimpegno morale rappresenti il momento intermedio del processo generale che porta alla alla scelta e alla fruizione di videogiochi violenti e al finale e conseguente comportamento aggressivo.

Alla luce di quanto indicato e suggerito qualche decennio fa da Bandura (1990), potrebbe rendersi necessario considerare non solo il comportamento aggressivo come risultante della scelta di videogiochi violenti, ma anche il disimpegno morale, considerato come uno degli aspetti correlati all’azione aggressiva.

Inoltre, comprendere la durata degli effetti negativi della fruizione di videogames violenti, potrebbe essere importante per fornire un’idea più chiara rispetto all’influenza reale e quantificabile dei videogiochi nella vita reale di tutti i giorni, specificando con maggior precisione se e come la percezione del mondo in cui viviamo viene modificata nel tempo dall’uso dei videogiochi violenti.

Teoria della Gestalt – Introduzione alla Psicologia

La teoria della Gestalt

La scorsa settimana si è parlato di percezione. La percezione è definibile come quel processo per mezzo del quale riconosciamo, organizziamo e attribuiamo significato alle sensazioni che derivano dagli stimoli ambientali. Tra le diverse teorie elaborate in ambito percettivo, uno sguardo più attento deve essere rivolto alla teoria della Gestalt.

INTRODUZIONE ALLA PSICOLOGIA RUBRICA DI DIVULGAZIONE SCIENTIFICA IN COLLABORAZIONE CON LA SIGMUND FREUD UNIVERSITY DI MILANO

La teoria della Gestalt: la Storia

Il termine tedesco Gestalt è il participio passato di von Augen gestellt che letteralmente significa posizionato davanti agli occhi, ciò che compare allo sguardo, ovvero forma. Si tratta di un termine volgarizzato da Lutero nella traduzione della Sacra Bibbia che successivamente divenne di uso comune. Ma la Gestalt passa alla storia come teoria della forma, ovvero di tutto ciò che può essere percepito. Bisogna fare attenzione, poiché col termine Gestalt si definiscono due correnti diverse: la Gestaltpsychologie o psicologia della Forma corrente di impostazione teorica che nasce negli anni ‘20 in Germania, e la Gestalt Therapy teoria clinica che nasce in ambito psicoanalitico, formatasi in America intorno agli ’50. Vediamo più da vicino in cosa consistono.

La Gestaltpsychologie o psicologia della forma è un movimento sviluppatosi a Berlino all’inizio del XX secolo in opposizione allo strutturalismo vigente. Il motto per antonomasia dei gestaltisti è: “Il tutto è più della somma delle singole parti” (Zerbetto, 1998), significa che la totalità del percepito è caratterizzato non solo dalla somma dalle singole attivazioni sensoriali, ma da qualcosa di più che permette di comprendere la forma nella sua totalità. Prendiamo a esempio una melodia, bellissima nel suo insieme cioè nella sua totalità, che, chiaramente, non può esistere senza le singole parti, ovvero le note. In sostanza, da ogni esperienza percettiva si ottiene una immagine totale a cui la mente attribuisce un significato, derivante da singoli dettagli che fungono da sfondo della figura. La capacità di percepire il tutto è una dote innata in ognuno di noi che consente di dare un senso a ogni percetto.

La Terapia della Gestalt nasce, rispetto alla precedente teoria della Gestalt molto più tardi, negli Stati Uniti d’America. Questo approccio terapeutico, perché di tale si tratta, prende spunto dal movimento tedesco, ma il focus del suo intervento riguarda l’ambito clinico. Nasce da un malcontento in ambito psicoanalitico e comportamentista, e si focalizza principalmente sulle funzioni percettive dell’individuo intese come prodotto della propria psiche. I terapeuti della Gestalt sostenevano che l’esperienza percettiva si manifesta al confine tra noi e l’ambiente. Tutto ciò che si trova all’interno di questo confine merita di essere percepito, dunque, conosciuto e, allo stesso tempo, deve diventare il campo dell’intervento terapeutico. La cura, dunque, non è comprendere la genesi del disturbo, bensì sentirsi riconosciuti dall’altro identificato come significativo per noi.

La Gestalt

La Gestalt-Forma rappresenta l’attitudine a organizzare le sensazioni elementari in figure emergenti da uno sfondo. Si ottiene, in questo modo, una figura dai contorni dettagliati, che affiora in maniera netta rispetto a uno sfondo indifferenziato, che in alcuni casi appare impercettibile. Consideriamo una serie di stimoli visivi fissi, distaccati tra loro da una manciata di secondi, che producono in noi la percezione di un solo elemento che si muove nello spazio. E’ un fenomeno che a tutti capita di percepire e sperimentare soprattutto quando si è in viaggio e si osserva un’immagine fuori dal finestrino del treno o dell’auto. Questo processo è stato descritto per la prima volta da Wertheimer, uno dei capisaldi della Gestalt, che lo definì fenomeno del Phi o della persistenza percettiva degli oggetti. Quindi, l’oggetto è percepito nella sua totalità prima delle singole parti da cui è composto. Si ottiene in questo modo una figura strutturata e organizzata che diventa l’unità di misura della percezione stessa, chiaramente in relazione all’ambiente in cui si è immersi. Famose in questo ambito sono le figure geometriche ambigue, il cubo di Necker, che varia a seconda di come è percepito dal soggetto, il vaso di Rubin o la donna di Leavitt, figure aperte (senza margini), che gli occhi sono in grado di percepire come chiuse (con i bordi uniti) ovvero nella loro totalità e non come costituite da parti aperte.

Da qui nascono una serie di leggi della percezione:

  • la pregnanza, secondo la quale quello che noi comunemente percepiamo è la migliore forma possibile dell’oggetto che appare ai nostri occhi. Lo scopo è riuscire a ottenere il massimo dell’informazione partendo da una struttura semplice;
  • la sovrapposizione, forme collocate sopra ad altre appaiono come delle figure su uno sfondo;
  • l’area occupata, l’area che presenta la minore estensione sarà individuata come figura;
  • il destino comune, parti che si muovono insieme sono organizzate come figura unitaria rispetto ad uno sfondo;
  • la buona forma, gli stimoli percettivi sono organizzati nella forma più coerente possibile;
  • la somiglianza, le parti affini sono percepite come unica figura;
  • la buona continuazione, se si ha un basso numero di interruzioni si ottiene la percezione di un’unica figura;
  • la chiusura, tutto ciò che mostra margini chiusi è percepito come figura unitaria.

Insomma, secondo la Gestalt la percezione non è preceduta da sensazione ma è un processo regolato da leggi innate, che scompongono il percetto in schemi atti a organizzare e a rilevare la figura nella sua totalità. Il percepito è qualcosa di diverso da una immagine che si forma sulla retina, per questo rientra in un sistema di significati più complessi presenti nel sistema nervoso centrale. Quindi, la percezione avviene in due fasi:

  1. analisi della forma;
  2. elaborazione cognitiva.

Riusciamo a vedere solo ciò che elaboriamo dopo averlo percepito e dotato di significato.

Kurt Lewin, diede un forte apporto teorico alla Gestalt, avvalendosi di una serie di informazioni provenienti dall’ambito della fisica per spiegare la relazione esiste tra individuo/ambiente. A tal proposito sviluppò la Teoria del Campo, secondo la quale ogni oggetto non può intendersi se non in relazione al contesto nel quale è incluso. Il campo è la realtà che ci circonda e in cui l’individuo si muove per raggiungere i propri obiettivi, mentre il campo percettivo è una sorta di cornice da cui emergono figure nuove, percepite dall’individuo come rilevanti per riuscire a perseguire i propri obiettivi o scopi. Quindi, uno stesso oggetto può assumere significati diversi a seconda del bisogno espresso dalla persona in quel preciso momento. Insomma, per Lewin sono i bisogni che determinano e sostanziano il percetto inserito in un campo.

 

La Teoria della Gestalt prese piede anche in Italia e i suoi maggiori esponenti furono Fabio Metelli, che svolse diversi studi sulla percezione visiva, producendo contributi di notevole valore scientifico che gli garantirono pubblicazioni su riviste internazionali, e Gaetano Kanizsa, noto per il fenomeno percettivo detto Triangolo di Kanizsa: immagine aperta da cui emerge un triangolo bianco che spicca dallo fondo, meno luminoso, come conseguenza dal contrasto figura – sfondo.

 

Le applicazioni della teoria della Gestalt

La teoria della Gestalt è attualmente usata nell’ambito clinico, soprattutto per i disturbi legata alla sfera percettiva. Tale teoria si applica attraverso l’uso di reattivi psicometrici basati sulla percezione di una serie di immagini a cui il paziente deve attribuire dei significati.

Per il Neglet, eminattenzione laterale, è usato il Bender Visual Motor Gestalt Test, formato da 9 figure contenenti immagini diverse che il soggetto deve riprodurre allo scopo di valutare lo sviluppo della funzione visuo-motoria in relazione all’ambiente e all’età.

In ambito psicologico troviamo il test di Rorschach, 10 tavole su cui sono raffigurate delle macchie di inchiostro simmetriche di colore bianco e nero (esiste una variante che presenta del colore rosso al loro interno). Queste tavole sono mostrate al soggetto che deve riferire cosa percepisce dalle macchie. Da queste narrazioni si ricavano dati inerenti al funzionamento psichico del soggetto in questione.

Un altro test è Thematic Apperception Test (TAT) di Murray, formato da tavole raffiguranti persone in situazioni ambigue. La consegna data al soggetto è raccontare una storia per ciascuna illustrazione. Dai racconti effettuati è possibile evincere conflitti, bisogni e modelli di relazioni. Esiste anche una edizione per bambini, il Children’s Apperception Test (CAT), in cui nelle dieci tavole raffigurano animali antropomorfizzati.

RUBRICA: INTRODUZIONE ALLA PSICOLOGIA

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Cenni storici sulla diagnosi della Bulimia – Magrezza non è bellezza Nr. 6

Accanto all’anoressia, all’astensione patologica dal cibo, vi è anche la bulimia. Questa sindrome è stata definita solo di recente e precisamente nel 1979 con la diagnosi della bulimia di Gerald Russell. Il termine si riferisce soltanto a un aspetto del problema, e cioè all’eccesso alimentare.

MAGREZZA NON E’ BELLEZZA – I DISTURBI ALIMENTARI: Cenni storici sulla diagnosi della Bulimia (Nr. 6)

La storia della diagnosi della bulimia

Bulimia è parola greca che significa “fame da bue”, o anche “capacità di mangiare come un bue”. L’uso del termine non è moderno ma risale a vari trattati medici che vanno dal Trecento al Novecento ed era usato in alternanza con il sinonimo cinoressia, “fame da cane”. Il termine è presente anche in fonti antiche, come nell’ Anabasi di Senofonte, ma con un significato diverso, ossia di “fame eccessiva dovuta a un periodo prolungato di denutrizione”, come appunto accadde ai diecimila guerrieri greci guidati da Senofonte. In parallelo ci sono le descrizioni degli eccessi alimentari dei banchetti seguiti da vomito autoindotto.

Negli scritti di Celio Aureliano (V secolo d.C.) si trova l’osservazione di come queste abitudini provochino rigonfiamento del viso e logorio della dentatura, fenomeni riscontrabili anche nei moderni casi di bulimia nervosa e dovuti all’ingrossamento della parotide e all’erosione dentale prodotta dalle sostanze digestive contenute nei liquidi rigurgitati durante l’induzione del vomito. Nel Medioevo ritroviamo casi di alimentazione eccessiva, non accompagnati da vomito autoindotto. Il vomito poteva essere presente come pratica ascetica autopunitiva (vedi, ancora una volta, santa Caterina), non preceduta, però, da eccesso alimentare.

 

La bulimia nell’epoca moderna

In epoca moderna, sono stati riportati 36 casi di iperfagia, di cui 23 nell’Ottocento. Di questi 36 casi, 15 presentavano aspetti che ricordano i sintomi della bulimia nervosa: ingestione rapida, fame nervosa, alimentazione di nascosto e/o notturna, vomito autoindotto e peso normale. Inoltre, uno dei casi di anoressia identificati da Gull era accompagnato anche – episodicamente- da iperalimentazione.

Nel Novecento i primi casi clinici associabili alla bulimia nervosa sono stati sporadicamente osservati a partire dagli anni Trenta. Un leggero incremento è stato osservato negli anni Sessanta, fino all’esplosione degli anni Settanta che ha portato alla prima descrizione accurata della sindrome a opera di Gerald Russell nel 1979, formulando la diagnosi della bulimia.

La moderna forma clinica della bulimia nervosa ha molto in comune con i comportamenti bulimici segnalati in epoche precedenti: la fame nervosa, il consumo rapido ed eccessivo di cibo, l’alternarsi di periodi di astinenza e iperalimentazione, il peso oscillante tra basso e normale (più raramente il sovrappeso), i tratti di carattere ansioso e depressivo, le abbuffate notturne e il vomito (raramente autoindotto, come, invece, nella sindrome attuale).

Tratti di discontinuità sono la prevalenza del sesso femminile, aspetti legati alle carenti condizioni igieniche delle epoche passate (per esempio le infestazioni di parassiti e vermi intestinali, come fattori scatenanti), l’appetito per sostanze non cucinate quali erba, cardi selvatici e perfino candele (un aspetto, questo, chiaramente legato alla minore disponibilità di cibo nel passato).

RUBRICA MAGREZZA NON E’ BELLEZZA – I DISTURBI ALIMENTARI

La sindrome di Tourette (TS) e il trattamento con la terapia cognitivo comportamentale

Sindrome di Tourette: Si tratta di una sindrome neurocomportamentale cronica, determinata principalmente da un metabolismo anormale della dopamina, diagnosticabile in un individuo che mette in atto più tic motori e almeno un tic vocale a partire da prima dei 18 anni d’età, se questi non sono dovuti ad abuso di sostanze o a particolari condizioni mediche e se non trascorre una pausa delle manifestazioni superiore ai tre mesi.

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Cos’è la sindrome di Tourette: presentazione del disturbo

La sindrome di Tourette (TS), anche chiamata disturbo di Tourette (DT), prende il nome dal neurologo francese Georges Albert Édouard Brutus Gilles de la Tourette che la evidenziò nel 1800 anche se era già stata individuata sin dal 1600.

Si tratta di una sindrome neurocomportamentale cronica, determinata principalmente da un metabolismo anormale della dopamina, diagnosticabile in un individuo che mette in atto più tic motori e almeno un tic vocale a partire da prima dei 18 anni d’età, se questi non sono dovuti ad abuso di sostanze o a particolari condizioni mediche e se non trascorre una pausa delle manifestazioni superiore ai tre mesi (World Health Organisation criteria for TS).

Sindrome di Tourette sintomi

I tic costituiscono i più classici sintomi della sindrome di Tourette. Sono vocalizzazioni o movimenti motori stereotipati, improvvisi, veloci, non ritmici che appaiono frequentemente e percepiti irresistibili da chi li mette in atto. Essi possono coinvolgere la testa, il busto e gli arti.
I tic motori più comuni sono il battere le ciglia, il toccare qualcosa, l’accovacciarsi, l’annusare qualcosa o il piegare le ginocchia. In certi casi il soggetto manifesta coproprassia, vale a dire gesti osceni ripetuti.
Invece i tic vocali possono variare dalla ripetizione di una parola, pronunciare suoni come borbottii, grida o schiarimenti della voce fino all’incoercibile pulsione a proferire espressioni o parole imbarazzanti e/o volgari: si parla in tal caso di coprolalia.
I tic compaiono più volte al giorno, quasi ogni giorno, in modalità più o meno frequente e grave a seconda del periodo e causano un disadattamento familiare, lavorativo e sociale interferendo con queste ed altre aree di funzionamento dell’essere umano, creando imbarazzo e riducendo la percezione di autostima e soddisfazione personale.

La Sindrome di Tourette può essere il più invalidante disordine da tic e il fatto che sia poco conosciuta incrementa il disagio sociale di chi ne è affetto.
I soggetti affetti da questa sindrome mostrano alte correlazioni con altri disturbi psicologici comportamentali come il disturbo da deficit dell’attenzione e iperattività (ADHD, correlazione del 50/70% dei casi), il disturbo ossessivo-compulsivo ( OCD, correlazione del 50% dei casi), disturbi dell’umore, disturbi d’ansia soprattutto dopo un lungo periodo di trattenimento dei tic motori, sensibilità emotiva eccessiva, disturbi dell’apprendimento, comportamento distruttivo, balbuzie, abuso di sostanze, aggressività e depressione.

La sindrome di tourette in bambini e adolescenti

I bambini presentano spesso un’elevata difficoltà nell’instaurare rapporti profondi con i pari in quanto appaiono introversi e aggressivi. Il picco del disturbo si può rilevare nel periodo adolescenziale che, essendo un momento in cui viene attribuita grande enfasi alla corporeità e all’attrazione fisica, implica ulteriori problematiche sociali.

Una sindrome geneticamente ereditabile

In passato si pensava che tale sindrome fosse rara e clinicamente irrilevante, ma ora è considerata un disagio eterogeneo oltre che geneticamente ereditabile. Infatti viene ereditata come gene somatico dominante, tuttavia membri della stessa famiglia possono manifestare sintomi diversi. Un genitore ha il 50 % delle possibilità di trasmettere la sindrome di Tourette ad uno dei suoi figli. Il sesso del bambino può influenzare lo sviluppo del gene: le femmine portatrici hanno il 70% di possibilità di sviluppare i sintomi, mentre i ragazzi il 99 % . L’incidenza dei ragazzi affetti dalla sindrome rispetto alle ragazze è 3 a 1.

 

La sindrome di Tourette durante l’adolescenza

La sindrome di Tourette trova nel periodo adolescenziale la sua manifestazione più evidente. In questa fase di transizione dove si sta sviluppando l’identità e la corporeità della persona, il ragazzo cerca affidamento nel gruppo dei pari, più che un sostegno da parte della famiglia. La sindrome di Tourette, giocando a sfavore delle relazioni interpersonali, soprattutto in ambito scolastico dove spesso derisioni e discriminazioni non possono essere controllate dagli adulti, provoca un sentimento d’inadeguatezza e diversità difficile da accettare dall’adolescente, ancora privo di punti di riferimento stabili. Ecco il motivo dell’acuirsi dei sintomi e di conseguenza di rabbia, aggressività e depressione.

I primi studi longitudinali e trasversali sulla sindrome di Tourette hanno suggerito che questo disturbo è sensibile allo stress psicosociale, così come lo è anche il disturbo ossessivo compulsivo (Bornstein, 1990; Chappel et al., 1994; Findley et al., 2003; Hoekstra, Steenhuis, Kallenberg, & Friedhoff, 1995; Surwillo, Shafii, & Barrett, 1978; Thomsen, 1995).

Inoltre dal momento che la sindrome presenta delle manifestazioni associate e molto intense, è inevitabile che le persone che circondano il soggetto si accorgano delle stesse e mostrino un atteggiamento che può variare fra imbarazzo, disgusto, compassione, paura e in ogni modo disagio.
Questi tipi di riscontro producono nel soggetto depressione e, soprattutto in età adolescenziale, una sensazione di diversità dai pari e dagli adulti che accentua il loro stress, già a livelli eccessivi soprattutto in caso di comorbilità con ADHD, e di conseguenza la frequenza e la severità dei loro tic.

 

I predittori del disturbo nella sindrome di Tourette

I livelli di stress psicosociale e della depressione (quest’ultima predice una crescita modesta della gravità dei tic) sono predittori indipendenti della futura gravità dei tic, nonostante la crescita dell’età cronologica. Infatti l’età cronologica è inversamente proporzionale alla gravità dei tic: con l’aumentare dell’età diminuisce radicalmente la gravità dei sintomi dei tic.
La gravità dei sintomi ossessivo-compulsivi predice la gravità dei sintomi depressivi futuri, ma non viceversa.
La comorbilità di ADHD, sindrome di Tourette e OCD è comunemente associata a particolari profili cognitivi, adattamenti sociali negativi, forti disfunzioni psicosociali e una bassa qualità della vita (Leckman e coll., 1998; Peterson, Pine, Cohen e Brook, 2001; Bloch e coll., 2006; Carter e coll., 2000; Dykens e coll., 1990; Elstner, Selai, Trimble e Robertson, 2001; Robertson, Banerjee, Eapen e Fox-Hiley, 2002; Robertson e coll., 2006).

Le nuove scoperte fanno capire meglio quanto le considerazioni sullo sviluppo vadano tenute in considerazione. Per esempio, quando i bambini crescono iniziano a passare meno tempo con i loro genitori; mentre i bambini più piccoli tipicamente offrono più informazioni ai loro genitori a proposito del loro benessere giornaliero di quanto facciano gli adolescenti. Le ricerche suggeriscono che i genitori sottostimano o sovrastimano l’impatto di un disturbo cronico da tic nel funzionamento dei loro figli in funzione del livello di sviluppo del bambino. Questo potrebbe portare ad un trattamento non adeguato alle esigenze del giovane, dovuto alle preoccupazioni infondate a riguardo dei loro sintomi.

E’ probabile che i bambini con comorbilità di tic e disturbi esternalizzanti beneficino del fatto di essere sottoposti a molti trattamenti per i disturbi esternalizzanti prima di concentrarsi sui tic. Al contrario i bambini senza difficoltà da comorbilità è più probabile che beneficino di interventi sui tic precedentemente rispetto ai bambini affetti da comorbilità.

La sindrome di Tourette: la Terapia

Essendo una sindrome neurocomportamentale la farmacoterapia è considerata il trattamento di scelta per questo disturbo e la sua efficacia è stata dimostrata in esperimenti placebo (Leckman et all.,1991; Sallee, Nesbitt, Jackson, Sine, & Sethuraman, 1997; Scahill, Leckman, Schultz, Katsovich, & Peterson, 2003; Shapiro et al., 1989).

In ogni modo, per quanto riguarda i farmaci, molti pazienti rifiutano, interrompono a causa degli effetti collaterali indesiderati o della parziale o totale inefficacia dei medicinali.

Trattamento psicoterapico

Il trattamento psicologico d’elezione, talvolta associato alla terapia farmacologica, per i pazienti affetti da sindrome di Tourette simple, full blown o plus di entità lieve/moderata (YGTSS minore 25/50 punteggio totale tic motori e vocali) e da un evento social impairment (maggiore 30/50), è HRT (Azrin e Nunn, 1973; cfr European clinical guidelines for Tourette Syndrome and other tic disorders, 2011).
Si tratta di un insieme di tecniche, appartenenti alla terapia cognitivo-comportamentale, che si esaurisce in circa 10 sedute per un sintomo target e prevede il coinvolgimento di uno psicologo esperto in disturbi da tic e sindrome di Tourette, del paziente interessato ed eventualmente di un caregiver.
Lo psicologo è tenuto alla collaborazione con èquipe multidisciplinare (medico, psichiatra, psicoterapeuta, educatore) che ha in carico la gestione del paziente nella co-costruzione dell’ optimum terapeutico.
Affichè i benefici abbiano luogo e persistano nel tempo è indispensabile la motivazione al trattamento, aderenza terapeutica e il coinvolgimento attivo del paziente.

L’ obiettivo dell’ HRT è l’ acquisizione di consapevolezza dei premonitory uge e trigger scatenanti i tic, della natura della sintomatologia stessa e delle conseguenze che ne derivano secondo il paradigma ABC per cui A indica “antecedents”, B “behaviors” target da modificare e C  “consequences”.
Segue un training che permette al paziente la progressiva sostituzione del tic target con un comportamento più adattativo.
Il paziente impara, grazie al supporto di uno psicoterapeuta esperto e del caregiver, a riconoscere e monitorare i momenti della giornata e le attività più propensi a dare adito al tic di interesse (Bergin, Waranch, Brown, Carson, Singer, 1998).

I nuovi comportamenti appresi dal paziente vengono rinforzati tramite token economy techniques (Woods e Himle, 2004) in modo da incentivare i progressi terapeutici.
Il paziente viene gradualmente autorizzato nell’ esecuzione delle tecniche HRT.
Infatti, a percorso ultimato, il paziente sarà in grado di svolgere autonomamente l’ analisi funzionale di tic e compulsioni e, pertanto, intervenire sulle proprie abitudini comportamentali.

Inoltre vengono utilizzate in seduta tecniche di respirazione, rilassamento e contrazione muscolare per fornire comportamenti alternativi a quelli utilizzati alla messa in moto del tic di interesse .
All’interno delle principali tecniche d’intervento psicologico per la sindrome di Tourette emergono i trattamenti comportamentali e psicoterapeutici tradizionali. Un altro approccio terapeutico degno di nota per questo disturbo è quello dello Yale Child Study Center.

 

Sindrome di Tourette: i trattamenti comportamentali

Condizionamento operante (contingency management)
Molto utilizzato per i tic (Azrin e Peterson,1988; Turpin, 1983), il contingency management è basato sulla teoria per la quale le conseguenze di un comportamento influiscono sulla ricorrenza dello stesso. Il rinforzare un comportamento implica il suo mantenimento o incremento; mentre quando un comportamento è punito, quest’ultimo sarà soppresso. Quindi, se la conseguenza che segue un tic è rinforzante il tic sarà mantenuto o addirittura incrementerà nelle sue manifestazioni; se invece viene punito si ridurrà. Si parla infatti di rinforzi e punizioni “positive” e “negative”, termini che vanno intesi in senso matematico (e cioè come “segno +” e “segno -“) mentre la stragrande maggioranza delle persone è… condizionata ad intenderle in senso “morale”.

Il rinforzo positivo viene visto genericamente come “premio per un’azione corretta”: il che non è proprio esattissimo, ma all’atto pratico va anche bene e la punizione è intesa, correttamente, come “qualcosa che faccio affinché tu non ripeta un comportamento sbagliato”. Contingency management è messo in atto da parte di un familiare del paziente, in genere un genitore, che banalmente può lodare il figlio (rinforzo positivo) per un lasso di tempo in cui non ha manifestato tic e trattenersi dal commentarli in caso opposto. Per i genitori è fondamentale non pensare ai periodi di peggioramento dei propri figli come ad un fallimento dell’autocontrollo. Infatti il rinforzo positivo non conduce necessariamente alla riduzione della frequenza o dell’intensità dei tic, ma dovrebbe essere di aiuto nell’aumentare la motivazione del bambino a rispettare le altre forme del trattamento.
Secondo Turpin un limite di questa tecnica è che al di fuori dell’ambiente controllato in cui si mette in atto la tecnica, i comportamenti e le loro conseguenze non possono essere tenuti sotto controllo.

Automonitoraggio

Consiste nel documentare la manifestazione dei tic con un cronometro e un blocchetto per gli appunti. Ingrediente essenziale di questa tecnica è un training per il paziente che gli permetterà di identificare accuratamente quando e in che situazione si verifica il tic. Azrin e Peterson (1988) affermano che l’automonitoraggio è efficace in quanto aumenta la consapevolezza dell’individuo sui propri tic. Nel caso si riscontrino difficoltà da parte del soggetto nel distinguere il comportamento manifesto è sconsigliato utilizzare questa tecnica in un self-report di valutazione iniziale o a seguito di un trattamento.

Habit reversal

La procedura (Azrin e Nunn,1973) è composta dalle seguenti tecniche:
– registrazione: i soggetti stimano la frequenza dei tic prima del trattamento e mantengono l’automonitoraggio anche a trattamento iniziato
– training in fase di inconsapevolezza: che, a sua volta, consiste in descrizione della reazione (il soggetto descrive nel dettaglio ogni manifestazione del comportamento), rilevamento della reazione (il terapeuta comunica al paziente ogni manifestazione del comportamento target fino a quando il soggetto è capace di individuare da solo le manifestazioni), segnali di avvertimento (il soggetto viene preparato nell’identificare i segnali precursori del comportamento) e training in fase d’inconsapevolezza della situazione (per permettere al soggetto di essere in grado di descrivere persone, luoghi e situazioni correlate alla manifestazione del tic).
– controcondizionamento: il soggetto è istruito a tenere in tensione dei muscoli che sono incompatibili con il movimento del tic. Il controcondizionamento deve essere sostenibile per molti minuti per produrre un aumento della consapevolezza del coinvolgimento di quei muscoli nel movimento e rafforzarli a discapito di quelli coinvolti nel tic, non deve essere socialmente intrusivo. I soggetti devono mettere in atto questa tecnica all’impulso del tic o all’effettiva manifestazione del tic.
– motivazione del controllo del tic: far descrivere al soggetto in che modo il tic causa dei problemi e in presenza di supporto da parte di amici e parenti fare in modo che questi ultimi incoraggino e supportino i momenti di mancata manifestazione del tic.
– training generale: prova simbolica, pratica e istruzioni per controllare i tic in tutte le situazioni. La prova simbolica consiste nell’istruire i soggetti a immaginare di essere in situazioni descritte nel training in fase d’inconsapevolezza. Il soggetto è incoraggiato a immaginare di non manifestare il comportamento, ma di mettere in atto il rinforzo competitivo.

 

Sindrome di Tourette: i trattamenti durante l’adolescenza

Al pari degli altri adolescenti, i giovani affetti dalla sindrome di Tourette affrontano il tema della loro autonomia e dell’accettazione da parte degli amici e dei membri del sesso opposto. Per gli adolescenti l’identità, l’intimità romantica e sessuale, la separazione dai genitori e le scelte per il futuro sono i temi di sviluppo predominanti. Come per altri adolescenti con malattie croniche, la speranza di ridurre le difficoltà in modo da non sentirsi deboli, svantaggiati o dipendenti, porta molti adolescenti affetti dalla sindrome di Tourette ad essere sospettosi davanti a cure mediche o psicoterapeutiche. Dal momento che questi adolescenti vedono il trattamento psicologico o medico come un’umiliante accettazione della loro debolezza, è spesso utile enfatizzare gli scopi progressivi del trattamento aiutando il giovane a percepire un maggior controllo sui suoi sentimenti, le sue azioni e le sue scelte di vita.

Anche quando i genitori, il gruppo di pari e la scuola sono comprensivi e accoglienti nei loro confronti, gli adolescenti con sindrome di Tourette possono sentirsi fortemente diversi dai pari. Per alcuni ragazzi, a lungo andare, la costante vigilanza dei tic contro l’imbarazzo sociale isola, porta a sviluppare dei sintomi depressivi e plasma la personalità; la perdita del controllo sui tic conduce frequentemente ad un minaccioso e difficile confronto con gli adulti e i pari.

Lo chiamavano Jeeg Robot di Gabriele Mainetti (2016) – Cinema & Psicologia

Lo chiamavano Jeeg Robot di Gabriele Mainetti del 2016 ha come protagonisti 3 personaggi: Enzo (il buono), Fabio (il cattivo) e Alessia (la matta). 

 

Profilo psicologico dei protagonisti

Il buono e il cattivo

Siamo a Roma, tempi odierni, quartiere di riferimento: Tor Bella Monaca.
Enzo (Claudio Santamaria) è un criminale qualunque, non lavora e vive di rapine; Fabio (Luca Marinelli), noto come “Lo Zingaro”, fa parte di una banda coinvolta in narcotraffico, e delinquenza in generale.
Le loro storie fino qui sembrano molto simili: stessa vita, stesso quartiere, stessa professione.

Durante i primi minuti della pellicola, il pubblico già ha chiaro chi avrà il ruolo di eroe e chi sarà il cattivo da combattere; nel momento in cui le loro esistenze si intrecciano, capiremo le diverse sfaccettature dei due personaggi e di quanto, in realtà, siano diversi tra loro.
Arriva poi un terzo personaggio fondamentale nella trama: Alessia(Ilenia Pastorelli), figlia mentalmente disturbata di Sergio, uno dei collaboratori de Lo Zingaro e, allo stesso tempo, conoscente di Enzo. Alessia è il personaggio chiave, da dove tutto inizia e tutto finisce.

Enzo, il buono, si capisce già dal trailer: è proprio lui, Hiroshi, meglio noto come Jeeg Robot, forza sovraumana, cuore e acciaio. Enzo è ovviamente differente dal reale Hiroshi; infanzia difficile nel quartiere di periferia, nessun amico in vita, nessun parente. Rapine, budini e film pornografici riempiono le sue giornate. Senza bisogno di svelare altri dettagli, possiamo descrivere Enzo come un uomo dal destino incerto che vive la sua giornata senza progetti né prospettive in una routine catatonica, senza fiducia alcuna negli altri e in se stesso; poi succede qualcosa di inaspettato. La scoperta dei poteri, l’incontro con Alessia, la consapevolezza di poter “salvare” gli altri: inizia la metamorfosi mentale del nostro eroe, che si sveglia da quel coma psichico; finalmente abbatte quel muro che aveva alzato contro ogni emozione. E finalmente si lascia andare: gioia, dolore, rabbia, gratificazione. Enzo rinasce.

L’ARTICOLO CONTINUA DOPO IL TRAILER:

Alessia, la matta, personaggio curioso e coraggioso

Il corpo di una giovane donna intrappolata nella mente fantastica di una bambina.
Cresciuta senza mamma con un rapporto paterno discutibile, Alessia si è creata il suo mondo con l’aiuto del cartone animato Jeeg Robot; è convinta di trovarsi all’interno del cartone stesso e quando conosce Enzo è lei che gli affibbia il ruolo di Hiroshi, giunto per salvare tutti dal giorno delle tenebre.
Inizialmente, Enzo vede Alessia come una responsabilità troppo grande, non sentendosi in grado di prendersene cura; poi se ne innamora e i suoi occhi cominciano a vedere qualcosa che fino a quel momento non avevamo mai visto. Donare qualcosa agli altri, significa dare qualcosa a se stessi.

Fabio, il cattivo narcisista

Fabio, il cattivo; folle, narciso, spietato, meravigliosamente interpretato da un attore che tanto farà parlare di sé: talento indiscusso. Fabio, Lo Zingaro, è il nostro antagonista; uno di quei cattivi adorabili, che tanto si odiano quanto si amano. L’unico desiderio di Fabio, come tutti i narcisisti che si rispettino, è la grandezza, intesa come accumulo di potere e rispetto di tutti. E’ disposto a qualunque cosa per ottenerla e quando scopre i poteri di Enzo e l’ammirazione che questi suscitano nella folla, il suo unico obiettivo è diventare come il nostro supereroe e annientarlo.

Considerazioni

Un finale non scontato come sembrerebbe, dove la psicologia dei personaggi è studiata per renderli tutti e tre perfettamente complementari l’uno all’altro, in un movimento circolare continuo, come la ruota panoramica che Enzo fa girare per Alessia.
Non è facile riportare un cartone animato in una storia moderna.
Grazie Mainetti, per aver fatto sognare di nuovo la nostra generazione.

Schizofrenia: le credenze metacognitive nell’esordio e nel mantenimento dei sintomi psicotici

Nell’ambito della schizofrenia è interessante capire in che modo le variabili prettamente psicologiche come le credenze metacognitive, possano giocare un ruolo nell’evoluzione dei diversi percorsi che questa psicosi può assumere.

La metacognizione permette all’individuo che la possiede di mentalizzare, cioè vedere e capire se stesso e gli altri in termini di stati mentali (sentimenti, convinzioni, intenzioni e desideri), e pensare e compiere riflessioni sul proprio e altrui comportamento.

In tal senso che impatto avrebbero i processi e le credenze metacognitive sull’evoluzione della schizofrenia? Che relazione potrebbe delinearsi tra sintomi psicotici e fattori metacognitivi nelle diverse fasi di andamento del disturbo?

 

Variabili metacognitive come fattori di rischio per l’esordio psicotico

Secondo Wells (2007) le variabili metacognitive costituirebbero un fattore di rischio per l’esordio psicotico dal momento in cui nella mente dell’individuo si attivano una serie di processi e strategie cognitive che incrementano e accelerano i sintomi psicotici positivi della schizofrenia come ad esempio le allucinazioni.

In altre parole, il disturbo evolve piu’ rapidamente quando insorge la sindrome cognitivo-attenzionale e la persona sviluppa processi attenzionali e cognitivi disfunzionali riguardo i propri sintomi psicotici.

In generale, nell’ambito della psicopatologia il modello metacognitivo ipotizza che l’insorgenza e il mantenimento di un disturbo di ordine psicologico o psichiatrico sia correlata all’attivazione di uno stile di pensiero maladattivo che interferisce negativamente con la regolazione emotiva.  A seguito di questi processi rimuginativi e ruminativi e di altre strategie cognitive-comportamentali disfunzionali vi sarebbero dunque prolungati stati emotivi negativi e di distress.

 

Le credenze metacognitive nei pazienti schizofrenici

In  particolare riguardo la schizofrenia diversi studi hanno riscontrato nei pazienti schizofrenici una presenza maggiore di tutte le categorie delle credenze metacognitive disfunzionali rispetto ai soggetti di controllo non psichiatrici (Morrison and Baker2000; Morrison and Wells2003; Morrison et al. 2007). Tra questi alcuni studi hanno riscontrato un elevato livello delle credenze metacognitive positive riguardo il rimuginio, delle credenze negative riguardo l’incontrollabilita’ dei pensieri e delle credenze relative alla necessita’ di controllare i propri pensieri in soggetti predisposti a esperienze psicotiche (Morrison et al.2000, Garcia-Montes et al.2006).

Similmente, secondo lo studio di Morrison et al. (2007) anche le persone che sono a rischio di sviluppare una psicosi presentano in misura significativamente maggiore credenze metacognitive positive riguardo il rimuginio e credenze negative di incontrollabilita’ dei pensieri e scarsi livelli di fiducia nella propria mente e nelle sue funzioni. In secondo luogo, il livello  di presenza – maggiore o minore – delle credenze metacognitive sarebbe in grado di discriminare soggetti sani, persone a rischio di esordio psicotico e pazienti con diagnosi di psicosi (questi ultimi con livelli maggiori rispetto ai soggetti a rischio di esordio psicotico) – quasi secondo un continuum.

Altri studi riportano risultati contrastanti non riscontrando un’associazione tra maggiori livelli di credenze metacognitive e sintomi psicotici (Brett et al.2009), suggerendo che la correlazione chiave sia tra credenze metacognitive e sintomi ansioso-depressivi spesso presenti in comorbidita’ con le psicosi.

 

La relazione tra credenze metacognitive e andamento della schizofrenia

Uno degli studi piu recenti in letteratura (Austin et al., 2015) ha voluto indagare la relazione tra crendenze metacognitive e l’andamento del disturbo in una coorte di circa 500 pazienti con diagnosi di schizofrenia. L’andamento della schizofrenia puo’ collocarsi entro tre categorie principali: la remissione dei sintomi psicotici, l’alternanza tra periodi in cui vi sono sintomi psicotici  e periodi di remissione, e infine la presenza costante di sintomi psicotici.  Dai risultati è emerso che la presenza di credenze cognitive maladattive varia in funzione delle categorie di andamento del disturbo psicotico: un livello piu’ elevato di credenze metacognitive e’ associato a un’evoluzione piu grave e cronica della malattia e alla presenza continua dei sintomi psicotici.

Inoltre le credenze relative alla necessita’ di controllare i propri pensieri predicono in maniera statisticamente rilevante la presenza continuativa di sintomi psicotici senza periodi di remissione. In generale, le credenze metacognitive prese nel loro insieme sarebbero in grado di spiegare una significativa porzione della varianza dell’andamento del disturbo, anche tenendo sotto controllo altri fattori causali co-occorrenti.

Ulteriori ricerche saranno necessarie per poter dimostrare una relazione causale tra credenze metacognitive ed evoluzione delle psicosi, poichè al momento è anche possibile che l’aumento e la persistenza dei sintomi psicotici porti a maggiori livelli di credenze metacognitive maladattive, e non viceversa.

Al di la’ della verifica del modello teorico metacognitivo nell’eziopatogenesi della schizofrenia – che avrebbe ricadute importanti in ambito clinico –  alcuni studi preliminari indicano che i cambiamenti nelle credenze metacognitive maladattive sarebbero associati a una riduzione dell’ansia e del distress correlati ai sintomi allucinatori (Solem et al.2009; Hepworth et al.2011). Questa serie di studi permette di esplorare come componenti centrali della teoria metacognitiva possano avere ruolo oltre i disturbi d’ansia e la depressione ed estendersi anche a forme psicopatologiche più severe e invalidanti.

 

Congresso Internazionale Terapia Metacognitiva Milano 2016

Personalità narcisistica: chi si assomiglia si piglia

Siamo nell’epoca della personalità narcisistica, dell’autocelebrazione, dei selfie, dell’incensarsi e tessere le proprie lodi, dell’ognuno si salva da solo (e eventualmente a discapito degli altri). O almeno, questo è quello che pare leggendo le opinioni di critici e sociologi. 

 

La personalità narcisistica nella società

L’interesse per il narcisismo e la personalità narcisistica si sta diffondendo a macchia d’olio negli ultimi anni, sia da un punto di vista clinico che nel senso comune, per strada, al bar. Siamo passati da un momento storico in cui non tutti conoscevano il significato di questa parola e delle sue diverse accezioni, a un contesto sociale e culturale in cui si parla di società narcisistica, di relazioni narcisistiche, e in piccola parte anche di disturbo. Siamo nell’epoca dell’autocelebrazione, dei selfie, dell’incensarsi e tessere le proprie lodi, dell’ognuno si salva da solo (e eventualmente a discapito degli altri). O almeno, questo è quello che pare leggendo le opinioni di critici e sociologi. Poi c’è da capire se non sia sempre stato così, solo con meno attenzione mediatica alla cosa, ma questo è un altro discorso.

 

Qual è il prototipo del narcisista?

Allora, facilmente pensando al prototipo del narcisista a molti di noi vengono in mente persone poco piacevoli. Gli individui con personalità narcisistica sono individui auto-centrati e auto-riferiti, egocentrici, che non prendono in considerazione l’altro nei suoi bisogni o nelle sue opinioni, che scalano quello che devono scalare pestando i piedi necessari. Non mettere in discussione le proprie opinioni, andare avanti e mirare sempre in alto.

C’è chi dice che la società attualmente rinforzi questo atteggiamento, promuovendo una dinamica di estremo appetito e abbuffate di potere, c’è chi dice che invece la società per come la troviamo oggi sia stata riempita da persone di questo tipo e da dinamiche coerenti con loro stessi, che sia in qualche modo l’esito e non la causa. La vecchia diatriba dell’uovo e della gallina.

Sta di fatto che questo è. Sta di fatto che probabilmente tante persone che hanno avuto a che fare con il prototipo descritto (anche se è sempre una questione di sfumature, e difficilmente la realtà è rappresentata da prototipi), si sono fatti la fatidica domanda ‘Ma questo, ha degli amici?’, anche declinata come ‘Ma questo, chi se lo sceglie come marito?’. (Viene facile parlare al maschile per ragioni prototipiche, appunto, non me ne vogliate).

 

Personalità narcisistica e affinità relazionali: cosa dice una nuova ricerca

Ebbene, questa è, più o meno, la domanda a cui ha cercato di rispondere un gruppo di ricercatori tedeschi, con un articolo che uscirà su Personality & Social Psychology Bulletin il prossimo marzo.

Nello studio di Maaß, Lämmle, Bensch e Ziegler, i ricercatori hanno approfondito quanto due amici simili in termini di caratteristiche narcisistiche fossero simili anche in altri aspetti della personalità. Per fare questo, 290 coppie di migliori amici hanno compilato un questionario sul narcisismo e un questionario più complessivo sulla personalità: le analisi dei dati hanno valutato quanto l’essere simili in termini di personalità narcisistica potesse predire somiglianze anche in altri aspetti.

In sostanza, gli studiosi si sono chiesti se condividere tematiche tipiche della personalità narcisistica potesse essere un fattore di legame e similarità anche in altri aspetti della diade di amici. I risultati hanno detto sì, e anche parecchio. In particolare, l’indice di somiglianza tra due amici nella sfera narcisistica si è dimostrato in grado di predirne la somiglianza anche in tutte le altre caratteristiche personologiche indagate (neuroticismo, estroversione, amabilità, coscienziosità e apertura all’esperienza).

La cosa interessante è che precedenti ricerche che hanno esplorato la somiglianza caratteriale tra i migliori amici hanno indicato invece che tendenzialmente le persone scelgono amici molto diversi da sé, per cui troviamo più frequentemente introversi con estroversi, pessimisti con ottimisti, e così via (Furr & Wood, 2013).

La cosa ancora più interessante è che questo dato è stato confermato dallo studio tedesco: lasciando stare la misura del narcisismo, ma analizzando semplicemente le dimensioni di personalità raccolte, anche in questa ricerca le coppie di migliori amici si sono mostrate differenti tra loro, in tutti i 5 aspetti indagati, tanto quanto erano differenti tra loro persone sconosciute.

Ma cosa succede se nelle analisi consideriamo anche la personalità narcisistica? Succede che le caratteristiche di personalità di un soggetto con alti livelli di narcisismo, controcorrente rispetto al resto del campione, sono molto simili a quelle del suo migliore amico. Inoltre, questa somiglianza è ancora più forte (il doppio) se anche l’altro componente della diade ha punteggi alti in narcisismo. In sostanza, nel caso di un narcisista appaiato a un altro narcisista, le personalità della diade sono risultate sostanzialmente sovrapponibili: più il narcisismo della coppia di amici è alto, più gli amici sono simili.

 

Conclusioni

Cosa ci dicono questi dati? Le interpretazioni possono essere diverse (e devono sempre essere caute). In parte, ci dicono che chi possiede una personalità narcisistica sceglie se stesso come migliore amico, o quantomeno una versione molto poco modificata di sé.

Potrebbero anche dirci che i narcisisti non stanno bene in rapporti con persone troppo diverse da loro, e in questo caso rimane da capire perché. Una possibilità (quella che viene in mente a tutti più facilmente) è che vogliano passare il proprio tempo con persone altrettanto speciali, oppure che persone meno speciali li annoino, oppure ancora che non abbiano voglia di impiegare risorse con qualcuno che ha reazioni e emozioni così diverse dalle proprie. Un’altra ipotesi suggerita dagli autori va un po’ per esclusione, suggerendo che solo una personalità narcisistica possa sostenere il peso di amici narcisisti. Una sorta di selezione naturale, insomma.

Un’ipotesi a mio avviso più interessante, e forse anche più utile da un punto di vista di intervento e terapia, è più benevola. E se fosse che persone con alti livelli di narcisismo semplicemente non fossero tanto abili a avere a che fare con chi funziona secondo regole diverse dalle proprie, semplicemente perché le proprie sono le uniche regole che conoscono? E se qualcuno che funziona così diversamente mettesse in crisi le loro regole e li facesse sentire persi?

Allora, ecco, questa interazione con persone diverse da sé potrebbe essere qualcosa da apprendere e su cui allenarsi, invece di limitare la persona a selezionare solo chi sta in cima alla piramide.

Le distorsioni cognitive nei processi di valutazione: conoscerle per esserne consapevoli

Nessuno di noi è immune dalle distorsioni cognitive, tuttavia, essere consapevoli della loro esistenza può aiutare; una generica componente delle distorsioni cognitive è presente infatti in qualsiasi giudizio, in quanto esso è legato ad un fattore percettivo e dunque ad una visione della realtà filtrata soggettivamente da chi valuta.

 

Le distorsioni cognitive: introduzione

All’interno di un’organizzazione, il processo di valutazione delle prestazioni ha un significato gestionale ben preciso, ovvero serve per analizzare il contributo fornito da ciascuna risorsa al raggiungimento degli obiettivi aziendali. E’ anche uno dei doveri più delicati di ogni manager che, in quanto essere umano, utilizza le proprie abilità cognitive per stabilire quale sia la valutazione più idonea da attribuire alla prestazione di un collaboratore. Per quanto cerchi di essere il più obiettivo possibile, chi valuta è un essere umano che, inevitabilmente, risente delle influenze dei precedenti modelli esperienziali, del contesto culturale in cui opera, delle proprie credenze e convinzioni, quindi può commettere degli errori di giudizio che danno origine a quelli che in psicologia vengono definiti biases della valutazione.

Poiché alla base della valutazione c’è un processo cognitivo di osservazione ed interpretazione della realtà, possono esserci delle distorsioni cognitive (biases valutativi), indotte da un pregiudizio del soggetto che valuta.
Così come avviene per la nostra percezione visiva, anche la nostra ragione può essere ingannata. Nessuno di noi è immune dalle distorsioni cognitive, tuttavia, essere consapevoli della loro esistenza può aiutare; una generica componente delle distorsioni cognitive è presente infatti in qualsiasi giudizio, in quanto esso è legato ad un fattore percettivo e dunque ad una visione della realtà filtrata soggettivamente da chi valuta.
Chi valuta è, come tutti, soggetto a pregiudizi, ossia atteggiamenti favorevoli o sfavorevoli verso l’oggetto del giudizio; conoscere le principali tipologie di biases cognitivi, però, può aiutare a limitare i danni di una valutazione inappropriata.

 

Le distorsioni cognitive: quali sono?

Consideriamo innanzitutto il cosiddetto bias di conferma: a ciascuno di noi piace essere d’accordo con le persone che sono d’accordo con noi e ciascuno di noi tende ad evitare individui o gruppi che ci fanno sentire a disagio: questo è ciò che lo psicologo B.F. Skinner (1953) ha definito “dissonanza cognitiva”. Si tratta di una modalità di comportamento preferenziale che porta al bias di conferma, ovvero l’atto di riferimento alle sole prospettive che alimentano i nostri punti di vista preesistenti. Molto simile al bias di conferma è il bias di gruppo, che ci induce a sopravvalutare le capacità ed il valore del nostro gruppo, a considerare i successi del nostro gruppo come risultato delle qualità dello stesso, mentre si tende ad attribuire i successi di un gruppo estraneo a fattori esterni non insiti nelle qualità delle persone che lo compongono. Le valutazioni affette da queste tipologie di distorsioni cognitive possono risultare poco chiare a chi viene valutato, che spesso non comprende le basi sulle quali la valutazione si fonda e che invece nota, d’altra parte, un’eccessiva intransigenza di pensiero.

Un altro bias frequente è la cosiddetta fallacia di Gabler, ovvero la tendenza a dare rilevanza a ciò che è accaduto in passato e che i risultati di oggi siano del tutto influenzati da tali eventi. Quindi, i collaboratori valutati sempre positivamente nel corso della loro carriera tenderanno ad essere valutati ancora positivamente anche se a volte le loro prestazioni non risulteranno così positive.

L’errore per somiglianza, invece, è un bias legato alla tendenza di un manager con forte autostima a sopravvalutare i collaboratori che hanno delle caratteristiche analoghe alle sue, mentre l’errore per contrasto è un bias di un manager con bassa autostima che tende a premiare i collaboratori che presentano delle caratteristiche in lui carenti o assenti.
Altamente nocivo risulta essere anche il cosiddetto bias della negatività, ovvero un’eccessiva attenzione rivolta verso elementi negativi, che vengono considerati come i più importanti. A causa di questa distorsione, si tende a dare maggior peso agli errori, sottovalutando i successi e le competenze acquisite ed attribuendo così una valutazione negativa alla prestazione.

Infine, il bias dello status quo è una distorsione valutativa dovuta alla resistenza al cambiamento. Il cambiamento spaventa, si ama la propria routine e si tenta, quindi, di mantenere le cose così come stanno. La parte più dannosa di questo pregiudizio è l’ingiustificata supposizione che una scelta diversa potrà far peggiorare le cose.

Una riflessione sulle diverse tipologie di distorsioni cognitive può certamente contribuire a ridurne alcuni effetti e spingere chi valuta ad agire come gli scrittori naturalisti, che assegnavano all’opera narrativa il compito di attenersi ad una descrizione impersonale ed oggettiva della materia rappresentata. L’opera narrativa era per i naturalisti un laboratorio per l’osservazione fredda e distaccata della realtà, di cui lo scrittore, al pari di uno scienziato, doveva registrare impassibilmente i fenomeni. Applicando cioè all’arte i metodi ed i risultati della scienza, gli scrittori naturalisti si prefiggevano di riprodurre la realtà con perfetta obiettività. Il metodo scientifico galileiano venne assorbito a tal punto dalla letteratura naturalista che gli autori, ancor prima di scrivere i loro romanzi, si dedicavano all’osservazione ravvicinata del fenomeno da descrivere in modo da essere i più oggettivi possibile; analogamente, in azienda, chi ricopre ruoli di responsabilità ed è chiamato a valutare i propri collaboratori dovrebbe innanzitutto osservare i fatti e poi valutarli con il giusto distacco ed oggettività.

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