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Supervisionare i casi di traumi di guerra in Kurdistan – Psicoterapia

La Jiyan Foundation finanzia la formazione di psicoterapeuti curdi e la loro specializzazione per i disturbi da trauma. Dal 3 al 5 marzo 2016 sono stato invitato nella città di Sulaymaniyah a supervisionare i colleghi curdi nel loro lavoro.

 

La Jiyan Foundation for Human Rights aiuta da anni nel Kurdistan iracheno i sopravvissuti di atti di violazione dei diritti umani e promuove valori democratici e di libertà. Gli eventi di guerra degli ultimi anni hanno moltiplicato nel martoriato paese dei curdi i casi di disturbi psicologici legati al trauma, dal disturbo post-traumatico da stress ai disturbi dissociativi. Per questo la Jiyan Foundation finanzia anche la formazione di psicoterapeuti curdi e la loro specializzazione per i disturbi da trauma. Dal 3 al 5 marzo 2016 sono stato invitato dalla Jiyan Foundation a supervisionare i colleghi curdi nel loro lavoro. La supervisione sta avvenendo nella città di Sulaymaniyah, città che ospita la sede della Jiyan Foundation ed è a pochi chilometri dal confine con l’Iran.

Supervisione di psicoterapeuti in Kurdistan

La formazione dei colleghi curdi è di tipo integrato, in parte psicodinamica e in parte cognitivo-comportamentale. Oggi, 3 marzo, ho iniziato a supervisionare i casi e ho ascoltato storie terribili. Maltrattamenti, pestaggi, stupri e, peggio ancora, in un caso (per fortuna uno solo, i curdi mi sembrano poco tribali e molto aperti) un delitto d’onore dopo lo stupro: una donna la cui sorella è stata uccisa dai parenti perché “contaminata” dalla violenza subita dagli accoliti dell’Isis.

La formazione integrata psicodinamica e cognitiva dei colleghi ha generato qualche problema. Come spesso accade, l’integrazione significa anche un calo di specializzazione e la supervisione si è in parte trasformata in un addestramento alle abilità di base della terapia cognitivo-comportamentale. Come ho scoperto in corso d’opera, I colleghi si aspettavano anche –o forse soprattutto- questo. Dopo anni, rimango ancora sorpreso di quanto l’addestramento alle abilità di base della terapia cognitivo-comportamentale –l’accertamento ABC e il disputing– sia poco curato e sia spesso sostituito da una conoscenza solo teorica, soprattutto per quanto riguarda il disputing.

In aggiunta, alcuni di questi colleghi avevano maggior conoscenza degli sviluppi più recenti della terapia cognitiva che delle sue tecniche di base. Naturale e inevitabile, ma anche in parte dannoso. Mi è parso che i recenti sviluppi della terapia cognitivo-comportamentale, con tutta l’insistenza sulle tecniche di meditazione ed esperienziali, sull’esperire invece che sul dimostrare, abbia ulteriormente deteriorato la conoscenza delle abilità di base. Con la conseguenza che c’erano colleghi in grado di imbastire esercizi di vario tipo, mindfulness, skills training esperienziali e corporei di scuola olandese, ma che erano eseguiti in una sequenza meccanica e priva dello scheletro dell’ABC.

Con la conseguenza paradossale che mentre il vecchio ABC forse peccava di astrattezza predicando un troppo razionalista superamento dell’ansia, le nuove tecniche senza l’ABC rischiano di risolversi in esercizi che non assumono significato cognitivo nella memoria esplicita: il paziente medita, esperisce, fa l’EMDR o la mindfulness senza che questo si trasformi nella coscienza cognitiva che egli può tollerare il trauma.

Sembra quasi invece che, passando tutto per il corpo, il paziente non si renda conto quale sia l’obiettivo di tutto questo esperire e meditare, ovvero che può smetterla di considerare terrificanti le memorie traumatiche. A questo si sostituisce una generica aspettativa di stare meglio, come se si assumesse un farmaco.

Per ora questa è una mia impressione superficiale che va confermata. Mi chiedo se questo non potrebbe essere un rischio degli sviluppi cosiddetti di terza ondata della psicoterapia cognitiva: una sequenza di esercizi neo-comportamentali sicuramente più raffinati di quelli del primo comportamentismo senza però che ci sia una traduzione verbale di queste nuove esperienze. E anche i terapisti, a mio parere, potrebbero rischiare di vedere deteriorata la capacità di concettualizzare il caso in termini di credenze, man mano che la svalutazione del pensiero verbale va avanti.

Finchè le tecniche verbali di disputing, pur svalutate, fanno comunque parte della cultura comune, il danno non si nota. Ma in un caso come quello dei colleghi curdi, che entrano in contatto diretto con la terza ondata saltando la conoscenza di tipi cognitivo standard, improvvisamente questo problema diventa evidente.

 

Supervisione di Psicoterapeuti curdi presso la Jiyan Foundation a Sulaymaniyah nel Kurdistan iracheno (2016)

Giovanni Maria Ruggiero e Rawezh Ibrahim, lecturer at Raparin University

Giovanni Maria Ruggiero e Rawezh Ibrahim, lecturer at Raparin University

Exercise addiction: dipendenza o comorbilità?

La regolare attività fisica gioca un ruolo centrale nel mantenimento del buono stato di salute e nella prevenzione in generale. Nonostante ciò, l’allenamento eccessivo ha effetti negativi sia sulla salute fisica che mentale, portando al fenomeno Exercise Addiction.

Federica Gandini, Francesca Vinciullo, Alessandra Rossi – OPEN SCHOOL Scuola di Psicoterapia Cognitiva e Ricerca

 

Esistono dipendenze positive?

L’attività fisica regolare è concettualizzata come una serie di esercizi motori strutturati, pianificati e portati avanti con frequenza, intensità e durata che hanno un effetto positivo nella promozione della salute.

Dunque cosa distingue lo sportivo entusiasta da un individuo exercise-addicted? Possiamo considerare un atleta professionista che si allena per le Olimpiadi come exercise-addicted? E cosa possiamo dire del runner che aggiunge 5 km al suo allenamento dopo aver mangiato in un fast-food?

Glasser (1976) fu il primo a introdurre il concetto di ‘dipendenza positiva‘ per definire l’effetto benefico dell’esercizio fisico e la sua relazione con la salute, in opposizione con quanto avviene con l’uso di sostanze e altre dipendenze che hanno una forte connotazione negativa in termini di comportamenti dannosi per la salute. Tra queste nuove dipendenze positive si includono attività come l’allenamento e la meditazione.

 

Exercise addiction: non una semplice dipendenza positiva

Morgan (1979) mette in dubbio la concettualizzazione di Glasser affermando che l’esercizio fisico eccessivo conduce non solo ad un danneggiamento fisico ma anche alla trascuratezza delle responsabilità quotidiane connesse alla famiglia e al lavoro. Concettualizza pertanto l’’exercise addiction‘ come una disfunzione comportamentale e una dipendenza negativa.

L’uso della terminologia exercise addiction è un concetto multidisciplinare, molti ricercatori, infatti, utilizzano terminologie differenti per definire il fenomeno: excessive exercise syndrome, exercise dependence, exercise abuse o obligatory exercise.

Il termine addiction, tuttavia, viene considerato il più indicato in quanto incorpora sia la componente di dipendenza che quella di compulsione. ‘Addiction‘ indica come il processo comportamentale può portare alla soddisfazione di un desiderio o essere un sedativo in un momento di sofferenza interna (ansia, stress) ed è caratterizzato dal ripetuto fallimento nel controllare il comportamento (stato di impotenza) e dal mantenimento del comportamento nonostante le conseguenze negative.

 

Primary e secondary exercise addiction: quali sono i criteri diagnostici?

E’ importante chiarire se l’eccessivo esercizio fisico sia un problema primario nelle persone affette da questo disturbo o se emerge come problema secondario in conseguenza di altre problematiche psicologiche.

Nel primo caso il disturbo viene classificato come primary exercise addiction perché si manifesta come una forma di comportamento di dipendenza. Nel secondo caso è classificato come secondary exercise addiction in quanto coesiste con un altro disturbo, tipicamente con disturbi alimentali come anoressia e bulimia nervosa. Nel primo caso l’esercizio eccessivo è mirato a evitare qualcosa di negativo, anche se i pazienti ne possono essere del tutto inconsapevoli. E’ una forma di reazione di fuga da una fonte di stress incontrollabile, persistente e disturbante.

Nel secondo caso, invece, l’allenamento eccessivo può essere utilizzato con l’intenzione di perdita di peso (ad esempio in aggiunta ad un a dieta restrittiva). Tra le due c’è un’eziologia differente. Nella prima, l’allenamento stesso è l’oggetto mentre nella seconda l’allenamento è un mezzo per raggiungere il fine primario, che è la perdita di peso.

Bamber, Cockerill, Rodgers, and Carroll (2003) identificano tre fattori tra i criteri diagnostici della secondary exercise addiction. Tra questi, solo la presenza di un disturbo alimentare può differenziare la secondaria dalla primaria. Gli altri due fattori sono:

  • Comportamenti psicologici, fisici o sociali disfunzionali
  • Presenza di sintomi legati all’astinenza

L’exercise addiction viene spesso identificata sulla base della presenza dei sintomi di astinenza.

E’ essenziale comprendere che la sola presenza di sintomi legati all’astinenza è insufficiente nell’evidenziare o diagnosticare l’exercise addiciton. E’ l’intensità di questi sintomi che rimane un fattore cruciale per separare chi si allena impegnandosi da chi si allena perché si è instaurata una dipendenza.

Hausemblas e Downs (2002) concettualizzano l’exercise addiction basandosi sui criteri che il DSM IV TR identifica per la dipendenza da sostanze:

  • Tolleranza: aumento dell’esercizio finalizzato a percepire l’effetto desiderato
  • Astinenza: in mancanza dell’esercizio l’individuo sperimenta effetti negativi quali ansia, irritabilità e problemi legati al sonno
  • Mancanza di controllo: impossibilità a ridurre il livello dell’allenamento o a ridurre l’esercizio per un certo periodo di tempo
  • Effetti sull’intenzionalità: incapacità ad aderire ad un programma stabilito e tendenza ad aumentare il tempo dedicato all’esercizio
  • Tempo: grande quantità di tempo viene destinato alla preparazione, svolgimento e per riprendersi dall’attività sportiva
  • Riduzione delle altre attività: come diretta conseguenza dell’esercizio, attività sociali, lavorative o di svago vengono drasticamente ridotte
  • Perseveranza: l’esercizio continua ad essere svolto malgrado la consapevolezza che questa attività sta creando problemi fisici, psicologici o interpersonali

Sebbene l’exercise addiction sia stata definita usando anche altri modelli, questa definizione sembra essere maggiormente in linea con i criteri del DSM V per quanto riguarda le behavioral addictions.

 

Epidemiologia dell’exercise addiction

La discordanza circa la prevalenza dell’exercise addiction sembra essere legata a due fattori:

  • L’inadeguatezza della concettualizzazione del fenomeno;
  • L’eterogeneità degli strumenti utilizzati nella valutazione dell’exercise addiction e l’interpretazione dei questionari carta-matita

Attualmente si stima che il 3% delle persone che si allenano può essere a rischio di sviluppare tale forma di dipendenza (Sussman, Lisha, & Griffiths, 2011).

 

Exercise addiction ed altri disturbi

Analogamente ad altre dipendenze comportamentali, anche l’exercise addiction sembra condividere aspetti di compulsività ed impulsività ed è quindi necessario chiarire eventuali sovrapposizioni ed aspetti caratteristici. Allo stesso tempo è necessario distinguere l’exercise addiction dall’esercizio fisico ad alta frequenza. Quest’ultimo aspetto è stato fonte di confusione nella letteratura e, a questo proposito, verranno presentate le fasi dell’addiction per distinguere la dipendenza da esercizio fisico da altre forme di esercizio ad alta frequenza ed intensità.

Infine, l’exercise addiction si trova spesso in comorbilità con altre forme di dipendenza che, se non riconosciute, possono complicare il processo di trattamento.

 

Dipendenza dall’esercizio fisico, compulsione all’esercizio o disturbo da discontrollo dell’impulso?

Secondo Goodman, le addictions si distinguono dai comportamenti impulsivi e compulsivi grazie alla loro doppia capacità di ridurre stati emotivi negativi creando allo stesso tempo effetti positivi come l’innalzamento dell’umore. Nei casi in cui l’esercizio fisico si svolga solo con l’obiettivo di ridurre l’ansia, si potrebbe parlare di compulsione (come nel caso dell’acquisto compulsivo).

 

Comorbilità con altre addictions

Pare che circa il 15-20% degli individui exercise addicted siano dipendenti da nicotina, alcol o droghe. Ad esempio, atleti che utilizzano stimolanti come anfetamine o cocaina rischiano di diventarne dipendenti. Anche la dipendenza da acquisto e la sex-addiction sono state identificate spesso in comorbilità con l’exercise addiction.

C’è un forte collegamento tra exercise addiction e disturbi del comportamento alimentare (39-48%), e ciò espone al rischio che il trattamento si focalizzi su uno solo dei due disturbi.

Gli individui con exercise addiction spesso (ma non sempre) mostrano una esagerata preoccupazione per l’immagine fisica e il peso ed operano un controllo sull’alimentazione. Particolare attenzione è stata data, inoltre, ai body builders, rispetto ai quali si è indagato altre comorbilità, tra le quali la dismorfofobia muscolare.

 

Quando l’esercizio frequente diventa addiction?

L’approccio utilizzato da Freimuth (2008) per distinguere le fasi dell’addiction, può essere utilizzato per esplorare le differenze tra esercizio ricreativo ed exercise addiction. Queste fasi aiutano il clinico a disambiguare quando un normale comportamento sta diventando addictive e quando un comportamento di dipendenza sta tornando normale:

  • Fase 1 – Esercizio Ricreativo: questo tipo di esercizio viene svolto in primis in quanto attività piacevole ed appagante. Un’importante fonte di motivazione in questa fase è il sentirsi fisicamente meglio e in forma. Il comportamento è sotto controllo: la persona aderisce al suo programma ed è in grado di interrompere quando preventivato. Nell’esercizio fisico ricreativo le conseguenze negative sono rare ed impreviste (ad esempio, slogarsi una caviglia correndo).
  • Fase 2 – Esercizio a rischio: l’esercizio fisico ricreativo espone la persona ai potenziali effetti di alterazione dell’umore derivanti dal comportamento, che Griffiths attribuisce a tre possibili meccanismi biologici. Questi effetti sono riscontrabili in tutti gli individui, tuttavia non tutti coloro che si esercitano a livelli crescenti di frequenza ed intensità diventano dipendenti. In modo particolare, ciò che distingue l’esercizio ricreativo dall’esercizio a rischio è la motivazione: come hanno mostrato La Rose, Lin e Eastin per la dipendenza da Internet, un’addiction occorre quando la motivazione primaria non è lo svago ma il sollievo dallo stress o l’aumento dell’autostima. Thornton e Scott hanno dimostrato questo effetto per l’esercizio: la probabilità di dipendenza è maggiore per coloro che si allenano con il fine di smorzare emozioni spiacevoli o trasformare il loro aspetto fisico per accrescere la propria autostima, rispetto a coloro che si allenano allo scopo di migliorare la performance e il benessere. È più probabile, quindi, che si instauri una dipendenza quando il comportamento diventa l’unica strategia di coping per fronteggiare il distress. Per quanto concerne i segni maggiormente osservabili, è possibile notare in questa fase periodi di perdita di controllo in cui il comportamento viene svolto per periodi più lunghi o con un’intensità maggiore di quanto programmato. Le conseguenze negative, come gli infortuni, aumentano in frequenza.
  • Fase 3 – Esercizio problematico: in questa fase l’intera vita inizia ad essere organizzata intorno all’esercizio fisico, che diventa sempre più rigido. Intervengono conseguenze negative secondarie, anche di tipo interpersonale. Una volta entrati in questa fase, il comportamento continua ad essere messo in atto anche dopo aver raggiunto l’obiettivo prefissato (esattamente come il bevitore continua a bere anche dopo aver raggiunto il sollievo generato dall’alcol). Mantenere il controllo sul comportamento diventa sempre più difficile in quanto, una volta cessato, intervengono i sintomi dell’astinenza. Il comportamento, quindi, viene messo in atto non solo per i suoi effetti di innalzamento dell’umore ma anche per combattere i sintomi dell’astinenza.
  • Fase 4 – Exercise addiction: l’esercizio è fuori controllo ed interviene il paradosso: un comportamento intrapreso per rendere la vita più leggera finisce per renderla ingestibile. Il piacere nello svolgimento dell’attività viene meno, l’unico obiettivo è fronteggiare i sintomi di astinenza. La vita sociale e lavorativa è compromessa ed interviene il rischio di depressione.

 

Strumenti utilizzati nell’assessment dell’exercise addiction

Questi strumenti dimostrano avere attendibilità e validità psicometrica per misurare i sintomi e valutare l’entità dell’exercise addiction:

  • OEQ – Obligatory Exercise Questionnaire: Strumento self-report da 20 items che valuta il desiderio di attività fisica. Ha tre scale: 1.componenti emotive dell’allenamento, 2. frequenza dell’allenamento ed intensità, 3. preoccupazione per l’allenamento.
  • EDS – Exercise Dependence Questionnaire: concettualizza l’esercizio compulsivo sulla base dei criteri del DSM-IV per l’abuso di sostanze e le dipendenze. Ha 7 scale: 1. Tolleranza, 2. Astinenza, 3. Effetto intenzionale, 4. Assenza di controllo, 5. Tempo, 6. Riduzione delle altre attività e 7. Perseveranza
  • EDQ – Exercise Dependence Questionnaire: misura l’esercizio compulsivo come un costrutto multidimensionale. È composto da 8 scale: 1. Interferenza con la vita sociale/lavorativa/familiare, 2. Soddisfazione positiva, 3. Sintomi legati all’astinenza, 4. Allenamento per controllare il peso, 5. Consapevolezza dei problemi, 6. Allenamento per questioni sociale, 7. Allenamento per questioni fisiche 8. Comportamento stereotipato.
  • EAI: strumento di screening composto da 6 items
  • EBQ – Exercise Belief Questionnaire: misura i pensieri e le credenze circa l’allenamento ed è formato da 4 scale: 1. Desiderabilità sociale, 2. Aspetto fisico, 3. Competenze emotive e mentali e 4. Vulnerabilità al disturbo.
  • EXDI – Exercise Dependence Interview: non solo valuta l’allenamento compulsivo ma anche la presenza di un disturbo alimentare. Misura l’eccessivo coinvolgimento in attività fisica negli ultimi tre mesi prima della valutazione, i pensieri associati e le loro associazioni con il comportamento alimentare. Determina anche la percezione della dipendenza dall’allenamento e l’abitudine all’esercizio.
  • CES – Commitment to Exercise Scale: esamina gli aspetti patologici dell’esercizio e le attività compulsive.

 

Trattamento dell’exercise addiction

Nel trattamento dell’exercise addiction, l’interruzione del comportamento non è l’obiettivo auspicato. Dal momento che l’esercizio fisico moderato è considerato una sana abitudine, un buon obiettivo sarà quello di ritornare ad un esercizio adeguato. In alcuni casi può essere raccomandata un’altra forma di esercizio: ad esempio, il corridore può diventare un nuotatore. Il clinico può avvalersi in terapia dell’utilizzo delle quattro fasi dell’addiction sopra esposte in modo da aiutare il paziente a distinguere l’esercizio problematico da quello ricreativo.

La letteratura sul trattamento è ancora scarsa ma, come in altre forme di dipendenza comportamentale, la CBT è altamente consigliata. Prima di tutto, è necessario che il paziente riconosca questo tipo di dipendenza come un problema da trattare, cosicché il lavoro sulla motivazione sia propedeutico alla terapia. Una volta motivato il paziente, si può procedere con l’identificazione e la correzione dei pensieri automatici legati al bisogno di controllo del corpo e all’idea che l’esercizio fisico abbia effetti benefici a prescindere dalla modalità in cui è svolto.

Nell’assessment e nel trattamento è sempre importante prestare attenzione alle comorbilità, soprattutto se è presente un disturbo del comportamento alimentare. In questi casi, se il trattamento si focalizza solo sull’esercizio fisico il rischio è quello che la diminuzione di esercizio fisico si traduca in un incremento disfunzionale delle restrizioni alimentari. Viceversa, il clinico che si occupa del disturbo alimentare deve prestare attenzione all’andamento dell’attività fisica.

 

Limitazioni concettuali e metodologiche nella ricerca

Come abbiamo visto, l’exercise addiction rientra nelle dipendenze comportamentali, nonostante nel DSM V TR non sia ancora riconosciuto come un disturbo a sé stante.

Negli ultimi anni sono stati pubblicati circa quaranta lavori ogni anno su questo argomento, ma occorre approfondire ulteriormente il campo di ricerca che risulta attualmente ancora piuttosto scarno.

Quali problemi si riscontrano in quest’area di studio? Innanzitutto, vi è un problema legato alla terminologia usata: è necessario, infatti, utilizzare un linguaggio comune e, a questo proposito, il termine più idoneo sembra essere quello di dipendenza. È importante, inoltre, quantificare l’ammontare di esercizio che comporta una dipendenza. Ciò che sembra essere maggiormente rilevante riguarda il malessere sperimentato nella sfera personale e sociale conseguente dell’esercizio fisico eccessivo.

Attualmente, i questionari che indagano l’exercise addiction sono perlopiù improntati verso la misurazione dei fattori di rischio piuttosto che verso una vera e propria diagnosi. L’incidenza dei fattori di rischio si aggira tra 0,3% e 0,5% nella popolazione normale, mentre il regolare esercizio si attesta tra 1,9-3,2%, ma si osservano delle discrepanze nei risultati tra le differenti ricerche ed il motivo sembra essere legato alla diversità dei questionari self-report utilizzati. Si evidenzia, pertanto, la necessità di utilizzare delle interviste per approfondire alcune aree, tra cui, la presenza, o meno, di disagio nelle relazioni, nel lavoro e in generale nella sfera sociale. I self-report spesso identificano unicamente i fattori di rischio e tendono talvolta a sovrastimare la presenza di un disturbo; per poter parlare di dipendenza, infatti, occorre riscontrare delle profonde conseguenze negative sulla sfera personale e sociale.

Diversamente dall’allenamento normale, quello da dipendenza da sport non può essere pianificato. Quando un atleta presenta una dipendenza, ricerca l’allenamento anche oltre i normali tempi previsti, richiedendo un affaticamento gravoso al proprio fisico. Nel panorama scientifico attuale, risulta talvolta poco chiara l’analisi del comportamento nella dipendenza da sport. Nelle dipendenze, l’atleta sente il bisogno di allenamento sia prima che dopo il normale spazio di allenamento. Ciò che spesso è fondamentale, per un atleta addicted, è il modo in cui l’attività sportiva influenza negativamente altri aspetti della vita. Per questo motivo, senza un’intervista di follow-up, i questionari possono risultare concettualmente incompleti, mentre la diagnosi dovrebbe stabilire il disagio psicologico che questa dipendenza comporta.

L’approccio comportamentale utilizzato per spiegare la dipendenza da allenamento e i disturbi alimentari non è circoscritto alle cause e ai fattori di mantenimento di questi comportamenti, ma può essere utile per mostrare la responsabilità del contesto sociale in queste disfunzioni moderne. La società agisce come il maggior rinforzo in questo comportamento. Le Organizzazioni della Salute e dell’Educazione, in linea con i mass media, sponsorizzano l’effetto benefico dell’esercizio e della forma fisica (in particolare la magrezza). Questa è la ragione per cui l’exercise addiciton è stata giudicata da molte persone come una dipendenza genuina.

Un’altra ragione può essere affine a quella per cui la dipendenza da lavoro non è trattata seriamente come dovrebbe (Griffiths, 2011). Questo comportamento è, infatti, considerato dalla società come qualcosa di necessario per promuovere la salute; è considerato positivamente sia dalla società (macro-livello) sia dall’individuo (micro-livello), per cui allenarsi per diverse ore al giorno è considerato qualcosa di più normale rispetto al giocare con videogiochi, al gioco d’azzardo patologico o alla dipendenza da internet, che sono etichettate come attività anormali.

L’elogio sociale del benessere dell’allenamento potrebbe essere allarmante e dannoso in quanto risulta una perdita di controllo sul comportamento e pertanto può essere dannoso per la salute delle persone quanto altri comportamenti o sostanze. L’educazione al controllo e alla moderazione è un importante dovere dei genitori e delle figure di riferimento.

Il corpo ha bisogno di recupero dopo l’allenamento attraverso un planning attento del periodo di riposo che è parte integrante del regime ben progettato dell’allenamento.

I genitori, gli insegnanti, gli educatori della salute, gli allenatori, i personal trainer e gli altri professionisti coinvolti devono collaborare per riconoscere e intervenire quando i segnali dell’esercizio disfunzionale o del comportamento alimentare sono noti.

Cenni storici sulla diagnosi di Anoressia – Magrezza non è bellezza: i disturbi alimentari

La prima diagnosi di anoressia medica ufficiale del disturbo alimentare si trova in un testo di medicina pubblicato a Londra nel 1689. L’autore era Richard Morton.

MAGREZZA NON E’ BELLEZZA – I DISTURBI ALIMENTARI: Cenni storici sulla diagnosi di Anoressia (Nr. 5)

 

Storia delle prime diagnosi di anoressia (1689-1875)

La prima ufficiale diagnosi di anoressia medica del disturbo alimentare si trova in un testo di medicina pubblicato a Londra nel 1689. L’autore era Richard Morton. Nel trattato, dedicato ai vari tipi di defedamento alimentare, trova posto anche la “consunzione nervosa” (nervous consumption) causata da ragioni puramente psico-logiche: tristezza e ansia (sadness and anxious cares). Morton descrisse due casi, una ragazza di 18 anni e un ragazzo di 16. In entrambi, Morton escluse cause fisiche e quindi a buon diritto le sue possono considerarsi le prime segnalazioni consapevoli di disturbi alimentari psicogeni, la prima segnalazione ufficiale di una diagnosi di anoressia nervosa.

Settantacinque anni dopo, nel 1764, Robert Whytt di Edimburgo, è l’autore di una seconda segnalazione del disturbo alimentare psicogeno: si tratta di un ragazzo quattordicenne. L’astensione dal cibo era dovuta ad uno stato che oggi chiameremmo depressivo e che Whytt definisce “privo di spirito e pensieroso” (low-spirited and thoughtful) e costituisce quindi la seconda diagnosi di anoressia storicamente registrata da un medico.

Dopo un intervallo di quasi cento anni, nel 1860, è la volta di Louis-Victor Marcé, un medico di Parigi. Come Morton e Whytt, Marcé notò che tra le varie forme di deperimento alimentare alcune hanno un’origine puramente psicologica e comprese che il fenomeno colpiva per lo più giovani ragazze nel momento del primo sviluppo fisico. Nel 1873 un altro medico francese, Charles Lasègue, riportò 8 casi di emaciazione e deprivazione alimentare su base psicologica, sottolineando la sofferenza emotiva dei pazienti. In quello stesso 1873, circa 6 mesi dopo, a Londra William Gull descrisse 3 casi e li denominò per la prima volta con il termine che si sarebbe poi universalmente affermato: anoressia nervosa. Due anni dopo, nel 1875, l’italiano Giovanni Brugnoli descrisse altri 2 casi a Bologna.

 

Hilde Bruch (1973) e Mara Salvini Palazzoli (1974): la moderna diagnosi di anoressia nervosa

Dopo queste prime segnalazioni, si assiste a un silenzio che si prolunga per decenni, in cui si cerca affannosamente di attribuire qualsiasi forma di defedamento a disturbi di natura fisica, per lo più endocrinologica. Sarà soltanto con il lavoro di Hilde Bruch (1973, 1982) e di Mara Selvini-Palazzoli (1974) che la natura psicologica dell’anoressia nervosa verrà riaffermata e descritta come un disturbo quasi delirante della valutazione delle proporzioni corporee, a cui si aggiungono una difficoltà di comprensione dei segnali corporei di fame e sazietà e un paralizzante senso di inadeguatezza e di insufficienza di fronte agli impegni della vita adulta, nonché la restrizione dietetica come surrogato illusorio di quel carente senso di competenza, efficacia e autonomia personale che affligge queste pazienti.

RUBRICA MAGREZZA NON E’ BELLEZZA – I DISTURBI ALIMENTARI

Ricordi e sensazioni: ecco il ritmo che le unisce, la sincronia è il segreto per lavorare insieme

Le aree del cervello possono “ballare” da sole, ma quando lavorano insieme si uniscono in un’unica coreografia: secondo uno studio appena pubblicato su PLOS Biology nel cervello dei ratti (ma è probabile esistano meccanismi simili anche in quello umano), quando l’animale in un compito di riconoscimento sensoriale deve prendere una decisione spaziale che richiede conoscenza pregressa, le aree sensoriali, motorie e della memoria rendono coerente il ritmo dell’attività elettrica, fra loro e con il comportamento del roditore.

SISSA, Scuola Internazionale Superiore di Studi Avanzati

Il cervello è diviso in circuiti funzionali, specializzati ognuno in un compito specifico: percezione, memoria, problem solving… come fanno questi circuiti a lavorare in squadra quando serve? La ricerca suggerisce che il segreto potrebbe stare nella sincronia del ritmo dell’attività elettrica. Uno studio della SISSA mostra che, nei ratti, in un compito in cui per decidere è necessario attingere ai ricordi, le aree sensoriali e quelle legate alla memoria si sincronizzano nel ritmo theta, lo stesso ritmo che caratterizza anche il movimento dei “baffi”.

Le aree del cervello possono “ballare” da sole, ma quando lavorano insieme si uniscono in un’unica coreografia: secondo uno studio appena pubblicato su PLOS Biology nel cervello dei ratti (ma è probabile esistano meccanismi simili anche in quello umano), quando l’animale in un compito di riconoscimento sensoriale deve prendere una decisione spaziale che richiede conoscenza pregressa, le aree sensoriali, motorie e della memoria rendono coerente il ritmo dell’attività elettrica, fra loro e con il comportamento del roditore. Le due prime autrici della ricerca sono Natalia Grion e Athena Akrami, ricercatrici della Scuola Internazionale Superiore di Studi Avanzati (SISSA) di Trieste, e lo studio è stato coordinato da Mathew Diamond, professore di neuroscienze cognitive e vice-direttore della SISSA.

L’attività elettrica del cervello mostra “ritmi” tipici multipli. Uno dei più pervasivi è l’oscillazione theta, fluttuazioni dell’attività elettrica con una frequenza fra i 5 e 12 Hz. Nei topi si osserva per esempio nell’ippocampo, una struttura legata ai processi di memoria. Per quello che potrebbe sembrare una strana coincidenza le frequenze fra i 5 e i 12 Hz sono anche caratteristiche di un comportamento tipico del ratto, il “whisking”. I ratti esplorano il mondo con il tatto, un senso per loro utile quanto la vista per noi. Per toccare le superfici usano le vibrisse, i lunghi peli del muso, muovendole continuamente sopra gli oggetti: il whisking è appunto questo movimento oscillatorio dei baffi.

Gli scienziati si sono chiesti se questa sospetta coincidenza di ritmi nella frequenza theta sia casuale o se invece derivi da un legame a livello cerebrale. Una prima serie di esperimenti condotti da un gruppo americano qualche anno fa non ha però corroborato quest’ultima ipotesi, mostrando invece che quando i topi esploravano l’ambiente con le vibrisse i ritmi nelle diverse aree non erano più sincronizzati di quanto ci si aspettasse nel caso di “oscillatori” indipendenti. In parole povere, non sembrava esistere alcun collegamento.

 

Il ruolo della memoria

Diamond e il suo gruppo alla SISSA non erano però convinti che questo risultato sconfessasse definitivamente l’ipotesi della sincronia: forse il tipo di compito usato in quegli esperimenti non era il più adatto per far emergere la coerenza. [blockquote style=”1″]Il compito originale infatti non richiedeva al topo di attingere alla memoria o di fare scelte spaziali, due operazioni che coinvolgono l’ippocampo, proprio un’area che esibisce prevalentemente il ritmo theta[/blockquote] spiega Diamond. [blockquote style=”1″]Nei nostri esperimenti abbiamo aggiunto questa componente: i roditori dovevano esplorare un oggetto e identificarlo, per poi decidere se andare a destra o a sinistra, una decisione basata sull’esperienza fatta nelle precedenti sessioni di apprendimento. [/blockquote]

In questa nuova serie di esperimenti Diamond e colleghi hanno trovato il collegamento: il ritmo di oscillazione delle vibrisse e le onde theta nell’ippocampo andavano in fase, per circa un secondo, proprio immediatamente prima che il topo prendesse la decisione. E non solo: questi ritmi erano anche in fase con l’attivazione della corteccia sensoriale (quella che raccoglie l’informazione tattile), una stazione di elaborazione intermedia fra vibrisse e ippocampo.

Il risultato è stato accolto con entusiasmo anche da David Kleinfeld, dell’Università della California a San Diego, l’autore dello studio precedente, al quale PLOS Biology ha commissionato un articolo di commento (insieme a Martin Deschênes, dell’Università Laval di Quebec City in Canada, e Nachum Ulanovsky, dell’Istituto Weizmann di Rehovot, in Israele) sull’articolo di Diamond e colleghi.

La scoperta dell’infanzia con le fiabe e i romanzi dell’Ottocento

L’Ottocento scopre l’infanzia, e la scopre nei suoi romanzi. La fuga di Davide Copperfield dalla casa caduta nelle mani del patrigno è la fuga di un bambino, malgrado le circostanze siano molto dure. Davide però non è un bambino del tutto abbandonato come lo schiavo di Petronio: fugge a casa della zia Betsy Trotwood dove trova una base sicura che gli consente di continuare a essere bambino per il giusto tempo necessario della crescita.

Questo articolo è stato pubblicato da Giovanni Maria Ruggiero su Linkiesta il 27/02/2016

La scoperta dell’adolescenza negli anni ’50

Abbiamo scoperto tardi l’infanzia e l’adolescenza. Quest’ultima fu inventata da Chuck Berry e da Elvis Presley nella seconda metà degli anni ’50, quando convertirono i rudi canti blues e country dell’amore infelice e della difficile vita nelle periferie urbane e rurali dell’America nera e bianca negli adolescenziali palpiti rock n’ roll delle cotte e delle paghette passate dai genitori con le quali concedersi le prime birrette e i primi appuntamenti sociali e galanti. Prima di quei brani dalla forza ritmica avvolgente l’adolescenza come mondo a sé non esisteva, quest’universo ingenuo e assetato di desiderio, fatto di approcci sessuali goffi e imbarazzati e feste da ballo travolgenti e luminose di giovinezze in fiore. Le voci ruvide di Muddy Waters e Hank Williams erano adulte, i vocalizzi sospirosi di Presley e Berry erano pura e beata adolescenza.

 

La scoperta dell’infanzia nell’Ottocento

L’infanzia fu scoperta prima, nell’ottocento. Credo che fosse Charles Dickens a raccontarla per primo nei suoi romanzi degli anni della rivoluzione industriale inglese e fu un evento molto più drammatico. Non sono uno storico della letteratura, ma non so se prima di Davide Copperfield e di Oliver Twist l’infanzia sia mai stata raccontata. Dickens parla di un’infanzia abbandonata e infelice, eppure già borghese. Certo, Oliver e Davide sono due bambini perseguitati dalle circostanze, soprattutto Oliver; ma non sono due adulti precoci costretti a diventare rapidamente adulti. Il mondo di Dickens, pur feroce, è sulla via della civilizzazione e non è così bestiale da obbligare i bambini a dimenticare l’infanzia per sopravvivere. Anzi, permette loro di ricordarla e descriverla, come fa Dickens.

Nella modernità per la prima volta l’infanzia è una condizione di debolezza tollerabile.
Non è il caso del mondo antico, dove tutti sembrano dimenticarsi di un’infanzia presumibilmente terribile, di cui nulla sappiamo perché nessuno ne parla mai per tutta la letteratura classica, greca e romana. Intravediamo qualcosa, a tratti. Nei bassifondi del Satyricon di Petronio, dove compare e scompare questa figura di schiavetto già cresciuto eppure ancora bambino, ancora bambino solo per l’età ma evidentemente reso già adulto dalla terribile circostanza di essere schiavo, un dolce schiavo bambino di due debosciati come sono i protagonisti del Satyricon che lo usano come un oggetto, anche sessuale. Lo sguardo di Petronio non riesce a vedere e a dirci nulla di umano in questo piccolo schiavo dimenticato dal mondo e dalla storia. Com’era diventato schiavo? Era semplicemente nato così? Figlio di schiavi e quindi senza famiglia, separato e forse mai davvero unito alla ignota madre schiava, abituato semplicemente a obbedire, a non avere una volontà propria? Oppure, non so se meglio o peggio, era nato libero e poi aveva perso la libertà, catturato in qualche spedizione militare ovvero al termine di un massacro e poi venduto al mercato come una bestia? Il bambino del Satyricon soffrì le sofferenze di mille Davide Copperfield che nessun Dickens raccontò.

Uno schiavo non ha senno, dice il guardiano dei porci Eumeo nell’Odissea. Eumeo era di nobile famiglia ed era stato rapito bambino dai pirati e bambino era stato venduto a Ulisse, e così aveva trascorso l’intera esistenza da schiavo, senza autonomia e volontà propria. Certo, Omero per un attimo ci fa intravedere l’abisso di un individuo che dice con una punta di amarezza e rammarico “uno schiavo non ha senno”. È solo un attimo. Omero, preso dai suoi dei e dai suoi eroi non vede la tragedia di questo bambino rapito ai suoi affetti e venduto schiavo.

Un bambino nei tempi pre-moderni era un nulla, una non entità umana e giuridica.

Il capo famiglia, il pater familias aveva totale diritto di vita e di morte sui figli, e le feroci leggi anti parricide dell’antica Roma testimoniamo il tentativo continuo di contenere le tragedie familiari, rancori di figli covati probabilmente fin dall’infanzia. In tutta la letteratura classica solo Orazio, che si lamenta delle punizioni corporali del suo maestro di scuola, riesce a posare il suo sguardo su un ricordo precedente la vita adulta. E il destino dei bambini continuò per secoli a essere terribile, come possiamo vedere nelle favole. Il racconto dei genitori di Pollicino che abbandonano tranquillamente la prole nel bosco non potendo sfamarla ci parla di un comportamento non raro in quei tempi.

L’ottocento scopre l’infanzia, e la scopre nei suoi romanzi. La fuga di Davide Copperfield dalla casa caduta nelle mani del patrigno è la fuga di un bambino, malgrado le circostanze siano molto dure. Davide però non è un bambino del tutto abbandonato come lo schiavo di Petronio: fugge a casa della zia Betsy Trotwood dove trova una base sicura che gli consente di continuare a essere bambino per il giusto tempo necessario della crescita. L’occhio di Dickens vede l’infanzia per la prima volta nella storia della letteratura e quindi anche della psicologia, ed è una scoperta meravigliosa. Ci si chiede come possa essere stato possibile che per secoli nessuno abbia mai raccontato nulla della propria infanzia con l’occhio moderno, incuriosito e introspettivo. Non vi erano le parole, non vi erano i pensieri, rimanevano solo i ricordi mai raccontati.

In Italia Collodi ha svolto il compito di Dickens. Il suo burattino di legno che lentamente prende vita e si umanizza sembra quasi raccontare la storia della trasformazione della percezione dell’infanzia, che passa dal legno alla carne. E pensieri di bambini racconta Collodi, forse ancor più di Dickens: storie di compiti a scuola da fare, storie di giornate a scuola marinate, storie di litigi e botte con i compagni di classe, storie di giornate passate a letto con la febbre mentre i dottori vengono a visitarti, storie di mamma e papà, Geppetto e la Fata Turchina, storie di amici fin troppo intraprendenti che ti fanno intravedere il mondo adulto come Lucignolo. Storie di bambini, storie infantili.

Pochi anni dopo sarebbe arrivata la psicologia, dapprima la psicoanalisi con il piccolo Hans e Freud, poi con gli abissi di rabbia e invidia di Melanie Klein e poi tutta la psicologia dello sviluppo e dell’attaccamento con Donald Winnicott e John Bowlby a raccontarci tutto in maniera più scientifica. Ma furono Dickens e Collodi ad aprirci gli occhi. Da poco tempo ci siamo ricordati che siamo stati fanciulli.

Percezione: come interpretiamo i dati sensoriali per dotarli di significato? – Introduzione alla Psicologia

La percezione è un processo che consente di attribuire un significato agli input sensoriali provenienti dall’ambiente esterno. Da sempre molti studiosi si sono occupati di percezione e, ancora oggi, costituisce un argomento molto studiato in psicologia generale. La percezione è un ambito che desta interesse perché il percepito è una rappresentazione diretta della realtà e una fonte diretta da cui è possibile desumere il funzionamento della mente umana.

INTRODUZIONE ALLA PSICOLOGIA RUBRICA DI DIVULGAZIONE SCIENTIFICA IN COLLABORAZIONE CON LA SIGMUND FREUD UNIVERSITY DI MILANO 

Storia

Il concetto di percezione risale a molto tempo fa ed è stato concettualizzato per la prima volta in ambito filosofico; con esso si fa riferimento al prendere consapevolezza di qualcosa, ovvero essere coscienti del fatto che esistono altre cose rispetto a noi stessi. Infatti, la parola percepire intende proprio la raccolta di informazioni che possano confermare l’esistenza di un mondo esterno. La percezione, dunque, ha il compito di mediare tra il reale e la rappresentazione dello stesso; è un processo che, in sintesi, porta alla formazione di nuove forme di conoscenza derivanti dai dati sensoriali o reali.

In psicologia, invece, la percezione è intesa come un processo mentale volto a convertire i dati sensoriali in concetti dotati di significato. Spesso capita di confondere il concetto di percezione con quello di sensazione, usando indistintamente i due termini che però sottendono processi molto diversi.

Dalla percezione alla sensazione

La sensazione è un processo basilare o elementare, che non può essere ulteriormente scomposto.  La sensazione, dunque, deriva da ciò che gli organi di senso, presenti sul nostro corpo, rilevano e poi traducono in stimoli fisiologici, inviati al cervello come segnali elettrici. Tale processo è definito “trasduzione sensoriale”, ovvero la trasformazione dell’informazione sensoriale in stimolo elettrico.

La percezione, al contrario, è un qualcosa di più complesso, poiché è un processo che mira all’attribuzione di significato ai dati sensoriali percepiti. Per percezione, dunque, si intende un processo avente lo scopo di identificare, ordinare ed classificare gli stimoli sensoriali provenienti dal mondo esterno.

Chiaramente, la distinzione tra sensazione e percezione non è immediata, tanto che alcuni la considerano come un unico processo psichico, definito appunto la senso-percezione. Per questo motivo, potremmo considerarla come una funzione che si dispone lungo un continuum che varia dalla semplice percezione sensoriale all’assunzione di significati specifici alla stessa.

La percezione distale, prossimale e i percetti

Quotidianamente percepiamo la realtà esattamente come si mostra al nostro sguardo. Si ottiene, in questo modo una rappresentazione del mondo fisico esattamente uguale a come percepito attraverso i sensi. La percezione del mondo così come appare si definisce stimolo distale, oppure oggetto fisico percepito, ricco di informazioni derivanti dall’ambiente esterno, come a esempio la luce, la forma, i colori e altri stimoli disponibili alla vista. Quando lo stimolo visivo giunge alla retina, prenderà il nome di stimolo prossimale. Quindi, un oggetto esterno, (es. una casa) rappresenta lo stimolo distale, mentre l’immagine proiettata sulla retina costituisce lo stimolo prossimale.

Dunque, l’informazione sensoriale dopo essere codificata e rielaborata è definita il percetto. Si genera, in questo modo, una catena psico-fisica che porta a collegare l’ambiente esterno (stimoli distali), alla proiezione retinica (stimoli prossimali), ai quali saranno attribuiti dei significati (i percetti).

Le teorie della percezione

La percezione rappresenta un canale di collegamento diretto dalla nostra mente alla realtà circostante. Per questo tante teorie sono state elaborate allo scopo di ottenere una più precisa e dettagliata interpretazione scientifica di questo fenomeno.

Per primo, Hermann von Helmholtz ideò la teoria empiristica, secondo la quale la percezione del mondo, e di conseguenza degli oggetti, avviene attraverso l’esperienza e l’apprendimento, derivanti dal contatto con il mondo esterno. Le sensazioni elementari, o sensoriali semplici, trasmesse al cervello dal mondo esterno, dopo essere state integrate, costituiscono l’insieme di conoscenze acquisite. Si ottiene,  così un processo che prende il nome di inferenza, ovvero la deduzione di significati di elementi appresi dal mondo esterno.

Secondo la Gestalt, invece, il significato delle percezioni deriva dalle leggi innate originate dall’organizzazione del campo percettivo, sulla quale non gravano né l’esperienza soggettiva né le aspettative future degli individui. Per i gestaltisti, gli stimoli sono frammenti (una serie di parti), che portano all’organizzazione di tutto in maniera automatica, fino a formare un campo percettivo sulla base delle dinamiche interne (principio dell’autodistribuzione automatica). Tali fenomeni consentono di percepire gli oggetti nella loro totalità.

Secondo il movimento del New Look, fondato dagli americani Bruner, Postman e Mc Ginnies, la percezione nasce dall’incontro tra gli stimoli esterni e le aspettative, ovvero i valori e gli interessi del soggetto. Ciascuna persona, dunque, diventa un dinamico costruttore delle proprie esperienze percettive.

Secondo le teorie della percezione diretta o ecologiche, originate dalla teoria di Gibson, le informazioni derivano dalla stimolazione percepita e da questa si possono desumere senza particolari processi di elaborazione aggiuntivi. Pertanto, il soggetto non deve rielaborare il percetto, né integrarlo ad informazioni già presenti, ma deve solamente cogliere le informazioni percettive esistenti nell’ambiente. Gibson definisce questo processo col termine inglese affordances ovvero disponibilità.

Un’altra teoria è quella del ciclo percettivo di Neisser, secondo la quale gli schemi presenti nella mente orientano l’attenzione e consentono l’esplorazione dell’ambiente. Il soggetto si prepara, riceve l’informazione selezionando le parti più importanti degli oggetti che servono a raggiungere scopi individuali.

L’organizzazione percettiva

In base alle teorie elencate, appare abbastanza ovvio che il percepito deve essere organizzato per consentire alla mente umana di avere una base di partenza con la quale interagire e organizzare gli stimoli provenienti dal mondo esterno. Questa organizzazione percettiva è orientata dalle caratteristiche specifiche presentate dallo stimolo e del contesto in cui è immerso. Le caratteristiche dell’oggetto attivano una funzione psichica che permette di organizzare lo stimolo proveniente dall’esterno. A questo punto subentra un nuovo processo: l’attenzione, che seleziona gli stimoli di interesse escludendone altri. L’esclusione, il più delle volte, si ottiene in base ai bisogni personali, alle motivazioni, alle emozioni esperite e alle conoscenze già acquisite da chi percepisce.

Ad esempio, in un supermercato siamo in grado di percepire ciò che consideriamo più interessante, estrapolando informazioni che rimarranno nella nostra memoria a discapito di altre non informative (effetto cocktail party). Spostare l’attenzione percettiva su ciò che ci interessa è un processo determinato da una limitata quantità di canali, imputati all’elaborazione dell’informazione, che permettono, di conseguenza, una selettiva elaborazione degli stimoli in maniera saliente. Secondo la teoria del filtro, quando si ricevono più messaggi contemporaneamente, l’attenzione permette di selezionare il messaggio più significativo e concede solo a questo di passare alle successive fasi di elaborazione dell’informazione.

Un altro effetto legato alla percezione è l’effetto Stroop. Esso consiste in un ritardo nei tempi di risposta, nel momento in cui al soggetto è chiesto di dire il nome del colore con cui è scritta una parola indicante un colore diverso. Per esempio, quando il soggetto si trova di fronte alla parola “giallo” scritta in rosso, egli deve dire rosso e non giallo. La selezione attentiva avviene nel momento in cui si deve selezionare la risposta da dare. Capita di attivare degli automatismi che ci porterebbero a dire esattamente quello che non è chiesto nel compito di Stroop, ovvero la parola scritta. In questo caso, si verifica un processamento sensoriale in grado di selezionare attentamente l’informazione d’interesse.

Un altro effetto percettivo è l’articolazione figura-sfondo, che consiste nel correlare ogni stimolo percepito, la figura, ad uno sfondo. Questo processo permette di far risaltare automaticamente la figura su cui concentrare l’attenzione, la quale sarà caratterizzata da una precisa forma, a differenza dello sfondo. Esistono delle figure, dette reversibili, da cui potrebbero emergere sia la figura che lo sfondo, a seconda di come si sposta l’attenzione. Pertanto, bisogna effettuare uno sforzo attentivo per riuscire a far emergere sempre la figura rispetto allo sfondo.

Infine, un altro fenomeno psicologico che facilita l’organizzazione percettiva della nostra mente è la costanza percettiva, secondo cui uno stimolo ci appare identico pur variando le condizioni di stimolazione dei recettori sensoriali. Dunque, un libro dalla copertina verde sarà percepito sempre verde anche se in particolari condizioni di luce potrebbe sembrare tendente al giallo.

La percezione della profondità e il movimento

Il mondo percepito è caratterizzato da tre dimensioni, ma il nostro occhio recepisce le informazioni in maniera bidimensionale. Il cervello, però, grazie all’aiuto di informazioni sensoriali aggiuntive riesce a colmare questa discrepanza. La profondità, infatti, è percepita attraverso diversi processi oculari, ovvero l’accomodamento o processo monoculare, gli indizi pittorici e il processo binoculare. Il primo consiste nella messa a fuoco di un oggetto da parte del cristallino. Gli indizi pittorici, invece, possono essere di diversi tipi, ad esempio: la sovrapposizione tra due stimoli che si sovrappongono solo parzialmente, l‘altezza sul piano dell’orizzonte dove gli stimoli più lontani appaiono più in alto, il chiaroscuro per indicare la profondità dello stimolo, la prospettiva lineare (come le rotaie del treno che tendono ad incontrarsi in prossimità dell’orizzonte) e il gradiente tissurale, secondo cui tanto più un oggetto è vicino all’osservatore tanto meno quest’ultimo ne percepirà con chiarezza tutti i dettagli. Esempi di processo binoculare sono invece la disparità retinica che consente di elaborare oggetti che si trovano anche molto lontano dall’osservatore, mentre la convergenza permette di interpretare le informazioni provenienti dai muscoli retinici volti al riconoscimento di oggetti molto vicini.

Il mondo esterno non è costituito solo oggetti statici, ma spesso sono in movimento. Gli stimoli in movimento sono percepiti grazie alla distanza, definita assoluta e relativa.

A volte, però, il nostro sistema di elaborazione delle informazioni può essere tratto in inganno, come nel caso dell’illusione del treno: se siamo in un treno e quello vicino sta per partire, in realtà percepiamo un movimento da parte del nostro veicolo; questo fenomeno è dovuto ai pochi indizi percettivi recepiti che rendono difficile il confronto tra i movimenti relativi.

In ogni caso, è necessario riferirsi non solo ai movimenti percepiti sulla retina, ma possiamo avvalerci anche di altre indicazioni, ad esempio del rapporto dello stimolo con lo sfondo (basato sull’illuminazione e sulla velocità del movimento percepito), o alla parallasse di movimento, ovvero il movimento di un oggetto confrontato con un oggetto statico.

 

RUBRICA: INTRODUZIONE ALLA PSICOLOGIA

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Prima e dopo la diagnosi di HIV: la Terapia Metacognitiva Interpersonale con i pazienti sieropositivi

Terapia metacognitiva interpersonale con pazienti sieropositivi: Da uno studio su singolo caso seguito dal Centro di Terapia Metacognitiva Interpersonale è emerso un buon outcome in termini di remissione della sintomatologia post-traumatica, riduzione dello stigma e del ritiro sociale, riscrittura di narrative in grado di supportare la formazione di obiettivi significativi.

Le emozioni e i vissuti delle persone affette da HIV

Una diagnosi di HIV rappresenta una frattura nel corso della vita di un individuo. Confrontarsi con la sieropositività significa prendere in considerazione la possibilità di un deterioramento della propria salute e di una morte prematura.

L’immagine di un sé malato e profondamente vulnerabile può arrivare ad oscurare ogni aspetto sano e vitale della persona, disorientata e schiacciata da una minaccia troppo forte e troppo grande. Il senso di poter dare una direzione alla propria storia rischia di essere perso.
Depressione, senso di colpa, rabbia, erosione dell’autostima sono tra le reazioni più frequenti descritte in letteratura. La qualità della vita può abbassarsi significativamente, l’impatto della diagnosi può condurre allo sviluppo di un Disturbo da stress post-traumatico (PTSD), possono comparire comportamenti auto-distruttivi nel tentativo di far fronte ad una sofferenza percepita come dirompente.

Essere HIV positivi significa conoscere lo stigma; la persona può percepirsi come pericolosa, difettata o anomala rispetto alla società in cui vive, ma di cui non si sente più parte. Il rifiuto è un esito atteso e può essere sentito come meritato. Lo stigma, una volta interiorizzato, ostacola l’accesso al supporto sociale e alle cure mediche; l’aderenza al trattamento, la comunicazione con i partners e la protezione da altre malattie sessualmente trasmissibili risultano compromesse. L’impatto è ancor più evidente nei sieropositivi appartenenti a gruppi sociali già oggetto di pregiudizio o discriminazione.

Inoltre, come spesso accade di fronte ad un trauma, la diagnosi può danneggiare un ingranaggio basilare del benessere emotivo: la capacità di dare un senso alla propria vita. Le narrative personali possono diventare povere, sterili, permeate da temi negativi dominanti e poco coerenti.
Il complesso regime terapeutico, il confronto con i possibili effetti collaterali, la necessità di sottoporsi regolarmente a esami o visite mediche demarcano ancora di più la distanza tra un prima e un dopo, tra un sé “malato” e “pericoloso” e la società dei “normali sieronegativi”.
D’altra parte, la diagnosi può incastrarsi perfettamente nella rappresentazione di un sé già difettoso, vulnerabile, non amabile, togliendo ulteriore ossigeno e libertà alla crescita del sé.

Trattamenti psicoterapici

In letteratura manca, ad oggi, un approccio specifico sviluppato a partire da questi problemi su questa specifica popolazione.
I trattamenti utilizzati nel trattamento del PTSD (esposizione prolungata, EMDR e Mindfulness Based Stress Reduction) non sono stati fino ad ora adottati per pazienti sieropositivi. Inoltre, pur con qualche eccezione, questi trattamenti sono spesso focalizzati sui sintomi e non prendono in considerazione le caratteristiche di personalità premorbose. Quest’ultimo aspetto è di prioritaria importanza se consideriamo che la diagnosi irrompe in un sistema di significati unico, soggettivo, irripetibile, più o meno flessibile, che può sostenere o pesare ulteriormente sulla crescita post-traumatica.

La Terapia Metacognitiva Interpersonale con pazienti sieropositivi

Un approccio integrato come la Terapia Metacognitiva Interpersonale con pazienti sieropositivi (TMI; Dimaggio et al., 2013) potrebbe dare un contributo in tal senso. La Terapia metacognitiva interpersonale sviluppa il percorso terapeutico sulle narrative personali, con l’obiettivo di aiutare i pazienti a divenire consapevoli di modalità ricorrenti di costruire significati e sostenerli nell’adottare nuove prospettive e nuove strade per accedere agli scopi desiderati.

Da uno studio su singolo caso seguito dal Centro di Terapia Metacognitiva Interpersonale con pazienti sieropositivi è emerso un buon outcome in termini di remissione della sintomatologia post-traumatica, riduzione dello stigma e del ritiro sociale, riscrittura di narrative in grado di supportare la formazione di obiettivi significativi.
Una donna chiede aiuto psicologico dopo alcuni anni dalla diagnosi. Si sente profondamente vulnerabile, esposta senza protezioni alle richieste di una società estranea e ostile.
Il pericolo di essere criticata, ferita o danneggiata rappresenta una minaccia per l’integrità fisica. Il quadro medico è stabile ma gli scenari narrati la ritraggono vicina ad una morte immaginata come la fine di un decorso di decadimento in solitudine e precarietà. L’isolamento è l’alternativa prescelta per preservare un sufficiente senso di sicurezza.

L’analisi degli episodi narrativi e delle memorie associate, insieme alla scoperta di trame narrative ricorrenti, ha permesso di contestualizzare e storicizzare l’impatto della diagnosi, dare un senso a sintomi, emozioni e comportamenti all’interno del quadro di personalità premorboso e di schemi interpersonali fautori di sofferenza. L’attivazione del sistema esplorativo, sostenuto da una costante attenzione alla relazione terapeutica, ha permesso la costruzione di narrative più ricche, segnate oggi da un crescente senso di forza, speranza e dignità personale.

Il lavoro parallelo sul funzionamento metacognitivo, caratteristica chiave della Terapia metacognitiva interpersonale, ha contribuito a riparare e sostenere la capacità narrativa della paziente e ha permesso di sostenere un sé in crescita, più integrato e permeabile alle nuove esperienze. Negli scenari autobiografici di oggi la sieropositività convive con la speranza e la prospettiva di un domani, il corpo non è solo contenitore di malattia ma è capace di vivere sensazioni positive, le critiche non hanno il potere di annientare, la paura di un decorso incerto è lenita dalla consapevolezza di poter dare una direzione ai propri desideri, con diritto e libertà di scelta.

Sono necessari studi strutturati per meglio comprendere e delineare l’efficacia della Terapia Metacognitiva Interpersonale con pazienti sieropositivi o con AIDS conclamato e per studiare quale ruolo può avere questo tipo di approccio sull’aderenza alle terapie antiretrovirali.

Psicosomatica infantile, il dolore in età pediatrica tra fisiologia e psicologia: eziologia e trattamento

Psicosomatica infantile: Quando si parla di somatizzazione si fa riferimento al delicato rapporto mente e corpo. Più il bambino è piccolo, più il suo disagio psicologico tende ad essere veicolato attraverso sintomi somatici. Fin dai primi passi diagnostici, è necessario escludere la presenza di fattori organici come causa prima della patologia; inoltre è auspicabile un approccio integrato medico e psicologico, allo scopo di evitare conclusioni riduttive.

Psicosomatica: il rapporto mente-corpo

Il concetto di psicosomatica fa riferimento ad un ambito estremamente ampio, definito in modi diversi da autori diversi in epoche diverse. Nel loro bellissimo quanto particolare trattato, Dethlefsen e Dahlke (2013) uno psicoterapeuta e un medico tedeschi, definiscono la malattia come il risultato della rottura di un’armonia fisiologica. Secondo i due studiosi, quando le varie funzioni fisiologiche interagiscono in un certo modo si crea un modello che noi sentiamo armonico, e chiamiamo salute. Se una funzione esce dai binari, l’armonia è compromessa e allora parliamo di malattia. In altre parole, la malattia è la messa in discussione di un ordine, che però avviene sul piano della coscienza e si limita a manifestarsi attraverso il corpo.

Secondo Trombini e Baldoni (1999), il termine psicosomatica può assumere vari significati:
– Convinzione o sospetto che una patologia somatica abbia un’origine psichica;
– L’influenza dei fattori psicologici sui processi corporei;
– L’influenza dei processi corporei sulla psiche;
– Condizione patologica di un organo senza che sia identificabile una base biologica;
– Una modalità di approccio del paziente dove spiccano componenti corporee, psicologiche e sociali;
– Lo stile comunicativo di una famiglia all’interno della quale uno o più membri sono predisposti ad ammalarsi somaticamente.

L’attuale prospettiva considera i disturbi come il risultato di una interazione tra fattori psicologico-emotivi ed una predisposizione costituzionale. Per tale motivo, negli ultimi anni si è iniziato a parlare di disturbo psicosomatico, cioè l’influenza dei fattori psicologici su numerose patologie ad espressione somatica.

 

Psicosomatica infantile

Nell’ambito della psicosomatica infantile è di rilevante importanza il tema della relazione che il bambino instaura con la figura di accudimento primaria (principalmente la madre). Soprattutto il contributo di Winnicott (1958) è degno di nota per aver tentato una concettualizzazione unitaria dei comportamenti infantili, dove vi sono sia aspetti psicologici che somatici dello sviluppo. All’inizio il bambino si trova in uno stato primario non integrato e il processo di maturazione dipende dall’atteggiamento di cura della madre (preoccupazione materna primaria). Questo offrirà al bambino una realtà da cui dipendere, per cui svilupperà una integrazione psicosomatica, cioè la psiche riuscirà ad abitare il soma.

 

Psicosomatica infantile e figura di accudimento

Un fallimento evolutivo invece provoca un’insicurezza dell’abitare dentro e conduce alla depersonalizzazione. Ne risulterà un Io debole, troppo dipendente dall’atteggiamento materno non sufficientemente buono e una fuga dell’Io sano dal mondo. Detto questo, gli studi sulla relazione diadica madre-bambino hanno messo in evidenza la madre come funzione regolatrice del funzionamento sia fisiologico che mentale, favorendo così la differenziazione dell’esperienza e del senso del Sé (Stern 1985). Una mancata sintonizzazione affettiva con la madre può tradursi in dolore del corpo, manifestandosi così attraverso disturbi psicosomatici di varia natura.

 

Diagnosi psicosomatica infantile

Come si fa la diagnosi del disturbo psicosomatico in età evolutiva? Riferendoci al DSM-IV TR, risulta controversa la questione della diagnosi del disturbo di somatizzazione in bambini in età preadolescenziale, anche se vi sono evidenze circa la validità della diagnosi. D’altronde è noto che molti adulti che lamentano disturbi, riferiscono di essere stati in “cattiva salute” sin dalla prima infanzia (Kellner 1986). Una vasta letteratura suggerisce che la somatizzazione, soprattutto sotto forma di disturbi ricorrenti, sia piuttosto comune nell’infanzia e nell’adolescenza. Di seguito mostreremo una serie di disturbi ben noti nella pratica clinica nella fase evolutiva: asma, dolori addominali, mal di schiena, sindrome da fatica cronica.

 

Dolori addominali ricorrenti (DAR)

Sindrome funzionale di dolore ricorrente localizzato in zona ombelicale. Spesso insorge come sintomo ma può essere accompagnato da diarrea, vomito, costipazione o diarrea. La sindrome è definita da 12 settimane di dolore addominale persistente, nessuna relazione con eventi fisiologici (mestruazioni, alimentazione, ecc), non vi è simulazione e le attività quotidiane risultano compromesse. Tuttavia il DAR può essere associato alle influenze alimentari sul tratto gastrointestinale come l’intolleranza al lattosio e l’insufficienza di apporto di fibre nella dieta. La prevalenza di DAR varia dal 10 al 25%, con una comorbidità del 50% con la cefalea e 14% con il mal di schiena (Groholt et al. 2003). Da un punto di vista psicologico, diversi studi mostrano come siano presenti fattori psicogeni dovuti a problematiche familiari (storia di alcolismo, comportamenti antisociali ecc) o allo stress legato all’ambiente scolastico. Nella pratica clinica, il paziente è valutato tenendo conto del suo mondo interiore, della sua capacità di gestire le emozioni e in particolare l’ansia.

 

Asma

E’ una patologia infiammatoria cronica delle vie aeree. In individui sensibili, quest’infiammazione provoca ripetuti episodi di affanno, mancanza di respiro, pressione toracica, tosse, soprattutto la notte e la mattina presto. Le ostruzioni del flusso respiratorio si risolvono spontaneamente o con trattamento. L’asma è un disturbo genetico molto complesso e multideterminato, non riconducibile a una trasmissione mendeliana di caratteri dominanti, recessivi o legati al sesso.

L’affanno, il principale sintomo dell’asma è molto diffuso in età pediatrica. Circa il 20% dei bambini ne soffre a partire dal primo anno d’età, il 50% dopo i 6 anni. Sono riscontrabili 3 fenotipi d’asma nei bambini: affanno transitorio (scompare dopo il 3° anno di vita), persistente (continua dopo il 3° anno, più presente tra i bambini con genitori asmatici), ad esordio tardivo (esordio tra i 3 e i 6 anni, associato a una sensibilizzazione allergica e relativa stabilizzazione dopo i 10 anni). Da un punto di vista psicologico,  sono ritenuti direttamente o indirettamente responsabili fattori di stress cronico ed acuto. Il respiro è il cordone ombelicale attraverso cui la vita scorre dentro di noi. Il respiro evita che l’individuo si isoli, ha a che fare quindi con la relazione e il contatto. Quando si dice “mi manca l’aria”, metaforicamente ci riferiamo alla libertà e alla limitazione. Se uno fatica a respirare si spaventa.

Psicosomatica infantile: da un punto di vista psicosomatico, il soggetto asmatico cerca di prendere troppo: inspira fino a riempirsi i polmoni, provocando un crampo respiratorio. Nell’asma somatizzata abbiamo un rapporto sbagliato tra il prendere e il dare (la respirazione, come ben sappiamo, è ritmica); il senso di soffocamento e di ristrettezza dell’asma ha molto a che fare con la paura. Se il bambino non vive il disturbo come cronico, dal momento in cui viene diagnosticato, esso avrà un impatto minore sullo sviluppo, sulla gestione e sull’autostima.

 

Mal di schiena

Vi sono differenze relative alla localizzazione ed alla presenza o meno di segni neurologici. Dolore alla schiena senza irradiazione alle gambe, fino alle gambe senza segni neurologici e irradiazione alle gambe con segni neurologici. E’ stata trovata una correlazione tra il mal di schiena e BMI (body mass index) in donne con dolore cronico, che avevano preso peso negli ultimi 10 anni. Nelle famiglie di bambini con dolore alla schiena sono stati rilevati fattori di rischio: abusi fisici, violenze sessuali, tossicodipendenza nei genitori, morte o perdita di una figura di accudimento, abuso psicologico o rifiuto. Non si escludono patologie più propriamente psichiatriche come la depressione e anche uno stile di vita sbagliato come carico eccessivo di zaini sulla schiena.

 

Sindrome da fatica cronica (SFC)

E’ una malattia caratterizzata da una stanchezza non spiegata da alcuna causa nota, debilitante a tal punto da causare una riduzione dell’attività scolastica, accompagnata spesso da dolori muscolari, mal di gola, mal di testa, confusione mentale, depressione, disturbi del sonno. Recentemente è stata avanzata l’ipotesi che i genitori di bambini con SFC abbiano un ruolo nel mantenimento della sindrome mediante atteggiamenti iperprotettivi, soprattutto materni. Infatti le madri preoccupate tendono a incoraggiare i loro bambini a ridurre le attività, rinforzando così il circolo vizioso di sintomi-disabilità. Sintomi quali la fatica, diminuita concentrazione e dolori muscolari sarebbero il risultato di un distress psicologico e della inattività. Dal punto di vista della psicosomatica infantile, i fattori cognitivi (pensieri e convinzioni) contribuiscono in qualche modo a mantenere un ciclo di malattia-comportamento.

 

Assesment del dolore e diagnosi nella psicosomatica infantile

In generale, i genitori possono influenzare il comportamento nei riguardi del dolore (pain behavior) del loro bambino, causare alti livelli di stress nella vita del figlio con la loro stessa psicopatologia, incoraggiando così un vantaggio secondario. Inoltre, per un sano sviluppo psicosociale, sono molto importanti i rapporti con i coetanei, che potrebbe essere anche fonte di supporto per i bambini affetti da malattie croniche.

Fino a qualche anno fa, il 20% degli anestesisti riteneva che il neonato non esperisse il dolore a causa dell’immaturità del sistema nervoso. Anche se questa credenza è stata in gran parte superata, al di là del neonato, rimane comunque difficile da parte del bambino in età scolare verbalizzare adeguatamente i sintomi esperiti. Un corretto assessment diagnostico dei disturbi di somatizzazione in età evolutiva viene eseguito partendo dalla storia del problema fisico, dirigendo l’attenzione ai meccanismi psicologici sottostanti.

La diagnosi di disturbi di somatizzazione infantile può essere espressa nei termini di una complessa interazione di fattori fisici, sociali ed emotivi. A conferma di questo, vi sono:
– Stretta relazione temporale tra un evento stressante e l’insorgenza del sintomo;
– Compresenza di disturbi psichiatrici;
– Una caratteristica di bambino e famiglia;
– Grado di interesse dei genitori nei confronti della malattia del bambino.

 

Psicosomatica infantile: trattamenti

Gli eventi stressanti coprono un ampio raggio di situazioni, quindi chi si occupa di bambini deve prendere in considerazione i genitori, la scuola, il rapporto con i pari, coinvolgendoli nel processo di osservazione, diagnosi e trattamento. La scelta della terapia psicologica dipende da vari fattori: l’orientamento dello psicologo, la motivazione del piccolo paziente, gravità e durata della malattia.
La TC (terapia comportamentale) è molto utile nel modificare i singoli comportamenti inappropriati (nell’alimentazione, nell’igiene ambientale ecc) ma risulta inadatta nel trattare le reazioni emotive dei soggetti.

La TCC (T. cognitivo-comportamentale) cerca di aiutare i piccoli pazienti ad identificare i loro “errori mentali” (“io posso avere un attacco d’asma, quindi non posso giocare a pallone”), un lavoro che viene fatto sulle credenze del soggetto circa i propri sintomi, che spesso portano a comportamenti di evitamento che di fatto, in un circolo vizioso, contribuiscono al mantenimento del disturbo.

La terapia familiare ha lo scopo di favorire una giusta collaborazione per il trattamento, incoraggiando il dialogo tra tutti i membri della famiglia allo scopo di far emergere l’immagine degli stili comunicativi. Ogni componente potrà quindi ridefinire il proprio ruolo e le proprie finalità.

Le complicazioni dell’impresa di vivere: le strategie cognitive che complicano la vita

Vivere serenamente è per alcuni un’impresa ardua, perché sono abituati a rendere complesse anche le piccolezze della vita quotidiana. Probabilmente l’istinto alla complicazione è generato dall’autodistruttività, ovvero dall’istinto di morte di freudiana memoria. La propensione alla complicazione si cristallizza in uno stile di pensiero, che è responsabile di strategie cognitive ben precise. Fra di esse, sono da menzionare la difficoltà a cambiare, l’elogio del passato, le autoprofezie al negativo.

Pulsioni – istinti, intelletto e strategie cognitive autodistruttive

Che l’uomo sia costituito da due tipi di pulsioni o istinti è un fatto acclarato dalle teorizzazioni freudiane (Freud, 1920). La pulsione o istinto di vita ha la funzione di agevolare l’organizzazione della vita in forme sempre più articolate, ovvero, traslando il significato, è quell’istinto che determina progresso e benessere. La pulsione o istinto di morte è quella che tende a far regredire la vita verso lo stato inorganico. Essa determina nell’essere umano, quando è diretta verso l’esterno, l’aggressività e l’autodistruzione nel momento in cui è indirizzata nei propri confronti.

Che l’istinto determini una modalità di comportamento ricorrente e costante nell’individuo lo suggerisce Jung (1919, pag. 169):
[blockquote style=”1″]Gli istinti sono tipiche modalità di azione e quindi abbiamo a che fare con un istinto in tutti i casi in cui osserviamo modalità di azione e reazioni costanti e ricorrenti con regolarità, indipendentemente dal fatto che i motivi siano o non siano coscienti.[/blockquote]
Solitamente la razionalità dovrebbe essere in grado di governare gli istinti, ma frequentemente questo non avviene come sottolinea Fromm (1973, pag. 267):

[blockquote style=”1″]L’intelletto guida l’uomo a fare le scelte giuste. Ma sappiamo anche quanto sia debole e poco fidato questo strumento, che si lascia influenzare e vincere dalle passioni e dai desideri umani. Il cervello umano non solo è insufficiente come sostituto di un apparato istintuale indebolito, ma complica spaventosamente l’impresa di vivere.[/blockquote]
Le complicazioni dell’impresa di vivere probabilmente sono generate dalle spinte autodistruttive, che in molti esseri umani sono quelle dominanti. Si crea, così, un’ideologia della vita che nella complicazione e nella ricerca del proprio malessere ha il suo fondamento. Le strategie cognitive autodistruttive sono molteplici. Se ne espongono alcune fra le più efficaci.

 

La difficoltà a cambiare

In un mondo che cambia alla velocità della luce, molti di noi difficilmente accettano i cambiamenti. Essi sono vissuti come orpelli insignificanti di cui non bisogna tener conto. Il cambiamento è assimilato ad una mutilazione del proprio sé. Rimanere ancorati rigidamente ad una visione della realtà che non tiene conto dei cambiamenti che in essa avvengono, è un modo per procurarsi malessere (Watzlawick, 1983, pag. 13).

 

L’elogio del passato

Il tempo passato è sempre il luogo dove risiede il benessere. Qualsiasi condizione anche la più aberrante accaduta nel passato viene dimenticata per lasciare il posto ad un piacevole ricordo che, comunque, offusca il presente. L’infanzia, l’adolescenza e la giovinezza sono età dell’oro rispetto ad un presente opaco e carico di gravose responsabilità. In questa analisi si dimenticano gli affanni dell’infanzia, durante la quale il dover essere regna sovrano, le vicissitudini psicologiche, fisiche ed esistenziali dell’adolescenza, le scelte, i dilemmi e i tortuosi percorsi del pensiero della giovinezza. In pratica, si situa il proprio benessere in luogo temporale dove non ha mai abitato (Watzlawick, op. cit., pag. 17).

 

L’intrigo delle complicazioni

Ci sono degli eventi che accadono e che accendono la nostra fantasia. Ogni cosa che avviene ha un movente che la determina e produce degli effetti, a cui seguono delle conseguenze. Questa sequenza si può analizzare con diverse chiavi di lettura. Esiste la chiave di lettura semplice che legge le cose che succedono in termini lineari e realistici. C’è la chiave di lettura complessa che ci porta ad indagare perché le cose avvengono, che cosa si nasconde dietro di esse, quali sono gli effetti e le conseguenze occulte. Quest’ultimo è un modo estremamente raffinato per celebrare il proprio malessere (Watzlawick, op. cit., pag. 29).

 

Le autoprofezie su se stessi al negativo

Sovente siamo noi a determinare il destino della nostra vita attraverso le autoprofezie al negativo. Avere di sé un’idea negativa equivale, in pratica, ad esserlo. Quante occasioni abbiamo perso semplicemente perché non ritenevamo di essere all’altezza di esse, avendo, in realtà, le risorse per poterle affrontare (Watzlawick, op. cit., pag. 47).

 

La non risolvibilità dei problemi

Solitamente un problema, piccolo o grande, quando si presenta ha necessità di essere risolto. Quelli più grandi hanno bisogno di essere scissi in piccoli problemi facilmente districabili. Nella risoluzione di una situazione problematica esistono delle procedure, ovvero la soluzione passa attraverso il reperimento di strategie finalizzate a questo. Probabilmente non esistono problemi, se non in numero esiguo, che non possono essere risolti. Ci si riferisce, specificatamente, alle problematiche della quotidianità. Di queste strategie di risoluzione delle situazioni problematiche sembra non abbiamo cognizione, visto come prolunghiamo nel tempo alcune di esse. E quando tutto, nostro malgrado, è risolto, creiamo un altro dilemma che ci accompagna per parecchi giorni (Watzlawick, op. cit., pag. 41).

A questo riguardo Watzlawick (op. cit., pag. 44) racconta una storia:
[blockquote style=”1″]Una vecchia zitella che abita in riva al fiume chiama la polizia per avvertirla che, davanti a casa sua, alcuni ragazzi fanno il bagno nudi. L’ispettore manda sul posto uno dei suoi uomini, che ordina ai ragazzacci di andare a nuotare più in là, dove non ci sono più case. Il giorno seguente la donna telefona di nuovo: i ragazzi si vedono ancora. Il poliziotto torna e li fa allontanare di più. Dopo un po’ l’ispettore è nuovamente chiamato dall’indignata signora, che si lamenta: “Dalla finestra della mia soffitta li posso vedere ancora con il cannocchiale!”. A questo punto ci si può chiedere: cosa farebbe la signora se i ragazzi scomparissero finalmente dalla sua visuale? [/blockquote]

Gli aspetti neuropsicologici del disturbo depressivo maggiore

Il disturbo depressivo maggiore e il funzionamento neuropsicologico

Il disturbo depressivo maggiore si configura come un disturbo complesso, caratterizzato da una sintomatologia poliedrica che implica aspetti somatici, aspetti psicologici e – anche neuropsicologici. Considerando che uno dei criteri diagnostici riguarda la difficoltà di concentrazione e di regolazione dell’attenzione è possibile che in relazione al disturbo depressivo maggiore vi sia anche un deficit nel funzionamento neuropsicologico, e in particolare nell’attenzione e nelle funzioni esecutive.

Le funzioni esecutive possono essere definite come l’insieme di quelle capacità che consentono alla persona di impegnarsi efficacemente in un comportamento orientato a un proprio scopo; le funzioni esecutive entrano in gioco ad esempio attraverso la pianificazione, il ragionamento, la memoria di lavoro e la focalizzazione dell’attenzione e le risposte inibitorie che ci consentono di evitare le distrazioni e rimanere concentrati (Parker, Bouke, Gallagher, 2007).

La difficoltà di concentrazione e la tendenza a focalizzarsi solo su stati mentali negativi è una delle caratteristiche principali della depressione. La depressione può portare a difficoltà nelle attività cognitive – che si riflettono nel funzionamento neuropsicologico – come le funzioni esecutive e la flessibilità cognitiva, inclusa soprattutto la capacità di concentrarsi su qualcosa di diverso dal proprio malessere (attenzione selettiva). Di conseguenza, è facile e frequente che si instuari un circolo vizioso depressivo in cui umore e aspetti cognitivi-neuropsicologici si autoalimentanto in senso peggiorativo (in termine tecnico, il cosiddetto “mood congruity effect”).

Nella complessa interdipendenza tra l’umore depresso e il funzionamento neuropsicologico, alcuni studi indicano che in pazienti in remissione nonostante il miglioramento del tono dell’umore, la disfunzionalità neuropsicologica non migliora (ad esempio vedasi lo studio di Douglas, Porter, Knight, 2011) e potrebbe altresì essere un fattore predittivo di ricadute nel medio-lungo termine (Withall, Harris, Cumming, 2009). Questo ha prodotto un crescente interesse rispetto ai cambiamenti neuropsicologici prodotti dai trattamenti psicoterapeutici per la depressione.

 

La psicoterpia metacognivita e gli aspetti neuropsicologici del disturbo depressivo maggiore

La terapia metacognitiva interviene sui processi cognitivi – piu che sui contenuti dei pensieri – e in tal modo è in grado di intercettare secondo un modello teorico specifico i deficit neuropsicologici implicati nella depressione. In particolare la sindrome cognitivo-attentiva consiste in un insieme di diverse forme di pensiero ripetitivo e perseverante, tra cui il rimuginio, la ruminazione, l’attenzione selettiva su stimoli minacciosi, le strategie di coping e comportamenti autoregolatori disfunzionali (ad esempio evitamento e soppressione dei pensieri). Tali forme di pensieri e processi attentivi maladattivi piuttosto che ridurre i sintomi depressivi hanno l’effetto controproducente di incrementarli. E’ evidente come in tali processi i fattori chiave dal punto di vista neuropsicologico siano proprio l’attenzione e le funzioni esecutive.

Il training attentivo e’ una delle tecniche utilizzate dall’approccio metacognitivo. Il training attentivo consiste nella pratica di compiti di attenzione selettiva (la capacita’ di prestare attenzione selettivamente a certi stimoli e non ad altri)  di attenzione divisa (la capacita’ di concentrarsi su piu’ compiti contemporaneamente) e di switching attentivo. Ad esempio il training attentivo mira a migliorare la capacità attentiva, aiutando il paziente a flessibilizzare la propria attenzione spostandola su stimoli non congruenti (dal punto di vista della valenza edonica emotiva) al proprio umore e ai propri stati affettivi. In questo modo si inizia a interrompere il circolo vizioso tra umore depresso e concentrazione su stimoli congruenti a stati mentali negativi.

Diversi studi dimostrano l’efficacia del training attentivo nel trattamento della depressione (Papageorgiou & Wells, 2007; Wells, Fisher, Myers, et al., 2012) e nel miglioramento del funzionamento neuropsicologico degli stessi pazienti depressi:  nello studio di Siegle, Ghinassi e Thase (2007) i pazienti che avevano ricevuto un training attentivo e di controllo cognitivo presentavano migliori performance nei tasks di funzioni esecutive, e una maggiore riduzione dei livelli di ruminazione (Siegle, Price, Jones, 2014).

Uno studio recente (Groves et al., 2015) ha mostrato come la Terapia Metacognitiva riesce a ridurre l’umore depresso e favorisce il cambiamento positivo di funzioni neuropsicologiche come la memoria di lavoro e le funzioni esecutive. In particolare lo studio ha voluto confrontare gli effetti della terapia metacognitiva e della terapia cognitivo-comportamentale standard sulle funzioni esecutive e su processi attenzionali nei pazienti con disturbo depressivo maggiore. A metà del  trattamento non si sono rilevate differenze sostanziali tra le due terapie nell’influenzare il funzionamento neuropsicologico, con lievi effetti migliorativi per entrambe le condizioni.

Tuttavia al termine del trattamento (dopo 12 settimane di psicoterapia) la terapia metacognitiva risulta essere significativamente più efficace rispetto alla terapia cognitivo-comportamentale standard nell’intervenire sulla memoria di lavoro, sulle funzioni esecutive e sull’attenzione. Va sottolineato però che i cambiamenti neuropsicologici riscontrati al termine della terapia sono indipendenti dal miglioramento del tono dell’umore – variabile rispetto alla quale entrambe le tipologie di terapia si sono dimostrate efficaci. La terapia può essere un intervento di impatto significativo non solo sul livello di umore ma anche sul miglioramento di funzioni neuropsicologiche solitamente associate alla ricaduta.

 

Congresso Internazionale Terapia Metacognitiva Milano 2016

Ansia nelle immersioni subacquee: come riconoscerla e prevenire il panico

Ansia nelle immersioni subacquee: Andare sott’acqua costituisce, di per sé, una situazione potenzialmente stressante, in quanto l’acqua non è l’elemento “naturale” dell’essere umano e per sopravvivere il subacqueo si affida completamente alla propria attrezzatura, che potrebbe presentare malfunzionamenti. Inoltre, le condizioni dell’ambiente acquatico possono mutare velocemente, costringendo il subacqueo a rivedere la pianificazione dell’immersione, affrontando, a volte, situazioni disagevoli (forte corrente, poca visibilità). Sembra essere, quindi, fondamentale, la capacità dell’individuo di gestire l’ansia nelle immersioni subacquee prima che questa sfoci in panico, limitando i comportamenti che possono risultare dannosi.

Giulia Borsari, OPEN SCHOOL STUDI COGNITIVI MODENA

Ansia nelle immersioni subacquee: introduzione

L’attività subacquea ha subito, negli ultimi anni, una profonda trasformazione: da sport riservato a pochi esperti, dotati di grandi capacità fisiche, che si immergevano in solitaria per scoprire tesori e luoghi inesplorati, è diventata un’attività ludica di massa, aperta ad un vastissimo pubblico. Questo è stato possibile grazie alle innovazioni tecnologiche che hanno permesso a tutti (anche i portatori di handicap) di effettuare piacevoli immersioni, alla scoperta dei fondali e dei colori nascosti a diverse profondità, rispondendo alla curiosità ed al bisogno di superare i propri limiti che da sempre caratterizza l’umanità.

Questo più facile accesso al mondo subacqueo ha portato ad interrogarsi sulla sicurezza in immersione, sia dal punto di vista tecnico (quali sono le profondità massime? Quali i tempi di immersione più indicati?), sia dal punto di vista comportamentale. A questo proposito, le didattiche sottolineano l’importanza del sistema di coppia (non ci si immerge mai da soli), del controllo (quasi ossessivo) della propria attrezzatura e di quella del compagno, del monitoraggio del proprio stato fisico e psicologico.

Numerosi autori si sono interrogati per individuare un protocollo psicoattitudinale da affiancare a quello medico nella selezione di chi pratica la subacquea (Biersner, 1971; Zannini e Montinari, 1971; Morgan, 1983; De Marco, 1987; Hunt, 1993; Nevo e Breitstein, 1999; Gargiulo, 2003; Venza e Mandalà, 2005), senza tuttavia giungere ad una conclusione comune. Si evidenzia, tuttavia, la rilevanza dell’ansia e dei fattori che predispongono a sviluppare panico in situazioni stressanti (Bachrach e Egstrom, 1987; Morgan, 1995).

Andare sott’acqua costituisce, di per sé, una situazione potenzialmente stressante, in quanto l’acqua non è l’elemento “naturale” dell’essere umano e per sopravvivere il subacqueo si affida completamente alla propria attrezzatura, che potrebbe presentare malfunzionamenti. Inoltre, le condizioni dell’ambiente acquatico possono mutare velocemente, costringendo il subacqueo a rivedere la pianificazione dell’immersione, affrontando, a volte, situazioni disagevoli (forte corrente, poca visibilità). Sembra essere, quindi, fondamentale, la capacità dell’individuo di gestire l’ansia nelle immersioni subacquee prima che questa sfoci in panico, limitando i comportamenti che possono risultare dannosi.

Infatti, in una situazione di panico, il sub ha una sola cosa in mente: raggiungere la superficie il più in fretta possibile; in queste circostanze è molto facile che egli dimentichi la regola fondamentale della subacquea: respirare sempre per evitare che risalendo in superficie l’aria contenuta nei polmoni, non più sottoposta a pressione, si espanda causando lesioni polmonari. D’altra parte, se abbiamo la sensazione di non riuscire più a respirare (così comune negli attacchi di panico) la cosa che istintivamente ciascuno farebbe sarebbe cercare di raggiungere la superficie, trattenendo quel poco di aria che ancora ci sembra di avere. Statistiche del DAN (Divers Alert Network, 1999) sostengono che il panico è responsabile del 20-30% degli incidenti mortali che si verificano nel corso di un’immersione ed è probabilmente la prima causa di morte nelle attività subacquee. Sembra, inoltre, che l’eventualità di sviluppare un attacco di panico nel corso di un’immersione non sia prerogativa dei neo-brevettati: Morgan (1995) ha rilevato che oltre la metà dei sub esperti che si sono sottoposti ad intervista ha sperimentato almeno una volta un attacco di panico. Sembra pertanto utile cercare di capire quali siano le caratteristiche dell’ansia nelle immersioni subacquee, se vi siano peculiarità rispetto alle crisi che si verificano sulla terraferma, al fine di sviluppare sistemi di gestione sempre più efficienti.

 

Ansia nelle immersioni subacquee: conoscere l’ansia

L’ansia è uno stato d’animo normale, utile e con funzione protettiva. In particolare, ci segnala la presenza di una potenziale minaccia per la nostra sopravvivenza e per il nostro benessere. Questo segnale induce il nostro Sistema Nervoso Autonomo ad attivarsi per dare una pronta risposta alla potenziale minaccia avvertita, nella forma di una risposta di attacco o di fuga. In particolare, questa attivazione (arousal) comporta una risposta fisiologica e cognitiva: dal punto di vista fisiologico si sperimenta un aumento della velocità del respiro, che diventa però sempre meno profondo, un aumento del battito cardiaco, una aumentata sudorazione, una maggiore tensione muscolare (tutte reazioni che rendono più agevole una eventuale fuga o un eventuale attacco); dal punto di vista cognitivo si verifica una focalizzazione sulla potenziale minaccia (o problema), con lo scopo di trovare la soluzione più efficace per fronteggiarla.

È quindi evidente come l’ansia, a livelli moderati, sia funzionale ad ottenere una migliore performance, in quanto aiuta a mantenere la concentrazione sul proprio obiettivo ed un adeguato livello di motivazione. Tuttavia, un livello di ansia molto elevato tende a far concentrare l’individuo su se stesso e sulle proprie paure, allontanandolo dai propri obiettivi (Andrews, 2003). In particolare, l’individuo percepisce la situazione come minacciosa, considera le sue capacità di far fronte alla situazione come insufficienti e si concentra sulle conseguenze negative che conseguiranno al fallimento, piuttosto che cercare effettive soluzioni (Zeidner, 1998). Pertanto, un basso livello di ansia può aiutare il subacqueo ad essere più prudente, mentre uno stato d’ansia eccessivo può condurre ad una dimensione cognitiva e percettiva ridotta, in cui l’attenzione del subacqueo si sposta su timori e preoccupazioni, facendogli trascurare aspetti importanti, come la risalita lenta.

Il panico, invece, è caratterizzato da paura, capogiri, sensazione di svenire, sensazione di soffocamento, dispnea, paura di morire, impazzire o perdere il controllo; consiste quindi in una situazione in cui i sintomi sono più pronunciati, ha un esordio improvviso, raggiunge rapidamente il picco sintomatologico (10 minuti o meno), svanisce entro un’ora ed è spesso accompagnato da un senso di catastrofe imminente (paura di morire, impazzire o perdere il controllo) e dall’urgenza di allontanarsi. In queste circostanze, il pensiero razionale risulta “sospeso” e le persone possono agire in modo imprevedibile, tale da mettersi in pericolo (Barlow, 1988).

Studi epidemiologici sulla popolazione subacquea (Morgan, 1999) hanno evidenziato che il panico sembra essere più frequente nelle donne (64%; uomini 50%), che tuttavia sperimentano tale evento come una minaccia alla propria sopravvivenza in percentuale minore (35%, uomini 48%). Molti sono i fattori che possono essere individuati come stressor: la sensazione di non ricevere abbastanza aria, la preoccupazione rispetto a malfunzionamenti dell’attrezzatura, la percezione di non avere le capacità di affrontare la situazione, la perdita di familiarità con l’ambiente circostante (definita “Blu Orb Syndrome”, simile ad una forma di deprivazione sensoriale). Oggettive difficoltà e “semplici” pensieri possono quindi innescare una catena di pensieri negativi, in cui il subacqueo ipotizza le conseguenze peggiori possibili, fino a concludere che la propria sopravvivenza è a rischio e sviluppando un attacco di panico. Tali attacchi possono essere inaspettati (non provocati), quando il subacqueo non ha alcun fattore di stress apparente; causati dalla situazione (provocati), se si manifestano subito dopo o nell’attesa di un fattore scatenante situazionale (malfunzionamento dell’attrezzatura, perdita di orientamento, scarsa visibilità…); sensibili alla situazione, non invariabilmente legati allo stimolo stressante e si possono manifestare anche successivamente.

 

Ansia nelle immersioni subacquee: come riconoscerla

Non tutti i subacquei sperimentano ansia nelle immersioni subacquee o panico e non tutti i subacquei che sperimentano ansia in una determinata situazione reagiscono in modo irrazionale. Tali differenze sembrano essere da imputare all’importanza che lo stimolo stressante riveste per l’individuo coinvolto, al fatto che ci sia stato uno specifico addestramento ed ai risultati che tale addestramento ha avuto nel rendere il subacqueo sicuro di sé ed adattabile alle diverse situazioni impreviste. Sembrano giocare un ruolo importante anche alcune caratteristiche individuali quali, per esempio, la maturità e stabilità emotiva, la capacità di far fronte a situazioni stressanti, la velocità di risposta, oltre alla consapevolezza delle proprie abilità motorie e alla fiducia nei confronti del proprio compagno di immersione (Baddeley et al, 1975; Nevo e Breitstein, 1999; Dolmierski et al, 1980).

Alcune condizioni costituiscono fattori che, se non gestiti con grande attenzione, possono rendere pericolosa l’esperienza subacquea: claustrofobia, ideazione suicidaria, psicosi, ansia di tratto, grave depressione, stati maniacali. Capodieci (2006) propone una piccola batteria di test per riconoscere gli individui più suscettibili al panico, non con lo scopo di escluderli dall’attività subacquea quanto, piuttosto, al fine di predisporre per loro percorsi personalizzati volti a sviluppare le capacità di gestione dell’ ansia nelle immersioni subacquee. Tali test sono:
– Clinical Anxiety Scale (CAS) di Thyer, un test di screening volto alla misurazione della quantità, del grado e della gravità dell’ansia (Thyer, 1992);
– Stait-Trait Anxiety Inventory (STAI) di Spielberger, che permette di identificare l’eventuale predisposizione all’ansia e al panico e differenzia l’ansia di stato, dovuta ad una situazione di vita del soggetto, dall’ansia come tratto di personalità (Spielberger et al, 1970);
– Self-rating Anxiety Scale (SAS) di Zung, una sorta di promemoria che il subacqueo passa in rassegna per addestrarsi a quantificare il proprio livello di ansia.

Come anticipato, tale batteria non è volta all’esclusione dall’attività subacquea di persone con predisposizione all’ansia, in quanto essa può essere superata con l’aiuto dell’esperienza e dell’addestramento.

 

Ansia nelle immersioni subacquee: prevenzione e trattamento

L’attività subaquea si caratterizza come una costante scoperta di un mondo parallelo, dove l’essere umano è ospite e dove ogni scorcio, ogni guizzo, è unico; l’uomo non si muove nel proprio elemento naturale e l’attività respiratoria, normalmente scontata ed automatica, diviene oggetto di attenzione. I problemi maggiormente associati con gli incidenti subacquei sono correlati alla respirazione e comprendono la mancanza di fiato e la difficoltà a respirare (reale o percepita) e la tachipnea (respirazione rapida) o iperpnea (respirazione più profonda) (Childs, Norman, 1978). Gli autori sottolineano come sia proprio l’alterazione nella respirazione (il passaggio da una respirazione normale ad una respirazione accelerata o con un diverso pattern) a costituire un segnale di ansia, riconoscibile dal subacqueo stesso e dai suoi compagni ed istruttori.

Allo stesso tempo, tra tutti i compiti che un soggetto deve svolgere per adattarsi sott’acqua, il cambiamento nella respirazione è sicuramente il più importante (Fagraeus, 1981). Innanzitutto, dalla respirazione nasale si passa a quella attraverso la bocca; inoltre la stessa sequenza della respirazione si modifica: mentre in superficie il pattern del respiro è, tipicamente, costituito da inspirazione – espirazione – pausa, in acqua tale pattern diviene inspirazione – pausa – espirazione. Non dimentichiamo poi la presenza della maschera, che influenza anche la capacità di prestazione visiva, oltre a contribuire al senso di ostruzione.

Appare quindi di centrale importanza proprio la gestione del respiro, come valida tecnica di gestione dell’ansia: controllando il ritmo e la profondità del respiro si previene quella che in superficie viene definita come iperventilazione. Tra le tecniche più efficaci nella gestione dell’ansia nelle immersioni subacquee troviamo la desensibilizzazione sistematica, utile per ridurre le preoccupazioni di quegli allievi che pur desiderando approcciarsi al mondo sommerso sono preda di timori quali la difficoltà di respirare sott’acqua o l’impossibilità di risalire al momento desiderato. Tale tecnica permette di definire una graduatoria di stimoli ansiogeni, che vengono affrontati gradualmente sia attraverso esperimenti immaginativi, sia attraverso esperimenti in vivo, in cui l’allievo, accompagnato dalla guida esperta di un istruttore e, quindi, in condizioni di sicurezza, sperimenta le proprie capacità e l’effettiva difficoltà della situazione temuta.

Altra tecnica utile è il flooding (tecniche implosive), soprattutto nella sua forma immaginativa, che consiste nel prospettare all’individuo uno scenario negativo e fortemente ansiogeno, così da aiutarlo a mettere in atto tecniche di problem solving, mantenendo sempre una condizione di sicurezza. Le tecniche cognitivo-comportamentali sembrano essere fortemente indicate, visti anche i successi ottenuti nel trattamento dei disturbi d’ansia più in generale. Tali tecniche permettono infatti di identificare, contestare e sostituire i pensieri automatici negativi che si celano sotto il timore cosciente sperimentato dall’individuo. In particolare, tali tecniche permettono di andare ad indagare gli scenari temuti, che spesso sono ancora più spaventosi in quanto percepiti come catastrofici ma indefiniti; inoltre consentono di ridurre il tempo dedicato al rimuginio su pensieri negativi ed intrusivi, ad esempio con la tecnica dello “stop del pensiero”.

Le principali didattiche riconoscono il potere stressante di molteplici situazioni e l’efficacia delle terapie cognitivo-comportamentali e propongono una specie di mantra che ogni subacqueo dovrebbe ripetersi e al quale dovrebbe affidarsi: la formula Fermati – Respira – Pensa – Agisci. Tale sequenza è volta proprio alla gestione di situazioni potenzialmente stressanti che, se affrontate sull’onda dell’ansia e della preoccupazione che inevitabilmente generano, possono evolvere in incidenti anche gravi. Questa formula sottolinea, come già fatto precedentemente, l’importanza del respiro, sia come fonte d’aria necessaria per la sopravvivenza, sia come ancora per mantenere il contatto con la realtà senza farsi travolgere dal panico. Tale strategia cognitiva appare particolarmente utile nella gestione degli attacchi di panico causati dalla situazione, mentre non sembra essere altrettanto efficace per le forme di panico inaspettato (Capodieci, 2006).

 

Conclusioni

In conclusione sembra possibile affermare che vi siano soggetti maggiormente predisposti a sviluppare ansia nelle immersioni subacquee; in particolare, persone con un’elevata ansia di tratto e con convinzioni negative su di sé e sulle proprie capacità di affrontare e gestire le situazioni. Non sembra tuttavia possibile descrivere queste persone come “inadeguate” all’attività subacquea, in quanto proprio grazie alla pratica di questa attività possono sperimentarsi come persone capaci e possono acquisire nuove strategie di gestione dell’ansia, che possono risultare utili nella vita quotidiana.

Appare tuttavia importante poter identificare questi individui al fine di offrire loro un percorso di formazione e di addestramento personalizzato, che rispetti i loro tempi e le loro necessità, dando modo agli istruttori di approfondire e sviluppare gli esercizi più adeguati ad implementare la sensazione di sicurezza e di controllo durante un’immersione. Aspettative negative e preoccupazioni sono aspetti che possono fare sperimentare una situazione come più negativa di quanto essa sia, spesso ancor prima di sperimentarla, provocando quindi una condizione di stress; è quindi fondamentale che chi pratica l’attività subacquea sviluppi un buon dialogo con se stesso relativo al proprio stato d’animo, oltre che buone capacità di assertività per riuscire a rispettare le proprie necessità, anche quando questo comporta rinunciare ad un’immersione e ammettere, davanti a tutti, di non sentirsi in grado.

La comprensione della fisica nei bambini: non parlano, non camminano, ma i lattanti conoscono già la fisica dei liquidi

Nasciamo equipaggiati con un bagaglio di nozioni di fisica di base, quel che basta per non essere colti di sorpresa quando interagiamo con gli oggetti. Gli scienziati lo hanno scoperto negli ultimi due decenni. Quello che non sapevano ancora però era che questa fisica “ingenua” già a soli cinque mesi di vita si estende anche ai liquidi e a quei materiali che non si comportano come solidi (la sabbia per esempio), come dimostra un nuovo studio pubblicato su Psychological Science.

SISSA, Scuola Internazionale Superiore di Studi Avanzati

 

Se prendiamo una palla in mano, la lasciamo andare e questa rimane sospesa per aria, anche un bambino di pochi mesi rimane sorpreso. Proprio come un adulto, si aspetta che l’oggetto cada. Anche così piccolo l’essere umano possiede già alcuni rudimenti sul comportamento dei solidi. Ora un nuovo studio amplia questa conoscenza, inserendo nella “fisica ingenua” dei bambini anche i liquidi e altri non-solidi.

[blockquote style=”1″]Questo nuovo lavoro nasce sulla base di esperimenti precedenti dove avevamo osservato che i bambini si sorprendevano quando un liquido non si comportava da liquido, (negli esperimenti ‘baravamo’ mascherando un solido da liquido)[/blockquote] spiega Alissa Ferry, ricercatrice della SISSA fra gli autori della ricerca. La loro sorpresa, spiega Ferry, dimostra che le aspettative sul liquido erano disattese. [blockquote style=”1″]Quello che però non potevamo ancora stabilire era se i bambini sapessero come si doveva comportare il liquido, o se semplicemente si aspettassero che fosse diverso da un solido.[/blockquote]

Ferry e colleghi (la prima autrice dello studio è Susan Hespos della Northwestern University in Illinois, USA, dove sono stati condotti gli esperimenti) hanno perciò ideato una nuova serie di prove con una gamma più ampia sia di materiali che di “interazioni” col materiale. In una prima fase di “abituazione”, il contenuto di un bicchiere veniva mostrato ai bambini, inclinato davanti ai loro occhi. Il bicchiere poteva contenere un solido (che nell’aspetto da fermo era indistinguibile dall’acqua), o dell’acqua. Quando il bicchiere veniva inclinato avanti e indietro, i due materiali si comportavano in modo diverso: il solido restava perfettamente fermo, l’acqua si muoveva. Questa fase serviva a far capire al bambino se stava guardando un solido o un liquido.

Abnituation to liquids and solids - 1

Successivamente i bambini osservavano un bicchiere identico a quello della fase precedente (facendo loro credere che si trattava dello stesso) che in realtà poteva contenere lo stesso materiale che avevano già visto o quello opposto. A questo punto i bambini osservavano lo sperimentatore che rovesciava il contenuto del bicchiere in un altro recipiente con sopra una griglia, oppure immergeva la griglia (o la appoggiava se si trattava del solido) dentro al bicchiere.

[blockquote style=”1″]Negli esperimenti precedenti ci limitavamo a versare il contenuto del bicchiere. Questa volta abbiamo aggiunto la griglia per verificare se davvero i bambini comprendevano la bassa coesività del liquido, che può passare attraverso una superficie forata e ricomporsi nella bacinella, a differenza di un solido che, essendo altamente coesivo, non passa attraverso un altro solido[/blockquote] spiega Ferry.

Nella fase di abituazione infatti i bambini potevano sapere come il liquido si deforma con il movimento, ma non era chiaro se fossero in grado di usare questa conoscenza per comprendere le proprietà dei liquidi. [blockquote style=”1″]Se i bambini capiscono le proprietà dei liquidi, allora dovrebbero sorprendersi nel vedere che quello che pensano essere un liquido rimane intrappolato nella grata.[/blockquote]

Abnituation to liquids and solids - 2

 

E infatti l’analisi del comportamento dei bambini dimostra che quando si aspettavano un liquido restavano stupiti a vederlo bloccarsi sulla grata (o vedendo la griglia che non riesce a immergersi nel materiale). Viceversa se credevano di guardare un solido, allora si sorprendevano a vederlo passare attraverso la grata.

Nello studio sono stai usati anche altri materiali, come la sabbia e delle biglie di vetro. [blockquote style=”1″]Anche in questo casi i bambini mostravano di conoscere il comportamento delle sostanze. Questo è particolarmente interessante perché se possiamo immaginare che anche a soli 5 mesi i lattanti abbiano già una certa esperienza diretta con i liquidi, l’acqua in particolare, fra poppate, bagnetti e 9 mesi di permanenza nel liquido amniotico, è improbabile che abbiano incontrato molte volte la sabbia o le biglie colorate. Questo suggerisce che i bambini hanno una comprensione ‘ingenua’ della fisica delle sostanze non-solide[/blockquote] conclude Ferry.

Dopo i 18 anni non si è più autistici: l’imbarazzante paradosso italiano

Nessuno lo trova imbarazzante? Io lo trovo imbarazzante, come probabilmente buona parte dei genitori che vivono la stessa paradossale esperienza di Gianluca Nicoletti di svegliarsi una mattina, esattamente il giorno del diciottesimo compleanno del figlio, sapendo che fino alla sera prima era autistico e da ora non lo sarà più.

I genitori lo sanno bene che non è certo un’etichetta diagnostica a condizionare il loro modo di guardare i propri figli ma sanno anche che, dopo 18 anni di calvario, questo è ciò che ha garantito loro quel minimo di servizi che lo stato dedica alla popolazione autistica.

L’autismo è una neurodiversità da cui non si guarisce, si nasce autistici e si muore autistici. Negare l’esistenza di un autismo “adulto” è un po’ come negare l’esistenza dell’autismo stesso e deresponsabilizzare tutta la società dal dovere di conoscere la cultura autistica per garantire l’inclusione dei suoi membri.

Si parla tanto di inclusione scolastica ma essa dovrebbe essere lo specchio di quanto attenderà tutti i nostri figli, autistici e non, una volta fuori dalle aule e invece spesso non è che un’esperienza a tempo determinato che vede nella scuola primaria il suo massimo splendore per poi spegnersi lentamente con il passare degli anni.

Per le famiglie degli autistici, più che per altri, questo percorso suona quasi come un avvertimento, preannuncia la fine dell’autismo dei propri figli e l’inizio di qualcosa che non si conosce se non con un’unica consapevolezza, quella che un’altra etichetta andrà appiccicata ma sarà sicuramente quella sbagliata.

 

 

[blockquote style=”1″]Nella norma l’entrata di un figlio nella maggiore età è un passaggio fondamentale per un genitore, si tira il primo sospiro di sollievo, si pensa (magari ci s’illude) che il più sia fatto, ora è un adulto in prima fila al teatro della vita, che vada… Già ma quelli come Tommy dove volete che vadano? Da maggiorenni gli autistici s’imbullonano definitivamente ai genitori, i loro punti di riferimento certi si assottigliano sempre di più con il crescere. Ogni routine quotidiana deve necessariamente essere abbandonata, e per un autistico questo corrisponde a un cataclisma cosmico. Quando Tommy non potrà più vedere il suo pulmino giallo, sarà la fine di un rito per lui vitale, come quei sacrifici che gli uomini antichi facevano perché ogni mattina potesse rispuntare il sole. La scuola non potrà tenerselo parcheggiato ancora per molto, anche ogni centro pomeridiano di abilitazione e terapia ha scritto su Tommy la data di scadenza. A diciotto anni fuori, loro si occupano solo di bambini, massimo adolescenti. E da chi lo facciamo visitare se ha problemi? Di autismo ne sanno solo (pochi) neuropsichiatri infantili e lui ha barba e baffi. Già qualcuno ci parla di quei tristissimi posti chiamati «diurni», proprio come i bagni e docce con le piastrelle ingiallite, costruiti ai margini dei binari per il confort veloce di viaggiatori sudati. Sono sempre parcheggi, finisce ogni pretesa di abilitazione, si viene considerati come infilatori di perline, innaffiatori di basilico, passeggiatinatori da marciapiede.[/blockquote]

 

Compie oggi 18 anni ed è autistico, la vita nuova di mio figlio TommyConsigliato dalla Redazione

Mio figlio autistico Tommy compie 18 anni. È un giorno da festeggiare perché da oggi non è più autistico. Mi piacerebbe dire che è stato un miracolo, ma è soltanto la guarigione forzata per cui sono… (…)

Tratto da: LaStampa.it

 

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Linguaggio Schizofrenico e Psicoterapia d’Intervento: dalla struttura del linguaggio al contesto clinico

Le caratteristiche del linguaggio schizofrenico sono un elemento nodale per l’inquadramento clinico e il successivo orientamento tecnico/terapeutico in corso di trattamento; le sue specificità contenutistiche e le peculiari organizzazioni sintattiche differiscono totalmente da quelle di altre patologie cliniche in ambito mentale.

 

Il linguaggio schizofrenico: introduzione

Il linguaggio schizofrenico è, più di ogni altra organizzazione comunicativa patologica, il portato tangibile dell’esperienza psicotica interna rispetto alla realtà oggettiva, soggettiva e intersoggettiva. In questo articolo, esaminando la schizofasia, ovvero l’uso schizofrenico del linguaggio e la sua propria forma di retorica, forniremo un quadro di riferimento comunicativo-diagnostico con alcune specificità d’intervento proprio in relazione alla comunicazione terapeuta-paziente nelle psicosi schizofreniche.

 

Psicofisiologia: la funzionalità schizofrenica

Le teorie, i modelli e gli approcci psicodinamici circa la schizofrenia sono numerosi ed essendo obiettivo di questo articolo il linguaggio schizofrenico in quanto tale, e la tecnica di interazione nel trattamento relativa, è opportuno volgere inizialmente l’attenzione sulla funzionalità psicofisiologica di tale disturbo tramite le evidenze sperimentali e strumentali capaci di fornire comunanze cliniche circa ogni scuola. Iniziamo col dire che gli studi sperimentali accreditati sembrano indicarci come i disordini del linguaggio schizofrenico siano in stretto rapporto con due elementi nodali: la modalità delirante, propriamente detta, con un disturbo formale positivo del pensiero.

Ciò a dire che è la perdita dei nessi associativi tra le idee e la “delimitazione” concettuale delle idee stesse a determinare le forme del linguaggio schizofrenico incoerente, illogico, tangenziale, deragliante, eccentrico (Bleuler 1985; Andreasen, Grove 1986); a questo dobbiamo aggiungere le analisi propriamente linguistiche – sintattiche e di associazione nei test carta/matita (anche simbolici) che hanno evidenziato come il pensiero disorganizzato, il deficit della memoria (a breve e a lungo termine) sarebbero apprezzabili indicatori di una condizione clinica meritevole d’attenzione, ciò specialmente per quanto riguarda test di valutazione dei ricordi e del linguaggio narrativo (Hoffman et al. 2011).

Più specificatamente, a livello di analisi strumentale, l’attivazione cortico-somatosensoriale, sui processi di organizzazione e controllo dell’azione, è stato dimostrato come abbia notevole ruolo nelle cinestesie, nei fenomeni di improvvisa “deriva” cognitivo-sensoriale e nelle allucinazioni uditive, ciò sino ad avere diretta e conseguente influenza nella stessa produzione linguistica schizofrenica (Frith 2004). L’esame alla risonanza magnetica funzionale (f MRI) avrebbe evidenziato due elementi centrali:
un’anomala attività delle aree cerebrali temporali e un’anomala attività delle zone parietali dell’emisfero sinistro (parte posteriore del giro temporale con specificità d’attività nel medio).

Questi due elementi sarebbero in relazione con la presenza delle allucinazioni uditive e con i fenomeni di dissociazione delle rappresentazioni lessicali e semantiche (Wible 2008). La conferma, indiretta ed incrociata, di questi elementi funzionali ci viene dall’utilizzo dei potenziali evento-correlati (ERPs) che confermano i problemi di memoria semantica (N400) e di comprensione verbale (P600) con disturbi d’onda emessa in P300 e ciò a livello delle aree: corticali temporali, frontali e parietali dell’emisfero sinistro (Sitnikova,2010; Ditman et al. 2011; Liddle et al, 2002).

 

Linguaggio schizofrenico: clinica psicoterapeutica

Le primissime osservazioni cliniche circa la schizofrenia inducevano a teorizzare una sorta di disturbo non specifico dell’organizzazione del linguaggio (Wible 2008), non del tutto distinguibile da un progressivo degrado delle funzioni cognitive. Tale sovrapposizione di elementi definì il termine di dementia o dementia precox. Il linguaggio schizofrenico infatti manifesta elementi semantici estremamente caratteristici ma difficilmente comprensibili in prima battuta e suscettibili di confusione con un deterioramento meccanico-funzionale delle capacità cognitive e di relazione (Frith 2004). Oltre la scarsa trasparenza dei segni linguistici, della loro incomprensibilità, del fatto che essi sembrano dei giochi di parole meta-ricorsivi, vi è la possibilità di trovare un senso condivisibile e terapeuticamente funzionale al linguaggio schizofrenico.

Nelle manifestazioni schizofreniche il significato delle costruzioni linguistiche rimane latente, oscuro, ambiguo; fatti, circostanze, ricordi, idee e sentimenti si perdono nella particellazione di un discorso che finisce col perdere il valore semantico comune e condiviso per privilegiare invece gli aspetti strutturali, esteriori. Allo stesso tempo non sembra avere molta importanza per lo schizofrenico la presenza e il riferimento a un altro da sé: in tali casi il coinvolgimento relazionale si conclude con le esperienze dissociative dell’Io, con il ritiro in sé del soggetto poiché l’altro – sia esso una persona o un evento qualsiasi – è percepito invariabilmente come alieno; si tratta di una struttura/processo in perenne divenire ove disgregazione e ristrutturazione ideativo/emotiva procedono per picchi dai nessi associativi del tutto interni, personali ed arbitrari.

Gli schizofrenici possono adoperare, nel corso della stessa seduta, un registro formale, manierato, incomprensibile, autoreferenziale come anche espressioni esplicite di uso corrente, estremamente dirette pur nella loro brevità e semplicità concettuale. Questo particolare flusso linguistico è il vero e proprio “andamento” della patologia stessa, ovvero il nucleo delirante dissociativo che incorpora, assembla, frammenti percettivi ed ideativi alimentando, ingrossando e contaminando il flusso interno di informazioni. È proprio questo, la labilità dei nessi associativi nelle idee, che favorisce l’overinclusion di elementi concettuali ridondanti, non contestuali o destrutturanti che determinano la rilevabile distorsione dei contenuti rappresentativi, simbolici, espressivi del discorso schizofrenico e si risolvono nei processi linguistici schizofasici (Cameron, 1944).

Questa area di confusività circa il linguaggio schizofrenico è da riferirsi all’uso massivo e alla ricorrenza delle seguenti strutture semantiche ascritte propriamente in questo disturbo, ovverosia:
neologismi;
paralogismi;
lapsus linguae.

Nodali, e ricorrenti, tra le strutture presentate sono i paralogismi (o parafasie) ovvero termini che assumono arbitrariamente il suono (fonema), il referente (reale o immaginario) e il significato (come anche il significante) di altre parole e/o suoni usati altrove correntemente, ciò soprattutto in modo quasi mai connesso a un contesto specifico o argomento. Nella pratica clinica che accoglie ed interagisce col paziente schizofrenico, si colgono enunciati incentrati nella forma di locuzioni olofrastiche, come anche le cosiddette druse verbali, queste ultime estremamente ed ulteriormente peculiari poiché sono “neoformazioni” di parole o di frasi condensati tra loro che, ad una prima analisi, rimandano ad una pluralità di concetti assemblati e confusi tra loro al fine di enucleare un solo e personalissimo concetto (Hoffman et al.2011). Queste ricorrenze e specificità di strutture semantiche destrutturano e frammentano – proprio come è il disturbo schizofrenico – la linearità concettuale e semantica della frase sino a condurre ad un inanellamento di micro concetti, estremamente brevi e all’apparenza non collegati tra loro, in una successione diversa dagli stimoli ambientali o dal referente in campo (Piro 1967).

Il focus del linguaggio schizofrenico non è tanto a livello della struttura sintattica delle frasi ma, piuttosto, ad un livello più profondo che tocca il senso individuale e il significato condivisibile, complessivo, dell’esperienza personale delirante per riflettersi, poi, in quello peculiare della parola come atto comunicativo e di azione nel mondo, con un costante ed inarrestabile rimbalzo del significato delle parole e delle espressioni verso categorie sempre più generiche e dai significati sfumati e/o confusi.

Si viene così a strutturare un “discorso” permeato di un “alone semantico”, senza un preciso inizio e senza reale fine:
– metalinguistico: una parola sottintende un’altra e da questa un’altra ancora in uno spostamento continuo di argomento e contesto.
– ambiguo: non vi è referente chiaro nelle asserzioni e il termine appena detto è metafora dell’altro a venire.
– allusivo: il significato di una parola o frase non è mai identificabile, il discorso è perennemente aperto ad ulteriori interpretazioni.
indeterminato: le frasi sono spesso neutre, senza chiara valenza di positività o negatività di opinione o vissuto verso qualcosa o qualcuno.

Da cui ne deriva la quasi completa dispersione del significato nel discorso schizofrenico.

Questo flusso continuo ma spaiato di concetto/i-contesto/i origina il vero e proprio “alone semantico” fatto di concatenazioni linguistiche incomprensibili, in forme glossolaliche, ovvero le specifiche e rilevabili “lingue” schizofreniche.

 

Cosa intendiamo con forme glossolaliche associate alle lingue schizofreniche?

Intendiamo (Cameron, 1944; Piro 1967; Hoffman et al.2011) l’insieme di flussi linguistici incomprensibili ma ben strutturati sintatticamente, tali da configurarsi come vere e proprie protolingue legate a un uso referenziale (delirante e allucinatorio) assolutamente privato e molto difficilmente condivisibile sul piano esperienziale e comunicativo. Esempi di questi flussi linguistici e protolingue sono:
– strutturare frasi al contrario
– usare una protolingua creata ad hoc e ciò con particolare riferimento ad una persona che condivide questa modalità o tendenza
– intervallare una frase positiva con una di senso avverso, alternando una lingua ad un’altra o mimando voci
– sottrarre consonanti o vocali (o anche entrambe ma secondo regole numeriche, ad esempio) ad una frase o discorso
– il “pensare” una parola, o frase, e disegnarla con la lingua sulla parete interna dei denti o praticare uno “spelling” lettera per lettera usando i denti
– il “mimare” una parola o frase agendola in tutto e per tutto in una rappresentazione catartica/isteroide di tipo delirante, con conseguenti manifestazioni ed effetti di irrefrenabile euforia o tristezza o disperazione oppure una vera e propria crisi.

 

Linguaggio schizofrenico: psicoterapia d’intervento

L’approccio terapeutico, inteso come identificazione-accoglienza della patologia ed interazione clinica con essa, deve essere centrato sull’importante distinguo relativo all’alterità del soggetto circa l’altro (un Tu referente) e del mondo (il contesto in vivo) (Andreasen N.C., Grove W.M., 1986; Frith C.D. 2004). In altre parole per lo specializzando in psicoterapia – sia psicologo che psichiatra – è opportuno sempre tenere in conto la “distanza” (o prossimità implicita) che il soggetto schizofrenico e/o paranoide stabilisce ed agisce nelle sue fasi, siano esse episodiche.
In altre parole: nella pratica clinica è la presenza o meno di un tu, rispetto ai discorsi ed affermazioni, del paziente ad orientare il dialogo clinico e strategico.
L’assenza totale di un Tu nella mente schizofrenica rimanda al già enunciato concetto di Nevrosi Narcisistica di freudiana memoria.

Il linguaggio schizofrenico è l’implosione di un soliloquio senza cornice, dove significante e significato si fondono e confondono in una progressione ora lenta, ora veloce, ora ricca ora povera di termini (Sitnikova,2010; Ditman et al. 2011; Liddle et al, 2002). Il clinico avrà la necessità di considerare la fertilità ed “espansione” stessa di questo eloquio anziché il significato reale di questo, come a dire che sarà la frequenza e flusso del linguaggio a determinare il livello di dialogo tra paziente e terapeuta ponendo a parte la pretesa – pur giusta e logica ma in questo caso fuorviante – del “cosa significa tutto questo”. Il significato del suo linguaggio, per lo schizofrenico, è il contatto continuo col suo mondo interno imploso e il tentativo, ora discreto ora inefficace, di “organizzarsi” internamente in una struttura coerente, stabile, capace di scambio.

Rispetto alla schizofrenia la difficoltà è e sarà sempre far concentrare il soggetto su di un referente reale, normativo se si vuole usare questo termine, dialogante e solido, ed in questo è la difficoltà sostanziale di un’alleanza terapeutica e processo terapeutico continuativo con obiettivi terapeutici raggiungibili (Wible C.G., 2008).
Le specifiche psicopatologiche derivanti dall’analisi del linguaggio schizofrenico e le conseguenti attenzioni/azioni cliniche, ad esso relative, sono presentate, esposte e specificate in quanto segue:

– Il linguaggio non ha un referente, non c’è un Tu cui si è rivolti (C. McDonald, K.Schulze, R.M. Murray, P. Wright, 2004)
– I significati e significanti tra loro sono scambiati, interpolati ed espansi
– Non vi è una cornice contestuale di riferimento
– Il confine Io-Tu è abbattuto da percezioni corporee al limite della cinestesia e l’accadimento psicologico è anche l’accadimento psichico e viceversa (C. McDonald, K.Schulze, R.M. Murray, P. Wright, 2004)
– L’eloquio non ha un perché, non ha un tangibile ed intellegibile significato immediato. Il clinico deve “imparare” quella forma particolare di linguaggio soggettivo di quello specifico paziente come fosse una lingua nata e sviluppata in base ad una storia di sofferenza mentale (Wible C.G., 2008).

– Il linguaggio schizofrenico porta comunque una particolare forma di condivisione e disvelamento di eventi traumatici, di conflitti passati e presenti come, anche, del cosiddetto “segreto terapeutico” ovvero del nucleo cognitivo/affettivo restante che serba l’evento traumatico psicologico. Il clinico deve avere disposizione alla massima attenzione ai concetti e sfumature di essi poiché è nelle pieghe di questo linguaggio che risiedono informazioni preziosissime pur non manifeste (C. McDonald, K.Schulze, R.M. Murray, P. Wright, 2004).

– Annotare le forme grammaticali ricorrenti ed i termini maggiormente utilizzati dal paziente. Sono nodi linguistici e concettual-esperenziali che si ripropongono con una certa frequenza, la chiave di accesso alla relazione col paziente schizofrenico è in queste ricorrenze (Wible C.G. ,2008).
A seguito di queste ricorrenze e stabilita una anche pur labile forma di alleanza terapeutica, il clinico sposterà l’attenzione del setting terapeutico e del paziente stesso sui referenti di questi nodi concettuali ed esperenziali, identificando le figure di riferimento a tali nodi (C. McDonald, K.Schulze, R.M. Murray, P. Wright, 2004).
– Mappa Comunicativa: rappresentare graficamente, con uno schema, l’eloquio schizofrenico ed i suoi contenuti (la sintassi, i termini, le ricorrenze, i referenti) aiuterà a creare una mappa d’intervento con e sul paziente. Vi si troveranno almeno due o tre ricorrenze che dovranno poi essere integrate in una ideale life-spam line timing (linea del tempo del paziente, vita e cicli vitali), andando a porre enfasi sulla sequenza di eventi occorsi nella storia clinica sì da individuare i punti di “frattura” interna e le debolezze dell’Io circa la progressione del disturbo (C. McDonald, K.Schulze, R.M. Murray, P. Wright, 2004).
– Creare un ambiente di riferimento stabile (spazio): ciò significa assicurare allo schizofrenico un ambiente il più stabile, coerente e persistente nel tempo possibile. I dialoghi, i confronti o le conversazioni troppo animate devono essere evitate; bisogna rivolgerglisi con fare calmo e parole semplici, frasi brevi, spiegando semplicemente ciò che si fa o si sta per fare (J.S. Kasa-nin, 2012).

– Creare un ambiente di referenza stabile (tempo): indispensabile è provare a stabilire e a far ottemperare qualche minima regola riguardante l’igiene, le sigarette, scandire la giornata con attività di routine normative ed integrative (sveglia, igiene personale, attività intermedie, pasto, passeggiate, ecc.) (J.S. Kasa-nin, 2012).
– Dialogare senza Effrazione: questa specificità è nodale nel setting terapeutico ma è anche una consegna e modalità di relazione che, nel caso vi siano, deve essere volta a familiari ed amici. Un dialogo senza effrazione verbale è un dialogo percepito dallo schizofrenico come non invasivo e facilita, nel quadro di una terapia farmacologica e psicoterapeutica, una strutturazione ideativa. Critiche, imposizioni, minacce il più delle volte non sono nemmeno percepite mentre, in fase fertile, possono essere restituite al contesto in gravi crisi o atti distruttivi. La preferenza va data agli incoraggiamenti piuttosto che alle rimostranze (C. McDonald, K.Schulze, R.M. Murray, P. Wright, 2004; J.S. Kasa-nin, 2012).
– La Risorsa Sistemica: la cerchia di familiari e amici gioca un ruolo importante nel far rispettare le prescrizioni farmacologiche, gli appuntamenti terapeutici e di follow up. Ridondante è la questione della terapia farmacologica e ciò essenzialmente per i relativi e commisurati effetti collaterali, alcuni sono transitori, scompaiono dopo qualche giorno di trattamento, altri possono essere corretti con farmaci o devono condurre a modificare la terapia. Se un’altra persona, in casa, segue un qualsiasi tipo di altra terapia, può essere utile instaurare un momento in comune per l’assunzione dei farmaci, al fine di ridurre i rischi di dimenticanza o negligenza (C. McDonald, K.Schulze, R.M. Murray, P. Wright, 2004; J.S. Kasa-nin, 2012).
– Nella crisi schizofrenica (Piro S., 1967; J.S. Kasa-nin, 2012) è spesso agitato, angosciato, in preda ad allucinazioni o a idee deliranti. Le azioni concomitanti debbono essere tese a contenere onde evitare un suo aggravamento ulteriore o passaggi all’atto. Quindi attenersi a quanto segue:

a) è preferibile essere soli col paziente, anche se ci sono persone in una stanza vicina, e rassicurarlo parlandogli dolcemente nel modo più normale possibile;
b) nessun contatto fisico o fissarlo negli occhi o prossimi fisicamente, men che meno bloccare le uscite (ciò per evitare che il paziente si senta minacciato e per proteggere la persona che è con lui/lei);
c) esprimere empatia, chiedendo cosa c’è che non va o commentando ciò che sente (n.b. riformulazione sull’evidenza:“Hai paura?”), senza moltiplicare o complicare le domande o iniziare dialoghi. Formule semplici, ripetute in modo identico, ciò contiene e minimizza ulteriori destabilizzazioni (Piro S., 1967; J.S. Kasa-nin, 2012).

 

Conclusioni

La struttura e il significato delle proposizioni schizofreniche, e delle sue molteplici variazioni e declinazioni schizofreniformi, invitano se non impongono allo specialista una curva specifica di neo-apprendimento e dimensionamento dell’intervento su specifiche, sia psicopatologiche che d’intervento. Un’analisi della psicofisiologia specifica del disturbo schizofrenico, gli studi su questo specifico meta-linguaggio – e sulle sue dislocazioni psicopatologiche – facilitano la clinica alla progettazione ed attuazione di un piano terapeutico e d’intervento. Il cogliere contributi multidisciplinari, direziona ed agevola nella ipotesi diagnostica e di cura, alla costruzione, ogni volta sempre più specifica a seconda del caso, di un attuned intervention ove il generale della patologia e il particolare del soggetto possono incontrare adeguata risposta ed aumentata efficacia.

Terapia della bambola (Doll Therapy): un aiuto alla persona con demenza

Attualmente sono disponibili diverse terapie per il trattamento non farmacologico delle demenze. Un intervento che trova ampio utilizzo nella pratica clinica è la cosiddetta terapia della bambola (Doll Therapy), che nasce all’interno della terapia del giocattolo.

Nelle malattie accomunate da un progressivo decadimento cognitivo, come le demenze, emergono con il passare del tempo sintomi psichiatrici e comportamentali (spesso indicati con l’acronimo BPSD, Behavioural and Psychological Symptom of Dementia).

Considerato il crescente numero di persone con demenza, si sente sempre più forte il bisogno di interventi personalizzati per attenuare i sintomi associati a questa condizione. Circa il 90% degli anziani con demenza presenta almeno un sintomo della demenza BPSD tra cui vengono inclusi: sintomi psicotici, agitazione, disturbi dell’umore come depressione, apatia e iperattività (Alzheimer Society 2014).

Kitwood (1997) sostenne che i sintomi della demenza BPSD non sono semplicemente il risultato di cambiamenti organici del cervello ma, la conseguenza della relazione tra questi cambiamenti e l’ambiente psicosociale. Per muoversi verso un modello olistico di cura alle persone con demenza, è importante limitare l’uso di farmaci neurolettici ed esplorare altri interventi per migliorarne la cura e la qualità di vita. L’uso di interventi non farmacologici nella cura del disagio invita gli operatori sanitari ad assumere un approccio di cura centrato sulla persona.

 

La terapia della bambola per i sintomi della demenza

Attualmente sono disponibili diverse terapie per il trattamento non farmacologico dei sintomi della demenza BPSD. Un intervento che trova ampio utilizzo nella pratica clinica è la cosiddetta terapia della bambola (Doll Therapy), che nasce all’interno della terapia del giocattolo, diffusasi negli anni ‘80 negli USA e in Australia. Gli studi osservarono che l’uso dei giocattoli favoriva sentimenti positivi di attaccamento e sicurezza, miglioramenti nella comunicazione, e una diminuzione dei comportamenti aggressivi e oppositivi, in anziani con varie forme di demenza.

Attraverso un’analisi retrospettiva condotta su anziani con diagnosi di demenza residenti in casa di riposo, Ellingford, James, e Mackenzie (2007) hanno rilevato un aumento di comportamenti positivi (come impegnarsi in attività) e una diminuzione di comportamenti aggressivi nei residenti coinvolti nella terapia della bambola (Doll Therapy) rispetto ai soggetti che non la utilizzavano. Heathcote e Clare (2014) hanno riportato 12 casi di pazienti che hanno mostrato grandi benefici dalla terapia della bambola come: diminuita agitazione, aumento delle interazioni, e un miglioramento dell’appetito. Ulteriori studi hanno riferito che gli anziani con demenza hanno sviluppato relazioni significative e piacevoli con le bambole, sentimenti di attaccamento e orgoglio (Stephens et al., 2013).

La terapia della bambola (Doll Therapy) si configura, quindi, come un intervento dinamico tra l’anziano, la bambola e chi sta vicino per ottenere benefici nella comunicazione, nelle relazioni, per avere effetti calmanti e una riduzione dei comportamenti socialmente inappropriati.

 

Linee guida per la terapia della bambola

Mackenzie Wood-Mitchell e James (2007) hanno fornito delle linee guida per l’uso della terapia della bambola. Tra queste vengono specificate alcune caratteristiche che le bambole dovrebbero possedere, tra cui: corpi morbidi, occhi che si aprono e chiudono per evitare l’angoscia derivante dal fatto che possano pensare che la bambola dorma o sia morta, facce e vestiti diversi e variegati per evitare confusione sul possesso con gli altri ospiti. Diversi autori consigliano di introdurre la bambola in maniera indiretta, lasciandola nelle aree comuni in modo tale da consentire una libera interazione con essa.

Gli operatori coinvolti dovrebbero inoltre garantire che le bambole non vengano tolte all’ospite senza permesso, o senza una valida spiegazione e la rassicurazione che sarà restituita. La persona con demenza decide se si tratta di un bambino o di una bambola; ed è responsabilità degli operatori rinforzare questa credenza, i quali vengono incoraggiati ad utilizzare lo stesso termine scelto dall’anziano per definire la bambola (ad es. bambino o bambola) in modo tale da non creare confusione e rassicurarlo.

La bambola ha dunque il potenziale di migliorare il benessere personale attraverso l’incoraggiamento dell’interazione e della comunicazione, di favorire l’attaccamento e il bisogno di accudimento e di fornire una stimolazione sensoriale attraverso l’attività.

 

Critiche e punti di vista sulla terapia della bambola

Nonostante i suoi potenziali benefici, la terapia della bambola è attualmente sottoutilizzata, probabilmente a causa di interpretazioni etiche negative della sua pratica (Mackenzie, Wood-Mitchell and James 2007). Questa terapia ha, infatti, ricevuto diverse critiche in passato, la maggior parte delle quali si riferiva al rischio di infantilizzare l’anziano, assumendo comportamenti lesivi della sua dignità.

Diversi autori ritengono, invece, che le terapie non farmacologiche si configurano come interventi person-centred e si basano sull’analisi dei bisogni del singolo, per questo conferiscono valore ed unicità ad ogni persona con demenza.

Forniscono, inoltre, la concreta possibilità di attenuare dei sintomi che impattano notevolmente con il benessere e la qualità di vita del soggetto e di chi gli sta accanto.

 

Terapia della bambola, servizio di Biella TV (Video)

Lo schermo empatico, la simulazione incarnata al cinema. Cinema e neuroscienze

Lo scopo principale di questo libro, scritto a quattro mani da uno scienziato di fama internazionale e da un teorico del cinema, è di descrivere la simulazione incarnata (embodied simulation), un meccanismo funzionale del nostro cervello che ci consente di comprendere il senso del comportamento motorio altrui riutilizzando i nostri stessi stati o processi mentali.

 

In questo modo riusciamo a giustificare nello stesso tempo una teoria dell’intersoggettività e la capacità di ricezione di un film, in quanto si fondano entrambe sugli stessi meccanismi percettivi e neurofisiologici. Questa tesi si collega strettamente alla scoperta dei neuroni specchio nel cervello del macaco prima e dell’uomo poi, che ha permesso di declinare l’intersoggettività come intercorporeità.

Questo significa che comprendiamo le azioni e le esperienze altrui in quanto ne condividiamo la natura corporea e la rappresentazione neurale corporea sottostante. Pertanto si può parlare di cognizione incarnata (embodied cognition) in quanto stati e processi mentali sono rappresentati in un formato corporeo.

Il corpo è alla base della consapevolezza pre-riflessiva di sé e degli altri e il punto di partenza di ogni forma di cognizione esplicita e linguisticamente mediata degli oggetti stessi. L’utilizzo del brain imaging (tramite tecniche come l’elettroencefalografia ad alta densità, la magnetoencefalografia e la Stimolazione Magnetica Transcranica che si affiancano all’fMRI), gli studi sui deficit conseguenti a lesioni cerebrali studiati dalla neuropsicologia clinica e la registrazione dell’attività di singoli neuroni in modelli animali consentono oggi di rivedere il sistema motorio del lobo frontale del cervello, diviso originariamente in tre aree: l’area motoria primaria (F1), l’area 6 di Brodmann e il lobo prefrontale. Oggi l’area 6 è stata suddivisa in diverse aree distinte e si è scoperto inoltre che il sistema motorio non produce solo movimenti ma soprattutto atti motori, cioè movimenti dotati di uno scopo, come ad esempio afferrare un oggetto.

 

Simulazione incarnata (embodied simulation)

Le ricerche sperimentali sulla simulazione incarnata riguardano innanzitutto lo spazio peripersonale (come si può vedere dall’indagine dei neuroni dell’area premotoria F4), che si basa sull’integrazione di informazioni visive, tattili, uditive e propriocettive, ma è anche di natura motoria e centrato sul corpo. La scoperta dei neuroni canonici nell’area premotoria F5 dei macachi ha dimostrato che il sistema motorio si attiva anche quando non ci muoviamo: vedere l’oggetto significa simulare automaticamente cosa faremmo con quell’oggetto. All’interno di questa stessa area sono stati individuati i neuroni specchio, che si attivano sia quando si esegue un atto motorio come afferrare un oggetto o produrre gesti comunicativi con la bocca, sia quando si osserva un altro individuo compiere lo stesso atto o gesto.

Questo vuol dire che vedere un’azione significa anche simularla nel proprio sistema motorio. Con i neuroni specchio la simulazione incarnata coinvolge la sfera dell’intersoggettività, compresa quella che emerge nell’atto di vedere un film, ma anche nel sentirne i rumori. Lesioni neurologiche nelle aree premotorie, infatti, inibiscono il riconoscimento dell’azione altrui prodotta con la parte corporea lesa.

Pertanto originariamente l’intersoggettività si costituisce come intercorporeità e quindi il sé è innanzitutto fisico e si origina dalla possibilità di interagire con l’altro. Non a caso il meccanismo di simulazione è particolarmente efficace con la mimica facciale, la cui imitazione però non significa condividere necessariamente le emozioni che si stanno imitando.

Secondo l’ipotesi della simulazione incarnata, la stessa simulazione motoria nell’imitare azioni o gesti compiuti da altri nel cervello del macaco e dell’uomo spiega anche l’immedesimazione dello spettatore con quanto visto sullo schermo. In altri termini, l’esperienza filmica si può spiegare a partire da forme di embodiment generate dalle tecniche cinematografiche. Il tema cinestesico del resto era stato già anticipato da importanti teorici del cinema e filosofi citati puntualmente nel libro, da Merleau-Ponty a Deleuze, da Benjamin a Morin, i quali però non si sono limitati a questo solo aspetto, come mi sembra che facciano gli autori nel libro.

 

L’azione cinematografica e la simulazione incarnata

La tesi qui sostenuta è che i diversi tipi di movimento di azioni ripresi dalla macchina da presa sono in stretta relazione fisica con gli spettatori che li osservano grazie ai meccanismi di simulazione incarnata prodotti dall’attivazione dei neuroni specchio. Questi neuroni motori che si trovano tra le aree frontali e parietali posteriori del cervello si attivano indifferentemente durante l’esecuzione oppure l’osservazione di azioni e movimenti, permettendo così la comprensione delle intenzioni motorie del comportamento osservato negli altri. A supporto di ciò sono stati effettuati diversi esperimenti (riportati puntualmente nel libro) mediante lo studio elettroencefalografico (EEG) ad alta densità del cervello degli spettatori.

Il miglior risultato in termini di relazione tra il coinvolgimento motorio dello spettatore e i movimenti di macchina si ottengono utilizzando la Steadicam, come in Shining (1980) di Stanley Kubrick.

(The Shining -1980- S. Kubrick. Sequenza ripresa con la steadycam)

 

Il primo piano invece focalizza l’attenzione dello spettatore sulle sensazioni tattili, cioè volti, mani, paesaggi, oggetti prodotti dalla mano umana. In altri termini, in base alla tesi principale del libro, siamo in grado di simulare le esperienze tattili altrui non soltanto con il sistema visivo, ma anche con quello tattile e motorio. La modalità sensoriale del tatto, che si sviluppa prima degli altri sensi, si trova nell’area somatosensoriale primaria, nota anche come area SI, che è composta a sua volta dalle aree di Brodmann 3a, 3b, 1 e 2, a cui bisogna aggiungere la seconda area somatosensoriale, SII, strettamente collegata alle altre aree sensoriali.

Le neuroscienze cognitive:

[blockquote style=”1″]consentono di formulare un nuovo modello di percezione in cui azione, percezione e cognizione sono strettamente integrate, e in cui l’integrazione multimodale, modellata sull’esperienza corporea che facciamo del mondo, informa il modo in cui il nostro cervello attraverso il corpo mappa il nostro essere nel mondo (p.218).[/blockquote]

Gli studi sul cervello hanno mostrato l’integrazione tra le diverse modalità sensoriali, per cui le aree visive rispondono anche a stimoli tattili e acustici, le aree somatosensoriali e le aree acustiche rispondono nello stesso tempo a stimoli visivi, così come le aree motorie rispondono anche a stimoli sensoriali. A livello neurale è dunque necessaria la multimodalità per conoscere il mondo. Sono soprattutto gli studi fMRI a dimostrare che le stesse aree cerebrali che di solito si attivano quando esperiamo in prima persona delle sensazioni tattili, sono coinvolte allo stesso modo come simulazione incarnata quando vediamo toccare le parti corporee altrui.

A supporto di questa ipotesi gli autori analizzano in modo dettagliato sequenze tratte da film come Notorious (1946) di Alfred Hitchcock (a cui è dedicata la copertina del libro), Una donna nel lago (1947) di Robert Montgomery, La fuga (1947) di Delmer Daves, La scala a chiocciola (1946) di Robert Siodmak e, ancora, La palla n.13 (1924) di Buster Keaton, Una donna sposata (1964) di Jean-Luc Godard, Il silenzio degli innocenti (1991) di Jonathan Demme, Shining (1980) di Stanley Kubrick, l’incipit di Persona (1966) di Ingmar Bergman (altri esempi più recenti sono l’analisi di frammenti tratti da La caduta della casa Usher (1980), Possibilità di dialogo (1982) e Buio-luce-buio (1989) di Jan Švankmajer e Toy Story (1995) di John Lasseter).

L’analisi delle sequenze indubbiamente prova la presenza del meccanismo della simulazione incarnata, ma questo non comporta necessariamente la condivisione della narrazione e dei sentimenti suscitata dai meccanismi di proiezione e identificazione con i personaggi di cui ha parlato il pur citato Morin. Sarebbe stato più coerente dimostrare l’esperienza visiva e tattile delle immagini cinematografiche rifacendosi al cinema muto delle origini (non andavano bene le comiche di Charlot?), in cui era più accentuato il comportamento motorio dei personaggi e quindi la possibilità di dimostrare che noi simuliamo con il nostro corpo le azioni che vediamo in quanto abbiamo soprattutto reazioni emotive.

In realtà lo scopo scientifico del libro mi sembra troppo ambizioso: si vuole prendere sul serio il cinema subordinando le sue tecniche alla simulazione incarnata. Mettendo completamente da parte il linguaggio narrativo del film, la sua capacità di suscitare sentimenti e riflessioni in quanto opera d’arte, sembra che la visione cinematografica sia come giocare alla Playstation. Infatti la domanda cruciale, che gli autori non si pongono, è: noi siamo attratti come spettatori da un film soltanto per il movimento delle azioni che imitiamo corporalmente?

In altri termini, la simulazione incarnata non è soltanto il punto di partenza di una serie di comportamenti che la trascendono e che non sono motori, anche se dipendono da questi? La mancata consapevolezza di ciò è, a mio avviso, il limite della teoria dei neuroni specchio (la cui funzione rimane imprescindibile): l’attivazione di questi determina il meccanismo di simulazione di ciò che appare, non di ciò che si sente. Imitiamo il pianto e il sorriso ma non condividiamo, se non per brevi istanti, il dolore e la gioia di un altro. Per poterlo fare è indispensabile relazionarci con l’altro, conoscerlo, metterci al posto di, così come è necessario, per immedesimarci con i personaggi di un film, conoscerne la storia, il carattere, quello che provano interiormente. I neuroni specchio, in altri termini, dimenticano la psicologia e la filosofia, così come il cinema, se subordinato soltanto alla percezione visiva e tattile delle immagini in movimento, perde la propria anima.

PAS: una web app per l’autoefficacia nel contesto scolastico

Questo articolo ha partecipato al Premio State of Mind 2014 – Sezione Junior

PAS: una web app per l’autoefficacia nel contesto scolastico

Ludovica Gonzaga

Abstract

Il successo scolastico rappresenta uno dei principali compiti di sviluppo per un adolescente.

Il presente studio si pone l’obiettivo di ideare, progettare e verificare l’efficacia di uno strumento di supporto ai teenagers proprio nel contesto scolastico. Tale strumento è PAS (Potenziamento Autoefficacia Scolastica), una web app realizzata ad hoc, sulla base di un solido impianto teorico. Per abbassare il livello dell’ansia scolastica, accrescere la motivazione e modificare il locus of control, è stato proposto ad un campione bilanciato di 77 studenti iscritti al primo anno di due licei milanesi un training online attraverso l’utilizzo di PAS per un mese.

L’analisi dei dati ha messo in luce l’esito positivo dell’addestramento in termini di potenziamento dell’autoefficacia nel contesto scolastico e di internalizzazione del locus of control. La bassa compliance da parte del campione sperimentale rappresenta tuttavia la principale criticità riscontrata nel disegno sperimentale e rende difficile la generalizzazione dei dati, per la quale sono auspicabili un campione più consistente e una gestione più strategica della compliance.

Success in school is one of the main developmental tasks for adolescents. The present study aims to design, plan and monitor the effectiveness of a support tool for teenagers at school. Such tool is PAS (Potenziamento Autoefficacia Scolastica), a web-app built ad hoc, based on a solid theoretical. To lower the level of anxiety at school, increase motivation, and change the locus of control, an on-line training through the use of PAS for a month has been proposed to a balanced sample of 77 students enrolled in the first year of two high schools in Milan. The analysis of data has highlighted the success of the training in enhancing self-efficacy of adolescents at school and in shifting the locus of control inside the subjects. The low compliance of teenagers is, however, the main problem encountered in the experimental design and makes it difficult to generalize the data. A more consistent sample and a more strategic compliance management are desirable for further studies.

Parole chiave: autoefficacia, tecnologia positiva, empowerment, adolescenza, scuola

ALLEGATO 1

ALLEGATO 2

Violenza domestica: come i partner abusanti utilizzano i propri figli per controllare le partner ed ex partner?

La letteratura scientifica suggerisce che i partner abusanti utilizzino i propri figli per controllare le partner ed ex partner in vari modi.
I padri biologici, ad esempio, possono servirsi delle “battaglie” per la custodia dei minori al fine di “tenere traccia” delle loro madri o utilizzare le visite ai figli come opportunità per continuare ad abusare le loro madri. Questo fenomeno è divenuto così esteso che ha portato allo sviluppo di centri di visita controllati, che consentissero all’abusante di vedere i propri figli, ma non la partner o ex partner.

Maddalena Ischia, OPEN SCHOOL STUDI COGNITIVI 

 

Introduzione: la violenza domestica e i partner abusanti

Stime conservative indicano che ogni anno, solo negli Stati Uniti, le donne aggredite dai loro partner o ex partner siano almeno da 2 a 4 milioni (Browne & Williams, 1993; Edleson, 1999; Tjaden & Thoennes, 1998; Tomkins et al.,1994).

In Italia, i dati non sembrano essere migliori: si stima che siano circa 250 le donne che, ogni giorno, subiscono violenze da parte di un membro della propria famiglia, in particolare dal partner o ex partner (SVS, Soccorso Violenza Sessuale Clinica L. Mangiagalli Milano, 2006).
La violenza domestica, che comprende gli atti di vessazione compiuti dal partner intimo o da altri membri del nucleo familiare, è un fenomeno molto complesso, che include un modello di comportamento attraverso il quale gli autori mantengono il potere e controllo sulle loro vittime (Dobash, Dobash, Wilson, E Daly, 1992; Johnson, 1995).

Oltre all’abuso fisico (schiaffi, percosse, calci, minacce con un oggetto o un’arma), il maltrattamento include violenza sessuale (costrizione al rapporto sessuale tramite minacce, intimidazione o uso di forza fisica), vessazioni psicologiche (comportamenti volti ad intimidire e perseguitare, minacce di abbandono o maltrattamenti, minaccia di allontanamento dai figli, minacce verso persone care alla vittima, sorveglianza ossessiva, isolamento dalla rete amicale e familiare, aggressione verbale), e vessazioni economiche (rifiuto di concedere soldi, rifiuto di contribuire finanziariamente alle esigenze del nucleo familiare) (Bancroft,2002; Pence & Paymar, 1993; SVS, Soccorso Violenza Sessuale Clinica L. Mangiagalli Milano, 2006).

Per comprendere meglio questo fenomeno, ricerche precedenti hanno esaminato un certo numero di modi in cui i maltrattanti abusano e controllano le loro vittime. Ad esempio, alcune ricerche hanno indagato i modi in cui i maltrattanti abusano economicamente delle loro partner (Brush & Raphael, 2000; Lloyd & Taluc,1999; Shepard e Pence, 1988), e la misura in cui le terrorizzano psicologicamente (Street & Arias 2001; Tolman, 1992).

Recentemente, una certa attenzione è stata dedicata anche alle modalità con cui i partner abusanti molestano o minacciano i cari delle loro partner o ex partner, ai fini di controllarle (Goodkind, Gillum, Bybee, & Sullivan, 2003; Riger, Racha, e Camacho, 2002).
Sebbene la ricerca indichi che milioni di bambini negli Stati Uniti sono esposti al maltrattamento delle loro madri (Carlson, 1984; Straus, 1992), e che molti sono essi stessi abusati (Edleson, 2001), poco si sa sul modo in cui questi vengono utilizzati da coloro che abusano per manipolare o danneggiare le loro madri.

 

L’utilizzo dei figli da parte dei partner abusanti

La letteratura scientifica suggerisce che i partner abusanti utilizzino i propri figli per controllare le partner ed ex partner in vari modi.
I padri biologici, ad esempio, possono servirsi delle “battaglie” per la custodia dei minori al fine di “tenere traccia” delle loro madri (Bancroft & Silverman, 2002; Saunders, 1994), o utilizzare le visite ai figli come opportunità per continuare ad abusare le loro madri (Saunders, 1994; Shepard, 1992). Questo fenomeno è divenuto così esteso che ha portato allo sviluppo di centri di visita controllati, che consentissero all’abusante di vedere i propri figli, ma non la partner o ex partner (Oehme & Maxwell, 2004; Thoennes & Pearson, 1999).

I partner abusanti, inoltre, possono minacciare di fare del male o rapire i bambini qualora la partner o ex partner non si comporti come loro desiderano (Bancroft & Silverman, 2002).
I bambini possono poi essere utilizzati come fonti di informazioni rispetto alle attività o agli spostamenti compiuti dalla loro madre. Non è infrequente, infatti, che i maltrattanti interroghino i propri figli sulle attività svolte dalla loro madre, in modo da avere sotto controllo tutti gli aspetti della vita della donna. Ciò può essere eseguito in modo sottile, cosicché il bambino non realizzi di essere manipolato.

Utilizzare i figli per controllare il comportamento delle loro madri può risultare una strategia particolarmente efficace, in quanto le madri solitamente antepongono il benessere e le esigenze dei propri figli alle loro.
Risulta pertanto importante esaminare la misura in cui i partner abusanti si impegnano in questi tipi di comportamenti, così come comprendere i fattori predittivi di queste strategie. Per esempio, ci si potrebbe aspettare che gli uomini che sono padri biologici dei bambini siano più propensi ad utilizzare il sistema giudiziario per controllare le loro partner, rispetto a coloro che non possiedono diritti legali sui figli.

Ci si potrebbe inoltre aspettare che i partner abusanti che vivono con le loro vittime possano utilizzare i bambini per “tenere traccia” delle attività svolte dalla loro madre, o minacciare di fare loro del male qualora la donna dovesse lasciarli.
Qualora invece il partner maltrattante abbia concluso la sua relazione con la partner, potrebbe utilizzare i figli per convincere la donna a riprendere la relazione o per monitorare i suoi spostamenti.

Nel 2007, Beeble, Bybee, e Sullivan (2007) hanno effettuato uno studio su un campione composto da 156 donne maltrattate, che avevano subìto violenza fisica da parte di un partner intimo durante i quattro mesi precedenti.
Sebbene tale studio sia di natura esplorativa, gli autori hanno ipotizzato che l’uso dei bambini fosse collegato ad una serie di fattori.
In particolare, gli autori ipotizzavano che i padri biologici fossero più propensi ad utilizzare i bambini per controllare il loro partner o ex-partner, a causa sia di un loro diritto legale di avere accesso ai bambini, che di un naturale “senso di diritto” sulla loro prole.
Gli autori hanno inoltre esaminato se l’uso dei bambini variava in base allo stato attuale del rapporto dell’aggressore con la donna (partner vs ex partner).

Infine, hanno ipotizzato che gli aggressori per i quali il Tribunale aveva stabilito il diritto di visita ai figli, li utilizzassero più spesso rispetto a quelli che non avevano ricevuto tale disposizione, o rispetto a coloro che attualmente vivevano con i loro figli.
Dai risultati dello studio è emerso in primo luogo come l’utilizzo dei figli da parte dei partner abusanti sia un fenomeno molto diffuso: la maggioranza delle donne (88%) ha infatti riferito che i loro aggressori avevano usato i loro figli per controllarle in vari modi e a vari livelli.
Tale controllo è stato attribuito dalle vittime alle seguenti finalità: rimanere nella loro vita (70%), tenere traccia di loro (69%), molestarle (58%), intimidirle (58%), e spaventarle (44%).
Quasi la metà (47%) delle donne ha riportato che gli aggressori avevano cercato di mettere i loro figli contro di loro, mentre il 45% ha riferito che gli aggressori avevano tentato di utilizzare i bambini per convincerle a riprendere una relazione.

Gli autori hanno rilevato inoltre che l’uso dei bambini contro le donne da parte dei maltrattanti differiva sulla base del tipo di relazione tra questo e il bambino. I padri biologici, infatti, erano significativamente più propensi a usare i bambini contro le loro partner o ex rispetto ai patrigni (uomini legalmente sposati con la madre del bambino), alle figure paterne (uomini che avevano giocato un ruolo genitoriale significativo con il bambino), e a quelle classificate come “non paterne” (partner attuali o precedenti che non avevano giocato un ruolo genitoriale significativo nella vita del bambino).

Le donne che avevano chiuso o stavano terminando il loro rapporto con l’aggressore (M = 2.39; DS = .93) avevano vissuto in modo significativamente maggiore l’uso dei bambini rispetto alle donne che stavano continuando la relazione con il maltrattante (M = 1.69; DS = .76), con F (1, 54) = 13.33, MSE = .82, P <.01).
In aggiunta, gli aggressori per i quali il Tribunale aveva disposto visita ai figli, utilizzavano questi in misura significativamente più alta contro le loro partner o ex partner (M =2.93; DS = .86), rispetto a coloro che non avevano ricevuto queste disposizioni (M = 2.19; DS = .90; p <.01), o che vivevano con i bambini (M = 1.91; DS = .89; p <.01).

 

Considerazioni e conclusioni

La letteratura esaminata mostra come molti partner abusanti utilizzino i bambini per continuare a controllare e abusare le loro partner o ex-partner.

Nello studio condotto da Beeble, Bybee, e Sullivan (2007), il settanta per cento dei partner abusanti ha usato i bambini per rimanere nella vita delle partner o ex-partner, mentre più della metà ha usato i figli anche per molestarle. Poco meno della metà dei partner abusanti ha cercato di mettere i bambini contro le loro madri, mentre altri hanno usato i bambini per convincere le donne a riprendere una relazione con loro.
Il rapporto dell’abusante con i bambini è risultato essere una caratteristica distintiva per comprendere le condizioni in cui si è verificato l’uso dei bambini: i padri biologici utilizzavano i bambini contro le loro madri più dei patrigni, delle figure paterne e non paterne.

Ci sono un certo numero di possibili spiegazioni per questa constatazione.
La prima spiegazione potrebbe essere sintetizzata nella frase “l’occasione fa l’uomo ladro”: i padri biologici potrebbero avere più accesso ai loro figli rispetto ai patrigni o alle figure non paterne, cosa che potrebbe dare loro maggiori opportunità di usarli contro le loro madri.
A questo proposito, alcuni padri biologici potrebbero sentire un senso di proprietà sui propri figli (Bancroft, 2002; Bancroft & Silverman, 2002), il che potrebbe portarli a sentirsi giustificati ad utilizzarli per nuocere alle loro madri. I padri biologici potrebbero anche avere relazioni più strette con i bambini rispetto ai patrigni, e alcuni potrebbero sfruttare quella vicinanza chiedendo ai bambini di convincere le madri a riprendere una relazione con loro, o attribuendo la colpa per la rottura del rapporto alle loro madri. Altri ancora potrebbero utilizzare la minaccia di una battaglia per la custodia dei figli per controllare le loro partner o ex-partner (si vedano, ad esempio, Bancroft & Silverman, 2002; Saunders, 1994).

Studi futuri saranno necessari per capire meglio come la relazione con il bambino interessa la capacità e la volontà dell’abusante di usarli per danneggiare o controllare la loro madre.

Anche l’accesso dei partner abusanti ai bambini attraverso le visite ordinate dal Tribunale è risultata essere una caratteristica distintiva che aiutava a comprendere le condizioni in base alle quali gli aggressori utilizzavano i bambini contro le loro partner o ex-partner.
Gli abusanti che avevano diritto di visitare i figli, secondo quanto stabilito dal Tribunale, hanno infatti utilizzato i bambini più di quelli che ne erano privi. Anche in questo caso, è possibile che questi aggressori abbiano più accesso ai bambini, e, di conseguenza, più opportunità di utilizzarli contro le loro partner o ex-partner, rispetto agli aggressori che non hanno tali diritti.
Va evidenziato, tuttavia, che l’ordine di visita stabilito dal Tribunale è stato segnalato dalle madri nei confronti di uno qualsiasi dei loro figli, elemento che non ha reso possibile collegare le modalità di visita per un bambino specifico all’uso di quel bambino da parte dell’aggressore. Allo stesso modo, nulla sappiamo sulle caratteristiche individuali del bambino (ad esempio, età, sesso) che potrebbero essere associate con un elevato rischio per questo tipo di manipolazione.

Un’analisi più precisa di questi aspetti richiederà un’attenta raccolta di informazioni sulle caratteristiche specifiche dei minori, nonché del tipo di contatto avuto con l’aggressore.

In sintesi, è possibile affermare che sono necessarie ulteriori ricerche in questo settore per esaminare le diverse modalità in cui i bambini vengono utilizzati contro le loro madri, nonché i predittori di tale comportamento, così come le conseguenze di tali atti sulle madri ed i loro figli.
Lo studio di questo fenomeno risulta essere importante per una serie di motivi.
Da un punto di vista prettamente clinico, è importante capire come le tattiche utilizzate possano traumatizzare le donne, e portarle a comportarsi in modi che possono risultare poco comprensibili ai professionisti che le assistono. Si pensi, in questo senso, al fatto che le vittime di violenza domestica possano decidere improvvisamente di riiniziare una relazione con il partner maltrattante, o rifiutarsi di interromperla.
Inoltre, ai clinici che lavorano con i bambini potrebbe essere utile comprendere quanto comune sia l’utilizzo di queste tattiche, per aiutarli a sviluppare efficaci strategie di coping.

A livello politico, la comprensione di come i bambini sono utilizzati come “armi” da molti partner abusanti è di cruciale rilevanza per la creazione di politiche (policy) in materia di visite e custodia.
Ad esempio, molte comunità ancora non hanno Centri di visita sorvegliati che le donne possono utilizzare quando l’aggressore ha il diritto legale di vedere il bambino, ma solo quando tale accesso mette in pericolo l’incolumità della madre. Se la prevalenza di questo fenomeno fosse meglio compresa, così come le sue conseguenze sia per le madri e per i bambini, tali centri potrebbero diventare una priorità maggiore nelle comunità.

Infine, utilizzare i bambini per nuocere e controllare le loro madri è una strategia che può avere gravi conseguenze negative, sia per le donne, che per i loro bambini.
Ad oggi, nulla si sa su come i bambini affrontino l’essere utilizzati in questo modo. Si sa anche poco su come le diverse tattiche influenzano i comportamenti delle donne, così come il loro benessere psicologico.
Far luce su questo fenomeno complesso può portare ad una risposta comunitaria migliore per le vittime e i loro bambini, rendendo più difficile per coloro che abusano impegnarsi con successo in tali tattiche in futuro.

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