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Difficoltà di apprendimento e ansia sociale: il ruolo del concetto di sè e dell’autoefficacia percepita – ASSISI 2015

L’obiettivo del presente studio è indagare la relazione esistente tra difficoltà di apprendimento, concetto globale di sé, senso di auto-efficacia e ansia sociale.

Tatiana Bortolatto, Martina Torresi, Cristina Fratini, Claudio Travaglini, Marika Di Egidio, Stefania Riberti, Debora Valentini, Lucia Candria, Simona Tripaldi

Studi Cognitivi, Scuola di specializzazione in psicoterapia cognitiva e cognitivo-comportamentale, Milano, sede di San Benedetto del Tronto (AP)

Dal VI FORUM sulla FORMAZIONE in PSICOTERAPIA – Assisi 2015

INTRODUZIONE

Le difficoltà accademiche indicano che i bambini con difficoltà di apprendimento (DSA) sono a rischio di sviluppare difficoltà sociali ed emotive (Grolnick & Ryan, 1990). I sintomi di ansia sociale spesso variano tra gli studenti (Cooley, 2007), anche tra quelli con disabilità di apprendimento (DSA) che spesso mostrano più ansia rispetto agli studenti con una educazione generale nella norma (Nelson & Harwood, 2011). Il concetto di sé, il modo in cui una persona si valuta, insieme al senso di auto-efficacia influiscono sul comportamento e risultano essere fattori critici nel processo di apprendimento (Chapman & Boersma, 1991). Gli studi hanno trovato che concetto di sé, rendimento scolastico e senso di auto-efficacia sono forti predittori di queste difficoltà sociali ed emotive (Muijs, 1997). I risultati a disposizione sono contrastanti; tuttavia, hanno lasciato lo stato di queste aree di sviluppo dei bambini con disturbi dell’apprendimento poco chiaro e richiede ulteriori indagini.

L’obiettivo del presente studio è indagare la relazione esistente tra difficoltà di apprendimento, concetto globale di sé, senso di auto-efficacia e ansia sociale.

CONCLUSIONI

I risultati sono in linea con la letteratura evidenziando che i bambini con DSA sperimentano un basso senso di autoefficacia circa le proprie abilità accademiche e sociali (Bursuck, 1989; Grolnick & Ryan, 1990). Inoltre lo studio mette in luce che già nel corso della scuola primaria i bambini con DSA iniziano a sviluppare un’immagine negativa di sé (Ayres & Cooley, 1990; Clever, Bear, e Juvonen , 1992; La Greca & Stone, 1990). Il basso senso di auto-efficacia e la valutazione negativa di sè contribuiscono a incrementare i livelli d’ansia sociale nei bambini con DSA (Cowden, 2009). Se uno studente ha ansia sociale, potrebbe non essere in grado di completare le attività di gruppo o potrebbe non sentirsi a proprio agio per chiedere aiuto in classe. Diversi studi hanno trovato che i bambini con DSA hanno più problemi comportamentali (Eliason & Richman, 1988; Toro, Weissberg, Guare, e Liebenstein, 1990) e più elevati livelli di ansia e lamentele somatiche rispetto ai loro coetanei non disabili (Margalit e Shulman, 1986).

La letteratura, ad oggi, ha prodotto risultati non univoci sul concetto di sé globale e accademico, e la competenza sociale dei bambini con DSA. Questi dati, se replicati e confermati, potrebbero avere importanti implicazioni a livello clinico, suggerendo la possibilità di integrare gli interventi generalmente utilizzati per il trattamento delle difficoltà di apprendimento con interventi di tipo cognitivo mirati a migliorare il concetto di sé.

Il trattamento della bulimia: attaccamento come possibile moderatore di esito e cambiamento

Trattamento della bulimia: In Europa la psicoterapia psicoanalitica è stata utilizzata ampiamente nel trattamento dei disturbi dell’alimentazione, ma studi sulla sua efficacia a lungo termine sulla bulimia nervosa non sono mai stati eseguiti. Per tale ragione Poulsen e collaboratori del Dipartimento di Psicologia dell’Università di Copenaghen hanno confrontato l’efficacia della psicoterapia psicoanalitica di lunga durata (PPT) con la Terapia cognitivo comportamentale transdiagnostica (CBT-E), il trattamento con più evidenze di efficacia nel trattamento della bulimia nervosa e degli altri disturbi dell’alimentazione non sottopeso.

 

Il trattamento della bulimia: la psicoterapia psicoanalitica di lunga durata e la psicoterapia cognitivo-comportamentale transdiagnostica a confronto

La psicoterapia psicoanalitica di lunga durata è stata sviluppata dagli autori danesi specificamente per i pazienti affetti da bulimia nervosa. L’intervento prevede un incontro settimanale di 50 minuti per un periodo di 24 mesi. Gli obiettivi principali di questo trattamento non direttivo sono aumentare la capacità di riflettere e di tollerare l’esperienza affettiva e di facilitare l’insight dei meccanismi che nascondono gli aspetti inconsci e rimossi dei pazienti – due fattori principali coinvolti nel mantenimento di episodi bulimici secondo l’ipotesi degli autori.

La terapia cognitivo-comportamentale transdiagnostica è stata sviluppata presso il centro CREDO dell’Università di Oxford per trattare tutti i disturbi dell’alimentazione e, per la bulimia nervosa, prevede 20 incontri di 50 minuti, della durata di 20 settimane. Il trattamento coinvolge attivamente il paziente nel modificare la psicopatologia specifica e centrale del disturbo dell’alimentazione, utilizzando procedure e strategie atte a interrompere la restrizione dietetica cognitiva, a ridurre l’eccessiva valutazione della forma del corpo e del peso e a sviluppare specifiche abilità per la gestione degli eventi e delle emozioni che influenzano l’alimentazione.

 

L’efficacia delle 2 psicoterapie nel trattamento della bulimia

I risultati principali del trial pubblicati nel 2014 nell’American Journal of Psychiatry hanno evidenziato che la terapia cognitivo-comportamentale transdiagnostica è marcatamente più efficace nel trattamento della bulimia nervosa, rispetto alla terapia psicoanalitica di lunga durata. Nel gruppo della terapia cognitivo-comportamentale transdiagnostica, il 42% dei pazienti ha interrotto gli episodi bulimici e purgativi dopo cinque mesi e il 44% dopo 24 mesi. Invece soltanto il 15% dei pazienti sottoposti a psicoterapia psicoanalitica di lunga durata ha interrotto gli episodi bulimici e purgativi dopo due anni. I due trattamenti hanno determinato miglioramenti sovrapponibili in termini di psicopatologia specifica globale e generale, ma i miglioramenti nel gruppo della psicoterapia cognitivo-comportamentale transdiagnostica sono avvenuti con maggiore rapidità.

 

La validità dello studio

Lo studio è stato molto importante per almeno due motivi. Primo, i risultati mettono in dubbio l’opinione generale che qualsiasi psicoterapia abbia un esito similare perché opera su fattori aspecifici comuni. La psicoterapia cognitivo-comportamentale transdiagnostica non ha ottenuto solo un risultato superiore, ma anche in un tempo nettamente più breve e di conseguenza è risultata anche meno costosa (20 sedute in 20 settimane, contro più di 70 sedute in due anni).

Secondo, lo studio ha una buona validità interna ed esterna, cosa difficile da ottenere in studi randomizzati e controllati di psicoterapia. La validità interna dello studio (cioè se i due trattamenti sono stati condotti correttamente) è stata ottenuta e mantenuta per l’intera durata dello studio, grazie al training intensivo e alla supervisione ravvicinata nel tempo (una volta ogni 15 giorni) da parte degli autori che hanno ideato i due trattamenti. La validità esterna (cioè, se i risultati possono essere generalizzabili fuori dal contesto di questo studio) è stata ottenuta somministrando la psicoterapia psicoanalitica di lunga durata e la terapia cognitivo-comportamentale transdiagnostica come vengono utilizzate nella pratica clinica, mantenendo cioè il diverso numero di sedute e di durata dei due trattamenti. Questo è in contrasto con la tendenza dei ricercatori a pareggiare la quantità di contatto terapeutico quando valutano gli effetti di due trattamenti psicologici diversi.

 

Lo studio sull’attaccamento come moderatore di esito e di cambiamento nel trattamento della bulimia

In questo nuovo studio gli autori danesi presentano le seguenti analisi secondarie del trial clinico randomizzato che ha confrontato la terapia psicoanalitica con quella cognitivo-comportamentale transdiagnostica: (1) la relazione tra attaccamento e livello dei sintomi pretrattamento; (2) se l’attaccamento pretrattamento del paziente modera l’esito del trattamento; (3) se il cambiamento dell’attaccamento del paziente è associato a un cambiamento dei sintomi e (4) se l’attaccamento del paziente cambia in modo diverso nei due trattamenti.

Sessantanove donne e un uomo di età media di 25,8 anni con diagnosi di bulimia nervosa sono stati assegnati in modo casuale a due anni di psicoterapia psicoanalitica di lunga durata settimanale o a cinque mesi di terapia cognitivo-comportamentale transdiagnostica. Le valutazioni basali, dopo 5 mesi, e dopo 2 anni hanno incluso l’Eating Disorder Examination per valutare la psicopatologia e i comportamenti specifici dei disturbi dell’alimentazione, l’Adult Attachment Interview per valutare l’attaccamento del paziente e la Symptom Checklist 90-R per valutare il disagio psichiatrico generale. Le misure ripetute sono state analizzate usando un’analisi multilivello.

Punteggi più elevati nell’attaccamento insicuro evitante e nell’attaccamento ansioso sono risultati associati con una maggior frequenza di abbuffate prima del trattamento. L’attaccamento pretrattamento non ha invece predetto l’esito del trattamento della bulimia. Nella terapia psicoanalitica di lunga durata, ma non nella terapia cognitivo-comportamentale transdiagnostica, la riduzione della frequenza delle abbuffate è risultata associata a un aumento dell’attaccamento sicuro. Infine, i due tipi di trattamento non sono stati associati a modalità significativamente diverse di cambiamento attaccamento-relate.

In conclusione, lo studio ha trovato che il grado e il tipo di attaccamento insicuro sembrano associarsi alla frequenza delle abbuffate nella bulimia nervosa e che l’incremento dell’attaccamento sicuro potrebbe essere uno specifico meccanismo di cambiamento della terapia psicoanalitica, ma non della terapia cognitivo-comportamentale transdiagnotica.

Innovazione: quando discutere aumenta la creatività

La creatività nei contesti lavorativi è un tema che sta riscuotendo crescente interesse da parte della comunità accademica, in relazione all’impatto che essa ha sull’ innovazione e sulla performance organizzativa.

 

Nell’ambito della psicologia sociale e delle organizzazioni, il concetto di innovazione viene teoricamente distinto dalla creatività. In letteratura, troviamo diverse interpretazioni delle due dimensioni: Scott e Bruce nel 1994 affermano che la creatività rappresenta una delle componenti maggiormente correlata al comportamento innovativo dell’individuo dato che ‘ha a che fare con la produzione di nuove e utili idee, mentre l’ innovazione ha a che fare con la produzione, l’adozione e l’implementazione delle idee ritenute utili’.

 

Il Task Conflict per raggiungere creatività e innovazione

La creatività è spesso emersa dall’incontro delle diverse strade che portano alla conoscenza (Amabile, 1996), dall’unione di varie prospettive o dalla combinazione di approcci differenti alla risoluzione di un problema (Mumford e Gustafson, 1988). Più specificamente, all’interno di un gruppo di lavoro, la creatività viene descritta come la produzione di innovazione ed idee utili, relative ai prodotti, servizi, processi e procedure (Shin & Zhou, 2007).

Per questo motivo, in un recente studio orientale, Farh, Lee & Farh (2010) si focalizzano sul ruolo del task conflict, inteso come il processo che porta al conflitto tra i membri di un team, circa la distribuzione delle risorse, le procedure, le politiche, i giudizi e l’interpretazione dei fatti (De Dreu & Weingart, 2003). I risultati emersi dalla ricerca portata avanti da Farh, Lee e Farh, precedono l’ipotesi secondo la quale, un determinato grado di conflitto legato al compito, aumenti il pensiero divergente in modo tale da ridurre il consenso prematuro e incrementare la creatività (De Dreu e West, 2001) e di conseguenza l’ innovazione. Nello studio del task conflict e team creativity, vengono presi in considerazione: la fase del ciclo di vita del progetto ed altri tipi di variabili di controllo, utili a descriverne la relazione. I risultati mostrano che il task conflict incrementi la produzione di idee creative, ma solo se viene raggiunto un livello ottimale di conflitto e solo se esso si presenti nelle fasi iniziali del ciclo di vita del progetto.

Tuttavia è possibile ipotizzare che alcune variabili, possano influenzare le conseguenze del task conflict. Van de Vliert e West (2004) ad esempio, sottolineano che i membri del team dovrebbero essere caratterizzati da bassi livelli di job involvement, che si riferisce al grado di identificazione da parte della persona nei confronti del lavoro che svolge e quanto essa investe per la realizzazione di se stessa nel senso di accrescere la propria autostima. Alti livelli di job involvement in concomitanza con il task conflict, porterebbero infatti condurre i membri del gruppo all’interpretazione delle resistenze dei collaboratori, come un’espressione di dissenso nei confronti della propria identità e quindi pericolosa per la propria autostima, con conseguenze negative sulla performance.

 

La creatività prima di tutto: saper gestire il conflitto per non perdere di vista l’obiettivo

West (2002) distingue le conoscenze, le skills e le abilità (rilevanti per la performance relativa al compito) dalle integration skills, intese come le capacità individuali di gestione del conflitto tra i membri di un gruppo, in grado di influenzarne positivamente i processi.

Il conflict resolution ad esempio, si riferisce alla capacità di riconoscere e incoraggiare il conflitto costruttivo legato al compito, scoraggiando quello interpersonale.

West inoltre, sottolinea l’importanza del problem solving di gruppo, del goal setting e della coordinazione e sincronizzazione di attività, informazioni e compiti tra i membri. Secondo l’autore infatti, più è alto il livello di queste skills e maggiore sarà l’integrazione all’interno del team, che porterà ad un miglioramento non solo in termini di performance, ma anche in termini di innovazione.

Le integration skills dunque, costituiscono un imprescindibile elemento per la gestione del task conflict ed indirettamente influiscono sulla produzione di idee creative e processi di innovazione.

Le precedenti osservazioni conducono ad una serie di implicazioni, per quanto riguarda il management dei gruppi, finalizzato allo sviluppo dei processi di creatività e innovazione all’interno di un’organizzazione.

In primo luogo, i managers dovrebbero concentrarsi sul ruolo di facilitatori del processo che vede il task conflict come antecedente della creatività, sviluppando integration skills, volte a far emergere diverse prospettive e combinazione di modi di vedere le cose nei gruppi, che generano idee creative (Mumford e Gustafson, 1988).

 

Il ruolo dei managers nella produzione di innovazione

Sarebbe opportuno quindi, che i managers, si focalizzassero sul monitoraggio dei processi all’interno del gruppo di lavoro, favorendo la comparsa di task conflict nella parte iniziale del ciclo di vita del progetto e promuovendo le controversie costruttive durante tutto il ciclo di vita, con l’intento di accrescere la motivazione al raggiungimento dell’obiettivo, seguendo la miglior pista possibile. In secondo luogo, i managers dovrebbero porre maggiormente il focus sui processi attraverso cui gli individui si approcciano al lavoro, cercando di creare un clima che favorisca un adeguato livello di job involvement (Van de Vliert e West, 2004), al fine di prevenire l’insorgenza di conflitti interpersonali tra i membri. In questo senso gli interventi di coaching da parte di uno psicologo, potrebbero favorire la risoluzione positiva dei problemi e l’elaborazione di modalità più adattive di approccio alle problematiche.

Zuckerman & Cole (1994) infatti, hanno dimostrato che gli individui possono incrementare le proprie performance creative e i processi di innovazione quando dispongono dell’aiuto di coach che forniscono strategie e metodi alternativi per l’elaborazione dei problemi.

Uno studio sperimentale su mindfulness e flessibilità cognitiva

Questo articolo ha partecipato al Premio State of Mind 2014 – Sezione Junior 

Uno studio sperimentale su mindfulness e flessibilità cognitiva

Giulia Lancello (Università degli Studi di Milano-Bicocca)

Abstract

Background: La ricerca scientifica ha mostrato, negli ultimi anni, un particolare interesse nei confronti delle pratiche meditative, in particolare della mindfulness. Infatti, a partire dagli anni Settanta sono nate diverse forme di intervento clinico mindfulness-based. Tra queste, Jon Kabat-Zinn ha sviluppato il training Mindfulness-Based Stress Reduction (MBSR), cioè il programma sistematico della durata di 8 settimane basato sull’insegnamento di pratiche meditative di consapevolezza, il cui obiettivo è quello di imparare a gestire e ridurre lo stress.

Obiettivi: La presente ricerca sperimentale ha l’obiettivo di contribuire ad ampliare le conoscenze relative agli effetti della mindfulness sui processi cognitivi. Nello specifico, viene analizzata la relazione tra mindfulness e flessibilità cognitiva. In particolare, l’oggetto di studio è la capacità del programma MBSR di modificare lo stile cognitivo olistico vs. analitico in relazione alle richieste del compito sperimentale. Metodo: La ricerca ha coinvolto un campione di 37 soggetti. Nello specifico sono stati formati due gruppi sperimentali, uno costituito dai partecipanti al training MBSR (N=13, 35,1%) e uno formato da soggetti di controllo (N=24, 64,9%), questi ultimi reclutati all’interno di liste d’attesa o newsletter dei centri di mindfulness e all’interno di un gruppo di interesse presente su un noto social network. Ai soggetti sperimentali è stato chiesto di rispondere al Five Facet Mindfulness Questionnaire e di svolgere il Navon Letter Task (un compito di misura dello stile cognitivo; Navon, 1977). Dal momento che il training MBSR ha durata di 8 settimane, i test sono stati somministrati in due momenti diversi: il Tempo 1 (t1) corrisponde alla settimana 0 e il Tempo 2 (t2) corrisponde alla settimana 9. Il gruppo sperimentale, quindi, ha svolto i test prima dell’inizio del training e alla fine delle 8 settimane, mentre il gruppo di controllo, che non ha ricevuto nessun tipo di trattamento tra il t1 a il t2, ha comunque svolto i test a distanza di 8 settimane. Risultati: Dall’analisi dei dati relativi al Navon Letter Task emerge che sia il gruppo sperimentale sia il gruppo di controllo tendono a diventare più veloci al t2. Tuttavia, i soggetti che hanno partecipato al training MBSR mostrano un tempo di elaborazione dello stimolo minore al t2 rispetto ai soggetti di controllo, in particolare nella condizione dello stile cognitivo analitico (caratterizzato dall’elaborazione dei dettagli di uno stimolo). Seppur in modo non statisticamente significativo, sono emersi tempi di elaborazione ridotti anche nel compito che implicava uno stile cognitivo olistico. Conclusione: I soggetti appartenenti al gruppo sperimentale, dopo il training MBSR, sono cognitivamente più flessibili, cioè sono in grado di adattare in tempi più brevi lo stile cognitivo olistico/analitico a seconda delle richieste del compito, in particolare per quanto riguarda lo stile cognitivo analitico.

 

Abstract (english)

Background: There is a growing interest in the scientific research field about meditative practice, in particular about mindfulness. So, different kind of mindfulness-based clinical interventions have been created. Jon Kabat-Zinn has developed the Mindfulness Based Stress Reduction (MBSR) training. This is an 8-week program based on the teaching of meditative practices about awareness, whose aim is to learn how to decrease and cope with stress.

Objective: The aim of this experimental study is to contribute to the expansion of the current knowledge about the effects of mindfulness practice on cognitive processes. In particular, it has been investigated the relation between mindfulness and cognitive flexibility. Specifically, the subject matter of the research is the ability to shift between global and local cognitive styles depending on experimental task’s request. Method: The study includes 37 experimental subjects divided into two experimental groups: one is constituted by MBSR’s participants (N=13, 35,1%), recruited within mindfulness centre’s waitlist or newsletters, while the other is the control group (N=24, 64,9%). Subjects were asked to complete the Five Facet Mindfulness Questionnaire (FFMQ) and to carry out the Navon Letter Task (a task that measures the cognitive style; Navon, 1977). Because of the duration of the MBSR training, the study is made of two different moments:  Time 1 (t1) corresponds to the week 0 and Time 2 (t2) corresponds to the week 9. So, the experimental group did the tests before the beginning of the 8-week program, and after the 8-week program. The control group acted accordingly to this timetable, but no treatment during the 8 weeks has been given. Results:  The analysis of the data of the Navon Letter Task shows that both the experimental and the control group tend to be faster in t2. However, a group effect is present only in the experimental group: the training MBSR’s participants show a shorter stimulus processing time than the control group, especially in the local cognitive style’s condition (characterized by the processing of stimulus’ details). The experimental group also shows a global effect, but it isn’t statistically relevant. Conclusion: The MBSR’s participants show a more flexible cognitive response, that means that they are able to fit their global or local cognitive styles faster than the control group, depending on the experimental task’s requests. In particular, this effect is evident in the local cognitive style.

 

Parole chiave: mindfulness, MBSR, flessibilità cognitiva, olistico, analitico

ALLEGATO 1ALLEGATO 2ALLEGATO 3

 

 

 

La Scala della Valutazione del Benessere: un nuovo strumento di valutazione del costrutto

La Scala della Valutazione del Benessere costituisce un ottimo strumento di assessment soprattutto per i clinici che nella loro attività si occupano di promozione del benessere psicologico e non solo.

 

Nonostante il benessere sia un tema ancora oggi attuale e altamente discusso, manca in letteratura una definizione universalmente condivisa su cosa sia e quali elementi lo compongano. Lo stesso benessere psicologico risulta ad esempio composto da dimensioni differenti rispetto al benessere soggettivo (Lorenzini e Scarinci, 2013).

Scarinci e collaboratori (2016), allo scopo di creare uno strumento in grado di misurare il costrutto benessere, definiscono il benessere psicologico come derivante dalla ‘percezione della possibilità positiva di modellare il proprio mondo secondo scopi‘, mentre il benessere soggettivo risulta essere ‘il vissuto emotivo derivante dal significato che se ne ricava‘.

Al di là di queste differenze gli autori individuano alcuni elementi trasversali e comuni alle diverse interpretazioni del benessere, come la presenza di un progetto di vita e la creazione di una rete sociale appagante da un punto di vista affettivo. Un ruolo chiave in questi processi risulta svolto dalle abilità di accettazione, ovvero dalla capacità di accogliere e dare spazio a emozioni e sentimenti negativi (Harris, 2011), rinunciando a contrastarli attivamente. A sua volta, tale atteggiamento pone le giuste basi per riuscire a vedere oltre e prepara il terreno per maturare una consapevolezza metarappresentativa (Lorenzini, Scarinci, 2013, p. 94), che permette all’individuo di dare un senso alle esperienze del quotidiano.

Da questo modello teorico nasce la volontà degli autori di sviluppare uno strumento completo, in grado di misurare le diverse componenti che sono risultate significative nel determinare il benessere: senso della vita, consapevolezza, relazionalità, trascendenza e accettazione.

Per fare ciò, i ricercatori hanno creato un questionario a partire da altri strumenti, a loro volta validati per le dimensioni considerate, selezionando 40 item che sono andati a comporre la Scala per la Valutazione del Benessere (SVB). Attraverso il canale informatico, hanno partecipato alla validazione dello strumento 136 individui, a cui era richiesto di esprimere il loro accordo rispetto alle affermazioni di ciascun item su una scala Likert a 5 punti.

Le analisi dei risultati hanno portato alla selezione di 22 item, afferenti a 4 diversi fattori: senso della vita e consapevolezza (che sono risultati raggruppabili in un’unica dimensione dello strumento), relazionalità, trascendenza e accettazione. Questa seconda versione è stata riproposta a un nuovo campione di 176 soggetti, affiancata al Psychological Well-Being Scales (PWB, Ryff & Singer, 1996), strumento storicamente utilizzato nella ricerca sul benessere e alla Symptoms Checklist – 90 (SCL-90, Derogatis et al., 1994; Sarno et al., 2011) per la raccolta di eventuali sintomi psicologici.

La Scala per la Valutazione del Benessere ha nel complesso mostrato buona affidabilità e la correlazione inversa con la SCL-90 indica capacità predittiva per il costrutto indagato.

I fattori maggiormente predittivi risultano essere senso della vita e consapevolezza, confermando precedenti studi svolti con tecniche di neuroimaging (Schacter et al., 2007; Heller et al., 2009). La scala trascendenza risulta la meno rappresentativa, dato coerente con la letteratura e probabilmente dovuto alla scarsità di item (4) che la compone.

La scala costituisce un ottimo strumento di assessment soprattutto per i clinici che nella loro attività si occupano di promozione del benessere. In quest’ambito, Lorenzini e Scarinci (2013) hanno teorizzato un intervento specifico che si basa proprio sulle dimensioni analizzate dalla SVB, utilizzabile in modo autonomo o integrato, che si pone come ‘obiettivo uno spostamento dell’attenzione verso aspetti positivi dell’esistenza del soggetto, l’incremento del decentramento per favorire la costruzione di una rete di relazioni soddisfacenti, l’accettazione dei limiti che l’esistenza propone, l’individuazione di scopi-valore come direttrici esistenziali per la scelta di piani di vita funzionali’ (Scarinci et al., 2016). La sinergia tra strumenti di assessment e modalità di intervento non può che riflettere l’effettiva efficacia delle dimensioni affrontate durante la terapia, permettendo di cogliere i passi svolti verso il reale raggiungimento del benessere.

Autoefficacia: come apprendere (auto)efficacemente

L’autoefficacia si riferisce alla credenza nella propria capacità di organizzare ed eseguire delle serie di azioni atte ad ottenere un certo risultato (Bandura, 1997). Bandura ritiene che le credenze di autoefficacia determinino cosa le persone provano e pensano, come si motivano e quali comportamenti attuano (Bandura, 1994).

Basilico Cesare, Grillini Mauro, OPEN SCHOOL Studi Cognitivi Milano

 

Autoefficacia: introduzione

Questo concetto è stato usato in ricerca secondo due accezioni: come autoefficacia riferita all’abilità percepita di effettuare un particolare comportamento; come autoefficacia riferita all’abilità percepita di controllare, prevenire o gestire le potenziali difficoltà che possono sorgere nell’esecuzione di una particolare prestazione (Kirsh, 1995; Maddux e Gosselin,2003). La ricerca suggerisce che l’autoefficacia funziona come un’organizzazione gerarchica di credenze con diversi livelli di concretezza e complessità dell’azione da compiere, ciascuna delle quali differisce per il livello, per la forza e la generatività; tali credenze influenzano profondamente l’apprendimento ed anche lo sviluppo a lungo termine (Bandura, 2000a; Ehremberg, Cox e Koopman, 1991).

Ciò significa che oltre ad una percezione generale di autoefficacia, ci sono credenze molto specifiche di auto-efficacia riguardanti differenti domini del sé (ad es. forza fisica nel calcio, resistenza alla fatica nel prepararsi ad un difficile test di matematica). Prendendo l’autofficacia nell’utilizzo di una lingua come esempio esplicativo: il livello di auto-efficacia nell’utilizzo di una lingua si riferisce alle variazioni di padronanza percepita per esempio tra una prima ed una seconda lingua; la forza nell’autoefficacia percepita si riferisce al grado di sicurezza nell’usare questa lingua in occasioni formali o sociali, mentre la generatività si riferisce al trasferimento delle credenze di autoefficacia tra differenti compiti legati alla lingua (ad es. esposizioni scritte o orali).

Ciascuna credenza e le sue conseguenze sono sensibili a variazioni di situazione, di contesto e nel compito; queste credenze guidano ed organizzano la performance e l’insieme delle azioni di ciascuna persona, queste ultime a loro volta avranno conseguenze positive o negative a livello fisico, sociale e di autostima. Ogni valutazione successiva alla performance modificherà le credenze di autoefficacia della persona, modificando la probabilità che lo specifico compito venga ripetuto in futuro (Bandura, 1997).

 

Autoefficacia e teorie dell’apprendimento

La formulazione teorica che ha come oggetto l’autoefficacia discende dalla teoria dell’apprendimento, dalla teoria cognitiva e da quella socio-cognitiva; essa è stata capace di mostrare la natura, le fonti e i processi psicologici implicati in questo insieme di credenze.
Le teorie dell’apprendimento, cercando di spiegare la causa del comportamento, si sono focalizzate prima sul condizionamento e poi sulle conseguenze dei comportamenti stessi. Le teorie cognitive dell’apprendimento hanno introdotto le cognizioni all’interno dei processi di generazione dei comportamenti e hanno enfatizzato l’importanza dei guadagni e delle perdite risultanti dal comportamento come un fattore decisivo per la sua attuazione. La teoria Socio-Cognitiva di Bandura concepisce il funzionamento degli esseri umani come la risultante di un gioco dinamico tra influenze personali (cognizioni, affetti ed eventi biologici), comportamentali e ambientali. Tali fattori esercitano la loro influenza attraverso processi di determinismo reciproco (Klassen e Usher, 2010).

Dalla letteratura si evince che le credenze di autoefficacia inerenti la propria capacità di svolgere un compito ed i risultati aspettati predicono fortemente il comportamento effettivo; le credenze di autoefficacia sono state utilizzate con successo per predire la performance accademica ed anche le scelte professionali. Il concetto di autoefficacia è inoltre associato a costrutti motivazionali chiave, quali le attribuzioni causali, il concetto di sè, l’ottimismo, l’achievement goal orientation, la ricerca di aiuto durante il percorso accademico, l’ansia e l’autostima. Tale costrutto è considerato come il più importante elaborato dalla teoria Socio-Cognitiva.

La teorizzazione sull’autoefficacia afferma che le credenze e di conseguenza le performance dipendono dall’interscambio tra quattro processi psicologici.
1)I processi cognitivi: questi includono la valutazione delle proprie capacità, abilità e risorse, la selezione degli obiettivi, la costruzione degli scenari di successo e fallimento nel processo di raggiungimento dell’obiettivo, la generazione e la selezione delle opzioni nel problem solving, il mantenere l’attenzione ed il funzionamento necessari allo svolgimento del compito.
2)I processi motivazionali: le credenze di autoefficacia influenzano l’auto-regolazione della motivazione tramite tre “motivatori cognitivi”, l’attribuzione, il valore dei risultati attesi e la chiarezza ed il valore degli obiettivi.
3)I processi affettivi: la percezione della propria padronanza della situazione influenza l’attivazione emotiva e la tolleranza ad emozioni negative quali l’ansia o la depressione che porta allo scoraggiamento (Ehremberg, Cox e Koopman, 1991).
4)I processi di selezione: la scelta della residenza, di carriera, del tipo di nucleo familiare ed anche l’utilizzo del tempo possono influenzare direttamente il funzionamento di una persona. Le persone con alta autoefficacia, per raggiungere gli obiettivi di loro interesse, sono decisamente proattive nel selezionare e nel crearsi un ambiente fisico e sociale che si accordi alle loro capacità e risorse percepite. In tale processo la possibilità di raggiungimento dei propri obiettivi e di sviluppo personale sono massimizzate.

Le credenze di autoefficacia formatesi tramite i processi appena illustrati non sono statiche, anzi sono costantemente modificate da almeno cinque fonti a loro volta influenzate dalle interpretazioni che le persone danno delle esperienze passate e presenti.

1) Esperienze di mastery: precedenti esperienze di padroneggiamento e successo nello stesso compito aumentano l’autoefficacia percepita, essa a sua volta aumenta la perseveranza nel superare le difficoltà durante l’esecuzione del compito stesso.

2) L’esperienza vicaria: l’osservazione di performance positive compiute da modelli sociali (come genitori ed insegnanti) e da persone le cui capacità sono simili alle proprie (come il gruppo dei pari) può generare un forte senso di autoefficacia. Una buona mastery e la presenza di modelli sociali, come genitori, insegnanti o pari, che affrontano efficacemente delle sfide possono mostrare come stimolare l’apprendimento di nuove abilità e strategie (Schunk e Zimmerman, 2007).

3) La persuasione sociale: una persuasione sociale convincente fornita da altri significativi, come genitori e insegnanti, può aumentare l’autoefficacia di un giovane, sempre che egli possieda almeno un po’ quella capacità (Fan e Williams,2010; Tsang e Leung, 2006). Il fallimento dopo aver intrapreso un compito difficile con false aspettative di successo può essere molto dannoso per le credenze di autoefficacia in quell’ambito. Una persuasione sociale di successo dovrebbe includere la modificazione di tutte le variabili processuali precedentemente considerate: l’espansione del repertorio comportamentale tramite uno skills training ed il controllo ambientale per facilitare una performance di successo, così come il rimarcare la desiderabilità dei risultati.

4) Stati fisiologici ed affettivi: le condizioni fisiologiche ed emozionali attuali e percepite lavorano direttamente attraverso i processi affettivi sopra descritti per influenzare le credenze di autoefficacia di una persona. Queste condizioni includono la prontezza fisica e mentale all’azione, il tasso di affaticamento e influenzano direttamente la decisione di continuare o arrendersi. Profonda importanza rivestono anche le credenze riferite al sé riguardo queste condizioni. I giovani possiedono buone risorse in tal senso derivate dallo sviluppo, come l’energia fisica e l’accessibilità alle proprie emozioni e se apprendono presto ad utilizzarle con criterio ciò porterà loro grande beneficio in futuro.

5) Esperienze immaginative: ripetizioni immaginative di performance positive o negative, cercate deliberatamente oppure frutto di un’abilità rimuginativa, possono migliorare le capacità di coping e l’autoefficacia (tecniche cognitivo-comportamentali che usano le esperienze immaginative sono ad esempio la desensibilizzazione sistematica e il covert modeling) (Klassen e Usher, 2010; Williams, 1995).

 

Autoefficacia in ambito scolastico

L’autoefficacia può trovare una vasta applicazione anche nel contesto scolastico, nella definizione e nell’organizzazione delle modalità di apprendimento dello studente e nel mantenere un livello adeguato di motivazione nello svolgimento delle attività proposte (Tsang, Hui e Law, 2012).
Bandura suggerisce ad esempio di favorire in classe insegnamenti personalizzati su ciascun allievo, elemento che ridurrebbe drasticamente confronti sociali demoralizzanti e massimizza valutazioni personali sui propri standard interni e maggiore competenza personale percepita (Bandura, 2000b).
In secondo luogo potrebbe essere utile strutturare attività didattiche su base cooperativa e favorire pratiche di tutoring attivo tra studenti, in modo che i più svantaggiati possano contare su un sostegno sociale e su modelli efficaci rappresentati dagli studenti più abili che a loro volta, assumendo temporaneamente il ruolo attivo di insegnamento, perfezionino e affinino la padronanza della materia, le proprie abilità comunicative e la propria autoefficacia scolastica.

Suddividere attività complesse in sotto-obiettivi relativamente semplici da conseguire, al fine di ottenere periodici feedback positivi circa le proprie abilità costituisce un’ulteriore modalità di potenziamento della propria autoefficacia, assieme all’invito agli studenti ad auto-istruirsi verbalmente per trovare le soluzioni più appropriate per ciascun compito.

Cruciale, da parte dell’insegnante, il fornire feedback appropriati tanto sulla buona qualità del lavoro svolto quanto sui risultati ottenuti dagli studenti, promuovendo quindi un locus of control prevalentemente interno

Infine Bandura sottolinea la necessità, da parte degli insegnanti, di potenziare a propria volta la propria autoefficacia e a stringere proficue collaborazioni con le famiglie degli alunni (Bandura, 2000b).

Torna a Torino il Festival internazionale della psicologia

COMUNICATO STAMPA

Torna a Torino il Festival internazionale della Psicologia

(Torino, 31 marzo / 3 aprile 2016)

 

Molti ospiti, fra cui Massimo Recalcati, Moni Ovadia, Enzo Bianchi, Luca Mercalli Jean Searle, Vassilis Saroglou, e Vittorio Lingiardi indagheranno il tema della FIDUCIA

Dopo il successo dell’edizione 2015 anche quest’anno Torino per 4 giorni diventa capitale italiana della psicologia, ospitando la seconda edizione del Festival della Psicologia. Organizzato dall’Ordine degli Psicologi del Piemonte, il Festival indaga, quest’anno, il tema della fiducia in tutte le sue più note o recondite sfaccettature.

Eventi, workshop, dibattiti, laboratori creativi e spettacoli, costituiranno il ricco programma della manifestazione che si rivolge a tutte e tutti, a bambini e adulti, a studiosi, studenti o semplici appassionati e curiosi con il preciso intento di aprire la mente per imparare a conoscerla: questione di fiducia. In sé e negli altri.

Un festival multidisciplinare che si svolgerà in varie location del capoluogo subalpino e che avrà, per 4 giorni, come protagonisti: psicologi, studiosi, attori, artisti, docenti universitari, scrittori, creativi e musicisti.

Massimo Recalcati, Moni Ovadia, Enzo Bianchi, Luca Mercalli, Jean Searle, Vassilis Saroglou e Vittorio Lingiardi, Alessandro Perissinotto, Adriano Zampierini e Bruno Bara sono solo alcuni degli ospiti attesi a Torino per parlare di fiducia.

Un festival all’insegna dell’apertura e dell’inclusione a 360 gradi destinato a un pubblico ampio ed eterogeneo: il tema 2016, infatti, sarà messo in relazione con argomenti di scottante attualità come le unioni civili, la disabilità, la religione, l’arte, il desiderio, la gelosia e il crimine.

Gli appuntamenti serali, curati da Maurizio Gasseau, Leandra Perrotta e Luigi Dotti, propongono un format innovativo: Torino In Treatment. Laboratori che spazieranno dalla danza terapia allo psicodramma, condotti da psicologi di tecniche attive che animeranno Torino nelle serate del festival.

Il festival è organizzato dall’Ordine degli Psicologi del Piemonte con il patrocinio e la partnership della Città Metropolitana di Torino, della Città di Torino e il Dipartimento di Psicologia dell’Università di Torino.

Il Festival della Psicologia è on line su Facebook su Twitter e su

http://psicologiafestival.it/

La diagnosi di anoressia come moderno disturbo alimentare

Diagnosi di anoressia: Nel caso dell’anoressia i criteri diagnostici stabiliti dal DSM sono quattro: il peso insufficiente, il disturbo dell’immagine corporea, il timore di ingrassare e l’amenorrea.

MAGREZZA NON E’ BELLEZZA – I DISTURBI ALIMENTARI: La diagnosi di anoressia (Nr. 7)

 

La diagnosi di anoressia

I disturbi alimentari si articolano nelle due grandi categorie dell’anoressia e della bulimia. Entrambe, a loro volta, prevedono due sottotipi. Esiste, inoltre, una terza categoria residuale (ma non per questo poco interessante, come vedremo) in cui confluiscono i casi clinici che rispettano alcuni ma non tutti i criteri per la diagnosi dei due disturbi maggiori.

In psichiatria la diagnosi si basa su criteri descrittivi, mancando la possibilità di individuare lesioni specifiche di organi interni. I disturbi, quindi, non corrispondono a entità definite in base alla sicura individuazione di una causa, ma a descrizioni sulle quali la comunità scientifica ha raggiunto un accordo. Questi criteri descrittivi -raccolti nel cosiddetto DSM (Diagnostic and Statistical Manual of mental disorders)- enumerano comportamenti e stati mentali la cui composizione definisce una sindrome psichiatrica.

 

I criteri per la diagnosi di anoressia

Per la diagnosi di anoressia i criteri diagnostici stabiliti dal DSM sono quattro: il peso insufficiente, il disturbo dell’immagine corporea, il timore di ingrassare e l’amenorrea.

Vediamoli in dettaglio.

a) Rifiuto di mantenere il peso corporeo al di sopra o al peso minimo normale per l’età e la statura (per esempio, perdita di peso che porta a mantenere il peso corporeo al di sotto dell’85% rispetto a quanto previsto, oppure incapacità di raggiungere il peso previsto durante il periodo della crescita in altezza, con la conseguenza che il peso rimane al di sotto dell’85% rispetto a quanto previsto).

b) Intensa paura di acquistare peso o di diventare grassi, anche quando si è sottopeso.

c) Alterazione del modo in cui il soggetto percepisce il peso o la forma del corpo; o influenza eccessiva del peso e della forma del corpo sui livelli di autostima; o rifiuto di ammettere la gravità della condizione di sottopeso.

d) Nelle femmine dopo il menarca, amenorrea, cioè assenza di almeno tre cicli mestruali consecutivi. (Una donna viene considerata amenorroica se i suoi cicli si manifestano solo a seguito di somministrazione di ormoni, per esempio estrogeni.)

L’anoressia nervosa prevede due sottotipi: può essere con o senza abbuffate o condotte di eliminazione (vomito autoindotto, uso inappropriato di lassativi, diuretici o enteroclismi).

Tradotto letteralmente il termine anoressia si riferisce alla perdita di appetito. Tuttavia, il significato di questo disturbo psicologico non è l’inappetenza bensì la repulsione volontaria e ossessiva nei confronti del cibo, generata da un intenso timore di ingrassare (criterio b), o addirittura dalla percezione distorta del proprio peso che sfocia nella convinzione erronea di essere sovrappeso (criterio c). Il criterio c è però da sempre più controverso del criterio b. Studi empirici hanno dimostrato che molte pazienti non sovrastimano il loro peso; sono semmai attanagliate dall’idea di poter ingrassare troppo e preferiscono quindi raggiungere il sottopeso, come per stabilire una distanza di sicurezza dalla temuta grassezza. Più che percezione errata del proprio peso, il disturbo dell’immagine corporea oggi è inteso come un’eccessiva carica emotiva che le pazienti attribuiscono e legano al proprio aspetto, vissuto come fonte di disagio, vergogna, perfino colpa. A questo si unisce la sottovalutazione o addirittura la negazione dei rischi a danno della salute che si corrono costringendo il proprio corpo a un peso così insufficiente.

Il soggetto inizia pertanto a rifiutare il cibo, eliminando quasi completamente gli elementi ipercalorici, e spesso anche a praticare una serie di esercizi fisici nel tentativo di bruciare calorie. Le formulazioni precedenti del DSM parlavano, in maniera più generica, di instancabile ricerca della magrezza o desiderio di essere magri. Il DSM ha aggiunto un grado maggiore di precisione stabilendo il riferimento al peso normale, il quale, a sua volta, è un canone non assoluto ma in parte arbitrario, basato su tabelle del peso normale in base all’età, al sesso e all’altezza compilate secondo parametri stabiliti dalle compagnie assicurative. Il sottopeso che consente la diagnosi di anoressia si ha quando il peso corporeo scende sotto l’85% del peso previsto (criterio a).

La perdita di peso comporta anche – come abbiamo visto – il blocco del ciclo mestruale, che diventa amenorrea (criterio d) quando si verifica l’assenza di almeno tre cicli mestruali consecutivi. L’amenorrea è regolarmente osservata nelle pazienti anoressiche con una facilità e una frequenza maggiori che nella perdita di peso dovuta a malnutrizione non volontaria. Spesso il ciclo si arresta dopo la perdita di pochi chili. In alcuni casi si è osservato che il ciclo cessa addirittura prima che inizi la perdita di peso.
Viceversa, donne malnutrite per cause di forza maggiore conservano tenacemente il ciclo anche di fronte a un forte calo di peso. Si tratta, indubbiamente, di un fenomeno ancora tutto da comprendere. Anche in questo caso si osserva una sottovalutazione dei rischi legati alla perdita del ciclo e alle connesse disfunzioni endocrine.

 

La diagnosi di anoressia di tipo 2: con abbuffate e condotte di eliminazione

L’anoressia si suddivide nel sottotipo 1 (con restrizioni) e 2 (con abbuffate/condotte di eliminazione). Il sottotipo 2 controlla il peso non solo attraverso la restrizione alimentare, ma anche attraverso condotte compensatorie di tipo bulimico: vomito autoindotto, uso inappropriato di lassativi, diuretici o enteroclismi.

Il sottotipo 2 differisce dal sottotipo 1 anche per altri aspetti. Spesso le pazienti presentano un sottopeso meno grave rispetto al sottotipo 1 spesso pesavano di più prima della comparsa del disturbo e hanno più frequentemente parenti sovrappeso o obesi in famiglia. La bulimia nervosa è invece contraddistinta da episodi di abbuffate di solito accompagnati da atteggiamenti compensatori (per esempio, vomito autoindotto). Le abbuffate consistono nel consumare abbondanti quantità di cibo, preferibilmente a elevato contenuto calorico.

In genere il soggetto agisce di nascosto e può andare avanti per anni senza che nessuno se ne accorga. Gli atteggiamenti compensatori hanno lo scopo di “neutralizzare l’abbuffata”, nel tentativo di attenuare il senso di colpa e di ridurre al minimo l’aumento di peso che potrebbe aver luogo a seguito dell’abbuffata stessa. I comportamenti di compensazione, presumibilmente, sono più distruttivi dell’abbuffata per due ragioni: innanzitutto, presentano un più rilevante numero di rischi medici e fisici; in secondo luogo, aiutano a giustificare l’abbuffata, eliminando l’eccessiva quantità di cibo ingerita e aumentano la possibilità che gli episodi bulimici si ripetano in futuro.

I comportamenti possono variare molto da persona a persona. Laddove alcuni soggetti si abbuffano e ricorrono a comportamenti compensatori parecchie volte al giorno, altri lo fanno solo sporadicamente. Cambia anche il significato che si attribuisce ad “abbuffata”. Per alcuni può significare cinquemila calorie di cibi dolci, per altri può voler dire mangiare qualunque cibo che non sia a basso contenuto calorico. Mentre la maggior parte delle persone affette da bulimia tende ad autoindursi il vomito, altre vomitano raramente, altre mai. Molte abbinano più metodi di compensazione: il vomito e l’abuso di lassativi, il digiuno, l’attività fisica eccessiva o l’abuso di diuretici.

 

RUBRICA MAGREZZA NON E’ BELLEZZA – I DISTURBI ALIMENTARI

Trauma precoce e disturbi psicotici: quale relazione?

L’esposizione a un trauma precoce rappresenta uno dei fattori più estensivamente studiati e dibattuti nell’eziologia dei disturbi psicotici.

Giovanni Mansueto – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi

La co-partecipazione dei fattori ambientali nell’eziologia dei disturbi psicotici è una dato ben consolidato e acquisito in letteratura (Bentall et al., 2014; Varese et al., 2012). Tra questi, gli eventi di vita precoci – early life event – rappresentano uno dei fattori più estensivamente studiati e dibattuti.

I traumi precoci sono elementi di predisposizione, fattori di rischio, e comprendono una serie di accadimenti verificatisi nei primi 17 anni di vita tra cui abuso sessuale e/o fisico, neglect, perdita dei genitori (Faravelli et al., 2007; Bernstein et al., 2003).

Meta analisi sulla relazione tra trauma precoce e psicosi

La relazione tra trauma precoce e psicosi è stata dettagliatamente affrontata da una recente meta analisi di Varese et al.(2012) all’interno della quale sono stati valutati 18 studi casi controllo (52048 pazienti psicotici vs 1856 controlli non psichiatrici), 10 studi prospettici o quasi prospettici (n= 541803) e 8 studi di popolazione (n=535546).

I tipi di trauma precoce indagati sono stati i seguenti: abuso sessuale, abuso fisico, abuso emotivo, neglect, bullismo, perdita dei genitori (morte di un genitore prima dei 18 anni o separazione dai genitori per un periodo di almeno due settimane). Dall’integrazione dei diversi studi si evidenzia una significativa associazione tra trauma precoce e psicosi, in particolare soggetti con trauma precoce hanno un rischio circa tre volte maggiore (OR: 2.78; 95% CI 5 2.34–3.31) di insorgenza di sintomi psicotici rispetto a soggetti senza traumi precoci.

Tale associazione risulta significativa indipendentemente da variabili demografiche (tra cui età, genere) e/o cliniche (tra cui comorbilità psichiatrica, uso di cannabis) di confondimento. Rispetto alla tipologia di eventi precoci, fatta eccezione per la perdita/separazione dai genitori, tutti gli eventi indagati sono risultati associati ad un incremento del rischio di psicosi (Varese et al. 2012). Tale risultato supporterebbe l’ipotesi del ruolo aspecifico della tipologia dell’evento nella relazione trauma-psicosi.

Inter-correlazione tra i traumi precoci

Gli eventi di vita precoci possono essere strettamente correlati tra loro, ovvero l’esposizione a traumi precoci potrebbe aumentare il rischio di ulteriori esposizioni ad eventi traumatici. Ciò conduce ad un interessante filone di ricerca secondo cui vi sarebbe una relazione dose-risposta tra traumi e psicosi, ovvero la co-occorrenza di più traumi precoci incrementerebbe drammaticamente il rischio di insorgenza di disturbi psicotici (Shevlin et al., 2008; Schafer et al., 2011).

La presenza di psicosi nelle popolazioni ad alto rischio di trauma precoce

Un’accurata valutazione del ruolo del trauma precoce nel determinismo della patologia psicotica può essere desunta dagli studi su popolazioni ad alto rischio (High Risk Studies, HRS) (Rubino, Nanni, Siracusano, 2008). In tale contesto un interessante studio è stato condotto da Bechdolf et al. (2010) i quali hanno indagato la prevalenza di traumi precoci in un campione di 92 soggetti a Ultra rischio di psicosi (UHR). La presenza di traumi precoci è stata riscontrata in circa il 70% del campione, del quale circa 21.7% ha sviluppato un disturbo psicotico a 615 giorni di follow-up.

Inoltre si è riscontrato un rischio circa 3 volte maggiore (OR 2.96) di esordio psicotico in soggetti con esperienza precoce di abuso sessuale (Bechdolf et al., 2010). Tale studio fornisce una prova a sostegno dell’elevata prevalenza di eventi precoci nella popolazione UHR, tra i quali l’abuso sessuale sembra ricoprire un ruolo cruciale nei processo di transizione da UHR a esordio psicotico.

Meccanismi alla base della relazione tra trauma precoce e psicosi

Quali meccanismi possono spiegare la relazione traumi precoci e psicosi? Da un parte alcuni modelli teorici focalizzano l’attenzione su meccanismi biologici di regolazione dello stress, tra cui l’ iperattivazione dell’asse Ipotalamo-Ipofisi-Surrene (Read, Mosse, Moskowitz & Perry, 2014), altri propongo una spiegazione in termini di interazione gene-ambiente (Bentall et al., 2014), altri considerano determinante l’azione di meccanismi di dissociazione, schemi e processi cognitivi (Bentall et al., 2014).

Alla luce di quanto detto, una significativa mole di ricerche sembra validare il ruolo degli eventi precoci nell’eziologica delle psicosi (Varese et al., 2012), inoltre prime evidenze empiriche (Aas et al., 2013; Ücok & Bikmaz, 2007; Van Nierop et al., 2015a) invitano a considerare una possibile azione patoplastica del trauma precoce  sui disturbi psicotici.

Infatti pazienti psicotici con trauma precoce, rispetto ai non traumatizzati, mostrano tendenzialmente un peggior outcome funzionale in termini di: peggiore funzionamento cognitivo (funzioni esecutive e memoria di lavoro) (Aas et al., 2013), maggiore gravità dei sintomi (Van Nierop et al., 2015a ; Ücok & Bikmaz, 2007), maggiore resistenza ai trattamenti (Van Nierop et al., 2015a). I pazienti psicotici con trauma precoce sembrano, quindi, presentare un profilo clinico e funzionale differente rispetto ai pazienti non traumatizzati.

Trauma precoce e insorgenza di disturbi psicotici: conclusioni

Tali studi introducono alcune considerazioni a livello clinico:

  • Considerare all’interno dell’assessment un’accurata indagine della storia di vita del soggetto, nonché della presenza o meno di traumi precoci
  • Pianificazione di approcci clinici mirati a contrastare gli effetti deleteri secondari dell’esperienze precoci traumatiche.

Una maggiore attenzione clinica al ruolo degli eventi traumatici precoci potrebbe:

  1. Nella popolazione di soggetti UHR rappresentare una funzionale strategia preventiva all’insorgenza di disturbi psicotici, agendo sui meccanismi di transizione da UHR a stadio psicotico
  2. Nella popolazione di pazienti con disturbi psicotici cronici favorire un incremento dell’outcome funzionale e della compliance al trattamento.

11 settembre: trauma e dissociazione in Reign over me (2007) di M. Binder

Reign over me: ‘Non mi piace ricordare. Questo non mi piace‘. Ma si può ricordare in condizioni di sicurezza, in una relazione di attaccamento sicuro.

Reign over me è un film del 2007 diretto da Mike Binder, in cui vengono affrontati in maniera evidente i sintomi di un disturbo da stress post traumatico con manifestazioni dissociative.

 

Reign over me, la trama del film

Charlie, il protagonista, ha perso la moglie e le sue tre figlie nella tragedia delle torri gemelle e da quel momento vive solitario, chiuso in se stesso, sperso, senza alcun lavoro e vagando per la città con un monopattino elettrico. Ha con se sempre un paio di cuffie per ascoltare la musica, colleziona dischi e passa il tempo a rimbiancare e ristrutturare la cucina ogni paio di mesi. Un giorno, Alan, un amico dei tempi dell’università, lo vede casualmente e sarà proprio lui ad aiutare Charlie ad affrontare la sua sofferenza. Alan è un dentista affermato, taciturno a casa e si sente costretto da obblighi familiari. Con Charlie, Alan rivive la spensieratezza e la libertà, oltre che un’amicizia ritrovata.

Charlie ha un blocco traumatico, con sintomi di evitamento del ricordo, dei pensieri, delle emozioni e delle conversazioni associabili all’evento, evita persone che gli ricordano l’esperienza traumatica come i genitori di sua moglie, oltre che avere un forte senso di alienazione.

 

Gli aspetti psicopatologici di Charlie, in Reign over me

Il protagonista ha sviluppato una fobia degli stati interni; ha paura dell’intimità, di vivere e sentire emozioni intense, di contattare quelle sensazioni legate al trauma. Per evitare di affrontare, sceglie di non ricordare, perché non gli piace ricordare. Non riesce a gestire le sue emozioni e le manifesta in modo inappropriato ed esagerato rispetto alle circostanze, ai contesti e alle situazioni.

L’intolleranza alle emozioni negative si evince anche nel suo comportamento; ne sono un esempio l’aggressione di Charlie verso il suo amico nel momento in cui gli accenna della sua famiglia e della perdita dei suoi cari. Diventa aggressivo quando si riattivano memorie del passato in merito alla sua professione di dentista, allo stesso modo, in aula di tribunale, alla visione delle foto della sua famiglia, mette in atto una serie di movimenti ripetitivi e oscillatori segno di una iperattivazione senso-motoria che cerca di placare, estraniandosi dalla realtà e dal vissuto doloroso tramite la musica che ascolta con le sue immancabili cuffie.

 

Reign over me, il trailer:

 

Non tutte le persone che hanno subito una perdita sviluppano un disturbo da stress post traumatico, esistono differenze individuali come il temperamento, l’ambiente sociale, lo stile di attaccamento, aver vissuto eventi stressanti nel passato, l’assenza di supporto sociale che costituiscono possibili fattori di rischio tali da innescare il processo traumatico.

La risposta al trauma di Charlie in realtà, potrebbe avere riacceso memorie passate legate alla perdita. Il lutto dei suoi genitori quando era piccolo, potrebbe essere considerato un fattore di vulnerabilità per lo sviluppo di un PTSD in età adulta.

 

Trauma e attaccamento

Nel bambino, si interrompe il processo di sicurezza e vicinanza fornito dalle figure di attaccamento, fondamentale per lo sviluppo di un senso di sé organizzato e coerente. Bowlby aveva identificato in bambini separati dalla figura di attaccamento, tre fasi: protesta (il bambino piange alla separazione dalla fda, vive sentimenti di rabbia, collera e ansia), disperazione (se la protesta fallisce nel tentativo di riottenere vicinanza e prossimità con la figura di riferimento, come nel caso della morte del genitore, il bambino vive un forte senso di disperazione), distacco (apparente recupero e graduale investimento nelle relazioni e sul mondo esterno). Questa è la fase dell’accettazione della realtà e la formazione di nuovi legami di attaccamento.

Allo stesso modo, in età adulta, la perdita del partner, maggiore figura di attaccamento, innesca diverse reazioni simili a quelle che vive il bambino quando si separa e perde la figura d’attaccamento.

Si verificano sentimenti di rabbia, collera, disperazione, disorganizzazione, ritiro sociale e un disagio pervasivo caratterizzato da un senso di solitudine, dolore e colpa. Se il disagio diventa intenso e pervasivo intacca il funzionamento psicologico dell’individuo che sfociano in sintomi post traumatici.

Questo è quello che accade a Charlie, la non accettazione della perdita dei suoi familiari, lo porta a una scarsa modulazione emotiva, autodistruttività, comportamenti impulsivi, disperazione, problemi relazionali e alessitimia. Diventa incapace di prendersi cura, di riconoscere e identificare correttamente le proprie emozioni e sensazioni. Perde completamente contatto con bisogni e stati emotivi delle persone intorno a lui; come accade quando Alan gli comunica la perdita di suo padre.

 

Nel momento in cui Charlie riesce ad accedere e a rievocare l’esperienza traumatica, mette in atto diverse reazioni senso-motorie che si manifestano con immagini intrusive, flashback e comportamenti impulsivi.

Questa fase, dolorosa di per sé, è l’inizio della presa di consapevolezza del suo malessere e segnerà l’inizio di un percorso psicoterapeutico che affronterà solo con il sostegno di Alan e della terapeuta.

Grazie alla relazione di amicizia, vissuta inizialmente con diffidenza, tradimento e abbandono e successivamente sperimentando il piacere, la condivisione di interessi e l’efficacia, Charlie recupera la dimensione interpersonale. Viene elaborato il trauma solo quando il protagonista si sente al sicuro e vive la relazione come supportiva. Sembra evidente come l’esperienza traumatica possa essere affrontata solo nel momento in cui c’è una sensazione di sicurezza e fiducia nell’altro.

 

Tutto ciò che ci è più caro ci può essere strappato;
ciò che non può essere tolto è il nostro potere di
scegliere quale atteggiamento assumere dinanzi
a questo avvenimento

(Victor Frankl)

Dipendenze patologiche e intervento metacognitivo: il modello transdiagnostico Self-Regulatory Executive Function

Il modello Self-Regulatory Executive Function (S-REF) è un modello transdiagnostico che sostiene che la psicopatologia si mantiente a causa di stili di coping maladativi, attivati e mantenuti a seguito di credenze metacognitive. Secondo recenti concettualizzazioni il modello S-REF può essere applicato anche alle dipendenze patologiche.

 

Il modello Self-Regulatory Executive Function (S-REF) e’ un modello transdiagnostico che sostiene che la psicopatologia si mantiente a causa di stili di coping maladativi, i quali vengono attivati e mantenuti a seguito di credenze metacognitive (Wells and Matthews, 1996).

L’architettura cognitiva del modello S-REF si struttura secondo tre livelli interdipendenti. Il primo livello consiste in un network di processamento dello stimolo trigger che opera al di fuori della consapevolezza e che genera contenuti mentali ed emotivi che poi divengono consapevoli (tra questi ad esempio l’ansia o pensieri negativi).

Il secondo livello consiste propriamente nella Self-Regulatory Executive Function, che consiste in un sistema di processamento volontario e conscio finalizzato al mantenimento di un’auto-regolazione cognitiva in risposta alle intrusioni. L’obiettivo della S-REF e’ quello di ridurre le discrepanza tra stati del sé desiderati e attuali. In condizioni adattive, l’attività della S-REF ha durata limitata in modo che l’individuo possa selezionare strategie di coping funzionali.

Il terzo livello è costituito dalla conoscenza metacognitiva, definibile come le conoscenze e le credenze riguardo la cognizione che possono avere sia contenuti positivi che negativi (ad esempio, “rimuginare è utile” oppure “Alcuni pensieri sono pericolosi”).

Secondo il modello, l’attivazione, il mantenimento e la cessazione della S-REF è influenzata sia dal primo livello (cioè da un processamento automatico) che dal terzo livello (cioè dalle credenze metacognitive).

Il prolungamento dell’attivazione della S-REF darebbe origine alla sindrome cognitivo-attentiva (CAS). La CAS consiste in un insieme di diverse forme di pensiero ripetitivo e perseverante, tra cui il rimuginio, la ruminazione, l’attenzione selettiva su stimoli minacciosi e strategie di coping disfunzionali, nonchè da comportamenti autoregolatori maladattivi (ad esempio evitamento e soppressione dei pensieri).

In generale, il modello S- REF enfatizza l’importanza dei processi che generano, monitorano e mantengono gli stati mentali intrusivi, piuttosto che focalizzarsi sul contenuto degli stessi (Wells, 2009). Tale approccio ha portato allo sviluppo di concettualizzazioni e protocolli di trattamento per diversi disturbi tra cui la depressione, il disturbo d’ansia generalizzato, il disturbo ossessivo-compulsivo e la fobia sociale.

 

L’applicazione del modello S-REF alle dipendenze patologiche: il modello metacognitivo trifasico dell’addiction

Secondo recenti concettualizzazioni (Spada, Caselli, Nikčević, Wells, 2015) il modello S-REF può essere applicato anche alle dipendenze patologiche (o addiction). Le dipendenze patologiche si caratterizzano per la difficoltà che le persone incontrano nel tentativo di resistere all’impulso di attuare un comportamento che garantisca gratificazione o sollievo nonostante una certa consapevolezza dei danni a medio e lungo termine. Secondo il modello metacognitivo la sindrome cognitivo-attentiva e le credenze metacognitive avrebbero un ruolo nelle diverse fasi temporali dell’addiction. Prendiamo l’esempio della dipendenza da nicotina.

In una fase di pre-uso i triggers, nella forma di impulsi, immagini, ricordi o pensieri attivano la S-REF e le credenze metacognitive per la selezione delle strategie di coping maladattive. Ad esempio, credenze metacognitive positive quali “Pensare a una sigaretta mi fa stare meglio” o negative “Non riesco a controllare i miei pensieri relativi al fumo” avviano un circolo vizioso tra elaborazione perseverante dei contenuti intrusivi ed escalation delle emozioni negative e del craving. Di conseguenza, aumenta la probabilità dell’uso e del comportamento patologico (fumare la sigaretta) allo scopo di regolare le emozioni negative e di evitare lo stato di discrepanza cognitivo-emotiva tra la condizione desiderata e attuale.

Nella fase di uso e attuazione del comportamento disfunzionale emergerebbero credenze metacognitive maladattive positive (“Fumare mi aiuta a controllare i miei pensieri, lo stress e le mie preoccupazioni”) accompagnate da una ridotta abitudine a monitorare i propri stati interni. Con il passare del tempo, un consolidamento del comportamento disfunzionale e un peggioramento della dipendenza, correlato a un aumento delle credenze metacognitive negative riguardo l’incontrollabilità della condotta patologica, come ad esempio “Solo il pensiero di fumare, mi porta a farlo”.

Nella fase di post-uso, infine, sarebbero presenti intrusioni emotivo-cognitivo-somatiche (quali ad esempio, stati emotivi negativi, colpa e sintomi di astinenza) che causano ruminazione, credenze metacognitive positive riguardo la ruminazione in questa fase (“Ruminare in questo momento mi aiuta a capire perchè fumo” ) e i successivi tentativi di soppressione dei pensieri. Di conseguenza si ha un peggioramento degli stati affettivi negativi e un aumento della probabilità di ri-attuazione del comportamento patologico a scopo autoregolatorio.

 

Evidenze empiriche a supporto del modello metacognitivo trifasico dell’addiction

Il modello metacognitivo trifasico delle dipendenze patologiche propone che gli aspetti centrali della sindrome cognitive-attenzionale, come ad esempio i bias attenzionali, il pensiero ripetitivo e perseverante (tra cui il pensiero desiderante, il rimuginio e la ruminazione), la disfunzionalità del monitoraggio metacognitivo e la soppressione dei pensieri siano correlati ai comportamenti di addiction e possano portare a conseguenze negative quali aumentati livelli di craving e di uso della sostanza.

In riferimento ai bias attentivi, diverse ricerche dimostrano che in diverse dipendenze patologiche, vi sarebbe un bias attentivo relativo alla sostanza che sarebbe direttamente proporzionale alla quantità e alla frequenza di uso della sostanza stessa (Field & Cox, 2008).

Riguardo il pensiero rigido e perseverante, molti studi ne dimostrano la presenza a livello transdiagnostico tra le diverse dipendenze patologiche: dal pensiero desiderante che è riscontrato nella dipendenza da nicotina, alcool e gambling (Caselli & Spada, 2010), alla ruminazione che sarebbe maggiore a un uso di alcool problematico (Caselli, Bortolai, Leoni, Rovetto, & Spada, 2008) e che porta a un aumento del craving nell’uso di alcool (Caselli et al., 2013) al rimuginio che è correlato all’uso di alcool in soggetti dipendenti da alcol.

Similmente, l’effetto paradossale della soppressione dei pensieri è stato riscontrato nella dipendenza da alcool (Klein, 2007), nella dipendenza da nicotina (Erskine et al., 2012) e nel gambling (Riley, 2014). Infine, credenze metacognitive maladattive sono state riscontrate nella fase di uso delle medesime dipendenze patologiche sopra citate (si vedano per esempio Nikčević&Spada, 2010; Spada et al., 2014; Spada, Caselli, & Wells, 2009; Lindberg, Fernie, & Spada, 2011).

 

Implicazioni cliniche del modello metacognitivo trifasico dell’addiction

A partire dalla concettualizzazione metacognitiva trifasica dell’addiction, sono seguite una serie di riflessioni riguardo l’applicazione della terapia metacognitiva al trattamento delle dipendenze patologiche.

Nella fase di pre-uso il target terapeutico principale sarebbe l’interruzione del pensiero perseverante e la modificazione delle credenze metacognitive disfunzionali, ad esempio attraverso – ma non solo – la tecnica della detached mindfulness. Nella successiva fase di uso, il focus principale sarebbe sul miglioramento del monitoraggio metacognitivo e di nuovo sul riconoscimento e modificazione delle crendenze metacognitive maladattive relative al comportamento disfunzionale (vedasi ad esempio l’utilizzo del Situational Attentional Refocusing – SAR, Wells, 2000). Infine, nella fase di post-uso si suggerisce l’utilizzo di tecniche simile alla fase di pre-uso allo scopo di modificare la ruminazione legata al comportamento disfunzionale e le relative credenze metacognitive.

A seconda della gravità e della cronicità delle dipendenze patologiche, nonché del livello di consapevolezza e compliance terapeutica del paziente, la terapia metacognitiva si configurerà in maniera differenziata con specifici obiettivi terapeutici.

 

Congresso Internazionale Terapia Metacognitiva Milano 2016

Le illusioni percettive – Introduzione alla Psicologia

Parliamo ancora di percezione, già trattata durante le scorse settimane, ma questa volta si rivolgerà particolare attenzione ai fenomeni della percezione errati o falsi: le illusioni percettive.

INTRODUZIONE ALLA PSICOLOGIA RUBRICA DI DIVULGAZIONE SCIENTIFICA IN COLLABORAZIONE CON LA SIGMUND FREUD UNIVERSITY DI MILANO 

 

Cos’è una illusione percettiva? Le illusioni sono esperienze percettive anomale in cui le informazioni derivanti da stimoli esterni, reali, portano a una falsa interpretazione dell’oggetto o di un evento da cui proviene lo stimolo. Le illusioni percettive sono, in sostanza, il risultato di interpretazioni errate di una serie di dati sensoriali al punto che è possibile percepirle in contrasto con i reali dati provenienti dalla realtà.

Pare si verifichi una sorta di errore nell’elaborazione dell’informazione sensoriale in ingresso a carico del sistema nervoso centrale. Tutto questo potrebbe essere dovuto a stimoli sensoriali in competizione tra loro che influenzano il significato dello stimo stesso, come, a esempio, quando il conducente di un’auto percepisce i propri fari riflessi nella vetrina di un negozio, sperimentando l’illusione che un altro veicolo sta procedendo verso se stesso, anche se è cosciente che non vi è alcuna strada di fronte.

 

Illusioni percettive: la storia

Il termine illusione deriva dal sostantivo latino illusio-onis che significa scherno, dileggio, errore, illusione. Indica in genere un errore proveniente da una percezione sensoriale che porta a falsificare la realtà.

Le illusioni percettive furono oggetto di interesse già tra gli antichi greci. Aristotele per la prima volta presentò quella che definì l’illusione della cascata: osserviamo un oggetto in movimento e poi spostiamo lo sguardo su un oggetto fermo, automaticamente ci apparirà in movimento. Ma, le illusioni percettive sono diventate oggetto di studio vero e proprio con l’avvento nel IXX secolo della psicologia sperimentale.

Ora, osserviamo nel dettaglio di cosa si tratta realmente.

 

Illusioni percettive: cosa sono?

I recettori sensoriali presenti nel cervello sono in grado di rilevare luce, suono, profumo, temperatura, e ogni altro stimolo sensoriale. Ognuno di essi possiede aree specifiche sul corpo imputate al riconoscimento dello stimolo, come: occhi, orecchie, naso, mani, etc. Da questi organi di senso il cervello riceve stimolazioni sensoriali, che il più delle volte interpreta adeguatamente, ma se così non fosse, allora, si verifica una illusione sensoriale. Da ora in poi, ci focalizzeremo non su tutte le illusioni sensoriali (ogni organo di senso potrebbe incappare in una illusoria interpretazione dello stimolo) ma solo di quelle percettive.

Un’ illusione percettiva consiste in un’immagine che concretamente non corrisponde a quella realmente percepita perché appare diversa.

Un’illusione può verificarsi in seguito a una stimolazione visiva prolungata, come osservare per molto tempo una fonte luminosa. L’immagine che rimane impressa sulla retina quando si distoglie lo sguardo dalla fonte è una illusione fisiologica. La percezione, dunque, può essere modificata a causa di uno squilibrio causato da una over o ipo stimolazione dei recettori presenti sulla retina portando così al verificarsi di uno squilibrio percettivo.

Alcune di queste illusioni percettive possono derivare da fattori non del tutto controllabili, come quando le onde luminose rendono percepibile una matita immersa in un bicchiere come piegata, o quando in condizioni di scarsa illuminazione riusciamo a percepire più immagini in contemporanea, o alcune cose ci appaino più lontane o vicine rispetto alla reale distanza, etc.

Un’ illusione percettiva dunque può essere di tre tipi: ambigua, distorta, e paradossale.

Le illusioni percettive ambigue sono immagini o oggetti che permettono allo spettatore di avere due interpretazioni valide di ciò che l’oggetto rappresenta. L’osservatore è solitamente in grado di visualizzare mentalmente un’interpretazione subito e, infine, la seconda, dopo un certo tempo. Tuttavia, entrambe le interpretazioni non possono essere viste allo stesso tempo perché ciò interferirebbe con la piena percezione di uno dei due, e il cervello semplicemente non lo consente. Un esempio è il cubo di Necker, in cui è difficile dire se l’angolo rappresentato emerge dalla figura o ne è alla base.

Le illusioni percettive di distorsione sono immagini o oggetti distorti nella loro geometria: dimensioni, lunghezza, posizione, curvatura. Un esempio di illusione è quella di Muller-Lyer, dove due linee separate con frecce alle due estremità di ogni riga sembrano essere di lunghezza diversa, invece sono esattamente identiche.

Infine, un’ illusione paradosso o illusione di finzione è un’immagine o un oggetto che è semplicemente impossibile da rappresentare tridimensionalmente ma diventa tale raffigurandola bidimensionalmente. Uno dei migliori esempi di una illusione paradosso è la scala di Penrose. Si tratta di una immagine bidimensionale ma la percepiamo come tridimensionale. Questa illusione è possibile poiché nella figura si riesce a falsificare la prospettiva angolare al punto da far emergere una dimensione inesiste nella figura.

Quindi, l’ illusione è un travisamento di un vero stimolo sensoriale, cioè un’interpretazione che contraddice la realtà oggettiva.

 

Illusioni percettive: quali sono?

Numerosi illusioni ottiche sono quelle prodotte dalla rifrazione o piegatura della luce che passa attraverso una sostanza o un oggetto. Per cui, un raggio di luce che passa da un mezzo trasparente come l’aria a un altro come l’acqua determina un effetto di piegatura del raggio stesso. Un’illusione molto familiare prodotta dalla rifrazione è l’effetto Rainbow: i raggi del sole passano attraverso la pioggia, le goccioline separano (rifrangere) la luce bianca nelle sue componenti dando vita a uno spettro di colori: l’arcobaleno. Un’altra illusione derivante dall’azione atmosferica è il miraggio, in cui, per esempio, la visione dell’acqua, è creata dalla luce che passa attraverso strati di aria posti sopra la superficie riscaldata. In effetti, gli strati più freddi dell’aria riflettono i raggi del sole fino a creare un’illusione di acqua dove ce n’è.

Inoltre, il nostro cervello è in grado di raggruppare oggetti sparsi senza senso dotandoli di un significato che oggettivamente non hanno. Tutto queste avviene sulla base di somiglianze acquisite, o rispetto a quanto questi oggetti sono vicini o lontani a chi li osserva.

L’illusione di chiusura, di cui si è già parlato nell’articolo precedente in merito alla Gestalt è l’illusione di percepire come completo uno stimolo che non lo è. Si verifica, in altri termini, una sorta di completamento della figura. A esempio se una persona guarda un film, la chiusura avviene quando si riempiono gli intervalli in modo da creare una illusione di continuità con l’immagine ininterrotta.

L’illusione figura-sfondo, una delle più note illusioni percettive, si verifica quando da una figura ambigua ne possono emergere due, come il vaso bianco o la sagoma di due profili neri. Le fluttuazioni da una figura allo sfondo possono verificarsi anche senza sforzo attivo, ma chiaramente il percepire un aspetto di solito esclude l’altro.

L’illusione di Poggendorff dipende dalla pendenza delle linee intersecanti, infatti se diminuisse la pendenza l’illusione diventa meno convincente.

Nell’illusione di Zöllner, due o più linee parallele appaiono convergenti nel momento in cui sono intersecate da segmenti inclinati con angolazione opposta. Questo effetto si verifica perché i segmenti disturbano la percezione delle linee parallele.

Nell’illusione di Ponzo, una figura sembra più grande di un’altra figura della stessa dimensione posta tra righe parallele disegnate prospetticamente. Questo effetto illusorio si ottiene poiché la prospettiva lineare crea un errore percettivo: le linee parallele, come i binari ferroviari, pare convergano in lontananza. Ovviamente, tutti sappiamo che non è così.

Una reale illusione percettiva capitata a tutti è l’illusione della luna. Quando la Luna è all’orizzonte, sembra essere molto più grande rispetto a quando è alta in cielo. Eppure, è sempre grande allo stesso modo. Quindi, come mai è percepita diversamente? Pare sia un problema di mancanza di segnali di distanza avvertiti nel cielo notturno che provocano una dispercezione oculare che rende la luna più piccola.

 

Illusioni vs allucinazioni

Le illusioni chiamate pseudo-allucinazioni si verificano quando emozioni come l’ansia o la paura sono proiettati su oggetti esterni. Per esempio quando un bambino di notte è in grado di percepisce mostri o folletti nelle ombre o rami di albero che si animano. Tale fenomeno si rileva anche tra i soldati, che in preda a uno stato di paura confondono persone o oggetti per il nemico, al punto da sferrare direttamente un attacco. Ugualmente in letteratura è presente questa pseudo allucinazione. Chi non ricorda Don Chisciotte che confondeva i mulini a vento per cavalieri nemici? E alla fine, perdeva la battaglia!

Cosa diversa si verifica nei pazienti psichiatrici che percepiscono le persone come macchine, orsacchiotti, e diavoli, in questo caso si tratta di vere e proprie allucinazioni visive.

Qualcosa di molto simile accade con il fenomeno déjà-vu, sensazione di aver già vissuto nel passato un episodio presente. Si ha una sorta di fusione tra passato e presente che crea l’illusione che si sta rivivendo una esperienza già fatta, ma è solo una illusione dovuta alla presenza nella scena attuale di qualcosa che richiami il passato. Alcuni la definiscono un’allucinazione vera e propria, poiché la familiarità del contenuto presente riattiva vecchie tracce mnestiche di situazioni simili vissute in passato.

Inoltre, le emozioni, le associazioni, e le aspettative causano spesso percezioni illusorie nella vita di tutti i giorni in quanto caricano emotivamente una situazione al punto da renderla percettivamente distorta o illusoria.

 

Le illusioni percettive: le teorie

Numerose sono le teorie formulate per spiegare come avvengono le illusioni percettive, e di seguito saranno passate in rassegna le più importanti.

  1. Teorie fondate sul ruolo dei movimenti oculari. Quando si verifica una illusione è facile che i movimenti oculari o le saccadi siano effettuati solo in una determinata direzione della figura, a scapito delle altre che sono ignorate o sottostimate.
  2. Teorie neurofisiologiche. Inizialmente, quando del cervello si conosceva poco si pensava che le illusioni percettive dipendessero da caratteristiche fisiologiche della retina. Successivamente, quando si dimostrò l’esistenza nella corteccia visiva di neuroni specializzati nella rilevazione dell’orientamento dello stimolo, il livello di produzione dell’illusione fu spostato in questa area cerebrale. Per es., l’illusione per cui un segmento verticale è percepito più lungo di un segmento orizzontale (od obliquo) potrebbe essere spiegata con una sensibilità ottimale dei neuroni per stimoli a orientamento verticale e una ridotta sensibilità dei neuroni che rispondono agli altri orientamenti.
  3. Teorie psicologiche. È possibile distinguerne tre principali: la teoria dell’empatia, la teoria della Gestalt, le teorie cognitive. La teoria dell’empatia si basa sull’ipotesi che tra l’osservatore e lo stimolo si instauri una relazione dinamica, per cui l’osservatore valuta lo stimolo secondo risonanze affettive ed emotive. La teoria della Gestalt, di cui si è largamente parlato nell’articolo precedente. E, infine, le teorie cognitive, che considerano le illusioni errori di interpretazione dello stimolo.
  4. Fattori culturali. Secondo alcuni studiosi le illusioni percettive dipenderebbero da fattori culturali che portano ad avere un’influenza diretta sul percetto. Quindi, l’illusione della linea si verificherebbe nelle popolazioni occidentali abituate a elaborare informazioni visivo-spaziali e non in popolazioni che vivono in spazi aperti

 

RUBRICA: INTRODUZIONE ALLA PSICOLOGIA

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Trattamento di Esposizione Prolungata per il PTSD, con Edna Foa – Report dal workshop di Copenaghen

La città danese di Copenaghen ha appena ospitato un workshop di formazione tenuto dalla Prof. Edna Foa ed dal Dr. Aaen Casper sul trattamento di Esposizione Prolungata del Disturbo da Stress Postraumatico.

Foa, direttrice del Centro per i disturbi d’ Ansia alla Penny University di Philadelphia è stata tra gli anni 80-90 figura determinante per lo sviluppo della Terapia cognitivo comportamentale del Ptsd, del Disturbo Ossessivo-Compulsivo e delle Fobie. Attualmente, tra le terapie Evidence Based per il Disturbo da Stress Postraumatico, il protocollo di Esposizione Prolungata (Prologed Exposure Therapy – PE), messo a punto da Edna Foa e dal suo gruppo alcuni anni fa (Foa et al, 2007), si colloca tra le procedure manualizzate insieme all’Emdr e alla Terapia Cognitiva Processuale (PCT) maggiormente presente in studi di efficacia e soggetta a sperimentazione (NovoNavarro et al, 2016).

La teoria alla base della concettualizzazione del Trattamento di Esposizione Prolungata era applicata già negli anni 80 ai disturbi d’ ansia con il nome di Teoria dell’elaborazione emotiva (Foa et al, 1986) e solo successivamente è stata applicata al disturbo da stress post traumatico (Foa et al, 1989).

Il protocollo di Esposizione Prolungata per il PTSD prevede dalle 10 alle 14 sedute di 90 minuti ciascuna e si presenta come trattamento per il disturbo da stress post traumatico e non per la terapia del trauma in generale.

Trattamento di Esposizione Prolungata per il PTSD, con Edna Foa - Report dal workshop di Copenaghen (FOTO)
Gianpaolo Mazzoni – Edna Foa

 

I moduli componenti del Trattamento di esposizione prolungata

Nell’agenda del Trattamento di Esposizione Prolungata sono presenti come moduli componenti: psicoeducazione sulle risposte al trauma e circoli di mantenimento del disturbo da stress post traumatico, esposizione immaginativa, esposizione in vivo ed homework (es. viene chiesto al paziente di riascoltare le registrazione delle sedute svolte durante ogni giorno della settimana). L’esposizione immaginativa si presenta come l’elemento maggiormente caratterizzante e specifico dell’intervento terapeutico: il paziente ripercorre all’episodio traumatico raccontando l’evento e successivamente il terapeuta lo aiuta, mediante domande, ad elaborare il materiale traumatico.

Successivamente i singoli hot spots (frammenti del ricordo più attivanti) vengono ripetuti in modo ricorsivo. In tal senso il Trattamento di Esposizione Prolungata interviene sulle componenti disturbo da stress post traumatico sia sull’aspetto sintomatologico (es. flashback, incubi, ipererousal, perdita della dimensione presente) che sulle frequenti cognizioni irrealistiche (es. il mondo è cattivo, io sono incapace di affrontare lo stress legato all’evento traumatico e io sono colpevole) e sulla componente emozionale (legata a vissuti di paura, colpa, vergogna, rabbia ecc) utilizzando due componenti della processione dei ricordi dolorosi, quali l’ Activasion e la Correttive Information.

 

Trattamento di esposizione prolungata e ricerca

Complessivamente a livello di ricerca emerge come dato sempre più condiviso tra clinici e ricercatori, sia come pur con modelli teorici differenti, l’utilità di impiegare come una delle componenti centrali per la terapia del disturbo da stress post traumatico interventi esperienziali di tipo bottom up (Solomon & Heide, 2005) con attivazione di emozioni, sensazioni e componenti somatiche, così da contribuire alla modifica delle cognizioni disfunzionali apprese in questi tipo di pazienti e che bloccano i loro processi di adattamento emotivo e sociale.

Il corso nelle sue 4 giornate ha delineato aspetti teorici e video di sedute su vittime traumi, affiancati da simulazioni a piccoli gruppi sulle specifiche fasi della terapia e sulle tecniche in uso in questa forma di lavoro. Un esperienza ricca e molto stimolante in un gruppo di lavoro multietnico e con formazioni cliniche tra loro molto eterogenee.

Possiamo dire che il workshop ha rappresentato un tentativo di formare terapeuti con il brevetto di  Trattamento di Esposizione Prolungata anche nella ‘Vecchia Europa’ dove soprattutto alcuni paesi come l’Italia fanno ancora fatica ad impiegare protocolli di trattamento manualizzabili e replicabili in contesti clinici e di ricerca.

Doveroso ringraziamento ad E.Foa e A.Casper, direttore del Centro per la Terapia Dialettico Comportamentale ed il PTSD di Copenaghen per aver reso possibile questo eminente evento formativo.

Terapia Cognitivo Comportamentale per l’ansia: efficacia dei trattamenti

La Terapia Cognitivo Comportamentale per l’ansia si è dimostrata ampiamente valida, tanto da essere introdotta nelle linee guida internazionali che indicano i percorsi di cura più adeguati per le diverse patologie.

 

La Terapia Cognitivo Comportamentale (TCC) fin dalla sua nascita risulta strettamente correlata alla ricerca in ambito psicologico. Da subito gli autori che l’hanno fondata hanno testato le loro ipotesi sottoponendole a falsificazione, creando modelli aggiornati, avvicinandosi il più possibile alla scienza e allontanandosi gradualmente dalla matrice filosofica.

Questo atteggiamento ha costituito un punto di forza che ha permesso un notevole sviluppo della scienza psicologica, determinando la pubblicazione di numerosi lavori su diversi disturbi. Una delle aree in cui la Terapia Cognitivo Comportamentale ha maggiormente dimostrato la sua efficacia è da sempre quella dei disturbi d’ansia: in questo campo, la Terapia Cognitivo Comportamentale si è ampiamente dimostrata valida, tanto da essere introdotta nelle linee guida internazionali che indicano i percorsi di cura più adeguati per le diverse patologie.

La Terapia Cognitivo Comportamentale per l’ansia mira a eliminare i timori esagerati e i comportamenti di controllo ed evitamento che mantengono i Disturbi d’Ansia (per una descrizione completa si veda Beck, 1976; Wells, 1997), nel tentativo di riacquisire un senso di sicurezza e di confidenza nelle attività della vita quotidiana. Per raggiungere tale obiettivo, la Terapia Cognitivo Comportamentale si serve di:

  • Interventi psicoeducativi – al paziente vengono fornite nuove modalità di lettura di pensieri e stati d’animo.
  • Tecniche di esposizione – si stabiliscono con il paziente graduali step per affrontare l’evento o la situazione temuti, in modo da confrontarsi con le paure temute in diversi contesti, solitamente da quello meno fastidioso al più spaventoso.
  • Eliminazione dei comportamenti di controllo – a volte talmente abituali da risultare automatici, i comportamenti di controllo sono tutte le azioni messe in atto per prevenire l’evento temuto (evitare di andare in certi luoghi, di trovarsi in determinate situazioni, …). Spesso sono proprio i costi che le strategie di controllo implicano a convincere la persona del bisogno di aiuto.
  • Ristrutturazione cognitiva – si identificano e discutono i pensieri che mantengono la sintomatologia ansiosa, ad esempio le convinzioni di pericolo o la tendenza a catastrofizzare un evento spiacevole.

Nella recente review di Caselli e collaboratori sull’efficacia della Terapia Cognitivo Comportamentale nei disturbi d’ansia, gli autori scrivono:

In sintesi, il processo di cambiamento avviene attraverso un circuito che prevede: (1) l’identificazione dei timori nucleari e dei comportamenti di evitamento/controllo, (2) la disputa verbale delle credenze che sostengono la risposta ansiosa, (3) l’esposizione a situazioni temute con la riduzione di evitamento e controllo, (4) l’uso di esperimenti comportamentali per acquisire nuove conoscenze

(Caselli, Manfredi, Ruggiero e Sassaroli, 2016).

Caselli e colleghi hanno effettuato un lavoro di meta-analisi, analizzando le pubblicazioni indicizzate su MEDLINE e PSYCHINFO degli ultimi 15 anni, considerando tutti i vari modelli teorici nati entro la cornice della Terapia Cognitivo Comportamentale.

 

La Terapia Cognitivo Comportamentale per l’ansia

Il Disturbo di Panico

La Terapia Cognitivo Comportamentale per il Disturbo di Panico si svolge solitamente in 8-12 sedute e ha mostrato la sua efficacia con miglioramenti nel 78% dei casi (Öst, 2008), con indici elevati di stabilità nel tempo (Norton e Price, 2007).

 

Il Disturbo d’Ansia Sociale

Con una durata media di 12 sedute, il Disturbo d’Ansia Sociale viene superato dal 76% dei pazienti in modo stabile (Öst, 2008, Norton & Price, 2007). In particolare, ciò che aumenta l’efficacia della Terapia Cognitivo Comportamentale per l’ansia sociale è il procedimento di ristrutturazione cognitiva, che porta al raggiungimento di risultati migliori rispetto alla sola esposizione (Ougrin, 2011).

 

Il Disturbo Ossessivo Compulsivo

Tecniche di esposizione e controllo della risposta e terapia cognitiva hanno mostrato entrambe risultati stabili nel tempo e paragonabili all’intervento farmacologico con antidepressivi, con una media di 15 sedute (Otto et al., 2004, Abramowitz, 1997; van Balkom et al., 1994; Ougrin 2011). Franklin e Foa (2002) affermano che le tecniche di esposizione e controllo della risposta, perché efficaci, devono essere applicate rigorosamente, con esposizioni di almeno 90 minuti. Nel caso del Disturbo Ossessivo Compulsivo, solo il 21% dei pazienti mostra miglioramenti alla fine di una terapia cognitiva. Questo dato può essere spiegato dal fatto che risulta ancora poco sviluppato un modello univoco che guidi la parte cognitiva dell’intervento, mentre gli interventi proposti agiscono per lo più a livello comportamentale.

 

Disturbo d’Ansia Generalizzata

Il livello di ansia e la frequenza delle preoccupazioni si riducono significativamente nel 53% dei pazienti che svolgono un percorso di Terapia Cognitivo Comportamentale per l’Ansia Generalizzata.

Il percorso consiste solitamente di 12 sedute, in cui vengono utilizzate tecniche propriamente cognitive affiancate a esercizi comportamentali (Deacon & Abramowitz, 2004). Le difficoltà rispetto alla creazione di un protocollo maggiormente efficace potrebbero riguardare l’assenza di un target altamente specifico, in un disturbo che ha come caratteristiche preoccupazioni generalizzate e relative a diversi ambiti della vita quotidiana.

 

Disturbo da Stress Post Traumatico

Nel caso del Disturbo da Stress Post Traumatico, il 66% dei pazienti presenta una riduzione dei livelli di ansia, pensieri intrusivi e evitamenti in seguito a una terapia cognitivo comportamentale (Öst, 2008). In media, il trattamento dura 9,5 sedute e l’efficacia della terapia cognitiva è paragonabile a quella della più recente EMDR.

 

Terapia Cognitivo Comportamentale per l’ansia e terapia farmacologica

Il farmaco agisce sull’arousal correlato all’ansia riducendolo, con la diminuzione dei sintomi correlati. Tuttavia, quando il farmaco viene interrotto, la sintomatologia può ripresentarsi, anche dopo lunghi periodi di assunzione (Mavissikalian, Perel e de Groot, 1993).

Negli ultimi anni, si è analizzata l’efficacia dell’intervento farmacologico nel breve termine, la stabilità dei risultati e i possibili vantaggi di un intervento combinato. Le meta-analisi considerate hanno evidenziato risultati migliori per la Terapia Cognitivo Comportamentale dell’ansia, in termini di aderenza al trattamento (Otto et al., 2004), stabilità dei risultati e rapporti costo-efficacia (Layard, Clark, Knapp e Mayraz, 2007). Le ricerche che hanno indagato possibili vantaggi derivanti da un trattamento integrato non hanno portato a risultati certi, evidenziando invece che, nei casi di trattamento integrato, l’interruzione della terapia farmacologica può aumentare la probabilità di ricaduta.

 

 

Efficacia relativa di interventi comportamentali e cognitivi

Uno dei pregi della Terapia Cognitivo Comportamentale è quello di saper integrare tecniche che si sono mostrate efficaci e renderle flessibili al trattamento del disturbo specifico. Per questo motivo, non sembra esserci una prevalenza nell’efficacia di un intervento propriamente comportamentale rispetto a una tecnica maggiormente cognitiva. Si è riscontrato inoltre che l’utilizzo di più tecniche combinate non mostra risultati significativamente migliori rispetto all’applicazione di un solo protocollo. Questo suggerisce che, per i disturbi d’ansia, l’applicazione di un intervento lineare e forse più semplice sarebbe da preferire, in prima battuta, all’utilizzo di più tecniche unite tra loro.

 

Terapia Cognitivo Comportamentale: evoluzione nel tempo

Öst (2008) sottolinea come gli studi più datati evidenzino una maggior efficacia della Terapia Cognitivo Comportamentale per l’ansia rispetto agli studi più recenti, pur mantenendo ad oggi la validità che le permette di essere citata di diritto nelle linee guida internazionali. Questo trend potrebbe essere spiegato da: (a) la recente diffusione di una tipologia di disturbi ansiosi maggiormente gravi e difficili da trattare; (b) una maggior aderenza al protocollo nei primi studi, spesso condotti dal teorico autore dell’intervento; (c) la tendenza, negli ultimi anni, ad applicare interventi brevi, con un numero di sedute sempre più ridotto, proponendo a volte un intervento meno efficace.

 

Terapia Cognitivo Comportamentale per l’ansia: la terza ondata

Clinici e ricercatori hanno cercato nel tempo di superare i limiti della Terapia Cognitivo Comportamentale classica, dando origine a diverse forme di psicoterapia che vengono a loro volta messe alla prova dagli studi di efficacia. Le più note vengono studiate e applicate da più di vent’anni (ad esempio Mindfulness Based Interventions, Dialectical Behavior Therapy, Acceptance and Commitment Therapy), ma ad oggi non sono presenti studi che dimostrino in modo univoco maggiori miglioramenti rispetto alla Terapia Cognitivo Comportamentale per l’ansia, che rimane spesso il trattamento di prima scelta.

Fobia sociale e disagio lavorativo: come superarli con la teatroterapia

La fobia sociale è un disturbo psicologico caratterizzato da un’intensa e persistente paura di affrontare le situazioni in cui si è esposti alla presenza e al giudizio altrui. La teatroterapia consente di superare i blocchi emotivi ed è particolarmente utile a chi ha problemi di timidezza, difficoltà relazionali, disagio nell’esprimere il proprio parere o parlare in pubblico.

 

La Fobia sociale

La fobia sociale è un disturbo psicologico caratterizzato da un’intensa e persistente paura di affrontare le situazioni in cui si è esposti alla presenza e al giudizio altrui per il timore di apparire incapace o ridicolo e di agire in modo inopportuno. Si tratta di un disturbo d’ansia causato dalla paura di essere giudicati negativamente in situazioni sociali o durante lo svolgimento di un’attività.

Le prime descrizioni della fobia sociale risalgono ai primi anni del Novecento, quando Janet (1903) la definì come ‘La paura di parlare in pubblico, suonare il piano e scrivere di fronte ad altri‘. La specificità della fobia sociale fu negata con l’affermarsi della Psicoanalisi, che la classificò genericamente all’interno della nevrosi fobica. Successivamente, Marks e Gelder (1966) la distinsero dalle altre manifestazioni fobiche, definendola come ‘La paura di mangiare, bere, ballare, parlare, scrivere, ecc. in presenza di altre persone per il timore di risultare ridicoli‘.

Il nucleo patologico della fobia sociale è rappresentato da una marcata sensibilità verso il giudizio degli altri; il fobico sociale teme di essere osservato e di divenire oggetto di scherno da parte degli altri, o che le proprie prestazioni lo possano esporre a valutazioni negative.

A livello cognitivo il fobico sociale è caratterizzato dall’essere molto critico verso se stesso e si autopercepisce come debole, incompetente e ridicolo, mentre l’Altro è visto come abile, superiore e competente.

Sul piano comportamentale, questo soggetto fobico, per sottrarsi all’esposizione di esperienze dolorose, adotta la condotta del rinvio, della rinuncia e del ritiro; nella relazione con l’Altro adotta un comportamento protettivo ed una comunicazione di tipo anassertiva e di sottomissione.

A livello emotivo il fobico sociale vive posseduto da un senso generale di agitazione e di preoccupazione che aumenta con l’avvicinarsi di una situazione temuta. Il timore esagerato del giudizio degli altri impedisce l’autoesposizione e più i comportamenti di evitamento si generalizzano, maggiormente il disturbo diventa invalidante: si sviluppano così sentimenti di inadeguatezza ed inferiorità che, a loro volta, riducono l’autostima ed aumentano la tendenza a percepire se stesso come incapace e gli altri come critici e rifiutanti.

Gli individui che soffrono di fobia sociale possono sperimentare un forte disagio anche in ambito lavorativo. I problemi in ambito lavorativo sono spesso causati dal timore di parlare in pubblico e dalla tendenza ad evitare impegni in cui il soggetto potrebbe sentirsi valutato negativamente.

La conseguenza della fobia sociale è un impoverimento della vita dell’individuo, che spesso conduce una vita ritirata, con poche amicizie e poche occasioni di svago; analogamente essa può compromettere la carriera scolastica e/o lavorativa con conseguente danno per l’immagine e l’autostima.

 

Fobia sociale e timidezza sul luogo di lavoro

La fobia sociale sul luogo di lavoro implica che il soggetto che ne soffre non riesca spesso a trovare lavoro e quando lo trova, generalmente, non riesce a reggere lo stress lavorativo per varie motivazioni, quali ad esempio la paura di essere giudicati dai colleghi o dal proprio capo, il disagio di sentirsi inappropriato per il ruolo che deve svolgere, l’ansia per il doversi relazionare con gli altri: è sicuramente uno svantaggio se si pensa in termini di lavoro, sia per trovarlo, che per mantenere una determinata posizione lavorativa nel tempo.

La fobia sociale sul luogo di lavoro non riguarda solamente chi ha particolari responsabilità, ma anche le persone timide, che temono continuamente di essere messe al centro dell’attenzione.

 

La teatroterapia per la fobia sociale e la timidezza sul lavoro

Secondo una ricerca commissionata dalla scuola britannica di teatro ‘Stagecoach Theatre Arts School‘, molte persone ritengono di non aver ottenuto promozioni sul posto di lavoro o aumenti di stipendio proprio a causa della propria timidezza e/o a causa di una scarsa fiducia in se stessi.

Dalla ricerca emerge che, sul posto di lavoro, il 41% delle persone ha difficoltà a fare delle presentazioni in pubblico o a guidare delle riunioni, mentre un altro 40% si reputa troppo timido per parlare nelle riunioni; il 34% afferma di non avere il coraggio di chiedere al proprio capo un aumento di stipendio. Anche trovare un lavoro si rivela difficile per taluni: il 29% sostiene infatti di avere difficoltà ad ottenere un colloquio di lavoro, durante il quale, spesso, non riesce neppure a parlare.

Lo studio commissionato dalla Stagecoach Theatre Arts School intende promuovere, seppur indirettamente, la scuola di recitazione per bambini, sostenendo che, attraverso la teatroterapia , si può riuscire a far loro superare precocemente la paura di parlare in pubblico, che è alla base delle difficoltà di relazione degli adulti. Molte attività artistico-creative, infatti, consentono di sperimentare aspetti di se stessi, altrimenti difficilmente conoscibili.

Una delle cosiddette forme di arte terapia è appunto la teatroterapia, che utilizza le potenzialità del gioco delle parti per favorire l’integrazione e sviluppare una comunicazione efficace.

Tradizionalmente la teatroterapia viene definita ‘La messa in scena dei propri vissuti, nel contesto di un gruppo, con il supporto di alcuni principi di presenza scenica che derivano dall’arte dell’attore‘ (Orioli, 2001).

 

Teatroterapia per la crescita personale e professionale

Ad oggi sono stati sperimentati diversi percorsi di teatroterapia, ognuno dei quali tende ad attivare dei processi di crescita personale e professionale. Attraverso l’arte teatrale, infatti, si possono sviluppare alcune competenze manageriali, quali, ad esempio, la comunicazione efficace, la capacità di lavorare in gruppo o la capacità di gestire i conflitti.

Il contesto del palcoscenico permette di provare nuove reazioni cognitive e comportamentali, sperimentando un altro sé in situazioni temute, che possono essere affrontate attraverso la drammatizzazione: in questo senso la teatroterapia consente di perfezionare la propria comunicazione a tutti i livelli, superando i blocchi emotivi, allenando il non verbale, pertanto è particolarmente utile a chi ha problemi di timidezza, difficoltà relazionali, disagio nell’esprimere il proprio parere o parlare in pubblico.

Disturbo dell’identità di genere, credenze metacognitive e livello di ansia

Disturbo dell’identità di genere: l’impatto che le credenze metacognitive hanno sui sintomi ansiosi può essere spiegato riprendendo la condizione di isolamento e l’inevitabile sviluppo di modalità di regolazione emotiva autoreferenziali e poco adattive, come il rimuginio. Inoltre, le credenze di pericolo e incontrollabilità rilevate potrebbero indurre ad adottare strategie di distrazione e soppressione dei pensieri, che la letteratura ha indicato come inutili e controproducenti.

La diagnosi del disturbo dell’identità di genere

Il DSM-5 (p. 451) definisce il termine transgender con un’ampia categoria di individui che si identificano in modo transitorio o persistente con un sesso differente dal proprio sesso di nascita. Sebbene potrebbe sembrare scontato, è importante sottolineare che essere transgender non significa appartenere a una determinata categoria diagnostica, perché di per sé non si tratta di una patologia. Essere transgender vuol dire però essere parte di una minoranza, con le conseguenze negative che purtroppo permangono ancora oggi; proprio per questo motivo la ricerca in psicologia si è ultimamente occupata di approfondire le conoscenze in questo ambito, al fine di poter sviluppare interventi efficaci volti a intervenire sulle possibili difficoltà specifiche di questa popolazione.

Nel DSM-5 si parla di gender dysphoria (disforia di genere), una condizione clinica in cui l’avvertire discrepanza tra il proprio sesso biologico e la propria identità di genere causa un disagio clinicamente significativo e compromette il funzionamento sociale e lavorativo. Esattamente come per i disturbi d’ansia (solo per citare un esempio) l’entità del disagio avvertito e le sue ripercussioni sono ciò che determinano la presenza di un quadro clinicamente significativo. Questo è un grande cambiamento, se consideriamo che nella precedente versione del DSM il Disturbo dell’Identità di Genere si focalizzava sulla percezione di una identità diversa dal sesso biologico, senza considerare il disagio del soggetto.

 

I livelli di ansia e stress nella popolazione transgender

La ricerca ha dimostrato che il livello di stress nella popolazione transgender è generalmente più alto rispetto alla popolazione cisgender, in cui l’identità di genere corrisponde al sesso biologico. Nel 2013, Budge, Adelson e Howard stimano la presenza di sintomi depressivi nel 50% degli individui transgender, mentre rispetto alla sintomatologia ansiosa la prevalenza si aggira tra il 40,4% e il 47,5%, rimanendo superiore al confronto con la media della popolazione.

Questi dati possono essere compresi alla luce del Minority Stress Model (MSM, Meyer, 1995, 2003), il quale suggerisce che (1) gli individui appartenenti a una minoranza sono maggiormente sottoposti a fonti di stress ambientali, come la discriminazione o la transphobia, (2) tali stressor possono essere affrontati attraverso modalità di gestione preventive, come l’evitamento o il mantenimento di uno stato di allerta, (3) la percezione dello stigma, effettivamente esperito o anche solo atteso, può essere internalizzata, arrivando a determinare sentimenti di paura e disagio (Hendricks & Testa, 2012). Questi elementi possono condurre a una condizione di isolamento, in cui le emozioni negative spesso vengono affrontate attraverso rimuginio e ruminazione, con l’idea che sia impossibile ricevere un aiuto all’esterno. Da queste premesse è nata l’esigenza di indagare la presenza di credenze metacognitive specifiche, che hanno già ampiamente dimostrato il loro ruolo cruciale nel mantenere alti livelli di rimuginio e, conseguentemente, di ansia (Wells & Matthews, 1994, 1996).

 

La relazione tra credenze metacognitive e livelli di ansia nel disturbo dell’identità di genere

Fernie e collaboratori hanno chiesto a 125 persone (44 transgender e 81 cisgender) di compilare alcuni questionari volti a indagare i livelli di ansia, depressione, rimuginio, e la natura delle credenze metacognitive. I risultati confermano la già nota relazione tra credenze metacognitive e livelli di ansia dichiarati dai soggetti. Il dato innovativo riguarda invece la correlazione con l’identità di genere: i ricercatori hanno rilevato che il rapporto tra ansia e identità di genere viene mediato da (a) livelli di rimuginio, (b) credenze metacognitive sulla pericolosità e l’incontrollabilità dei pensieri e (c) fiducia nelle proprie capacità cognitive.

L’impatto che le credenze metacognitive hanno sui sintomi ansiosi può essere spiegato riprendendo la condizione di isolamento e l’inevitabile sviluppo di modalità di regolazione emotiva autoreferenziali e poco adattive, come il rimuginio. Inoltre, le credenze di pericolo e incontrollabilità rilevate potrebbero indurre ad adottare strategie di distrazione e soppressione dei pensieri, che la letteratura ha indicato come inutili e controproducenti (Clark, Ball, e Pape, 1991; Salkovskis e Campbell, 1994). Seppure l’ambito della gender dysphoria sia relativamente nuovo e non ci sia un’ampia letteratura sull’argomento, lo studio sembrerebbe indicare l’utilità dell’approccio metacognitivo che, attraverso la modifica delle credenze metacognitive, ha già mostrato risultati promettenti nel trattamento dei disturbi d’ansia (Wells, White e Carter, 1997).

Discalculia evolutiva: caratteristiche, eziologia e trattamento

Con il termine discalculia evolutiva (o disturbo del calcolo) si intende un disturbo caratterizzato da prestazioni inferiori a quelle previste in base all’età cronologica nella capacità di calcolo (produzione e comprensione della quantità, riconoscimento dei simboli numerici e corretta esecuzione delle operazioni aritmetiche di base), escludendo la compromissione di abilità più complesse, per esempio riguardanti la risoluzione di problemi di carattere algebrico o geometrico (Vio, Tressoldi e Lo Presti, 2012).

Per poter parlare di discalculia sono necessarie altresì altre condizioni (che accomunano tutti i Disturbi specifici dell’apprendimento): intelligenza generale nella norma, assenza di deficit neurologici, sensoriali o psichiatrici e frequenza scolastica e istruzione adeguata (Vio, Tressoldi e Lo Presti, 2012).

Secondo quanto riportato nel DSM-5 (American Psychiatric Association, 2013) la discalculia fa riferimento a una serie di compromissioni dell’abilità numerica, che vanno dall’apprendimento del concetto di numero, alla memorizzazione di fatti aritmetici, al calcolo accurato o fluente, fino al ragionamento matematico corretto, con un’interferenza significativa sia con l’apprendimento scolastico che con le normali attività della vita quotidiana.

Discalculia evolutiva: prevalenza e comorbidità

I dati sulla diffusione del fenomeno, calcolati sulle segnalazioni fatte dalla scuola, indicano che il 20% degli studenti italiani incontra difficoltà, spesso significative, nell’apprendimento del sistema dei numeri (con una media di cinque bambini per classe): un dato allarmante, che si scontra però con quanto riportato dall’autorevole International Academy for Research in Learning Disabilities (IARLD, 2005) secondo cui solo lo 0,2% dei bambini sarebbe affetto da discalculia evolutiva (Lucangeli e coll., 2006). La differenza tra le due fonti sarebbe spiegabile con la confusione tra le categorie di difficoltà di apprendimento e disturbo specifico di calcolo, attraverso il concetto di “resistenza al trattamento”. Se, infatti, un bambino, in difficoltà nell’area del calcolo, con aiuti mirati, ottiene un miglioramento significativo delle proprie competenze, nel caso di discalculia evolutiva, gli stessi trattamenti tendono a una minore efficacia (Lucangeli e coll., 2006).

Se la discalculia è di per sé un problema invalidante, raramente esso si presenta da solo; frequente è l’associazione con altri disturbi specifici dell’apprendimento quali Dislessia, Disortografia o Disgrafia: circa il 40% dei bambini presenterebbe infatti dislessia e discalculia, suggerendo la presenza di un comune deficit di automatizzazione o a carico della memoria di lavoro (Simmons e Singlenton, 2007, citato in Vio, Tressoldi e Lo Presti, 2012).

Riguardo le cause del fenomeno, la presenza di una predisposizione genetica alla discalculia è stata avanzata fin dal 1974 da Kosc; più recentemente, Shalev e Gross-Tsur (2001) hanno riscontrato, in circa la metà di fratelli e sorelle di bambini con discalculia, la presenza della patologia, con un rischio di 5-10 volte maggiore rispetto alla popolazione dove la familiarità è assente (citato in Vio, Tressoldi e Lo Presti, 2012).

Discalculia evolutiva: l’importanza della diagnosi precoce

Il primo passo per affrontare la discalculia è porre particolare attenzione a segni di riconoscimento precoci, che corrispondono alle aree da indagare ai fini della formulazione di una diagnosi accurata, in particolare (Vio, Tressoldi e Lo Presti, 2012):
1. Abilità lessicali (riconoscimento visivo dei numeri, per esempio 2 e 6, e lettura o scrittura di numeri sotto dettatura);
2. Corretta stima della grandezza e del rapporto maggiore/minore, che include la capacità, presente dall’età prescolare, di conoscere la quantità “a colpo d’occhio” (3 maggiore di 5);
3. Abilità pre-sintattiche (associazione di una quantità di oggetti a un numero);
4. Strategie di conteggio (enumerazione all’indietro, ordinare dal più grande al più piccolo);
5. Memorizzazione di fatti numerici (somma di numeri uguali o tabelline con numeri uguali).

In relazione al trattamento è importante sottolineare come per poter parlare di un efficace progetto riabilitativo, esso debba rientrare nella prospettiva de-medicalizzante del disturbo: limitazione, dunque, del ricorso alla certificazione legale della disabilità e focalizzazione delle risorse professionali ed economiche sulla messa in atto sia di strategie riabilitative specifiche per migliorare le abilità di calcolo che di misure compensative e dispensative da parte dei docenti.

Discalculia evolutiva: il trattamento con il Programma Feuerstein

Riguardo al primo aspetto, uno dei programmi più adoperati a livello internazionale è il Programma di Arricchimento Strumentale di Feuerstein che si prefigge come obiettivi fondamentali l’arricchimento del repertorio individuale delle strategie cognitive necessarie per l’apprendimento e il recupero delle funzioni cognitive carenti. L’intervento si compone di quattordici strumenti, che intervengono ciascuno su precise funzioni cognitive, al fine di fornire nuove occasioni per sperimentare le proprie capacità, avviare una riflessione metacognitiva e trasformare il tipico stile cognitivo passivo e dipendente in direzione di una maggiore autonomia (Feuerstein e coll., 2008).

Insieme a una riabilitazione vera e propria, caratterizzata da strumenti operativi efficaci, la scuola deve adoperarsi attraverso alcune semplici regole, quali l’utilizzo di un linguaggio semplice, evitando spiegazioni articolate, ovvero l’utilizzo preferenziale di materiali concreti, come disegni o semplici diagrammi, in linea con le raccomandazioni elaborate dalla Consensus Conference sull’uso delle misure compensative per i soggetti con Disturbi specifici dell’apprendimento (2007).

In particolare, per favorire un miglior approccio all’apprendimento numerico, Butterworth e Yeo (2011) suggeriscono l’utilizzo di materiali specifici, come blocchi che rappresentano i valori in base 10, monete, piste numeriche, metri rigidi, con l’aggiunta dell’uso della calcolatrice, strumento che riduce il carico della memoria di lavoro, pur non dovendosi però ritenere sostitutivo di un adeguato programma di stimolazione delle competenze, come prima esposto. Vi sono poi da considerare le ricadute negative della discalculia sull’autostima e sull’umore, il rifiuto della scuola o i comportamenti ostili: ecco perché la psicoterapia assume un’importanza fondamentale nel trattamento. La psicoterapia cognitivo-comportamentale, a questo scopo, fornisce un valido supporto, stimolando la valutazione realistica dei propri mezzi e delle difficoltà dei compiti proposti, focalizzandosi sulla regolazione dell’autostima e dell’aggressività, cause frequenti della demotivazione scolastica, e prevedendo il coinvolgimento della famiglia (Terzocentro di psicoterapia cognitiva, 2016).

Presentazione del libro di Maria Rosa Madera “Superare i confini. Psicoterapia integrata e di comunità”

Presentazione del libro
di Maria Rosa Madera “Superare i confini. Psicoterapia integrata e di comunità”

Martedì 22 marzo 2016, ore 21:00
Casa della Psicologia, Piazza Castello 2, Milano

 

Cinque anni di studi, di ricerche e di approfondimenti sull’applicazione della Psicoterapia Integrata e di comunità. “Superare i confini”, più che un manuale per gli addetti ai lavori, è una narrazione dell’esperienza professionale dell’autrice. Maria Rosa Madera – psicologa e psicoterapeuta – accompagnerà il pubblico in sala alla scoperta di una tecnica terapeutica, quella della psicoterapia integrata, che scardina la psicologia tradizionale, superandone i limiti.

Converseranno con l’autrice: Riccardo Bettiga, psicologo, psicoterapeuta e presidente dell’Ordine degli Psicologi della Lombardia ed Elisa Marchioni, psicologa e psicoterapeuta. Modera Anna Baracco, psicoterapeuta, psicoanalista a orientamento Lacaniano, membro ALIPSI.

Ufficio stampa:

– Simona Seminario – [email protected] (335 1821270)
– Tommasina Cazzato – [email protected] (345 7357751)

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