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‘Mi importa di te’ – dice il cervello morale degli autistici: un nuovo studio scardina uno stereotipo comune sull’autismo

SISSA, Scuola Internazionale Superiore di Studi Avanzati

Secondo uno studio della SISSA, in collaborazione con l’Università di Vienna, il tratto autistico nelle situazioni di dilemma morale è associato a una risposta empatica simile a quella della popolazione normale. 

 

Gli autistici sono freddi e non provano empatia. Si? Non è vero. È uno stereotipo duro a morire, ma la realtà, quando viene analizzata attraverso la lente della scienza, appare diversa. Secondo uno studio della SISSA in collaborazione con l’Università di Vienna il tratto autistico nelle situazioni di dilemma morale è associato a una risposta empatica simile a quella della popolazione normale.

Il falso mito sulla freddezza degli autistici è probabilmente dovuto all’alessitimia, un tratto subclinico spesso associato all’autismo, ma distinto e presente anche nelle persone “normali”, che provoca l’incapacità di riconoscere le emozioni degli altri e le proprie. Lo studio è stato pubblicato su Scientific Reports.

Secondo le ‘Families against autistic shooters’ (famiglie contro gli aggressori a mano armata autistici) gli autistici ‘sono macchine per uccidere fredde e calcolatrici che non hanno a cuore la vita umana’. Questa associazione nasce nell’isteria collettiva provocata dall’ennesima sparatoria di massa in una scuola americana, compiuta in questo caso specifico da un ragazzo di 26 anni nell’ottobre dell’anno scorso, che, come è stato dichiarato successivamente, era affetto da disturbo autistico.

Lo stigma sociale verso le persone autistiche è ancora molto forte nella società, spesso questi individui vengono descritti come freddi, asociali, disinteressati agli altri, e questo non fa che peggiorare la loro condizione di isolamento.

Ma è proprio vero che chi è affetto da autismo non ha a cuore la sofferenza degli altri?

Secondo i nostri studi è vero proprio il contrario: il tratto autistico è associato a una riposta empatica normale verso gli altri e a una tendenza più forte della media a evitare di fare male agli altri – spiega Indrajeet Patil, ricercatore della SISSA e primo autore di una ricerca appena pubblicata su Scientific Reports – Lo stereotipo, sbagliato, è probabilmente dovuto a un altro tratto caratteristico, che si trova spesso nella popolazione autistica, ma talvolta anche in quella sana, ossia l’alessitimia.

L’autismo è un disturbo neuropsichiatrico a spettro ampissimo, che accomuna individui con gradi diversissimi nelle abilità cognitive (si va delle persone con forte ritardo a quelle con intelligenza superiore alla media), i cui criteri diagnostici sono mutati nel corso dei decenni (diventando via via più specifici). L’alessitimia invece è un tratto subclinico (non una malattia, cioè), presente nella popolazione normale e anche negli autistici (in questi ultimi con un’incidenza di circa il 50%) e si manifesta con una mancanza di comprensione delle emozioni proprie e altrui.

A lungo le manifestazioni dell’alessitimia nei pazienti sono state confuse con i sintomi autistici, ma oggi sappiamo che vanno distinte – spiega Giorgia Silani, neuroscienziata ex-SISSA che ora lavora all’Università di Vienna, che ha coordinato la ricerca – Nell’alessitimia la comprensione delle emozioni è ridotta. Nell’autismo invece sappiamo che quello che è deficitario è la teoria della mente, cioè la capacità di attribuire agli altri pensieri e stati mentali.

 

Dilemmi morali

Nello studio, Patil, Silani e colleghi hanno sottoposto alcune persone autistiche ad alto funzionamento (con un QI elevato) a dei dilemmi morali. Un dilemma morale è una situazione ipotetica in cui il protagonista deve prendere una decisione che potrà salvare la vita di qualcuno, sacrificando quella di altri individui.

Nel classico dilemma morale si deve decidere se compiere volontariamente un’azione che provoca la morte di una persona, salvando però un numero consistente di altre, o non fare nulla, non uccidendo deliberatamente ma finendo per provocare la morte delle altre. Un atteggiamento razionale puro prevede la scelta dell’azione volontaria (utilitaristica), ma un atteggiamento empatico impedisce alla maggior parte delle persone di scegliere di uccidere volontariamente. Negli esperimenti di Patil e Silani erano cruciali i dilemmi morali personali.

Nella ricerca sono state utilizzate tecniche avanzate di modellizzazione statistica per dissociare gli effetti dei tratti autistici e alessitimici e osservare in che modo sono in relazione con i giudizi morali. I risultati hanno mostrato che l’alessitimia è associata a scelte di tipo utilitaristico dovuta alla ridotta risposta empatica, mentre il tratto autistico è legato a una forte opposizione alla scelta utilitaristica, dovuta a un aumento dello stress a livello personale.

L’autismo è associato a un forte stress emotivo in risposta a queste situazioni per cui l’individuo tende a evitare di compiere azioni dannose – spiega Patil.

Gli autori concordano sul fatto che bisogna affinare gli strumenti per individuare e distinguere l’alessitimia dal disturbo autistico. Il loro lavoro, aggiungono, è solo il primo passo nel tentativo di definire un modello che spieghi il complesso rapporto fra vari tratti di personalità mutualmente dipendenti, che aprirà nuove strade per la ricerca futura.

 

Intelligenze Multiple – Introduzione alla Psicologia

Gardner, partendo da studi eseguiti su bambini dotati da diversi capacità intellettive, riesce a desumere l’esistenza di differenti aspetti legati all’intelligenza: la teoria che ne deriva sarà definita, dallo stesso Gardner, teoria delle Intelligenze multiple.

INTRODUZIONE ALLA PSICOLOGIA RUBRICA DI DIVULGAZIONE SCIENTIFICA IN COLLABORAZIONE CON LA SIGMUND FREUD UNIVERSITY DI MILANO  

 

Intelligenze multiple: introduzione

La scorsa settimana si è parlato del concetto di intelligenza e di come poterla misurare attraverso diversi reattivi psicometrici. Alla fine, si è giunti alla conclusione che non esiste una definizione unitaria d’intelligenza, ma due teorie generali: la prima in cui si attesta l’esistenza di un unico fattore e la seconda che individua più forme di intelligenza, principalmente di tipo logico matematico.

Più tardi, esattamente nel 1983, Gardner, ricercatore di Harvard, sosteneva che l’intelligenza non fosse un costrutto quantificabile e raggruppabile numericamente, ma è composta da diversi fattori indipendenti tra loro.

Quindi, nel periodo di massimo splendore della psicometria e del comportamentismo, si scoprì che la mente, tabula rasa, poteva essere addestrata all’apprendimento di nuove abilità.

Per questo era possibile acquisire nuove capacità grazie alla presenza di diverse forme di intelligenza. Si tratta di diversi domini di abilità specifiche per specifiche funzioni cognitive.

 

 

La teorie delle intelligenze multiple

Gardner criticando le teorie vigenti, perché considerate riduttive e statiche, e partendo da studi eseguiti su bambini dotati da diversi capacità intellettive, riesce a desumere l’esistenza di differenti aspetti legati all’intelligenza. Tali risultati furono confermati da ricerche eseguite su pazienti con ictus a cui mancavano delle funzioni cognitive, e, di conseguenza, hanno permesso di formulare un concetto molto più ricco di intelligenza. Partendo da questo presupposto si ottenne una forma di intelligenza composta da ben sette abilità intellettive. La teoria che ne deriva sarà, dunque, definita dallo stesso Gardner teoria delle Intelligenze multiple.

La teorie delle intelligenze multiple è stata inserita nel libro ‘Frames of the Mind’, scritto nel 1983 e conosciuto in Italia come ‘Formae mentis’, in cui si sosteneva l’esistenza di diverse forme di intelligenza in aggiunta a quelle già conosciute.

Secondo Gardner, i test usati per misurare l’intelligenza sono volti a rilevare soltanto due tipi di intelligenza: quella linguistica e quella logico-matematica, ma esistono in aggiunta altre cinque forme di intelligenza:

  • l’intelligenza spaziale;
  • l’intelligenza sociale;
  • l’intelligenza introspettiva;
  • l’intelligenza corporeo cinestetica;
  • l’intelligenza musicale.

Gardner sostenne che il contesto socio-culturale dell’epoca, che si stava diffondendo in occidente, abbia dato maggiore peso scientifico solo alle intelligenze linguistico-verbale e logico-matematica, trascurando volutamente le altre, più diffuse in culture diverse.

Col tempo, dunque, successe che l’informatizzazione permise di evolvere in nuove forme di apprendimento aventi come prodotto finale la diffusione di software, di hardware, di forme di ingegneria, tutti figli dell’intelligenza spaziale, a cui si affianca quella logica. Inoltre, si valorizzarono le capacità introspettive che consentono una migliore collaborazione gruppale, peculiarità delle menti molto plastiche e creative.

La stimolazione e lo sviluppo di nuove forme di capacità intellettive legate alle diverse forme di intelligenza permetterebbe di avere delle menti capaci di apprendere a 360° atte ad acquisire molte competenze aggiuntive rispetto a quelle richieste in passato.

La staticità mansionale sia in ambito lavorativo sia culturale non premetteva affatto alla mente di evolversi e di sperimentare nuove forme di intelligenza, ma restituiva una statica forma di apprendimento globale.

 

 

La teoria delle intelligenze multiple: le diverse intelligenze

L’intelligenza logica-matematica e linguistica erano stati largamente studiate dagli psicometristi e continuavano a essere sviluppate durante le ore di insegnamento scolastico. Le altre tre forme di intelligenza, cinestetica, musicale e spaziale, erano associate alle arti e mestieri, mentre le ultime due, intra e inter- personale, erano state definite dallo stesso Gardner intelligenze personali o emotive (Gardner 1983).

Osserviamo nel dettaglio in cosa consistono:

  • L’intelligenza linguistica, è la capacità di apprendere e riprodurre il linguaggio, usandolo in maniera appropriata per esprimersi verbalmente e in forma scritta.
  • Intelligenza logico-matematica, consiste nella capacità di analizzare i problemi in modo logico, eseguire operazioni matematiche, e indagare le questioni scientificamente, grazie al pensiero logico e deduttivo.
  • Intelligenza musicale: coinvolge l’abilità di comporre, riconoscere e riprodurre modelli musicali, toni e ritmi.
  • Intelligenza corporeo-cinestetica: quella degli atleti, danzatori, preparatori atletici, è l’abilità di utilizzare il proprio corpo o parti di esso per risolvere i problemi attraverso il coordinamento dei movimenti del corpo.
  • Intelligenza spaziale: consta nel riconoscere e utilizzare lo spazio e le aree a esso correlate.
  • Intelligenza interpersonale: è la capacità di comprendere le intenzioni, le motivazioni e i desideri delle altre persone, permettendo in questo modo di lavorare efficacemente anche in gruppo.
  • L’intelligenza intrapersonale: consiste nell’essere consci dei propri sentimenti e di saperli esprimere senza farsi sopraffare. È, dunque, l’abilità di capire se stessi, individuando le proprie paure e motivazioni. Lo scopo è utilizzare queste informazioni per svolgere una vita volta al raggiungimento di scopi specifici.

Queste forme di intelligenza spesso sono utilizzate contemporaneamente e si completano a vicenda per riuscire a raggiungere maggiore successo e per risolvere efficacemente i problemi.

In sostanza, secondo Gardner lo scopo dell’essere umano è capire come utilizzare al meglio queste intelligenze per raggiungere un maggiore benessere individuale e in situazioni di gruppo.

 

 

La teorie delle intelligenze multiple: esistono altre forme di intelligenza?

Ricerche successive eseguite dallo stesso Gardner e dei suoi colleghi hanno evidenziato l’esistenza di altre possibili intelligenze aggiuntive: naturalistica, spirituale e esistenziale, e morale, ma solo la prima potrebbe essere aggiunta alle sette.

Nel dettaglio:

  • l’Intelligenza naturalistica, permette agli esseri umani di riconoscere, classificare e individuare alcune caratteristiche dell’ambiente. Tale abilità consente di interagire con il mondo fino a rendere proprie alcune caratteristiche.
  • l’intelligenza spirituale, che riguarda le abilità di entrare in contatto con ciò che concerne il proprio spirito e le capacità di prendersene cura.
  • Intelligenza esistenziale, capacità umana di riflettere sulla propria esistenza, compresa la vita e la morte. È alla base del pensiero filosofico, ed è legata alla capacità di usare e coordinare le diverse forme di intelligenza
  • In fine, l’intelligenza morale è quella parte dell’intelligenza legata alla sfera della moralità intesa in termini di regole e atteggiamenti morali.

 

 

Le intelligenze multiple e le sue applicazioni

Chiaramente, la teoria delle intelligenze multiple non è stata prontamente accettata all’interno della psicologia accademica. Tuttavia, ha avuto riscontri da molti educatori che l’hanno applicata in diversi insegnamenti scolastici.

Secondo, quanto sostenuto da Gardner, è molto difficile sviluppare tutte queste forme di intelligenza in ambito scolastico, ma la cosa importante è sapere della loro esistenza e prendere questa teoria come guida alla formazione. Altrimenti, significherebbe supportare contemporaneamente sette tipi di insegnamenti diversi, ottenendo un risultato non garantito.

Tutte le intelligenze sono necessarie per vivere bene la vita, ma possono essere implementate attraverso programmi specifici effettuabili con piccoli laboratori creativi che non eliminano tempo alle principali attività formative, ma stimolano la creatività e la plasticità cerebrale.

A tutt’oggi la scuola italiana, nello specifico, adotta un modello in cui si valorizzano prevalentemente le forme di intelligenza logico-matematica e linguistica. Il risultato è quello di esaltare gli alunni più dotati di ragionamento logico e di abilità linguistiche a discapito di coloro che possiedono forme di intelligenza diverse, ma non meno importati delle altre perché permetterebbero di avere una maggiore connessione con la realtà e maggiore competenza dei propri stati interni.

 

 

RUBRICA: INTRODUZIONE ALLA PSICOLOGIA

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Smartphone e internet: coperta di Linus dei nostri tempi

Internet o lo smartphone mostrano una loro capacità di ridurre le emozioni negative nel breve termine; attenzione però, che questo comportamento sembra avere la stessa funzione delle condotte di evitamento. Evitare qualcosa che ci mette ansia, infatti, sicuramente ci dà un sollievo immediato, ma nel lungo termine non ci consente di trovare strategie più funzionali per gestire la componente emotiva, così come non ci permette di conoscere l’emozione disturbante e di imparare a gestirla in modo utile.

 

L’utilizzo di internet nella società moderna: le ambivalenze

L’utilizzo degli smartphone è un fenomeno che ha interessato molto tutti noi negli ultimi anni. Accolti con euforia e entusiasmo per le crescenti possibilità che ci hanno offerto, siamo velocemente arrivati al “porta sempre tutto con te ovunque”, tecnicamente possibile grazie ai vari sistemi di cloud computing e all’utilizzo di driver a cui poter accedere sempre in remoto da qualunque punto del mondo. Come fosse una parabola (nel senso della geometria ma anche nell’altro), pian piano abbiamo iniziato a preoccuparci, perché si sa che dare troppe possibilità aumenta il rischio di rovinarsi con le proprie mani.

Allora, dopo un periodo di esaltazione per la facoltà di essere sempre connessi al lavoro e ai social, siamo arrivati alla preoccupazione e all’angoscia esistenziale che ci fa chiedere dove andremo a finire, quando saliamo in metropolitana o in treno e vediamo una massa di persone che fissano schermi e interagiscono con tutti tranne che con chi hanno di fianco. I ragionamenti in questo senso si sono spinti molto oltre, è diventato scontato dire che se i telefonini ci hanno cambiato la vita, gli smartphone e i tablet di più. Le reazioni vanno dai negozi che espongono cartelli simpatici nel tentativo di scoraggiare le connessioni wifi, a studiare come l’utilizzo del cellulare influisca sulla nostra postura.

Di contro, però, la psicologia ha in parte tratto beneficio da questo fenomeno di massa, per esempio con lo sviluppo di app che consentono di valutare online alcuni aspetti interessanti per il lavoro clinico, da poter poi approfondire in seduta (si vedano, ad esempio, i diari alimentari sotto forma di app che si possono utilizzare per la terapia dei disturbi alimentari, così come il diario dell’umore utile all’interno di problematiche di tipo depressivo).

Poi c’è il discorso delle relazioni via etere: siamo tutti spaventati dal proliferare di app e siti che consentono di entrare (e rimanere) in contatto con persone che neanche si sono mai viste, per il rischio che questo danneggi in qualche modo le relazioni vere, ad personam, fatte di incontri, scontri e contatti. C’è addirittura una patologia che si chiama Hikikomori, definita e diffusa in Giappone, in cui i giovani nipponici si auto-escludono dal contesto sociale sia ristretto che allargato, come forma di ribellione verso l’intero apparato sociale; in questo caso, le interazioni via internet diventano addirittura le uniche possibili (e consentite) dalla propria stanza, rifugio e allo stesso tempo prigione di questi ragazzi. Spaventati dalle possibilità che la rete ci offre, soprattutto in termini relazionali, siamo tutti abbastanza preoccupati che quelle platoniche divengano per alcune persone in difficoltà le uniche relazioni possibili.

Però, attenzione. Per chi ha difficoltà a relazionarsi nel modo canonico, passare “attraverso” i vari device non può essere una via di mezzo? Un’esposizione per gradi? Allora, può anche essere utile in senso terapeutico, come passaggio intermedio verso l’interazione faccia a faccia.
Come al solito, quindi, il punto non è lo strumento ma l’uso che se ne fa, che può variare su un’ampia gamma, dal “disastroso” al “miracoloso”.

 

L’utilizzo di internet e il rapporto con le emozioni di ansia e depressione: gli studi

Uno studio uscito a gennaio 2016 su Computers in Human Behavior (Panova & Lleras, 2016) ha chiarito meglio il rapporto tra l’utilizzo di internet e di device portatili e i problemi psicologici. I ricercatori hanno svolto due studi separati. Nel primo, hanno chiesto a 318 studenti (metà maschi e metà femmine) di compilare una serie di questionari self-report sull’utilizzo di internet, l’utilizzo del cellulare, il livello di dipendenza da internet e lo stato emotivo (ansia e depressione). Il fattore cruciale sembra essere il motivo per cui si agisce: la tendenza a utilizzare internet e il cellulare come forma di evitamento dalle difficoltà emotive correla in modo positivo con i livelli di ansia e depressione, mentre lo stesso non si può dire della tendenza a utilizzare questi strumenti per togliersi dalla noia. In altre parole, l’abitudine a navigare o a utilizzare lo smartphone per evitare di rimanere in compagnia di emozioni negative o di pensieri disturbanti, in realtà facilmente si accompagna ad ansia e depressione (emozioni disturbanti, appunto). Decidere invece di usare gli stessi strumenti per evadere dalla noia non ha nessuna particolare ricaduta in termini di emozioni negative.

Nel secondo studio, gli autori hanno utilizzato una procedura sperimentale per valutare se e in che misura fare appello a internet e ai device mobili riducesse la percezione di ansia nel breve e nel medio termine. Si sono detti “se davvero le persone si rivolgono a questi strumenti in momenti di difficoltà per trovare una forma di sollievo, forse avere la possibilità di accedervi in situazioni di ansia può dare benefici nel breve termine, che a loro volta possono ciclicamente mantenere la tendenza delle persone a farvi ricorso quando sono in difficoltà”. Per testare questa ipotesi, hanno reclutato 84 studenti e li hanno sottoposti a un compito finalizzato ad aumentare la loro ansia: è stato chiesto loro di scrivere una breve pagina su una consegna specifica, dicendo loro che quanto prodotto sarebbe poi stato valutato da due professori, i quali in seguito avrebbero interrogato il soggetto. Dopo aver svolto il compito ansiogeno per 5 minuti, i partecipanti erano lasciati soli ad attendere per 10 minuti. I soggetti erano precedentemente stati divisi in 3 gruppi: durante questi 10 minuti il gruppo A non aveva alcun accesso a nulla, il gruppo B poteva utilizzare il proprio smartphone e il gruppo C poteva utilizzare solo un computer non connesso alla rete, con cui era possibile giocare. Prima e dopo la stesura del compito e al termine dei 10 minuti di attesa tutti i soggetti hanno compilato un test che valutava l’ansia percepita in quello specifico momento.

Cosa dicono i dati? I partecipanti del gruppo B hanno mostrato un minor innalzamento dell’ansia a seguito della condizione sperimentale: nonostante non ci fossero differenze nel livello di ansia percepita prima dei 5 minuti di compito, i soggetti che avevano potuto tenere con loro il cellulare sembravano rispondere in modo meno intenso alla condizione sperimentale. È come se il fatto di poter avere il proprio telefonino funzionasse da coperta di linus, moderando il livello di ansia suscitata dal compito. Attenzione però, che se invece osserviamo quanto l’ansia sia diminuita dopo i 10 minuti passati nelle 3 condizioni, vediamo che non si notano differenze nei 3 gruppi. In altre parole, per tutti e 3 i gruppi si è rilevato un andamento sovrapponibile nella dinamica di ansia: aumento dopo i 5 minuti di stress e diminuzione dopo i 10 minuti nelle 3 condizioni. Il fatto di poter utilizzare il proprio smartphone non ha portato a una diminuzione più importante del livello di ansia rispetto alle altre due condizioni.

Conclusioni

Questo dato è molto interessante e ci dice che il fatto di avere a disposizione il proprio smartphone ha una specie di effetto protettivo nei confronti dell’ansia per tutto l’arco della procedura: non aiuta i soggetti a calmarsi di più una volta che lo stress è innescato, ma addirittura diminuisce il potere ansiogeno del compito. Se leggessimo la cosa a rovescio, però, potremmo anche dire che essere privati del proprio smartphone rende le persone più vulnerabili agli stressor ambientali, e questa spiegazione si sposa abbastanza con il costrutto di nomofobia, che descrive una vera e propria sindrome di ansia da separazione dal proprio smartphone.

Sembra quindi che i risultati “scagionino” l’utilizzo di strumenti come internet o lo smartphone, mostrando una loro capacità di ridurre le emozioni negative nel breve termine; attenzione però, che questo comportamento sembra avere la stessa funzione delle condotte di evitamento. Evitare qualcosa che ci mette ansia, infatti, sicuramente ci dà un sollievo immediato, ma nel lungo termine non ci consente di trovare strategie più funzionali per gestire la componente emotiva, così come non ci permette di conoscere l’emozione disturbante e di imparare a gestirla in modo utile. Mettere via il cellulare non sembra essere la soluzione ultima, ma imparare a stare fermi nell’emozione disturbante può essere un buon inizio.

La selezione del Personale nell’era digitale

La rapida diffusione delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione ha prodotto un profondo cambiamento non solo negli stili di vita quotidiana, ma anche nei modelli di organizzazione aziendale e nella gestione delle Risorse Umane, in particolare nei processi di ricerca e selezione del Personale. 

 

Come i mezzi digitali influenzano la selezione del personale

Oggi, infatti, la selezione del Personale non passa più solo attraverso la lettura dei curricula, i test e i colloqui, ma anche e soprattutto attraverso tutti i mezzi digitali, compresi i social network, da Facebook, a Twitter , a Linkedin. Il modo in cui socializziamo e gestiamo la nostra rete rappresenta un banco di prova, un indicatore di quello che sappiamo fare e potremmo fare in grande per l’azienda. E allora può succedere anche che un candidato idoneo sotto tutti gli aspetti venga scartato perché non ha abbastanza contatti sui Social.

E’ bene tenere presente che stiamo attraversando una rivoluzione: è cambiato il modo di fare ricerca e selezione del Personale e sono cambiate le necessità delle aziende, perché oggi la vita di tutti viene amplificata dal mondo online. E nessuno può pensare di contare solo sul vecchio foglio di carta per ottenere un lavoro. E’ dunque molto importante essere presenti sul mercato del lavoro virtuale e sfruttare le opportunità che gli strumenti digitali come social network, app, blog, forum ci offrono, ma ritengo essere cosa molto difficile riuscire a sintetizzare in modo corretto i vari aspetti della personalità del singolo candidato solo sulla base delle tracce che lascia sui propri profili sociali.

Da qualche tempo, gira sulla rete un video demenziale, ma per certi versi emblematico, riguardante il rapporto tra i colloqui di lavoro ed i Google Glass. In questo video, infatti, si simula un colloquio conoscitivo tra un dirigente ed una candidata durante il quale, il selezionatore cerca online informazioni sulla persona che ha di fronte e, contemporaneamente, verifica all’istante la veridicità di ciò che l’interlocutrice dice durante il colloquio.
Uno scenario che mi fa pensare un po’ al Grande Fratello, il dittatore dello stato totalitario chiamato Oceania, immaginato da Orwell nel romanzo 1984 (Nineteen Eighty-Four), che esercita un controllo fisico e mentale su ogni individuo, sfruttando i mezzi di comunicazione per una propaganda incessante e a senso unico.

Questo per dire che è importante che chi fruisce di un’informazione debba farlo con un atteggiamento critico, non accettando pigramente come vera qualunque cosa legga (anche sui social), ma sapendo distinguere quando l’informazione è genuina e quando invece potrebbe essere parziale.
È necessario, sia da parte dei selezionatori sia da parte dei candidati, un uso consapevole delle tecnologie digitali per evitare i rischi, legali ed extralegali, connessi. Per i primi la questione più spinosa riguarda la raccolta di informazioni, che potrebbe essere operata in violazione della normativa sulla privacy o dell’art. 8 Statuto dei Lavoratori, che vieta le indagini su opinioni personali e fatti non attinenti l’attitudine professionale.

Per i secondi, il problema è rappresentato dalla cosiddetta “digital reputation” che può attirare, ma anche allontanare i potenziali datori di lavoro. I social network si rivelano efficienti nel momento in cui si riescono a creare dialoghi intelligenti con i potenziali candidati, cioè quando forniscono ai selezionatori quella dimensione conversazionale assente invece nei siti-bacheca tradizionali. Le conversazioni online mirate richiamano selettivamente i migliori talenti: si tratta dunque di una forma economicamente vantaggiosa di selezione naturale.

Tuttavia, saper usare la tecnologia più avanzata non sarà mai sufficiente se chi gestisce la selezione del Personale non saprà usare l’umano dove serve. Ci sono infatti momenti cruciali nel processo di selezione in cui è fondamentale fare delle verifiche e quindi, a mio avviso, i mezzi digitali non sono alternativi, ma vanno considerati in un’ottica di approccio integrato. Fondamentale è uno studio approfondito da effettuare sui singoli individui per accertarne e valutarne le capacità, le competenze, le attitudini e gli interessi in modo da prevedere una performance di successo all’interno del contesto di lavoro. Sono fermamente convinta che il colloquio rimanga ancora oggi il momento fondamentale per valutare il set di competenze di una persona, ovvero l’insieme delle capacità psicologiche e comportamentali e delle conoscenze tecniche e teoriche. Il colloquio di selezione, infatti, è caratterizzato non solo da una struttura, ma anche da dinamiche psicologiche e relazionali che nessuna tecnologia, da sola, potrà mai gestire.

 

Conclusioni

Riconosco l’importanza delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione, che hanno portato ad un ampliamento e ad un miglioramento delle possibilità di comunicazione, superando le barriere ed i vincoli di tempo e spazio, aumentando la velocità e diminuendo i costi, ma rigetto un uso eccessivo della rete, che, come è ormai assodato, può portare progressivamente delle difficoltà, soprattutto nell’area relazionale dell’individuo, il quale viene assorbito dalla sua esperienza virtuale, rimanendo “agganciato” alla Rete (Jamison, 2000).

 

Madri pentite e coppie “childfree”: la nuova corrente dell’ anti-genitorialità!

Il conflitto tra l’amare immensamente i propri figli ma volere la vita di prima, rivela la difficoltà ad accettare una nuova condizione di vita in cui i figli rappresentano una linea di confine tra il prima e il dopo.

 

Diventare genitori. Oppure no. Essere genitori o non poterlo essere. Essere genitori “diversi” (arcobaleno, single,ecc..)
Il tema della maternità e della genitorialità viene ormai affrontato in tutte le sue sfaccettature. Così mentre si infiamma il dibattito sul diritto di essere genitori e sui mezzi per poter realizzare questo desiderio, si sta rinforzando l’idea che ci sia un altro diritto: quello di non esserlo. E addirittura scegliere di non esserlo senza sentirsi in colpa o diversi. Ma ancora di più nelle ultime settimane si è acceso un dibattito intorno a un libro che racconta del “pentimento” di alcune madri.

Pentirsi di essere madri

Qualche anno fa era uscito un libro di una psicanalista francese, Corinne Maier, madre di due figli che aveva scritto “No kids. Quaranta ragioni per non avere figli”. Il libro avevo suscitato scalpore e polemiche perché demonizzava le “gioie” della maternità, nel tentativo di essere più realista su quello che effettivamente comporta la maternità. Dall’America è arrivata la moda di creare spazi no kids nei locali pubblici o di limitare l’accesso ai bambini dopo una certa ora o, ancora, offerte di compagnie aeree per chi non viaggia coi bambini.

La sociologa israeliana Orna Donath lo scorso anno ha pubblicato un saggio “Regretting motherhood”. L’autrice ha intervistato 23 donne, mamme di uno/due/tre figli, che avevano in comune la caratteristica di essersi pentite di aver avuto dei figli. Nel libro si mettono in risalto le pressioni culturali e sociali che possono contribuire alla scelta della genitorialità, ma soprattutto ne emerge un atteggiamento ambivalente nei confronti dei loro figli: [blockquote style=”1″]Se tornassi indietro non metterei al mondo dei figli, ma li amo immensamente. [/blockquote]

Il conflitto tra le gioie e i dolori della genitorialità

Il conflitto tra l’amare immensamente i propri figli ma volere la vita di prima, rivela la difficoltà ad accettare una nuova condizione di vita in cui i figli rappresentano una linea di confine tra il prima e il dopo. Un aspetto che però viene messo in luce da Donath è l’elemento culturale: in Israele avere i figli è un atto dovuto da parte della donna e averne solo uno non rende una famiglia degna di tale nome. Soprattutto, fatto il primo se ne possono fare anche altri “tanto la vita è rovinata lo stesso”.

Uno studio del 2011 aveva già dimostrato che avere figli non aumenta la felicità, anzi. Soprattutto chi ha bambini piccoli ha un decremento nella qualità di vita da cui si riprende con la crescita dei figli. Solo quando i figli escono di casa si ha un maggiore senso di benessere rispetto a chi non ha avuto figli.

In questi dibattiti c’è il tentativo di portare la genitorialità e la maternità dall’essere una condizione mitizzata (la sofferenza e lo stigma sociale con cui vivono persone e coppie che non possono avere figli ha alimentato in parte il mito della maternità/genitorialità) a una condizione di vita con i pro e i contro. Come tutte le scelte allora ci si può pentire, ma a differenza di un acquisto o di un lavoro o di una relazione, non si può sciogliere o rimandare al mittente.

Il principio di base è errato: essere genitori non equivale a felicità. Equivale a una condizione di vita diversa in cui sono contemplati fatica, dolore, tristezza, rabbia, gioia, sorpresa…ovvero tutto ciò che la vita può offrire. Avere un figlio cambia completamente la prospettiva di vita: c’è un prima e c’è un dopo. Ciò non significa che sia stato meglio prima o sarà meglio dopo. E’ diverso.
Non è, dunque, la condizione di essere o non essere genitore a fornirci la garanzia di una vita migliore ma il modo in cui comunque la si vive.

 

I programmi terapeutici per le famiglie dei pazienti con disturbo borderline di personalità

Familiari di pazienti borderline: Il ruolo del familiare del paziente con disturbo borderline di personalità (DBP) è mutato profondamente nel corso degli anni. Da un possibile responsabile, colpevolizzato ed escluso dal percorso di cura, è stato eletto a una posizione sempre più prossima al concetto di “co-terapeuta”. Nonostante i cambiamenti avvenuti, i caregiver si trovano spesso ancora oggi da soli ad affrontare le situazioni critiche e il carico che ne deriva.

Le ricerche che indagano le problematiche dei familiari di pazienti borderline pongono l’accento sullo stress psicologico a cui sono soggetti, suggerendo l’importanza di un intervento di supporto a loro destinato. Emergono inoltre difficoltà interpersonali caratterizzate da forte conflittualità e criticismo, elementi solitamente correlati a recidive. Le linee-guida individuano nell’intervento per le famiglie uno degli elementi fondamentali nel trattamento di queste persone, e prevedono di fornire loro informazioni sulla diagnosi e sul decorso del disturbo, sulla risposta al trattamento e sui fattori patogenetici noti, ma anche di suggerire tecniche per la gestione dei momenti critici. Una recente revisione della letteratura (Martino et al., 2014) ha descritto la problematica del carico dei familiari di pazienti borderline e ha presentato lo stato dell’arte sugli interventi a loro destinati.

I programmi terapeutici per i familiari di pazienti borderline

Esistono due categorie di programmi familiari di pazienti borderline: la psicoeducazione familiare e l’educazione familiare. La psicoeducazione familiare viene condotta da professionisti della salute mentale e prevede la partecipazione dei familiari e, in alcune fasi, anche dei pazienti. Nella seconda categoria di interventi, sono invece i caregiver a tenere, dopo opportuni training, interventi educativi rivolti unicamente ai conviventi dei pazienti.

I programmi di psicoeducazione, proposti già dagli anni ’80, sono stati formulati nel tempo con modalità molto eterogenee. Tali programmi aiutano i caregiver ad acquisire conoscenze e strumenti per promuovere il benessere del paziente e di ridurre il carico derivante dalla cura offrendo supporto diretto al familiare.

I programmi di psicoeducazione

Ecco i principali interventi descritti in questo ambito:
1) Gruppo Familiare Multiplo (GFM): (Gunderson, 1997), prevede un gruppo costituito da più nuclei familiari, ha una durata di 12-18 mesi con incontri di un’ora e mezza a cadenza quindicinale. Nella prima fase dell’intervento vengono fornite informazioni circa la diagnosi del disturbo borderline di personalità e delle indicazioni sui comportamenti da adottare nei momenti difficili (Linee Guida per I familiari, Mc Farlane and Dunne, 1991). Le Linee Guida per i familiari usate in questo programma sono state tradotte in italiano. Nella seconda fase, l’obiettivo è acquisire competenze specifiche nella gestione delle difficoltà comunicative, del controllo della rabbia e dei comportamenti autolesivi. Nella terza e ultima fase si consolidano i cambiamenti, e i partecipanti vengono incoraggiati a generalizzare le nuove abilità.
2) Dialectical Behavior Therapy-Family Skills Training (DBT-FST) (Hoffman et al., 1999): prevede il coinvolgimento di singole famiglie o di gruppi familiari, utilizza tecniche di matrice DBT (mindfulness, regolazione emozionale, tolleranza allo stress ed efficacia interpersonale) e si sviluppa in un percorso di 6 mesi, durante il quale il paziente di solito effettua una terapia individuale con la stessa matrice teorica. E’ prevista una parte iniziale finalizzata a ”educare” i componenti della famiglia alla diagnosi fornendo informazioni circa le caratteristiche, le origini, i trattamenti.
3) Reno-Program (Fruzzetti et al., 2006): è impostato prevalentemente su tecniche orientate alla Mindfulness, allo scopo di favorire una maggiore abilità di regolazione emotiva. Secondo l’autore, tale competenza è cruciale per acquisire un atteggiamento più validante verso gli stati emotivi del paziente.
4) Family Connections (FC) (Hoffmann et al., 2005): è un programma di auto-mutuo-aiuto condotto da familiari di pazienti borderline a seguito di uno specifico training, ampiamente diffuso a livello internazionale. Esso prevede 12 incontri sia individuali sia di gruppo e fornisce ai partecipanti informazioni sul disturbo borderline e competenze su moduli specifici del training di abilità DBT. Favorisce inoltre la costruzione di una rete di supporto per i familiari, e ha dunque un impatto sui loro sentimenti di alienazione, sfiducia e impotenza.

I programmi di supporto per i familiari di pazienti borderline nel panorama italiano

Per quanto riguarda la situazione italiana, esistono delle prime evidenze di protocolli strutturati di interventi sui familiari di pazienti borderline.
Dal 2010 è stato implementato, in alcuni CSM di Bologna e di Fano, l’ intervento psicoeducativo “Gruppo Familiare Multiplo” di Gunderson (Ridolfi et al., 2012, Martino et al. 2012). Dagli studi condotti in Italia emerge una sostanziale adattabilità del GFM nel contesto dei servizi pubblici di salute mentale e un impatto positivo sia sul familiare, in termini di riduzione del carico soggettivo e oggettivo, sia sul paziente, in termini di riduzione delle ospedalizzazioni e di miglioramento delle capacità di regolazione emotiva e degli impulsi. Un’altra recente esperienza è quella del Centro di Psicoterapia di Roma, che ha adottato il modello ispirato al DBT-FST proposto da Hoffman per l’intervento sui familiari di pazienti borderline (Pizzi et al., 2012).

Ad oggi gli interventi psicoeducativi per i familiari di pazienti borderline non rappresentano la routine nei centri di salute mentale per diverse ragioni, legate sia ai costi iniziali dei modelli da implementare, sia alla necessità di formare personale, sia ad una iniziale scarsa convinzione che il coinvolgimento dei familiari potesse essere efficace nella cura di questi pazienti.

Ad oggi la letteratura ci fornisce delle prime evidenze a favore di questi interventi. In Italia i dati risultano ancora modesti, ma promettenti. Recentemente si è costituita la prima associazione italiana per i familiari del “NEA-DBP Italia” per fornire informazioni e supporto soprattutto in quelle realtà dove ad oggi non è ancora possibile usufruire di un servizio specialistico.

L’efficacia degli interventi cognitivo comportamentali per l’obesità associata all’uso di antipsicotici

Lo scopo dello studio è stato quello di dimostrare l’efficacia di un intervento di terapia cognitivo comportamentale di perdita di peso della durata di 12 mesi basato sul metodo del Diabetes Prevention Program in pazienti affetti da gravi malattie mentali che assumevano antipsicotici.  

Lo studio

122 pazienti ambulatoriali del VA Greater Los Angeles Healthcare System di Los Angeles (USA) affetti da gravi malattie mentali diagnosticate con il DSM-IV con aumento di peso ≥ 7% o un indice di massa corporea (IMC)> 25 sono stati randomizzati tra un intervento di perdita di peso cognitivo comportamentale basato sulla modificazione dello stile di vita (n = 60) e un trattamento usuale di controllo (n = 62).

Il trattamento cognitivo comportamentale includeva incontri di gruppi e sedute di consulenza individuali per 8 settimane, l’uso del diario alimentare e dell’attività fisica, un sistema di contingenze basato sull’assegnazione di premi, incontri mensili di rinforzo e di consulenza per un anno.

I controlli hanno ricevuto materiale di auto-aiuto e visitato a intervalli equivalenti il centro, ma non hanno ricevuto sedute di gruppo o individuali di consulenza. Gli esiti valutati sono stati i cambiamenti nelle misure antropometriche, nei sintomi psichiatrici, nella conoscenza sulla salute, nella glicemia ed emoglobina A1c e nei livelli di lipidi.

I risultati

L’analisi intention-to-treat ha trovato che i partecipanti all’intervento cognitivo comportamentale di modificazione dello stile di vita hanno ottenuto a 12 mesi un decremento ponderale medio di 4,6 kg rispetto a un incremento medio di 0,6 kg del gruppo di controllo (p <.01). L’IMC e la percentuale di grasso corporeo hanno seguito la stessa traiettoria di cambiamento. Entrambi i gruppi hanno dimostrato miglioramenti statisticamente significativi nella conoscenza sulla salute, senza differenze significative tra i due gruppi.

La terapia cognitivo comportamentale di perdita di peso è risultata più efficace dell’usuale trattamento di cura nel trattare l’obesità se associata all’assunzione di antipsicotici, indipendentemente dalla diagnosi del DSM-IV di grave malattia mentale, dal tipo di farmaco antipsicotico assunto e dalle conoscenze acquisite.

I risultati dello studio hanno importanti implicazioni cliniche perché dimostrano che gli interventi cognitivi comportamentali di perdita di peso sono efficaci anche nei pazienti affetti da gravi malattie mentali che hanno avuto un incremento ponderale in seguito all’assunzione di farmaci antipsicotici.

Tali risultati dovrebbero stimolare lo sviluppo e l’implementazione anche in Italia di specifici programmi cognitivo comportamentali di gestione del peso nei pazienti affetti da gravi malattie mentali. Questi, nella maggioranza dei casi, non ricevono alcun aiuto per gestire l’aumento di peso e le complicanze metaboliche associate, che spesso si verificano in conseguenza dell’assunzione degli antipsicotici e che contribuiscono a peggiorare ulteriormente la loro qualità di vita fisica e psicosociale.

 

Mai dire Mindfulness – Il nuovo singolo (con video) di Psicantria

“Mai dire mindfullness” è il regalo di Pasqua che la band Psicantria dedica ai propri fan e che ha dato in esclusiva a State of mind. La canzone racconta esperienze di mindfullness, ovviamente con la consueta ironia psicantrica.

Il video di animazione è stato realizzato da Riccardo Calabrese. Per ulteriori info sull’acquisto del brano sui negozi digitali e altre attività di Psicantria si rimanda al sito www.psicantria.it

 

 

Against empathy: Perchè l’empatia è dannosa per le nostre scelte

Paul Bloom , psicologo e professore a Yale, sostiene che l’empatia sia qualcosa di dannoso. Ci è stato insegnato che mettersi nei panni degli altri sviluppa la compassione ma secondo il Prof. Bloom l’empatia ci rende ciechi rispetto alle conseguenze a lungo termine delle nostre azioni. In questa intervista animata del The Atlantic, Bloom argomenta la sua tesi secondo la quale dovremmo poter fare a meno dell’empatia.

 

L’argomento è sicuramente controverso, ma la tesi di Paul Bloom, per quanto provocatoria possa sembrare, fornisce un utile spunto di riflessione che potremmo riassumere in un affermazione:

L’empatia, se non è mediata da un ragionamento consapevole, può portare ad azioni impulsive e figlie dell’emotività, dalle conseguenze spesso nefaste.

D’altro canto la storia ci fornisce moltissimi esempi di come la ragione, quando non temperata dall’empatia possa portare a conseguenze terribili (pensiamo alle dittature e ai genocidi del secolo scorso).

Ragione e compassione devono necessariamente restare legate tra loro al fine di scongiurare azioni inumane o ha ragione Paul Bloom e gli altri accademici che si schierano a sfavore del meccanismo empatico come ispiratore delle nostre azioni?
Voi cosa ne pensate?

 

VIDEO: Paul Bloom lectures “Against Empathy”

 

La prevenzione del sovrappeso e dell’obesità infantile: è sufficiente occuparsi dello stile di vita?

Prevenzione della obesità infantile: I paradigmi attuali in tema di prevenzione della obesità infantile, sembrano operare una riduzione della complessità delle condizioni di sovrappeso ed obesità infantile e di sottostimare le variabili emotive e relazionali implicate nella regolazione dei comportamenti alimentari e del peso.

Introduzione

In Italia, secondo i risultati riferiti all’anno 2006 del progetto “Okkio alla Salute” del Ministero della Salute, eseguito dall’Istituto Superiore di Sanità, che ha previsto un monitoraggio nei bambini tra i 6 e gli 11 anni, il 23,6% del campione è risultato essere in sovrappeso e il 12,3% obeso con una maggiore prevalenza nei maschi rispetto alle femmine e nelle aree meridionali rispetto a quelle settentrionali (con punte del 50% di sovrappeso ed obesità in Campania). Gli ultimi dati disponibili del medesimo progetto, riferiti al 2012, sono in linea con i riscontri precedenti: una percentuale pari al 22,2% di bambini risulterebbe essere in sovrappeso ed un 10,6% obeso, con percentuali più alte nelle regioni del Centro e del Sud, con una leggera diminuzione rispetto a quanto rilevato nelle precedenti raccolte.

I principali programmi di prevenzione della obesità infantile a livello internazionale (“EU Action plan on childhood obesity”) e nazionale (“Guadagnare Salute- Rendere facili le scelte salutari”, promosso dal Ministero della Salute nel 2007) risultano incentrati sulla promozione di stili di vita sani come strategia per ridurre l’incidenza di malattie croniche e di importanza epidemiologica. Tra le strategie indicate ritroviamo, ad esempio: seguire un’alimentazione corretta, svolgere attività fisica regolare, non fumare, limitare il consumo di alcool.

 

Prevenzione della obesità infantile: è sufficiente modificare lo stile di vita?

Tuttavia, i paradigmi attuali in tema di prevenzione della obesità infantile, sembrano operare una riduzione della complessità delle condizioni di sovrappeso ed obesità infantile e di sottostimare le variabili emotive e relazionali implicate nella regolazione dei comportamenti alimentari e del peso.

A supporto di questa visione, un recente studio empirico (Citarelli G., Di Trani M., Solano L., articolo in stampa sulla Rivista Eating&Weight Disorders) condotto con 25 bambini in sovrappeso o obesi con età compresa tra gli 8 ed i 12 anni, nessuno dei quali presentava patologie che potessero avere una qualche influenza sul peso, ed i relativi genitori, ha mostrato una correlazione lineare significativa tra il livello di alessitimia dei bambini, misurata con il “Questionario italiano per l’Alessitimia in età evolutiva” (Di Trani et al., 2009) ed il loro peso, misurato attraverso il BMI. In altri termini, maggiore era la Difficoltà ad identificare le proprie emozioni ed a differenziarle dalle sensazioni corporee, la Difficoltà a descrivere le emozioni ed il Pensiero orientato all’esterno (i tre indicatori che definiscono operativamente il costrutto dell’ Alessitimia) e maggiore era il loro peso. Ciò probabilmente era dettato da una probabile maggiore tendenza a ricorrere al cibo quale strumento di regolazione affettiva esterno in mancanza di altri strumenti/modalità più adattive. Si riscontrava infatti, come ad una maggiore Difficoltà di identificazione delle proprie emozioni corrispondesse una maggiore tendenza ad adottare uno stile di comportamento alimentare di tipo emozionale (rilevata con il “Dutch Eating Behaviour Questionnaire”, nella versione italiana curata da Dakanalis et al., 2013).

Lo studio ha, inoltre, rilevato come le Difficoltà di Regolazione Affettiva dei genitori (misurate con la TAS 20, Bressi et al., 1996) avessero delle connessioni con il BMI dei propri figli. Nello specifico l’innalzamento del BMI dei figli in sovrappeso o obesi risultava correlato in modo lineare con il Pensiero orientato all’esterno dei padri, ossia con la loro difficoltà ad orientarsi verso il mondo interno e ad attribuire valore alle emozioni ed ai sentimenti, ed alla Difficoltà delle madri a riconoscere le proprie emozioni e sentimenti.

 

Prevenzione della obesità infantile: l’importanza della regolazione emotiva

Ferma restante la non generalizzabilità dei risultati, ciò che sembra rilevante è la possibilità che il sovrappeso e l’obesità possano essere la risultante anche di un deficit di regolazione emozionale che ha le sue origini, nonché, ipotizziamo, le sue fonti di mantenimento, nella famiglia e nelle modalità di gestione delle emozioni privilegiate da quest’ultima. Stando a questa ipotesi, che necessiterebbe sicuramente di ulteriori approfondimenti, ciò che sembra fondamentale è occuparsi di costruire quelle competenze che attengono alla sfera emotiva che possano promuovere un comportamento alimentare sano. Insegnare, ad esempio, ad identificare correttamente le proprie emozioni, aumentare la consapevolezza nel discernere le emozioni dalla fame, apprendere modalità di regolazione emozionale sane ed adattive attraverso la progettazione di programmi tarati sull’età dei bambini/preadolescenti e che tengano conto degli aspetti evolutivi e dinamici delle loro competenze emotive ed includere i genitori ci sembrano delle possibili strade che possano integrare le azioni che promuovono uno stile di vita sano.

L’alternativa è proseguire in un’ottica prescrittivo- normativa eludendo il rapporto soggettivo delle persone col cibo, le componenti emotive e relazionali come se lo stile di vita fosse qualcosa di indipendente dalla persona e che necessita di una semplicistica riconduzione ad una norma per sempre e per tutti valida.

Intervista a Claudio Longhi, professore, regista e direttore del Progetto Carissimi Padri

La Redazione di State of Mind ha intervistato il Professore e Regista Claudio Longhi, direttore del Progetto ‘Carissimi Padri’ promosso da Emilia Romagna Teatro Fondazione ERT.

Claudio Longhi è professore ordinario all’Università di Bologna, Dipartimento delle Arti, Coordinatore del Corso di Laurea Magistrale in Discipline della Musica e del Teatro. Dopo il Progetto ‘Il Ratto d’Europa’ (2012-2013) sta portando avanti il Progetto ‘Carissimi Padri’, pensato in occasione del centenario della Grande Guerra e della morte di Renato Serra.

Il Progetto è iniziato a Modena nel 2014, proseguito a Cesena e ora sta facendo tappa a Firenze. Attraverso numerose iniziative si sta sviluppando un’esperienza di Teatro Partecipato/ante, che permette alla popolazione di conoscere da vicino le premesse storiche e di riflettere sugli effetti traumatici della guerra. Un progetto di divulgazione di cultura e di riscoperta del teatro come luogo in cui la città si incontra.

 

1. Il Progetto indaga gli anni che portarono l’Europa a una guerra, con conseguenze drammatiche in tutto il mondo. Perché il titolo ‘Carissimi Padri’?

Il titolo è tratto dalla citazione alla Lettera al padre di Kafka, testo steso nel 1919, in cui l’autore critica aspramente, partendo dal suo caso, quella generazione di padri che, di fatto, cento anni fa mandarono in guerra i propri figli con grande leggerezza e incoscienza. Furono così dei padri ‘Carissimi’, amati e temuti alla follia da quei figli; nonché dei padri effettivamente costosi, vuoi per le vite sacrificate al conflitto vuoi per l’impatto economico devastante che la Grande Guerra ebbe sull’Europa.

2. Il Progetto si sviluppa raccogliendo diverse testimonianze dell’epoca e dislocando in diverse parti della città gli incontri aperti al pubblico. Perché questa scelta?

Sia ERT e il Teatro della Toscana che hanno prodotto il progetto sia io e il gruppo di lavoro di Carissimi Padri siamo convinti dalla funzione del teatro come crocevia della città: luogo d’incontro per riflettere sul futuro che ci aspetta. Il progetto nasce dal desiderio di rimettere la comunità al centro della pratica scenica, ma per fare ciò il teatro deve anzitutto dislocarsi nella città, ovvero uscire dai suoi spazi, per ritornare infine ad essere il luogo in cui far confluire il tutto: il progetto così si sviluppa in diverse parti della città, che si ritrovano successivamente in teatro.

 

3. Gli attori che Lei guida (Donatella Allegro, Nicola Bortolotti, Michele dell’Utri, Simone Francia, Lino Guanciale, Diana Menea, Eugenio Papalia, Simone Tangolo e la fisarmonicista Olimpia Greco) coinvolgono la città: sono presenti in laboratori teatrali scolastici, dalle elementari alle superiori, all’interno di comunità psichiatriche, nei carceri, tra i mercati e le biblioteche. Un forte impegno alla divulgazione di un contenuto storico complesso. Come si è sviluppata questa idea?

L’idea è maturata nel tempo, attraverso diverse esperienze. Come assistente di Luca Ronconi mi sono occupato del ‘Pasticciaccio’ (ndr riscrittura drammaturgica di ‘Quer pasticciaccio brutto de Via Merulana’ di Gadda), che ha accresciuto la mia sensibilità al tema dell’educazione al pubblico; oggi gli attori con cui lavoro hanno la medesima sensibilità. Un passaggio importante è stato poi il progetto ‘Il Ratto d’Europa’, costruito sempre con ERT, in occasione del quale sono iniziate le diverse esperienze che proseguono con Carissimi Padri, accomunate dall’idea che lo spettatore sia il depositario di un lavoro complesso, quello della decodifica del linguaggio teatrale. Questi progetti nascono dunque dal desiderio di far recuperare l’abitudine al linguaggio teatrale, importantissima ma persa negli anni.

 

4. Al Teatro Storchi di Modena e al Teatro Bonci di Cesena sono andati in scena gli spettacoli del progetto, con il coinvolgimento di partecipanti non professionisti, di ogni età e anche con nessuna esperienza teatrale. Questi atelier teatrali permettono l’incontro di persone e la riflessione su tematiche passate (e presenti!) come nel teatro greco. Ci può dire qualcosa in merito?

Sicuramente gli atelier (ovvero quegli spettacoli che facciamo coinvolgendo direttamente i cittadini in scena) hanno come riferimento il teatro greco: a misura della città e volto a uno scopo culturale, prima che estetico. Mi sta a cuore l’idea di uno spettacolo che accenda i pensieri, prima che esser bello. Come affermava Ronconi “il teatro è una forma di conoscenza che matura con l’esperienza”.

 

5. La rappresentazione teatrale è spesso stata considerata un’esperienza di catarsi o di sublimazione dell’esperire umano. Oltre a ciò, in passato, era l’unica occasione di divulgazione e discussione di idee. A mio parere, il Progetto Carissimi Padri mostra che il teatro può tornare ad avere anche queste funzioni, crede sia possibile riscoprirlo oggi in questi termini, considerando il successo catalizzante evidente tra i partecipanti?

Direi di sì. L’unica parola che mi vede perplesso è ‘catarsi’, perché è da capire bene cosa intendessero i greci per ‘catarsi’. Mi trovo più vicino alle opinioni di Brecht e Sanguineti. Penserei piuttosto al teatro come a un luogo di messa in evidenza, diciamo di espressione: un’emozione fortissima che nasca però dal ragionamento. È importante che emerga il potenziale riflessivo del teatro, senza tralasciare l’importanza del resto.

 

6. L’esperienza di questo Progetto verrà presto replicata anche in Toscana, al Teatro Niccolini di Firenze. Spero che la divulgazione culturale, attraverso la partecipazione attiva e divertita della popolazione (nonostante l’argomento), possa procedere su tutta Italia. Crede sia possibile?

Credo che operazioni di questo genere siano necessarie. Credo ci sia la necessità di ricostruire la relazione col pubblico, di radicare il teatro nel territorio e restituirlo alla comunità. Credo ci sia bisogno di questo.

Disturbo da stress post traumatico: intervenire col modello metacognitivo

Il modello metacognitivo ha allargato la propria riflessione teorica, empirica e applicativa anche al disturbo da stress post traumatico. In particolare, l’approccio metacognitivo propone che i sintomi traumatici siano funzionali nel periodo immediatamente successivo all’evento stressante-traumatico.

Il modello metacognitivo (Wells, 2009) ha allargato la propria riflessione teorica, empirica e applicativa anche al disturbo da stress post traumatico. In particolare, l’approccio metacognitivo propone che i sintomi traumatici siano funzionali nel periodo immediatamente successivo all’evento stressante-traumatico, in quanto sarebbero parte di un processo naturale di adattamento (in inglese, Reflexive Adaptation Process -RAP) che influenza la cognizione e l’attenzione allo scopo di identificare e utilizzare nuove strategie di coping.

 

Il rimuginio nel disturbo da stress post traumatico

Normalmente tale percorso evolve senza ostacoli e la persona esce dal circolo ansioso dal momento in cui i processi cognitivo-attentivi cessano di focalizzarsi su stimoli minacciosi. Vi sono dei casi in cui però l’evoluzione adattiva di questo percorso viene bloccata quando la persona continua a rimuginare su stimoli potenzialmente minacciosi o connessi all’episodio traumatico.

Il rimuginio appartiene alla sindrome cognitive-attenzionale (CAS). Nel caso del disturbo da stress post traumatico, tale stile cognitivo consiste in una perseverazione ripetitiva del pensiero, dell’attenzione e dei ricordi allo scopo di trovare significati, monitorare e prevenire simili minacce future.

Secondo il modello metacognitivo, i sintomi del disturbo da stress post traumatico si manterrebbero perché la sindrome cognitivo-attenzionale non consente un’attività cognitiva flessibile e libera dall’incombenza del monitoraggio degli stimoli minacciosi. E sarebbero proprio le credenze metacognitive (come ad esempio, ‘Analizzare continuamente ciò che ho sbagliato nel passato mi aiuterà a prevenire cose negative in futuro‘) a spingere verso il rimuginio. Inoltre alcune credenze metacognitive negative relative all’incontrollabilità dei pensieri concorrono a un’aumentata percezione di minaccia sia nel presente che nel futuro.

 

Il modello metacognitivo nel trattamento del disturbo da stress post traumatico: uno sguardo alla letteratura

A livello empirico diversi contributi dimostrano la rilevanza della metacognizione nel mantenimento del disturbo da stress post traumatico, avendo questa anche secondo alcuni autori un ruolo predittivo dei sintomi post-traumatici (si vedano ad esempio Bennett and Wells2010; Guthrie and Bryant2000; Holeva et al.2001; Roussis and Wells2008).

Dal punto di vista clinico, il modello metacognitivo propone un trattamento focalizzato sulla sindrome cognitivo-attenzionale, sui relativi processi di pensiero e sulle credenze metacognitive disfunzionali, con l’obiettivo di flessibilizzare la rigidità della sindrome cognitivo-attenzionale. Di nuovo, il target del trattamento, non sono i contenuti traumatici bensì i processi mentali cognitivi e attentivi che sottostanno l’intrusitività e la perseveranza ripetitiva maladattiva di tali stati mentali.

In aggiunta a precedenti ricerche preliminari, il recente studio di Wells, Walton, Lovel & Proctor (2015) consiste in un trial controllato in cui viene messa a confronto la terapia metacognitiva (MCT) con la terapia di esposizione prolungata (PE) su un campione di 32 pazienti con diagnosi di disturbo post traumatico da stress insorto da almeno tre mesi. Il protocollo di terapia di esposizione prolungata implica nella sua essenza principale una serie di graduali esposizioni in immaginativo e in vivo, con riflessioni psicoeducative riguardo l’evitamento e i circoli viziosi ad esso correlati nel mantimento del distress a lungo termine e della sintomatologia post-traumatica.

D’altra parte, la terapia metacognitiva – anche nel caso del disturbo da stress post traumatico – mira a lavorare sulla sindrome cognitivo-attenzionale, sui processi di pensiero ripetitivi e sulle credenze metacognitive disfunzionali relative alle funzioni mnestiche e ai ricordi traumatici.

Tutti i pazienti sono stati sottoposti per otto settimane a un’ora di terapia individuale di tipo metacognitivo o espositiva. Tra le misure di outcome impiegate vi sono la Impact of Events Scale (IES; Horowitz et al.1979) che misura il livello di intrusività ed evitamento, e la Post-traumatic Stress Diagnostic Scale (PDS; Foa 1995) che valuta la sintomatologia del PTSD secondo i criteri del DSM-IV. Lo studio dimostra che entrambe le tipologie di trattamento – confrontate anche con un gruppo di pazienti in lista d’attesa- sono efficaci, e cioè sono in grado di migliorare i sintomi del disturbo da stress post traumatico, e anche i livelli di ansia e depressione.

Nella fase di post-test la terapia metacognitiva risulta essere anche maggiormente efficace (con maggiori dimensioni dell’effetto) rispetto alla terapia espositiva; tuttavia nel follow-up si riscontrano elevate percentuali di recupero e miglioramento della sintomatologia per entrambe le terapie analizzate. Dunque entrambi i protocolli, secondo la ricerca, si possono definire empiricamente efficaci per il trattamento del disturbo da stress post traumatico. Ulteriori studi dovranno dimostrare la replicabilità dei risultati secondo cui la terapia metacognitiva portebbe pure a un maggiore e più rapido miglioramento sintomatico per questa tipologia di disturbo, oltre che verificarne l’efficacia confrontandola anche con altre terapie che lavorano sul trauma.

 

 

Congresso Internazionale Terapia Metacognitiva Milano 2016

Il quoziente intellettivo e l’età mentale – Introduzione alla Psicologia

Quoziente intellettivo: Gli studi sull’intelligenza nascono all’inizio del secolo scorso, quando nell’ambito della psicologia vigeva l’esigenza di misurare una serie di costrutti che riguardavano i comportamenti manifesti esistenti tra i soggetti. Lo scopo era di oggettivare, quantificare numericamente, degli atteggiamenti o tratti che rappresentano la misura diretta di qualcosa che non è immediatamente misurabile. Quindi, si partiva dal manifesto, dall’agito, dal comportamento, inteso come misura di qualcosa non tangibile, per arrivare al latente. In questo ambito, tra tutti, ricordiamo gli studi sull’intelligenza.

INTRODUZIONE ALLA PSICOLOGIA RUBRICA DI DIVULGAZIONE SCIENTIFICA IN COLLABORAZIONE CON LA SIGMUND FREUD UNIVERSITY DI MILANO

 

Cos’è esattamente l’intelligenza? In tantissimi hanno cercato di dare una risposta a questa domanda, Socrate, Einstein, Locke, le recenti neuroimaging, ma gli studi più accreditati sono stati svolti all’inizio del XX secolo, in ambito psicometrico. Ricostruiamoli.

 

Definizione di intelligenza

Cominciamo col dire che Intelligenza deriva dal verbo latino intelligere, che significa comprendere o percepire. L’intelligenza, in generale, può essere definita come la capacità di acquisire informazioni che costituiranno l’insieme di conoscenze apprese da ciascun individuo.
Pur indicando una definizione generale, il concetto d’intelligenza è molto più complesso e strutturato e per capire esattamente di cosa si sta parlando è necessario tornare nel 1900.

 

I primi studi sull’intelligenza

Charles Spearman, psicometrista e allievo di Wundt, giunse alla conclusione che non esisteva un’unica forma d’intelligenza, ma diversi tipi di intelligenza manifesta, tutti correlati tra loro, da cui emerge un unico fattore latente che è il famosissimo fattore di intelligenza generale chiamato G.

Più tardi, Cattel individuò due tipi di intelligenza: l’intelligenza fluida e quella cristallizzata. L’intelligenza fluida, è la capacità di applicare la logica a situazioni di vita comune; attraverso l’analisi di una serie di schemi acquisiti si applica la logica che permette di giungere a soluzioni efficaci. Questa procedura prese il nome di problem solving, in cui è possibile utilizzare sia il ragionamento induttivo che quello deduttivo.
L’intelligenza cristallizzata è la capacità di fruire di conoscenze apprese ed esperienze acquisite. Essa raggruppa le conoscenze generali derivanti dalle esperienze ed è in costante interazione con l’intelligenza fluida.

Intelligenza fluida e cristallizzata tendono a cambiare nel corso della vita. La prima dura fino all’adolescenza e l’altra perdura fino all’età adulta.
L’intelligenza fluida e quella cristallizzata sono quindi correlate fra loro, e molti test d’intelligenza tentano di misurarle entrambe, giungendo a un punteggio globale, il Quoziente Intellettivo (QI).

 

Il quoziente intellettivo

Francis Galton, cugino di Darwin, era uno scienziato britannico, che diete vita all’eugenetica. Egli suppose che l’intelligenza fosse un comportamento misurabile e per questo poteva essere inferito dalle capacità visive, dai tempi di risposta a uno stimolo somministrato, dalla sensibilità della pelle, etc. Si tratta di capacità umane facilmente valutabili e osservabili, che derivano da caratteristiche innate nel soggetto.
Solo nel 1904, però, è stato possibile realmente quantificare in termini psicometrici l’intelligenza.

All’inizio del 1900 , il governo francese avevo reso obbligatoria la frequenza scolastica, e per questo aveva chiesto allo psicologo Binet di capire in che modo si potesse agire sugli studenti che non riuscivano a ottenere un buon rendimento concedendogli, in questo modo, assistenza specializzata.
Binet e il suo collega Simon avevano ideato una serie di domande (60 item) su grandi aree di apprendimento scolastico: l’attenzione, la memoria e la capacità di problem solving. Alla fine ottennero il primo reattivo psicometrico che permetteva di misurare l’intelligenza.
Questo primo test d’intelligenza, la scala Binet –Simon, restituiva un unico punteggio totale chiamato Quoziente Intellettivo. Questo test, ancora oggi in uso, divenne la base per i futuri questionari sull’intelligenza.

Binet ha, però, sottolineato l’esistenza di una serie di limiti presentati dal test, evidenziando che l’intelligenza è un costrutto troppo vasto da racchiudere in un unico numero. Infatti l’intelligenza è condizionata da una serie di fattori, tra cui ricordiamo una serie di abilità cognitive, la cultura e l’ambiente familiare da cui si proviene.
Osservò, inoltre, che alcuni dei bambini sottoposti al test erano in grado di rispondere a domande rivolte a soggetti più grandi, ottenendo chiaramente punteggi maggiori. Nacque, in questo modo, il concetto di età mentale e di età cronologica.

L’età cronologica rappresenta l’età di un individuo, ovvero quanto vecchio è, e si calcola a partire dal giorno di nascita. Quindi, una persona nata il 22 luglio del 1990, oggi ha un’età cronologica pari a 25 anni e 8 mesi.

L’età mentale, invece, è una misura delle capacità cognitive di un soggetto equiparate al rendimento medio dei soggetti aventi la stessa età. Un ragazzo di 15 anni che riesce a rispondere a domande tipiche dei 19 anni, avrà 19 anni di età mentale e 15 di età cronologica. Insomma, l’età mentale si basa sullo sviluppo intellettuale e cognitivo, mentre l’età cronologica fa riferimento alla data di nascita. Se l’età cronologica coincide con l’età mentale, allora si ha una intelligenza nella media.

Il test Binet-Simon ha mosso molto interesse soprattutto oltre oceano, nella Stanford University. In quell’ambito lo psicologo Terman standardizzò il test, ormai chiamato Standford-Binet, ovvero individuò norme standard cioè uguali per tutti, su un campione di soggetti americani. Questo test aveva sempre un unico punteggio totale, QI (quoziente intellettivo), calcolato dividendo l’età mentale del soggetto per l’età cronologica e moltiplicando questo numero per 100, punteggio medio ottenibile al test. Ad esempio, un bambino con un’età mentale di 12 anni e un età cronologica di 10 avrebbe un quoziente intellettivo di 120 = (12 / 10 x 100 ) .

La Stanford- Binet rimane uno strumento di valutazione popolare anche oggi, nonostante sia stato revisionato più volte in tutti questi anni.

 

La Scala Wechsler

Wechsler, più tardi, partendo dai limiti dalla Stanford-Binet, propose un nuovo test d’intelligenza. Egli sosteneva che l’intelligenza derivasse da una serie di abilità cognitive e mentali, correlate tra loro ma valutabili singolarmente: la comprensione verbale, la working memory, l’organizzazione percettiva e la velocità di elaborazione dell’informazione in un compito. Ognuna di queste aree a sua volta era formata da una serie di sotto-scale, che permettevano di misurare i costrutti in maniera più accurata. Inoltre, sviluppò una versione della scala adatta ai bambini (WISC) e un’altra per valutare forme di Intelligenza primaria (WPPSI). La versione per adulti del test è stata rivista più volte dalla sua pubblicazione originale ed è ora conosciuto come la WAIS-IV, che presenta norme e taratura diverse da quelle originarie.

La WAIS fornisce punteggi in quattro principali aree di intelligenza, come detto sopra, e prevede anche due punteggi generali che possono essere utilizzati come una sintesi di intelligenza generale: un quoziente intellettivo derivante dalla somma dei punteggi nelle quattro aree, e un indice di abilità generale derivante dalla somma dei punteggi a sei sotto-scale del test (General Ability Index, GAI).
Il punteggio medio ottenibile è sempre 100 con deviazione standard pari a 15. In questo modo, si individua un range che varia da 85 e 115 che costituisce il range della media. Punteggi bassi al test indicano possibili difficoltà di apprendimento da parte del soggetto sia in generale sia in aree specifiche.

 

Conclusione e aspetti neuroscientifici

Concludendo, esistono due grandi teorie sull’intelligenza: la prima che sostiene l’esistenza di un unico fattore e la seconda che individua più forme di intelligenza.
Un recente studio pubblicato da Hampshire e collaboratori condotto presso la University of Western Ontario ha esaminato le aree del cervello implicate nell’esecuzione di test per valutare l’intelligenza durante una sessione di risonanza magnetica funzionale. Lo scopo era individuare un’area globale, o aree dominio specifiche in relazione ai diversi compiti eseguiti.
I risultati evidenziarono le attivazioni di regioni specifiche per compiti specifici. Quindi, si hanno aree diverse per capacità cognitive diverse. Questo risultato andrebbe verso la conferma dell’esistenza di diverse forme di intelligenza sottese da aree specifiche: memoria a breve termine, ragionamento induttivo e le capacità verbali.

Poco si conosce ancora circa il funzionamento specifico di queste aree, di come comunichino tra di loro e di come influenzino le performance in un compito. Sicuramente possiamo dire che compiti diversi sono elaborati in aree cerebrali diverse, ma sono necessari studi ulteriori per approfondire o implementare tali risultati.

 

RUBRICA: INTRODUZIONE ALLA PSICOLOGIA

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Effetti del Calcio Sociale sulla recovery: i primi risultati di uno studio sperimentale controllato

Calcio Sociale: Il CSM di Civita Castellana dell’ASL di Viterbo da due anni ha avviato un programma di riabilitazione psichiatrica che non poteva che riscuotere un grande successo vista la storia d’amore tra gli italiani e il calcio. Il progetto, denominato Calcio Sociale è partito nel 2014, si fonda su principi e valori volti a promuovere l’inclusione, l’accoglienza e l’accettazione della diversità.

Antonio Scarinci, Fabio Massimo Maurelli, Maurizio Menichelli, Martina Fantera, Jessica Galluzzi, Angelo Alessandro Scarinci

Introduzione

L’attività di riabilitazione dei pazienti coinvolti che presentano diagnosi e problemi di varia natura si svolge in un contesto caratterizzato da un’atmosfera emotiva calda e accogliente che permette l’interazione tra tutti i partecipanti. Le squadre che si affrontano, durante la partita di Calcio Sociale, perseguono uno scopo comune secondo regole condivise. L’agonismo è temperato dal coinvolgimento cooperativistico, e dalla valorizzazione delle risorse e dei punti di forza di ognuno messi a servizio della squadra.

Il calcio sociale diventa metafora della vita.

Le finalità di questa attività sono molteplici:
– promuovere interventi contro lo stigma;
– sollecitare la partecipazione attiva non solo degli utenti ma anche dei familiari delle associazioni, delle istituzioni locali;
– operare interventi di riabilitazione e psicoeducazione;
– promuovere una cultura dell’inclusione che favorisca la piena partecipazione alla vita sociale di soggetti troppo spesso esclusi ed emarginati.

Nei due anni trascorsi, i ragazzi coinvolti si sono impegnati con regolarità ad incontrarsi ogni lunedì della settimana al campo di calcio di una parrocchia assistiti da un infermiere psichiatrico, uno psichiatra e uno psicologo per svolgere gli allenamenti settimanali. La parrocchia e le associazioni che si muovono intorno ad essa sono stati ben lieti di ospitare la squadra. Sono state organizzate, inoltre, partite amichevoli con la partecipazione di utenti di altri servizi e tornei interregionali, nella primavera dello scorso anno ne è svolto uno a San Benedetto del Tronto.

A maggio p.v. gli utenti parteciperanno al V Torneo Internazionale di calcio a 6 dei DD.SS.MM. denominato “La testa nel pallone” che si terrà in Puglia.

Tra gli obiettivi della manifestazione, vi sono quelli di offrire ai partecipanti un’opportunità di crescita personale attraverso l’interazione con gli altri, stimolare il senso d’appartenenza, migliorare i deficit cognitivi e comportamentali.

Le abilità che consentono di identificare gli stati mentali e di intervenire su di essi, attribuendo a se stessi e agli altri emozioni, scopi e credenze sono essenziali per adottare piani funzionali per la vita di relazione e l’adattamento all’ambiente (Carcione, Nicolò; Procacci, 2012).
Le modalità di tipo esperienziale volte al cambiamento sono l’asse portante della riabilitazione ma l’intervento per dimostrarsi efficace deve essere valutato con rigore e metodo (Brenner, 1997; Ballack et al., 2003).

 

La valutazione dei pazienti prima e dopo l’esperienza del Calcio Sociale

Proprio a tal fine i pazienti che hanno aderito al Calcio Sociale sono stati fatti oggetto di valutazione all’inizio dell’attività e a distanza di un anno e confrontati con un gruppo di controllo in relazione alla diminuzione dei sintomi, all’incremento della metacognizione e al loro funzionamento complessivo. Gli strumenti di valutazione utilizzati sono stati la SCL-90-R (Derogatis, 1994) , il Metacognitions Questionnaire (Cartwright, Wells, 2002) e la Scala per la Valutazione Globale del Funzionamento (APA, 2000).

La Symptom Checklist-90-R è uno strumento autosomministrato. Nella sua versione definitiva la scala risulta composta da 90 item e valuta la presenza e la gravità di sintomi di disagio psichico nell’ultima settimana (incluso il giorno in cui avviene la valutazione) in diversi domini. A ogni item viene attribuito un punteggio su una scala Likert a cinque punti. La natura multidimensionale della SCL-90-R consente di ottenere informazioni specifiche rispetto al disagio sintomatologico nei diversi domini indagati, oltre che informazioni più generali attraverso la lettura degli indici globali.
Il Metacognitions Questionnaire misura contenuti metacognitivi. E’ composto da 65 item che formano 5 sottoscale: credenze positive riguardo alla preoccupazione; credenze di incontrollabilità e pericolo; convinzioni di competenza cognitiva; credenze negative generali; autoconsapevolezza cognitiva. Gli item sono valutati su una scala Likert a 4 punti.

La Scala per la Valutazione Globale del Funzionamento considera il funzionamento psicologico, sociale e lavorativo nell’ambito di un ipotetico continuum salute-malattia mentale. Si compone di 11 range con un punteggio che varia da 1 a 100. Il punteggio è assegnato dal curante che dispone delle informazioni sul paziente.

Quattro dei sette pazienti che hanno dichiarato la disponibilità a intraprendere il programma hanno una diagnosi di schizofrenia di tipo paranoide (DSM IV F.20.0X), uno ha una diagnosi di disturbo psicotico NAS (DSM IV F.29), tutti vengono trattati farmacologicamente con neurolettici di nuova generazione; un soggetto ha diagnosi di disturbo depressivo maggiore ricorrente (DSM IV F. 33. X) e viene trattato con neurolettico di nuova generazione, stabilizzatore dell’umore e psicoterapia; il settimo partecipante ha diagnosi di disturbo borderline di personalità (DSM IV F. 60.31) con trattamento psicoterapeutico. La scala per la Valutazione Globale del Funzionamento dei pazienti in fase di stabilizzazione al momento dell’intervento presenta un range che varia da 55 a 60 punti (sintomi moderati – es: affettività appiattita e linguaggio circostanziato, occasionali attacchi di panico oppure moderate difficoltà nel funzionamento sociale, lavorativo e scolastico – es: pochi amici, conflitti con i compagni di lavoro).

I soggetti del gruppo di controllo sono stati selezionati in modo da avere omogeneità con il gruppo sperimentale relativamente alla diagnosi, al trattamento e alla valutazione globale del funzionamento (range 55-60).
L’ipotesi avanzata era che i partecipanti potessero migliorare la propria metacognizione, diminuire la sintomatologia e mantenere stabile o migliorare il funzionamento a distanza di un anno.

Nella tab. 1 sono riportate le statistiche descrittive dei due gruppi in relazione alle 10 sottoscale del test SCL-90-R (SCL1…SCL10) e alle 5 sottoscale del test MCQ (MCQ1…MCQ5).

 

I risultati

I dati sono stati elaborati con il programma SPSS 21. E’ stata fatta una ANOVA per verificare gli effetti dell’intervento di riabilitazione nell’arco di tempo di un anno confrontando il gruppo sperimentale con il gruppo di controllo. Gli effetti della variabile GRUPPO indicano differenze che dipendono principalmente dalle caratteristiche del campione.

Gli effetti della variabile TEMPO indicano differenze che dipendono principalmente dal trascorrere del tempo e che agiscono parimenti su entrambi i gruppi. Occorre notare che i valori medi delle sottoscale sintomatologiche del SCL-90-R e delle sottoscale del MCQ sono tutti diminuiti.

Gli effetti di interazione delle variabili GRUPPOxTEMPO indicano differenze che dipendono in qualche modo dall’interazione delle variabili stesse. L’effetto sulle dimensioni MCQ1 (Convinzioni positive riguardo alla preoccupazione) e MCQ5 ( Autoconsapevolezza cognitiva) e SCL1 (somatizzazioni) sono quelle su cui ha agito l’intervento svolto in quanto risultano significative (rispettivamente F= 4,935 – p< .05; F= 4,694 – p<.05; F= 4,934 – p<.05).

Queste variabili sono diminuite nel tempo per gli sperimentali e non tra i controlli.

Le convinzioni positive riguardo alla preoccupazione utilizzate per prevenire ed evitare minacce e pericoli rappresentano strategie di fronteggiamento disadattive che causano rimuginio e ruminazione e attivano memoria e attenzione selettive, contribuendo a creare problemi di elaborazione emotiva. L’autoconsapevolezza cognitiva (per es: presto molta attenzione al modo in cui funziona la mia mente) nel modello della funzione autoregolatoria di Wells (2012) è associata a effetti deleteri sulla cognizione con esiti emozionali patologici.

Lo sport e l’attività fisica in genere è un ottimo rimedio per chi tende a somatizzare gli stati emotivi e i dati riguardanti la sottoscala SCL1 lo attestano.

I valori medi riportati dal gruppo sperimentale per MCQ1 pari a 35,38 al post test sono inferiori a quelli di un campione non clinico (35,8) riportati da Wells (2002) nello studio di validazione del test, e questo vale anche per la sottoscala MCQ5 pari a 15,88 al post-test a fronte di un punteggio pari a 18,2 del campione non clinico (Cfr. Tab.1).

Di seguito si riportano i dati della varianza (la differenza media è significativa al livello ,05) con la correzione dell’errore del primo tipo in presenza di test multipli sugli stessi dati (test di Bonferroni).

 

La valutazione rispetto al funzionamento dei pazienti è stata operata attraverso la scala VGF.
I punteggi medi riportati dai pazienti del gruppo sperimentale sono passati dal range 50-60 (Sintomi moderati – es: affettività appiattita e linguaggio circostanziato, occasionali attacchi di panico – oppure moderate difficoltà nel funzionamento sociale, lavorativo o scolastico – es: pochi amici, conflitti con i compagni di lavoro) al range 60-70 (Alcuni sintomi lievi – es: umore depresso, insonnia lieve – oppure difficoltà nel funzionamento sociale, lavorativo o scolastico – es: assenze ingiustificate a scuola o furti in casa – ma in genere funziona bene e ha alcune relazioni personali significative) mentre i punteggi dei pazienti del gruppo di controllo sono rimasti invariati (range 50-60).

Naturalmente occorrerà effettuare ulteriori verifiche nel tempo ma i risultati ottenuti in questa prima fase sembrerebbero incoraggianti in relazione all’efficacia dell’intervento riabilitativo Calcio Sociale per la recovery, anche se una serie di variabili confondenti (ad esempio gli eventi critici di vita) che non sono state prese in considerazione potrebbero agire sugli stati interni dei pazienti e condizionare i risultati.

Nell’allegato è possibile visualizzare le analisi dei dati.

Dipendenza affettiva: recensione del libro ‘Dipendenza e controdipendenza affettiva: dalle passioni scriteriate all’indifferenza vuota’

La dipendenza affettiva è una condizione che non ha ancora trovato pieno riconoscimento in nessuna classificazione ufficiale, ma che tante volte chi svolge attività clinica ha incontrato, portata dai pazienti più disparati.

 

Dipendenza e controdipendenza affettiva‘ è il titolo di un libro molto interessante, scritto da Massimo Borgioni e uscito per Alpes a settembre 2015.

Se già il titolo suscita interesse, ancor più interessante è il sottotitolo: ‘dalle passioni scriteriate all’indifferenza vuota‘. Ma iniziamo dall’inizio, appunto.

 

Cosa si intende per dipendenza affettiva?

La dipendenza affettiva è una condizione che non ha ancora trovato pieno riconoscimento in nessuna classificazione ufficiale, ma che tante volte chi svolge attività clinica ha incontrato, portata dai pazienti più disparati. Possiamo pensare che senza dipendenza affettiva non ci sarebbero state tante canzoni, tanti romanzi, e sicuramente tante poesie. Una forma di dipendenza affettiva è senza dubbio quella che Buzzati racconta in ‘Un amore‘ dove in sostanza troviamo un signore di mezz’età che ha sempre evitato ogni forma di relazione intima e che improvvisamente e catastroficamente si innamora di una giovane Adelaide; la fanciulla si sente autorizzata a fare il bello e il cattivo tempo, certa che il suo spasimante si farà andare sempre tutto bene pur di starle accanto. In uno dei dialoghi più rappresentativi, che ci aiuta a capire meglio il concetto, troviamo un’amica di Adelaide che interroga Antonio sui suoi sentimenti per la ragazza:

E tu che cos’eri per lei?

Io le ho voluto bene sul serio

Bene sul serio? Semplicemente te ne eri ammalato, ne avevi bisogno, hai fatto di tutto per averla, in modo bestiale ma l’hai fatto. Ma la consideravi una disgrazia, è vero o no che la consideravi una disgrazia?”

Era, una disgrazia”

E questo lo chiami amore? Ma l’hai fatta entrare nella tua vita? L’hai ammessa in casa tua? L’hai fatta conoscere alla tua famiglia?”

Queste sono assurdità”

Ecco, in queste poche righe troviamo già una bella mappa di che cosa sia la dipendenza affettiva. O almeno, una sua versione. La dipendenza affettiva è essere ammalati di qualcuno, è considerare una persona la causa e la cura della propria malattia, è sentire di non poter smettere ma di non poter continuare così. Qualunque cosa quel ‘così’ voglia dire. E già qui, ci risuona molto il rapporto che le persone con una tossicodipendenza hanno con la sostanza: sapere che ti fa male ma che non puoi farne a meno, e sapere anche che più andrai avanti così più la cosa peggiorerà e sarà difficile trovare un’alternativa.

L’altro aspetto interessante è quello riportato dall’amica di Adelaide: “ma l’hai fatta entrare nella tua vita?” Sottointeso: no. Perché la dipendenza è anche questo: tenere qualcosa da parte, per una motivazione che racchiude sia la gelosia (per cui non vogliamo dividere l’oggetto della nostra dipendenza con nessuno), sia in parte la sensazione che in effetti qualcosa non sia del tutto limpido, che forse, nel caso della dipendenza affettiva, questa relazione non ci fa proprio tanto bene.

Una relazione che si configura come sostanzialmente scotomizzata dalla vita quotidiana, in cui non si parla di come è andata la giornata, ma si rimane altro da noi stessi, esseri astratti che si rapportano in un modo astratto e poco conciliabile con la quotidianità. Una dipendenza che diventa anche non integrazione, quindi, che non ci aiuta a vivere un’esistenza lineare e fluida, ma ci costringe a continui scatti per passare da una realtà all’altra.

 

Un’altra forma di dipendenza affettiva

Dicevamo però che questa è una delle diverse forme che la dipendenza affettiva può assumere. Accanto a questa versione, che senz’altro ben rappresenta l’amore scriteriato di cui parla Borgioni, abbiamo l’indifferenza vuota, che può risultare altrettanto devastante. Si tratta di una sorta di evitamento obbligato e compulsivo delle relazioni intime, guidato dal terrore di potersi scomporre e disgregare lasciando entrare un’altra persona nella nostra vita.

Allora visto che la serenità sta nel potersi rapportare a qualcosa in modo consono alla nostra volontà e alle nostre esigenze, possiamo pensare che la difficoltà (o addirittura la patologia) sia rappresentata tanto dall’abbuffare di una relazione, quanto dall’evitarla in modo spaventato. Come con il cibo, la soluzione alle abbuffate non sta nel digiuno, ma anzi questi comportamenti si configurano come due condizioni che componendo un’alternanza patologica si esacerbano l’una con l’altra.

Allo stesso modo, non è infrequente che le persone che hanno conosciuto una faccia della dipendenza affettiva oscillino poi nell’altro versante, quasi come una reazione estrema e disperata per allontanarsi da quello che ha fatto male. Così, capita di incontrare sia persone che dopo una relazione vissuta in modo scriteriato, appunto, si siano rifugiate nella sicurezza dell’indifferenza vuota, così come l’opposto, come è successo al nostro Antonio: persone che non si sono mai esposte a relazioni percepite come pericolose perché intime, e quando lo fanno si buttano in toto, chiedendo all’altra persona di prendere tutto e farne qualcos’altro. Di fare di loro stessi qualcos’altro, quasi a dire ‘salvami la vita!‘, emotivamente parlando. Ma purtroppo le cose non funzionano così, e spesso collocarsi negli opposti di un continuum porta agli stessi disastrosi effetti.

 

‘Dipendenza e controdipendenza affettiva’

La prima parte del volume è dedicata proprio alla definizione della Love Addiction e delle sue diverse forme. Uno dei primi aspetti sottolineati è che il dipendente affettivo fatica a concepire il cambiamento all’interno di una relazione, e ha la necessità di mantenere il rapporto in un’idealizzazione cristallizzata che non consente un suo adeguamento alla realtà dei fatti. Se è vero che la patologia dipende dalla rigidità degli schemi, in questo senso il dipendente affettivo si mostra rigido in uno schema relazionale, che lui non consente di modificare nel terrore che ogni cambiamento possa comportare una perdita dell’equilibrio e di conseguenza una frattura. Proseguendo, l’autore propone un’ipotesi sull’eziologia della dipendenza affettiva, che affonderebbe le sue radici per lo più nello stile di attaccamento.

Il secondo capitolo rappresenta senz’altro la sezione più interessante del libro, passando in rassegna le diverse tipologie di dipendenza affettiva.

La prima forma è quella che l’autore chiama ‘passivo-dipendente‘: si tratta di persone che hanno alla base la sensazione di non farcela da soli davanti alle difficoltà della vita e che cercano nel partner una forma di salvezza neanche tanto metaforica. L’idea è che da soli non ci se la fa, con il conseguente terrore costante di perdere l’altro e la relazione. Il dipendente delega tutta la propria felicità al partner, e a lui chiede di rimanere nella diade per sempre.

Mette in atto una costante svalutazione di sé e idealizzazione del partner, verso cui prova ammirazione mista a invidia e competizione, che facilmente emergono con comportamenti passivo-aggressivi. L’atteggiamento prevalente è, infatti, un’oscillazione continua tra la compiacenza dell’altro e forme passive di protesta, nell’aspettativa irrealistica che, dichiarando la sua completa impossibilità di badare emotivamente a se stesso, l’altro si preoccupi di accudirlo e sostenerlo.

La seconda forma di dipendenza affettiva è la ‘codipendenza‘, che solitamente ritroviamo nelle persone che tendono a legarsi a partner in evidente necessità. La codipendenza è forse qualcosa che si avvicina alla sindrome della crocerossina, nell’ottica del ‘grazie al mio amore un giorno guarirai‘. Va da sé che questo tipo di rapporto nasce sotto la stella dello squilibrio di potere e di risorse all’interno di un legame mediato esclusivamente dalla condizione di bisogno.

La contropartita dell’abnegazione con cui il codipendente si dedica al partner tossicodipendente o al compagno alcolista solitamente è la sensazione di essere unico e speciale, nella consapevolezza che senza di lui/lei, il partner non potrebbe farcela da solo. Una forma di narcisismo quindi? Può darsi. Sicuramente a caro prezzo. Anche perché non è insolito che persone che sviluppano per esempio una dipendenza da sostanze, una volta guarite decidano di tagliare tutte quelle relazioni che possono ricordare a loro stessi momenti di difficoltà e che possono richiamare un’idea di sé come debole e bisognoso.

In secondo luogo, una relazione con una persona in evidente stato di necessità può dare l’illusione di essere una relazione che durerà per sempre: se l’altro ha bisogno di me, non può lasciarmi. Per questo, può succedere che sia proprio il partner codipendente a sabotare più o meno esplicitamente i percorsi di cura del compagno in difficoltà, nell’ottica che mantenendo lo stato di necessità riuscirà a mantenere anche la loro relazione.

La terza forma è quella ‘aggressivo-dipendente‘, che porta in primo piano la componente maltrattante e addirittura violenta della dipendenza affettiva: questa persona vede il partner come figura su cui scaricare il fardello di rancore e frustrazione che può portare con sé da sempre o può aver acquisito in precedenti relazioni fallimentari, per una sorta di inversione di ruoli da vittima a carnefice. L’altra faccia della medaglia di questa continua aggressività è una sottostante svalutazione di se stessi, fatta di senso di colpa e autoaccusa, e appoggiata soprattutto su un’idea estremamente negativa di sé.

Sono quelle coppie che costruiscono la loro stabilità nella continua svalutazione dell’altro e nelle continue angherie, che si configurano come l’unico modo che i partner hanno di stare in relazione. In questo caso abbiamo una visione di sé come profondamente immeritevole di affetto e cattivo, e dell’altro come sbagliato e fallace.

La quarta e ultima configurazione di dipendenza affettiva proposta dall’autore è quella del contro-dipendente. A mio avviso, uno degli aspetti più interessanti e innovativi di questo volume è stata proprio la scelta di inserire anche questo aspetto nella rosa di dipendenti affettivi. Parliamo di persone che hanno risolto il proprio terrore dell’abbandono evitando puntualmente ogni tipo di legame intimo e rendendosi affettivamente indisponibili. Sono persone che hanno imparato molto presto a fare a meno del caregiver, e hanno capito anche che prima si diventa autonomi prima ci si può sottrarre da un possibile rifiuto o abbandono dell’altro. A causa di una disconferma e di un non riconoscimento dei propri bisogni da parte dei genitori, questi bambini hanno imparato che doveva esserci qualcosa di profondamente sbagliato in loro, e per evitare la vergogna che deriva da questa consapevolezza hanno semplicemente smesso di chiedere.

L’autonomia raggiunta è però solo fittizia, visto che gioco forza nessuno ha insegnato a questi bambini diventati adulti le competenze per poter fare da soli. Più che autonomi, quindi, si sentono in un equilibrio precario, che sicuramente non metteranno a rischio esponendo la propria emotività alla possibilità di essere mortificata o rifiutata dall’altro. Dietro all’illusione nucleare di non avere bisogno di niente e di nessuno si nasconde in realtà una problematica di dipendenza che semplicemente non è mai stata elaborata e resta lì irrisolta, esponendo la persona a rischio di dipendenza da una gratificazione compulsiva alternativa, come può essere la dipendenza da sostanze o da comportamenti a rischio.

Nei capitoli successivi del libro, l’autore affronta il legame tra dipendenza affettiva e dipendenza da sostanze, così come la presenza della dipendenza affettiva e il ruolo che questa può giocare nelle diverse professioni di aiuto. Infine, il volume si conclude con alcune note sul trattamento che tuttavia sono solamente preliminari, anche per la natura non ancora ben precisata della love addiction, che più spesso si identifica come modalità relazionale prevalente in pazienti che si presentano ai servizi per problematiche di altro genere.

Complessivamente, il libro di Borgioni si configura come un ottimo apripista di una problematica che ad oggi non è stata ancora ben delineata ma che sempre di più si presenta nell’attività clinica, richiedendo con urgenza un suo riconoscimento non solo all’interno di dinamiche di coppia, ma identificando la dipendenza affettiva anche come modalità preferenziale con cui le persone entrano in relazione con gli altri.

Assertività. Vincere quasi sempre con le tre A – Recensione del libro

Oggi il training per l’ assertività è essenzialmente un percorso psicologico in cui vengono fornite indicazioni e prescrizioni per modificare il proprio comportamento e rendere più funzionale l’interazione tra pensieri, emozioni ed azioni.

Diletta Maria Ghisleri – OPEN SCHOOL Psicoterapia Cognitiva e Ricerca

 

Come nascono i training per l’ assertività

A partire dagli anni ’60, una serie di studi nell’ambito della psicologia clinica e applicativa si sono interessati di alcuni aspetti specifici del comportamento; facendo riferimento ai lavori di Pavlov (1931) e Salter (1949) alcuni psicologi come Alberti (1977), Lieberman (1973) e Goldstein (1981) hanno indirizzato il proprio interesse verso il comportamento interpersonale, le abilità sociali comunicative e il ruolo delle emozioni in questi contesti.

Da questi studi si sono sviluppate una serie di tecniche di terapia comportamentale (Giusti, Montanari, Iannazzo, 2000) chiamate training per l’ assertività: si tratta di interventi di de-condizionamento dalle idee irrazionali, precostituite e dogmatiche (Ellis, 2000), che prevedono l’utilizzo del disputing e soprattutto dell’esposizione comportamentale. Oggi il training per l’ assertività è essenzialmente un percorso psicologico in cui vengono fornite indicazioni e prescrizioni per modificare il proprio comportamento e rendere più funzionale l’interazione tra pensieri, emozioni ed azioni (Kelley, 1979); spesso si inserisce all’interno di percorsi psicoterapeutici personali.

 

 

‘Vincere quasi sempre con le tre A. Assertività’

Il libro “L’ Assertività. Vincere quasi sempre con le tre A. Assertività” (Giusti, Testi, 2006) propone un percorso di conoscenza guidato di quello che può essere riconosciuto come comportamento assertivo, facilitando l’aumento di consapevolezza del proprio modo di interagire con l’ambiente e con gli altri.

Si tratta di un manuale snello e pratico, di auto-aiuto, che attraverso la proposta di schede ed esercizi promuove lo sviluppo di abilità cognitive e comportamentali, utili ad affermare se stessi e a risolvere conflitti con gli altri attraverso uno stile di comunicazione adeguata alle varie situazioni di vita quotidiana.

Il termine assertività deriva dal latino asserere e significa asserire, affermare con tenacia ciò che si sostiene. Essere assertivi significa ‘tenere un comportamento efficace ed adeguato per ottenere il risultato desiderato, comunicarlo con autenticità, senza essere sottomessi o aggressivi, mantenendo il rispetto di sé e del proprio interlocutore’ (Giusti, Montanari, Montanarella, 1995).

Così definita, l’ assertività rappresenta un costrutto prevalentemente sociale: la modalità d’azione comunicativa e comportamentale più funzionale per esprimere in modo autentico ed efficace se stessi, nel rispetto del bisogno di interazione e integrazione con gli altri.

 

Caratteristiche del comportamento assertivo

La comunicazione assertiva, così come lo stile di comportamento assertivo (Hare, 1988) in generale, possono essere descritti come una modalità di espressione di sé che prevede la ricerca dell’equilibrio tra il rispondere incondizionatamente ai bisogni dell’altro ed il far prevalere esclusivamente i propri. Galeazzi (1994) attraverso un’analisi della letteratura ha individuato le seguenti componenti, espressione del comportamento assertivo:

  • Assertività positiva e negativa: le capacità di esprimere e di ricevere dagli altri manifestazioni di stima, affetto e approvazione o critica e disapprovazione in modo adeguato;
  • Difesa dei propri diritti: capacità di proteggere la libertà e le preferenze personali;
  • Assertività di iniziativa: abilità di problem solving e soddisfare dei bisogni personali (es. fare richieste);
  • Assertività sociale: capacità di interagire con le altre persone e stabilire nuove relazioni;
  • Direttività: attitudine ad assumersi delle responsabilità e guidare gli altri nelle situazioni interpersonali problematiche.

Se gli estremi comportamentali sono da considerarsi lo stile passivo e lo stile aggressivo, lo stile comportamentale assertivo rappresenta il giusto mezzo.

 

Stile passivo

Con il termine comportamento passivo si intende l’atteggiamento di un soggetto che subisce le azioni altrui senza apparenti reazioni, che si assume responsabilità di eventi che possono anche non riguardarlo in prima persona e che antepone i bisogni e il benessere degli altri al proprio.

I pensieri irrazionali legati a questo stile comportamentale si rifanno al bisogno di accettazione, al timore per le conseguenze delle proprie azioni, al timore di perdere il controllo e al timore di giudizio (Ellis, 2000).

 

Stile aggressivo

Il comportamento aggressivo si esprime quando un soggetto tende ad affermare ed imporre se stesso in modo prepotente e prevaricante, senza tenere in considerazione i bisogni, i pensieri e le emozioni altrui. I pensieri connessi a questo stile comportamentale sono legati a idee di prevaricazione e sensazioni di minaccia al proprio ruolo.

 

Stile manipolativo

Lo stile manipolativo è caratterizzato da comportamenti di tipo passivo-aggressivo. Le persone che manifestano questo stile di comportamento utilizzano una modalità di comunicazione e interazione interpersonale indiretta. Esprimono passivamente l’aggressività al fine di raggiungere un obiettivo mai esplicitato o condiviso con l’altro, attraverso metodi come l’ironia o i discorsi allusivi.

Spesso si riscontra in soggetti con bassa autostima, poco espansivi, che nutrono forti emozioni di rabbia non espressa (o che credono non sia lecito esprimere liberamente).

 

Stile assertivo

Si parla di stile di comportamento assertivo quando le componenti emotive, cognitive ed espressive dell’azione sono modulate a seconda degli obiettivi, delle circostanze e delle persone coinvolte nel momento specifico. Il soggetto che esprime assertività riconosce ed accetta il proprio valore e quello altrui, nonché la libertà reciproca di espressione e pensiero: comunica in modo sincero e autentico, è pronto al dialogo e al confronto nel rispetto dell’identità dell’altro.

 

Le componenti dell’ assertività

All’ assertività è attualmente attribuita una struttura multidimensionale, di cui fanno parte diversi fattori, espressione ciascuno di specifiche abilità.

Possiamo individuare sei componenti, ciascuna delle quali rappresenta un insieme di competenze cognitive, emotive e comportamentali:

  1. Immagine positiva di sé,
  2. Contatto con gli altri,
  3. Libertà espressiva,
  4. Gestione delle richieste,
  5. Gestione del feedback,
  6. Gestione del conflitto.

 

Essere assertivi significa saper comunicare senza troppe paure e senza troppe riserve mentali e possedere quel coraggio e quella decisione che derivano da una buona stima di sé. Non essere imbrigliati da sentimenti di inferiorità e neppure compiacersi narcisisticamente di se stessi o vivere il rapporto con altri in modo ostile

(Bonenti, Meneghelli, 1992).

Per potersi esprimere in modo assertivo, le persone devono riconoscere i propri bisogni tanto importanti quanto quelli degli altri, fare affidamento sulle proprie capacità e possedere una sensazione generale di adeguatezza personale: saper ‘esprimere chi siamo in piena autonomia‘ (Townend, 1991).

L’uomo ha una naturale tendenza all’interazione sociale: i Sistemi Motivazionali Interpersonali (Liotti, 2001) sono sistemi cerebrali ontogeneticamente e filogeneticamente precedenti allo sviluppo della cognizione esplicita umana. Tuttavia questi stessi sistemi posso essere intesi come strutture funzionali che si sviluppano attraverso l’esperienza, le contingenze ambientali e l’interazione con gli altri (ad esempio il sistema dell’attaccamento può tipizzare in 4 possibili forme, Bowlby, 1989).

Il loro ruolo è quello di segnalare l’avvicinamento o l’allontanamento dallo scopo che essi stessi perseguono (es. sistema attaccamento: il bisogno segnalato è di protezione), attraverso sequenze emozionali. Secondo una prospettiva interazionista, ciascuna sequenza in un individuo comporta l’attivazione di una sequenza complementare di emozioni nell’individuo con il quale sta interagendo (Bara, 2005).

Le emozioni, il loro riconoscimento e la loro espressione sembrano quindi essere al centro dei processi di condivisione sociale, presenti ancor prima dello sviluppo dell’interazione verbale.

Ognuno di noi nasce con un corredo genetico, unico e personale, ma è attraverso l’apprendimento che si acquisiscono nel tempo schemi di comportamento e di interazione con gli altri. Più gli schemi appaiono flessibili, più risultano adattivi e funzionali.

Guardando alla psicologia cognitiva e cognitivo-evoluzionista, l’ assertività risulta uno stile comportamentale composito di abilità che regolano l’intersoggettività e che vedono come obiettivo principale la massima espressione autentica e rispettosa di emozioni e pensieri di ciascuno degli individui interagenti. Le parole chiave sono: Autenticità, Accettazione e Flessibilità.

 

Come potenziare lo stile assertivo

Come le principali sequenze comportamentali, lo stile assertivo può essere appreso e/o potenziato nel corso dello sviluppo o attraverso dei training specifici. Per raggiungere questo scopo i passaggi si possono riassumere in: conoscere, esprimere e riconoscere, agire/cambiare, accettare. Conoscere noi stessi, i nostri pensieri e le nostre emozioni. Riconoscere l’espressione situazionale delle emozioni e degli stili comportamentali propri e altrui. Modificare tramite azioni comportamentali e/o verbali il nostro stile di interazione. Accettare se’ stessi e accogliere l’altro per quello che è.

L’altro è altro e diverso da me. E’ parte ignota.(…) guardarlo negli occhi e fare in sé il silenzio per poterlo accogliere

(Giusti, Perfetti, 2004).

‘Vincere quasi sempre con le tre A. Assertività‘ (Giusti, Testi, 2006) risulta quindi un piccolo manuale molto utile, in cui si possono trovare proposte conoscitive e di autoriflessione, ma anche schede di valutazione del proprio stile comportamentale e proposte d’azione pratica.

Le capacità assertive si esprimono anche scegliendo di tacere il proprio pensiero

(Giusti, Testi, 2006).

Le credenze metacognitive sul gioco online: una scala per misurarle

Il gioco online (online gaming) è una pratica altamente diffusa e porta con sé diverse problematiche, al pari di una dipendenza. In questo filone di ricerca, Spada e Caselli hanno costruito e testato uno strumento volto a indagare le credenze metacognitive dei giocatori online.

 

Internet gaming disorder

Il gioco online è una pratica altamente diffusa, diventata sempre più popolare negli ultimi anni. Meno note invece sono le problematiche che il gioco online porta con sé: questa pratica può diventare una vera e propria dipendenza, caratterizzata da:

(1) un aumento del tempo dedicato all’attività, fino a tralasciare compiti della vita quotidiana;

(2) conseguenze negative sulle relazioni sociali e sulle prestazioni personali;

(3) sintomi d’astinenza (Cole & Griffiths, 2007; Ng & Wiemer-Hastings, 2005; Peters & Malesky, 2008).

Quando si presentano tali sintomi, si parla di Internet gaming disorder (POG, Demetrovics & Griffiths, 2012; Kuss & Griffiths, 2012), che viene spesso affiancato da disturbi dell’attenzione (ad esempio Chan & Rabinowitz, 2006), depressione o ansia sociale (Gentile et al., 2011; Peng & Liu, 2010). Per questo motivo il Internet gaming disorder può essere assimilato ad altre dipendenze comportamentali, come lo shopping compulsivo o la dipendenza da internet (Billieux et al., 2015), messa in atto allo scopo di gestire emozioni negative o pensieri spiacevoli.

In questo filone di ricerca, Spada e Caselli (2015) hanno costruito e testato uno strumento volto a indagare le credenze metacognitive dei giocatori online.

 

Cosa si intende per credenze metacognitive

Le credenze metacognitive (Wells, 1995) sono definite come le conoscenze dei soggetti sul proprio funzionamento mentale: ad esempio Carlo può credere che sia utile continuare a giocare perché questa attività riduce il suo livello di stress lavorativo. La convinzione di utilità del gioco online è quindi la credenza metacognitiva che porterà Carlo a continuare a giocare. Allo stesso modo, esistono anche credenze metacognitive negative, che purtroppo hanno spesso lo stesso effetto di mantenimento dell’abitudine dannosa: Carlo potrebbe infatti credere che giocare sia diventato incontrollabile e che non sia per lui possibile fare altro.

Le credenze metacognitive positive e negative si sono dimostrate un elemento fondamentale nei percorsi di intervento sui disturbi d’ansia e dell’umore (Wells, 2013), tanto da dar vita a numerose ricerche per evidenziare il loro ruolo in altri disturbi, come ad esempio la dipendenza da alcol (Spada, Caselli & Wells, 2009).

 

La scala delle crededenze metacognitive sul gioco online

La scala sulle credenze metacognitive rispetto al gioco online, Metacognitions about Online Gaming Scale (MOGS) nasce proprio in questo ambito, dall’ipotesi dei ricercatori che alti punteggi rilevati dalla scala fossero collegati al numero di ore trascorse dai soggetti nel gioco online e al livello di dipendenza da Internet. Per lo studio sono stati coinvolti 225 soggetti che praticavano il gioco online, ai quali è stato chiesto di compilare la MOGS e l’Internet Addiction Test per la dipendenza da internet.

Il nuovo strumento creato dai ricercatori consiste in un set di affermazioni che si dividono in:

  1. Controllo sui pensieri (‘giocare fermerà le mie preoccupazioni‘);
  2. Controllo sulle emozioni (‘giocare placa la mia ansia‘);
  3. Incontrollabilità del gioco (‘non posso controllare il gioco online‘);
  4. Pericoli derivanti il gioco (‘pensare al gioco online interferisce con altre attività‘)

L’analisi dei dati ha rivelato la presenza di correlazione tra la MOGS e le ore trascorse a giocare online, mentre non vi è correlazione con la dipendenza da internet, a dimostrazione della capacità di discriminazione tra i due comportamenti.

Lo studio presentato ha alcune limitazioni metodologiche: ad esempio non si hanno dati nel lungo periodo, non sono stati indagati disturbi d’ansia o depressione e il campione contava solo 12 donne. Inoltre rimangono da indagare altre variabili che potrebbero avere un ruolo nel determinare condotte di gioco patologiche, come l’autostima, la motivazione o l’autocontrollo.

I risultati tuttavia suggeriscono che le credenze metacognitive abbiano un ruolo anche in questa problematica e che i princìpi della terapia metacognitiva, ampiamente validata per ansia e depressione (Wells, 2013), possano trovare un’applicazione anche in quest’area.

 
Congresso Internazionale Terapia Metacognitiva Milano 2016

Cognitismo Clinico: uscito il nuovo numero. Editoriale e indice dei contenuti

È in uscita il primo numero 2016 della rivista Cognitivismo Clinico. Si tratta di un numero monografico dall’intrigante titolo:

ASPETTI NEUROFISIOLOGICI E PSICOBIOLOGICI IN PSICOPATOLOGIA SPERIMENTALE

Sono coinvolti diversi autorevoli autori che possono dare un contributo alla comprensione di aspetti psicopatologici rilevanti ed essere di utilità per allievi in formazione.

Riportiamo l’indice e l’interessante editoriale dei curatori del numero Simone Gazzellini e Francesco Mancini

Antonino Carcione

 

 

INDICE:

Simone Gazzellini e Francesco Mancini. EDITORIALE: Aspetti neurofisiologici e psicobiologici in psicopatologia sperimentale

Simone Gazzellini Marcatori comportamentali e psicofisiologici correlati al pensiero introspettivo, alla ruminazione e alla vulnerabilità psicopatologica

Cristina Ottaviani, Leila Shahabi, David Shapiro IL PENSIERO INTRUSIVO NELLA DEPRESSIONE MAGGIORE: CONSEGUENZE SULL’UMORE E SULLA SALUTE

Giordano D’Urso, Carla Iuliano, Teresa Sassi, Anna D’Alessandro, Andrea de Bartolomeis Le tecniche di neuromodulazione nel trattamento del Disturbo Ossessivo-Compulsivo

Barbara Basile Una rassegna sul substrato neuronale del senso di colpa, del disgusto e dell’intenzionalità nel Disturbo Ossessivo-Compulsivo

Federica Visco-Comandini e Valeria Carola Lo sviluppo di psicopatologie come risultato di traumi vissuti in età precoce: il disturbo depressivo

 

Editoriale a cura di Simone Gazzellini e Francesco Mancini

Una delle conseguenze del fondare la psicoterapia sulle prove evidence based è stato permettere l’unione della ricerca in neuroscienze e in psicopatologia. Ad oggi è difficile ignorare le conoscenze che i molti laboratori di ricerca di neuroscienze apportano ai modelli psicopatologici e di trattamento. Tuttavia bisogna definire i margini di applicazione delle neuroscienze alla psicopatologia e soprattutto alla psicoterapia.

Ad esempio, la conoscenza del cervello, finalizzata alla spiegazione della mente, dovrebbe essere guidata dalle conoscenze psicologiche. Se non si tiene conto di quanto la ricerca psicologica ci ha fatto capire delle relazioni fra emozioni e processi cognitivi, che senso potremmo dare alle scoperte sulla interazione fra amigdala, corteccia prefrontale e ippocampo? Certamente la conoscenza del cervello è utile per mettere alla prova ipotesi psicologiche. Ad esempio, si tende a dare per scontato che il senso di colpa sia una emozione unitaria, in realtà la ricerca sul cervello suggerisce la opportunità di distinguere almeno due sensi di colpa, e ci mostra anche che uno dei due è strettamente connesso al disgusto (vedi il lavoro di Basile nel presente numero). Ma senza una adeguata analisi psicologica del senso di colpa, che significato potremmo dare ai risultati delle neuroscienze?

Ciò considerato, è doveroso definire perché le neuroscienze possono apportare un valore aggiunto alla psicopatologia e alla psicoterapia. A nostro avviso l’obiettivo più allettante non è individuare le cause neurologiche dei disturbi psichiatrici, ma quello di arricchire i modelli psicopatologici attuali, arrivando a modelli complessi basati su disegni sperimentali e integranti livelli di osservazione: ad es. quello psicologico (pensieri, scopi, credenze, emozioni, stati mentali, tentativi di soluzione.

 

La rivista è scaricabile gratuitamente dai siti:

http://www.fioriti.it/riviste/cognitivismo.php

http://www.apc.it/cognitivismo-clinico/cognitivismo-clinico

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