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Schizofrenia: le credenze metacognitive nell’esordio e nel mantenimento dei sintomi psicotici

Nell’ambito della schizofrenia è interessante capire in che modo le variabili prettamente psicologiche come le credenze metacognitive, possano giocare un ruolo nell’evoluzione dei diversi percorsi che questa psicosi può assumere.

La metacognizione permette all’individuo che la possiede di mentalizzare, cioè vedere e capire se stesso e gli altri in termini di stati mentali (sentimenti, convinzioni, intenzioni e desideri), e pensare e compiere riflessioni sul proprio e altrui comportamento.

In tal senso che impatto avrebbero i processi e le credenze metacognitive sull’evoluzione della schizofrenia? Che relazione potrebbe delinearsi tra sintomi psicotici e fattori metacognitivi nelle diverse fasi di andamento del disturbo?

 

Variabili metacognitive come fattori di rischio per l’esordio psicotico

Secondo Wells (2007) le variabili metacognitive costituirebbero un fattore di rischio per l’esordio psicotico dal momento in cui nella mente dell’individuo si attivano una serie di processi e strategie cognitive che incrementano e accelerano i sintomi psicotici positivi della schizofrenia come ad esempio le allucinazioni.

In altre parole, il disturbo evolve piu’ rapidamente quando insorge la sindrome cognitivo-attenzionale e la persona sviluppa processi attenzionali e cognitivi disfunzionali riguardo i propri sintomi psicotici.

In generale, nell’ambito della psicopatologia il modello metacognitivo ipotizza che l’insorgenza e il mantenimento di un disturbo di ordine psicologico o psichiatrico sia correlata all’attivazione di uno stile di pensiero maladattivo che interferisce negativamente con la regolazione emotiva.  A seguito di questi processi rimuginativi e ruminativi e di altre strategie cognitive-comportamentali disfunzionali vi sarebbero dunque prolungati stati emotivi negativi e di distress.

 

Le credenze metacognitive nei pazienti schizofrenici

In  particolare riguardo la schizofrenia diversi studi hanno riscontrato nei pazienti schizofrenici una presenza maggiore di tutte le categorie delle credenze metacognitive disfunzionali rispetto ai soggetti di controllo non psichiatrici (Morrison and Baker2000; Morrison and Wells2003; Morrison et al. 2007). Tra questi alcuni studi hanno riscontrato un elevato livello delle credenze metacognitive positive riguardo il rimuginio, delle credenze negative riguardo l’incontrollabilita’ dei pensieri e delle credenze relative alla necessita’ di controllare i propri pensieri in soggetti predisposti a esperienze psicotiche (Morrison et al.2000, Garcia-Montes et al.2006).

Similmente, secondo lo studio di Morrison et al. (2007) anche le persone che sono a rischio di sviluppare una psicosi presentano in misura significativamente maggiore credenze metacognitive positive riguardo il rimuginio e credenze negative di incontrollabilita’ dei pensieri e scarsi livelli di fiducia nella propria mente e nelle sue funzioni. In secondo luogo, il livello  di presenza – maggiore o minore – delle credenze metacognitive sarebbe in grado di discriminare soggetti sani, persone a rischio di esordio psicotico e pazienti con diagnosi di psicosi (questi ultimi con livelli maggiori rispetto ai soggetti a rischio di esordio psicotico) – quasi secondo un continuum.

Altri studi riportano risultati contrastanti non riscontrando un’associazione tra maggiori livelli di credenze metacognitive e sintomi psicotici (Brett et al.2009), suggerendo che la correlazione chiave sia tra credenze metacognitive e sintomi ansioso-depressivi spesso presenti in comorbidita’ con le psicosi.

 

La relazione tra credenze metacognitive e andamento della schizofrenia

Uno degli studi piu recenti in letteratura (Austin et al., 2015) ha voluto indagare la relazione tra crendenze metacognitive e l’andamento del disturbo in una coorte di circa 500 pazienti con diagnosi di schizofrenia. L’andamento della schizofrenia puo’ collocarsi entro tre categorie principali: la remissione dei sintomi psicotici, l’alternanza tra periodi in cui vi sono sintomi psicotici  e periodi di remissione, e infine la presenza costante di sintomi psicotici.  Dai risultati è emerso che la presenza di credenze cognitive maladattive varia in funzione delle categorie di andamento del disturbo psicotico: un livello piu’ elevato di credenze metacognitive e’ associato a un’evoluzione piu grave e cronica della malattia e alla presenza continua dei sintomi psicotici.

Inoltre le credenze relative alla necessita’ di controllare i propri pensieri predicono in maniera statisticamente rilevante la presenza continuativa di sintomi psicotici senza periodi di remissione. In generale, le credenze metacognitive prese nel loro insieme sarebbero in grado di spiegare una significativa porzione della varianza dell’andamento del disturbo, anche tenendo sotto controllo altri fattori causali co-occorrenti.

Ulteriori ricerche saranno necessarie per poter dimostrare una relazione causale tra credenze metacognitive ed evoluzione delle psicosi, poichè al momento è anche possibile che l’aumento e la persistenza dei sintomi psicotici porti a maggiori livelli di credenze metacognitive maladattive, e non viceversa.

Al di la’ della verifica del modello teorico metacognitivo nell’eziopatogenesi della schizofrenia – che avrebbe ricadute importanti in ambito clinico –  alcuni studi preliminari indicano che i cambiamenti nelle credenze metacognitive maladattive sarebbero associati a una riduzione dell’ansia e del distress correlati ai sintomi allucinatori (Solem et al.2009; Hepworth et al.2011). Questa serie di studi permette di esplorare come componenti centrali della teoria metacognitiva possano avere ruolo oltre i disturbi d’ansia e la depressione ed estendersi anche a forme psicopatologiche più severe e invalidanti.

 

Congresso Internazionale Terapia Metacognitiva Milano 2016

Personalità narcisistica: chi si assomiglia si piglia

Siamo nell’epoca della personalità narcisistica, dell’autocelebrazione, dei selfie, dell’incensarsi e tessere le proprie lodi, dell’ognuno si salva da solo (e eventualmente a discapito degli altri). O almeno, questo è quello che pare leggendo le opinioni di critici e sociologi. 

 

La personalità narcisistica nella società

L’interesse per il narcisismo e la personalità narcisistica si sta diffondendo a macchia d’olio negli ultimi anni, sia da un punto di vista clinico che nel senso comune, per strada, al bar. Siamo passati da un momento storico in cui non tutti conoscevano il significato di questa parola e delle sue diverse accezioni, a un contesto sociale e culturale in cui si parla di società narcisistica, di relazioni narcisistiche, e in piccola parte anche di disturbo. Siamo nell’epoca dell’autocelebrazione, dei selfie, dell’incensarsi e tessere le proprie lodi, dell’ognuno si salva da solo (e eventualmente a discapito degli altri). O almeno, questo è quello che pare leggendo le opinioni di critici e sociologi. Poi c’è da capire se non sia sempre stato così, solo con meno attenzione mediatica alla cosa, ma questo è un altro discorso.

 

Qual è il prototipo del narcisista?

Allora, facilmente pensando al prototipo del narcisista a molti di noi vengono in mente persone poco piacevoli. Gli individui con personalità narcisistica sono individui auto-centrati e auto-riferiti, egocentrici, che non prendono in considerazione l’altro nei suoi bisogni o nelle sue opinioni, che scalano quello che devono scalare pestando i piedi necessari. Non mettere in discussione le proprie opinioni, andare avanti e mirare sempre in alto.

C’è chi dice che la società attualmente rinforzi questo atteggiamento, promuovendo una dinamica di estremo appetito e abbuffate di potere, c’è chi dice che invece la società per come la troviamo oggi sia stata riempita da persone di questo tipo e da dinamiche coerenti con loro stessi, che sia in qualche modo l’esito e non la causa. La vecchia diatriba dell’uovo e della gallina.

Sta di fatto che questo è. Sta di fatto che probabilmente tante persone che hanno avuto a che fare con il prototipo descritto (anche se è sempre una questione di sfumature, e difficilmente la realtà è rappresentata da prototipi), si sono fatti la fatidica domanda ‘Ma questo, ha degli amici?’, anche declinata come ‘Ma questo, chi se lo sceglie come marito?’. (Viene facile parlare al maschile per ragioni prototipiche, appunto, non me ne vogliate).

 

Personalità narcisistica e affinità relazionali: cosa dice una nuova ricerca

Ebbene, questa è, più o meno, la domanda a cui ha cercato di rispondere un gruppo di ricercatori tedeschi, con un articolo che uscirà su Personality & Social Psychology Bulletin il prossimo marzo.

Nello studio di Maaß, Lämmle, Bensch e Ziegler, i ricercatori hanno approfondito quanto due amici simili in termini di caratteristiche narcisistiche fossero simili anche in altri aspetti della personalità. Per fare questo, 290 coppie di migliori amici hanno compilato un questionario sul narcisismo e un questionario più complessivo sulla personalità: le analisi dei dati hanno valutato quanto l’essere simili in termini di personalità narcisistica potesse predire somiglianze anche in altri aspetti.

In sostanza, gli studiosi si sono chiesti se condividere tematiche tipiche della personalità narcisistica potesse essere un fattore di legame e similarità anche in altri aspetti della diade di amici. I risultati hanno detto sì, e anche parecchio. In particolare, l’indice di somiglianza tra due amici nella sfera narcisistica si è dimostrato in grado di predirne la somiglianza anche in tutte le altre caratteristiche personologiche indagate (neuroticismo, estroversione, amabilità, coscienziosità e apertura all’esperienza).

La cosa interessante è che precedenti ricerche che hanno esplorato la somiglianza caratteriale tra i migliori amici hanno indicato invece che tendenzialmente le persone scelgono amici molto diversi da sé, per cui troviamo più frequentemente introversi con estroversi, pessimisti con ottimisti, e così via (Furr & Wood, 2013).

La cosa ancora più interessante è che questo dato è stato confermato dallo studio tedesco: lasciando stare la misura del narcisismo, ma analizzando semplicemente le dimensioni di personalità raccolte, anche in questa ricerca le coppie di migliori amici si sono mostrate differenti tra loro, in tutti i 5 aspetti indagati, tanto quanto erano differenti tra loro persone sconosciute.

Ma cosa succede se nelle analisi consideriamo anche la personalità narcisistica? Succede che le caratteristiche di personalità di un soggetto con alti livelli di narcisismo, controcorrente rispetto al resto del campione, sono molto simili a quelle del suo migliore amico. Inoltre, questa somiglianza è ancora più forte (il doppio) se anche l’altro componente della diade ha punteggi alti in narcisismo. In sostanza, nel caso di un narcisista appaiato a un altro narcisista, le personalità della diade sono risultate sostanzialmente sovrapponibili: più il narcisismo della coppia di amici è alto, più gli amici sono simili.

 

Conclusioni

Cosa ci dicono questi dati? Le interpretazioni possono essere diverse (e devono sempre essere caute). In parte, ci dicono che chi possiede una personalità narcisistica sceglie se stesso come migliore amico, o quantomeno una versione molto poco modificata di sé.

Potrebbero anche dirci che i narcisisti non stanno bene in rapporti con persone troppo diverse da loro, e in questo caso rimane da capire perché. Una possibilità (quella che viene in mente a tutti più facilmente) è che vogliano passare il proprio tempo con persone altrettanto speciali, oppure che persone meno speciali li annoino, oppure ancora che non abbiano voglia di impiegare risorse con qualcuno che ha reazioni e emozioni così diverse dalle proprie. Un’altra ipotesi suggerita dagli autori va un po’ per esclusione, suggerendo che solo una personalità narcisistica possa sostenere il peso di amici narcisisti. Una sorta di selezione naturale, insomma.

Un’ipotesi a mio avviso più interessante, e forse anche più utile da un punto di vista di intervento e terapia, è più benevola. E se fosse che persone con alti livelli di narcisismo semplicemente non fossero tanto abili a avere a che fare con chi funziona secondo regole diverse dalle proprie, semplicemente perché le proprie sono le uniche regole che conoscono? E se qualcuno che funziona così diversamente mettesse in crisi le loro regole e li facesse sentire persi?

Allora, ecco, questa interazione con persone diverse da sé potrebbe essere qualcosa da apprendere e su cui allenarsi, invece di limitare la persona a selezionare solo chi sta in cima alla piramide.

Le distorsioni cognitive nei processi di valutazione: conoscerle per esserne consapevoli

Nessuno di noi è immune dalle distorsioni cognitive, tuttavia, essere consapevoli della loro esistenza può aiutare; una generica componente delle distorsioni cognitive è presente infatti in qualsiasi giudizio, in quanto esso è legato ad un fattore percettivo e dunque ad una visione della realtà filtrata soggettivamente da chi valuta.

 

Le distorsioni cognitive: introduzione

All’interno di un’organizzazione, il processo di valutazione delle prestazioni ha un significato gestionale ben preciso, ovvero serve per analizzare il contributo fornito da ciascuna risorsa al raggiungimento degli obiettivi aziendali. E’ anche uno dei doveri più delicati di ogni manager che, in quanto essere umano, utilizza le proprie abilità cognitive per stabilire quale sia la valutazione più idonea da attribuire alla prestazione di un collaboratore. Per quanto cerchi di essere il più obiettivo possibile, chi valuta è un essere umano che, inevitabilmente, risente delle influenze dei precedenti modelli esperienziali, del contesto culturale in cui opera, delle proprie credenze e convinzioni, quindi può commettere degli errori di giudizio che danno origine a quelli che in psicologia vengono definiti biases della valutazione.

Poiché alla base della valutazione c’è un processo cognitivo di osservazione ed interpretazione della realtà, possono esserci delle distorsioni cognitive (biases valutativi), indotte da un pregiudizio del soggetto che valuta.
Così come avviene per la nostra percezione visiva, anche la nostra ragione può essere ingannata. Nessuno di noi è immune dalle distorsioni cognitive, tuttavia, essere consapevoli della loro esistenza può aiutare; una generica componente delle distorsioni cognitive è presente infatti in qualsiasi giudizio, in quanto esso è legato ad un fattore percettivo e dunque ad una visione della realtà filtrata soggettivamente da chi valuta.
Chi valuta è, come tutti, soggetto a pregiudizi, ossia atteggiamenti favorevoli o sfavorevoli verso l’oggetto del giudizio; conoscere le principali tipologie di biases cognitivi, però, può aiutare a limitare i danni di una valutazione inappropriata.

 

Le distorsioni cognitive: quali sono?

Consideriamo innanzitutto il cosiddetto bias di conferma: a ciascuno di noi piace essere d’accordo con le persone che sono d’accordo con noi e ciascuno di noi tende ad evitare individui o gruppi che ci fanno sentire a disagio: questo è ciò che lo psicologo B.F. Skinner (1953) ha definito “dissonanza cognitiva”. Si tratta di una modalità di comportamento preferenziale che porta al bias di conferma, ovvero l’atto di riferimento alle sole prospettive che alimentano i nostri punti di vista preesistenti. Molto simile al bias di conferma è il bias di gruppo, che ci induce a sopravvalutare le capacità ed il valore del nostro gruppo, a considerare i successi del nostro gruppo come risultato delle qualità dello stesso, mentre si tende ad attribuire i successi di un gruppo estraneo a fattori esterni non insiti nelle qualità delle persone che lo compongono. Le valutazioni affette da queste tipologie di distorsioni cognitive possono risultare poco chiare a chi viene valutato, che spesso non comprende le basi sulle quali la valutazione si fonda e che invece nota, d’altra parte, un’eccessiva intransigenza di pensiero.

Un altro bias frequente è la cosiddetta fallacia di Gabler, ovvero la tendenza a dare rilevanza a ciò che è accaduto in passato e che i risultati di oggi siano del tutto influenzati da tali eventi. Quindi, i collaboratori valutati sempre positivamente nel corso della loro carriera tenderanno ad essere valutati ancora positivamente anche se a volte le loro prestazioni non risulteranno così positive.

L’errore per somiglianza, invece, è un bias legato alla tendenza di un manager con forte autostima a sopravvalutare i collaboratori che hanno delle caratteristiche analoghe alle sue, mentre l’errore per contrasto è un bias di un manager con bassa autostima che tende a premiare i collaboratori che presentano delle caratteristiche in lui carenti o assenti.
Altamente nocivo risulta essere anche il cosiddetto bias della negatività, ovvero un’eccessiva attenzione rivolta verso elementi negativi, che vengono considerati come i più importanti. A causa di questa distorsione, si tende a dare maggior peso agli errori, sottovalutando i successi e le competenze acquisite ed attribuendo così una valutazione negativa alla prestazione.

Infine, il bias dello status quo è una distorsione valutativa dovuta alla resistenza al cambiamento. Il cambiamento spaventa, si ama la propria routine e si tenta, quindi, di mantenere le cose così come stanno. La parte più dannosa di questo pregiudizio è l’ingiustificata supposizione che una scelta diversa potrà far peggiorare le cose.

Una riflessione sulle diverse tipologie di distorsioni cognitive può certamente contribuire a ridurne alcuni effetti e spingere chi valuta ad agire come gli scrittori naturalisti, che assegnavano all’opera narrativa il compito di attenersi ad una descrizione impersonale ed oggettiva della materia rappresentata. L’opera narrativa era per i naturalisti un laboratorio per l’osservazione fredda e distaccata della realtà, di cui lo scrittore, al pari di uno scienziato, doveva registrare impassibilmente i fenomeni. Applicando cioè all’arte i metodi ed i risultati della scienza, gli scrittori naturalisti si prefiggevano di riprodurre la realtà con perfetta obiettività. Il metodo scientifico galileiano venne assorbito a tal punto dalla letteratura naturalista che gli autori, ancor prima di scrivere i loro romanzi, si dedicavano all’osservazione ravvicinata del fenomeno da descrivere in modo da essere i più oggettivi possibile; analogamente, in azienda, chi ricopre ruoli di responsabilità ed è chiamato a valutare i propri collaboratori dovrebbe innanzitutto osservare i fatti e poi valutarli con il giusto distacco ed oggettività.

Bisogni Educativi Speciali – BES: best practice per una Buona Scuola dei bambini e dei ragazzi

La Circolare ministeriale sugli alunni con BES – Bisogni Educativi Speciali – riprende i principi alla base delle riflessioni e dei risultati di ricerca in psicologia e pedagogia: ogni bambino apprende in modo diverso in funzione delle capacità e delle storie personali di vita.

 

Circolare Ministeriale per chiarire il concetto di Bisogni Educativi Speciali

La Circolare Ministeriale 8/2013 è stata emanata con l’obiettivo di chiarire il concetto di Bisogni educativi speciali, presentati nella Direttiva ministeriale del 27 dicembre 2012 ‘Strumenti di intervento per alunni con BES e organizzazione territoriale per l’inclusione scolastica’.

Un concetto che ogni educatore, insegnante, nonno, genitore conosce: i bambini sono tutti diversi, sono portatori di storie individuali, di fatiche esistenziali, di difficoltà emotive, sociali, cognitive e culturali che possono rendere complesso l’apprendimento, influenzarlo in positivo o in negativo. Ogni bambino ha bisogno dei suoi tempi, dei suoi spazi e dei suoi modi per apprendere che non è altro che dire che ha bisogno di strumenti compensativi o dispensativi, ovvero di essere aiutato da adulti capaci di comprendere quello che sta vivendo.

La Circolare ministeriale sugli alunni con Bisogni Educativi Speciali riprende quindi i principi alla base delle riflessioni, degli studi e dei risultati di ricerca in psicologia e pedagogia: ogni bambino apprende in modo diverso in funzione delle capacità e delle storie di vita personali.

 

I Bisogni Educativi Speciali prima della Circolare ministeriale

Il rispetto dei bisogni di diversità e il diritto al benessere psicologico in uno dei contesti di vita primari del bambino è il presupposto dei progetti di inclusione che hanno l’obiettivo di accogliere il disagio sociale, culturale, psicologico (emotivo-cognitivo) per offrire spazi di crescita e di sviluppo. Prima della circolare ministeriale relativa ai Bisogni Educativi Speciali, i bambini e i ragazzi che presentavano difficoltà erano lasciati a sé stessi.

L’impossibilità di raggiungere i risultati definiti dai programmi trasformano le storie di vita dei ragazzi in storie di sofferenza e di abbandono scolastico. La scuola non era per tutti perché impostata soltanto per i ragazzi che avevano le capacità cognitive ed emotive per raggiungere i risultati definiti dai programmi o le famiglie in grado di sostenerli in questo percorso.

Con la Circolare Ministeriale 8/2013 si è cercato di rimediare a questo problema riconoscendo le difficoltà di un bambino nel suo percorso formativo. A due anni dall’emanazione della Circolare 8/2013 relativa ai Bisogni Educativi Speciali  è possibile fare un bilancio culturale di come la scuola ha affrontato l’obiettivo dell’inclusione scolastica proprio attraverso la lettura dal basso, la valutazione delle famiglie, dei bambini che arrivano agli sportelli di ascolto degli psicologi e pedagogisti individuando le criticità che si sono presentate nel processo di gestione educativa, relazionale e didattica per poi valutare invece le best practice in caso di Bisogni Educativi Speciali.

 

Le criticità del concetto di Bisogni Educativi Speciali

Il primo aspetto che si è evidenziato come criticità è la tendenza all’etichettamento a cui i bambini e le loro famiglie sono stati sottoposti. Il Bisogno Educativo Speciale è diventato nel linguaggio comune un aggettivo che qualifica erroneamente il nome ‘bambino’. Un errore semantico grave che ha portato a un linguaggio politically incorrect come ‘lui è un bambino BES o ‘tutti i BES vengono con me’ o ‘questa è una prova solo per i BES‘ o ‘hanno tolto il BES a mio figlio‘.

Bambini etichettati, insieme ai DSA o altre etichette che assumono il valore di un marchio di uno stigma per un bambino che percepisce soltanto di non essere come gli altri. E’ fondamentale ricordarsi che i Bisogni Educativi Speciali esprimono, invece, un bisogno di cui il bambino è portatore e come tale richiede un’osservazione ed un percorso di progettazione didattica educativa centrata sulla personalizzazione degli apprendimenti.

Il secondo aspetto è la facilità con cui è stata fatto rientrare qualsiasi caratteristica di bambino nella definizione di Bisogni Educativi Speciali : il bambino timido, vivace, aggressivo in un attimo è diventato un bambino che ha un problema emotivo, sociale, cognitivo. Nello stesso tempo si è assistito alla tendenza di diagnosticare qualsiasi comportamento con un linguaggio tecnico preso in prestito dalla psicologia che fuori da un contesto professionale accurato diventa uno strumento di labeling.

E’ importante invece ricordarsi che i Bisogni Educativi Speciali rappresentano dei semplici bisogni di cura, di attenzione, di rispetto dei tempi del bambino che non hanno nulla a che fare con un processo diagnostico.

Il terzo aspetto è collegato al precedente e rappresenta un paradosso dello stesso: la richiesta la certificazione di un BES, confondendo il bisogno educativo di un bambino che è sempre transitorio, con un quadro psicopatologico che definisce un tratto della persona. Alla luce di queste criticità è possibile ribadire che la Buona Scuola dei bambini e dei ragazzi non ha bisogno di altri strumenti di classificazione, di differenziazione, ma di inclusione attraverso modalità di fare scuola orientata alla personalizzazione dell’apprendimento, che valorizza le risorse del gruppo classe e del percorso personale di ciascuno.

 

Bisogni Educativi Speciali e best practice

Ed ecco allora che la Buona Scuola dei bambini e dei ragazzi diventa una scuola che lavora per l’inclusione, l’integrazione, il diritto alla diversità di apprendimento, la valorizzazione della storia e delle origini di ogni bambino.

La personalizzazione degli apprendimenti diventa, quindi, un obiettivo trasversale della scuola che si avvale di metodologie di insegnamento e di gestione della classe basate sulle risorse e potenzialità di ogni bambino che sono meglio espresse all’interno del gruppo classe anziché del rapporto individuale insegnante allievo.

In questa prospettiva la scelta della apprendimento cooperativo diventa una best practice in grado di lavorare sul fronte dello sviluppo delle competenze cognitive e parallelamente su quelle emotive, sociali e culturali.

L’apprendimento cooperativo diventa quindi un’opportunità concreta per gestire i bisogni educativi di ogni bambino e di iniziare un percorso verso una scuola delle competenze che pone la conoscenza a servizio del saper essere e del saper fare.

Disturbo di Dismorfismo Corporeo: Assessment, Diagnosi e Trattamento (2015) – Recensione

Dismorfofobia o Disturbo di dismorfismo corporeo: mettiamo che ogni mattina, prima di uscire di casa, dovessimo fare i conti con uno specchio che riflette un’immagine di noi inaccettabile. Puntualmente ogni giorno, da anni, in ogni riflesso, in ogni sguardo altrui, il nostro pensiero va subito a quel difetto.

 

Il disturbo di dismorfismo corporeo

Quel difetto che fa di noi un mostro ripugnante, e non riusciamo a staccare la spina perché la nostra attenzione va sempre li. Eppure non è sempre stato così…. Quando questo incubo è iniziato?

Antonio Scarinci e Roberto Lorenzini nel manuale ‘Disturbo Di Dismorfismo Corporeo – Assessment, Diagnosi e Trattamento‘ spiegano come l’esordio del disturbo di dismorfismo corporeo (Body Dysmorphic Disordere, BDD) avvenga per lo più durante l’adolescenza, periodo per eccellenza di grandi cambiamenti, in cui ciò che sono e ciò che vorrei essere diventano due entità spesso in conflitto dove il corpo gioca un ruolo chiave.

È attraverso il corpo che ricerchiamo l’accettazione dei pari cercando di aderire ai canoni di bellezza dettati dalla cultura di appartenenza e che spesso sono lontani dalla realtà. E allora inizia il controllo, il desiderio di accettazione si fa sempre più forte, e in maniera direttamente proporzionale aumenta l’attenzione verso quel difetto che ci impedisce di soddisfare il nostro desiderio.

Scarinci e Lorenzini nel secondo capitolo in cui parlano dello stile cognitivo mettono bene in evidenza come: ‘I soggetti con disturbo di dismorfismo corporeo perdono la visione d’insieme della propria immagine‘ mostrando ‘un’attenzione selettiva al dettaglio e al particolare e una difficoltà di sintesi‘. A questi si associano una forte tendenza all’autovalutazione negativa, perfezionismo, tendenza e illusione di controllo, evitamento, pensiero catastrofico, rimuginio, attenzione selettiva e polarizzazione degli scopi.

 

Gli stati emotivi dolorosi legati al disturbo di dismorfismo corporeo

Come sottolineano gli autori a questo quadro si aggiungono stati emotivi intensi e molto dolorosi; la vergogna cui spesso si associa la colpa perché non si è stati capaci di affrontare la situazione in maniera adeguata, e qui nasce il connubio: difetto del corpo-difetto dello spirito, una profonda tristezza che ci segnala la perdita di un’immagine corporea bella ma anche la tristezza che emerge quando si affaccia la consapevolezza del disturbo.

E per ultima, ma non per importanza, gli autori citano l’invidia come emozione più devastante, motore di un circolo vizioso interpersonale in cui l’ostilità fa si che gli altri si allontanino e più questi si allontanano più l’ostilità cresce.

E allora si cerca di fare qualcosa: il controllare, l’evitare e il mettere in atto comportamenti volti alla promozione di una bella immagine di se possono essere visti come un piano per stare lontani da quel luogo mentale intollerabile appreso dalla nostra storia di vita, come suggeriscono Sassaroli e Ruggiero (2013). Tutto ciò incide molto sulla qualità di vita, in alcuni casi le condotte di evitamento possono essere forti e il dolore talmente intenso da portare ideazione sucidaria e tentativi estremi di neutralizzazione di sé e del dolore. Per questo motivo il disturbo di dismorfismo corporeo risulta un disturbo complesso in cui una rapida diagnosi e una buona concettualizzazione del caso risultano essere fondamentali per il trattamento.

 

La psicoterapia per il disturbo di dismorfismo corporeo

Nella seconda parte del libro oltre alla spiegazione di alcuni questionari self report, utili alla concettualizzazione del caso viene posta l’attenzione sugli step da seguirsi nel percorso psicoterapico con un paziente affetto da disturbo di dismorfismo corporeo. Il primo passo è quello di creare un’alleanza terapeutica, fondamentale in tutti i tipi di interventi ed in particolar modo con il paziente dismorfofobico, alta è la sofferenza legata al proprio difetto corporeo e altrettanto alta è anche la sofferenza legata al fatto che le persone e a loro vicine non capiscono e non comprendono quello che stanno vivendo.

Ricostruire insieme la storia di vita, capire l’origine e le cause del disagio trovando gli eventi più significativi è fondamentale perché, come sottolineato nel manuale, sono proprio quelle situazioni che nella maggior parte dei casi ‘hanno influenzato la costruzione di un’immagine negativa di sé rispetto all’amabilità personale e al valore, e che hanno inciso profondamente sull’autostima‘. Capire il mondo da cui veniamo ci serve per comprendere che spesso, per guardare il presente, usiamo delle lenti che in primis riflettono i nostri antichi vissuti e la paura a questi legati.

Solo dopo aver costruito con il paziente la storia di quel mondo, e dopo aver messo in evidenza che fra lui e ciò che vede oggi ci sono queste lenti, si può passare ad analizzare insieme gli eventi di oggi, le emozioni che proviamo e i pensieri che emergono e che spesso non ci aiutano. Come suggerito nel manuale lo scopo però non è quello di modificare le credenze disfunzionali, bensì imparare a vedere i pensieri come un qualcosa di passeggero e osservabile dall’esterno per modificare invece le strategie di controllo, di monitoraggio e di evitamento messe in atto, e che rappresentano il circolo vizioso che accresce la sofferenza.

Più cresce la sofferenza più il vissuto emotivo si fa intenso e, come spesso accade a chi soffre di disturbo di dismorfismo corporeo, si può arrivare a vivere stati di depersonalizzazione dove quel corpo che vediamo non rappresenta più noi stessi. Come riportato nel libro a questo punto è importante imparare insieme al paziente a riconoscere le proprie emozioni, distinguerle e tramite specifiche tecniche distaccarsi da queste per vedere come esse siano transitorie.

 

Accettare le imperfezioni nel disturbo di dismorfismo corporeo

Detto questo rimane il fatto che nel disturbo di dismorfismo corporeo l’imperfezione è ciò che non viene accettato, ma spesso ‘accettare ciò che accade nella vita è una strategia efficace per ridurre la sofferenza‘, possiamo così trovare nel manuale utili strategie che si rifanno all’ ACT (Accepatance and Commitent Therapy) per aiutare il paziente ad accettare il difetto del corpo, che in quanto umano non potrà mai essere perfetto e con il passare del tempo andrà incontro ad una sua evoluzione, e dedicare energie al raggiungimento di scopi più probabili e in quanto tali altrettanto soddisfacenti.

Ma oltre all’accettazione del difetto altrettanto importante è aiutare chi soffre di disturbo di dismorfismo corporeo ad aumentare la propria autostima, rassicurazioni e complimenti esterni servono tanto quanto il due di picche nel gioco della briscola in quanto loro stessi sono il giudice più severo che possono incontrare. Vengono pertanto riportate nel manuale tecniche che favoriscono l’accettazione compassionevole di sé e dei propri limiti e che si rifanno alla Compassion Focused Therapy con lo scopo di vivere il proprio giudice interno non più come qualcuno da temere ma qualcuno da accogliere.

In ultimo vengono suggerite tecniche di esposizione prima immaginativa e poi graduale per far sperimentare alla persona quanto in realtà lei/lui sia più forte delle sue paure. E per concludere viene spiegato come lavorare insieme sull’analizzare i costi e i benefici delle strategie fino ad ora adottate, per poi costruire un piano di vita che sia più funzionale e soddisfacente, in cui ciò che possediamo illumina e mette in evidenza l’inconsistenza di ciò che riteniamo doloroso e inaffrontabile.

Il manuale si conclude con un piccolo paragrafo dedicato a chi è parente di un soggetto affetto da disturbo di dismorfismo corporeo, cui segue una rassegna di casi clinici importanti per entrare e comprendere più a fondo un disturbo complesso e che porta a vivere così alti livelli di sofferenza.

Il disvelamento nella relazione terapeutica: come effettuarlo per renderlo efficace

Tutti gli interventi che il terapeuta, insieme con il paziente, effettua al fine di analizzare e consolidare la relazione terapeutica sono utilissimi. Tra le molte operazioni che si possono fare a questo scopo, un ruolo centrale trovano le tecniche di disvelamento o self-disclosure, basate sulla rivelazione di aspetti di sé del terapeuta.

 

Il disvelamento nella terapia metacognitiva interpersonale

Nella Terapia Metacognitiva Interpersonale (TMI) l’alleanza terapeutica ricopre un ruolo centrale non solo perché permette al paziente e al terapeuta di cooperare al fine di comprendere la sofferenza del paziente. Essa altresì rappresenta uno strumento terapeutico in sé, nella misura in cui gli schemi del paziente si manifestano, incontrando il mondo interno del terapeuta, nel setting terapeutico. La possibilità di avviare una riflessione sul ciclo interpersonale che si avvia in seduta e sugli schemi del paziente, attivi nel qui ed ora, permette di incrementare in maniera molto efficace le sue capacità metacognitive.

In questo senso quindi, tutti gli interventi che il terapeuta, insieme con il paziente, effettua al fine di analizzare e consolidare la relazione terapeutica sono utilissimi. Tra le molte operazioni che si possono fare a questo scopo, un ruolo centrale trovano le tecniche di disvelamento o self-disclosure, basate sulla rivelazione di aspetti di sé del terapeuta. Innanzitutto [blockquote style=”1″]il disvelamento consiste in dichiarazioni esplicite, da parte del terapeuta, su ciò che sta provando e pensando in un certo momento[/blockquote] (Dimaggio, Semerari, 2003). Il disvelamento rappresenta inoltre un aspetto centrale nelle metacomunicazioni che Safran e Muran (2000) propongono come strumento principale per la ricomposizione dell’alleanza terapeutica a seguito di una frattura.

In TMI (Dimaggio, Montano, Popolo e Salvatore 2013), il disvelamento oltre che come tecnica per ristabilire una buona alleanza, si caratterizza anche come strategia che permette un’esplorazione del mondo interno del paziente quindi finalizzata alla ricostruzione del suo schema.

In pratica, possiamo sintetizzare le sue funzioni in tre macro tipologie:
1) Disvelamento di emozioni e pensieri del terapeuta analoghi a quelli presenti nel racconto del paziente (similmente ad una operazione validazione e di rispecchiamento empatico) al fine di rafforzare l’alleanza terapeutica.
2) Disvelamento di esperienze del terapeuta affini per similitudine a quelle narrate in seduta dal paziente al fine di risolvere uno stato di frattura dell’alleanza terapeutica con lo scopo di creare, anche qui, un rispecchiamento.
3) Disvelamento di reazioni “controtrasferali” all’interno di un ciclo interpersonale disfunzionale in terapia al fine di incrementare la comprensione dello schema del paziente e dei cicli che da esso si possono attivare (quindi un utile strumento per l’incremento della sua metacognizione) e ristabilire l’alleanza terapeutica.

 

Esempi clinici di disvelamento

Riporto, a titolo esemplificativo, alcuni esempi clinici relativi alle tre tipologie evidenziate, tratti da mie terapie.

1. Carlo ha 46 anni e soffre di disturbo da attacchi di panico e ipocondria. In uno stato avanzato della terapia si lavorava sugli evitamenti degli esami clinici, che a causa di una patologia cronica pregressa, il paziente avrebbe dovuto effettuare. Era stato ricostruito uno dei suoi schemi interpersonali, che era: quando mi sento vulnerabile desidererei essere supportato, ma l’altro non mi offre supporto, non mi capisce e mi invalida. La risposta del sé era di sentirsi solo e ancora più vulnerabile. Privo di supporto, Carlo tendeva a chiudersi e a evitare le situazioni (ad esempio gli esami clinici) in cui si sentiva più vulnerabile.
Durante una seduta Carlo stava descrivendo i suoi stati d’ansia connessi all’effettuazione degli esami e di quanto temesse un risultato negativo. Per evitare questa ansia, Carlo era consapevole di preferire non sapere. La terapeuta, nell’intento di validare il timore di Carlo di fare gli esami e di avere la possibile brutta risposta, racconta che proprio in quel periodo doveva effettuare dei controlli e che per la stessa ragione, in cuor suo sperava di non farli per evitare l’ansia dell’attesa dei risultati. Carlo a quel punto si stupisce della dichiarazione della terapeuta: “Non pensavo che anche lei avesse questi pensieri … ed inoltre questo mi aiuta a percepire lei come una persona reale, con delle vulnerabilità e mi fa sentire capito e meno sbagliato”.
Carlo inoltre, in sedute successive, ha riferito che quella volta non solo si è sentito accolto, ma a differenza di altre terapie già fatte, questo lo aveva aiutato a percepire la terapeuta come più autentica, con vulnerabilità del tutto umane che non intaccavano tuttavia l’idea che fosse per lui un punto di riferimento. Questo gli ha permesso di non idealizzare la terapeuta e assumere un atteggiamento più benevolo verso i propri limiti. Questo episodio è stato l’inizio del cambiamento dello schema: adesso a fronte della manifestazione della vulnerabilità, la risposta dell’altro inizia a diventare: comprende e accetta.
2. Claudia, 33 anni, presenta tratti narcisistici, con un disturbo d’ansia generalizzato. In una fase iniziale della terapia, il lavoro terapeutico sembra in uno stato di impasse. La terapeuta si era accorta di sentirsi implicata in una sorta di lotta su chi avesse ragione sulle varie tematiche affrontate. La paziente spesso contraddiceva la terapeuta e quest’ultima si accorgeva di sentirsi svalutata. Lo schema di questa paziente si caratterizzava per il bisogno di sentirsi apprezzata e supportata nella sua autonomia, rappresentandosi l’altro come svalutante, disinteressato. La paziente a quel punto entrava in uno stato mentale di solitudine e tendeva a chiudersi in se stessa e a provare una fredda rabbia verso il mondo intero.
La terapeuta, nell’osservare il ciclo attivo in seduta ha tentato di interromperlo attraverso il disvelamento. Durante una seduta Claudia racconta di avere deciso di avviare un hobby pericoloso ma per lei piacevole: il parapendio. Nel comunicare la notizia ai familiari si era accorta della freddezza con cui era stato accolto questo suo nuovo interesse: un ennesimo caso di ostacolo all’autonomia. Claudia descriveva la famiglia d’origine come “non in grado di capire, non supportiva, sempre distante e con cui non si può avere condivisione”. La terapeuta, nel tentativo di uscire dal ciclo competitivo, oltre ad aver approvato con autentico apprezzamento quel tipo di sport ha ritrovato nella sua storia personale lo stesso vissuto familiare. Racconta alla paziente un episodio specifico e dettagliato. Claudia si è illuminata: si è sentita capita. La distanza nella relazione terapeutica si è accorciata, la competizione ridotta. Claudia riesce a esprimere emozioni di tristezza, solitudine e la sensazione di sentirsi di poco valore.
Il disvelamento così come raccontato, assume la valenza di un intervento finalizzato al superamento dei test, come afferma Weiss (1999), che i pazienti fanno al terapeuta per verificare che la relazione terapeutica confuti in maniera significativa le aspettative negative che il paziente ha dell’altro, come vediamo nello schema attivo in seduta. Il superamento del test e quindi la prosecuzione della buona alleanza terapeutica, sono uno dei fattori fondamentali per raggiungere il successo terapeutico. Nel caso di Claudia ad esempio l’aspettativa negativa dell’altro era che fosse svalutante, disinteressato, non comprensivo. La terapeuta mostrandosi empatica, supportiva e simile per esperienza ha disconfermato questa rappresentazione dell’altro e superato il test.

3. Simone, 40 anni ha un disturbo ossessivo-compulsivo di personalità e tratti narcisistici. All’inizio della terapia era scettico e sembrava testare la capacità della terapeuta contraddicendola spessissimo. La terapeuta si sentiva costantemente sotto esame fino al punto di trovare spiacevole l’incontro con Simone e sperare che abbandonasse la terapia. Allo stesso tempo la terapeuta si è resa conto che si affannava, peraltro invano, di essere apprezzata da Simone. A quel punto sembrò necessario metacomunicare al paziente, ovvero svelargli, che non sentiva essersi creata un’alleanza valida: “Ho la sensazione di non riuscire a fare o dire la cosa giusta, ovviamente vorrei capire se questa sensazione sia da lei in qualche modo condivisa oppure se non è così… E’ come se ci fosse una distanza che non si riesce ad accorciare. Lei che ne pensa?”. Simone, dopo essersi irrigidito, ha risposto: “Cerco sempre di valutare attentamente le cose prima di adottarle, acquistarle… ma non ce l’ho con lei. Spesso le persone mi accusano di essere uno stronzo. Io cerco solo di fare le cose bene, di valutare attentamente quello in cui mi imbatto, per non sbagliare”.
A questo punto la terapeuta ha compreso di avere trovato una breccia e il focus del trattamento è diventato l’esplorazione delle conseguenze temute: perché Simone era così concentrato sul tentare di non sbagliare? Il clima in cui si è svolta questa parte della terapia è cambiato, Simone era concentrato sul capire i motivi della propria tendenza ad evitare gli errori e meno a testare la capacità della terapeuta. L’impasse relazionale a questo punto ha assunto la valenza di un qualunque episodio narrativo, ovvero il luogo principale attraverso cui la TMI opera per ricostruire gli schemi interpersonali maladattivi del paziente. È emerso rapidamente che Simone adottava il controllo come forma di coping perfezionistico per evitare lo stato mentale di fallimento e con un’idea di sé privo di valore.

Si deve tuttavia notare che il disvelamento è un’operazione che presenta dei rischi: non sempre interventi di disvelamento portano gli effetti voluti. In alcuni casi l’intervento del terapeuta può apparire intrusivo e ancora peggio inserirsi a rafforzare un ciclo interpersonale disfunzionale del paziente non intercettato dal terapeuta, come nell’esempio che segue.

Federico, aveva un disturbo evitante di personalità. In quel momento parlavamo dei suoi evitamenti legati alle relazioni sociali e la terapeuta ha pensato che per ridurre il suo timore del giudizio fosse opportuno raccontare un proprio episodio personale che aveva lo stesso tema. Il paziente, dopo qualche seduta, ha raccontato di aver trovato disorientante ed anche negativo quell’intervento. “Ma come? Io ho questo problema e lei me lo rinforza dicendomi che è capitato anche a lei? Così non mi sento aiutato, bensì affossato ulteriormente”. Più tardi la terapeuta capirà il motivo dell’errore. Nella storia di Federico a fronte delle proprie manifestazioni di malessere, il padre rispondeva con ansia, il che accentuava le proprie preoccupazioni sociali e in più lo facevano sentire in colpa per avere turbato il padre. Lo svelamento della terapeuta lo aveva portato a costruirla come il padre, fragile e incapace di mostrarsi forte, sicura e tranquillizzante.

 

Conclusioni

Nel complesso, il disvelamento è un intervento terapeutico prezioso, potente e a volte risolutivo. Allo stesso tempo va eseguito con cautela: il terapeuta deve essere capace di scegliere nella propria storia personale cosa è bene svelare sulla base di ciò che padroneggia emotivamente e in parallelo di formulare previsioni sul modo in cui il paziente inserirà lo svelamento all’interno dei propri schemi, rompendoli o rinforzandoli o attivandone di altri che non erano emersi. L’aspetto chiave di un disvelamento ben eseguito è nella prontezza del terapeuta di lavorare sul modo in cui il paziente reagisce alla propria apertura. Riflettere in modo congiunto sulla reazione del paziente al disvelamento è un’opportunità unica di migliorare l’assetto della relazione.

Fotografare se stessi come strumento di cura – Fotografia in psicoterapia

Fotografia in psicoterapia: Quando le parole non bastano per descrivere un vissuto o un’emozione è spesso necessario ricorrere a strumenti complementari che aiutino la cura psicoterapeutica del paziente. Uno dei mezzi più usati oggi è la fotografia, un medium artistico potente dal punto di vista emotivo e comunicativo, che si è evoluto negli ultimi decenni come tecnica non solo in arte-terapia (Cosden e Reynolds, 1982), ma anche in orientamenti psicoterapeutici di diverso indirizzo (Weiser, 1993) quale gestaltico, sistemico e cognitivo-comportamentale (Fassone et al., 2003).

Chiara Di Nuzzo, OPEN SCHOOL STUDI COGNITIVI 

La forza catalizzatrice dell’immagine fotografica non è dovuta tanto alla sua validità artistica che anzi risulta essere irrilevante per il suo utilizzo come strumento terapeutico, ma è data dalla sua efficacia di rievocare il simbolico personale del paziente, di aiutarlo a far riemergere emozioni e vissuti (Weiser, 2010). Oggi diversi studi mostrano la validità del medium fotografico nel percorso di cura di pazienti affetti da disturbi alimentari (Wessells Jr.,1985), disturbi ossessivo-compulsivi (Mancini, 2006), depressione e stati ansiosi (Seifert, 2014), in interventi sociali (DeCoster e Dickerson, 2014), di formazione (Hogan, 1998) e di empowerment (Levin et al., 2007). Ma in che modo oggi viene utilizzata la fotografia in psicoterapia?

La storia dell’utilizzo della fotografia in ambito psichiatrico

Questa forma di comunicazione è in realtà presente da più di un secolo nel campo scientifico e psichiatrico, nel corso del quale ha permesso di rivoluzionare il modo di concepire la follia (Manzoli, 2004).
L’uso dell’immagine fotografica si è instaurato nel finire dell’800, in un contesto socio-culturale positivista in cui imprescindibile era il rendere fondato ogni forma di sapere (Manzoli, 2004). I primi fotografi ad entrare negli ospedali psichiatrici erano mandati come delegati dei medici, con il compito di “catalogare visivamente” la malattia, di riprodurre con fedeltà e di “riordinare” la follia rinchiusa negli istituti. L’assunto teorico su cui si fondava l’uso della fotografia in psicoterapia per gli psichiatri ottocenteschi riguardava il poter osservare su lastra fotografica i segni della malattia, di individuare i suoi aspetti fisiognomici così da poterla studiare e riconoscerla sul campo. Questa valenza didattica e classificatoria della fotografia in psicoterapia venne persa alla fine del secolo, quando i fotografi indirizzati da spinte sociali, decisero di usare il loro strumento per celebrare e non etichettare il disordine e i vissuti degli internati (D’Alessandro, 1969; Pirella, 1981; Cerati e Berengo, 1998; Szto, 2008).

È in questi anni che il Dr. Hugh Welch Diamond, padre della fotografia psichiatrica, iniziò ad usare questo strumento come mezzo di cura e testimonianza del progresso delle sue pazienti (Burrows e Schumacher, 1990). Diamond, fotoamatore e psichiatra, direttore del Manicomio Femminile di Surrey, riconobbe il potenziale ruolo facilitatore proprio della fotografia nel processo di cura dei pazienti. Nella relazione “Sull’Applicazione della Fotografia nella Fisiognomica e nei Fenomeni Mentali della Follia”, presentata nel 1856 al Salone di Medicina della Royal Society di Londra, Diamond riportò alcuni casi in cui la fotografia contribuì nell’esito positivo del trattamento di cura ricevuto dalle pazienti presso il suo istituto. Esempi furono il caso di una giovane madre affetta da “mania puerperale”, sindrome oggi assimilabile alla depressione post-partum, e di una donna che pensava di essere una regina. Queste donne vennero fotografate nel corso del trattamento in modo da permettere loro di vedere in modo oggettivo la trasformazione del proprio aspetto, rendendole così più consapevoli. Secondo Diamond, osservare la propria immagine rafforzò l’efficacia della cura delle giovani donne. La sua duplice vocazione di psichiatra e fotoamatore ha reso possibile la prima testimonianza del potere terapeutico di un medium comunicativo, realizzando quello che oggi possiamo definire il primo progetto di foto-terapia, in cui il paziente psichiatrico è considerato non più solo come un paziente, ma come un individuo in grado d’interagire con la propria immagine fotografica (Gilman, 1976).

La fotografia in psicoterapia nei nostri tempi

Nei tempi più recenti, la foto-terapia è uscita dall’ambito puramente psichiatrico ed è diventata una pratica diffusa in campo psicoterapeutico. A sistematizzare le tecniche da mettere in atto in un processo di cura è stata la psicologa e arte-terapeuta Judy Weiser (1993), la quale definisce la foto-terapia come una tecnica di counselling in cui il terapista interagisce con il paziente attraverso l’immagine per far emergere vissuti, ricordi e pensieri. Una fotografia, intesa come medium comunicativo privo di valenza artistica, ha il potere catalizzatore di suscitare emozioni e di far proiettare su di sé un significato che per il paziente è spesso arduo spiegare e riconoscere a parole (Saettoni, 2011). Che sia una seduta individuale o di gruppo, un intervento terapeutico o puramente formativo, l’immagine fotografica è uno stimolo di partenza per una naturale conversazione laddove in particolare la comunicazione verbale non è sufficientemente efficace (Weiser, 2010). La potenza di tale strumento sta nella sua capacità di fermare il tempo e di impregnarsi emotivamente dei vissuti del paziente. Una fotografia non è solo una stampa, ma racchiude un’immagine che, per chi l’osserva, può prendere vita potentemente. In una fotografia è possibile rivivere il passato, riflettere sul presente e immaginarsi il proprio futuro e, se il paziente è guidato correttamente, svelerà il proprio sistema di valori, i giudizi e le aspettative verso di sé e il mondo, narrando le proprie emozioni sulla base dei suoi scatti e delle immagini da lui scelte (Weiser, 2010).

Caso particolare è quando un paziente/una persona posa per delle foto o quando costruisce un autoritratto in cui cerca di rappresentare un’immagine che ha nella propria mente, di mostrare la propria identità e i propri stati d’animo. Nell’autoritratto, infatti, la persona ha il pieno controllo su ogni aspetto dello scatto: ciò che vuole mostrare, come costruirlo, dove e quando eseguire la fotografia (Weiser, 2013). Attraverso questa tecnica, la persona esplora se stessa senza interferenze esterne, nessuno che osserva, che giudica o che controlla i suoi risultati. In questo modo, diventa possibile esplorare il proprio corpo e la propria interiorità, confrontarsi con le proprie identità e i vissuti emotivi, e, all’interno di un percorso terapeutico, discutere di tematiche quali l’accettazione e l’autostima e riconoscere le emozioni più recondite, spesso eluse consapevolmente dal paziente.

Il potere terapeutico della fotografia in psicoterapia

Data la potenza del medium fotografico, non sorprende come persone comuni, fotoamatori e fotografi professionisti abbiano esplorato se stessi costruendo lavori personali di grande impatto emotivo e sbalorditivi dal punto di vista psicologico.
La filosofa Cristina Nùñez da anni diffonde la sua esperienza nell’autoritratto, inteso come strumento catartico per esprimere i propri conflitti interiori e per promuovere un processo di creatività liberatoria, resiliente e funzionale. Lei per prima ha sperimentato dolore e sofferenza, derivate da un passato dedito alla droga, alla prostituzione e a sentimenti di odio, vergogna e gelosia. Ha iniziato ad autoritrarsi come modo per osservarsi e come segno di indipendenza: [blockquote style=”1″]Mi sono resa conto che mi faceva bene. Perché il cuore del mio lavoro è trasformare le cose brutte, la sofferenza, la droga, la prostituzione in una risorsa.[/blockquote]

Alla fotografa Christian Hopkins venne diagnosticata la depressione all’età di sedici anni. Attraverso la macchina fotografica ha deciso di rielaborare la sua esperienza emotiva, di immortalare il suo stato d’animo. L’uso della fotografia in psicoterapia è stato l’unico modo per accettare e controllare i pensieri depressivi che percuotevano incessantemente la sua mente. Con le immagini ha ricostruito il suo dolore creando un lavoro personale usato oggi come risorsa educativa rivolta a coloro che vivono la sua stessa malattia e a chi non comprende appieno il suo male.
Altro esempio di catarsi personale è il lavoro “Psychological self-portrait” di Deedra Baker che ha messo in scena una lotta metaforica contro il proprio sé depresso, immortalando la sua anima travagliata e sofferente in un ambiente sterile e freddo.

La fotografia in psicoterapia, e l’autoritratto in questo caso specifico, è quindi uno strumento complementare che può risultare estremamente utile nella cura terapeutica del disagio psicologico in quanto permette al paziente di conoscere e di confrontarsi profondamente con la propria immagine interiore ed esteriore; l’immagine fotografica si rivela essere uno strumento utile per guidare il paziente verso l’accettazione di situazioni difficili e sentimenti spesso insostenibili, laddove è necessario consolidare un’alleanza terapeutica che va oltre la comunicazione verbale.

Imparare a denominare le emozioni e gli effetti benefici sul cervello

Denominare le emozioni, soprattutto quelle negative, è un’operazione che spesso si utilizza in terapia per aiutare il paziente a chiarire come si sente o come si è sentito in determinate situazioni, quali sono le emozioni che più frequentemente fa fatica a gestire e così via.

Denominare le emozioni: introduzione

Come dire: il primo passo per imparare a maneggiare qualcosa è avere ben chiaro di cosa stiamo parlando, e capita spesso che persone con difficoltà nella gestione emotiva partano proprio da una generale fatica a identificare la sintomatologia somatica e non solo che si lega a una specifica etichetta (perché se il cuore va veloce, sudiamo e iperventiliamo possiamo ragionevolmente dire di essere in ansia), così come a distinguere una “configurazione” di sintomi dall’altra (perché magari se legato a batticuore, iperventilazione e sudorazione c’è un pensiero di ingiustizia subita, più che in ansia potremmo essere arrabbiati).

D’altro canto, l’insegnamento delle etichette verbali che identificano emozioni diverse è quello che si fa anche con i bambini, quando da piccolini li aiutiamo a distinguere la rabbia dalla tristezza, e così via.

Ma se siamo certi che il processo di identificazione e “etichettamento” dell’emozione sia utile e benefico, finora non è stato molto chiaro come funzionasse questo meccanismo. Recenti studi di neuroimmagine hanno approfondito proprio questo aspetto. Sembra che denominare gli aspetti emotivi di un’immagine mostrata ai soggetti produca una minore attivazione dell’amigdala rispetto alla sola percezione degli stessi aspetti (Hariri, Bookheimer, & Mazziotta, 2000; Lieberman, Hariri, Jarcho, Eisenberger, & Bookheimer, 2005). In pratica, se mostro a una persona una foto di un volto emotivamente connotato e le chiedo di scegliere l’etichetta verbale che meglio descrive quell’ emozione, la sua amigdala si attiva meno rispetto alla sola osservazione passiva del volto. Visto che l’amigdala è quella parte del cervello che si attiva quando ci emozioniamo, se la verbalizzazione diminuisce l’attivazione dell’amigdala, diminuisce anche la percezione soggettiva di stress emotivo.

Denominare le emozioni: lo studio

Un gruppo di ricercatori ha recentemente approfondito questa ipotesi, utilizzando la risonanza magnetica funzionale, che permette di osservare le parti del cervello che si attivano sotto determinate stimolazioni ambientali (Lieberman, Eisenberger, Crockett, Tom, Pfeifer, Way, 2007). Lo studio ha coinvolto 30 persone, sottoposte tutte a sei differenti compiti:
1. Scegliere tra due etichette l’emozione che rappresentava un viso mostrato in foto;
2. Scegliere tra due volti con due emozioni differenti quello che meglio si appaiava con un terzo volto mostrato, cioè quello che esprimeva la stessa emozione;
3. Osservare un volto con un’espressione emotiva;
4. Scegliere l’etichetta di genere (“maschio” o “femmina”) relativa a un volto mostrato;
5. Scegliere tra due volti con due generi differenti quello che si appaiava con un terzo volto mostrato, cioè quello che rappresentava lo stesso sesso;
6. Scegliere tra due forme geometriche differenti quella che si appaiava con una terza forma mostrata, cioè quella che rappresentava la stessa geometria.

I risultati dello studio

I risultati hanno mostrato che non c’erano differenze di genere nell’attivazione dell’amigdala osservando il volto con espressione emotiva. In pratica, uomini e donne hanno avuto lo stesso grado di attivazione cerebrale se messe davanti a un volto emotivamente carico.
In secondo luogo, i 5 compiti che richiedevano di avere a che fare con emozioni espresse da volti umani attivavano l’amigdala in un modo significativamente maggiore, rispetto al compito che includeva figure geometriche.

Poi, la condizione in cui veniva richiesto di denominare le emozioni dipinte dal volto (la condizione 1 nel nostro elenco), quella in cui si doveva scegliere l’etichetta che la descriveva meglio tra due etichette proposte, era quella in cui l’amigdala mostrava una minore attivazione rispetto alle altre 5 condizioni proposte.

Inoltre, denominare le emozioni riduceva l’attivazione dell’amigdala, ma etichettare il sesso del volto non faceva altrettanto, il che ha circoscritto l’effetto riscontrato a temi pertinenti le emozioni, e non al semplice compito di accoppiare un’immagine a un’etichetta verbale.
Infine, le immagini hanno mostrato che dare un nome all’emozione portava a una diminuzione dell’attività dell’amigdala aumentando contemporaneamente l’attività di altre due aree cerebrali: la corteccia prefrontale ventrolaterale destra e la corteccia prefrontale mediale. In questo senso, è stato chiarito il percorso che porterebbe dall’etichettamento verbale a una minore attivazione emotiva.

Considerazioni

I risultati dello studio quindi confermano quanto rilevato da precedenti ricerche, mostrando come etichettare le emozioni negative consenta di limitare la risposta del sistema limbico che si attiverebbe in presenza di immagini emotive negative.
E cosa ci facciamo di questo dato? Come possiamo sfruttarlo per stare meglio? Qualcosa in effetti forse è già stato fatto, anche se non collegandolo direttamente a quanto riscontrato dal presente studio.

Il reappraisal è una tecnica con cui le persone ridefiniscono il significato di un evento cambiando il suo impatto e la sua valenza emotiva (Gross, 1998). Diversi studi hanno mostrato come il reappraisal porti alle stesse conseguenze che abbiamo visto per l’etichettamento delle emozioni, cioè a una maggiore attivazione della corteccia prefrontale e a una diminuzione dell’attività del sistema limbico e dello stress emotivo (Ochsner & Gross, 2005). È quindi possibile che il reappraisal e il processo per cui si fornisce un nome a un’emozione si poggino sulle stesse basi neurali e seguano lo stesso percorso per portare a una diminuzione dell’attività dell’amigdala e di conseguenza a una minore attivazione emotiva. Questo rimane senza dubbio un punto che richiede ulteriori approfondimenti, così come sarebbe interessante vedere cosa succede se lo stesso compito di attribuzione verbale viene sollecitato davanti a emozioni positive.

Nel Kurdistan iracheno a curare i traumi di guerra, reportage

Mentre facevo esercitare i colleghi curdi a più non posso in varie tecniche di colloquio psicoterapeutico, ascoltavo storie tremende. Le peggiori erano quelle di doppia violenza, in cui donne o bambini, dopo aver subito la cieca brutalità dell’ISIS, dovevano anche subire il potere assoluto delle costrizioni sociali del clan. 

Sono state le storie di donne violentate dall’ISIS e poi rifiutate dalle loro famiglie e la visita al museo Amna Suraka della città di Sulaymannya a dare senso a questi giorni trascorsi nel Kurdistan iracheno. Invitato dal 3 al 5 marzo 2016 dalla Jiyan Foundation for Human Rights a supervisionare colleghi psicoterapisti curdi impegnati a curare i traumatizzati della guerra in corso –le donne violentate, i Peshmerga morti dentro dopo aver visto la violenza del sangue e i testimoni dei disumani attacchi terroristici che interrompevano nel sangue la tranquilla quotidianità di una giornata al mercato- nei primi giorni avevo provato una sorta di delusione che non confessavo a me stesso, quasi vergognandomene.

Partito ingenuamente con il desiderio di incontrare l’Oriente, mi ero trovato davanti a un paesaggio brullo e anonimo, una pianura sconfinata cosparsa di un’erba debole e rada e minacciata da un terreno già aspro e pietroso di suo e  punteggiato qua e là di macerie e calcinacci che rendevano la scena ancora più straniante, un misto di natura arida e spennacchiata e brani di inferno post-industriale.  In lontananza vedevo le montagne dell’altopiano iraniano, anch’esse impressionanti per la loro nudità povera d’alberi e priva dei paesini abbarbicati sui pendii che punteggiano di umanità i monti italiani. Al posto dei paesini, conurbazioni improvvise e sterminate di geometriche case-cubo separate da stradoni popolati di auto di grossa cilindrata e molti SUV. Case in qualche caso dotate di un velo superficiale di decorazione orientale ma tutte appartenenti all’impersonale esplosione edilizia iniziata negli anni ’50 del secolo scorso e che vediamo anche in Occidente.

L’aspettativa di paesini medievali popolati di fantasie del Saladino o delle Mille e una notte non poteva che andare delusa. La Mesopotamia, a cui appartiene il Kurdistan Iracheno che risiede nel territori degli antichi Assiri che abbiamo studiato a scuola, ha una tradizione millenaria di costruzioni di mattoni d’argilla che non durano niente. O di tende, dove vivono i pastori nomadi beduini. Nulla di paragonabile alle solide case di pietra dei nostri centri storici. Arrivata l’edilizia moderna, il passato è svanito, eccetto il caso naturalmente dei palazzi dei potenti, peraltro piuttosto rari; non mi è capitato di incontrarne nemmeno uno. Mi dicono che ci sia qualcosa del genere nella millenaria città di Erbil, ma non c’è stato tempo di visitarla

Quindi un vero centro storico può esserci solo nelle grandi capitali che ospitavano i governanti dei vari imperi succedutisi nella regione (è il caso di Erbil), mentre i villaggi e le grandi conurbazioni più recenti risultano singolarmente conformati all’architettura popolare contemporanea. A questo si aggiunge la politica terribile di deportazione di Saddam Hussein, che nei tardi anni ’80 rase al suolo circa 4200 piccoli paesini curdi concentrando la popolazione rurale nelle attuali sconfinate conurbazioni, meglio controllabili e bombardabili.

È anche vero che però l’atmosfera, pur desolata (e lo diventava ancor di più la sera, con questi stradoni amplissimi popolati di SUV, in un buio lugubre rotto dalle luci fioche dei lampioni e dei fanali delle auto) non era degradata. Certo, un’immensa periferia, ricca di aiuole un po’ spelacchiate e cosparsa di qualche calcinaccio proveniente da misteriosi cantieri, che non era però mai sporca e mai diroccata e in fondo nemmeno mai disumana. Sicuramente lontanissima dalle fantasie orientali banalmente disneyane che mi ero concesso: vicoli di città arabe in cui incontrare Aladino e i quaranta ladroni. No, nulla di questo in Kurdistan. Insomma, speravo di incontrare il ladro di Baghdad nei calli e invece percorrevo in auto una sconfinata Quarto Oggiaro con stradoni ampi come quelli di Los Angeles.

Kurdistan 1

 

E poi è arrivata la realtà, più interessante e dolorosa di vita delle fantasie e delle aspettative turistiche. E la realtà sono i racconti terribili dei casi clinici che ho supervisionato. I colleghi curdi sono ben preparati anche se, come talvolta accade, bisognosi di pratica invece che di lezioncine teoriche che già conoscono bene e che noi occidentali negligentemente somministriamo; errore che spesso fanno anche americani e nordeuropei quando vengono in Italia, raccontandoci di nuovo una storia che già conosciamo.

Mentre facevo esercitare i colleghi curdi a più non posso in varie tecniche di colloquio psicoterapeutico, ascoltavo storie tremende. Le peggiori erano quelle di doppia violenza, in cui donne o bambini, dopo aver subito la cieca brutalità dell’ISIS, dovevano anche subire il potere assoluto delle costrizioni sociali del clan. Era il caso di vittime provenienti da un ambiente non urbano ma da piccoli villaggi in cui -a quanto pare- vige ancora una società gerarchica e autoritaria organizzata per ordini sociali e tribali e dominata da sceicchi, capifamiglia e boss di vario genere.

La forma più efferata di violenza era il caso in cui una donna, violentata nel corso di un attacco dell’ISIS, si ritrovava poi a essere marchiata di disonore all’interno del clan. Come ho scoperto nel corso delle mie supervisioni, lo scenario peggiore era paradossalmente quello riservato alle donne di condizione più elevata, alle figlie di un capo, di un grande sceicco. In uno schema che diventava quasi marxista, venivo a scoprire che il problema non era propriamente lo stupro ma la classe sociale del violentatore ISIS, spesso bassa.

L’ISIS è ricco di marginali di vario tipo, ex soldati dell’esercito di Saddam rimasti improvvisamente senza lavoro e senza ruolo sociale, giovani che a vario titolo vivono con ostilità e senso di frustrazione il processo di urbanizzazione e modernizzazione e infine figure di esclusi o anche solo di secondo rango nella scala sociale della società tribale, tutta gente che trova nell’egualitarismo millenarista del fondamentalismo islamico un riscatto.

Scoprivo così man mano un canovaccio in cui il fenomeno delle donne che si uniscono ai peshmerga combattendo in prima persona finiva per assumere a sua volta un nuovo significato; non si trattava solo di combattere l’ISIS ma anche -per molte donne e non solo- di uscire fuori da un destino controllato dal clan, in cui non vi era scelta se non attendere il matrimonio già combinato e tra consanguinei all’interno del clan.

Tra tutte le storie ascoltate alcune erano particolarmente dolorose per l’intreccio di tragedia familiare e sciagura militare che raccontavano. Le storie in cui, ad esempio, il clan era così spietato per cui si decideva che la ragazza violentata era ormai irrimediabilmente marchiata e andava uccisa. E il caso più nauseante e traumatico era quando il clan decideva che, per sfuggire un eventuale problema con la legge, a uccidere la donna violentata dove essere un’altra donna del clan, a volte perfino la sorella.

Chiaro che, a queste condizioni, molti finiscono per approfittare della guerra per fuggire la presa della tribù. In alcuni casi questo percorso è particolarmente chiaro: nelle file del PKK, il  Partito dei Lavoratori del Kurdistan, è espressamente richiesto che la recluta rinunci a tutti i suoi legami familiari. Quella che può sembrare una pretesa strana e inutilmente settaria, una sorta di adesione monastica forse frutto della storia rivoluzionaria del PKK, assume un senso: la famiglia è il clan, una struttura sociale forte e pervasiva incompatibile con la militanza nel PKK.

Man mano che ascoltavo questi racconti gli eventi assumevano un significato sempre più inquietante e terribile. Qual era dunque il male peggiore? I massacri perpetrati da Saddam e dall’ISIS o l’oppressione arcaica del clan? Era mai possibile che queste donne avessero trovato nella distruzione del tessuto tribale una via di fuga a un destino senza alternative? E chi erano questi uomini così oppressivi e patriarcali?

E anche l’impressione inizialmente negativa del paesaggio urbano curdo si attenuava. Ora quelle immense città, quelle interminabili distese di casette disperse tra stradoni immensi affollati di automobili nutrite di benzina a bassissimo costo (quante pompe di benzina avevo visto lungo le strade? Tantissime, spesso a conduzione familiare; rivenditori di benzina comprata direttamente dalle raffinerie vicine ai pozzi petroliferi come un fruttivendolo di campagna che vende frutta comprata direttamente dal contadino) che mi erano parse così stranianti ora diventavano paradossalmente speranzose. Erano comunque una promessa di vita urbana e di autonomia individuale in cui realizzarsi umanamente per chi era cresciuto nella prigione patriarcale del clan.

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Tutti i precedenti pensieri sui mali della modernizzazione, tra Marx e Pasolini, ora mi parevano il lusso occidentale di qualcuno che, come me, da turista pretendeva l’Apriti Sesamo del racconto di Aladino e invece si trovava di fronte a casette e automobili non diverse da quelle viste a casa propria. Una borghesia ancora in transizione, certo, con strane commistioni strapaesane e stracittadine mescolate assieme.

Il centro di Sulaymaniyah è un enorme mall commerciale all’americana, un luogo a più piani con cinema, negozi e locali che di orientale non hanno nulla se non la musica e i narghilè (che ho molto gradito, specialmente quelli alla mela). Allontanandosi dal centro la periferia diventa più desolata e scalcinata, con locali e bar sempre più radi e spogli che, come spesso accade in queste città dell’oriente, si riducono a stanzoni freddi e disadorni con fredde piastrelle di un bianco sanitario ai muri, un bancone di metallo grigio e sedie di plastica prive di ogni calore e accoglienza. Talvolta trovavo brandelli di decorazioni musive a tasselli di maiolica che danno l’idea di cosa potrebbe essere un bel bar in oriente.

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Però il cibo servito, carne allo spiedo, riso e focacce arabe, è sempre gradevole e igienico. Soprattutto non vi è sporcizia, ma un dignitoso decoro. A Sulaymaniyah la maggior parte delle persone è in jeans, camicia e giacca, e anche questo può deludere: vedere tutti in questo costume da giovani occidentali casual. Però non ho visto scene di miseria e disperazione. A Erbil ho visto più di frequente persone con le larghe brache orientali che possono estendersi in alto fino alle spalle e diventare una tunica fissata al centro da una grande fascia di differente colore intorno alla vita. Non ho mai visto neanche i caffettani degli arabi, a quanto pare non usati dai curdi. Le donne portano tutte vestiti occidentali e il velo, combinazione a mio parere non indovinatissima che le invecchia. Forse è il loro modo di gestire l’inevitabile fastidio di una modernità abbracciata ma non fatta propria, la sensazione di scimmiottare gli americani tenuta a bada da un dettaglio che afferma un’identità locale: appunto il velo. Ma il limite di queste contraddizioni sparisce davanti al doppio trauma della guerra dell’ISIS e dell’oppressione tribale.

Anche la vita economica di queste immense conurbazioni curde non mi è parsa povera. Oltre al gran numero di automobili, anch’esse ben tenute e non sgangherate come vorrebbe la retorica della povertà, ho visto molti negozi di tessuti, di narghilè, di utensili vari  e piccoli supermercati che vendevano prodotti alimentari e anche alcolici, nonché numerosi parchetti con aiole e giochi all’aperto per bambini. Accanto a ciò, rimangono poi le abitudini della vita di villaggio in una strana convivenza con la vita urbana. Ad esempio, invece che intrattenersi nei locali la gente preferisce sedersi in cerchio sui marciapiedi su un tappeto steso sorseggiando tè e sfumacchiando. Questo accade non solo in periferia, dove i locali non ci sono, ma anche vicino il centro, magari proprio di fronte a un locale.

Alcuni giorni dopo, però, anche questa visione negativa dei patriarchi curdi era destinata a sua volta a modificarsi. Su insistenza dei miei ospiti, ho visitato il museo Amna Suraka, sempre a Sulaymaniyah. Si tratta di un’ex caserma usata dalla polizia di Saddam Hussein per imprigionare e torturare attivisti e ribelli curdi. Il momento di massima attività di questo luogo di torture è stato dal 1986 al 1991, anno in cui la prima rivolta curda portò alla chiusura del luogo. Oggi è un museo, ed è una visita impressionante. Ho visto stanze buie e lugubri, in qui in poche decine di metri quadrati erano detenute fino a quaranta persone.

In molte di quelle stanze sono stati chiusi importanti leader curdi, non solo comandanti militari di provenienza cittadina e d’avanzata ideologia politica liberale e progressista, ma anche capiclan tribali provenienti dai villaggi rasi al suolo da Saddam. Quegli stessi capiclan che mi erano apparsi ottusi e crudeli nei racconti delle donne da loro oppresse ora qui diventavano coraggiosi condottieri del popolo curdo detenuti per mesi in celle orribili e torturati nelle maniere più raccapriccianti, come il medievale tratto di corda, la tortura che consiste nel appendere e issare il prigioniero con una lunga corda fissata ai polsi dietro la schiena, il peso del corpo venendo così a gravare tutto sulle giunture delle spalle che si slogano. La conseguenza è una storpiatura permanente.

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Dopo la rappresentazione delle torture, la visita al museo continua con una mostra sulla vita di villaggio nelle campagne curde. Ho visto esposti i loro vestiti da cerimonia più lussuosi e una riproduzione della casa di un villaggio, un unico stanzone in cui viveva l’intera famiglia, con tappeti e mobili stavolta ricchi di decorazioni orientali. Un’altra stanza rappresentava il luogo dedicato all’attività di filatura delle donne, unico loro ruolo autonomo e riconosciuto accanto all’allevamento dei figli e unica loro attività economica.

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Il museo dava una rappresentazione idealizzata della vita di villaggio, con fotografie di matrimoni e di feste di villaggio. Comprensibile, anche perché quella vita era stata spazzata via dalla furia di Saddam Hussein; ma ormai il mio occhio era stato disingannato dai racconti dei delitti di onore perpetrati a danni delle donne, e avevo poca voglia di avere pena per un mondo arcaico, anche se al tempo stesso provavo maggiore orrore per i massacri di Saddam.

Se però la modernizzazione di Saddam era orribile, quella spontanea dell’urbanizzazione ora mi pareva forse poco estetica e poco romantica, ma non terribile e sicuramente preferibile alla realtà oppressiva della vita del clan, malgrado l’idealizzazione che ne faceva il museo. E molto migliore poi dell’oppressione politica e totalitaria di Saddam e dell’ISIS. Triste poi apprendere che i torturatori di Saddam erano stati formati da istruttori sovietici.

Insomma, in Kurdistan ho visto congiungersi i fantasmi del ‘900: la goffaggine antiestetica della modernizzazione consumista, l’orrore totalitario, il rigurgito identitario fondamentalista e l’oppressione della vita arcaica. E chi ne usciva meno peggio era la banale modernità consumista.

Ipnosi: alleata del benessere femminile

Ipnosi nelle donne: La presente analisi della letteratura scientifica indica che l’ipnosi può essere efficacemente utilizzata come strumento per il miglioramento della qualità della vita e di promozione del benessere femminile.

 

L’ipnosi è una disciplina che vanta una lunga e prestigiosa storia. Permette di raggiungere uno stato di coscienza diverso dalla veglia comunemente detto trance ipnotica. In questo stato l’attenzione del soggetto diventa estremamente focalizzata e rivolta verso l’interno. Si tratta di uno stato naturale che emerge spontaneamente più volte al giorno, ma che può essere consapevolmente sfruttato per recuperare energie, rielaborare le esperienze vissute, gestire ansia, stress e dolore.
Rappresenta una metodologia senza effetti collaterali, ma può essere considerata un’efficace strumento per favorire il benessere della donna? Cosa dice la letteratura sull’utilizzo dell’ipnosi nelle donne durante le varie fasi del loro ciclo di vita?
Per rispondere a questa domanda, l’articolo presenta una rassegna della letteratura scientifica pubblicata a partire dal 2005.

Ipnosi nelle donne: contro i sintomi della dismenorrea del ciclo mestruale

La dismenorrea, o mestruazione dolorosa, è uno tra i disturbi ginecologici più comunemente lamentati (60%-90%), che colpisce soprattutto le donne più giovani (sotto i 25 anni) limitandone le attività quotidiane nel 16-29% dei casi (Ju et al.,2013). Si parla di dismenorrea primaria quando non si riscontra alcun tipo di patologia pelvica a cui ricondurne la causa. La dismenorrea può presentarsi associata a mal di testa, nausea, vomito, diarrea, mal di schiena, dolori muscolari (El-Gilany et al., 2005). Stress, tensioni, ansia sono fattori che possono acuire la sensazione di dolore.

Saha et al. (2014) dimostrano che gli interventi che utilizzano l’ipnosi hanno la medesima efficacia dei trattamenti farmacologici tipicamente utilizzati contro i sintomi della dismenorrea. Nel loro studio, l’ipnosi sortisce effetti anche a lungo termine, a distanza di tre mesi dalla fine dell’intervento.
Sebbene questo sia l’unico studio esplicitamente rivolto agli effetti dell’ipnosi in casi di dismenorrea, l’utilizzo dell’ipnosi per la gestione del dolore sta ricevendo sempre maggior attenzione perché si tratta di una metodica relativamente facile da somministrare e senza effetti collaterali (Stoelb, Molton, Jensen, and Patterson, 2009).
Una gran mole di letteratura scientifica ne dimostra l’efficacia in molti tipi di dolore (ad esempio: Cassileth & Keefe, 2010, Jensen et al., 2009, Berger et al., 2010; Jensen et al., 2009).

Ipnosi nelle donne: contro il vaginismo

Il piacere sessuale è una componente fondamentale della qualitá della vita e della soddisfazione della vita di coppia. Non esistono studi randomizzati che dimostrino l’efficacia dell’ipnosi nei disturbi del piacere sessuale femminile. Meritano tuttavia di essere citati il lavoro di Pourhosein & Ehsan (2011), che riporta un case report in cui l’ipnosi si è dimostrata efficace nel trattare un caso di vaginismo e lo studio di Pullak et al. (2007) che, sebbene non conclusivo, considera gli interventi che utilizzano l’ipnosi promettenti nella cura della vestibolite vulvare.

Ipnosi nelle donne: Ipnosi e Fertilità

Hämmerli, K., Znoj, H., & Barth, 2009 forniscono la più recente e rigorosa meta analisi sull’efficacia degli interventi psicologici in termini di numero di gravidanze in coppie con problemi di fertilità. Dalla loro meta-analisi emerge che gli interventi psicologici contribuiscono all’aumento del tasso di fertilità. Gli autori ipotizzano, che questo incremento possa dipendere da una migliore e maggiore attività sessuale delle coppie, spesso messa in crisi dai problemi di fertilità stessi.

Levitas et al. (2006) presentano i risultati dell’utilizzo dell’ipnosi durante le procedure di fecondazione in vitro. Secondo gli autori, il momento più atteso e spesso stressante della procedura è il trasferimento degli embrioni (TE) nell’utero della donna. Proprio tale stress può innescare una serie di manifestazioni del sistema nervoso simpatico (aumento della pressione sanguigna, tachicardia, tachipnea) e in alcuni casi la frequenza delle contrazioni uterine. Il presente studio riporta un significativo aumento del tasso di gravidanze nelle donne appartenenti al gruppo che utilizzavano l’ipnosi durante ET.

Tali dati sono in linea con gli studi che dimostrano il ruolo dell’ipnosi nel ridurre gli stati di ansia pre-operatoria (Saadat et al., 2006) e altre procedure mediche invasive (Schnur, 2008, Tefikow et al, 2013).

Ipnosi nelle donne: il periodo della gravidanza, del travaglio e del parto

L’applicazione dell’ipnosi e dell’autoipnosi in gravidanza e in preparazione al parto è forse l’ambito più studiato e documentato. Nell’arco di tempo considerato dalla nostra revisione della letteratura, sono state pubblicate due review sul tema (Brown e Hammond, 2007; Landolt e Milling (2011). Entrambe indicano che l’ipnosi può essere efficacemente utilizzata per tutto il corso della gravidanza, contribuendo al controllo delle nausee, della pressione e dell’ansia; accorcia la durata del travaglio, diminuisce la durata dell’ospedalizzazione e riduce l’incidenza della depressione post-partum. Infine, i bambini nati da madri che avevano affrontato il parto con tecniche ipnotiche tendono ad avere punteggi Apgar significativamente migliori.
Particolarmente interessante è il lavoro di Guse, Wissing & Hartman (2006), focalizzato sul rafforzare le risorse e i punti di forza di un gruppo di donne alla loro prima gravidanza.

I loro risultati indicano che le donne del gruppo sperimentale, cioè coloro che hanno ricevuto 6 sessioni di ipnoterapia a indirizzo Ericksoniano, mostravano indici di benessere significativamente migliori del gruppo di controllo a due settimane dal parto. A dieci settimane, livelli di depressione e sintomi psicopatologici significativamente inferiori.

Ipnosi nelle donne nel passaggio alla menopausa

I dati del rapporto ONDA (2014), riportano che solo l’1 % delle donne italiane vive la menopausa senza alcun disturbo. Il 90% soffre di vampate di calore, spesso accompagnate da irritabilità, il 40 %; aumento di peso, il 30%, difficoltà a dormire il 20% e depressione il 20%.
Le terapie ormonali sostitutive comportano spesso effetti collaterali che ne riducono la compliance.
Elkins et al., (2013) riportano una riduzione della frequenza e dell’intensità delle vampate di calore nelle 93 donne nel gruppo sperimentale con ipnosi. Tale riduzione emergeva sia dai report delle donne, sia dalle misurazioni fisiologiche. Anche le misure relative alla qualità del sonno risultano migliorate.

Le vampate di calore sono un sintomo comune anche nelle donne sottoposte a chemioterapia (78%). Per queste donne le terapie non farmacologiche spesso non sono indicate. Elkins e colleghi hanno condotto uno studio pilota (2007) seguito da un più esteso studio randomizzato (2008) sull’efficacia dell’ipnosi sulle vampate di calore in pazienti oncologiche, riportando una diminuzione delle vampate (frequenza e intensità), accompagnata da un miglioramento del tono dell’umore, del sonno e degli stati di ansia.

Conclusioni

La presente analisi della letteratura scientifica indica che l’ipnosi può essere efficacemente utilizzata come strumento per il miglioramento della qualità della vita e di promozione del benessere femminile.

L’utilizzo dei social network: partecipa alla ricerca!

Carissimi lettori,

vi scriviamo per chiedere la vostra collaborazione al nostro studio, invitandovi a compilare un questionario.

La nostra ricerca riguarda alcuni temi legati ad Internet, in particolare all’uso dei Social Network.

Il questionario contiene domande pertinenti all’utilizzo di Facebook e ai motivi che spingono ognuno di noi ad utilizzarlo.

Il questionario è rivolto a tutte le persone maggiorenni, non contiene messaggi promozionali o propagandistici e non è sponsorizzato da gruppi o associazioni politiche, culturali o religiose.
La partecipazione è anonima e volontaria, e si può interrompere il questionario in qualsiasi momento, ma importante per offrire un contributo alla ricerca scientifica.

Grazie per la partecipazione!
Giada Cicchiello, Tanina Zambito 8 marzo 2016

Come sono cambiati nel XXI secolo la carriera lavorativa e il mercato del lavoro

Gli elementi che caratterizzano lo scenario del XXI secolo hanno un grosso impatto sull’esperienza psicologica del lavoro: l’attuale mercato del lavoro, infatti, è in continuo cambiamento e gli individui non sperimentano più stabilità e sicurezza, ma si confrontano con lavoro flessibile ed organizzazioni fluide (Savickas, 2011). In altre parole, è cambiata la cornice culturale e tecnologica di riferimento, le identità individuali si rivelano meno stabili, il lavoro è diventato più flessibile ed i lavoratori devono avere un alto livello di formazione ed essere molto produttivi per ottenere e mantenere il proprio lavoro.

 

Le attività lavorative nel passato

Prima della rivoluzione industriale, la scena lavorativa era dominata quasi completamente da un’economia agricola; le persone non sceglievano quasi mai un lavoro, ma di solito assumevano gli stessi ruoli lavorativi dei propri familiari.

Fu solo nel XIX secolo, con l’avvento di un’economia urbana, che si sviluppò, nei Paesi occidentali, l’idea di carriera. Con la rivoluzione industriale, nelle fabbriche si creò una struttura organizzativa gerarchica piuttosto complessa ed i cambiamenti associati alla rivoluzione industriale causarono rotture drammatiche nella struttura della vita di quasi tutti gli abitanti delle nazioni industrializzate.

 

Le attività lavorative nell’epoca moderna

Analogamente, oggi, epoca della tecnologia, dell’informazione e dell’economia globale, assistiamo a vasti e complessi cambiamenti negli ambienti di lavoro, che appaiono molto diversi da quelli del XIX secolo. Innanzitutto i computer hanno permesso alle aziende di trasferire sempre più mansioni a macchine e dispositivi automatici, riducendo, quindi, i posti di lavoro; inoltre, la tecnologia digitale ha permesso alla produzione di spostarsi in qualunque parte del mondo, pur rimanendo sotto la gestione ed il controllo della sede centrale. Infine, l’integrazione della tecnologia con la globalizzazione ha creato un mercato del lavoro che non è più chiuso entro confini nazionali o linguistici.

Gli elementi che caratterizzano lo scenario del XXI secolo hanno un grosso impatto sull’esperienza psicologica del lavoro: l’attuale mercato del lavoro, infatti, è in continuo cambiamento e [blockquote style=”1″]gli individui non sperimentano piu’ stabilità e sicurezza, ma si confrontano con lavoro flessibile ed organizzazioni fluide[/blockquote] (Savickas, 2011). In altre parole, è cambiata la cornice culturale e tecnologica di riferimento, le identità individuali si rivelano meno stabili, il lavoro è diventato più flessibile ed i lavoratori devono avere un alto livello di formazione ed essere molto produttivi per ottenere e mantenere il proprio lavoro.

L’eccellenza scolastica e gli standard elevati sono diventati elementi fondamentali della globalizzazione. I lavoratori, inoltre, devono destreggiarsi sempre più tra mansioni multiple ed avere performance migliori, molto al di sopra del livello che poteva essere considerato accettabile qualche decennio fa. Inoltre, l’avvento dell’era dell’informazione, caratterizzata dai due motori della tecnologia e della globalizzazione, ha completamente sovvertito il contratto psicologico tra lavoratori e datori di lavoro.

Hall e Mirvis (1996) hanno parlato di un grande cambiamento in atto, ovvero il passaggio dalla carriera organizzativa alla carriera proteiforme. La carriera organizzativa, basata sul contratto psicologico dell’era industriale, implicava una relazione a lungo termine tra dipendente ed organizzazione. Il concetto di proteiforme, invece, comprende ogni tipo di percorso di carriera flessibile, con alti e bassi, svolte improvvise, spostamenti da un tipo di lavoro ad un altro e così via. La carriera oggi può assumere diversi aspetti e cambiare repentinamente, proprio come Pròteo, la divinità marina della mitologia greca, che aveva la facoltà di prendere qualunque forma di animale o la forma di un elemento (fuoco, vento o acqua) per sottrarsi a chi lo interrogava.

Un’altra tendenza in aumento è che parte integrante dei cambiamenti del lavoro nel XXI secolo è la richiesta di livelli di competenze e conoscenze più elevati nella forza lavoro. Hunt (1995), in un’analisi, ha identificato le caratteristiche cognitive ed intellettuali che definiranno sempre più il lavoro del XXI secolo: le organizzazioni si trasformeranno da organizzazioni fortemente strutturate in piccoli gruppi che lavoreranno in ambienti circoscritti, dove i lavoratori si troveranno sempre più a dover padroneggiare mansioni diverse e dove sarà premiata la flessibilità cognitiva e sociale. Le persone più apprezzate saranno quelle in grado di adattarsi e quelle che si trovano a proprio agio in situazioni che cambiano velocemente.

 

Le nuove teorie di carriera

In uno scenario così complesso è particolarmente importante lo sviluppo vocazionale nel corso dell’intera vita ed è in tale scenario che nascono nuove teorie della carriera e nuove modalità di intervento per aiutare ed accompagnare le persone ad adattarsi alle nuove sfide imposte dal nuovo mercato del lavoro e dell’economia globale. Mi rifarò, in questo mio scritto, a due modelli affini, ovvero il modello di costruzione di carriera di Mark Savickas ed il modello della costruzione di Sé di Jean Guichard.

La teoria della costruzione della carriera, come suggerisce il termine, si focalizza sul tema della costruzione del proprio progetto professionale ed afferma che le persone costruiscono il proprio percorso lavorativo, dando significato al proprio comportamento vocazionale ed alle proprie esperienze di lavoro. Questo approccio considera la costruzione di sé come una sfida: le persone costruiscono se stesse attraverso la riflessione sulle proprie esperienze. La costruzione di un percorso professionale si sviluppa a partire dal pensiero o dall’attività mentale, che consente di costruire una storia sulla propria vita in ambito lavorativo. La teoria della costruzione di carriera considera la carriera come una storia, come un percorso che si costruisce attraverso la narrazione. Questo approccio evidenzia il ruolo determinante dei racconti che le persone producono riguardo ai propri percorsi professionali. Raccontare, dunque, rappresenta il processo fondamentale di ogni costruzione professionale.

Il modello di costruzione di Sé di Jean Guichard, invece, ha uno scopo più generale rispetto alla teoria della costruzione della carriera e cioè la costruzione, da parte delle persone, della propria vita in ambiti diversi. Le attività lavorative, in altre parole, hanno un senso per le persone solo in relazione alle loro attività ed esperienze in altri ambiti. Quindi, la costruzione professionale sembra abbia la necessità di essere contestualizzata in un quadro più ampio, quello della costruzione del percorso di vita. Il modello di costruzione di sé intende descrivere i processi attraverso i quali gli individui connettono i diversi ambiti della loro vita e li ordinano in base a determinate prospettive.

I due modelli presentati hanno in comune una parola, ovvero “costruzione”; entrambi i modelli, infatti, si riferiscono all’epistemologia del costruttivismo sociale e cioè, in entrambi i casi, gli individui non sono considerati come oggetti passivi, ma come agenti proattivi. La riflessione sul proprio Sé e sulle proprie esperienze per la definizione del senso della propria vita diventa un imperativo sociale.
L’esigenza sociale attualmente più rilevante è che gli individui sviluppino la coscienza di Sé, facendo leva su un insieme di competenze che permetta loro di affrontare i numerosi adattamenti richiesti nella vita personale e professionale. In entrambi i casi, la dimensione psicologica è centrale: si tratta per ciascuno di costruirsi ed agire in qualità di attore e narratore della propria vita.

La principale differenza tra i due modelli è che il primo (quello messo a punto da M.L. Savickas) si focalizza sulla costruzione professionale, mentre il secondo (quello messo a punto da Jean Guichard) sulla costruzione di vita. In altre parole, il primo modello risponde alla domanda: “qual è il significato della mia carriera nella mia vita?”, mentre il secondo risponde alla domanda: “per me cosa dà (o cosa potrebbe dare) significato alla mia vita?”

La valutazione delle abilità di pregrafismo: ppg, un nuovo strumento di valutazione

Questo articolo ha partecipato al Premio State of Mind 2014 – Sezione Junior

LA VALUTAZIONE DELLE ABILITA’ DI PREGRAFISMO: PPG,UN NUOVO STRUMENTO DI VALUTAZIONE

Erika Carchesio – Sergio Di Sano

ABSTRACT

La scrittura è una delle competenze principali che il bambino deve acquisire nelle fasi iniziali del suo percorso scolastico. La maggior parte dei bambini è in grado di acquisire un’adeguata competenza di scrittura, ma vi sono altresì bambini che non riescono ad automatizzare tale processo.

Data l’assenza di uno strumento di screening che esamini le diverse componenti in gioco nella scrittura, l’obiettivo del presente lavoro è quello di proporre una nuova prova di valutazione, Prova di PreGrafismo (PPG) per i bambini frequentanti l’ultimo anno della scuola dell’infanzia. Si tratta di uno strumento agevole perché pensato per essere utilizzato anche dagli insegnanti per evidenziare eventuali difficoltà che potrebbero fungere da campanelli di allarme per il successivo apprendimento della scrittura nella scuola primaria.

Le prime analisi per testare la validità dello strumento sono avvenute con uno studio pilota, su un campione di 30 bambini e sono state calcolate le correlazioni con il test VMI e con il questionario DCDQ’07. I risultati di tali analisi sono incoraggianti per le future ricerche che volessero approfondire questo ambito di indagine.

Parole chiave: PPG; 5 anni; integrazione visuo-motoria; scrittura; pregrafismo

ABSTRACT

Writing is one of the main skills that the child must acquire in the early stages of his education. The majority of children is able to acquire adequate competence of writing, but there are also children who fail to automate this process. Given the absence of a screening tool to examine the different components involved in the writing, the objective of this paper is to propose a new assessment test, test PreGrafismo (PPG) for children attending the last year of kindergarten. It is a tool designed to be easy because it is also used by teachers to highlight any difficulties that could serve as warning signs for the subsequent learning of writing in primary school. The first analysis to test the validity of the tool were carried out with a pilot study on a sample of 30 children and were calculated correlations with the VMI test and the questionnaire DCDQ’07. The results of this analysis are encouraging for future research who wish to pursue this field of research.

Key words: PPG; Five years; Visual-motor integration; writing; pre-writing

 

Trauma: un intervento psicologico nel post emergenza del terremoto in Nepal

Da 14 anni andiamo in Nepal per conto di AIDOS, Associazione Italiana Donne per lo Sviluppo, per fare formazione in un centro di salute rivolto alla popolazione che vive nei piccoli villaggi della zona di Kirtipur, nella valle di Katmandu. Dopo qualche mese dal devastante terremoto siamo chiamati a fare un intervento sulla popolazione, ancora fortemente traumatizzata anche a causa delle forti scosse che continuano e che fanno sembrare il terremoto “infinito”, alimentando fantasie sulla fine del mondo in un paese bellissimo ma ancora medievale e superstizioso.

di Cristina Angelini ed Edoardo Pera

 

Il pulmino del consultorio che ci sta accompagnando al campo delle famiglie sfollate avanza barcollando su strade malmesse. Arriviamo. Il campo è un pugno di semplici capannoni nell’enorme cortile di una scuola. Ci fanno strada tra erba e fango fino ad un capannone dove, dicono, ci stanno aspettando. Entriamo e ci troviamo di fronte una cinquantina di donne di tutte le età, sedute ordinatamente in un quadrato perfetto su delle stuoie. Cinquanta paia di occhi che ci guardano, attenti, curiosi. Hanno perso le loro case e dal terremoto di aprile 2015 vivono lì nel campo con le loro famiglie.
Interi villaggi sono andati distrutti. Alcuni, persi tra valli e montagne, hanno dovuto aspettare giorni prima che giungessero i soccorsi. Dopo la scossa di aprile ce n’è stata un’altra quasi altrettanto forte a maggio. Poi continue scosse di assestamento, dando la sensazione che il terremoto non finisse mai e complicando non poco l’elaborazione emozionale di questo evento traumatico.

 

Lavorare sui sintomi post-terremoto: EMDR e Mindfulness

Insieme all’avvocatessa Shrijana e alla dottoressa Nafisa chiediamo dei sintomi post-terremoto, che è il nostro primo obiettivo di oggi. C’è chi ha difficoltà a dormire e chi dorme troppo; chi ha incubi e memorie intrusive dell’evento, chi è molto irritabile e chi invece è scollegato da tutto; chi non mangia più e chi invece mangia troppo… E ogni volta ci sono mani alzate che rispondono “Sì, a me capita questo…” Cerchiamo di far capire che è tutto normale dopo un evento del genere. E’ un passo importante e rassicurante per loro sapere che queste reazioni sono previste. Solo se si protraggono ancora più a lungo si può parlare di un disturbo che necessita l’intervento mirato degli specialisti.

Useremo l’EMDR, una tecnica basata sulla stimolazione bilaterale emisferica per elaborare le memorie traumatiche, la meditazione Mindfulness per placare la mente e prendere distanza dalla carica emozionale dell’evento, e tecniche di psicoterapia corporea dell’analisi reichiana.
Dopo questi primi interventi di psico-educazione iniziamo a mostrare dei semplici esercizi di stabilizzazione emozionale per ridurre i sintomi, per placare l’ansia e il senso di instabilità. In questo momento non possiamo ridare loro una casa, ma possiamo aiutarle a trovare un “luogo” interiore più stabile. È nell’interiorità, nel corpo e nel sistema nervoso che le paure non elaborate si radicano ed è lì che dobbiamo operare. Facciamo subito il “Posto sicuro”, un esercizio di stabilizzazione emozionale molto usato prima e dopo i trattamenti EMDR.

Chiediamo di ricordare un momento bello, sereno, di pace e sicurezza vissuto nella loro vita; anche un frammento di esperienza va bene. Chiediamo di entrarci in contatto. Dove era? Quando? Con chi? Chiediamo di ritrovare le sensazioni fisiche, le emozioni correlate a quel momento e di trovare una parola che lo definisca. Se non c’è un’esperienza personale può andar bene anche un luogo dove non siamo stati ma che ci ispiri lo stesso senso di sicurezza. O addirittura un luogo immaginario.
Poi tutti insieme facciamo una stimolazione bi-laterale lenta, che stabilizzi il ricordo e le sensazioni trovate.
È toccante vederle tutte insieme, dalla ragazzina sorridente all’anziana che fa fatica anche a sedersi su una sedia in fondo alla sala, mentre ad occhi chiusi cercano il loro “posto sicuro” interiore.

Proponiamo anche la meditazione della montagna, una tecnica di Mindfulness. Le persone sono invitate a identificarsi con una montagna, che rimane stabile e unita alla terra, mentre tutto intorno cambia: il giorno e la notte, le stagioni, le condizioni climatiche. In modo semplice aiuta a stabilizzarsi e a non identificarsi con gli eventi negativi.

Ce ne andiamo, commossi dall’incontro con queste vite, messe a dura prova da lutti e perdite eppure così piene di voglia di ricominciare, di andare avanti. La preside della scuola, gentile e orgogliosa del suo istituto, è felice che siamo stati lì, ad aiutare le “sue famiglie”. Poi, per un attimo, mentre ci dice che alcuni alunni sono morti nel terremoto ha le lacrime agli occhi.

 

La formazione degli operatori locali

Così, nei dieci giorni di questa breve missione alterniamo l’intervento psico-sociale sulla popolazione (insieme allo staff locale) alla formazione degli operatori stessi. Lavoriamo spesso nel consultorio di Kirtipur, un piccolo centro nella valle di Kathmandu. E’ stato creato da AIDOS circa venti anni fa con i finanziamenti di UNFPA ed è ancora attivo sul territorio nonostante i finanziamenti siano finiti da un pezzo. Accanto al consultorio nel tempo è sorto un piccolo ospedale, gestito dall’associazione partner nepalese.
Gli operatori sono vivaci, motivati, intelligenti, ma presto ci rendiamo conto che l’intervento sullo staff deve avere questa volta un taglio particolare, perché gli operatori sono essi stessi vittime del terremoto, alcuni hanno perso la casa o hanno visto morire qualche parente e manifestano le stesse paure e gli stessi sintomi della popolazione.

Oltre alla Mindfulness e alla formazione sui trattamenti individuali concordiamo di adottare il protocollo EMDR sui gruppi con l’intero staff del consultorio: medici, psicologi, counsellor, assistenti sociali, educatrici, l’avvocatessa, l’infermiera, ma anche l’autista e la signora delle pulizie. Il protocollo EMDR di gruppo parte dall’immagine peggiore del terremoto, disegnata sul 1° quadrante di un foglio diviso in quattro parti, misurando il livello di disturbo ancora presente solo a pensarla ora e facendo poi la stimolazione bilaterale veloce. Si vedono i collegamenti e le elaborazioni che ogni persona fa e che vengono mano a mano disegnate sugli altri quadranti. Dopo cinque sessioni lo staff aveva avuto una significativa riduzione del livello di stress, tranne un’educatrice che aveva visto morire il padre sotto le macerie, il cui livello di stress, anche se ridotto, rimane ancora medio-alto.

In questo lavoro di gruppo è fondamentale una prima fase di ricerca di risorse, esterne e interne, che possano aiutare nell’elaborazione dell’evento traumatico. Un’educatrice ha trovato la propria risorsa nel momento in cui, subito dopo il primo, devastante terremoto, nel mezzo del caos totale, è riuscita a coordinare gruppi di persone prese dal panico, orientandole verso i servizi più utili nella comunità. L’avvocatessa invece ha ricordato il momento in cui, nel mezzo della lunghissima scossa, ha visto il marito che rientrava in casa, mentre tutti scappavano, perché era convinto che lei fosse ancora lì; lo racconta tra le lacrime dicendo che non si era mai sentita così tanto amata. O la psicologa monaca buddista che dopo la scossa ha meditato insieme al suo gruppo nel monastero dove vive.

 

La comunità come risorsa nel superare il trauma

Poniamo l’accento sul fatto che anche la comunità è una risorsa importantissima per superare questi momenti difficili. Di fatto in qualche villaggio ci raccontano che prima la comunicazione tra le persone era più scarsa, ci si salutava e poco più, mentre ora si parla, si condivide, ci si aiuta. Ecco, la possibilità di aiutare gli altri diventa fondamentale in queste situazioni. Molti, sia tra gli operatori che nella popolazione, ci hanno confermato che sono usciti dal senso di paralisi che spesso segue gli eventi traumatici proprio impegnandosi nel soccorrere e aiutare le altre persone coinvolte.
Mentre ripartiamo, altre immagini vengono alla mente, tra le tante che portiamo con noi. La studentessa che è troppo timida per parlare nel gruppo e allora è la sua amichetta con le treccine, disinvolta e loquacissima, che racconta al suo posto il suo essere rimasta sepolta sotto le macerie ed estratta con fatica dai soccorritori. Lo studente dodicenne che visualizza il suo posto sicuro interiore su un’isola lontana ma poi sente che nessun posto è veramente in salvo, è la terra stessa ad essere diventata insicura ovunque, dice. A lui Edoardo suggerisce di provare sulla luna o su un altro pianeta e in effetti funziona, perché ci dice sorpreso di sentirsi molto più tranquillo! E aggiunge che se verrà un’altra scossa saprà fronteggiarla meglio!

Mindfulness durante l’esposizione ai propri pensieri: uno studio su pazienti con disturbo ossessivo compulsivo

Mindfulness con disturbo ossessivo compulsivo: Nello studio preso in considerazione gli autori hanno messo a confronto le strategie di mindfulness e di distrazione proprio durante sedute di esposizione in un campione clinico ipotizzando che coloro che venivano sottoposti alla condizione “mindfulness” avrebbero riportato un livello minore di ansia al termine degli esercizi e un minore impulso alla messa in atto di strategie di neutralizzazione.

Introduzione

Le ricerche in letteratura sul trattamento del Disturbo Ossessivo riportano quasi unanimemente che l’Esposizione con Prevenzione della Risposta (ERP) ottiene i migliori risultati in termini di risoluzione sintomatica.
Per coloro che non hanno compulsioni overt (pure obsessive) esporsi ascoltando la registrazione dei propri pensieri ossessivi “loop tape exposure” è un trattamento indicato (Salkosvskis, 1983), in particolare l’associazione di questo tipo di esposizione, accompagnata da interventi di ristrutturazione cognitiva risultano la miglior combinazione per un esito positivo (Abramovitiz, 2002).

Il presupposto alla base sarebbe quello di facilitare il fenomeno di abituazione ai propri pensieri senza l’utilizzo di strategie di neutralizzazione finchè l’ansia, naturalmente, non decresce.
Tuttavia, il limite maggiore di questi interventi di esposizione (in vivo, in immaginazione o audioregistrato) resta l’alto tasso di drop-out dei pazienti, un aspetto rilevante per la cura di questa tipologia di problematiche e che spesso chi utilizza tecniche come l’ERP si trova a dover fronteggiare.

Mindfulness con disturbo ossessivo compulsivo

Recentemente è stato suggerito che i pazienti con diagnosi di disturbo ossessivo compulsivo potrebbero trarre beneficio da pratiche mindfulness durante l’esposizione stessa (Didonna, 2009; Fairfax, 2008) in modo da renderla meno psicologicamente stressante e cercando di limitare i drop-out dei pazienti.

Kabat-Zinn, (1990) considerato il padre di questa disciplina, definisce la Mindfulness come un’attenzione particolare, rivolta intenzionalmente, al momento presente, in modo non giudicante.
La sostanza della pratica mindfulness sarebbe quindi volta ad incrementare una consapevolezza di quello che accade nel corpo, a livello emotivo e cognitivo attraverso un’osservazione non giudicante di tutto quello che emerge, all’interno e all’esterno di noi, esattamente così com’è, in modo da favorire un atteggiamento di accettazione piuttosto che di soppressione o negazione.
Ciò vale anche, se non soprattutto, per i pensieri, che si possono guardare così come vengono, senza alcuna forma di giudizio, scorrere come “le nuvole nel cielo”.

Si comprende bene come questa attitudine di osservare la propria mente potrebbe essere davvero risolutiva per pazienti con diagnosi di disturbo ossessivo compulsivo che, al contrario, tendono per definizione ad attribuire importanza e significato ai propri pensieri, perdendo il confine tra questi e la realtà.

Mindfulness con disturbo ossessivo compulsivo: lo studio

Un esperimento condotto in Germania ha comparato strategie di distrazione a strategie di mindfulness con pazienti con disturbo ossessivo compulsivo durante sessioni di esposizione ai propri pensieri audio registrati (Wahl, Huelle, Zurovisky et all., 2013).
Dal loro punto di vista le tecniche mindfulness con pazienti con disturbo ossessivo compulsivo sarebbero particolarmente utili per pazienti con questa patologia per tre motivi principali.
Il primo risiede nel fatto che l’attenzione deliberatamente volta ai propri contenuti mentali potrebbe favorire il processo di abituazione.
Il secondo motivo sarebbe quello di modificare l’atteggiamento nei confronti delle proprie ossessioni, in modo da osservarle e descriverle come meri contenuti mentali (questo aiuterebbe i pazienti a non tentare di neutralizzare o sopprimere in modo automatico tali contenuti, incrementando la portata dei pensieri stessi nonché della sofferenza che ne deriva).
Infine, l’esperienza del “lasciar andare” grazie all’utilizzo di metafore che aiutino a vedere i propri pensieri come nuvole che scorrono nel cielo potrebbe cambiare il significato che questi pensieri assumono rendendoli meno soggettivamente pericolosi. Questo non è da sottovalutare poiché quello che differenzia la normale intrusione, dall’ossessione, è proprio il modo in cui il pensiero viene interpretato.

Due recenti studi infatti, avevano tentato di indagare il ruolo di diverse strategie nel gestire il normale presentarsi di pensieri ossessivi (Najimi, 2009; Marks and Woods, 2005) dimostrando come tecniche di soppressione dei pensieri aumentassero il livello di distress rispetto a strategie di accettazione che al contrario risultava abbassarlo. Per quanto riguarda la distrazione non ha portato cambiamenti significativi e resta pertanto un qualcosa da esplorare considerando che è una strategia (disfunzionale) sovente messa in atto da pazienti con ossessioni (per il fatto che abbassa il livello di ansia almeno nell’immediato).

Nello studio preso in considerazione gli autori hanno pertanto messo a confronto le due strategie proprio durante sedute di esposizione in un campione clinico ipotizzando che coloro che venivano sottoposti alla condizione “mindfulness” avrebbero riportato un livello minore di ansia al termine degli esercizi e un minore impulso alla messa in atto di strategie di neutralizzazione.

Trenta pazienti con diagnosi di disturbo ossessivo compulsivo sono stati pertanto esposti ai propri pensieri in tre tempi diversi alla baseline, durante la condizione sperimentale e nuovamente di ritorno alla baseline ed è stato misurato il loro livello di ansia nei tre momenti e l’impulso alla neutralizzazione.
Nella condizione sperimentale i pazienti, randomizzati in due gruppi, sono stati istruiti a mettere in atto o strategie di mindfulness o strategie distrattive. E al termine dell’esperimento è stato valutato in che misura siano riusciti a rispettare le istruzioni e quanto le abbiano trovate utili in una scala likert 0-4.

Le istruzioni di mindfulness sono state ricavate e adattate dal modulo “i pensieri non sono fatti” del MBCT (Mindfulness Based Cognitive Therapy, Segal 2002), nel quale il partecipante è incoraggiato a vedere i propri pensieri come eventi mentali transitori portandovi intenzionalmente la propria attenzione.

Mindfulness con disturbo ossessivo compulsivo: i risultati dello studio

I risultati sono in linea con le ipotesi degli autori. Coloro che sono stati istruiti a eseguire strategie di mindfulness riportano una maggiore diminuzione di ansia e una minore urgenza a neutralizzare. Sebbene risultati in questo senso siano visibili anche nella condizione di distrazione risultano minori soprattutto comparando la base iniziale con quella finale.
Non si riscontano differenze nel grado di “utilità” che i pazienti riferiscono a parte per la slide di introduzione del gruppo nella condizione mindfulness (“i pensieri sono solo pensieri, non fatti”) che è stata trovata significativamente più utile.

Le implicazioni cliniche sono certamente rilevanti. Sebbene entrambe le condizioni riportino effettivamente una diminuzione dei livelli di ansia, la capacità di mantenerli nel lungo termine è maggiore nella condizione “mindfulness” poiché le strategie possono essere adottate per favorire il fenomeno di abituazione andando a contrastare la tendenza alla sopressione dei pensieri tramite meccanismi distraenti che non permettono, al contrario, questo processo.

È importante tenere a mente che questo tipo di procedura può tentare di arginare il tasso di drop-out nel paziente sottoposto all’esposizione ai propri pensieri ossessivi e il valore che queste tecniche possono avere nella prevenzione alla ricaduta.
È inoltre rilevante il fatto che sono i soggetti stessi a definire come utili determinate modalità di gestione dei propri pensieri; questo può davvero rendere migliore la compliance al trattamento e limitare il tasso di drop-out.

Mindfulness con disturbo ossessivo compulsivo: conclusioni

È indiscusso che nel presente studio gli aspetti presi in prestito dai protocolli MBCT non siano assolutamente esaustivi. La mindfulness prevede pratiche meditative formali quotidiane e numerosi altri aspetti che non vengono presi in considerazione in questa procedura sperimentale per ovvie ragioni pratiche.

Tuttavia lo studio senza dubbio sottolinea la funzionalità di questo atteggiamento volto alla consapevolezza piuttosto che alla distrazione, una differenza importante per il paziente affetto da sintomi ossessivi in modo da avere un metodo funzionale di gestione dei propri pensieri e favorendo i fenomeni di abituazione agli stessi.

Webinar: Alcologia: la consulenza, la diagnosi e il trattamento

Webinar Alcologia: la consulenza, la diagnosi e il trattamento

Martedì 15 marzo dalle 20,30 alle 22

 

Dopo il successo del primo appuntamento dedicato alla dipendenza da alcool torniamo ad approfondire l’argomento insieme alla Dott.ssa Sacchelli, questa volta concentrandoci maggiormente sul trattamento delle patologie legate all’alcol.

Normalità o patologia? Quale è il confine che definisce e distingue il consumo di alcolici sano da quello problematico? L’insufficiente conoscenza scientifica dell’argomento e la larga diffusione del consumo di alcolici, fa sì che le persone che gradualmente sviluppano un rapporto patologico con l’alcol – e spesso anche chi sta loro vicino – sottovalutino i segnali precoci della insorgenza del problema. I pregiudizi, le false credenze e lo stigma sociale che si associano alla patologia alcologica determinano gravi ritardi nella richiesta di aiuto e la attuazione di maldestri tentativi di risolvere il problema. Ma sempre più spesso capita che le persone – direttamente interessate, o in qualità di partner o familiare – si rivolgano ad un professionista della salute chiedendo una consulenza sulle tematiche alcologiche.  Se tale professionista è uno psicologo con una formazione specialistica adeguata, questi sarà in grado di raccogliere nei colloqui col paziente ed i familiari quegli elementi informativi che gli consentono di formulare una diagnosi  alcologica e di orientare agli interventi  trattamentali multidisciplinari più opportuni. In questi due incontri dedicati al Disturbo da uso di alcol verrà introdotto l’argomento in una prospettiva scientifica; verranno illustrate le modalità indicate per la costruzione del setting consulenziale col paziente ed i familiari; verranno descritti alcuni strumenti diagnostici; verranno analizzati i trattamenti, con attenzione specifica ai trattamenti psicoeducazionale e psicoterapeutico;  verranno spiegate alcune modalità di presa in carico in equipe multidisciplinari e in collaborazione con i gruppi di auto-aiuto.

Cinzia Sacchelli è psicologa, psicoterapeuta. Laureata presso la Università degli Studi di Padova, si è specializzata in Psicoloterapia dopo aver frequentato Il Centro Studi Psicoanalitici di via Ariosto a Milano. Dal 1991 opera nell’ambito delle dipendenze, prima collaborando con alcune Comunità Terapeutiche e con un reparto ospedaliero di Alcologia; poi lavorando come Psicologo in un SerT. Nel 1999 si è trasferita a Milano, dove per la ASL Milano ha avviato con un gruppo di colleghi un Nucleo Operativo Alcologia (NOA) di cui da allora è Responsabile. Ha effettuato numerose attività didattiche ed alcune pubblicazioni di settore. Dal 2014 è Presidente della sezione lombarda della Società Italiana Alcologia.

Per garantire agli iscritti una maggiore capacità di approfondimento della tematica oggetto del seminario quest’ultimo è stato articolato in due appuntamenti, quello del 1 marzo  2016  – già svoltosi – e quello del 15 marzo alle 20.15  entrambi presso la Casa della Psicologia in Piazza Castello 2 a Milano, o alle 20.30 degli stessi giorni sulla piattaforma gotowebinar di OPL.

Per partecipare via web all’evento del 15 marzo, ti invitiamo a iscriverti seguendo il form disponibile in questa pagina (https://attendee.gotowebinar.com/register/1328337962700924929). Se desideri partecipare dal vivo puoi mandare una mail a [email protected] ma devi arrivare almeno un quarto d’ora prima dell’inizio del seminario (quindi alle 20.15).

Per partecipare via web, ti invitiamo a iscriverti seguendo il form disponibile in questa pagina (https://attendee.gotowebinar.com/register/3144381526915035394). Se desideri partecipare dal vivo puoi mandare una mail a [email protected] ma devi arrivare almeno un quarto d’ora prima dell’inizio di ciascun seminario (quindi alle 20.15).

Vittime di stalking: effetti psicopatologici e intervento

Quali sono le conseguenze psicologiche per le vittime di stalking? Qual è la strategia migliore per poterle aiutare efficacemente a guarire dai segni di tale forma di violenza?

Giulia Fuse’ e Camilla de Nadai – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi Modena 

L’obiettivo di questo articolo è cercare di comprendere il fenomeno dello stalking e le dinamiche emotive esperite dalle vittime, al fine di adottare la strategia migliore per poterle aiutare efficacemente a riacquisire un benessere psicofisico.

 

Definizione e inquadramento dello stalking

Io non sono un nemico, è per amore che ti inseguo‘ sono le parole di Apollo rivolte alla sua amata Dafne, nell’opera di Publio Ovidio Nasone ‘Le metamorfosi’.

Già nei secoli scorsi sono rintracciabili atteggiamenti che riconducono allo stalking, tuttavia solo di recente il fenomeno ha trovato un nome e una precisa collocazione in ambito psicologico e psichiatrico.

Negli anni ’60 gli studiosi iniziarono ad utilizzare il termine star-stalking per riferirsi al continuo assedio di ammiratori, psichicamente disturbati, ai danni di persone famose. Ne sono stati un esempio i Beatles in Inghilterra, l’attrice Rebecca Schaeffer a Los Angeles nel 1989. Nel caso di quest’ultima, la persecuzione da parte di un fan con disturbi psichici, si concluse con l’assassinio dell’attrice.

Molti altri personaggi del cinema, della televisione e della politica, nel tempo sono stati vittime di stalking. Ricordiamo Jodie Foster, Sharon Stone, Nicole Kidman, Madonna, Steven Spielberg, la campionessa di tennis Monica Seles, e anche Michelle Hunziker.

Dopo molti casi avvenuti con eventi eclatanti e modalità comuni, lo stalking assunse una valenza sociale di primaria importanza (Curci, 2003).

Lo stalking cominciò ad evocare una sinistra immagine di persecuzione e di violenza incombente, tanto da stimolare anche il mondo del cinema a trattarlo come tema in molti film. In essi, venivano messe in scena vicende di persecuzione ossessiva e paranoide. Per citarne qualcuno tra i più famosi: Attrazione fatale (Adryan Lyne, 1987), Duel (Steven Spielberg, 1971), The bodyguard (Mick Jackson, 1992), One hour photo (Mark Romanek, 2002), A letto con il nemico (Joseph Ruben, 1991).

Nelle comunità scientifica italiana, il problema ha suscitato interesse già a partire dal 2003, ma il reato è stato introdotto con il D.L. n. 11 del 23 febbraio 2009, dedicato alle misure urgenti in materia di sicurezza pubblica e di contrasto alla violenza sessuale, nonché in tema di atti persecutori. Il D.L. poi è stato convertito in legge il medesimo anno, il 23 aprile 2009, legge n° 38, prevedendo l’art. 612-bis del codice penale (Bartolini, 2009).

 

La definizione di stalking

Per stalking, oggi, si intende un insieme di comportamenti molesti e continui, costituiti da ininterrotti appostamenti nei pressi del domicilio o degli ambienti comunemente frequentati dalla vittima. Tali atti sono reiterati e integrati da intrusioni nella sua vita privata, alla ricerca di un contatto personale per mezzo di pedinamenti, telefonate oscene o indesiderate, invio di lettere, biglietti, posta elettronica, sms e oggetti non richiesti.

Il termine origina dal verbo ‘to stalk‘ che in inglese è usato nell’ambito della caccia ed è traducibile come ‘caccia in appostamento’, ‘pedinamento furtivo’.

Secondo alcune ricerche condotte nel 2002, affinchè si possa parlare di stalking, devono essere presenti almeno tre caratteristiche principali.

Innanzitutto deve trattarsi di una serie di comportamenti, almeno dieci intrusioni, diretti ripetutamente verso uno specifico individuo, per un periodo continuativo di alcune settimane. Se ne ipotizzano almeno quattro. Inoltre tali atteggiamenti devono essere esperiti come intrusivi e sgraditi alle vittime di stalking. Infine i medesimi devono creare, in quest’ultima, una sensazione di disagio, di paura e di ansia (Aramini, 2002).

 

La personalita dello stalker

Lo stalker è colui che compie ciò che oggi viene definito reato di molestie assillanti, creando ansia e paura nella vittima. Non è ancora stata stabilita una classificazione ampiamente accettata delle caratteristiche dello stalker. A partire dalle scelte teoriche e dalle necessità pratiche, esiste un gran numero di diverse classificazioni e raggruppamenti creati da esperti di diversi ambiti.

I primi a proporre una classificazione sono stati Zona, Sharma e Lane (1993). Essi hanno basato la loro rassegna su 74 fascicoli dell’Unità di gestione delle minacce del Dipartimento di Polizia di Los Angeles, che successivamente fu arricchita di altri 126 casi.

Nel 1995, Harmon, Rosner, Owens suddivisero gli stalker in base alla natura del legame di attaccamento con le loro vittime di stalking o alla tipologia della relazione con essa instaurata. Vennero considerati 48 casi seguiti presso la Criminal and Supreme Court of New York.

Gli autori descrissero due stili di attaccamento degli stalker nei confronti delle vittime:

  • Attaccamento affettivo-amoroso
  • Attaccamento persecutorio-irato.

Negli anni sono state fatte molte altre classificazioni, ma la più importante, risulta quella ideata da Mullen e Purcell (2000). Essi hanno considerato un campione di 145 valutazioni cliniche di casi di stalking, con un approccio multi assiale.

Il primo asse riguarda la motivazione dello stalker e il contesto in cui agisce. È infatti importante riuscire a cogliere la funzione del comportamento dello stalker, sia in termini di bisogni e desideri che cerca di soddisfare, sia in termini di comprensione delle gratificazioni come elemento di rinforzo, che possono far perpetuare il comportamento persecutorio. È fondamentale inoltre, comprendere il contesto nel quale tale condotta si manifesta, per poter meglio comprendere gli obbiettivi e le strategie dello stalker.

ll secondo asse riguarda la natura del rapporto preesistente con le vittime di stalking. Esso comprende l’analisi dei rapporti con partner precedenti, i suoi contatti professionali, i rapporti con gli amici e i conoscenti.

Il terzo asse include la diagnosi psichiatrica, all’interno della quale si distinguono due ambiti:

  1. Il primo racchiude il gruppo psicotico e comprende patologie quali la schizofrenia, i disturbi deliranti, le psicosi affettive e le psicosi organiche;
  2. Il secondo gruppo comprende le patologie non psicotiche, tra cui rientrano i disturbi di personalità, i disturbi d’ansia e i disturbi dell’umore.

Analizzando e integrando tutti e tre gli assi si possono fare previsioni riguardo:

  • La durata dello stalking,
  • La natura dei comportamenti di stalking,
  • Il rischio di minacce e di violenze
  • La risposta e la strategia di gestione.

 

I fattori correlati allo stalking

In un articolo pubblicato sul Journal of Criminal Justice (Patton, Nobles, Fox, 2010), emerge una relazione tra stalking e teoria dell’attaccamento. Problemi di comportamento e di personalità possono essere correlati a tali comportamenti.

Nello specifico è stata riscontrata una comorbilità tra la personalità dello stalker e disturbi di personalità di asse II cluster B (Sansone RA, Sansone LA, 2010; Evans TM, Reid Meloy J., 2011). Le caratteristiche dello stalker, pertanto, possono essere definite partendo dai modelli dell’attaccamento del bambino con la madre, proposti da Bowlby (1969, 1973).

Nello studio svolto da Patton, Nobles e Fox (2010) si cerca di determinare quale attaccamento disfunzionale possa essere associato a questi comportamenti. Dai risultati della loro ricerca emerge che l’attaccamento insicuro-ambivalente-ansioso è significativamente associato a comportamenti di stalking, mentre l’attaccamento insicuro evitante non lo è. Le tipologie di individui che presentano attaccamento di questo tipo si caratterizzano da ansia nelle relazioni e tendono a mettere in atto comportamenti che sono associati a gelosia e rabbia verso il partner; o mettono in atto comportamenti intrusivi, molesti e persecutori nei confronti dell’ex partner. Sono modi disfunzionali che rispondono all’esigenza di rispondere al conflitto relazionale.

 

I sintomi e i disturbi presenti nelle vittime di stalking

Sono state svolte diverse ricerche per valutare quali conseguenze si possano avere sulle vittime di stalking. Una delle prime è quella postulata da Pathè e Mullen (1997). Nella loro ricerca condotta su un campione di 100 vittime australiane di stalking, emerge che le vittime di stalking hanno riportato gravi ripercussioni a livello psicologico, lavorativo e relazionale.

Il 94% ha riferito di aver avuto notevoli cambiamenti nello stile di vita e nelle attività quotidiane; il 70% ha riferito di aver avuto una notevole diminuzione delle attività sociali; il 50% ha diminuito o persino cessato l’attività lavorativa.
Il 34% ha cambiato lavoro e il 40% residenza. Il livello di ansia è aumentato nell’80% dei casi. Molte vittime di stalking hanno riportato disturbi cronici del sonno (75%) e pensieri ricorrenti riguardanti l’evento traumatico (55%). Il 50% ha avuto disturbi alimentari, stanchezza, debolezza e cefalee. Una piccola parte, infine, ha avuto problemi di depersonalizzazione (38%), incremento di uso di alcool e nicotina (25%) e persino pensieri di suicidio (25%).

Questi dati indicano la percezione soggettiva delle vittime, e soddisfano pienamente i criteri diagnostici tipici del Disturbo Post Traumatico da Stress (PTSD).

Anche uno studio svolto in Olanda (Kamphuis et al., 2001, 2003) su un campione di 200 vittime di stalking, ha documentato l’insorgenza, nelle vittime, di sintomi psicologici rilevanti e di numerosi casi in cui si configura una diagnosi di disturbo post traumatico da stress. La gravità dei sintomi è comparabile a quella che si riscontra nei soggetti che hanno subito classici traumi, come disastri aerei, rapine a mano armata e gravi incidenti automobilistici. Le vittime di stalking, quindi, riportano una serie di disturbi conseguentemente alle molestie subite, che modificano notevolmente la qualità della loro vita.

Gargiullo e Damiani (2008) riscontrano, prevalentemente, le seguenti patologie:

  • Il Post-Traumatic Stress Disorder (PTSD) conseguente a uno o più eventi di forte impatto emotivo, come ad esempio minacce di morte, gravi lesioni, atti persecutori persistenti e angoscianti. Il disturbo si manifesta attraverso sogni e ricordi invasivi ego distonici, sensazioni che l’evento traumatico si ripeta e disagio psicologico, in conseguenza a stimoli esterni o interni, che presentano caratteristiche simili all’evento traumatico. Tali sintomi possono condurre la persona a manifestare diversi comportamenti: evitare qualunque stimolo associato al trauma, con conseguenti amnesie dissociative; ridurre l’interesse per le attività sociali; avere un distacco emotivo dall’ambiente; avere un’affettività ridotta e una visione negativa del futuro.
  • Il Complex Post-Traumatic Stress Disorder (C-PTSD) conseguente ad un’esposizione prolungata a un trauma cronico, ad esempio abusi fisici, abusi emozionali, abusi sessuali e maltrattamenti ripetuti nel tempo. È stato definito da Van der Kolk e Courtois (2005), un disturbo che descrive perfettamente le conseguenze dell’impatto negativo e quindi la perdita di sicurezza, di fiducia, di valore e di autostima. Include evidenti difficoltà a livello emozionale e interpersonale. I sintomi sono svariati: difficoltà nella regolazione delle emozioni, rivivere costantemente gli episodi traumatici, cambiamenti nell’auto percezione e nella percezione del proprio molestatore, alterazione nelle relazioni con gli altri e perdita di fiducia. Tutte queste problematiche sono spesso presenti nella maggior parte delle vittima di stalking (Gargiullo, Damiani, 2008).
  • Somatizzazioni, ovvero disturbi fisici che non hanno alcuna base organica che possa dimostrarne l’origine; questi sono in stretto rapporto con l’ansia e il grave disagio emotivo che la vittima prova.
  • Avversione sessuale: spesso episodi di stalking, con violenze fisiche o sessuali, portano la vittima ad avere un’avversione sessuale. Esse sviluppano un disturbo d’ansia caratterizzato da disgusto, paura, repulsione diminuzione della libido (desiderio sessuale). Le vittime di stalking possono mettere in campo diverse strategie disfunzionali di protezione, come ad esempio andare a letto presto, trascurare il proprio aspetto fisico, dedicare eccessivo tempo al lavoro o allo sport.
  • Vaginismo: infine, può riscontrarsi un disturbo di vaginismo, per cui si contraggono involontariamente i muscoli perineali che circondano il terzo esterno della vagina, rendendo dolorose e quasi impossibili le relazioni intime.

Dal punto di vista psicologico ed emozionale, i sintomi più comunemente riportati dalle vittime di stalking sono paura, ansia, rabbia, sensi di colpa, vergogna, disturbi del sonno, reazioni depressive con sensazioni di impotenza, disperazione, paura e comparsa di ideazione suicidaria. Sul piano della salute fisica sono stati riscontrati disturbi dell’appetito, abuso di alcool, insonnia, nausea e aumento dell’uso di sigarette.

Tuttavia le vittime di stalking non sviluppano in modo deterministico un disturbo. I sintomi possono essere transitori e associati alla resilienza di un soggetto, ovvero alla sua capacità di adattarsi, a fronte di un evento traumatico.

 

Intervento psicoterapeutico per le vittime di stalking

Dal quadro sintomatologico descritto, si evince quanto sia importante che le vittime di stalking possano sentirsi sicure e accolte da un ambiente terapeutico empatico e non giudicante, capace di favorire la comprensione e la fiducia.

È necessario che il trattamento terapeutico avvenga parallelamente alla messa in atto di strategie pratiche anti-molestie e che si sia compiuto ogni sforzo possibile per mantenere o ristabilire il sostegno sociale delle vittime, al fine di ridurre, il più possibile, gli stress secondari che possono ostacolare la guarigione.

Attualmente non sono stati prodotti studi in merito all’efficacia dei trattamenti delle vittime di stalking, ma si è osservato che per il trattamento del Disturbo Post-Traumatico da Stress, molto simile per sintomatologia, gli interventi psicologici che hanno maggiori risultati positivi sono quelli di impronta cognitiva, in quanto evidence based (Curci et al., 2003).

Il Modena Group on Stalking è un gruppo multidisciplinare europeo, che è stato costituito nel 2003 da un gruppo di studiosi europei, tra cui psichiatri, criminologi, medici legali e giuristi, che per primo si è occupato di questo fenomeno, attraverso un’intensa attività di ricerca condotta in una prospettiva internazionale e multidisciplinare. Il centro di coordinamento ha sede presso l’Università di Modena e Reggio Emilia, ma gli studiosi provengono da diversi paesi tra cui Italia, Belgio, Inghilterra, Olanda, Slovenia e Spagna (Modena Group on Stalking, 2005).

Secondo l’approccio cognitivo comportamentale, nella prima fase della cura è importante iniziare con una psico – educazione sullo stalking, sulle probabili reazioni dello stalker e sulle prevedibili reazioni psicologiche delle vittime di stalking. Successivamente, in base alle risposte della vittima, ci si orienta in modo differente per affrontare il problema. Si cerca, quindi, di incoraggiare la vittima a richiedere un sostegno sociale e legale, a interrompere qualsiasi contatto con lo stalker e ad adottare misure preventive di protezione, come ad esempio traslocare o cambiare lavoro. In alcuni casi, si consiglia di prendere lezioni di auto-difesa, per ridurre i propri sentimenti di impotenza ed aumentare la fiducia in se stessi.

Ci si concentra, inoltre, soprattutto sull’elaborazione emotiva degli episodi di stalking. Le vittime, infatti, hanno subito una modifica delle loro precedenti convinzioni di base, riguardo la ragionevolezza e la sicurezza dell’ambiente in cui vivono e hanno messo a dura prova il loro equilibrio. Hanno un estremo senso di vulnerabilità e ansia di subire un’aggressione da un momento all’altro.

La terapia cognitiva, in questo caso, mira a ristrutturare le convinzioni patologiche che minacciano il funzionamento delle vittime di stalking, dando loro la possibilità di formarsi una visione più realistica e accettabile del proprio senso di sicurezza. Quando lo stalking è ancora in corso, i timori della vittima hanno una base reale, quindi gli strumenti cognitivi, vanno comunque forniti senza perdere di vista il problema reale della sicurezza. Può risultare utile integrare anche interventi comportamentali, come compiti di esposizione graduale e di desensibilizzazione, che possono aiutare a riprendere gradualmente le attività precedentemente abbandonate e a superare l’ansia.

La farmacoterapia può costituire un intervento aggiuntivo a quello psicologico, soprattutto nei casi in cui le vittime di stalking sviluppano sintomi psichiatrici disabilitanti. Poiché, solitamente, le vittime non hanno precedenti esperienze di disturbi psichiatrici, è estremamente importante che le dosi iniziali siano basse, per evitare effetti indesiderati che potrebbero aggravare la sofferenza. Sarebbe consigliato evitare l’uso di benzodiazepine e di altre sostanze che possano indurre dipendenza, dato il frequente protrarsi delle molestie e del relativo trattamento.

Inoltre è da considerare che l’abuso di sostanze è un rischio frequente nelle vittime di traumi e spesso questi farmaci possono peggiorare il cattivo funzionamento sociale e cognitivo delle vittime.

Importantissimo, è anche, considerare l’elevato tasso di idee suicidarie presenti nelle vittime di stalking, e quindi fare particolare attenzione alle proprietà disinibenti dei farmaci prescritti, per evitare le prescrizioni potenzialmente letali, se assunte a scopo autolesivo. I farmaci che sembrano più utili, invece, sono gli antidepressivi di nuova generazione, inibitori selettivi della ricaptazione della serotonina (SSRI), che sembrano efficaci anche nel trattamento del Disturbo Post-Traumatico da Stress (Friedman, 2000). Anche farmaci come il nefazodone, con proprietà di blocco serotoninergico e istaminergico, e gli antidepressivi noradrenergici e serotoninergici specifici (NaSSA) appaiono utili nel trattamento delle vittime di stalking (Curci et al., 2003).

Le vittime possono trovare beneficio, inoltre, dai gruppi di auto-aiuto, in cui vengono ridotti i sentimenti di isolamento e prevale un senso di reciproca comprensione e conferma. Nel percorso è importante anche includere il partner, se presente, e i familiari più significativi. Essi, spesso, possono essere fonte di informazioni collaterali, che permettono di sviluppare strategie migliori per affrontare il problema. Essi possono anche sostenere la vittima nelle sue esigenze di sicurezza (Curci, 2003).

Il rifiuto scolare: un caso clinico sul senso di vulnerabilità personale

I sintomi di rifiuto scolare si presentano di solito in modo graduale. Possono cominciare dopo un periodo di vacanza o dopo una malattia, più raramente al rientro dopo il fine settimana, ed essere preceduti da eventi stressanti. L’angoscia si manifesta in modo intenso e spesso tragico quando giunge il momento di uscire per andare a scuola.

David Palazzoni

Riassunto

In questo lavoro si cercano evidenze nell’espressione psicopatologica dell’ansia in un continuum tra agorafobia e rifiuto scolare. In particolar modo, si pone attenzione allo sviluppo processuale di un’organizzazione di tipo fobico in relazione agli scompensi attivati dalla paura. In conclusione viene illustrato il caso clinico di un adolescente, con esplorazione del comportamento fortemente limitata da questi disagi, trattato secondo il modello cognitivo post-razionalista.

Parole chiave: rifiuto scolare, psicoterapia cognitiva post-razionalista, agorafobia

Dal punto di vista etimologico, il termine “ansia” deriva dal latino “angere” che significa “stringere, soffocare”. È un’emozione complessa intesa come “un primitivo stato di allarme automatico neurofisiologico che coinvolge la valutazione cognitiva di un’imminente minaccia o pericolo alla sicurezza di un individuo” (Clark & Beck, 2010). Per “paura” si definisce, invece, una risposta emotiva ad una minaccia o ad un pericolo ben riconoscibile e di solito esterno.

Dal punto di vista esistenziale, l’ansia svolge precise funzioni adattive: orientata prevalentemente al futuro, segnala lo stato di successo o di fallimento (attuale o previsto) nel raggiungere i nostri obiettivi e attiva l’organismo nella direzione del loro raggiungimento. Un’altra funzione, forse ancora più importante, è quella di costituire una tipica risposta alle situazioni di pericolo (reale o presunto tale). Ciò che accomuna e differenzia le risposte emotive ad una situazione è il loro contenuto cognitivo e la reazione somatica che le accompagna. Il contenuto cognitivo riguarda generalmente la percezione di un pericolo imminente. L’emozione esperita sarà tanto più intensa quanto più grande si ritiene essere il pericolo. La reazione somatica, invece, consiste in uno stato di allarme che ha il fine di porre l’organismo nelle condizioni migliori per opporsi o mettersi in salvo (attraverso lo schema comportamentale di “attacco o fuga” che condividiamo con gli animali).

Proviamo ora a definire cosa accade quando una persona soffre di un disturbo d’ansia:
nel modello cognitivo è importante tener presente che il problema principale è rappresentato da schemi inappropriati, i quali costruiscono costantemente l’esperienza interna ed esterna dell’individuo in termini di pericolo. L’ansia può quindi essere spiegata secondo la seguente formula (Mancini, 2006):

Ansia

Il confine tra ansia funzionale e disfunzionale non sempre è facilmente rintracciabile. In linea generale, le esperienze di vita, l’educazione e la società plasmano l’idea che ognuno di noi ha del livello di pericolosità del mondo esterno e delle capacità nel fronteggiare i pericoli. Su queste basi costruiamo la percezione di noi stessi e strutturiamo modelli di comportamento al fine di evitare esperienze inutilmente dolorose. Quando l’attivazione ansiosa viene percepita come qualcosa di pericoloso dentro di noi oppure come prova della nostra inadeguatezza, l’ansia smette di svolgere la sua funzione adattiva trasformandosi in una difficoltà da gestire. A quel punto, i sintomi possono prendere il sopravvento assorbendo gran parte della giornata in pensieri e comportamenti connessi al controllo o all’evitamento della situazione temuta.

Basi biologiche dell’ansia e circuito della paura

In linea con l’approccio bio-psico-sociale (Engel, 1977), si prendono ora in considerazione le basi biologiche sottese alla paura, all’ansia e ai disturbi correlati.
Il talamo svolge una funzione di collegamento fondamentale tra i sistemi sensoriali esterocettivi (uditivi, visivi, somatosensoriali) e le aree sensoriali primarie della corteccia che proiettano l’input sensoriale alle aree adiacenti associative per l’elaborazione dello stimolo. Le aree associative corticali inviano quindi proiezioni a varie strutture cerebrali, come amigdala, corteccia entorinale, corteccia orbitofrontale e giro del cingolo. La maggior parte delle informazioni relative agli stimoli che inducono ansia e paura viene dapprima elaborata nella corteccia sensoriale e nelle aree associative per essere trasferita poi alle strutture sottocorticali coinvolte nelle risposte affettive, comportamentali e somatiche. L’amigdala è l’area del cervello responsabile dell’acquisizione ed espressione della paura condizionata. Le interazioni neuronali tra l’amigdala e le altre regioni corticali e limbiche consentono la messa in atto di comportamenti di reazione al pericolo dipendenti da molteplici variabili quali le caratteristiche biologiche dell’individuo, le pregresse esperienze, la contingente situazione emozionale, ecc.

Modulazione cognitiva e percettiva dell’amigdala sul comportamento emozionale

circuito dell'ansia

In tal senso, l’importanza del carico stressogeno di un evento risulta più correlato alla valutazione soggettiva di un individuo che alla realtà obiettiva dell’evento stesso (LeDoux, 2000; McGaugh, McIntyre, Power, 2002). Una differente decodificazione corticale dello stressor, influenzata dal contesto e dalle caratteristiche individuali, attiva la risposta emozionale a livello del lobo limbico e, da questa area, l’asse ipotalamo-ipofisi-surrene: ne deriva una cascata di eventi finalizzati all’incremento della risposta neurovegetativa (es. aumento pressione arteriosa, frequenza cardiaca, dilatazione bronchiale, ecc.).

Un ruolo peculiare riscontrato nell’amigdala riguarda il campo dell’incertezza, costrutto che sta alla base di molti paradigmi d’ansia, soprattutto anticipatoria. Si pensi, ad esempio, a quanto possa pesare tale concetto nel caso di un paziente oncologico in attesa di fare un controllo per lo stato di salute. Studi animali e di neuroimaging umano hanno dimostrato che l’amigdala sia coinvolta nell’apprendimento dell’ansia e nella valutazione di uno stimolo pericoloso e che anche venga attivata nelle fasi di incertezza o quando il livello di minaccia non risulti chiaro (Rosen, Donley, 2006).

L’esposizione allo stress determina una modificazione dei sistemi neurotrasmettitoriali del Sistema Nervoso Centrale (SNC), in particolare della noradrenalina (NA), della serotonina (5-HT) e della dopamina (DA), oltre al coinvolgimento del sistema gabaergico, con riduzione della funzione inibitoria dell’acido γ-amino butirrico (GABA) e liberazione di sostanze endogene ad azione ansiogenica. Le vie efferenti del circuito ansia-paura innescano una risposta autonomica che coinvolge il sistema simpatico e parasimpatico. L’attivazione simpatica determina un aumento della pressione arteriosa e della frequenza cardiaca, sudorazione, piloerezione e dilatazione pupillare. L’attivazione parasimpatica può essere collegata ai sintomi viscerali associati all’ansia, come i disturbi gastrointestinali e genito-urinari.

Detto questo, nella fisiopatologia dei disturbi d’ansia è stata da tempo ipotizzata l’esistenza di un “circuito della paura” centrato sull’amigdala, in base al suo ruolo nell’attribuire un significato emotivo ad uno stimolo e nello sviluppo della memoria legata ad un’emozione (Charney, 2003; Perna, 2004; Bartz, Hollander, 2006).
Un importante feedback all’amigdala, nel modulare la risposta ansiosa, proviene dalle aree prefronto-corticali: la corteccia prefrontale mediale risulta infatti in grado di attenuare le risposte di paura e di estinguere le risposte ad una paura condizionata da uno stimolo, in particolare informando l’amigdala quando la minaccia è terminata (Kent, Rauch, 2003). Anche l’ippocampo risulta coinvolto in tale circuito agendo sui meccanismi di condizionamento (Bartz, Hollander, 2006).
In conclusione, l’amigdala esercita una funzione di controllo e attivazione su una vasta gamma di risposte emozionali e/o somatiche, interagendo con un’ampia serie di nuclei encefalici, ognuno modulante una specifica risposta psicofisiologica.

ansia-paura

Il rifiuto scolare

Dopo il necessario approfondimento fisiologico, è intenzione di questo articolo affrontare una diffusa problematica dell’infanzia e dell’adolescenza conosciuta in letteratura col termine di “fobia scolare”. Alcuni autori (Kearney e Silverman, 1996; Bowlby, 1975) suggeriscono la più ampia definizione di “rifiuto scolare” per identificare il blocco ad andare a scuola o la difficoltà a rimanervi per l’intera giornata a causa di un livello eccessivo di ansia, preoccupazione e depressione. Il rifiuto scolare non va confuso con l’assenza ingiustificata; quest’ultimo è un comportamento in cui nel bambino/ragazzo è assente la paura eccessiva di frequentare la scuola; inoltre, l’assenza ingiustificata è spesso associata a comportamenti antisociali e mancanza di interesse per la propria formazione disciplinare (Fremont, 2003). Il ragazzo che soffre di rifiuto scolare può assentarsi fin dall’inizio della giornata, o può recarsi a scuola e poi, dopo poche ore, chiedere di tornare a casa. Durante le ore scolastiche il bambino resta a casa, in un ambiente fidato e sicuro, dedicandosi in modo sereno ad altre attività. L’aspetto innovativo degli studi di Kearney è un approccio funzionale che permette di discriminare le situazioni dove l’assenza a scuola non è legata a motivi ansiosi e focalizzarsi sul significato che il comportamento di rifiuto ha per il bambino.

I sintomi di rifiuto scolare si presentano di solito in modo graduale. Possono cominciare dopo un periodo di vacanza o dopo una malattia, più raramente al rientro dopo il fine settimana, ed essere preceduti da eventi stressanti. L’angoscia si manifesta in modo intenso e spesso tragico quando giunge il momento di uscire per andare a scuola. I bambini più piccoli mostrano dei comportamenti di grave agitazione e vengono presi dal panico, protestando e giungendo a supplicare i genitori con la promessa di recarsi a scuola l’indomani. Qualora i bambini in preda a questa crisi di ansia vengano costretti ad andare a scuola, possono nascondersi, piangere disperatamente o persino tentare di scappare per tornare a casa propria, il solo luogo in grado di rassicurarli veramente.

I bambini più grandi, già dall’età di 5-7 anni, tendono a mettere in atto meccanismi di difesa più sofisticati per rendere meno evidente l’angoscia; più frequentemente presentano sintomi di somatizzazione come cefalee, dolori addominali, vomito, astenia e perfino febbre. La persistenza dei sintomi fisici tende a diminuire in modo naturale nel fine settimana e in prossimità delle vacanze.

La fobia scolare è accompagnata spesso da uno studio molto impegnato a casa al punto che le lunghe assenze possono non inficiare la preparazione dell’anno in corso. I ragazzi vengono semmai bocciati per un discorso di regolamento disciplinare, avendo ecceduto il limite di assenze consentito. Ciò non toglie che un atteggiamento del genere favorisce una problematica secondaria di insicurezza rispetto alla conoscenza dei moduli svolti.

Epidemiologia

La letteratura indica che circa il 5-28% della popolazione in età scolare può soffrire di questo problema con dei picchi nei momenti di passaggio da un ciclo scolastico all’altro. Non vi sono differenze legate al genere né all’aspetto socioeconomico (Kearney 2002; 2007).

Diagnosi differenziale del rifiuto scolare dalla fobia sociale e agorafobia

Al rifiuto scolare si possono associare il disturbo della condotta, il disturbo da deficit d’attenzione-iperattività, il disturbo oppositivo-provocatorio e i disturbi specifici dell’apprendimento. La diagnosi differenziale, invece, si esprime principalmente tra la fobia sociale e l’agorafobia.

Nella fobia sociale, il soggetto teme ed evita attivamente delle situazioni relazionali in cui potrebbe mostrarsi inadeguato ed essere esposto al giudizio negativo degli altri. L’obiettivo è quello di salvaguardare la propria immagine, percepita in pericolo; l’emozione temuta sopra ogni altra è la vergogna.

L’agorafobia è caratterizzata dall’ansia di trovarsi in luoghi o situazioni dai quali sarebbe difficile (o imbarazzante) allontanarsi o nei quali potrebbe non essere disponibile aiuto in caso di bisogno. I timori agorafobici riguardano tipicamente situazioni quali l’essere fuori casa da soli, l’essere in mezzo alla folla o in coda, l’essere su un ponte, viaggiare in automobile o con altri mezzi di trasporto. In generale, la persona con agorafobia sembra particolarmente sensibile alla solitudine (intesa soprattutto come lontananza da persone o luoghi familiari), spazi aperti e situazioni costrittive (quali ad esempio, luoghi chiusi e angusti, o rapporti vissuti come troppo limitanti la propria libertà). Le situazioni temute vengono evitate oppure sopportate con molto disagio e non di rado affrontate con la presenza di un compagno.

Verrà approfondito quest’ultimo caso, visto il quadro psicologico del paziente presentato successivamente.

Criteri diagnostici DSM 5 dell’agorafobia:
A. Marcata paura o ansia in due (o più) delle seguenti situazioni:
1. Con i mezzi pubblici (automobili, autobus, treni, navi, aerei)
2. Trovarsi in spazi aperti (parcheggi, mercati, ponti)
3. Essere in luoghi chiusi (negozi, teatri, cinema)
4. Stare tra la folla
5. Non stare bene fuori di casa
B. L’individuo prova paure o evita queste situazioni al pensiero che potrebbe essere difficile fuggire o potrebbe non essere disponibile aiuto in caso di sintomi tipo panico o altri sintomi invalidanti o imbarazzanti (paura di cadere degli anziani; paura di incontinenza).
C. Le situazioni agorafobiche provocano quasi sempre paura o ansia.
D. Le situazioni agorafobiche sono attivamente evitate, implicano la presenza di un compagno o sono sopportate con intensa paura o ansia.

Eziologia del rifiuto scolare

Tra i fattori che maggiormente incidono nel predisporre un rifiuto scolare si trovano quelli ambientali. I sintomi possono iniziare in seguito ad eventi di vita stressanti che si sono verificati a casa o a scuola tra cui la propria malattia o di un membro della famiglia, la separazione tra i genitori, la separazione transitoria da uno dei genitori, relazioni conflittuali nella famiglia, problemi con il gruppo dei pari o con un insegnante e il ritorno a scuola dopo una lunga interruzione o vacanza. I dati disponibili dagli studi sulla famiglia e sui gemelli suggeriscono che ci potrebbe essere una vulnerabilità biologica per lo sviluppo di problemi emotivi, tra cui il rifiuto scolare.

Per quanto concerne il contesto familiare, la presenza di madri ansiose tende a favorire nel bambino uno schema di sé fragile e bisognoso di protezione. L’iperprotettività materna sembra fortemente connessa ad un vissuto di insicurezza, tanto da minare il processo di separazione-individuazione del figlio legandolo ad una forma di rapporto dipendente che non stimola lo sviluppo di un’autostima adeguata. Spesso il padre è poco presente e scarsamente rassicurante, lasciando il bambino privo di un modello di riferimento stabile. Un’altra caratteristica familiare, in genere intrecciata a quelle finora considerate, che può porsi alla radice della fobia scolastica, è lo stile educativo troppo tollerante e poco autorevole, ben diverso, di solito, da quello vigente in ambito scolastico: non è raro che la necessità di alzare la voce e i rimproveri di qualche insegnante, alle prese con una classe caotica, possano intimidire bambini paurosi e meno abituati a comportamenti simili a casa.

Alla radice del problema, soprattutto nel passaggio dalla scuola primaria a quella secondaria, o da questa alle scuole superiori, si riscontrano insicurezza, bassa autostima, incertezza sulle proprie capacità o sull’affrontare le nuove e più impegnative richieste di studio. Nella società moderna, la fobia scolare è in aumento proprio a causa delle numerose pressioni sociali e familiari che bambini e ragazzi ricevono: da un lato le famiglie sono sempre più attente al rendimento scolastico e pretendono crescenti profitti per la realizzazione personale e, dall’altro, le scuole sono guidate da valori plasmati sulla certificazione delle competenze e sulla competizione.

In questo contesto, i ragazzi sviluppano facilmente un perfezionismo indotto, una rigidità verso se stessi che può impedire di perdonarsi anche piccoli insuccessi, favorendo la strutturazione di una personalità focalizzata su risultati individualistici e causando una lenta svalutazione del sé alla base dell’ansia nell’affrontare l’iter scolastico.
Il rifiuto scolare è più facile da individuare nell’infanzia, in cui le manifestazioni ansiose sono evidenti, al contrario di quanto accade nell’adolescenza, in cui può essere scambiato con scarsa motivazione o pigrizia.

Caso clinico sul rifiuto scolare

Il caso clinico che verrà esposto soddisfa i criteri DSM 5 (2013) per un disturbo d’agorafobia in comorbidità al rifiuto scolare, il tutto organizzato, a livello esplicativo, in una personalità di tipo fobico.

Approccio teorico di riferimento

Il caso esposto di rifiuto scolare è stato affrontato facendo riferimento al modello cognitivo post razionalista, un orientamento psicoterapeutico fondato da Vittorio Guidano (1988, 1992) a metà degli anni ’80, in linea con la tradizione psicologica costruttivista. Secondo tale approccio, la persona è portatrice di un significato personale che deriva dall’ordinamento degli schemi emozionali in base a regole autoreferenziali. Il significato risponde sempre ad un’esigenza di coerenza sistemica: le rappresentazioni di sé e della realtà sono controllate da processi che garantiscono il riconoscimento della propria identità nel mondo. A partire dalle iniziali “organizzazioni cognitive”, individuate insieme a Liotti (Guidano, Liotti, 1983), Guidano elabora il concetto di organizzazione di significato personale (OSP) con cui intende una configurazione di pattern emotivi ricorrenti e uno specifico modo di leggere la propria esperienza interna e interpersonale. Le OSP individuate sono quattro: fobica, depressiva, ossessiva e disturbi alimentari psicogeni (DAP).

In un’organizzazione di tipo fobico, come il caso in questione, l’elemento invariante è la tendenza a rispondere con paura ed ansia a qualsiasi oscillazione dell’equilibrio affettivo che venga avvertito come perdita di protezione o libertà. Il rapporto con il mondo emotivo è caratterizzato dalla percezione in termini di sensorialità, malattia e incontrollabilità: tutto ciò a causa di una mancanza di strumenti cognitivi appropriati alla decodifica delle esperienze emotive (Marshali e Zimbardo, 1979). L’insorgenza di uno scompenso fobico spesso ha a che fare con eventi vissuti come perdita di protezione e di libertà individuale (lutti e separazioni, trasferimenti, matrimonio proprio o dei congiunti, nascita dei figli, malattie importanti, pensionamento). Poiché l’aspetto emotivo di fondo viene connotato da un senso di estraneità, lo scompenso assume le caratteristiche dell’attacco di panico o della sintomatologia agorafobica, come classicamente descritto nelle varie nosografie diagnostiche.

Anamnesi e contesto dell’invio

Giulio è un ragazzo di 16 anni e frequenta il 2° liceo scientifico. La madre è medico e suo padre un consulente finanziario. Ha una fratello di 20 anni, in cerca di un’occupazione.
Giunge in terapia a causa delle preoccupazioni genitoriali per il suo comportamento a scuola: ha già cambiato un istituto ed è stato bocciato un anno per via delle numerose assenze. Attualmente rischia di nuovo la bocciatura essendo al limite delle assenze concesse. Sono molto frequenti disturbi psicosomatici, serali o al mattino, con l’evidente funzione di farlo rimanere a casa. Dall’anamnesi, emerge che fin da piccolo G. ha sofferto di un disturbo d’ansia di separazione che gli impediva di allontanarsi serenamente dai genitori, in particolare la madre. L’ansia di separazione, nel tempo, si è evoluta in una più generica agorafobia. Oggi il ragazzo non ha più paura di allontanarsi dai caregiver ma di affrontare il mondo esterno, soprattutto l’ambiente scolastico, e la sua insicurezza aumenta in maniera proporzionale alla distanza da casa, l’unico posto in cui si sente protetto.
Il rendimento scolastico è scarso, non tanto per la mancanza di studio ma per l’impossibilità della verifica. In molte materie, infatti, G. non è ancora classificato. Cerca di compensare a casa con ripetizioni private.

Le relazioni interpersonali sono buone. Ha diversi amici con i quali esce e si confida; da circa un mese ha una ragazza. In passato ha provato diversi sport e, attualmente, pratica pallavolo. Era già iscritto ad un’altra associazione di pallavolo che ha però lasciato a causa di una cattiva integrazione con i compagni. Anche il cambio di scuola è avvenuto in seguito ad un problema relazionale, nello specifico la rottura di una precedente storia affettiva. Questa modalità ripetitiva suggerisce alcune ipotesi rispetto al legame tra una sensibilità al rifiuto/mancanza di protezione e la fuga come unica strategia.
In passato è già stato in psicoterapia due volte, anche servendosi di un supporto farmacologico a base di ansiolitici. In entrambe le occasioni, dopo poco tempo si è arreso per via della scarsa motivazione al trattamento. Paradossalmente, piccoli miglioramenti sono serviti da deterrente nel continuare il percorso facendogli credere, in maniera erronea, di aver risolto senza sforzo il problema.

Obiettivi terapeutici

Il processo terapeutico è finalizzato a:
– creare una buona alleanza di lavoro;
– ridurre la sintomatologia ansiosa;
– ridurre l’evitamento scolastico;
– aumentare le capacità metacognitive;
– migliorare la gestione della conflittualità familiare.

Trattamento del rifiuto scolare

G. segue una psicoterapia individuale da circa 4 mesi. Il nucleo dell’intervento mira a riordinare il livello tacito ed esplicito alla luce degli episodi disturbanti emersi. Contemporaneamente, l’ansia è gestita tramite tecniche della terapia cognitiva standard (Beck, 1967; Ellis, 1989).

La fase iniziale del trattamento è dedicata alla costruzione dell’alleanza di lavoro. Il paziente ha mostrato, fin da subito, di avere una scarsa funzione riflessiva, di essere concentrato esclusivamente sulle somatizzazioni e poco motivato a un intervento psicologico. Le ragioni di questa svogliatezza e poca capacità introspettiva sono attribuibili alle uniche strategie risolutive che ha sempre reiterato: la fuga o la delega delle responsabilità a un salvatore. Anche oggi, in cui si trova nuovamente a rischio di bocciatura per le prolungate assenze, G. immagina di cambiare scuola oppure che qualcuno (la madre, il terapeuta ecc…) sistemi magicamente le cose tramite un certificato medico che gli faccia ottenere un trattamento di favore dai professori.

Appare evidente una forte attribuzione causale esterna a scapito di risorse individuali basate sull’autoefficacia. Allo stesso modo va letto anche l’attaccamento, di tipo ambivalente (C), costruito su vissuti di insicurezza che si acuiscono in maniera direttamente proporzionale alla distanza dalla base sicura (caregiver, casa di famiglia). Le proteste, i comportamenti problematici e le somatizzazioni hanno lo scopo di tenere vicino le figure di attaccamento e ricevere protezione.

Questi schemi comportamentali si fondano su una bassa autostima derivata da un’iperprotezione genitoriale. Si è ritenuto opportuno, quindi, approcciare al paziente con uno stile più direttivo, atto a stimolare risorse latenti e favorire la presa in carico del proprio benessere.
A tal fine, in prima battuta si è ragionato insieme al ragazzo sul rapporto costi/benefici rispetto all’assenteismo scolastico. Come auspicabile, l’esito della discussione ha sottolineato il maggior peso degli svantaggi in grado di schiacciarlo. Di fronte a un’ipotetica bocciatura, sono emerse infatti preoccupazioni importanti come “perdere gli amici e la ragazza, ripetere l’anno, litigi familiari e punizioni” contrapposte a vantaggi esigui come “saltare le interrogazioni, dormire, stare tranquillo.” Una chiarificazione sul termine “stare tranquillo” ha permesso una parafrasi del tipo “evitare le ansie e i disturbi psicosomatici associati allo stare in classe.”

Successivamente, si è proceduto a incentivare nel paziente la capacità di problem solving trovando alternative migliori del semplice non andare a scuola. Giulio è riuscito a immaginare e mettere in pratica compromessi quali spendere le poche assenze residue per i giorni particolarmente stressanti oppure saltare solo alcune ore di lezione invece che l’intera giornata. L’impossibilità di partecipare alle uscite scolastiche, anche brevi come la visita a un museo, ha messo in evidenza vissuti agorafobici associati allo stare fuori in luoghi percepiti come minacciosi.

Dopo alcune sedute preliminari, in cui sono stati forniti al paziente i suddetti strumenti per ridimensionare l’ansia, si sono esplorati, in senso costruttivista, i vissuti soggettivi nascosti dietro la sintomatologia. Tramite la tecnica della moviola (Guidano, 1992), episodi stressanti legati a situazioni sociali sono stati riletti in modo più articolato. Ad esempio, attacchi di panico generati da una gita scolastica o da un’uscita pomeridiana con gli amici hanno mostrato una causa comune: la paura di allontanarsi da casa. Per il paziente, trovarsi in contesti simili, significa esporsi a rischi eccessivi. Non sentendosi in grado di affrontare imprevisti, soprattutto inerenti la sfera fisica, G. preferisce evitare tali prove oppure si convince a farlo se tranquillizzato dalla presenza di un accompagnatore (spesso il fratello o un amico). Tuttavia, entrambe le strategie si sono rivelate poco efficaci in quanto confermano la credenza di base di essere una persona debole, incapace di farcela da sola. Ha preso chiaramente forma, quindi, il tema della vulnerabilità personale.

Conclusioni

Oggi, la terapia di Giulio è nella fase centrale. L’assenteismo è molto diminuito e il ragazzo si sta impegnando nell’utilizzare strategie più funzionali. Il rendimento scolastico è sufficiente in quasi tutte le materie sebbene vadano colmate molte lacune accumulate nei mesi precedenti. Anche il rapporto con i genitori si sta adattando su nuovi equilibri all’insegna del valorizzare i progressi fatti, non rinforzando i sintomi del rifiuto scolare. Il paziente mostra più consapevolezza del suo significato personale incentrato sui poli protezione/vulnerabilità e inizia a rendersi più indipendente rispetto al nucleo familiare. Esprime ora il desiderio di allontanarsi e passare dei giorni da solo. Una più articolata comprensione del senso di sé ha permesso una repentina riduzione della sintomatologia ansiosa e consentito di scegliere alternative comportamentali maggiormente adattive.

Il prossimo obiettivo sarà l’esplorazione della storia di sviluppo per comprendere l’origine di questo tema di vita e, quindi, avere un’ottica più esaustiva sulla restrizione dell’autonomia. Allo stesso tempo si continuerà a lavorare sul mantenimento dei risultati, soprattutto consolidando l’autostima, la spinta alla separazione e l’aumento delle capacità metacognitive.

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