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Smartphone che passione…..o che malattia?! La nomofobia

Senza smartphone non riuscirei a vivere, mi verrebbe l’ansia”: per descrivere questo fenomeno è stato coniato un nome, Nomofobia, ovvero la Sindrome da Disconnessione. 

 Sara Costi e Irene Desimoni – Open School Modena

Prima della nomofobia: quando la tecnologia iniziava a cambiare in meglio le nostre vite

Era il 1925 quando l’ingegnere scozzese John Logie Baird fece partire la storia della televisione, solo qualche anno dopo esattamente nel 1928, in America l’inventore e imprenditore Martin Cooper creò il primo telefono mobile, ancora nel 1941 in piena Seconda Guerra Mondiale, nasceva il primo computer della storia, questo grazie a un’ingegnere tedesco con l’hobby della pittura. Da quegli anni il progresso in campo telematico ed informatico ha fatto passi da gigante.

Con l’espressione ‘terza rivoluzione industriale‘ non si indica solamente un processo di trasformazione socio-economico, ma anche una rivoluzione nel campo della tecnologia, nella comunicazione di massa e nell’informatica. In particolare, non possiamo di certo negare i benefici dell’invenzione del telefonino mobile: per chi era abituato alle classiche cabine telefoniche prima a gettoni e poi a tessera, o dei primi cordless, il cellulare è stata una vera rivoluzione, al pari della prima lampadina o della prima ruota.

Le persone finalmente hanno smesso di andare alla ricerca di una cabina telefonica per chiamare i propri amici, familiari o per fare i ben conosciuti scherzi telefonici. La comodità del cellulare è proprio la reperibilità della persona, possiamo essere contattati ovunque noi siamo sia tramite una chiamata che tramite un messaggino e questo ha reso molto più semplice la comunicazione.

Inoltre, la tecnologia ci spinge a cambiare, ad essere sempre aggiornati e in continua connessione l’uno con l’altro. Ma quando questo diventa troppo e la connessione diventa lontananza invece che vicinanza? Quando non si parla più di semplice utilizzo, ma di una vera e propria dipendenza e, appunto, di nomofobia?

Negli ultimi anni studiosi appartenenti a differenti gruppi di ricerca, in varie parti del mondo, si sono sempre più interessati alla relazione tra le persone e i telefoni cellulari e ad altri strumenti di connessione come Tablet e Pc. Anche se la tecnologia ci consente di sbrigare il nostro lavoro più velocemente e con efficienza, di tenerci informati in tempo reale su quello che accade nel mondo e di poter contattare qualunque persona in qualunque momento, non bisogna dimenticare che i dispositivi mobili possono avere un effetto pericoloso sulla salute, specialmente se utilizzati in modo inappropriato.

Nomofobia: descrizione del fenomeno

In un intervista condotta ad aprile 2015 da ‘Il Fatto Quotidiano’ è stato chiesto ad un gruppo di persone, di diverse età, se riuscirebbero a stare senza il loro smartphone: la risposta è stata quasi del tutto unanime: “senza smartphone non riuscirei a vivere, mi verrebbe l’ansia”. Per descrivere questo fenomeno è stato coniato un nome, Nomofobia (Sindrome da Disconnessione), ed è composto dal prefisso anglosassone abbreviato no-mobile e dal suffisso fobia e si riferisce alla paura di rimanere fuori dal contatto di rete mobile.

Una sensazione di panico vi assale non appena vi accorgete di aver dimenticato lo smartphone a casa? Non riuscite a resistere più di dieci minuti senza controllare le notifiche e pensate che stia squillando anche quando non è così? Se avete risposto si ad almeno due domande su tre, allora potreste aver sviluppato una vera dipendenza dal vostro smartphone.

Nella persona con nomofobia s’instaura la sensazione di perdersi qualche cosa se non si controlla costantemente il cellulare e il rischio è che si inneschi un meccanismo di dipendenza, del tutto analogo a una tossicodipendenza.

Quando si entra nel circolo vizioso della nomofobia, si ha sempre bisogno di aumentare il dosaggio quindi si mettono in atto una vasta gamma di comportamenti disfunzionali come stare più tempo al telefono, aspettare la risposta dell’altro (magari sollecitandolo), vedere che cosa accade agli amici nei diversi social network, commentare e condividere, non spegnere mai il dispositivo neanche nelle ore notturne, svegliarsi di notte e controllare che non sia cambiato niente, portarsi lo smartphone in luoghi non appropriati (es. bagno, chiesa ecc), esattamente come accade con droghe e alcol.

La nomofobia: uno sguardo alle ricerche

Secondo David Greenfield professore di psichiatria all’Università del Connecticut, l’attaccamento allo smartphone è molto simile a tutte le altre dipendenze in quanto causa delle interferenze nella produzione della dopamina, il neurotrasmettitore che regola il circuito celebrale della ricompensa: in altre parole, incoraggia le persone a svolgere attività che credono gli daranno piacere. Così ogni volta che vediamo apparire una notifica sul cellulare sale il livello di dopamina, perché pensiamo che ci sia in serbo per noi qualche cosa di nuovo e interessante. Il problema però è che non possiamo sapere in anticipo se accadrà davvero qualche cosa di bello, così si ha l’impulso di controllare in continuazione innescando lo stesso meccanismo che si attiva in un giocatore di azzardo (Greenfield D.N. e Davis R.A., 2002).

Secondo un sondaggio condotto nel 2008 dall’ente di ricerca britannico YouGov per conto di Post Office Telecom su un campione di 2.163 persone, dal quale successivamente è stato coniato il nome della sindrome, più di sei ragazzi su dieci tra i 18 e i 29 anni vanno a letto in compagnia del telefono e oltre la metà degli utenti di telefonia mobile (quasi il 53%) tende a manifestare stati d’ansia quando rimane a corto di batteria o di credito, o senza copertura di rete oppure senza il cellulare. La ricerca evidenzia inoltre che gli uomini tendano ad essere più ansiosi delle donne e che circa il 58% degli uomini e il 48% delle donne della popolazione soffrono di questa nuova fobia.

Nel 2009 anche in India è stata condotta una ricerca dal Dipartimento di Medicina di Comunità ed è stata riscontrata questa nuova forma di sindrome, ma con incidenza minore, circa nel 18% dei soggetti e non vi sono presentate differenze rispetto al genere (Dixit S. at all, 2010).

Secondo un altro studio americano effettuato da Morningside Recovery, un centro di riabilitazione mentale di Newport Beach, ha dimostrato che milioni di Americani, circa i 2/3 della popolazione, sono affetti da nomofobia e che molti di loro raggiungono stati elevati di agitazione incontrollata se vengono a conoscenza di non possedere il proprio cellulare.

Nonostante ci siano all’attivo ancora un numero ridotto di ricerche sul tema, nel 2014, in Italia, Nicola Luigi Bragazzi e Giovanni Del Puente, studiosi dell’Università di Genova, avevano proposto di inserire la nomofobia nel Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali (DSM-V), recentemente revisionato. La nomofobia sarebbe caratterizzata da “ansia, disagio, nervosismo e angoscia causati da essere fuori dal contatto con un telefono cellulare o un computer” e verrebbe utilizzata come un guscio protettivo o uno scudo e come mezzo per evitare la comunicazione sociale.

Nomofobia: come riconoscersi nella sindrome

I ricercatori italiani descrivono alcuni campanelli d’allarme per poter riconoscere se si sta ricadendo in questa sindrome:

  • Usare regolarmente il telefono cellulare e trascorrere molto tempo su di esso;
  • Avere uno o più dispositivi;
  • Portare sempre un caricabatterie con sé per evitare che il cellulare si scarichi;
  • Sentirsi ansioso e nervoso al pensiero di perdere il proprio portatile o quando il telefono cellulare non è disponibile nelle vicinanze o non viene trovato o non può essere utilizzato a causa della mancanza di campo, perché la batteria è esaurita e/o c’è mancanza di credito, o quando si cerca di evitare per quanto possibile, i luoghi e le situazioni in cui è vietato l’uso del dispositivo (come il trasporto pubblico, ristoranti, teatri e aeroporti);
  • Mantenere sempre il credito;
  • Dare a familiari e amici un numero alternativo di contatto e portando sempre con sé una carta telefonica prepagata per effettuare chiamate di emergenza se il cellulare dovesse rompersi o perdersi o, ancora, se venisse rubato;
  • Guardare lo schermo del telefono per vedere se sono stati ricevuti messaggi o chiamate. In questo caso si parla di un particolare disturbo che definito ringxiety, mettendo insieme la parola “squillo” in inglese e la parola ansia.
  • Controllo costante del livello di batteria del dispositivo per assicurarsi che non si possa scaricare per eventuali operazioni importanti;
  • Mantenere il telefono cellulare acceso sempre (24 ore al giorno);
  • Dormire con cellulare o tablet a letto;
  • Utilizzare lo smartphone in posti poco pertinenti.

I ricercatori raccomandano di evitare di considerare tutti i comportamenti sopracitati come patologici.

Dunque si può parlare di nomofobia quando una persona prova una paura sproporzionata di rimanere fuori dal contatto di rete mobile, al punto da sperimentare effetti fisici collaterali simili all’attacco di panico come mancanza di respiro, vertigini, tremori, sudorazione, battito cardiaco accelerato, dolore toracico, nausea.

 

La nomofobia come dipendenza patologica?

Nonostante nel nome compaia la sigla “fobia” e che i sintomi siano molto similari a quelli dell’ansia, uno studio condotto da ricercatori del Panic and Respiration Laboratory, dell’Università Federale di Rio de Janeiro (2010) sembra indicare che la Nomofobia sia da considerare una dipendenza patologica piuttosto che un disturbo d’ansia.

I ricercatori avrebbero infatti sperimentato che un approccio terapeutico mirato a ridurre l’ansia non sia efficace nel trattamento della nomofobia, ma che i soggetti affetti da questo tipo d psicopatologia rispondano meglio ad un trattamento specifico per le dipendenze patologiche (King A.L. at all., 2010).

L’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) descrive la dipendenza patologica come:

Quella condizione psichica e talvolta anche fisica, causata dall’interazione tra una persona e una sostanza tossica, che comporta risposte comportamentali e da altre reazioni, e che determina un bisogno compulsivo di assumere la sostanza in modo continuativo o periodico, allo scopo di provare i suoi effetti psichici e talvolta di evitare il malessere della sua privazione.

Le nuove dipendenze, o dipendenze senza sostanza, si riferiscono a una vasta gamma di comportamenti disfunzionali e anomali quali il gioco d’azzardo patologico, la dipendenza da TV, da internet, lo shopping compulsivo, le dipendenze dal sesso e dalle relazioni affettive, le dipendenze dal lavoro e alcune devianze del comportamento.

Lo studioso Davis R.A. (1999) ha utilizzato un modello cognitivo-comportamentale per spiegare lo sviluppo e il mantenimento di un disturbo connesso alla nomofobia, il Disturbo da abuso della rete telematica o l’Internet Addiction Disorder (IAD). Secondo questo approccio, l’IAD deriva da cognizioni disadattive unite a dei comportamenti che intensificano o mantengono la risposta disadattiva. Fattore chiave è il rinforzo che l’individuo riceve dall’evento. Se il rinforzo è positivo, la persona sarà condizionata a compiere più frequentemente la medesima attività al fine di raggiungere una reazione fisiologica simile.

Come in ogni processo di condizionamento, gli stimoli associati con lo stimolo primario diventano rinforzi secondari e agiscono rinforzando la patologia (Şenormancı at all., 2012). Se si fa ricadere la Nomofobia all’interno delle dipendenze, alla stregua dell’IAD, allora il trattamento dovrebbe essere quello attualmente utilizzato per essa.

Il trattamento delle nuove dipendenze viene attualmente realizzato sulla base di caratteristiche clinico-psicopatologiche simili ai disturbi dello spettro ossessivo-compulsivo e del controllo degli impulsi, ai disturbi da uso di sostanze e ai disturbi dell’umore, soprattutto quelli appartenenti allo spettro bipolare (Casha at all., 2012). La dipendenza dalle nuove tecnologie è sicuramente in fase di crescita, ma purtroppo viene spesso confusa con situazioni psicopatologiche diverse.

Pericolo nomofobia: chi sono i soggetti a rischio?

Ulteriori importanti studi che indagano la nomofobia sono stati portati avanti da Francisca Lopez Torrecillas, docente presso il dipartimento di personalità e di valutazione psicologica e trattamento delle dipendenze dell’Università di Granada, la quale ha svolto una ricerca su campo con giovani adulti tra i 18 ei 25 anni, scoprendo che la maggior parte delle persone colpite da questa condizione sarebbero giovani adulti con bassa autostima e problemi nelle relazioni sociali, i quali sentono il bisogno di essere costantemente connessi e in contatto con gli altri attraverso il telefono cellulare e che di solito mostrano noia quando si effettuano altre attività ricreative derivati da un uso patologico di telefoni cellulari (Lopez Torrecillas F., 2007).

Gli adolescenti appaiono i soggetti prevalentemente a rischio di sviluppare questa nuova forma di dipendenza patologica, ma non bisogna sottovalutare l’impatto che la tecnologia può avere sulle nuove generazioni. Sono sempre più i genitori preoccupati perché i propri figli, anche in età infantile, passano sempre più tempo con computer, smartphone, tablet e giochi elettronici.

Sono i bambini cosiddetti digitali, termine coniato per indicare la generazione di bambini cresciuta nell’era del computer, tra smartphone, tablet, ADSL e Internet mobile, touchscreen e app .

Una piccola, ma significativa ricerca del 2012, commissionata da AVG, celebre casa di software che realizza antivirus e altri programmi per la sicurezza del computer, ha portato alla luce che oltre il 50% dei bambini tra i 2 e i 5 anni di età, sa già come giocare con un gioco per tablet di livello base, mentre appena l’11% di loro sa come allacciarsi le scarpe.

Il pericolo non è tanto per l’utilizzo precoce di questi dispositivi, i quali possono essere anche utilizzati come un’ arma per sviluppare le capacità cognitive del bambino, quanto piuttosto il prolungato utilizzo di smartphone e tablet che potrebbe portare ad un affaticamento eccessivo della vista e al rischio che il piccolo si isoli psicologicamente creandosi un mondo parallelo popolato solo da personaggi non reali, perdendo così il contatto e l’interesse verso le cose che lo circondano.

I pediatri della SIPPS (Società Italiana di Pediatria Preventiva e Sociale), riuniti in convegno a Caserta, hanno parlato chiaro sottolineando il bisogno di creare linee guida per limitare il più possibile l’uso dei telefonini ai bambini, evitandone totalmente l’uso prima dei 10 anni e limitandone l’uso dopo tale età, un po’ come i nostri genitori facevano con la vecchia e cara televisione.

Non vi sono attualmente ricerche che possano considerare questa precocità di utilizzo un fattore predittivo di una futura nomofobia in quanto la Sindrome è nuova e ancora poco studiata, ciò però non toglie che un collegamento possa essere possibile o creare un fattore di fragilità.

Il rischio legato all’utilizzo degli smartphone in età precoce non è soltanto quello di poterne abusare e quindi essere soggetti ad una possibile dipendenza da smartphone o a nomofobia, ma anche quello di utilizzare il cellulare in modo inadeguato e incoerente con l’età del bambino/adolescente; è questo il caso del sexting, termine che deriva dall’unione delle parole inglesi sex (sesso) e texting (pubblicare testo).

Si può definire sexting l’invio e/o la ricezione e/o la condivisione di testi, video o immagini sessualmente esplicite/inerenti la sessualità. Spesso sono realizzate con il telefonino, attraverso il quale vengono diffuse con messaggi o e-mail in siti e chat. A volte lo scambio di queste immagini ritenute pornografiche sono inviate da minori, a volte a persone conosciuta, ma a volte anche a sconosciuti in cambio di denaro o ricariche. Spesso tali immagini o video, anche se inviate ad una stretta cerchia di persone, si diffondono in modo incontrollabile e possono creare seri problemi, sia personali che legali, alla persona ritratta.

Non sono rari casi di cronaca che vedono coinvolti minori i quali hanno subito bullismo o altre forme di discriminazione a causa di questo tipo di conversazioni. L’invio di foto che ritraggono minorenni al di sotto dei 18 anni in pose sessualmente esplicite configura infatti, il reato di distribuzione di materiale pedopornografico.

Un utilizzo intelligente degli smartphone per contrastare il rischio nomofobia

Il telefono cellulare se usato in modo appropriato e intelligente può assolvere a tre importanti funzioni psicologiche: regola la distanza nella comunicazione e nelle relazioni, gestisce la solitudine e l’isolamento assumendo quasi il ruolo di antidepressivo multimediale e permette di vivere e dominare la realtà regalando l’idea di poter essere presenti e capaci di fermare lo scorrere del tempo con uno o più scatti (Di Gregorio, 2003).

Ma dobbiamo tenere bene a mente che il rapporto con il cellulare è potenzialmente pericoloso per qualunque persona. E’ per questo che la prevenzione di questa forma di dipendenza è fondamentale quanto l’intervento su di essa nella sua forma più acuta.

Esiste infatti l’eventualità che, in un periodo della nostra vita o in un lasso di tempo particolarmente difficile della nostra esistenza, lo smartphone diventi un oggetto su cui canalizzare uno stato di disagio (affettivo, relazionale, lavorativo…) e acquisti più importanza della vita reale.

L’utilizzo sbagliato ed improprio del telefonino mobile potrebbe provocare non solo enormi divari fra le persone, ma anche portarle alla nomofobia: a chiudersi in se stesse, sviluppare insicurezze relazionali o alimentare paura del rifiuto, a sentirsi inadeguate e bisognose di un supporto anche se esterno e fine a se stesso (Lacohèe H. at all., 2003).

Pertanto, è importante auto istruirsi ad un rapporto equilibrato con il telefonino, concedendosi ogni tanto una qualche pausa dalla sua presenza confortante e rassicurante, ricordandosi che forse una vita realmente vissuta è più gratificante di una vita solo immaginata.

Il Mostro razionale: Insensibilità, Psicopatia e Antisocialità

Psicopatia: individuare detenuti con personalità psicopatica potrebbe consentire di intraprendere la costruzione di nuovi specifici sistemi trattamentali e detentivi all’interno degli istituti di pena (Wong & Olver, 2015).

Psicopatia & disturbo antisociale di personalità: i problemi legati alla diagnosi

La psicopatia, rimasta per anni una categoria nebulosa, avvolta da un fascino quasi misterioso, appare ora al centro di studi e lavori internazionali transculturali finalizzati alla messa a punto di nuovi strumenti di valutazione, così da permetterne l’utilizzo sia in clinica che nell’ambito della ricerca (Wilson et al., 2014).
In particolare, individuare detenuti con personalità psicopatica potrebbe consentire di intraprendere la costruzione di nuovi specifici sistemi trattamentali e detentivi all’interno degli istituti di pena (Wong & Olver, 2015).

Il presente lavoro si colloca nella prospettiva di indagare questa categoria diagnostica e le caratteristiche ad essa connesse all’interno di uno spaccato del sistema penitenziario italiano.
I termini “disturbo antisociale” e “psicopatia” (talvolta detta anche “sociopatia”) sono spesso utilizzati in modo intercambiabile, ma in realtà molti autori in letteratura sostengono esservi differenze importanti. Mentre molti importanti autori tendevano ad estendere il concetto di psicopatia ad un’ampia categoria, Hervey Cleckley, con la pubblicazione del suo libro The mask of sanity nel lontano 1941 (1976), produsse la descrizione più completa del decennio, ritenuta una pietra miliare per gli studi successivi. L’Autore dette rilievo ai tratti di personalità, come l’assenza del senso di colpa, l’incapacità di amare, il vuoto emozionale, la mancanza di scopi e l’impulsività, introducendo nuove osservazioni sulle caratteristiche psicopatiche. Egli asserì che questi soggetti si potevano trovare, oltre che nelle prigioni, nelle posizioni sociali più rispettabili: dottori, avvocati, politici e perfino psichiatri.

All’interno di alcune sue pubblicazioni Hare più tardi (1996), riprendendo i lavori di Cleckley, fa notare che questa lista include criteri che possono essere considerati sintomatici del disturbo di personalità antisociale, narcisistico, istrionico e borderline, descritti nel DSM. L’individuo psicopatico, infatti, si caratterizzerebbe per l’associazione di condotte antisociali e di alcuni specifici tratti di personalità, come il disprezzo senza pietà e rimorso per i diritti e i sentimenti degli altri e forme di “narcisismo aggressivo”.

Nella maggior parte della letteratura contemporanea del Nord America la psicopatia è divenuta sinonimo di Psychopathy Checklist (Skeem, Mulvey, & Grisso, 2003). Si tratta di uno strumento costituito da un insieme di dimensioni, che permettono al clinico di rilevare i vari tratti di personalità del soggetto. Oltre ad essere uno strumento diagnostico, la PCL si è rivelata un modo di concettualizzare la personalità psicopatica, attraverso un modello multidimensionale costituito da due fattori (Hart, et al., 1995).
Il fattore I, chiamato anche narcisismo aggressivo o distacco emotivo, si riferisce agli aspetti interpersonali/affettivi, specie quelli che coinvolgono i tratti narcisistici, come l’egocentrismo, la manipolazione, l’insensibilità e la mancanza di rimorso, che costituirebbero il “nucleo psicopatico” e sarebbero maggiormente in grado di predire il “recidivismo generale” dei soggetti.
Il fattore II, invece, definito devianza sociale o anche stile di vita cronicamente instabile ed antisociale, comprenderebbe l’impulsività, l’instabilità, l’irresponsabilità e i comportamenti antisociali, e sarebbe maggiormente capace di predire il “recidivismo violento”.

Secondo Hare (1996), comunque, il rapporto tra psicopatia e disturbo antisociale sarebbe asimmetrico nella popolazione forense; infatti, complessivamente, circa il 90% dei criminali diagnosticati come psicopatici secondo il suo specifico costrutto corrisponderebbero ai criteri del ASPD secondo il DSM, mentre soltanto dal 20 al 30% dei criminali con ASPD risulterebbero affetti da psicopatia.

Gli obiettivi dello studio

Nello specifico il lavoro si propone di indagare all’interno di un campione di detenuti di due Carceri Italiane:
1. I livelli di psicopatia (Hare, 1996)
2. misurare eventuali livelli di correlazione tra i due fattori della PCL-SV (Hart, et al., 1995) e alcune Scale Cliniche nell’MMPI-2

Sono stati inclusi 50 detenuti di sesso maschile, bianchi, provenienti da due Istituti di pena (età media= 37.96, DS = ±9.74), per la maggioranza processati per reati contro la persona, di cui 56% dipendenti da stupefacenti ed in carico al Servizio Penitenziario per le Dipendenze.
I due strumenti utilizzati per la rilevazione dei dati sono la Psychopathy Checklist Screening Version (PCL-SV) pubblicato da Hart, Cox, & Hare nel 1995, procedura di tipo clinico-comportamentale per la diagnosi della psicopatia che comprende due fattori.
Il Fattore 1 si riferisce agli aspetti interpersonali/affettivi e comprende 6 dimensioni: Superficiale, Grandioso, Manipolativo/Strumentale, Mancante di rimorso e di colpa, Mancante di empatia/ Insensibile, Rifiuta le responsabilità.
Il Fattore 2 si riferisce alla devianza sociale e comprende le rimanenti 6 dimensioni: Impulsivo, Scarso controllo comportamentale, Mancanza di obiettivi realistici, Irresponsabile, Comportamento antisociale nell’adolescenza, Comportamento antisociale in età adulta.

Alla PCL-SV è stato affiancato l’MMPI-2 nella versione adattata per la lingua e la cultura italiana (Pancheri & Sirigatti, 1995).
Le categorie dei soggetti sono le seguenti: 1) Psicopatici, 13 partecipanti (pari al 26%), 2) fascia intermedia: Forse psicopatici, 9 partecipanti (18%), ma da sottoporre ad indagini più approfondite, 3) Non psicopatici, 28 partecipanti (56%).
Possiamo affermare che la percentuale di detenuti che presentano tale caratteristica (pari al 26%) appare in linea con i dati riferiti dalla letteratura (Wong & Olver, 2015).

I risultati

Dai risultati qui esposti emerge che i due strumenti correlano, relativamente agli indici presi in esame, per il fattore legato alla devianza sociale (F2), mentre la non correlazione per F1 potrebbe essere dovuta alla maggiore centratura della PCL-SV sugli aspetti emotivi e relazionali.
Appare, quindi, una certa concordanza tra i due strumenti relativamente agli aspetti della devianza sociale, mentre si avrebbe una divergenza per aspetti connessi più tipicamente all’insensibilità emotiva, considerata da Cleckley (1976) il cuore centrale della psicopatia. Si è ipotizzato, come sostenuto da Hart et al. (1995), che i due strumenti utilizzino costrutti di psicopatia in parte diversi, soprattutto per le componenti emotive e relazionali.

Come già riportato nella prima parte di questo lavoro, il concetto di psicopatia è largamente dibattuto e sembra difficile da definire in maniera completa ed esauriente. Tutto ciò, comunque, non può esimere clinici e ricercatori dall’intraprendere progetti di studio finalizzati ad un’approfondita e dettagliata conoscenza di questa categoria nei suoi aspetti complessivi, con l’obiettivo di pervenire ad un inquadramento preciso e puntuale, comprensivo di diagnosi differenziale, che permetta specifici percorsi trattamentali, sia di tipo terapeutico che detentivo (Wong & Olver, 2015).

Non si dovrebbe dimenticare che tratti di tipo psicopatico non sono esclusivi degli ambiti legati alla criminalità e alla devianza, e che caratteristiche come l’irresponsabilità, la mancanza di empatia, l’egocentrismo e il fascino superficiale sono ben accolti e radicati in ruoli di potere e di prestigio, ai vertici di una società come la nostra, già definita “mascherata” da Cleckley nel 1941.

I farmaci ‘metallici’ contro il cancro: un lavoro teorico/sperimentale migliora la conoscenza sui chemioterapici

Come funzionano i farmaci chemioterapici a base di metalli (fra i più diffusi nella cura di tumori molto comuni, come quelli ai testicoli e alle ovaie)? Come migliorarne l’azione e renderli meno tossici?

Un nuovo studio che ha unito sperimentazione e teoria ha ampliato la conoscenza dei meccanismi molecolari di questi principi attivi, per aiutare gli sperimentali a progettare farmaci sempre più efficaci e con meno effetti collaterali. Allo studio pubblicato sulla rivista ChemMedChem ha partecipato anche la Scuola Internazionale Superiore di Studi Avanzati (SISSA) di Trieste.

La ricerca sui farmaci può essere faticosa e frustrante. Spesso succede di sintetizzare una molecola senza sapere precisamente che tipo di effetto terapeutico avrà (se mai ne avrà uno).

Difficilmente si progetta un nuovo principio attivo sapendo già quale meccanismo metterà in atto nell’organismo – spiega Alessandra Magistrato, ricercatrice CNR-IOM/SISSA – Questo è vero anche per i più comuni farmaci chemioterapici, come il cisplatino, o quelli di nuova generazione basati sul rutenio. Gli studi basati sulla modellistica e le simulazioni, come quelli che conduciamo qui possono però dare un grande aiuto in questo senso, aumentando la comprensione dei meccanismi molecolari messi in atto dal farmaco nelle cellule dell’organismo – spiega ancora la scienziata.

Magistrato è fra gli autori di una nuova ricerca che ha messo in rassegna alcuni lavori sperimentali e computazionali realizzati attraverso la lente del microscopio computazionale.

Abbiamo prodotto dei modelli che permettono di razionalizzare l’azione dei farmaci chemioterapici sulle cellule dell’organismo – spiega Magistrato – Per alcuni tipi di farmaci abbiamo cercato di comprendere quale sia la forma del farmaco più abbondante quando entra in circolazione nel sangue, e che poi raggiunge il bersaglio cellulare.

Si parla infatti di pro-farmaco, quando ci si riferisce al chemioterapico che viene iniettato, poiché appena entra nell’organismo, per via delle interazioni con ambiente biologico questo muta rapidamente.

Per questo motivo è difficile sapere esattamente quale (e quanta) sia la molecola che esplica l’azione terapeutica, cioè il farmaco vero e proprio.

Per altri farmaci di cui è già nota la forma attiva invece Giulia Palermo, prima autrice dello studio e ricercatrice presso la Scuola Politecnica Federale di Losanna (EPFL), ha descritto con quali target si lega preferenzialmente il farmaco all’interno della cellula.

La molecola può agire su tre fronti: sul DNA libero, sulla cromatina (Il DNA impacchettato nella forma più comune nel nucleo) e con le altre proteine disperse nella cellula – spiega Palermo.

A seconda di quale target viene colpito infatti l’azione del farmaco può variare molto, e anche i suoi effetti collaterali.

Si pensa infatti che quando il farmaco mostra effetti cito-tossici, vuol dire che si è legato preferenzialmente al DNA, mentre quando mostra effetti anti-metastatici, vuol dire che agisce in modo preferenziale sulle proteine che contribuiscono alla motilità delle cellule o proteine che interagendo con il DNA regolano l’espressione dei geni, per esempio.

Anche in base a studi come questo gli sperimentali possono migliorare il design razionale delle nuove molecole terapeutiche, per ottenere così farmaci più efficaci e con meno effetti collaterali, anche questo molto importante visto che sappiamo bene quanto gravoso dal punto di vista fisico sia un trattamento chemioterapico per i pazienti – conclude Magistrato.

Lo studio è frutto di una collaborazione internazionale tra CNR-IOM/SISSA e i gruppi di ricerca di Ursula Roethlisberger (professoressa di chimica e biochimica computazionale dell’EPFL) e Paul Dyson, esperto in chimica farmaceutica e bio-organometallica dell’EPFL, nonché di Curt Davey, leader in cristallografia di complessi proteina/DNA presso l’Università della Tecnologia di Nanyang (NTU), a Singapore.

 

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  • Crediti: Giulia Palermo

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‘Metal’ drugs to fight cancer: a new study improves our understanding of chemotherapy agents

What is the mechanism of action of metal-based chemotherapy drugs (the most widely used for treating common cancers like testicular or ovarian cancer)? How can we improve their effect and reduce their toxicity?

A new study combining experiments and theory has broadened our knowledge of the molecular mechanisms of these active drugs to help experimentalists devising increasingly effective drugs with fewer side effects. The study, just published in the journal ChemMedChem, was conducted with the participation of International School for Advanced Studies (SISSA) of Trieste.

Pharmaceutical research can be difficult and frustrating. Often, one happens to synthesize a molecule without knowing exactly what kind of therapeutic effect it will have (if it ever will have any).

It is rare for someone to develop a new active drug already knowing what mechanism it will trigger in the body–  explains Alessandra Magistrato, CNR-IOM/SISSA research scientist – This also applies to the most widespread chemotherapeutic drugs, like cisplatin, or novel ones based on ruthenium. Studies relying on modelling and simulations, like the ones we do here, may be very helpful in this sense, in that they increase our insights into the molecular mechanisms of action exerted by the drugs inside the body’s cells – the scientist explains.

Magistrato is among the authors of a new study that reviews previously published experimental and computational reports visualized through the lens of computational microscope.

We produced models that enable us to rationalize the action of chemotherapeutic molecules on the body’s cells, – Magistrato explains – For some types of drugs, we tried to understand which chemical form of the drug is most abundant when it enters the blood circulation and it reaches the cell.

Scientists in fact use the term prodrug when referring to an injected chemotherapy agent; this, because as soon as the agent enters the body, it quickly changes before the interactions with it biological target.

That’s why it is difficult to know precisely which molecule (and how much of it) is responsible for the therapeutic action, in other words the actual medication.

On the other hand for other drugs with a known active form, Giulia Palermo, first author and researcher at the Swiss Federal Institute of Technology in Lausanne (EPFL), described how the the drug binds to different targets inside the cell.

A molecule can act on three fronts: on free DNA, on chromatin (the most common form of packed DNA in the nucleus) and on other proteins found in the cell – explains Palermo.

Depending on which target is involved, the action of the drug can vary widely, as well as its side effects.

In fact, it is believed that when the drug exhibits cytotoxic effects, it may bound preferentially to the DNA, whereas when it has anti-metastatic effects, it may act on the proteins involved in motility or on protein/DNA complexes affecting gene regulation, for example.

With the help of studies like this, experimentalists can improve the rational design of the new therapeutic molecules so as to obtain drugs that are more effective and with fewer side effects, a very important aspect as we know very well how physically demanding chemotherapy is for patients – concludes Magistrato.

The study is the result of an international collaboration between CNR-IOM/SISSA and the research groups led by Ursula Roethlisberger (professor of computational chemistry and biochemistry at EPFL), Paul Dyson, expert in organometallic and medicinal chemistry at EPFL, and Curt Davey, leader in crystallography of protein/DNA complexes at Nanyang Technological University (NTU) in Singapore.

DCA: quanto i giudizi delle madri sul peso corporeo incidono sullo sviluppo di disturbi alimentari

Parlare di peso corporeo e diete tra madre e figlia è una questione delicata riguardo cui vi è ancora troppa poca consapevolezza e sensibilizzazione nei genitori. Alcuni studi hanno già dimostrato che vi è una correlazione positiva tra incoraggiamenti espliciti delle madri nei confronti delle figlie a perdere peso e lo sviluppo di sintomi bulimici nelle figlie.

Altre ricerche hanno indicato che ragazze le cui madri parlano principalmente di diete hanno maggiore probabilità di sviluppare un disturbo alimentare.

Un articolo recentemente pubblicato su Body Image ha esaminato le interazioni madri-figlie relative a forma fisica, diete e peso corporeo di circa ottanta ragazze con le rispettive madri. In particolare, lo studio ha voluto analizzare in maniera più specifica in che modo le affermazioni delle madri riguardo le diete e la tendenza a perdere peso potessero impattare su alcune variabili critiche nel dominio dei disturbi alimentari.

I risultati dello studio evidenziano che tra le ragazze che venivano incoraggiate dalle loro madri a perdere peso, si rilevano esiti negativi in termini di insoddisfazione corporea, impulso alla magrezza e tendenza a mettersi a dieta e anche in misura maggiore se le madri non condividono con le figlie anche le preoccupazioni riguardo il proprio peso. Secondo lo studio i migliori outcome, in termini di minori punteggi nelle variabili sopra citate, si sono riscontrati in quelle interazioni madre-figlia in cui non si parlava di peso e forma fisica. Indubbiamente, il tema è estremamente complesso, e non dobbiamo dedurre conclusioni applicative semplicistiche.

Parlare di peso con le proprie figlie chiama in causa molteplici e finissime variabili psicologiche dei genitori, dal perfezionismo al criticismo fino alle credenze relative al valore personale, obiettivamente difficili da arginare con semplici strategie comunicative. Ad ogni modo, è bene iniziare a rifletterci sopra e a conoscere i possibili fattori di rischio nelle adolescenti alle prese con la forma fisica.

Prioni Made in SISSA: creati per la prima volta dei prioni sintetici in serie

SISSA, Scuola Internazionale Superiore di Studi Avanzati

A volte per comprendere davvero qualcosa è utile saperlo ricostruire da zero. Succede anche per i prioni: il Laboratorio di Biologia dei Prioni della SISSA di Trieste, in collaborazione con l’istituto BESTA di Milano, ha assemblato in laboratorio dei prioni artificiali, mettendo a punto un metodo per sintetizzarli in serie. Le prove di laboratorio hanno mostrato che i prioni sintetici si comportano come quelli biologici e i risultati saranno pubblicati il 31 dicembre sulla rivista Plos Pathogens, una delle più autorevoli del settore.

[blockquote style=”1″]Ci aiuteranno a comprendere con precisione i meccanismi con cui i prioni provocano malattie come la mucca pazza, o la malattia di Creutzfeldt-Jakobdz.[/blockquote] La SISSA, in collaborazione con l’Istituto Neurologico Carlo Besta di Milano, ha stabilito le condizioni ideali in laboratorio per produrre prioni sintetici – funzionanti come quelli biologici – in maniera ripetitiva. [blockquote style=”1″]È la prima volta che si riesce a fare una cosa del genere, e le conseguenze a livello della ricerca sono importanti.[/blockquote]

I prioni sintetici prodotti in serie permettono di controllare con maggiore precisione la loro azione patogena negli esperimenti spiega ancora Giuseppe Legname, il coordinatore dello studio dove si spiegano la tecnica e i risultati di laboratorio. Lavorare con i prioni naturali infatti non è così semplice: sono complessi e molto eterogenei spiega Legname, e sono spesso un po’ complicati da usare. [blockquote style=”1″]Avendoli costruiti noi, invece, quelli sintetici sono molto più controllabili, omogenei e strutturalmente definiti, e ciononostante hanno le stesse conseguenze di quelli biologici. Il nostro fine ultimo, naturalmente è quello di individuare quali meccanismi possono bloccare l’effetto patogeno, per sviluppare terapie contro queste malattie.[/blockquote]

Nel lavoro Legname e colleghi hanno sintetizzato prioni di topo, e hanno verificato il loro effetto nel provocare la malattia, che è risultato comparabile a quello dei prioni naturali. [blockquote style=”1″]Quando li abbiamo caratterizzati, abbiamo inoltre osservato che sono molto simili a quelli della mucca pazza e della variante di Creutzfeldt-Jakob, la forma umana della malattia.[/blockquote]

Non solo mucca pazza

[blockquote style=”1″]Questa nostra linea di ricerca naturalmente è già in evoluzione. Lavoreremo infatti anche sui prioni umani, e abbiamo anche altri progetti[/blockquote] spiega lo scienziato. Legname si riferisce alle ipotesi, sempre più solide scientificamente, che alla base della maggior parte delle malattie neurodegenerative vi siano molecole con meccanismi simili a quelli dei prioni. [blockquote style=”1″]Stiamo pensando alle molecole che provocano l’Alzheimer, come la beta-amiloide, o il Parkinson, o anche la sclerosi amiotrofica laterale. Anche in questi casi avere a disposizione molecole sintetiche potrebbe essere un passo avanti importante.[/blockquote]

LINK UTILI:•Articolo originale su Plos Pathogens: http://dx.plos.org/10.1371/journal.ppat.1005354 (attivo dalla pubblicazione)

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Il tormento del cercatore di tracce II parte – Tracce del tradimento Nr. 38

TRACCE DEL TRADIMENTOXXXVIII: il tormento del cercatore di tracce II parte

 

Continuiamo la nostra analisi dei meccanismi mentali che fanno sì che la diffidenza e la sfiducia, e quindi la gelosia e la ricerca di tracce di tradimento, si perpetuino auto-alimentandosi.

Nello scorso articolo abbiamo visto i meccanismi di pensiero. Ora vedremo altri meccanismi mentali, come la memoria. La memoria non appare come un archivio stabile e immodificabile delle esperienze passate, archivio dal quale, tutt’al più, vengono eliminati i fascicoli più antichi per lasciar posto ai nuovi. I ricordi e l’attribuzione ad essi dei significati è un processo attivo in cui la attuale visione di sé e del mondo riorganizza in modo ad essa congruente i frammenti del passato modificandone i particolari e soprattutto il significato. Così, ad esempio, la assoluta disponibilità di una persona era giudicata tale fino a che essa era considerata amica, ma dopo un tradimento gli stessi episodi vengono letti come manovre destinate ad ingannare conquistando stima ed amicizia al fine di approfittarsene successivamente. In tal senso la memoria è un cantiere in continua ristrutturazione in quanto l’ingegnere che cura i lavori cambia continuamente il progetto.

Gli elementi troppo inconciliabili con la “attuale visione delle cose” non trovano posto e finiscono accantonati, dimenticati in un angolo, rimossi; salvo poter essere ripescati quando un nuovo progetto si fa strada. Così il cercatore ripensando alla storia con il suo partner ricorderà soltanto quegli episodi che confermano la sua inaffidabilità o la sua preferenza per la persona sospettata di essere il rivale. Questi episodi, invaderanno tutto il campo della coscienza e faranno scomparire gli altri che invece disconfermerebbero l’ipotesi del tradimento. Mille prove di amore non saranno nulla di fronte a quell’unica prova di disinteresse o trascuratezza.

La gelosia aumenta la disponibilità mentale di immagini, pensieri e ricordi congrui con essa. Anche quando dei dati contrastanti sono registrati nel presente sfuggendo alla disattenzione selettiva o recuperati dal passato non essendo oggetto di oblio selettivo possono essere reinterpretati con ipotesi ad hoc. Infatti non esiste fatto che non possa essere reinterpretato in modo diverso e persino opposto. Una ipotesi ad hoc è una spiegazione inventata apposta per giustificare un fatto che metterebbe in discussione il nostro modo di vedere le cose, in modo da poterlo mantenere indisturbato. La gentilezza può essere vista come una manovra per avvicinarsi con l’inganno; un regalo come un modo di depistare le indagini, un espresso desiderio sessuale come la volontà di camuffare un crescente disinteresse o un risveglio della sessualità dovuto alla relazione con il rivale; la proposta di trascorrere un weekend insieme come la prova che c’è qualcosa da farsi perdonare.

Insomma non c’è mai una prova definitiva che l’altro sia sinceramente fedele, ogni evento si presta a molteplici interpretazioni a conferma dell’idea del tradimento. Negli esempi precedenti abbiamo riportato fatti considerati normalmente segno di affetto e di interesse ma lo stesso meccanismo può essere applicato, ancora più facilmente, a fatti del tutto indifferenti: l’idea di acquistare un’auto o un vestito può essere segno di vanità e di desiderio di conquista; la scrupolosità sul lavoro al desiderio di far colpo su un collega; l’attività sportiva come indizio di voglia di migliorare il proprio corpo per essere più seducente e così via.

RUBRICA TRACCE DEL TRADIMENTO

La mindfulness coi pazienti affetti da fibromialgia – Mindfulness per fibromialgia

Mindfulness per fibromialgia: Il trattamento basato sulla mindfulness si rivela particolarmente utile in coloro che soffrono di fibromialgia, poiché consente di separare la risposta affettiva al dolore dalle ruminazioni sul dolore stesso e dal conseguente sviluppo di sintomi depressivi.

Elena Cristina, OPEN SCHOOL STUDI COGNITIVI MILANO

 

La fibromialgia è un disturbo da dolore cronico diffuso che colpisce sia i muscoli e le articolazioni sia il tessuto molle o fibroso, caratterizzato da fragilità, stanchezza e sonno non ristoratore. I criteri diagnostici dell’American College of Rheumatology includono dolore alla palpazione in particolari punti del corpo (tender points), disturbi del sonno, rigidità e tensione muscolare, disturbi cognitivi; sono comuni difficoltà di apprendimento e di memoria. E’ presente altresì una disregolazione del sistema neuroendocrino e la sua compromissione funzionale può talvolta essere assai profonda (Wolfe, 1990).
L’eziologia è tuttora sconosciuta sebbene molteplici fattori sono coinvolti nella sua insorgenza e sviluppo: fattori biologici, genetici e ambientali (Geoffroy et al., 2012).

Si stima che la fibromialgia abbia una prevalenza compresa tra l’1% e il 3% all’interno della popolazione americana, principalmente nel genere femminile, con un rapporto di 9:1 rispetto alla popolazione maschile. Sebbene non sempre evidente in tutti i pazienti, sono molto comuni anche sintomi depressivi, esacerbati dalla sintomatologia fisica. In circa il 18% delle persone con fibromialgia si rileva la presenza di depressione maggiore, con un tasso di prevalenza nel corso della vita tra il 58% e il 69%.

Il trattamento della fibromialgia è realizzato con antidepressivi, farmaci per il sonno e/o anti-infiammatori e analgesici.
Dal momento che molti dei trattamenti medico-farmacologici risultano inefficaci, i pazienti affetti da fibromialgia sperimentano spesso sentimenti di disperazione ed impotenza, aggravando ulteriormente la sintomatologia depressiva (Bennett,1996).

Le persone con fibromialgia soffrono alti livelli di distress e durante i loro episodi di crisi utilizzano in maniera massiccia i servizi sanitari, con notevole dispendio di risorse economiche (Penrod et al., 2004; Dobkin et al.,2003).
I sintomi psichiatrici possono esacerbare il dolore fisico e la compromissione del loro funzionamento generale, rappresentando gli aspetti più difficili da trattare della sindrome, ancor più dei meri disturbi fisici.
I risultati di differenti meta-analisi suggeriscono che l’optimum terapeutico prevede la combinazione di interventi medico-farmacologici, esercizio fisico ed interventi psicosociali; inoltre attestano che i più ampi miglioramenti si sono riscontrati in quei piani di trattamento che includono interventi di tipo non farmacologico (Rossy et al.,1999;Wigers et al. 1996; Redondo et al., 2004). Uno di questi è il programma MBSR, sviluppato originariamente da Jon Kabat-Zinn presso la Facoltà di Medicina dell’Università del Massachusetts.

Mindfulness

L’intervento Mindfulness-Based Stress Reduction o MBSR è stato sviluppato allo scopo di ridurre la sofferenza tra quei pazienti che soffrono di dolore cronico. Il programma MBSR utilizza delle tecniche e delle abilità di riduzione dello stress, tra le quali varie pratiche di meditazione formale, come la meditazione seduta, lo hatha yoga e una serie di altre tecniche con una focalizzazione sulla dimensione corporea, ad esempio il body scan. I partecipanti sono invitati a dirigere e a mantenere l’attenzione all’esperienza immediata, nel presente, assumendo un’attitudine interiore di apertura, accettazione, curiosità e compassione. Basato sulla tradizione di pratica meditativa buddista vipassana, il training MBSR incoraggia l’assunzione di una consapevolezza non giudicante nei confronti delle proprie esperienze, siano esse cognitive, emotive e somatiche, momento per momento. La posizione decentrata è considerata la chiave per scollegarsi dai propri schemi mentali, cognitivi e affettivi, per giungere ad un miglior adattamento e ridurre l’impatto negativo di pensieri ed emozioni, sensazioni associati al dolore cronico.

Gli effetti della partecipazione ad un programma MBSR sono stati esaminati in un’eterogeneità di condizioni cliniche, ad esempio, disturbi del comportamento alimentare, malattie cardiovascolari, dolore cronico, malattie oncologiche, dipendenze patologiche, depressione e prevenzione delle ricadute (Segal, 2002).
Sephton, Salmon e coll. (2007) hanno condotto uno studio RCT allo scopo di esaminare l’efficacia dell’intervento MBSR in un campione di 91 pazienti donne che soffrono di fibromialgia.
I due ricercatori hanno riscontrato che le loro partecipanti al trattamento MBSR hanno riportato una riduzione significativa della sintomatologia depressiva rispetto al trattamento tradizionale farmacologico sia relativamente ai sintomi cognitivi sia per i sintomi somatici.

A differenza di altre tecniche che promuovono il rilassamento, il training MBSR promuove l’auto-osservazione, l’accettazione, la compassione e la saggezza in risposta al dolore.
E’ stato osservato come l’accettazione è una variabile cognitiva che risulta particolarmente benefica in quei pazienti che soffrono di una malattia cronica e possiede una funzione adattativa a lungo termine per il benessere psicofisico. Una maggior accettazione del dolore è associata con una minor intensità percepita del dolore stesso, minori livelli di ansia e depressione, un’aumentata attività quotidiana e un ridotto utilizzo di medicinali.

Il trattamento Mindfulness per fibromialgia

Il trattamento basato sulla mindfulness si rivela particolarmente utile in coloro che soffrono di fibromialgia, poiché consente di separare la risposta affettiva al dolore dalle ruminazioni sul dolore stesso e dal conseguente sviluppo di sintomi depressivi.
La mindfulness rappresenterebbe dunque un moderatore che interviene sulla relazione tra l’intensità del dolore e la catastrofizzazione del dolore stesso, con importantissime implicazioni clinico-operative (Schütze et al., 2010).

Anche Delgado e Postigo (2013) hanno riscontrato l’efficacia di un intervento Mindfulness-Based Cognitive Therapy nel miglioramento della salute fisica, nel mantenimento a lungo termine del benessere psicofisico, nella riduzione della sintomatologia depressiva, nella riduzione del livello di disabilità e nell’incremento del livello di attività quotidiana. Diversamente dallo studio di Sephton e Salmon, non hanno rilevato differenze tra il gruppo sperimentale e il gruppo di controllo nella variabile “intensità del dolore” prima e dopo il trattamento. Tuttavia i due autori suggeriscono che nella valutazione del dolore è importante non solo quantificare la variabile intensità ma anche il grado con cui i pazienti percepiscono lo stimolo doloroso come disagevole e avverso e in che misura sentono di poter fare buono uso di valide strategie di coping.
Già in un precedente studio è stata dimostrata l’esistenza di connessioni tra sintomi depressivi e l’attivazione di particolari aree cerebrali coinvolte nel processamento del dolore di tipo affettivo (dimensione valutativa-motivazionale) ma non in quello di tipo sensoriale (dimensione sensoriale-discriminativa) (Giesecke, Gracely, et al., 2005).

Coloro che partecipano ad un programma di mindfulness riportano altresì cambiamenti nella loro visione del mondo e della vita stessa, come più comprensibili, affrontabili e pieni di significato. La partecipazione al programma ha il potere di alterare la cornice entro la quale vengono letti gli eventi che accadono, specialmente quelli spiacevoli e difficili, giungendo ad una valutazione più neutra del dolore fisico e meno suscettibile di generare una risposta affettiva al dolore stesso.
Questi cambiamenti trovano espressione in un’alterazione della stessa funzionalità cerebrale nei soggetti meditanti. Così come dimostrato in un precedente studio di Davidson e Kabat-Zinn (2003), la partecipazione ad un programma MBSR correla con un incremento dell’attivazione dell’emisfero sinistro, un pattern che sta ad indicare una riduzione dell’impatto di affetti negativi, con conseguente aumento di affetti positivi. I risultati maggiori sono stati riscontrati in quei soggetti che hanno coltivato la pratica meditativa regolarmente, sia durante le 8 settimane di training, praticando ogni giorno per almeno 30-40 minuti, sia anche a seguito della conclusione del programma MBSR, con l’ausilio di materiale fornito dai conduttori (manuali e audio registrazioni). Ciò suggerisce l’importanza di considerare ulteriori variabili individuali, quali il grado di motivazione e determinazione nella gestione della propria malattia.

Mindfulness per fibromialgia: Conclusioni

In sostanza, il ricorso alle abilità di mindfulness per fibromialgia correla positivamente con la riduzione nell’utilizzo della ruminazione e di altre strategie di evitamento, tipiche delle persone che soffrono di fibromialgia e dolore cronico; una pratica continuativa di meditazione indebolisce la relazione tra l’intensità del dolore percepito e la sua catastrofizzazione, aumenta il sentimento di accettazione del dolore ed il senso di auto-efficacia nella sua gestione.

Sebbene si rendano necessari ulteriori studi che analizzino più dettagliatamente le differenti variabili in gioco (ad esempio il ruolo dell’attenzione, del supporto sociale, del contatto con i conduttori e con gli altri partecipanti) oltre che le specifiche componenti della mindfulness, sia l’intervento MBSR sia quello MBCT costituirebbero entrambi un promettente trattamento complementare, specialmente alla luce degli ancora attuali gap nella gestione medica di tale disturbo.
Un intervento di natura comportamentale orientato alla mindfulness, che ha come obiettivo la riduzione della sintomatologia depressiva, può indirettamente apportare benefici su molteplici aspetti, non solo fisici ma anche personali, familiari, sociali, lavorativi, migliorando notevolmente la qualità di vita di questi pazienti.

L’efficacia della psicoterapia cognitivo-comportamentale sull’insonnia e sull’infiammazione cellulare

Esiste una correlazione tra l’insonnia e l’infiammazione cellulare? Sembra di sì e la psicoterapia cognitivo-comportamentale sembra essere efficace per entrambi i fattori presi in considerazione.

L’insonnia è diagnosticata prendendo in considerazione alcuni parametri, quali difficoltà all’addormentamento, frequenti risvegli e l’impossibilità di riprendere sonno. In aggiunta ai sintomi notturni, nella maggior parte dei casi, sono presenti anche sintomi diurni, quali ad esempio fatica, irritabilità, sonnolenza, disturbi dell’umore e difficoltà di apprendimento e memoria.

L’insonnia, se di lunga durata, può avere delle conseguenze gravi con manifestazione di alcune psicopatologie come, su tutte, la depressione. Negli ultimi anni è aumentato l’interesse per lo studio relativo alle infiammazioni cellulari e sistemiche legate alla depressione e per comprendere se questi due fattori possono avere una relazione causale con i disturbi del sonno.

Alcuni studi hanno dimostrato con chiarezza che alti livelli d’infiammazione cellulare possono portare a un aumento delle Proteine C-Reattive (PCR) e a conseguenti sintomi depressivi e alterazioni dell’andamento del sonno (Meier-Ewert et al., 2004; Eisenberger et al., 2010; Raison et al., 2010; Ferrie et al., 2013). Altre ricerche, invece, hanno mostrato che la terapia cognitiva-comportamentale e l’utilizzo di tecniche meditative può indurre, almeno parzialmente, una riduzione dei leucociti e delle alterazioni trascrizionali associate alla risposta da stress (Morin et al., 2009; Irwin & Olmstead, 2012); nessuno ha però focalizzato il proprio interesse sulle possibilità di ridurre le infiammazioni sistemiche e cellulari legate all’insonnia.

Un gruppo di ricercatori dell’Università della California (Irwin et al., 2015) ha studiato gli effetti della terapia cognitivo-comportamentale e del Tai Chi sull’infiammazione cellulare, ipotizzando questo come fattore causale dell’insonnia stessa.

La psicoterapia cognitivo-comportamentale per i disturbi del sonno consiste essenzialmente in una psicoeducazione, in un rafforzamento delle associazioni tra il letto e il momento di andare a dormire e in una ristrutturazione dei pensieri disfunzionali legati al sonno. Il trattamento dell’insonnia ha come obiettivo primario quello di migliorare la qualità e la quantità del sonno e i sintomi diurni correlati al disturbo.

Il Tai Chi, invece, è un’arte marziale cinese che nei paesi occidentali ha assunto i connotati di ginnastica utilizzata nella prevenzione di malattie. Non a caso, sono piuttosto noti i benefici del Tai Chi sulla riduzione della pressione sanguigna, sulla riduzione dello stress, miglioramento del sonno e sul trattamento della depressione (Wang et al., 2001, 2004; Irwin et al., 2008; Lavretsky et al., 2011)

Il gruppo di Irwin e colleghi ha utilizzato 123 adulti anziani (età superiore ai cinquantacinque anni) che soddisfacevano i criteri del DSM-IV per l’insonnia primaria, dividendoli in modo casuale in tre gruppi: pazienti sottoposti a una psicoterapia cognitiva-comportamentale per l’insonnia; pazienti che praticavano il Tai Chi; pazienti che costituivano il gruppo di controllo e che quindi non ricevevano alcun tipo di trattamento. Inoltre, i ricercatori, al quarto e sedicesimo mese di trattamento, misuravano nei tre gruppi i livelli della Proteina C-Reattiva (PCR).

Lo studio ha dimostrato che la psicoterapia cognitivo-comportamentale riduceva i sintomi dell’insonnia e i livelli di attivazione infiammatoria con conseguente diminuzione dei livelli delle PCR. Questa riduzione dei fattori d’infiammazione era costante anche nei successivi follow-up a sette e sedici mesi correlato sempre al miglioramento del sonno. Il gruppo che aveva utilizzato il Tai Chi, rilevava i medesimi aspetti positivi sullo stato del sonno, ma la riduzione infiammatoria non riguardava direttamente le PCR ma la proteina TLR-4 (Toll-Like Receptor 4). Il dato interessante è che in questo secondo gruppo, nei successivi follow-up, si denotava ancora una riduzione dei livelli di TLR-4, ma i benefici del Tai Chi sull’insonnia erano svaniti e i pazienti erano tornati a manifestare disturbi del sonno. Mentre, nel gruppo di controllo non si notavano cambiamenti significativi degli aspetti presi in considerazione.

Il dato più interessante di questa ricerca è che la psicoterapia cognitivo-comportamentale da una parte conferma la sua efficacia contro l’insonnia (alla pari del Tai Chi) e che, inoltre, porta a dei benefici nella qualità del sonno rilevati anche a distanza di mesi che sembrano essere critici nella riduzione dell’attività infiammatoria cellulare e nello specifico nella riduzione dei livelli di proteine C-reattive.

Il cervello dei videogamer cronici evidenzia una iperconnettività: pregio o difetto?

La dipendenza da gioco online o Internet Gaming Disorder è una condizione psicologica caratteristica di quei soggetti che sono ossessionati dai videogames. Tali pazienti si rivolgono allo specialista della salute mentale poiché arrivano persino a smettere di mangiare e a ridurre le ore di sonno, trascorrendo molto tempo davanti allo schermo del PC o della TV.

Un recente studio svolto su 106 ragazzi sud-coreani (età compresa tra 10 e 19 anni) con diagnosi di dipendenza da gioco online, ha evidenziato una maggiore connettività tra le aree corticali di questi pazienti rispetto alla popolazione di riferimento. Attraverso la risonanza magnetica funzionale (fMRI), infatti, è stato possibile confrontare l’attività cerebrale dei pazienti con quella di 80 soggetti di controllo, considerando come misura di connettività funzionale le aree simultaneamente attive e a riposo.

E’ bene capire che in determinati casi l’iperconnettività tra due aree è un fatto positivo, in quanto promuove migliori performance cognitive. Proponendo un esempio, nei pazienti considerati da questo studio emergeva una iperconnettività tra le aree deputate all’analisi degli stimoli visivi o uditivi e il cosiddetto salience network, ovvero una rete neurale che sottende i processi attentivi necessari a cogliere gli stimoli rilevanti (“salienti” appunto) in mezzo a tutti quelli proposti dal contesto ambientale. Potremmo perciò supporre che i videogamer possiedano una migliore capacità di dirigere l’attenzione verso gli stimoli target e di riconoscere le nuove informazioni nell’ambiente, peculiarità che permetterebbe loro di reagire velocemente alle difficoltà del gioco.

In altri casi, invece, l’iperconnettività si associa ad una maggiore distraibilità ed impulsività, due qualità non propriamente funzionali al raggiungimento degli obiettivi. In aggiunta a ciò, i pazienti considerati nello studio evidenziavano una maggiore connettività anche tra la corteccia prefrontale dorsolaterale e la giunzione temporo-parietale, un pattern già riscontrato in pazienti afflitti da schizofrenia, sindrome di Down e autismo.

Secondo Jeffrey Anderson, uno degli autori della ricerca, i pro di questa aumentata connettività tra le aree potrebbero essere difficilmente separabili dai problemi che li accompagnano, motivo per il quale non è ancora chiaro se una consistente fruizione di videogiochi sia veramente migliorativa delle capacità cognitive.

La trilogia dei colori (1993-1994) di K. Kieślowski – Recensione

Tra il 1993 e il 1994 vengono realizzate tre pellicole dal regista e sceneggiatore polacco Krzysztof Kieślowski: ‘La trilogia dei colori’. I film: Film Blu, Film Bianco e Film Rosso sono ispirati ai colori della bandiera francese e agli ideali in essi rappresentati: libertà, uguaglianza, fratellanza.

Il film blu concentra la tematica sulla libertà, il film bianco sull’uguaglianza e il film rosso sulla fratellanza. Questi tre film non sono apparentemente legati gli uni agli altri se non nella costituzione finale dei colori della bandiera. Visti singolarmente assolvono tutte le tematiche in essi racchiuse, le storie non rimangono in sospeso, la morale è ben chiara, sono tutti autoconclusivi. Per poter cogliere la grandiosità dell’opera però è necessaria una visione attenta di tutti e tre i film.

Tutti i personaggi sono presenti in tutti e tre i film, si incontrano, intravedono, sfiorano, tutti sono in rapporto con gli altri, tutto è connesso, bisogna solo fare attenzione. Dialoghi e trame scritti dal regista in collaborazione con Krzysztof Piesiewicz inoltre, enfatizzano tale particolarità. Cosa vediamo nei film? Persone diverse in luoghi diversi pensano la stessa cosa, compongono la stessa musica, alcuni addirittura vivono la stessa vita, tutti influenzano in qualche modo il contenuto delle trame, da tutti dipende il tutto.

Il regista osserva la vita, la descrive attraverso le storie di gente comune. Il destino e la volontà, che a mio avviso qui può essere tradotto come acasualità, si intrecciano continuamente.

Kieślowski tratteggia i suoi personaggi, attraverso piccoli segni che poi trovano conferma nelle loro azioni. Dettagli apparentemente insignificanti, sono pensati dal regista in funzione del carattere di questi, secondo il personalissimo stile criptico e conciso. Non baderò ad accennare minimamente le trame, vorrei invece fornire una chiave di lettura particolare che magari porterà ad una più godibile visione del tutto per chi lo vorrà.

L’attenta osservazione delle tre pellicole non ha potuto non farmi pensare alla teoria Junghiana della sincronicità e a come siamo tutti inevitabilmente collegati gli uni agli altri. Cos’è la sincronicità?

Credo si possa spiegare in parole semplici come assenza di casualità nelle cose che si inserisce in uno spazio/tempo aspaziali e atemporali. Ciò che pensiamo possa essere un caso è in realtà accaduto per una forza, un’ energia inconscia collettiva e personale che cerca di portarci là dove dobbiamo arrivare. E’ una sorta di cammino del tutto personale che ci portiamo da generazioni e influenza i nostri pensieri. La nostra vita ci parla attraverso gli oggetti noi parliamo loro attraverso un legame che ignoriamo ma che esiste. (Teodorani M, 2006)

Discente di Freud, Jung si distacca ad un certo punto dalla visione pulsionistica del maestro arrivando alla sua psicologia analitica. Assecondando le sue intuizioni, che trovarono conferma partendo addirittura dalla teoria di Ippocrate secondo la quale l’universo è legato in tutte le sue parti da quelle che lui chiamava affinità nascoste affermando che tutte le cose sono in simpatia e che le coincidenze significative possono essere spiegate come null’altro che elementi simpatetici che si cercano gli uni con gli altri, Jung arriva a concepire la psicologia come una dottrina non rivolta esclusivamente all’ambito della salute mentale.

Nella psicoterapia Junghiana il fine ultimo è la guarigione dell’anima, i suoi studi si rivolgono a tutti, si estendono a tutti, poiché tutti necessitano di arrivare al concepimento e chiarificazione del proprio mondo interno, arrivare quindi al sé, attraverso il processo di Individuazione. Alla teoria di questo processo Jung ci arriva dopo aver affrontato un percorso personale e dopo aver ampliato il campo di azione, se cosi vogliamo dire.

Affascinato e incuriosito infatti dalle diverse discipline scientifiche, tra concetti di inconscio collettivo, archetipi e simbologia dei sogni, inizia una epistolare collaborazione con il Nobel per la Fisica, Pauli e si convince che l’essere umano fa parte di un tutto imprescindibile e arriva a concepire quel processo di formazione e di caratterizzazione dei singoli individui distinti dalla generalità, prendendo spunto anche dalla fisica quantistica.

L’individuazione è quindi un processo di differenziazione che ha per meta lo sviluppo della personalità individuale. La necessità dell’individuazione è una necessità naturale, ostacolarla pregiudica l’attività vitale dell’individuo e porterebbe in casi estremi alla psicopatologia. (Jung, 2011)

Dal momento che la sincronicità è la manifestazione di una relazione diretta tra la mente e la materia questo significa che il mondo fisico e il mondo psichico sono interconnessi. Gli eventi sincronici sono manifestazioni in cui i mondi interno ed esterno vengono improvvisamente messi alla luce. La capacità di essere consapevole di queste invisibili leggi e di essere in armonia con esse è alla fine proprio quello che Jung chiamerà processo di individuazione e che prende origine dall’interpretazione degli archetipi e della loro azione attraverso i sogni ed eventi sincronici. Inconscio collettivo e soggettivo alla fine quindi saranno integrati arrivando cosi al sé.

Il parallelismo tra la visione Junghiana dell’uomo e la messa in scena del regista ha un certo fascino e pone una chiave di lettura quindi tutt’altro che banale.

Le pellicole mostrano il viaggio individuale di ogni protagonista attraverso le idee iniziali di fratellanza, uguaglianza e libertà ma nella scena finale del Film Rosso (ultimo) si palesa a mio avviso la chiave di lettura di sincronicità e individuazione. In questa ultima scena sono presenti tutti i protagonisti, unici supersiti di una tragedia, che evidenzia cosa? Null’altro che, a parer mio, solo chi è stato in grado di assecondare il proprio destino, è stato anche poi in grado di salvarsi.

I Film di Kieslowski e in questo caso ‘la trilogia dei colori’, non lasciano nulla al caso, ogni azione e singolo oggetto sono sistemati con criterio e scopi ben precisi, un allegoria continua con la vita che non ha nulla di casuale.

Le tecniche di rilassamento (2013) di Valentina Penati – Recensione

Cos’è il rilassamento e quali sono i principali metodi per raggiungerlo? Di ciò tratta questo manuale che si configura come una pratica rassegna delle principali tecniche di rilassamento che, dapprima inquadrate storicamente e ideologicamente, vengono poi esaminate nelle loro caratteristiche peculiari (aspetti fisiologici e metodologici, ambiti applicativi ed esercizi pratici).

Una guida concepita, quindi, per tutti i terapeuti che intendono conoscere e approfondire queste tecniche come utili strumenti da introdurre nella pratica clinica.

Secondo l’autrice si può definire rilassamento:

Un particolare stato psicofisico, caratterizzato da un lato da modificazioni specifiche dell’attività dell’organismo (la principale è la riduzione della tensione muscolare) e dall’altro da sensazioni psichiche percepite introspettivamente come benessere, serenità e tranquillità.

La contrazione muscolare, automatica reazione di difesa a situazioni percepite come minacciose, talvolta si può rivelare una risposta inefficace e controproducente poiché limita la possibilità di attuare comportamenti funzionali.

Se è vero, dunque, che gli stati emotivi possono accompagnarsi a tensioni muscolari e a modificazioni vascolari, respiratorie e viscerali, l’allenamento alla distensione muscolare tramite questi metodi può contribuire in modo vantaggioso al ripristino dell’attività cardiaca, respiratoria e digerente, inducendo così anche un alleviamento del carico emotivo e cognitivo che può predisporre a condotte più efficienti.

Imparare a riconoscere gli stati di tensione muscolare costituisce il primo passo per impegnarsi in un processo distensivo utile per ricontattare le sensazioni corporee e allontanarsi da pensieri disturbanti ed intrusivi che interferiscono con il funzionamento della persona.

Tra le principali tecniche scientificamente accreditate, nel manuale vengono annoverate:

  • Il rilassamento progressivo di Jacobson che, tramite fasi alternate di contrazione e distensione volontarie dei diversi distretti muscolari, riduce la tensione muscolare residua che può persistere anche in una condizione di riposo;
  • Il training autogeno di Schultz che, attraverso un atteggiamento di concentrazione passiva sul proprio corpo, mira a limitare le funzioni di controllo e ad attivare i processi di distensivi e rigenerativi;
  • L’esercizio del posto sicuro, mutuato dall’approccio EMDR, che si può configurare come una tecnica di visualizzazione capace di trasportare la persona da una situazione stressante ad una emotivamente più serena e tranquilla;
  • Le tecniche mindfulness che permettono l’apprendimento di concentrazione, consapevolezza del momento presente ed accettazione;
  • La respirazione addominale che contribuisce a rallentare una respirazione eccessivamente rapida e superficiale;
  • La visualizzazione, una tecnica immaginativa grazie alla quale la persona impara a visualizzarsi all’interno di un contesto, reale o immaginario, caratterizzato da sensazioni piacevoli e rilassanti.

Diversi sono i possibili ambiti applicativi all’interno dei quali è possibile integrare l’utilizzo di questi strumenti: da quello squisitamente clinico (trattamento dei disturbi di natura ansiosa) e medico (cefalee, bruxismo, dolore lombare cronico, balbuzie, neoplasie), a quello lavorativo (coaching) e sportivo (allenamento agonistico).

Il recupero del dialogo tra la nostra mente e il nostro corpo, associato a motivazione ed impegno, favoriscono l’interiorizzazione delle tecniche apprese e la loro applicazione in autonomia, potenziando la percezione di autoefficacia personale.

Neurofeedback: un aiuto per gestire le emozioni nei più giovani

Il neurofeedback è una metodologia che aiuta a tenere sotto controllo l’attività cerebrale e le emozioni ed è stata testata anche sui più giovani.

SISSA, Scuola Internazionale Superiore di Studi Avanzati

Infanzia e adolescenza sono età in cui si affrontano cambiamenti continui ed esperienze cruciali, e a volte il carico emotivo può essere difficile da gestire al punto che può addirittura provocare disagi psicologici successivi, in età adulta. Il neurofeedback è una metodologia che aiuta gli individui a tenere sotto controllo l’attività cerebrale (per esempio relativa a un evento emozionale), ma per ora è stato utilizzato solo sugli adulti. Un nuovo studio pubblicato su NeuroImage dimostra che la tecnica è promettente anche per i soggetti più giovani.

La difficoltà nell’affrontare le emozioni e tenerle sotto controllo può provocare disagi psicologici di varia natura, quando addirittura non si arriva (nel caso di eventi emotivamente catastrofici) a vere e proprie sindromi psichiatriche. Questo è vero soprattutto in età evolutiva: i traumi giovanili possono contribuire a sviluppare successivamente problemi di depressione, ansia, e anche peggio. Esistono varie tecniche per aiutare le persone a controllare le emozioni, fra queste c’è il neurofeedback, una metodologia con cui informazioni sulle variazioni dell’attività neurale di un individuo vengono fornite allo stesso individuo in tempo reale, permettendogli di autoregolare questa attività (ottenendo così un cambio nel comportamento del paziente). Questa metodologia è già in uso a scopo terapeutico sugli adulti, ma non è mai stata testata sui più giovani, che sono fra i soggetti più vulnerabili e che maggiormente potrebbero giovare dell’efficace controllo delle proprie emozioni.

Il nuovo studio ha usato il neurofeedback a risonanza magnetica funzionale (fMRI) in tempo reale su un campione di ragazzi.

[blockquote style=”1″]Abbiamo lavorato con soggetti fra i 7 e i 16 anni. I ragazzi osservavano immagini emotivamente cariche mentre la loro attività cerebrale veniva monitorata, per poi essere ‘restituita’ in tempo reale ai soggetti stessi[/blockquote] spiega Moses Sokunbi, ricercatore della SISSA, fra gli autori del lavoro. L’area cerebrale di riferimento, in particolare, era una porzione di corteccia cerebrale chiamata insula.
I ragazzi vedevano il livello di attivazione dell’insula su un “termometro” rappresentato sullo schermo di un computer e venivano istruiti a diminuire o aumentare l’attivazione con strategie cognitive, verificando poi l’effetto sul termometro.

Tutti i partecipanti hanno imparato a sovraregolare (innalzare) l’attività dell’insula (ma son stati meno bravi a sottoregolarla). Inoltre grazie a tecniche specifiche di analisi è stato possibile ricostruire il network complessivo delle aree coinvolte nella regolazione delle emozioni (oltre all’insula) e il flusso dell’attivazione al suo interno. In questo modo gli scienziati hanno potuto osservare che la direzione del flusso osservato quando il soggetto sovraregolava si ribaltava quando invece il soggetto sottoregolava.

[blockquote style=”1″]Questo risultato mostra che l’effetto del neurofeedback è andato oltre la superficie – la semplice attivazione dell’insula – influenzando profondamente tutto il network di regolazione delle emozioni[/blockquote] spiega Kathrine Cohen Kadosh, ricercatrice dell’Università di Oxford e prima autrice dello studio. [blockquote style=”1″]Questi risultati messi insieme dimostrano che il neurofeedback è una metodologia che può essere utilizzata con successo nei soggetti giovani.[/blockquote]

[blockquote style=”1″]L’infanzia e l’adolescenza sono periodi estremamente importanti per lo sviluppo emotivo Per questo motivo, l’abilità di plasmare i network cerebrali associati alla regolazione delle emozioni potrebbe essere cruciale per la prevenzione di malattie mentali, che sappiamo aver origine in questo periodo vitale quando la capacità emotiva del cervello si sta ancora formando[/blockquote] spiega Jennifer Lau, dell’Istituto di Psichiatria, Psicologia e Neuroscienza del King’s College di Londra, anche lei nel team che ha condotto lo studio.

 

LINK UTILI: • Link all’articolo originale: http://goo.gl/1A0jzL
IMMAGINI: • Crediti: Clemens v. Vogelsang (Glickr: https://goo.gl/dyZdda)

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Childhood and adolescence are ages of constant change and crucial experiences. At times the emotional weight can be difficult to manage and may lead to psychological issues in adulthood. Neurofeedback is a method that helps individuals to keep their brain activity (for example a response to an emotional event ) under control. While routinely used on adults, a new study published in NeuroImage demonstrates that the technique shows promise for young people as well.

Difficulty handling emotions and keeping them under control can cause various psychological issues and even lead to full-blown psychiatric problems (in cases of emotionally catastrophic events). This is especially true in childhood. Trauma experienced in youth can contribute to later problems such as depression, anxiety and even more serious conditions. There are various techniques for helping people control their emotions, including neurofeedback, a training method in which information about changes in an individual’s neural activity is provided to the individual in real-time and this enables the individual to self-regulate this neural activity to produces changes in behaviour. While already in use as a treatment tool for adults, until now the methodology had not been used on young people who are more vulnerable and could thus benefit from more efficient control of their emotions.

[blockquote style=”1″]The new study used real time fMRI-based neurofeedback on a sample of kids. We worked with subjects between the ages of 7 and 16 “They observed emotionally- charged images while we monitored their brain activity, before ‘returning’ it back to them[/blockquote] explains SISSA researcher and one of the authors of the study, Moses Sokunbi. The region of the brain studied was the insula, which is found in the cerebral cortex.

The young participants could see the level of activation of the insula on a “thermometer” presented on the MRI projector screen and were instructed to reduce or increase activation with cognitive strategies while verifying the effects on the thermometer. All of them learned how to increase insula activity (decreasing was more difficult).Specific analysis techniques made it possible to reconstruct the complete network of the areas involved in regulating emotions (besides the insula) and the internal flow of activation. In this way, scientists observed that the direction of flow when activity was increased reversed when decreased.

[blockquote style=”1″]These results show that the effect of neurofeedback went beyond the superficial- simple activation of the insula- by influencing the entire network that regulates emotions. They demonstrate that neurofeedback is a methodology that can be used successfully with young people[/blockquote] explains Kathrine Cohen Kadosh, Oxford University researcher and first author of the study.

[blockquote style=”1″]Childhood and adolescence is an extremely important time for young people’s emotional development. Therefore, the ability to shape brain networks associated with the regulation of emotions could be crucial for preventing future mental health problems, which are known to arise during this vital period when the brain’s emotional capacity is still developing [/blockquote] says Jennifer Lau, from the Institute of Psychiatry, Psychology & Neuroscience at King’s College London, who has taken part in the study.

 

USEFUL LINKS: • Link to the original paper: http://goo.gl/1A0jzL

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Placebo ed effetto Placebo – Introduzione alla Psicologia Nr. 40

INTRODUZIONE ALLA PSICOLOGIA (Nr. 40)

Prima di entrare nel vivo del discorso guardiamo in dettaglio cosa si intende per placebo. In medicina, il placebo è una sostanza non pericolosa, innocua, neutra, che non possiede alcuna controindicazione se usata a scopi terapeutici. Può essere somministrato sotto forma di pillola o di liquido. In ogni caso, risulta privo di ogni principio farmacologico o chimico attivo e quindi non presenta alcuna efficacia terapeutica.

Il placebo è noto nell’ambito delle scienze naturali fin dal Settecento, ed è stato definito attraverso il futuro del verbo latino placere, placebo, che significa letteralmente piacerò, mi piacerà la terapia assunta. Di fatto, il placebo è il più antico ed efficace trattamento terapeutico conosciuto dall’uomo. Ad oggi, non esiste un farmaco in grado di equiparare i suoi effetti terapeutici e di benessere psicologico ottenuti.

Studi in cieco (dove il paziente non sa cosa sta prendendo) o in doppio cieco (sia il paziente che il medico che somministra non sono a conoscenza di cosa si somministra) hanno evidenziato risultati terapeutici migliori in pazienti trattati col placebo rispetto a coloro che hanno assunti farmaci normali.

L’effetto placebo, è il risultato dalla somministrazione di un farmaco placebo, e rappresenta l’esito terapeutico osservabile in chi ha assunto tale terapia. Solitamente, in chi lo prende si ottengono dei miglioramenti sia da un punto di vista organico sia psicologico. Tale miglioramento è sicuramente determinato dall’atteggiamento positivo mostrato dal paziente nei confronti della cura, perché prefigura una migliore e più repentina guarigione.

Risultati eclatanti si ottengono anche attraverso la chirurgia placebo, in cui, ad esempio, una semplice incisione induce effetti benefici su una malattia più importante presentata.

In generale, l’effetto placebo si verifica quando la persona si mostra positiva nei confronti del farmaco assunto e propenso a guarire. Manifesta, dunque, maggiore positività a propensione al cambiamento in termini di miglioramento del proprio stato di benessere.

A parità di trattamenti placebo si ottengono esiti terapeutici migliori quando il medico mostra atteggiamenti più empatici e accoglienti nei confronti del paziente. Questo atteggiamento positivo consente a chi riceve la cura di sentirsi più riconosciuto, e più ascoltato. Per questo, implementa la fiducia e le aspettative positive rispetto ai benefici del trattamento stesso.

Tutto questo evidenzia che il ricevere maggiori attenzioni terapeutiche innesca una forma di autosuggestione che si traduce in un effettivo e reale miglioramento per il soggetto malato. Tale effetto porterebbe a una maggiore produzione di endorfine, analgesici endogeni naturali, ormoni del buon umore, prodotti dall’organismo umano, derivanti dalla convinzione di riuscire a guarire con molta probabilità.

Chiaramente, un giudizio o un atteggiamento negativo da parte del medico o dello sperimentatore può indurre anche un effetto negativo sugli esiti della cura definito nocebo, in cui le aspettative negative producono un peggioramento del quadro clinico. L’effetto nocebo è riscontrabile anche nelle sperimentazioni cliniche in cui i partecipanti palesano gli stessi effetti collaterali che si verificherebbero tramite l’assunzione del vero farmaco. Questo succede perché è stato loro comunicato che la sostanza assunta potrebbe provocare degli effetti nocivi, di conseguenza le aspettative calano e la preoccupazione di non guarire aumenta.

Concludo dicendo: “Corpus sano in mente sana” ipse dixit!

RUBRICA: INTRODUZIONE ALLA PSICOLOGIA

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Religione e politica: quello che non abbiamo imparato in più di 2000 anni!

Gli esseri umani non hanno imparato molto in più di 2000 anni in termini di religione e politica. Infatti, la religione ha portato a tensioni sociali e conflitti, non solo nella società moderna, ma fin dal 700 a.C., secondo un nuovo studio pubblicato in Current Anthropology.

Il Professor Arthur A. Joyce, del Dipartimento di Antropologia dell’Università del Colorado, con il Professore Associato Sarah Barber, dell’Università della Florida Centrale, hanno trovato delle prove, in una serie di siti archeologici messicani, che contraddicono la credenza di lunga data che la religione abbia agito per unire le prime società statali; spesso, come lo studio attesta, essa ha avuto l’effetto opposto.

[blockquote style=”1″]Non importa se oggi non condividiamo particolari credenze religiose, ma quando le persone, in passato, hanno agito in base alle loro credenze, quelle azioni hanno avuto conseguenze reali e materiali[/blockquote] dichiara Barber, a proposito delle scoperte della squadra di ricerca, e aggiunge: [blockquote style=”1″]E’ doveroso riconoscere il ruolo della religione quando si considerano i processi politici.[/blockquote] Tale affermazione risuona come un monito e un saggio consiglio ancor di più oggi, di fronte a un maggior numero di esempi dell’intersezione tra politica e religione e del conseguente conflitto.

Il team di studiosi ha pubblicato le proprie scoperte nell’articolo “Ensoulment, Entrapment, and Political Centralization: A Comparative Study of Religion and Politics in Later Formative Oaxaca”, dopo aver speso molti anni nel condurre ricerche sul campo nella bassa valle del Rio Verde di Oaxaca, nelle pianure costiere del Messico, sul versante del Pacifico, i cui risultati sono stati confrontati con i dati provenienti dalla valle nell’altopiano di Oaxaca.

La ricerca riguarda reperti archeologici riferiti al periodo tra il 700 a.C. e il 250 d.C, identificato come il momento della comparsa degli stati nella regione. All’epoca, nella bassa valle del Verde, i rituali religiosi, coinvolgenti offerte e la sepoltura di persone in cimiteri in comunità più piccole, crearono forti tensioni a livello locale, che impedirono la creazione di istituzioni statali più grandi. Nella Valle di Oaxaca, invece, gruppi elitari divennero fondamentali per mediare tra la politica delle loro comunità e il “volere” degli dei, tanto che, alla fine, si scatenò il conflitto all’interno delle comunità tradizionali, che culminò con la nascita di uno stato regionale, con a capo la città collinare di Monte Albán.

[blockquote style=”1″]Sia nella Valle di Oaxaca sia nella bassa Valle del Rio Verde, il ruolo della religione fu importante nella formazione e nella storia delle prime città e stati, ma in modi diversi[/blockquote] dice Jo-yce, autore principale dello studio.

Proseguendo nella lettura dell’articolo si capisce come l’ingerenza conflittuale della religione, nella bassa valle del Rio Verde, si palesi, ad esempio, nella rapida ascesa e conseguente caduta delle sue istituzioni statali: nella capitale Rio Viejo, la popolazione aveva costruito enormi templi dal 100 d.C.; eppure, questi imponenti edifici ad alta intensità di lavoro, insieme a molte altre città in tutta la valle, furono abbandonati poco più di un secolo più tardi. [blockquote style=”1″]Dato il ruolo della religione nella vita sociale e nella politica di oggi, tutto questo non dovrebbe sorprenderci [/blockquote]conclude Joyce.

Emozione e memoria: le Flashbulb Memories

Un fenomeno esemplificativo di interazione tra aspetti cognitivi ed emotivi è rappresentato dalle cosiddette Flashbulb memories: ricordi vividi, dettagliati e persistenti delle circostanze di apprendimento di un evento significativo e a forte carica emotiva.

Le emozioni possono notevolmente influenzare i processi cognitivi legati alla memoria. La forza dei ricordi dipende dal grado di attivazione emozionale, per cui eventi o esperienze vissute con una partecipazione emotiva di livello medio-alto vengono catalogati nella nostra mente come importanti, grazie al coinvolgimento di strutture cerebrali che fanno parte del sistema limbico, quali amigdala e ippocampo; il coinvolgimento di tali strutture determina una maggiore probabilità che il ricordo venga successivamente richiamato alla memoria.

Un fenomeno esemplificativo di interazione tra aspetti cognitivi ed emotivi è rappresentato dalle cosiddette Flashbulb memories. Brown & Kulik (1977) definiscono flashbulb memories (o ricordi fotografici) i ricordi vividi, dettagliati e persistenti delle circostanze di apprendimento di un evento significativo e a forte carica emotiva.

Questi ricordi si caratterizzano per il fatto che gli individui conservano dettagliatamente e a lungo, non solo il ricordo dell’evento in sé, ma anche la circostanza in cui hanno appreso la notizia, il luogo in cui si trovavano, il momento della giornata, l’attività in corso di svolgimento, la fonte della notizia, la reazione emotiva vissuta al momento, gli altri presenti e le loro reazione emotive, e le immediate conseguenze dell’evento (Mecacci, 2001).

I primi studi si focalizzarono sul fenomeno del ricordo fotografico relativamente ad eventi pubblici traumatici. Quando si viene a conoscenza di un evento pubblico traumatico, che ha come protagonista un personaggio celebre, gli individui verrebbero colpiti dalla notizia inaspettata e avvertirebbero le conseguenze dell’evento per sé e per il loro gruppo. In virtù di questo, l’evento verrebbe registrato con una grande ricchezza e vividezza di dettagli. In seguito, le reiterazioni dell’accaduto, ossia le discussioni con altre persone e le ruminazioni mentali, interverrebbero a consolidare la traccia mnestica. Le flashbulb memories vengono memorizzate in una sola occasione e trattenuti per tutta la vita.

Per molti americani, l’11 Settembre 2001 è una data che contiene un significato particolare; si tratta del giorno in cui si verificarono una serie di attacchi terroristici negli Stati Uniti d’America che causarono quasi 3000 morti. La maggior parte degli adulti ricordano facilmente quando ciò è accaduto, ma ricordano davvero gli attacchi o stanno ricordando il momento in cui hanno appreso la notizia degli attacchi? Va da sé che la gente non può ricordare un’esperienza alla quale in realtà non ha assistito.

Un altro storico esempio è l’esplosione della navetta spaziale Challenger (1986), evento trasmesso in televisione e visto da milioni di persone, alcune delle quali affermano di ricordare in maniera vivida dove erano quando hanno appreso la notizia del disastro, da chi hanno appreso la notizia e numerosi altri dettagli. E ancora, molte persone affermano di poter ricordare esattamente cosa stavano facendo e dove erano quando sentirono della scioccante morte della principessa del Galles, Lady Diana o dell’assassinio di J.F. Kennedy (Hilgard et al., 1989).

Più di recente, il concetto di flashbulb memories è stato applicato anche a eventi privati e ad eventi pubblici negativi o positivi (Mecacci, 2001). Le principali determinanti della formazione delle flashbulb memories sembrano dunque essere: un alto livello di sorpresa, un elevato livello di consequenzialità (intesa come possibilità dell’evento di produrre conseguenze significative sulla vita dell’individuo o gruppo sociale cui appartiene), e il livello di attivazione emotiva (Finkenauer et al., 1998). In seguito, il ripercorrere mentalmente l’accaduto e discuterne con altre persone interverrebbe a consolidare il ricordo. Se queste variabili non raggiungono livelli sufficientemente alti, non è possibile la formazione di ricordi flashbulb.

La sospensione del giudizio nella selezione etica delle Risorse Umane

Chi si occupa di selezione del personale dovrebbe abbandonare ogni pregiudizio ed assumere un atteggiamento simile a quello degli Scettici, ovvero sospendere ogni giudizio, rigettare ogni orientamento dogmatico; dovrebbe, al contrario, possedere un’elevata capacità di tollerare le situazioni di ambiguità per rivedere le proprie impressioni.

 

Lo scetticismo antico utilizzava il termine ἐποχή (epochè) per indicare la sospensione del giudizio, considerata dagli Scettici come necessaria, data l’assoluta incertezza di ogni conoscenza concernente la realtà esterna.

Sesto Empirico negli Schizzi Pirroniani usa il termine ἐποχή (epochè) per indicare un atteggiamento che consente di conseguire l’imperturbabilità:

Allo Scettico è accaduto ciò che si narra del pittore Apelle. Dicono che questi, dipingendo un cavallo, volesse ritrarne col pennello la schiuma. Non riuscendovi in alcun modo, vi rinunziò e scagliò contro il dipinto la spugna, nella quale astergeva il pennello intinto di diversi colori. La spugna, toccato il cavallo, vi lasciò un’impronta che pareva schiuma. Anche gli Scettici speravano di conseguire l’imperturbabilità dirimendo la disuguaglianza che c’è tra i dati del senso e quelli della ragione; ma, non potendo riuscirvi, sospesero il giudizio, e a questa sospensione, come per caso, tenne dietro l’imperturbabilità, quale l’ombra al corpo

(Schizzi Pirroniani, I).

Gli Scettici, dunque, analogamente a quanto accadde al pittore Apelle, volevano impadronirsi dell’imperturbabilità, dirimendo l’anomalia degli eventi, ma non riuscendovi, sospesero il giudizio a cui seguì l’imperturbabilità.

Limitandoci al presente, quindi, il vero fine dello Scettico è l’imperturbabilità nelle cose opinabili e la moderazione nelle affezioni.

ἐποχή (epochè) è un processo cognitivo opposto al concetto di pregiudizio, cioè un giudizio basato su opinioni precostituite e su stati d’animo irrazionali, anziché sulla conoscenza diretta di un determinato fenomeno. “

Pregiudizio è un termine che deriva dal latino (da prae, cioè prima e iudicium, ovvero giudizio) e consiste in una valutazione preventiva ad una conoscenza diretta.

Chi si occupa di selezione del personale dovrebbe abbandonare ogni pregiudizio ed assumere un atteggiamento simile a quello degli Scettici, ovvero sospendere ogni giudizio, rigettare ogni orientamento dogmatico; dovrebbe, al contrario, possedere un’elevata capacità di tollerare le situazioni di ambiguità (Frenkel-Brunswick, 1949) per recepire nuove informazioni, rivedere le proprie impressioni, modificare il proprio giudizio.

L’efficienza di un’azienda dipende anche da un’attenta selezione delle Risorse Umane; eventuali errori di valutazione commessi durante la fase di selezione possono avere ricadute molto negative sull’azienda, quindi il selezionatore dovrebbe innanzitutto essere trasparente, sospendere ogni giudizio, escludere dal processo scientifico di selezione la dimensione morale, che rientra certamente nella sfera della filosofia, ma non in quella della psicologia, né tanto meno nella selezione del personale. Il processo di selezione non ammette una valutazione morale del soggetto, altrimenti non sarebbe etica.

Esiste certamente una forte componente soggettiva nel processo di selezione: infatti, accanto ai dati che si prestano ad un’interpretazione oggettiva (indici comportamentali, test attitudinali, test della personalità….), c’è lo schema cognitivo del selezionatore modellato sulla sua storia personale e sulla sua visione del mondo.

La soggettività, dunque, non può essere completamente eliminata dal processo di selezione, tuttavia deve essere gestita: il selezionatore deve essere un fotografo della realtà, fare sua la tecnica dell’impersonalità nella ricerca dell’oggettività. Il selezionatore dovrà operare come un fotografo, cioè dovrà rappresentare la realtà proprio così com’è, senza giudicare (la persona), senza focalizzarsi troppo sulla propria storia personale ed ispirandosi a valori quali l’integrità e l’etica.

Un po’ come nel naturalismo letterario ed artistico, dove l’arte si configura come uno studio appassionato (cioè senza passioni) del reale senza inclusioni giudicanti, con rigore scientifico ed efficacia conoscitiva, analogamente, nel processo di selezione, dovrebbero trionfare i principi di oggettività, imparzialità e scientificità.

Tutti gli approcci alla selezione del personale che si sono succeduti nel corso degli anni si sono ispirati al principio secondo cui le persone hanno caratteristiche diverse che le rendono diversamente orientabili verso le varie attività professionali. Ovvero, proprio perché ci sono svariate mansioni, le organizzazioni utilizzano la selezione in modo tale da poter collocare in ciascuna mansione la persona più adeguata. Tale fine verrà raggiunto solo se chi si occupa di selezione del personale sospenderà il proprio giudizio e si metterà dietro l’obiettivo di una macchina fotografica, usando assoluta imparzialità.

Psicologia politica: le basi cognitive delle scelte di voto

La psicologia politica, sulle scie delle ricerche svolte nell’ambito della social cognition, ha studiato le basi cognitive del comportamento di voto basandosi sul costrutto dell’ atteggiamento come organizzatore della conoscenza e precursore della scelta di voto.

Romina Edith Monteleone – Open School Studi Cognitivi Milano

In concomitanza con le radici teoriche del cognitivismo, queste ricerche postulano un modello di uomo, quale soggetto attivo, che seleziona ed elabora l’informazione dall’ambiente esterno. Questo filone di ricerca presuppone l’idea di un uomo come economizzatore cognitivo – Cognitve miser – (Redwask, 2004). La social cognition mette l’accento soprattutto sui processi di conoscenza, ovvero sulle modalità di elaborazione della conoscenza in ambito sociale: codifica, organizzazione e recupero.

Lo studio della struttura della conoscenza politica, secondo Mc Graw (2000), può essere diviso in due filoni: quelli che si occupano della struttura in termini di rappresentazioni mentali e quelli che si focalizzano nella struttura in termini di processo (information-processing). In ogni modo, questa divisione è solo teorica perché entrambi formano parte dell’organizzazione della conoscenza:

…The procedural contributions receive more attention…..To some extent , the “structure vs process” distinction is artificial; both are often jointly considered in the same project; as they are both necessary for a full understanding or political thinking.

Mc Graw (2000) pagina 810.

Ruswell, Fazio & Petty (2006) propongono di concepire gli atteggiamenti politici come una struttura cognitiva costituita dai legami in memoria fra la rappresentazione di un oggetto e la sua valutazione. L’atteggiamento viene stabilito come una struttura che filtra la percezione e l’interpretazione della situazione, orientando la conoscenza verso l’azione. Questi procedimenti sono regolati in base al livello di accessibilità (accessibility) ovvero alla facilità o difficoltà di richiamare alla memoria questo legame quando l’individuo si trova di fronte all’oggetto.

Gli atteggiamenti accessibili orientano la categorizzazione degli stimoli. Uno stimolo può essere categorizzato secondo diversi criteri in diverse categorie. A seconda della categoria, lo stimolo assume una connotazione valutativa: se la valutazione di un attributo è altamente accessibile, lo stimolo sarà categorizzato secondo quel preciso attributo e non su altri (Cavazza, 2005). Di contro, di fronte ad una scelta fra alternative (atteggiamento ambivalente), se l’individuo non dispone di un atteggiamento accessibile in memoria con cui confrontarlo, sarà costretto a formarsi una rappresentazione dello stimolo che sarà ampiamente influenzata dalle caratteristiche salienti in quel momento ed in quel contesto (frame) .

Rudolph & Popp (2007) analizzano le determinanti degli atteggiamenti ambivalenti verso i partiti politici ed i candidati. Il lavoro degli autori parte dalla critica del Modello HSM – il Heuristic Systemtic Model- (Chaiken & Egly, 1999; in Rudolph & Popp 2007) che presuppone che l’ambivalenza sia prodotta dai procedimenti euristici, caratterizzati da basso impegno cognitivo, a detrimento di processi cognitivi più elaborati che genererebbero atteggiamenti polarizzati (univalenti). Gli autori, di contro, postulano che il grado di ambivalenza è correlato allo sforzo cognitivo che l’individuo realizza durante l’ information process: a maggior impegno, maggior ambivalenza.

I risultati suggeriscono che la partecipazione politica modera l’impegno cognitivo. Il modello dell’ ambivalenza proposto inoltre ipotizza che i soggetti sono situati su in continuum psicologico: da una parte gli elettori univalenti (univalent citizens) che esprimono un atteggiamento unilaterale verso i partiti/candidati. Nell’ estremo opposto si trovano gli individui che hanno un atteggiamento polivalente verso i soggetti politici.

Secondo Rudolph & Popp (2007), l’interesse che gli studiosi dedicano a questo aspetto, può essere dovuto al fatto che gli atteggiamenti ambivalenti assolvono funzioni diverse rispetto a quelli monovalente. Dal punto di vista cognitivo, l’alta ambivalenza si associa prevalentemente a scarsa accessibilità, moderazione e scarsa certezza. Questa costellazione di caratteristiche fa si che l’atteggiamento bivalente non sia molto funzionale ad orientare la conoscenza ed il comportamento di voto. In questo elaborato, di contro, noi sosteniamo che questo genere di atteggiamenti servano a rafforzare una azione prosociale. A supporto delle nostre asserzioni:

A nostro avviso diversi indizi fanno propendere per l’ipotesi secondo la quale questo genere di atteggiamenti servono ad una funzione adattativa, proprio grazie la loro flessibilità strutturale che consente alle persone di esprimere la propria posizione enfatizzando quella componente che meglio si accorda con il contesto normativo specifico, senza per questo sentirsi incoerenti…

 in Cavazza (2005) pagina 53-54.

Per fare un esempio pensiamo a due militanti (A e B) che si trovano in un’assemblea a discutere con un gruppo tutti d’accordo nel rifiutare un dato provvedimento del partito.

Poniamo il caso che il militante A abbia un atteggiamento nettamente positivo su tale provvedimento, mentre il militante B possa avere un atteggiamento ambivalente. Il militante A ha diverse possibilità di azione: affermare il suo punto di vista nettamente minoritario in quel contesto, immettendo il conflitto nella discussione, tacere, sopportando la frustrazione di non aver espresso la propria posizione, o addirittura mentire, ed esprimersi in accordo con gli altri, favorendo l’insorgere di una tensione emotiva propria della dissonanza cognitiva (penso una cosa e ne faccio un’altra). Invece per il militante B, la situazione è più semplice: egli potrà esprimere con particolare enfasi gli aspetti negativi sia positivi che associa a quel provvedimento, senza che tutto ciò rifletta, in modo rilevante, sul concetto di sé ed altri costrutti psicologici (autoefficacia, e cosi via).

Nelle ricerche di Cavazza & Buttera (2003), (in Cavazza, 2005), si osserva che il cambiamento dell’atteggiamento ambivalente dipende della percezione della normatività del messaggio persuasivo, per esempio, le persone ambivalenti nei confronti delle politiche di welfare si esprimono maggiormente in accordo con la posizione sostenuta dalla maggioranza rispetto le persone non ambivalenti.

In conclusione, abbiamo visto come la psicologia cognitiva e le ricerche nell’ambito della social cognition, abbiano prodotto una quantità significativa di teorie sull’atteggiamento come costrutto cardine nello studio del comportamento del voto. Gli atteggiamenti politici guidano il soggetto verso un determinato candidato. Per ultimo, le teorie sull’atteggiamento ambivalente assumano una rilevanza fondamentale nella costruzione delle campagne elettorali poiché gli indizi di flessibilità cognitiva che ci fanno propendere per un’ipotesi (scelta del candidato) esprimono una vulnerabilità al cambiamento che può essere facilmente manipolata tramite l’esposizione ad una comunicazione persuasiva ( Caprara, 2007).

La relazione tra apprendimento ed empatia: si può imparare a essere più empatici con gli estranei?

I deficit di empatia aumentano i conflitti e le sofferenze umane. È quindi fondamentale capire come possa essere appresa l’empatia, e come le esperienze di apprendimento generino processi di empatia molto importanti per il cervello umano.

 

I conflitti tra persone di diverse nazionalità e culture spesso derivano da una mancanza di empatia o compassione per lo straniero. Più empatia nei confronti dei membri di altri gruppi potrebbe quindi favorire la convivenza pacifica.

È però possibile imparare ad entrare in empatia con gli estranei. Sorprendentemente esperienze positive con persone provenienti da un altro gruppo sono in grado di innescare un effetto di apprendimento del cervello, che porta ad un aumento dell’empatia. Come alcuni ricercatori presso l’Università di Zurigo rivelano, anche solo una manciata di esperienze positive di apprendimento è già sufficiente per essere più empatici. Infatti, uno studio condotto dall’Università di Zurigo ha esaminato come l’empatia possa essere appresa con gli estranei e come le esperienze positive con gli altri influenzano le risposte cerebrali empatiche.

Sulla base del modello che vede il deficit di empatia come una soppressione consolidata delle risposte cerebrali legata alla sofferenza di sentirsi out-group (fuori dal gruppo), Hein e colleghi hanno condotto uno studio.

L’esperimento era composto da tre parti, ovvero pre-intervento, intervento di apprendimento e post-interveneto, e il campione era formato da persone di origine svizzera e di origine balcanica. Durante tutte le tre parti dello studio, i partecipanti svizzeri sono stati associati sia con persone di origine svizzera (in-group, interni al gruppo), sia ai soggetti di origine balcanica (out-group, esterni al gruppo). L’intervento si basava sull’apprendimento che nasce dalla mancanza di un esito negativo atteso.

I partecipanti infatti prevedevano di ricevere scosse dolorose, ma sapevano anche che una delle persone presenti nella stanza avrebbero potuto pagare per salvarlo dal dolore. Il nome del potenziale soccorritore veniva rivelato appena prima dell’intervento iniziato, ed era un tipico nome balcanico nel gruppo sperimentale, e un tipico nome svizzero nel gruppo di controllo.

Misurando l’attivazione cerebrale dei partecipanti nel corso dell’esperimento è stato possibile osservare che inizialmente vedere un membro esterno al gruppo soffrire, innescava un’attivazione cerebrale debole, rispetto al vedere un membro del proprio gruppo provare dolore.

Tuttavia, bastavano solo una manciata di esperienze positive con qualcuno del gruppo straniero per portare ad un aumento significativo delle risposte empatiche. Più forte era l’esperienza positiva con la persona esterna al gruppo, maggiore era l’aumento dell’empatia neuronale.

Pertanto Hein e colleghi, grazie al loro studio, hanno scoperto i meccanismi neurali e psicologici attraverso i quali l’apprendimento interagisce con l’empatia.

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