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Ipocondria: quando ci si ammala della paura di ammalarsi

L’ipocondria è un disagio legato all’idea o alla paura di avere una malattia grave o addirittura mortale. I pazienti tengono costantemente sotto controllo il loro fisico, controllandolo di continuo alla ricerca attiva della presenza di eventuali segni di malattia.

Questo articolo è stato pubblicato da Giovanni Maria Ruggiero su Linkiesta il 29/01/2016

Il sapere produce forza, ma anche incertezza. Da quando abbiamo sviluppato una medicina scientifica siamo diventati più consapevoli dei mali che potrebbero affliggerci, nel corpo e nell’anima. A testimonianza di una modernità che è però antica, in occidente siamo diventati ipocondriaci da un paio di millenni: il termine ipocondria risale a Ippocrate che descrisse il ‘Male degli ipocondri‘, un disordine dello stomaco e della mente, che cagionava problemi digestivi, grande melanconia e paura di morire. La congiunzione di stomaco e tristezza non deve sorprendere: i greci credevano che nell’addome fosse situata la sede dei sentimenti e delle passioni umane.

Al giorno d’oggi la diagnosi riconosciuta in modo unanime è quella individuata in un manuale americano adottato universalmente, il DSM (Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders). Esso definisce l’ipocondria come ‘La preoccupazione legata alla paura oppure alla convinzione di avere una malattia grave basata sulla erronea interpretazione di sintomi somatici da parte del soggetto‘; inoltre ‘la preoccupazione persiste nonostante la valutazione e la rassicurazione medica appropriata’, e ‘la durata dell’alterazione è di almeno 6 mesi’.

Il vero ipocondriaco, insomma, non riconosce la natura psicologica del suo problema e ricerca la soluzione medica della malattia. Dietro il timore di malattia vi è un grande senso di vulnerabilità e debolezza, gestito erroneamente ricercando un’impossibile certezza di perfetta sanità. Il paziente non riesce mai a trovare una risposta adeguata al malessere perché non viene mai affrontato il vero problema della sua ipocondria, che è il senso di fragilità personale.

L’ipocondria è rara nell’infanzia, più frequente nell’adolescenza e nella vecchiaia e la si riscontra in ambedue i sessi, anche se quello femminile sembra esserne maggiormente soggetto. Il decorso tende a prolungarsi, con andamento vario e sembra guarire spontaneamente solo in un decimo dei pazienti.

Numerosi sono stati gli studi che hanno cercato di dare una spiegazione. Alcuni suggeriscono una predisposizione genetica e l’aver sofferto di malattie gravi durante l’infanzia. Vi sono poi i vantaggi del ruolo di malato, perseguiti però non consapevolmente: aumento dell’attenzione da parte dei familiari ed evitamento delle responsabilità, come ad esempio la mancata frequenza scolastica. Altri studi includono anche gli abusi fisici e sessuali.

Insomma, l’ipocondria è un disagio legato all’idea o alla paura di avere una malattia grave o addirittura mortale, quale può essere un tumore o l’AIDS. I pazienti sono molto attenti ad ogni piccolo cambiamento somatico e tengono costantemente sotto controllo il loro fisico, controllandolo di continuo alla ricerca attiva della presenza di eventuali segni di malattia. Per tale ragione richiedono così di frequente ripetuti test diagnostici e visite mediche, diventando ospiti abituali di ambulatori e servizi di pronto soccorso. L’esito favorevole delle indagini non riduce, tuttavia, la preoccupazione e non riesce a rassicurare i pazienti. Gli ipocondriaci, purtroppo, nutrono la ferma convinzione che i medici con cui sono venuti a contatto non siano stati in grado di capire la vera natura del loro problema e quindi di fornirne una soluzione adeguata.

L’ipocondriaco interpreta in modo erroneo segnali fisici innocui, come se fossero l’evidenza di una grave malattia. Si preoccupa sia delle normali funzioni corporee (quali il battito cardiaco, la peristalsi o la sudorazione) che delle alterazioni fisiche di lieve entità (come ad esempio il raffreddore o un colpo di tosse). Sensazioni fisiche vaghe, come il cuore affaticato o le vene dolenti vengono sospettate di essere segni di malattia che devono essere indagati e, preoccupandosi per i quali, chi soffre di ipocondria mette in atto i comportamenti prima descritti.

I segnali fisici mal interpretati e la costante attenzione al proprio corpo non sono però l’unico punto di partenza dell’allarme del soggetto con ipocondria. Possono esserlo anche le notizie di malattia apprese dai mezzi di comunicazione con un certo impatto emotivo, come la notizia di epidemie o anche la semplice divulgazione scientifica. Parimenti il venire a conoscenza di patologie che hanno colpito amici o parenti può innescare la preoccupazione per un organo specifico o per una data malattia.

Che il paziente pensi, partendo da dati corporei futili, di avere una grave malattia, conferma il ruolo dei fattori cognitivi nelle sofferenze dell’anima. Lungi dall’essere inconscia, la convinzione di avere o stare per sviluppare una grave patologia, senza che un’accurata valutazione medica abbia identificato motivi sufficienti per giustificare questi timori è perfettamente consapevole e presente alla mente del paziente con ipocondria. Gli errori mentali più frequenti sono che i cambiamenti del corpo sono sempre segno di grave malattia; che ogni sintomo deve potersi ricondurre ad una causa specifica e perciò riconoscibile; poi che quando c’è qualcosa di poco chiaro, occorre fare subito un controllo medico; e infine che se non ci si preoccupa per la propria salute, ci si può ammalare. Inoltre la convinzione che tenere sempre presente di continuo i pericoli è un modo per prevenirli fa sì che l’ipocondriaco non si possa mai permettere di abbassare la guardia e distrarsi.

Sicuramente i tratta di un disagio della modernità e della tensione contemporanea al benessere assoluto e certo. Tuttavia, il termine era già presente nella Grecia classica, civiltà già segnata dall’ambizione tecnica di controllare la realtà. Tutto sta nel mettersi d’accordo sul significato del termine modernità. L’ipocondria ci dice che la modernità è antica, più di quanto possiamo sospettare.

Crisi economica e disoccupazione: quali conseguenze per la salute mentale?

Se i più sono al corrente di quali conseguenze abbia avuto la crisi in termini di posti di lavoro persi, aziende chiuse, aumento della pressione fiscale; non molto spazio è stato riservato agli esiti negativi sul benessere psicologico degli individui.

 

Valentina Ascani – Studi Cognitivi San Benedetto del Tronto

La parola ‘crisi‘ negli ultimi anni è sempre più foriera di una miriade di stati d’animo, di immagini e di pensieri ad essa connessi. Se si parla di crisi si sottende necessariamente quella economica che dal 2008 ad oggi ha portato ad un sostanziale incremento del tasso di disoccupazione, del livello di povertà e dell’indebitamento. Nella mente di tutti sono ancora vivide le immagini di quel non troppo lontano 15 settembre 2008, quando a New York decine di dipendenti della Lehman Brothers si affrettavano a lasciare il posto di lavoro con scatoloni contenenti il loro recente passato lavorativo. Il crack della quarta banca statunitense segnava l’inizio di un tracollo finanziario che avrebbe riecheggiato in gran parte del mondo fino ad avere rilevanti e drammatiche ripercussioni in Europa e in Italia.

Se i più sono al corrente di quali conseguenze abbia avuto la crisi in termini di posti di lavoro persi, aziende chiuse, aumento della pressione fiscale; non molto spazio è stato riservato agli esiti negativi sul benessere psicologico degli individui. Tale riflessione verrà approfondita in questo lavoro al fine di proporre un focus sulle dimensioni del disagio psicologico e sui significati ad esso connessi.

La letteratura scientifica sembra concorde nel dimostrare che maggiore è la disponibilità di risorse economiche migliori sono i valori di tutti gli indicatori di salute. D’altronde, che la stabilità economica e lavorativa si associ al benessere psicologico e abbia effetti positivi sulla vita degli individui in termini di autoefficacia, livelli di empowerment, visione del futuro, è un dato non solo assodato dal senso comune ma anche confermato da una serie di studi.

Secondo il Briefing Document for the National Governors Association (2007) possedere un’occupazione rappresenta un fattore rilevante che segna la routine quotidiana, fornisce obiettivi significativi, aumenta le finanze individuali e/o familiari allontanando il rischio di povertà. Ottenere un impiego è anche correlato con l’aumento del benessere personale, la self efficacy, il miglioramento della gestione relazioni (Becker et al., 2007) e la riduzione dei costi per la salute mentale (Bush et al., 2009); rappresenta, inoltre, un’opportunità di instaurare amicizie, ottenere supporto sociale (Stuart, 2006) e contribuisce a definire se stessi come lavoratori (Bush et al., 2009).

A conferma di ciò va considerato che esistono moltissimi programmi terapeutico-riabilitativi che utilizzano il lavoro come principale strumento per gli interventi di salute mentale: laboratori protetti, programmi di supported employment, job club, interventi di individual placement and support. Tali interventi hanno dimostrato la loro efficacia (Becker et al 2001, Latimer et al 2006, Burns et al 2007) sia sul singolo sia sul sistema in cui l’individuo è inserito. Seguendo Boardman e coll.(2003), infatti, avere un’occupazione non solo contribuisce a mantenere il benessere psichico di una persona, ma ha anche un impatto notevole su più aspetti della sua vita rispetto a quasi tutti gli altri interventi psicosociali.

Da tali considerazioni si può evincere quanto questi ultimi anni caratterizzati da incertezza, perdita di posti di lavoro, disoccupazione crescente e instabilità economica abbiano potuto avere drammatiche conseguenze sul benessere psicologico degli individui e delle comunità.

Nel contesto italiano, un primo elemento per approfondire tale questione deriva dai risultati dello studio dell’ISPO ‘Gli italiani e l’impatto percepito della crisi sulla psiche‘ condotta nel 2013 secondo la quale la maggioranza della popolazione ritiene che l’aggravarsi della crisi finanziaria abbia contribuito ad accentuare la condizione di disagio psicologico e ad aumentare la diffusione di disturbi psichiatrici. I dati rivelano, inoltre, che tra il 2009 e il 2014 ‘La percezione di un peggioramento della situazione economica è passata dal 53% al 62%’; per quanto concerne la percezione della situazione economica della propria famiglia è stato registrato un analogo aumento: ‘se nel gennaio 2009 quasi un intervistato su tre si aspettava un futuro nero, nel febbraio 2013 a pensarla così è il 58%’.

Un contributo di particolare interesse è l’indagine della Ausl di Modena ‘Il costo della crisi in termini di salute mentale: il caso di Modena’. Lo studio prende in considerazione le rilevazioni Istat 2013 sulle condizioni di salute e accesso ai Servizi Sanitari che indicano come nel periodo 2005-2012 vi sia stato un peggioramento dell’indice di salute mentale. Tali dati sono stati successivamente confrontati con quelli osservati in provincia di Modena. Nel territorio si è registrato, tra il 2006 e il 2012, un incremento degli accessi ai Centri di Salute Mentale, del 25% degli uomini e del 13% per le donne, e un aumento dell’uso di farmaci antidepressivi. Si è evidenziato come l’essere disoccupato da meno di un anno abbia un effetto negativo statisticamente significativo per gli uomini, dato in linea con la letteratura internazionale, mentre la disoccupazione di lungo periodo ha un effetto negativo soprattutto sulle donne (www.ausl.mo.it). Lo studio, tuttavia, oltre a confermare l’effetto negativo della recessione economica rileva l’efficacia delle politiche attive di inclusione lavorativa anche per quelle persone con gravi disturbi psichiatrici.

A livello internazionale i dati confermano le severe ripercussioni che la crisi economica ha avuto sulla salute degli individui. Sono stati riscontati effetti negativi sul benessere psicologico che includono alterazioni dell’umore, della stabilità emotiva, depressione o disturbi d’ansia. Gli studi hanno, inoltre, dimostrato un significativo aumento dei suicidi e dei tentativi di suicidi, della vendita di antidepressivi, dei casi di alcolismo, dei disturbi del sonno e delle malattie cardiovascolari (De Vogli et al. 2013, Di Carlo 2015, Wahlbeck, Mc Daid, 2012).

A questo proposito Chang e coll. (2013) hanno indagato l’impatto della crisi sull’andamento del tasso di suicidi in 54 Stati (27 europei e 18 americani), osservando un notevole incremento del trend che ha coinvolto in gran parte gli uomini, particolarmente colpiti dalla disoccupazione specie in quegli stati in cui i livelli di disoccupazione pre-crisi erano sostanzialmente bassi.

Il lavoro, dunque, sembra essere il principale strumento attraverso cui la recessione ha fatto sentire i suoi drammatici outcome. Ciò è corroborato anche dalle indicazioni dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) la quale ha fatto presente come sia fondamentale per la salute delle persone non solo possedere un’occupazione ma che tale occupazione sia qualitativamente significativa. L’aumento dei fattori di rischio per la salute sembra essere associato, secondo l’OMS, sia con la disoccupazione ma anche con condizioni di lavoro precarie (Marmot et al., 2012).

Per quale ragione la crisi economica e la perdita del posto di lavoro hanno esiti tanto negativi? Possedere un impiego può essere fonte di una serie di effetti positivi espliciti, come il corrispettivo economico che si riceve a fronte dell’attività prestata, e impliciti o latenti, legati allo status di lavoratore quali la riconoscibilità sociale, l’instaurare nuovi contatti e relazioni, il porsi obiettivi di crescita personale (Ascani, Florio, Grasso 2014). Il lavoro, in aggiunta, conferisce una strutturazione al tempo, offre opportunità di socializzazione, permette di condividere scopi e impegni di gruppo, definisce e rafforza l’identità sociale, organizza le attività quotidiana dando valore al tempo del lavoro e significato a quello del non-lavoro (Harnois e Gabriel 2000).

Per tale ragione perdere il proprio impiego è da considerarsi come un evento complesso che coinvolge più dimensioni della vita di un individuo: la perdita del ruolo di lavoratore, la diminuzione delle entrate economiche; la difficoltà a sostenere sé e la propria famiglia; il cambiamento della routine quotidiana; le interazioni sociali; l’immagine di sé. Una delle principali funzioni del lavoro, dunque, sembra essere il suo determinare l’identità individuale come strumento fondamentale per definire sé stessi e raccontarsi agli altri (Colella, 2009). Secondo Stuart (2006) nessun’altra attività sociale conferisce maggiormente un senso del proprio valore.

Per questi motivi essere esclusi dal mercato del lavoro non solo crea privazioni materiali ma mina anche la fiducia in se stessi, provoca senso d’isolamento e marginalità e rappresenta un fattore di rischio per la salute mentale. Di qui si evince la profonda rilevanza che tale attività ha nella vita umana e le drammatiche conseguenze che la mancanza di essa possono avere nell’esistenza di chi ne è privo. Quando tra il desiderio avere un impiego e l’effettivo lavoro si frappone il dato di realtà possiamo trovarci di fronte a difficoltà e problematiche che non investono solo il singolo individuo ma l’intera comunità di cui esso è parte (come la povertà sociale, l’esclusione o la diminuzione del potere d’acquisto delle famiglie) (Ascani, Florio, Grasso, 2014).

Sembrerebbe, comunque, che alcuni fattori siano in grado di modulare l’impatto che la disoccupazione ha sulla salute mentale: la centralità del ruolo di lavoratore nella vita della persona (Paul, Moser, 2006); la qualità dell’impiego posseduto (Graetz, 1993); l’entità del declino finanziario successivo alla perdita del posto di lavoro (Thomas et al. 2007); il supporto sociale, le strategie di coping, le aspettative di rioccupazione e la durata del periodo di non lavoro (Jahoda, 1981; Backhans, Hemmingsson, 2010).

I dati a nostra disposizione vedono negli uomini i soggetti che, rispetto alle donne, maggiormente possono risentire degli outcome negativi della recessione sulla salute mentale (Evans-Lako et al., 2013; Backhans, Hemmingsson, 2011). Una possibile ipotesi per dare una spiegazione a tale fenomeno può risiedere nel ruolo che, in molti Paesi, hanno gli uomini; pensiamo ad esempio alla figura del capofamiglia che regge su di sé il futuro dei figli e ha la responsabilità dei suoi cari.

Un’ulteriore elemento da prendere in considerazione può essere il vissuto di fallimento che può celarsi dietro alla perdita del proprio impiego e che per alcuni può essere particolarmente intollerabile. Infine, l’incertezza verso il futuro che può portare a quella che Bauman ha definito ‘paura fluida‘, una paura indiscriminata, fluttuante, senza una causa determinata ma che coinvolge tutte le aree di vita della persona (2008).

Nonostante ciò, la presenza dei succitati fattori modulatori è una riprova del fatto che, in ultima analisi, le valutazioni e i conseguenti significati individuali hanno una fondamentale importanza e probabilmente politiche mirate non solo ad aumentare le finanze dei singoli, ma anche a un potenziamento dell’accessibilità dei servizi di salute mentale, potrebbero essere utili per sviluppare la resilienza della persona consentendo di costruire nuovi significati e interpretazioni più funzionali.

La ricerca della felicità con la riscoperta della sensorialità – Un articolo di Giancarlo Dimaggio

Osservate noi psicoterapeuti all’opera. Il nostro ingegno al servizio della ricerca della felicità. Il primo mandato: rimuovere i meccanismi che fabbricano dolore. Ansie, ossessioni, rabbie, pensieri molesti. Dotati di cassette degli attrezzi di terza generazione, nella maggior parte dei casi funzioniamo. Non promettiamo di riuscire sempre e completamente, a volte falliamo, a volte rimangono scorie. Ma ce la caviamo abbastanza bene.

Articolo di Giancarlo Dimaggio, pubblicato sul Corriere della Sera di 31/01/2016

 

Il secondo passo: smuovere i grumi che ostruivano le fonti del benessere, nelle cui acque stagnanti la fermentazione ad alta temperatura produceva tossine. Qual è il segreto della nostra bottega? Se una formula si può svelare è: animare il corpo. La felicità non la trovate nella vittoria, nella conquista, nella quiete. Quelli si chiamano trionfo e relax. Belli, ma lasciano il tempo che trovano.

Noi con i nostri pazienti stringiamo accordi. Innanzitutto, accettano di allenarsi all’ascolto del mondo interno. L’oppressione, il vuoto che la attanagliano, dove sono collocati? Nel petto? Nell’addome? Una tensione sulle spalle? Bene. Ora: dove risuona la leggerezza? Non lo so. Ci pensi. Concentriamoci. Si chiama: identificare desideri, attitudini, passioni. Piccole gioie che hanno dimenticato quanto valesse la pena perseguire. Poi: programmare l’azione. Tempo fa la chiamavamo attivazione comportamentale. Faccia qualcosa coerente con la ricerca del benessere. Sembra facile, non lo è. Il corpo si attiva e tutti i demoni sgorgano dal sottosuolo: colpe, paure, punizioni temute, sanzioni decretate da spietati giudici interni.

Questa è la parte più impegnativa: riconoscere che il demone altro non è che un fantasma, un prodotto dell’immaginazione, e persiste nell’azione.
Il punto d’arrivo: la riscoperta della sensorialità. La felicità dei pollici mentre affondano nell’impasto di acqua e farina. L’armonia del gesto mentre la racchetta impatta la pallina. Se un fantasma si affaccia, ignoratelo. C’è vostra figlia che sta esibendo la verticale solo per voi.

 

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L’ansia cronica aumenta il rischio di depressione e demenza

Sembra esserci una vasta sovrapposizione tra i neurocircuiti del cervello nelle tre condizioni di ansia cronica, paura e stress. Questo può spiegare il legame tra stress cronico e lo sviluppo di disturbi neuropsichiatrici, tra cui la depressione e l’Alzheimer.

Un gruppo di ricercatori del Rotman Research Institute at Baycrest Health Sciences ha pubblicato una review di studi che hanno esaminato le aree cerebrali colpite da ansia cronica, paura e stress sia negli animali e che in soggetti umani. Gli autori hanno concluso che c’è una vasta sovrapposizione tra i neurocircuiti del cervello in tutte e tre le condizioni che può spiegare il legame tra stress cronico e lo sviluppo di disturbi neuropsichiatrici, tra cui la depressione e l’Alzheimer.

 

Ansia cronica, stress e conseguenze a lungo termine

Ansia, paura e stress sono parte della vita di tutti ma quando queste reazioni emotive acute diventano frequenti o addirittura croniche, possono interferire significativamente con le attività quotidiane come il lavoro, la scuola e le relazioni. Lo stress cronico è uno stato patologico che è causato dall’attivazione prolungata della normale risposta fisiologica allo stress acuto, che può colpire duramente i sistemi immunitario, metabolico e cardiovascolare, e portare ad atrofia dell’ippocampo (cruciale per la memoria a lungo termine e l’orientamento spaziale).

La Dott.ssa Mah e colleghi hanno esaminato le strutture chiave dei neurocircuiti della paura e dell’ansia (amigdala, corteccia prefrontale mediale, ippocampo), che sono colpite durante l’esposizione a stress cronico. I ricercatori hanno notato modelli di attività cerebrale anormale simili per paura/ ansia cronica e stress cronico – in particolare un amigdala iperattivata (associata a risposte emotive) e un iperattività del PFC (aree cerebrali deputate al pensiero che aiutano a regolare le risposte emozionali attraverso la valutazione cognitiva).

Secondo la Dott.ssa Mah comunque il danno indotto dallo stress nell’ippocampo e nel PFC non è completamente irreversibile; il trattamento con anti-depressivi e l’attività fisica sembrano infatti incrementare la neurogenesi ippocampale.

La review scientifica segue un importante studio del 2014 in cui il la Dott.ssa Mah ha trovato alcune tra le prove più convincenti che l’ ansia cronica potrebbe accelerare la conversione al morbo di Alzheimer in soggetti con diagnosi di decadimento cognitivo lieve. Ha detto la Mah:

Per il futuro dobbiamo poter stabilire se gli interventi come l’esercizio fisico, la mindfulness e la terapia cognitivo comportamentale, sono grado di ridurre non solo lo stress, ma anche il rischio di sviluppare disturbi neuropsichiatrici.

La storia dei disturbi alimentari: da curiosità psichiatrica del passato a epidemia nel novecento

Una curiosità psichiatrica: così apparivano i disturbi alimentari fino alla metà degli anni Ottanta. Poi, improvvisamente sembrarono diventare quasi un’epidemia dal valore simbolico.

MAGREZZA NON E’ BELLEZZA – I DISTURBI ALIMENTARI: Da curiosità psichiatrica a epidemia (Nr.1)

Una curiosità psichiatrica, un disturbo psicologico raro ed eccentrico, dal sapore quasi ottocentesco. Una stramberia simile alla personalità multipla o alle isteriche curate da Charcot alla Salpêtrière. Così apparivano i disturbi alimentari fino alla metà degli anni Ottanta. Poi, improvvisamente sembrarono diventare quasi un’epidemia e assunsero un valore simbolico. Da residuo polveroso della vecchia psichiatria divennero malessere psicologico fin troppo tipico del secondo consumismo, quello dell’epoca del riflusso dopo la stagione rivoluzionaria degli anni Settanta.

 

L’emergere dei disturbi alimentari durante gli anni dell’edonismo

Gli anni Ottanta del secolo scorso segnarono il ritorno al privato e a un rinnovato edonismo. Mutati i valori, l’ideale non era più quello di rinnovare il mondo ma l’affermazione personale, la realizzazione di sé e le professioni economiche come l’operatore di borsa, che nel decennio precedente era considerato una figura negativa, divennero appetibili. Wall Street, del regista Oliver Stone, rappresentò il cambio di scenario.

Gordon Gekko, pescecane della Borsa di New York, rubava la scena al protagonista Bud Fox e s’impadroniva del film. Un ideale neopagano di bellezza, forza, potere e splendore personale entrò nell’immaginario pubblico e ne prese possesso. Anche Tom Wolfe, nel suo romanzo Il falò delle vanità del 1987, illustra l’ascesa e la caduta di un personaggio avido di vita e di denaro nella New York della metà degli anni Ottanta. Il protagonista Sherman McCoy, a causa di un incidente automobilistico in cui la sua amante travolge e uccide un ragazzo di colore, precipita sempre più in basso, perde tutto e diventa un uomo perseguitato, odiato, abbandonato dalla moglie e alla fine si ritrova solo e povero, bersaglio emblematico e simbolico di tutti i valori dell’edonismo reaganiano.

L’associazione tra questo tipo di edonismo e l’emergere dei disturbi alimentari non è immediata. Il rifiuto del cibo dell’anoressica non sembra una scelta legata all’affermazione di sé. Ne sembra piuttosto una negazione. Ma è una negazione dettata dalla paura e dell’ansia di non riuscire a raggiungere l’ideale individualistico dell’affermazione personale. Come vedremo meglio, l’esordio anoressico avviene per lo più al limitare dell’adolescenza, quando la giovane donna deve uscire dalla cerchia familiare per entrare in un mondo sociale fatto di giovani adulti in cui, per la prima volta, è necessario conquistare l’attenzione e la considerazione altrui.

A quell’età il ruolo svolto dalla bellezza fisica è particolarmente incisivo, bellezza che deve essere accompagnata da un tipo di carisma sociale estroverso, non particolarmente sofisticato. E naturalmente la giovane età rende questi soggetti particolarmente sensibili al giudizio degli altri e al dolore delle piccole competizioni di rango imposte dalla vita sociale.

 

Oltre gli ideali di bellezza: la ricerca di controllo nei disturbi alimentari

Questa situazione può tradursi in stati di sofferenza acuta, che rischia di diventare ingestibile nelle personalità più fragili. Il soggetto può cadere preda di idee e convinzioni che si definiscono, in gergo psicologico, maladattive e distorte: il convincimento di non essere all’altezza, di non avere il controllo delle situazioni e, ancor peggio, il controllo dei propri stati d’animo e delle proprie emozioni.

Beninteso, questi stati non sono affatto esclusivi dei disturbi alimentari; anzi rappresentano fattori piuttosto comuni a molti disturbi emotivi e psichiatrici. L’intero spettro dei disturbi d’ansia condivide questa configurazione emotiva. Ciò che è specifico, e che fornisce valore simbolico, è l’obiettivo concreto su cui si concentrano le ansie tipiche dei disturbi alimentari: alimentazione e aspetto corporeo. Per essere più precisi: il controllo dell’alimentazione e dell’aspetto corporeo.

Il termine controllo è decisivo. Può sembrare banale ridurre i disturbi alimentari a una distorsione culturale che all’esteriorità e alla bellezza del corpo dà un valore eccessivo. È invece proprio questo termine che consente comprendere il disturbo alimentare. Come? Lo vedremo nel prossimo articolo.

 

RUBRICA: MAGREZZA NON E’ BELLEZZA – I DISTURBI ALIMENTARI

Gelosia psicologica e delirante: il delirio di gelosia di Jaspers – Recensione

Delirio di gelosia è uno dei primi saggi di Karl Jaspers nel quale esplora in modo ampio e dettagliato il tema della gelosia. L’elemento centrale è quello autobiografico, infatti le vite dei pazienti descritti assumono un ruolo importante nella comprensione di queste patologie.

Il libro si compone di diversi casi clinici, descritti in modo ricco e dettagliato, attraverso i quali Jaspers cerca di evidenziare come non tutti i deliri di gelosia possono essere equiparati e lo dimostra introducendo una distinzione ben chiara tra: gelosia psicologica e gelosia morbosa da un lato e gelosia delirante e delirio di gelosia dall’altro. Nei primi due casi la capacità critica del soggetto e l’esame di realtà rimangono complessivamente integri; nel caso invece della gelosia delirante il soggetto presenta un’estrema rigidità nei confronti di interpretazioni critiche che si discostano dalla propria; tutto ciò acquista una struttura ancora più complessa nel delirio di gelosia che si esprime in forma sistematica.

Per descrivere meglio queste forme Jaspers utilizza i concetti di “sviluppo di una personalità” e di “processo”, distinguendo all’interno di quest’ultimo tra processi psichici e processi fisico-psicotici. Con il termine “sviluppo” Jaspers fa riferimento a quell’insieme di cambiamenti e modifiche che convergono in un’unità complessiva; questo termine è quello che attualmente corrisponde al concetto di personalità e quindi sviluppo psicologico della personalità.

 

Gelosia psicologica e gelosia psicotica

Con il termine invece di “processo psichico” Jaspers si riferisce a quegli aspetti che si discostano dalla personalità sottostante e dalla comprensione empatica. Secondo Jaspers un processo abnorme interrompe il flusso della personalità precedente, intervenendo nella vita psichica in modo isolato. Questo concetto Jasperiano si avvicina molto al concetto attuale di sintomo psicologico. Quando il delirio di gelosia si colloca in modo strutturale all’interno della personalità, l’insorgenza è lenta, sono presenti collegamenti verosimilmente comprensibili verso eventi esterni e non si presentano veri e propri sintomi gravi come deliri persecutori; questa forma di delirio, ampiamente descritta da Jaspers all’interno dei suoi casi clinici, è quella che oggigiorno verrebbe definita come disturbo paranoide di personalità.

Nel caso del processo invece, il delirio comincia in un momento ben specifico e non sembrano esserci cause esterne scatenanti; Jaspers ritiene che questa forma di gelosia non possa esser compresa con gli strumenti dell’empatia e della comprensione e corrisponde a quei casi clinici che attualmente definiremmo affetti da Psicosi. Jaspers ritiene che la prima tipologia di pazienti descritti possano trarre giovamento da un trattamento psicologico, mentre nel caso dei processi ritiene che l’unico trattamento possibile sia quello farmacologico.

 

Fenomenologia della gelosia

L’aspetto interessante e sicuramente innovativo per l’epoca è l’introduzione di un punto di vista fenomenologico, volto ad un’analisi attenta del mondo interiore, attraverso l’utilizzo dell’empatia e dell’introspezione. Differentemente dagli approcci dell’epoca, non si tratta di un’analisi fredda e oggettiva, basata esclusivamente sul sintomo, Jaspers vuole analizzare in modo approfondito i sintomi che riguardano la dimensione interiore del paziente e che egli definisce sintomi soggettivi. Per questo motivo piuttosto che analizzare il contenuto specifico del delirio di gelosia, “il cosa”, egli si concentra soprattutto sulla forma del delirio, “il come”, cercando di cogliere l’atteggiamento che il soggetto assume nei confronti del proprio delirio. Per questo motivo egli presenta i casi clinici due volte: una prima volta descritti in termini “oggettivi” dal punto di vista psicopatologico, l’altra descritti in base alla visione del mondo del paziente. Il problema non è la gelosia in quanto tale, ma il modo in cui il soggetto vive ed interpreta il proprio rapporto con il mondo.

L’altro è vissuto come “maligno, falso, manipolatore” e le cose perdono realtà per quel che sono per assumere in modo rigido e irremovibile le caratteristiche che la soggettività impone loro. L’individuo perde completamente la capacità di riflettere sui propri pensieri e stati d’animo, i pensieri vengono presi così come si presentano, non c’è spazio per la messa in discussione o l’interpretazione. Man mano che si procede nella lettura dei casi clinici, sia che essi appartengano alla prima tipologia sia che appartengano alla seconda, si osserva l’impossibilità di questi uomini e donne di condividere il proprio mondo interiore. Per questo motivo, nell’ottica jasperiana, quando la perdita di contatto è così marcata è difficile comprendere nella concezione di “comprensione empatica”, la vita psichica di questi uomini.

[blockquote style=”1″]Nel delirio urtiamo contro ciò che è irrimediabilmente perduto nella non verità, il mondo comune, il mondo delle regole condivise.[/blockquote]

Credulità e paranoia nel Bel Paese: gli italiani sono più creduloni o complottisti?

Questo articolo è stato pubblicato da Giovanni Maria Ruggiero su Linkiesta il 16/01/2016

Gli italiani sono creduloni? Gli Italiani davvero credono a tutto? Oppure no? Oppure Italiani che diffidano di tutto e non credono in nulla. Italiani paranoici?

Gli italiani sono creduloni? Possibile, pensando al metodo Di Bella o ai mille maghi, agli omeopati, ai vaccini, al gioco d’azzardo, alle bufale da social network e a molto altro. Gli Italiani davvero credono a tutto? Oppure no? Oppure Italiani che diffidano di tutto, non credono in nulla e vedono complotti dietro qualunque evento inspiegato. Italiani paranoici? Ci torneremo. Per ora riflettiamo su credulità e paranoia.

Credulità e paranoia sono gemelle separate. Entrambe obbediscono al bisogno della mente umana di dare spiegazione al mondo e agli eventi e in essa trovare una direzione e una consolazione. Potremmo considerarle figlie di un istinto irrazionale, di un’immaturità emotiva, e invece sono generate dalla funzione più evoluta e raffinata della mente, quella capacità di simbolizzare, di trovare significati e costruire modelli, teorie e racconti. Il pensiero nasce come pratica di atti linguistici semplici, come l’indicare qualcosa a portata di mano o di vista -una preda, un antilope che corre- e poi diventa teoria quando si indica qualcosa di assente –una preda da cercare lontano dal villaggio- qualcosa che è oltre la portata degli occhi e che quindi immaginato e comunicato.

E quindi i suoni e i gesti di incitamento e di indicazione della preda caccia diventano, se pronunciati nella calma della sera del villaggio, una comunicazione: domani si va a caccia. Questa capacità linguistica e mentale di costruire mondi assenti sviluppa nei popoli primitivi –ma no solo- la cosiddetta ‘paranoia costruttiva‘. Così ha chiamato questa funzione inquietante e proficua Jared Diamond, figura affascinante di scienziato a cavallo tra biologia e antropologia.

La paranoia costruttiva è la capacità di dare un significato a eventi apparentemente insignificanti e futili, spiegazioni ora superstiziose e ora invece misteriosamente razionali. Non dormire sotto un albero di notte può sembrare un atto magico e rituale non dissimile dall’evitare un gatto nero e tale sembrò al giovane Diamond in uno dei suoi primi viaggi tra popolazioni di cacciatori. Eppure, dopo mesi passati nella foresta pluviale della Guinea, un atto razionalmente prudente: ogni giorno Diamond sentiva lo schianto di un albero che crollava provenire dal profondo della foresta. Quindi non dormire sotto gli alberi non era solo superstizione: L’evento non era così improbabile.

Questa paranoia però si unisce a una credulità altrettanto magica e paradossalmente costruttiva, come la paranoia. Diffidare porta a cercare spiegazioni alternative e nascoste. E porta a credere a queste spiegazioni nascoste e a crederle con intensità, fino alla credulità. Di qui mille credenze mitologiche e magiche così diffuse tra i primitivi.

Paranoia e credulità costruttiva per i popoli primitivi, dunque. E gli Italiani? Creduli e paranoici anch’essi, dicevamo. Tra gli esempi citati, infatti, c’è il caso dei vaccini, in cui paranoia e credulità s’intersecano inestricabili. Prevale la diffidenza verso i vaccini o la credulità della bufala della loro pericolosità? Certo, permane negli italiani una diffidenza verso ciò che non è visibile, una passione per ciò che è nascosto e inspiegato, unita a una percezione di vulnerabilità che ci apparenta ai popoli primitivi soggetti a mille pericoli e che ci allontana dalla modernità potente, fiduciosa, che da peso solo al certo e non al possibile e al dettaglio significativo. È dubbio però che questa credula diffidenza sia davvero frutto di un’emotività irriflessiva. Al contrario, trovare spiegazioni e pericoli dietro ogni dettaglio è proprio un frutto delle capacità riflessive spiegate al massimo grado.

Non a caso la modernità si accompagna a un particolare uso economico, prudente e pragmatico delle capacità riflessive superiori. Economia che si accentua man mano che ci inoltriamo in questa modernità. La razionalità pragmatica contemporanea è sempre più caratterizzata da un uso parsimonioso delle risorse intellettuali. Si cercano spiegazioni semplici, si obbedisce al rasoio di Occam, ci si fonde con pratiche orientali di economizzazione del pensiero speculativo, si diventa sempre più pragmatici, si diffida delle grandi spiegazioni, delle grandi paranoie e delle grandi credulità del passato. Le pratiche di meditazione di provenienza orientale, lungi dall’essere un potenziamento del pensiero, piuttosto lo recintano e lo delimitano, ne ridimensionano la potenza, trovando forza proprio nel pensare di meno. È la cosiddetta mindfulness, di cui si parla sempre più spesso in psicologia.

La vita sociale diventa fattiva anche nel tempo libero, si parla solo di ciò che c’è da fare insieme, o anche di cose c’è di divertente da fare insieme, mentre ci si astiene dal discutere dei massimi sistemi, di capitalismo e comunismo, di politica o di filosofia e men che meno di religione. Tutti rottami che hanno iniziato ad arrugginire negli anni ’70, l’ultima grande esplosione di razionalità speculativa europea con i suoi ultimi filosofi francesi e tedeschi incomprensibili e disperati.

Poi tutto ha iniziato a spegnersi. In Italia –ma anche all’estero- vi sono delle ultime impennate, come nel caso Di Bella o dei vaccini. Ma sono gli ultimi fuochi, frutto di una residua abitudine a speculare, discutere, commentare, ragionare e sragionare spaccando il capello in quattro. Ormai, nel bene e nel male, si rimugina di meno, si discute di meno, si parla di meno, soprattutto di politica. Con questo declino della conversazione impegnata e politica, sia al bar che nel luogo di lavoro, declinerà anche la credulità e la paranoia, sorelle legate e figlie di un modo di pensare che sembra appartenere al passato. Almeno per ora.

Ti mando un bacio: uomini sull’orlo di una crisi di nervi (2015) – Recensione

“Ti mando un bacio” è il titolo dell’ultimo romanzo del giornalista Niccolò Zancan. Ma è anche uno slancio, come quello rappresentato in copertina: un bambino che si lancia verso braccia aperte. E sono aperte e disperate le braccia dei quattro padri protagonisti di questo intreccio dolceamaro.

Dan, professore precario, sta progettando una rapina in un autogrill per assicurare alla figlia la possibilità di fare la tanto desiderata vacanza studio in Inghilterra. E non vuole deluderla.
Sergio, detto il Nero, ex dirigente aziendale liquidato dalla crisi, continua a lottare per difendere quello spazio (neutro) di incontro con il figlio, sotto l’occhio giudicante delle assistenti sociali. E non vuole perderlo.
Marco è intrappolato in un matrimonio spento con Ingrid ed è ancora insieme a lei solo per assicurare ai loro figli un tetto sulla testa che da soli non riuscirebbero a permettersi. E non vogliono ferirli.
Cris stenta ad arrivare a fine mese, ma non fa mancare mai a suoi due angeli il barattolo piccolo di Nutella. E vive in 39 metri quadri di casa comunale, stazione di incontro di queste quattro storie: qui si condividono dispiaceri e sorrisi, gesti sconsiderati e di altruismo, sconfitte, ma anche nuove speranze e nuove slanci.

Questi sono i protagonisti e queste le loro storie. Diversi, ma in fondo accomunati dalla paura di essere padri separati, dalla paura di non riuscire più ad adempiere ad un ruolo, quello di padre, ma soprattutto quello di uomo. Sono doppiamente vittime della crisi economica e relazionale che vivono e che li ha piegati, ma davanti alla quale non possono permettersi di cedere perché i loro figli li stanno a guardare. E sono proprio i figli i protagonisti specchio di questo romanzo. Sono Emma, Tom, Luca e Mattia, Ludovica e Martina: a loro sono indirizzati i baci, in loro è riposta la speranza, da loro e per loro parte il desiderio di un sano e nuovo inizio.

È un romanzo di amore, un amore dalle [blockquote style=”1″]braccia abbastanza grandi per riuscire ad abbracciarsi tutti interi[/blockquote] così come si è, senza sconti. È un romanzo di avventura, ironia, fallimento e rinascita. È un romanzo di attualità, uno spaccato sui padri in crisi che si destreggiano tra gli ostacoli che la società odierna mette sul piatto. È un romanzo di amicizia, di quella che ti accoglie, non ti giudica, che ti salva.

Omogenitorialità: questioni e temi connessi al rapporto tra genitorialità e omosessualità

Omogenitorialità: si toccano diversi temi interessanti come la definizione di famiglia, la natura dell’omosessualità e l’impossibilità biologica di concepire autonomamente un figlio. Si fa riferimento alla scienza (quasi parlando per essa) sostenendo che i bambini abbiano bisogno di entrambe le figure, altrimenti svilupperanno patologie e problematiche psicologiche. L’impressione è che ci si preoccupi davvero molto, forse perché ciò che non si conosce spaventa, e si dà per scontato che terrorizzi tutti.

Daniela Beltrami, Vania Galletti, OPEN SCHOOL STUDI COGNITIVI MODENA

 

Parafrasando gentilmente Umberto Eco: grazie ai social network tutti possono dire tutto, subito e senza filtri. Una scocciatura che può regalarci importanti spunti di riflessione.
Recentemente, su uno dei più utilizzati social network in Italia è comparsa una fotografia raffigurante una coppia che abbraccia il figlio appena nato, ancora imbarazzata nella presa, ma visibilmente emozionata; i neogenitori sono a petto nudo per “favorire il contatto della pelle del bimbo con la loro”. Un’immagine in bianco e nero, semplice, pulita, che ritrae l’immensità – non altrimenti descrivibile – dell’istante in cui un neonato prende contatto con gli occhi di coloro che lo spingeranno, porgendo soltanto un dito, a camminare, parlare, osservare e vivere. Niente di più bello e sorprendente, insomma, eppure il post è stato bombardato da una granata di commenti piuttosto coloriti di varia natura.

 

Omogenitorialità: le questioni e i dubbi

Nel tentativo di capire quale sia il dettaglio che ci sfugge, e che stimola diverse persone a vedere “schifo”, “paura”, “egoismo” (ecc.) in quell’immagine, proseguiamo la lettura dell’articolo di riferimento: innanzitutto Milo (così si chiama il neonato) è nato da una madre surrogata, pratica considerata illegale in Italia (anche se è lecito ricondurre in patria pargoli avuti di soppiatto all’estero); inoltre, la coppia di genitori ritratta, è composta da Bj e Frankie, due omosessuali canadesi, e l’articolo s’intitola “La commozione dei neopapà che abbracciano il figlio”. I commentatori contrari non si risparmiano e volano dichiarazioni interessanti: la famiglia è fatta da una madre e un padre (in realtà c’è chi sostiene che sia un “nucleo sociale rappresentato da due o più individui che vivono nella stessa abitazione e, di norma, sono legati tra loro col vincolo del matrimonio, con convivenza, o da rapporti di parentela e di affinità”, ma chiaramente l’interpretazione è libera; Fabietti & Remotti, 1997); ad un bambino servono entrambe le figure; l’uomo è disposto a tutto pur di soddisfare le sue voglie, ma se due uomini non possono procreare un motivo ci sarà; cosa diremo a quel bambino quando chiederà di sua madre? E così via.

Con l’ omogenitorialità si toccano diversi temi interessanti come la definizione di famiglia, la natura dell’omosessualità e l’impossibilità biologica di concepire autonomamente un figlio. Si fa riferimento alla scienza (quasi parlando per essa) sostenendo che i bambini abbiano bisogno di entrambe le figure, altrimenti svilupperanno patologie e problematiche psicologiche. Addirittura ci si preoccupa di rispondere in qualche modo alle domande che questi giovani potranno fare rispetto al genitore biologico mai conosciuto, più di quanto si sia mai fatto per le adozioni da parte di coppie eterosessuali.
Insomma, l’impressione è che ci si preoccupi davvero molto, forse perché ciò che non si conosce spaventa, e si dà per scontato che terrorizzi tutti. Considerando la “normalità” dal punto di vista numerico, le classi scolastiche multietniche che oggi popolano l’Italia fino a qualche anno fa erano considerate “anormali”. Del resto, già colpisce positivamente che non vi siano commenti omofobi: ben lungi da essere considerata “normale”, nel 2015 l’omosessualità è accettata senza giudizio (almeno dalle giovani leve).

 

Omogenitorialità in Italia

In Italia l’argomento omogenitorialità (anche detto omoparentalità o in inglese “gay parenting“) è piuttosto nuovo, ma nel mondo se ne parla già da un po’. Nel 2000, negli Stati Uniti, il 33% delle coppie lesbiche e il 22% di quelle gay dichiaravano di avere almeno un figlio minorenne; nel 2005 i figli di coppie omosessuali erano circa 270.313, nel 2010 oscillavano tra 600 mila e 4 milioni (Weber, 2010). Oggigiorno le coppie dello stesso sesso possono accedere all’adozione di minori in ben ventuno Paesi (Spagna, Francia, Regno Unito, Belgio, Paesi Bassi, Lussemburgo, Svezia, Norvegia, Danimarca, Austria, Islanda, Malta, Stati Uniti, Canada, Messico, Argentina, Brasile, Uruguay, Sudafrica, Australia e Nuova Zelanda), mentre possono adottare i figli del partner in Germania, Finlandia e Groenlandia.

In Italia la situazione è diversa: possono fare ricorso alle tecniche di fecondazione assistita solo persone coniugate o coppie di fatto (quindi esclusivamente eterosessuali); possono adottare solo persone coniugate (quindi eterosessuali). A differenza di ciò che accade in altre parti del mondo, le coppie omosessuali in Italia non sono riconosciute come famiglia e non sono legittimate ad avere figli, anche se oltre il 49% vorrebbe poter adottare un bambino (ricerca finanziata dell’Istituto Superiore di Sanità). Spesso per giustificare questa realtà, ci si appella alla scienza: ma cosa dice la scienza in proposito?

 

Le ricerche sulla omogenitorialità

Nel 2005 l’APA (associazione che rappresenta gli psicologi negli USA) sulla base delle ricerche condotte sulla omogenitorialità sentenzia: [blockquote style=”1″]Non esiste un solo studio che abbia rilevato che i figli di omosessuali sono svantaggiati in qualche aspetto significativo rispetto ai figli di genitori di eterosessuali [/blockquote](APA, 2005); nel 2012 ha confermato: [blockquote style=”1″]Non ci sono evidenze scientifiche che l’efficacia parentale sia correlata all’orientamento sessuale: i genitori omosessuali sono alla pari di quelli eterosessuali nel fornire un ambiente supportivo e sano ai loro bambini.[/blockquote] Sembrerebbe un epilogo piuttosto netto, eppure le critiche non tardano ad arrivare. Il problema principale è che molti degli studi considerati sono stati supportati da programmi politici e presentano importanti difetti metodologici (omogeneità dei campioni e assenza di adeguati gruppi di controllo, debole validità statistica, dati contradditori, assenza di studi longitudinali, ecc.; Belcastro et al., 1993; Patterson, 1995; Marks, 2012). Sulla base di questi limiti, Marks (Marks, 2012) afferma: [blockquote style=”1″]dichiarazioni forti, incluse quelle fatte dall’APA, non sono sperimentalmente giustificate.[/blockquote]

Prima di addentrarci nella letteratura scientifica, scandagliamo alcune delle problematiche sulla omogenitorialità sopra elencate:
– i campioni sono poco numerosi (Huggins, 1989; Bailey et al., 1995; Golombok & Tasker, 1996; Tasker & Golombok, 1995; Javaid et al., 1993), sono omogenei e dunque scarsamente rappresentativi della popolazione di riferimento; la maggior parte delle famiglie che prendono parte agli studi hanno a capo [blockquote style=”1″]madri lesbiche bianche, ben istruite, relativamente benestanti (…)[/blockquote] (Patterson, 1995);
– difficilmente si hanno a disposizione gruppi di figli adulti (quasi sempre si tratta di bambini o ragazzi) e scarseggiano gli studi longitudinali; questo impedisce considerazioni a lungo termine;
– capita che i figli inclusi nei gruppi sperimentali siano stati adottati e dunque siano più a rischio di sviluppare problematiche psicosociali (difficile è la costituzione di gruppi di controllo);
– spesso manca un gruppo di controllo adeguato: ad es. gli omosessuali che decidono di diventare genitori sono molto motivati, quindi non dovrebbero essere messi a confronto con genitori biologici;
– spesso vengono utilizzate misure “self-report” (questionari compilati dai genitori): spinti a dimostrare che gli omosessuali sono capaci di crescere bambini sani e felici, alcuni potrebbero desiderare di presentare se stessi e le loro famiglie nella miglior luce possibile (Gartrell, 1996); [blockquote style=”1″]secondo le madri, i figli delle madri lesbiche sono migliori a scuola e mostrano meno problemi rispetto ai pari[/blockquote] (Gartrell, 2010);
– è difficile controllare variabili quali l’instabilità di coppia e lo stress ambientale, fattori che non dipendono dalle scelte sessuali ma dal contesto; ecc.
Questi limiti sono spesso specificati al termine degli studi, e le conclusioni ne tengono conto, contestualizzando i risultati ed esprimendo la necessità di ulteriori ricerche. Analizziamo ora i risultati ottenuti.

 

Gli studi condotti sulla omogenitorialità (per lo più madri lesbiche con precedenti esperienze di famiglie etero; Gartrell & Bos, 2010; Stacey & Bilbarz, 2001) si sono focalizzati principalmente sulle abilità genitoriali e il benessere psicologico dei bambini (APA, 2005; Short et al., 2007).

 

a) Abilità genitoriali nelle famiglie omogenitoriali

La maggior parte delle ricerche (Perrin & Siegel, 2013) rivela che non vi sono differenze significative tra le abilità di parenting di coppie omosessuali ed eterosessuali (Bos et al., 2004; Morse et al., 2007; Patterson, 2007). Tuttavia, le coppie dello stesso sesso (per lo più lesbiche) riportano un livello d’impegno genitoriale più elevato e percepiscono la diade come maggiormente stabile (Baiocco et al., 2013), nonostante lo scarso sostegno da parte della famiglia d’origine (Kurdek, 2004); sono più propense a risolvere i problemi e ad affrontare tematiche conflittuali contribuendo a mantenere più alta la stabilità di coppia (Gottman et al., 2003), la genitorialità e le decisioni importanti (Farr & Patterson, 2013; Patterson, 2000).

Ciò che distingue i due gruppi, ma non dipende dalle abilità di parenting, é l’impatto del cosiddetto “minority stress” sul benessere individuale, dovuto alla stigmatizzazione subita dalla comunità LGBT (Lingiardi, 2012; Lingiardi et al., 2012). L’esposizione a tale stress risulta significativamente correlata a maggiori difficoltà rispetto all’esperienza dell’essere genitori (Armesto, 2002; DeMino et al., 2007). Infatti, le coppie omosessuali riferiscono sicurezza rispetto alle proprie competenze genitoriali, esprimendo la convinzione che l’aspetto importante risiede nella qualità della relazione e non nell’orientamento sessuale (Chan et al., 1998; Patterson, 2006), tuttavia riportano alcune difficoltà (Baiocco, 2013) tra cui: il mancato riconoscimento del partner (e dei suoi diritti) come genitore biologico del bambino e il bisogno di fornire spiegazioni rispetto alla propria famiglia; la sensazione di essere privati dallo Stato di alcuni fondamentali diritti (riconoscimento della coppia e matrimonio, tutela rispetto a discriminazioni lavorative e fiscali, maternità/paternità, ecc.).
Lesbiche e gay sentono la necessità di sensibilizzare le persone alla realtà omogenitoriale e agli effetti dell’omofobia. Tali richieste sono riportate in letteratura (APA, 2005; Patterson, 2009; Short et al., 2007) e sono motivate dalla paura che la discriminazione, da loro sperimentata, possa nuocere ai figli.

 

b) Benessere psicosociale dei figli di genitori omosessuali

In nessuna delle aree analizzate relativamente al benessere dei bambini (identità sessuale, sviluppo cognitivo, emotivo e psico-sociale) sono state rilevate differenze significative. La maggior parte dei figli di omosessuali si dichiara eterosessuale (APA, 2005; Gartrell et al., 2010), non presenta problemi psicologici, cognitivi o comportamentali (Bos, 2004; MacCallum & Golombok, 2004; Stacey & Biblarz, 2001; Tasker, 2010) e vive relazioni non problematiche (Patterson, 2009). Stacey & Biblarz (2001) evidenziano una maggior apertura mentale rispetto allo sviluppo psicosessuale (maggior desiderio di sperimentare rapporti omosessuali e minor aderenza ai tradizionali ruoli di genere). Nuovamente, sembra che un fattore in grado di far scricchiolare il benessere psicologico di questi giovani sia la stigmatizzazione sociale (Bos, 2004; MacCallum & Golombok, 2004; Short et al., 2007; Weber, 2010). Gli episodi di discriminazione preoccupano molto anche i genitori, soprattutto i papà (forse indeboliti dalla lotta con stereotipi squalificanti che li descrivono come meno portati alla genitorialità).
I bambini cresciuti da coppie dello stesso sesso, quindi, non svilupperebbero problematiche legate all’orientamento sessuale dei genitori, ma potrebbero soffrire a causa di esperienze dirette o indirette di stigmatizzazione omofobica (Van Gelderen, et al., 2015). Uno dei pochi studi che ha mostrato effetti negativi sul benessere dei figli (Regnerus, 2012) è stato fortemente criticato subito dopo la pubblicazione a causa di anomalie metodologiche.

 

c) Mamma e papà a confronto

Molti di coloro che si oppongono alla omogenitorialità sostengono che i bambini necessitino di un padre ed una madre per uno sviluppo ottimale (Biblarz & Savci, 2010).
Interessante, a tal proposito, è il Comunicato Stampa approvato dal Direttivo dell’Ammissibilità dell’adozione di minori da parte di una singola persona (2011):

[blockquote style=”1″]le affermazioni secondo cui i bambini per crescere bene avrebbero bisogno di madre e padre non trovano riscontro nella ricerca internazionale sul rapporto fra relazioni familiari e sviluppo psico-sociale. Ciò che è importante (…) è la qualità dell’ambiente familiare che i genitori forniscono, indipendentemente dal fatto che siano conviventi, separati, single, dello stesso sesso. I bambini hanno bisogno di adulti in grado di garantire cura e protezione, insegnare il senso del limite, favorire tanto l’esperienza dell’appartenenza quanto quella dell’autonomia, negoziare conflitti e divergenze, superare incertezze e paure, sviluppare competenze emotive e sociali. [/blockquote]

Gli studi non mostrano che, a confronto con altre forme di famiglia, quelle condotte da genitori biologici e sposati siano le migliori, ma che una coppia di genitori compatibili è meglio di un singolo genitore, indipendentemente dal sesso, dallo stato civile, dall’identità sessuale o biologica (Biblarz & Stacey, 2010).
Inoltre, sembra che mamme e papà omosessuali non possano essere sovrapposti a mamme e papà eterosessuali; una coppia genitoriale formata da due lesbiche non equivale ad una mamma sola, e lo stesso discorso può essere fatto per i papà. Vediamo in che modo.
Nel confronto con i padri, le mamme generalmente trascorrono più tempo con i figli (Brewaeys et al., 1997; Fulcher et al., 2008; Vanfraussen et al., 2003a), tendono a giocare di più e a disciplinarli di meno (Golombok e al., 2003), si mostrano maggiormente calorose e comunicative (Bos et al., 2007; Golombok et al., 1997).
La madre facente parte di una coppia lesbica è libera nell’espressione della femminilità (dunque incorpora le caratteristiche sopra elencate), ma è portata ad assumere tratti più maschili a livello di disciplina e finanza (Reinmann, 1998; Sullivan, 2004) scatenando liti più dure ma meno frequenti (Golombok et al., 1997; MacCallum & Golombok, 2004). All’interno della coppia omosessuale, la mamma biologica si assume più responsabilità rispetto al figlio e ottiene maggior intimità (Bos et al., 2007; Wainright et al., 2004), scatenando, a volte, la gelosia della partner (del resto è come se la coppia fornisse al pargolo una doppia dose di genitorialità femminile). Forse grazie alle figure maschili delle quali la madre si circonda, sembra che crescere senza un padre non impedisca lo sviluppo di caratteristiche mascoline, ma promuova quello di caratteristiche femminili e di una maggior flessibilità di genere (Fulcher et al., 2008; MacCallum & Golombok, 2004), scoraggiando la differenziazione tra maschi e femmine in termini di superiorità (Bos et al., 2006).

Gli studi sui gay, come già ampiamente ribadito, sono piuttosto rari. Possiamo comunque dire che i papà omosessuali non danno vita ad una coppia genitoriale caratterizzata da una doppia dose di mascolinità, bensì adottano pratiche più “femminili”. Il modo in cui un gay fa il genitore si avvicina maggiormente a quello di una lesbica piuttosto che a quello di un padre sposato (Biblarz & Stacey, 2010);

[blockquote style=”1″]essendo gay non sono una madre, ma mi sembra di avere più in comune con una mamma che con un papà. (…) In molti modi, nonostante sia uomo, sono un padre ma anche una madre (Mallon, 2004).[/blockquote]

Dato che il percorso che porta un gay a diventare papà necessita di molta più motivazione di quella di un etero o di una lesbica, i gay che decidono di diventare padri sono un gruppo selezionato e ristretto (Stacey, 2006).

Presi adeguatamente in considerazione i numerosi limiti metodologici e di campionamento degli studi riportati, possiamo concludere in questo modo: sembra che l’identità sessuale dei genitori non abbia effetti significativi sulla relazione genitore-figlio, sull’orientamento sessuale e sul benessere psicosociale e cognitivo del bambino (Crowl et al., 2008; Rosenfeld, 2010; Stacey & Biblarz, 2001; Tasker, 2005; Wainright & Patterson, 2008); anzi, i figli di coppie omosessuali (soprattutto lesbiche, che vengono viste più disponibili e supportive dal punto di vista emotivo; MacCallum & Golombok, 2004; Vanfraussen et al., 2003a), presentano addirittura più elevati livelli di benessere psicologico e atteggiamenti più liberi, flessibili e meno conformisti (Biblarz & Stacey, 2010); questo può essere dovuto al fatto che i genitori omosessuali sono un gruppo selezionato di individui estremamente motivati che si impegnano molto nel compito genitoriale, inventandosi un ruolo apparentemente in grado di sopperire alla mancanza della figura materna o paterna. Sicuramente sono necessari studi longitudinali e più appropriati dal punto di vista metodologico.

 

Conclusioni

Ad oggi l’unico dato che si pone a sfavore del omogenitorialità sembrerebbe essere rappresentato dall’impatto negativo che le esperienze di stigmatizzazione omofoba (che vedono omosessuali e prole più a rischio; Tasker, 2010) potrebbero avere sul benessere psicologico dei bambini. Tali esperienze, tuttavia, non dipendono strettamente dal omogenitorialità, ma dalla sensibilizzazione e dall’accettazione sociale.
Siccome questo pare essere l’unico rischio effettivamente rilevato da decenni di studi scientifici (altri dati contrastanti sono stati duramente criticati, etichettati come transitori o non riconducibili ad un effetto diretto della genitorialità; Vanfraussen et al. 2002; Bos et al., 2008; Tasker & Golombok, 1997; Golombok et al., 1997), è forse il caso di fare qualcosa? Se i nuclei familiari che si allontanano dal modello tradizionale (padre/madre/figlio) sono vissuti come pericolosi e destabilizzanti (Ciriello, 2000), è forse il caso di fare qualcosa?

Se nel Rainbow Europe Package 2015 (che valuta lo stato dei diritti delle persone LGBT in Europa rispetto a: eguaglianza/discriminazione, famiglia, libertà di associazione ed espressione, riconoscimento legale del genere e asilo), l’Italia si è posizionata al 34° posto su 49 paesi europei, è forse il caso di fare qualcosa?

Nonostante i dati parlino chiaro pur essendo ricavati da studi limitati, possiamo avere dubbi o perplessità, quantomeno perché, come detto all’inizio dell’articolo, si tratta di un ambito poco conosciuto, in corso di studio. Tuttavia, anche se l’Italia non riconosce l’ omogenitorialità le coppie omosessuali come famiglia e non permette l’adozione a coppie che non siano coniugate, dobbiamo tenere in considerazione l’evidenza che, di fatto, in Italia vivono figli di omosessuali. Nel 2005, il 17.7% dei gay e il 20.5% delle lesbiche con più di 40 anni aveva almeno un figlio. In virtù dell’obiettivo primario che è sempre “il bene superiore del minore”, dei minori che ci sono oggi prima di quelli che eventualmente popoleranno il domani, è nostro dovere combattere il rischio di stigmatizzazione con tutti gli strumenti possibili. E potremmo farlo con il totale supporto delle coppie omosessuali che sono, più di noi, terrorizzate dall’idea che la discriminazione possa nuocere ai loro figli.
Nel 2014, il Tribunale dei Minori di Roma, acconsentendo alla [blockquote style=”1″]www.studiolegalecarsana.eu[/blockquote](Lesbiche, Gay, Bisessuali, Transgender) tra due donne, ha lanciato sicuramente un primo messaggio positivo.

Per concludere le questioni sollevate dalla omogenitorialità, http://thekids.gabrielaherman.com/ è un interessante progetto di una fotografa di NY che ha scelto di incontrare persone cresciute con due madri, due padri o un solo genitore gay, e raccontare le loro storie:

[blockquote style=”1″]Forse è ora di chiederlo ai bambini. (The Kids)[/blockquote]

 

Amici veri o amici di facebook? 1 su 4 è sconosciuto

Un team di ricercatori della California State University e Yale University, ha recentemente scoperto che uno studente universitario medio conosce solo tre su quattro dei suoi “amici” di Facebook.

Ma 800 amici su facebook sono 800 amici veri? No, ovviamente no, ma quanti di questi lo sono? O meglio, di quanti di questi conosciamo il nome?

Un team di ricercatori della California State University e Yale University, ha recentemente scoperto che uno studente universitario medio conosce solo tre su quattro dei suoi “amici” di Facebook.
I ricercatori hanno creato un gioco di Facebook chiamato “What’s Her Face(book)”, in cui ai partecipanti sono state ripetutamente mostrate le immagini dei loro amici di Facebook per vedere quante ne avrebbero potute nominare in 90 secondi. Il gioco mostrava in modo casuale quattro foto dal profilo di un amico di Facebook e i partecipanti ne dovevano dire il nome, il cognome o il nome completo. Era anche possibile dire “Ho dimenticato” e passare al prossimo amico.

Più di quattromila persone hanno giocato al gioco, che può anche essere giocato più volte, per un totale di 174,615 congetture. L’età media dei partecipanti era di 24 anni.
L’analisi dei risultati ha rivelato che l’utente medio di Facebook ha circa 650 amici e che complessivamente il 72,7% delle risposte erano corrette. In altre parole, una persona con 650 amici può nominarne circa 472.
Le donne tendono ad essere più brave degli uomini (74,4% contro 71% degli uomini), ma tendono ad avere un po’ meno amici.

Il gioco ha anche mostrato che chi ha un minor numero di amici indovina più facilmente i loro nomi. Quelli con il minor numero di amici hanno indovinato l’80,1% dei nomi. Mentre tra quelli con il maggior numero di amici, la percentuale di risposte corrette scende al 64,7%.

E adesso viene spontaneo domandarsi: ma conoscere il nome di un viso su facebook basta a definire quella persona un amico…?

Terapia metacognitiva & trattamento del disturbo d’ansia generalizzato

La terapia metacognitiva si focalizza sui fattori che contribuiscono allo sviluppo del disturbo, tra cui le credenze negative riguardo la pericolosità e l’ incontrollabilità del rimuginio, le credenze metacognitive positive riguardo il rimuginio come modalità di coping efficace e alcuni aspetti comportamentali quali i tentativi di evitare il rimuginio e di controllo dei propri pensieri.

Che cosa e’ il disturbo d’ansia generalizzato

Il disturbo d’ansia generalizzato (in inglese Generalized Anxiety Disorder – GAD) è un disturbo psicopatologico caratterizzato da ansia eccessiva (sia in termini di intensità che di frequenza), preoccupazioni e rimuginio percepito dal soggetto come incontrollabile e dilagante (APA, 2000) e presente per almeno sei mesi. Per diagnosticare il disturbo devono essere presenti anche altri sintomi (almeno tre): difficoltà di concentrazione, insonnia, irritabilità e irrequietezza e generalmente una serie di sintomi fisici tra cui ad esempio facile affaticabilità, mal di testa, tensione muscolare, nausea, etc.

I sintomi possono oscillare – in termini di miglioramento o peggioramento – nei diversi periodi della vita della persona. Nel momento in cui la sintomatologia è medio-lieve il paziente con disturbo d’ansia generalizzato può avere un buon funzionamento sociale e lavorativo, mentre in altri casi gli evitamenti ansiosi e il rimuginio eccessivo possono compromettere la qualità della vita del soggetto (Lieb et al., 2005; Wittchen, 2002). Nei casi in cui il disturbo non venga trattato e si cristallizzi in modo cronico e grave la prognosi è negativa, nel senso che secondo alcuni studi (Kessler, 2002; Ballenger et al., 2001) il disturbo d’ansia generalizzato cronico e non trattato sarebbe un predittore dell’insorgenza del disturbo depressivo maggiore e di un peggioramento della sintomatologia fisica cronica connessa all’ansia.

 

 

La concettualizzazione metacognitiva del disturbo d’ansia generalizzato

I modelli più recenti nell’ambito della psicoterapia cognitiva enfatizzano l’evitamento degli stati affettivi interni nell’insorgenza e nel mantenimento del disturbo d’ansia generalizzato. Il modello metacognitivo (Wells, 1995) presuppone che alcuni processi cognitivi disfunzionali giochino un ruolo chiave in questo disturbo. In particolare, secondo il modello di Wells vi sarebbero delle credenze negative e maladittive (potremmo dire secondarie) riguardanti il rimuginio stesso e definibili come “metarimuginio” o “rimuginare sul proprio rimuginio” (ad esempio “Se non smetto di rimuginare e di preoccuparmi impazzirò”). Queste metacognizioni negative iniziano ad insinuarsi quando il rimuginio diventa inflessibile, rigido e persistente: i pazienti iniziano a preoccuparsi del fatto che sono spesso preoccupati e rimuginanti. Di conseguenza ciò innesca ulteriore ansia generalizzata e rimuginio, esitando in ultima analisi in alcune strategie di regolazione mentale controproducenti quali ad esempio i tentativi di soppressione dei pensieri e di evitamento. L’utilizzo di queste strategie è controproducente poichè rinforza le metacognizioni negative sul rimuginio, preclude la disconferma di esse, diminuendo la percezione di autoefficacia del paziente nel regolare i propri stati interni (Wells, 2005) e aumentando la quota di ansia esperita.

Il trattamento del disturbo d’ansia generalizzato: terapia metacognitiva (TMC) e terapia focalizzata sull’intolleranza dell’incertezza (IUT) a confronto

Un trial controllato olandese (van der Heiden, Muris & van der Molen, 2012) si è posto l’obiettivo di confrontare l’efficacia del modello della terapia metacognitiva (MCT) e del modello dell’intolleranza dell’incertezza (IUT) nel trattamento del disturbo d’ansia generalizzato. Lo studio ha coinvolto 126 soggetti con diagnosi di disturbo d’ansia generalizzato. I soggetti sono stati randomicamente assegnati a tre tipologie di trattamento ambulatoriale della durata di 14 sedute: terapia metacognitiva, terapia focalizzata sull’intolleranza dell’incertezza e condizione di assenza di trattamento (pazienti in lista d’attesa). Un aspetto rilevante di questo studio è che è stato condotto da un gruppo indipendente rispetto a coloro che hanno sviluppato i due approcci terapeutici a confronto.

La terapia metacognitiva si focalizza sui fattori che contribuiscono allo sviluppo del disturbo, tra cui le credenze negative riguardo la pericolosità e l’ incontrollabilità del rimuginio, le credenze metacognitive positive riguardo il rimuginio come modalità di coping efficace e alcuni aspetti comportamentali quali i tentativi di evitare il rimuginio e di controllo dei propri pensieri. Quindi non si trattano i contenuti dell’ansia e del rimuginio di per sè ma le proprie credenze sul rimuginio e sui propri stati interni. Le tecniche spaziano dalla ristrutturazione cognitiva verbale alla detached mindfulness, a esperimenti comportamentali sulle funzioni del rimuginio e su modalità alternative di gestione del rimuginio.

La terapia focalizzata sull’intolleranza dell’ incertezza interviene invece sulla diminuzione dell’ansia e del rimuginio aiutando i pazienti a migliorare la capacità di tollerare, affrontare e accettare l’inevitabile incertezza insista nella quotidianità (Dugas & Robichaud, 2007). Le strategie e le tecniche utilizzate includono ad esempio i training di consapevolezza dei propri stati ansiosi, le esposizioni in vivo e immaginative, le ristrutturazioni cognitive delle credenze irrazionali e gli esercizi di problem-solving.
Per la valutazione dell’efficacia dei diversi protocolli di trattamento sono state impiegati il Penn State Worry Questionnaire (PSWQ) e lo State Trait Anxiety Inventory (STAI-T).

Nella fase post-assessment e nel follow up (a sei mesi dal termine delle terapie) si sono registrati sostanziali miglioramenti in entrambe le condizioni di trattamento (terapia metacognitiva e terapia dell’intolleranza dell’incertezza) in tutte le variabili di outcome considerate. Cio’ significa che entrambi i protocolli hanno favorito un significativo e notevole miglioramento della sintomatologia del disturbo d’ansia generalizzato. Addirittura al termine della terapia il 91% dei pazienti trattati con terapia metacognitiva e l’80% dei pazienti sottoposti a terapia focalizzata sull’intolleranza all’incertezza non soddisfacevano più i criteri per la diagnosi di DAG nella fase di post-assessment.

Inoltre nel confronto tra le condizioni di terapia metacognitiva e terapia focalizzata sull’intolleranza all’incertezza i risultati indicano che la terapia metacognitiva avrebbe risultati anche migliori in termini di efficacia clinica, dimostrati da indici di effect size più elevati rispetto alla terapia sull’intolleranza all’incertezza sia nel post-assessment che nel follow-up.

 

Congresso di Terapia Metacognitiva Milano 2016

Complicati rapporti tra mezzi e fini – Ciottoli di Psicopatologia Generale Nr. 2

Gli studiosi seri che si avvalgono della ricerca hanno identificato vari possibili legami tra mezzi e fini.

CIOTTOLI DI PSICOPATOLOGIA GENERALE (RUBRICA) – LEGGI L’INTRODUZIONE

La distinzione tra le due categorie sembra intuitiva e offensivo per l’intelligenza del lettore, dedicarvi del tempo. Non è esattamente così. Tanto per cominciare ciò che è fine può essere a sua volta mezzo per qualcos’altro e così via. Ciò rimanda alla concezione degli scopi come una piramide organizzata gerarchicamente. Ai concetti non limpidissimi di scopi strumentali e scopi terminali e allo strumento del laddering up utile alla scalata verso l’alto e per la discesa in sicurezza in corda doppia nella sua versione di laddering down. Già vedo vacillare le precedenti esibite sicurezze di fronte alla classica domanda “dove ci si deve fermare nella salita?” Paradossalmente potremmo dire che uno scopo, un fine è terminale quando è completamente inutile. Lo sono ad esempio proprio la vita e l’uomo stesso in quanto inutili e senza un senso esterno. Continuando con questo livello astratto di riflessioni si rischiano, è risaputo, i bubboni sulla pelle, la cecità e l’inferno e dunque torno a ragionamenti più utili per il lavoro clinico.

 

Il legame Unifinality tra mezzi e fini

Gli studiosi seri che si avvalgono della ricerca hanno identificato vari possibili legami tra mezzi e fini che riassumo brevemente.
Il più semplice è chiamato “ unifinality”: un certo mezzo serve esclusivamente ad uno e un solo scopo. Questa modalità è poco efficiente perché comporta uno scarso utilizzo del mezzo stesso e dunque anche la probabile incapacità ad usarlo per il meglio e perché ci vogliono tanti , troppi mezzi per quanti sono gli scopi. Per averne una rappresentazione, immaginate un cassetto della cucina in cui si accumulano attrezzi per funzioni specifiche (il mestolo elettrico per la polenta di mais, l’incisore per la capsula di plastica che ricopre i tappi del vino, la guarnizione per la moka da due, ecc) oppure immaginate la cassetta degli attrezzi da lavoro ( la brucola del 6 serve solo ad una cosa e semmai a pulirsi pericolosamente le orecchie), per questo le cassette degli attrezzi o sono complete, pesanti e costose o meglio non averle per la propria salute mentale: gli strumenti sono monofunzionali. Unico esempio contrario il pappagallo che da solo sostituisce una intera gamma di chiavi inglesi.

Il vantaggio è solo per i produttori di tali strumenti, non certo per l’utilizzatore. Non a caso le aziende continuano a produrre caricabatterie con attacchi sempre diversi. Per tornare a noi un sistema “unifinality” necessita di molti mezzi che al momento della necessità magari non funzionano perché poco usati. L’attivazione del fine comporta automaticamente l’attivazione del mezzo strettamente connesso ed è dunque semplicemente inteso come privo della necessità di scegliere e dunque di conflitto ( quasi può fare a meno di un sistema cognitivo in quanto connessione rigida immodificabile).

Il difetto è che se il mezzo non funziona il fine non sarà raggiunto. Viene da pensare ad una situazione primitiva, paragonandola evolutivamente ai comportamenti istintuali immodificabili: se non funzionano l’animale è perduto e avanti un altro mutato. Possiamo immaginare che inizialmente tutti impariamo a perseguire un certo obiettivo attraverso una precisa e immodificabile sequenza di azioni. Poi, secondo la terminologia dei ricercatori del M.I.T. daje e daje ci si rende conto di due cose. Primo, se quel modo non funziona bisogna arrangiarsi e trovarne un altro per raggiungere lo stesso scopo ( le viti si avvitano anche con una solida pinza). Secondo con esso si possono fare anche altre inaspettate cose ( il cacciavite spuntato è ancora efficace come leva per aprire lo sportello incastrato del forno e può agevolmente cavare gli occhi al prepotente che sorpassa dalla corsia d’emergenza).

I sistemi “unifinality” possiamo immaginarli dunque come una situazione primitiva del rapporto mezzi e fini destinati ad evolversi. Sono molto semplici ma costosi, inefficienti e ad alto rischio di fallimento. Clinicamente troviamo modelli del genere nell’utilizzo perseverante di strategie fallimentari per il perseguimento di scopi nelle condizioni nevrotiche dove l’unico cambiamento è l’incremento dell’intensità o della frequenza della strategia senza che cambi il risultato ( sempre di più sempre lo stesso).

 

Il rapporto Multifinality tra mezzi e fini

La scoperta che uno stesso mezzo permette di raggiungere risultati differenti fa evolvere verso sistemi definiti “Multifinality” in cui un mezzo è al servizio di numerosi fini. Poiché nella norma sono molti i fini attivi contemporaneamente in un momento o in un periodo della vita di una persona è evidente che tale sistema è molto più efficiente. Essendo parecchi i mezzi attivabili in questa rete che collega tanti mezzi con tanti fini si pone un problema di scelta. Possiamo immaginare un algoritmo di calcolo molto semplice in cui si somma il valore dei singoli fini con una clausola di esclusione che elimina qualsiasi mezzo che danneggi uno degli scopi contemporaneamente attivi. In un sistema del genere il carattere strumentale dei mezzi è meno evidente e può accadere che un mezzo utilizzato di frequente al servizio di diversi fini diventi a sua volta un fine in sé “scopizzandosi”( mangiare la pastasciutta è chiaramente strumentale alla nutrizione>>>all’apporto calorico>>>>alla sopravvivenza, ma finisce per diventare uno scopo in sè per cui non si vuole aumentare la glicemia ma proprio mangiare la carbonara).

Per quanto riguarda la clinica troviamo situazioni del genere in cui un comportamento diviene abitudinario e se ne è perso il collegamento originariamente presente con un fine nel mantenimento di molti sintomi che si autonomizzano dalle cause iniziali automantenendosi. Il pensiero corre subito ai comportamenti protettivi dei disturbi d’ansia e alle compulsioni nel Doc in particolare: non si sa più perché ma soltanto che debbono essere fatte. Nei sistemi “multifinality” possiamo dire che la centralità riguarda i mezzi che perdono il loro ruolo strumentale per diventare fini essi stessi.

 

I sistemi di Counterfinality di mezzi e fini

Un caso particolare dei sistemi “multifinality” si ha quando un mezzo utile per uno o più fini rischia però di danneggiare un altro scopo importante anche se non attivo nel presente , potrebbe diventarlo. Si parla in questi casi di sistemi “counterfinality” ( es: un anticoncezionale che garantisce nell’immediato una certezza assoluta, come la vasectomia, ma esclude la possibilità anche futura di procreare, scopo non attivo attualmente ma che potrebbe diventarlo). In questo caso credo che l’algoritmo di calcolo sia più complicato perché deve mettere a confronto i vantaggi immediati e certi con possibili e incerti svantaggi futuri che appartengono ad un altro assetto motivazionale, difficile persino da immaginare. Se nei sistemi “Multifinality” la scelta riguardava il mezzo, in quelli “Counterfinality” la scelta riguarda il fine da privilegiare.

Infine la situazione primitiva di “unifinality” può evolvere verso la cosiddetta “Equifinality” in cui molteplici mezzi sono tutti al servizio dello stesso fine. Si tratta di sistemi estremamente finalizzati verso un unico scopo che rimanda, clinicamente a situazioni di fanatismo o persino di delirio. Il fine è centrale e può essere perseguito con mezzi estremamente diversi ed intercambiabili. Ciò riduce grandemente la probabilità di un fallimento e l’adattabilità a contesti mutevoli. Il fallimento, ancorchè improbabile, resta invece catastrofico proprio per la polarizzazione verso un unico scopo senza alternative.

Da un punto di vista terapeutico in primo luogo è importante evidenziare al soggetto ciò che per lui è fine ( scopo) e ciò che invece è mezzo ( strategia) e dei rispettivi possibili legami per rendere possibili scelte consapevoli. Successivamente è opportuno evolvere verso una situazione con molti scopi e un rapporto mezzi e fini del tipo “multifinality” economico, adattabile ed efficiente.

 

RUBRICA CIOTTOLI DI PSICOPATOLOGIA GENERALE

Vendetta o sepoltura di Freud? Il confronto salva le terapie psicodinamiche

Il 7 gennaio è uscito sul Guardian un articolo del giornalista Oliver Burkeman intitolato “Therapy Wars: Freud’s Revenge”. Come dice il titolo, il lavoro parla di una rivincita di Freud, anzi di una vendetta. Vendetta nei confronti di chi o di cosa? Della terapia cognitivo-comportamentale (TCC) che per tutto l’articolo si aggira come lo spettro dell’antagonista.

La terapia cognitivo-comportamentale negli ultimi decenni ha ottenuto –prima tra le psicoterapie- il rango di cura scientificamente fondata ed empiricamente efficace. Questo status si è spesso accompagnato a una velata e anche esplicita critica verso la psicoanalisi, considerata una terapia di dubbio valore scientifico e di non provata efficacia. Critica in parte fondata e in parte semplicistica, critica dapprima dei soli terapisti cognitivi e poi diffusasi nell’opinione pubblica.

Nell’articolo si accenna a come nel Regno Unito la terapia cognitivo-comportamentale abbia ottenuto una vera egemonia scientifica e culturale, egemonia che ha trovato il definito sigillo istituzionale nel programma Improving Access to Psychological Therapies (IATP) che dal 24 agosto 2008 ha permesso la diffusione del trattamento con terapia cognitivo-comportamentale nel servizio sanitario pubblico inglese. L’obiettivo, sostanzialmente raggiunto, era di formare 3.600 operatori sanitari che fornissero servizi per 900.000 persone. Anche di questo successo inglese della terapia cognitivo-comportamentale occorrerebbe parlarne a fondo, e lo faremo in un altro articolo.

Questo successo ha generato naturalmente anche disagi oggettivi e malumori soggettivi. Disagi e malumori che hanno determinato una reazione positiva grazie alla quale si è inaugurato un filone di ricerca empirica anche nel campo psicoanalitico, fino ad allora poco incline a misurarsi con studi di efficacia. Accanto a questa adesione al paradigma scientifico è però nata una reazione opposta e negativa: una rivolta antiscientifica che sostiene l’idea della psicoterapia come arte irriproducibile e sulla quale è inutile e perfino errato tentare di fare ricerca. Un’attività che può essere compresa più con le armi dell’ermeneutica che della validazione scientifica.

L’articolo di Burkeman da voce a entrambe le argomentazioni: esso sottolinea come la psicoanalisi abbia ottenuto a sua volta una validazione scientifica ed empirica e, al tempo stesso, esprime delle perplessità sul metodo scientifico e sulla sua adattabilità alla psicoterapia. In questo articolo affronteremo le argomentazioni scientifiche.

 

Psicoanalisi e Terapia Cognitivivo-Comportamentale nel trattamento dell’ansia

Le ricerche a favore della psicoanalisi ne hanno mostrato la validità da tempo. Un libro di Levy, Ablon e Kächele, appena tradotto in italiano e pubblicato da Raffello Cortina riporta con ricchezza questi dati favorevoli. Non è facile riassumere questi dati. Dato che l’articolo di Burkeman è impostato sulla rivalità con la terapia cognitivo-comportamentale, riporto per primi i dati che trattano l’efficacia delle terapie psicodinamiche (termine più moderno per designare le terapie di derivazione psicoanalitica) sui disturbi ansiosi, che sono da sempre il bersaglio d’elezione delle terapie cognitive. Il paragone non è del tutto corretto, perché significa far giocare la psicoanalisi in casa della TCC. D’altro canto è anche vero che il programma inglese IATP –che è uno dei bersagli di Burkeman sul Guardian- è stato pensato proprio per ansia e depressione e quindi contestarlo ispira la domanda: cosa hanno da offrire di alternativo le terapie psicodinamiche?

Slavin-Mulford e Hilsenroth in un capitolo specifico dedicato al trattamento dei disturbi d’ansia riportano con onestà dati in cui si può vedere una superiorità della terapia cognitiva rispetto alla psicodinamica. È significativo che questo riconoscimento venga da un libro sulla terapia psicodinamica.

Superiorità però con dei limiti. Ad esempio nei vari studi di Durham (1994, 1999, 2003) questa superiorità era presente, anche se poi essa spariva dopo che erano passati 8 anni dalla fine del trattamento. In ogni caso la terapia cognitivo-comportamentale dava suoi risultati positivi più rapidamente e il fatto che a 8 anni era in qualche modo raggiunta –ma non superata- in efficacia dalla terapia psicodinamica non significa che il benessere ottenuto più rapidamente non sia un valore positivo. Stare meglio con anni di anticipo non mi pare risultato da buttar via. Prendendo in considerazione altri studi Slavin-Mulford e Hilsenroth concludono che, per quanto riguarda l’ansia, a seconda delle interpretazioni e delle metodologie statistiche terapie cognitive e psicodinamiche si eguagliano oppure mostrano una certa superiorità della TCC. In conclusione, se hai l’ansia anche la psicoanalisi funziona ma la terapia cognitivo-comportamentale è un po’ meglio.

Per altri disturbi il quadro è più complesso e confuso. Ad esempio, nel campo dei disturbi di personalità mostrano efficacia sia terapie di derivazione cognitiva, come la terapia dialettico-comportamentale e la schema therapy, che terapie di derivazione psicodinamica come il trattamento basato sulla mentalizzazione di Fonagy e la terapia focalizzata sul transfert di Kernberg.

 

Transfert, inconscio e metacognizione

Ma il punto dove il libro di Levy, Ablon e Kächele è più intrigante è nel capitolo firmato dal ricercatore Jonathan Shedler che è poi la riproposizione parola per parola di un articolo del 2010 apparso su American Pychologist (The Efficacy of Psychodynamic Psychotherapy). Questo ricercatore è citato anche nell’articolo di Burkeman sul Guardian come studioso che ha ridato davvero fiato alla psicoanalisi come disciplina scientifica, o almeno alle terapie derivate dalla psicoanalisi. Shedler si chiede cosa sia davvero una terapia psicodinamica e cosa una terapia cognitiva nel concreto, al di là delle differenze di modello teorico.

Utilizzando varie metodiche esplorative Shedler individua in uno stile di colloquio aperto, non direttivo e teso ad analizzare le interazioni emotive tra terapeuta e paziente come modello conoscitivo delle relazioni problematiche esterne del paziente (il cosiddetto transfert) come caratteristiche specifiche dell’operare psicodinamico, mentre trova in uno stile più strutturato e direttivo e teso ad analizzare le valutazioni esplicite delle situazioni (le cosiddette credenze cognitive) sarebbero le caratteristiche specifiche dell’operare cognitivo. Ebbene, secondo Shedler l’adesione al primo gruppo di tecniche mostrerebbe maggiore efficacia, e questo malgrado l’orientamento soggettivo del terapista, che quindi può dichiararsi cognitivo e poi in realtà operare dinamicamente o fare il contrario.

Ebbene, se c’è una vendetta di Freud essa è posizionata qui, in agguato. Il dato di Shedler colpisce. Certo va elaborato. Quelle che Shedler denomina tecniche psicodinamiche sono piuttosto tecniche che incoraggiano il paziente a elaborare i suoi vissuti interpersonali e relazionali a un livello che noi chiameremmo metacognitivo, ovvero di osservazione mentale distaccata di altri stati mentali, da un secondo livello, un livello meta. Queste tecniche naturalmente, se lo si preferisce, possono chiamarsi psicodinamiche in contrapposizione a un razionalismo ingenuo che può essere attribuito al primo cognivitismo. Possono essere chiamate tecniche di esplorazione dell’inconscio solo a patto di chiamare inconscio quello che noi cognitivisti chiameremmo stati mentali procedurali e operativo-motori, impliciti se vogliamo, ma non inconsci. Ovvero inconsci, ma non nel senso freudiano.

In quell’implicito interpersonale si celano dolori che riguardano vari bisogni: esplorare, avere un legame di attaccamento, ottenere accudimento e socialità, esprimere agonismo e aspirare ad affermarsi.

La terminologia di Shedler, che chiama “impliciti” gli stati mentali gestiti in maniera disfunzionale, lo fa appartenere -suo malgrado- a un paradigma che ci pare più cognitivo che freudiano. Mi pare che Shedler paghi ancora una volta il pegno a una tradizione clinica, quella analitica post-freudiana, ricca di intuizioni cliniche compatibili con un moderno paradigma cognitivo, emotivo e interpersonale, ma condannata continuamente a utilizzare –sia pure sempre meno, e questo lo si vede anche nello scritto di Shedler- il gergo psicoanalitico dell’inconscio. Gergo che Shedler non usa: non si parla mai di castrazione e tantomeno di pulsioni per tutto il suo articolo.

L’inconscio di Schedler è cognitivo e, se vogliamo, anche dinamico (ci sono forze motivazionali, peraltro compatibili con il cognitivismo che esclude le forze pulsionali ma accetta le motivazioni chiamandole scopi) ma non freudiano. Vendetta o sepoltura di Freud?

Tuttavia sarebbe ingeneroso cavarsela solo rinfacciando a Shedler il suo doversi adattare a una particolare terminologia superata. Shedler ci fa anche notare che da un paradigma con alcune crepe teoriche come quello freudiano sono nate e cresciute delle competenze cliniche che paradossalmente non hanno potuto crescere in altri ambienti. Shedler parla di uno stile terapeutico propriamente psicoanalitico che è interpersonale, non direttivo e focalizzato sull’analisi della relazione terapista-paziente utilizzata come modello per la comprensione delle altre relazioni disfunzionali del paziente.

Insomma, il transfert come esposizione comportamentale in vivo a relazioni problematiche da rielaborare nel qui e ora in maniera più funzionale. Questo stile terapeutico è contrapposto a uno stile definito cognitivo, che sarebbe invece direttivo, pedagogico e meno esperienziale. Questo stile, come ho scritto alcune righe fa, dovrebbe corrispondere più o meno allo stile della terapia cognitiva standard in stile Beck. È interessante notare che Shedler definisca l’atmosfera emotiva della seduta dinamica come “experiencing”, ancora un volta contrapponendola a quella più astratta della seduta cognitiva. Eppure si potrebbe far notare che questo experiencing può corrispondere anche a un’esposizione comportamentale, a una tecnica cognitiva di guided imagery o a una qualunque seduta di terapia umanistico-esperienziale, per uscire dalla dicotomia psicodinamico/cognitivo.

Insomma, è inevitabile semplificare e Shedler semplifica riducendo la seduta cognitiva a un esercizio di pura astrattezza pedagogica. Forse ha ragione a restituirci pan per focaccia, dopo che noi cognitivisti a nostra volta abbiamo ridotto la rappresentazione della seduta psicodinamica a uno stereotipo.

Che sia un pregiudizio lo dimostra il fatto che negli ultimi anni la psicoterapia cognitiva si è evoluta in due direzioni. La prima esperienziale ed emotiva, cosiddetta bottom-up. Alcune sue filiazioni e cuginanze hanno sviluppato all’estremo l’aspetto relazionale ed esperienziale (come la Schema Therapy) fino ad arrivare al corporeo (terapia senso-motoria). È corretto dire che queste filiazioni hanno vendemmiato anche dalla vigna delle idee psicodinamiche? Probabilmente si, soprattutto per la Schema Therapy.

Un’altra direzione della terapia cognitiva è quella che approfondisce le funzioni metacognitive, in cui le emozioni non sono più controllate univocamente dalle cognizioni esplicite, ma sono ancora regolate a un secondo livello, il livello meta in cui alcuni stati mentali ne regolano altri, per lo più emotivi. Questa corrente probabilmente è la migliore erede del cognitivismo clinico standard più razionalista, poiché mantiene la sua fede nell’intervento esplicito.

Rimane ancora da riflettere. Le osservazioni di Shedler sono utili, anche se credo che lui chiami “psicodinamico” un modo di operare relazionale ed esperienziale che ormai è patrimonio comune ed è difficile volerlo attribuire alla sola terapia psicodinamica, anche se si può riconoscere che un certo tipo di esperienza terapeutica fortemente relazionale e transferale è frutto di quella tradizione e va riconosciuto. D’altro canto l’intervento esplicito, che Shedler svaluta nei suoi studi, rimane –e questo lo dice la ricerca empirica- l’intervento di prima scelta per i disturbi di area ansiosa e depressiva.

Questo basti per la vendetta scientifica di Freud. Ci sarebbe poi la vendetta anti-scientifica, di cui parleremo altrove.

It’s never over, Jeff! – L’arte di Jeff Buckley

Buckley ha qualcosa nella voce e nell’interpretazione dei suoi brani che vi sfido a trovare in altri.

 

Jeff Buckley nasce il 17 novembre, e già questo è un dato curioso: secondo varie credenze popolari, sia il giorno che il mese in questione, non sono proprio di buon auspicio. Se poi pensiamo che questo giovane e misterioso cantautore si è spento a soli 30anni, annegando di sua spontanea volontà lungo un affluente del fiume Mississippi, ci rendiamo conto della presenza di un’anima molto più che fragile.

Se non avete ancora ascoltato ‘Grace’, il suo unico disco completo, vi invito a farlo. Non è un album qualunque: non parla di amore, né di sofferenza, né di nostalgia. E’ un viaggio sensoriale verso la parte più emotiva di voi stessi, quella meno esposta che tenete ben nascosta da tutto il resto, e che non avete nessuna intenzione di mostrare al mondo.

Questo è stato reso possibile grazie all’associazione di molti fattori: Jeff era figlio d’arte (il papà era Tim Buckley), e nonostante la morte prematura del padre, fu indiscutibilmente portato per la carriera musicale; un’infanzia difficile e solitaria che lo resero un ragazzo vulnerabile e fortemente sensibile; l’amore per una donna e la fine di una storia, che portano spesso l’essere umano ad un viaggio introspettivo, alla messa in discussione di sé stessi.

Ma queste sono caratteristiche facilmente trovabili in qualsiasi cantante maledetto, vocalmente dotato, reso ancora più accattivante dall’abuso di alcool e droghe; Buckley figlio però ha qualcosa nella voce e nell’interpretazione dei suoi brani che vi sfido a trovare in altri.

Basta ascoltare il respiro iniziale della sua canzone più nota, la cover di Leonard Cohen ‘Hallelujah‘, quel sussulto prima che le corde della chitarra prendano vita, accompagnando l’immensità della sua vocalità; per non parlare di ‘Lover, you should’ve come over‘ che rappresenta con parole eccezionali l’amore puro.

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Jeff Buckley, Hallelujah

 

Io sostengo la musicoterapia, intesa come quella disciplina che attraverso la musica, permette di comunicare i propri pensieri in maniera alternativa; non occorre essere compositori, ma anche semplicemente ascoltando una singola canzone, possiamo avvertire emozioni, intese proprio come sensazioni fisiche e psicologiche intense. Un artista come Jeff Buckley offre a chi lo ascolta un’importante occasione di conoscenza profonda dei propri stati emotivi.

Non serve essere musicisti o cultori del genere per apprezzare le doti di Jeff Buckley: mi viene in mente Massimo Troisi, nel film ‘Il postino’, quando discutendo con Pablo Neruda sul ciglio della porta, lo accusa di averlo fatto innamorare di Beatrice, che sia tutta colpa delle sue composizioni, esclamando: ‘La poesia non è di chi la scrive, è di chi gli serve‘.

E aveva ragione quel postino impacciato: l’arte tutta ‘è di chi gli serve‘, e siamo in tanti quelli a cui serve ancora la musica e il genio di questo giovane ragazzo, che ha messo fine alla sua vita terrena, ma ha reso immortale quello che portava dentro.

Lo sviluppo della moralità nel bambino – Introduzione alla Psicologia

Lo sviluppo della moralità nel bambino comprende sia il giudizio morale sia il comportamento morale. Si tratta di un campo molto ampio che rientra più specificamente tra i processi di socializzazione, ma investe anche problemi che riguardano dimensioni più interne del funzionamento della persona, e in particolare le interazioni tra affetti, esperienza sociale e processi cognitivi che portano alla coscienza morale individuale.

INTRODUZIONE ALLA PSICOLOGIA RUBRICA DI DIVULGAZIONE SCIENTIFICA IN COLLABORAZIONE CON LA SIGMUND FREUD UNIVERSITY DI MILANO 

Lo sviluppo della moralità: introduzione

Lo sviluppo della moralità nel bambino rappresenta una tematica importante sia dal punto di vista psicologico che da quello sociale e comprende sia i meccanismi che sottendono la formazione della moralità sia i fattori che la influenzano. Capire come si genera la moralità nel bambino aiuta a comprendere meglio se stessi nell’interazione sociale e aiuta a orientare i criteri educativi quando si esercita il ruolo di genitore o di insegnante o, in generale, di educatore.

Lo sviluppo della moralità: definizione

Lo sviluppo morale nel bambino comprende sia il giudizio morale sia il comportamento morale. Si tratta di un campo molto ampio che rientra più specificamente tra i processi di socializzazione, ma investe anche problemi che riguardano dimensioni più interne del funzionamento della persona, e in particolare le interazioni tra affetti, esperienza sociale e processi cognitivi che portano alla coscienza morale individuale.

Gli studi sullo sviluppo della moralità

I primi studi sistematici in questo campo risalgono a Jean Piaget, che si è interessato prevalentemente alle forme e allo sviluppo del pensiero e del giudizio morale nel bambino. Inoltre, importanti contributi provengono dalla prospettiva psicoanalitica, fin dai tempi di Freud. In questo caso, ad essere indagati con particolare interesse erano i processi di ordine relazionale-affettivo che sono alla base dell’acquisizione del controllo morale e del comportamento.
Le odierne teorie della sociobiologia, sostengono che le emozioni alla base del comportamento altruistico o pro-sociale sarebbero il prodotto di un’evoluzione di forme di altruismo reciproco, praticate dagli uomini in rapporto alla necessità di difendersi, di proteggersi dai nemici e di condividere. Contributi rilevanti provengono anche dalla prospettiva comportamentista, che si è evoluta nella prospettiva del social learning.

Le prime due teorie sullo sviluppo della moralità

Due le prime principali teorie sullo sviluppo della moralità, che risultano essere per certi aspetti collegate: la teoria di Piaget e quella di Kohlberg, che si collocano nell’ampia prospettiva cognitivo-evolutiva.

 

Lo sviluppo morale secondo Piaget

Piaget si focalizzò sulla morale dei bambini studiando il modo in cui giocano per capire come si evolve il concetto di bene e di male. Scoprì, in questo modo, che la moralità può considerarsi un processo evolutivo: i bambini cominciano con lo sviluppo di una morale basata sulla stretta aderenza alle regole, dettata dalla convinzione che a un’azione errata segua automaticamente una punizione, e successivamente, attraverso l’interazione con altri bambini, scoprono che un comportamento strettamente aderente alle regole può talvolta essere problematico. Quindi, sviluppano uno stadio autonomo di pensiero morale caratterizzato dalla capacità di interpretare le regole criticamente e selettivamente basandosi sul mutuo rispetto e sulla cooperazione.

Piaget ritiene che il ragionamento morale esplicito del bambino sia una sorta di presa di coscienza dell’attività morale. Questa presa di coscienza va intesa come una ricostruzione delle nozioni già sviluppate effettuata anche in base alle nuove capacità cognitive.
Uno degli aspetti fondamentali di questa teoria è la distinzione tra due forme di moralità, che pur essendo prevalenti in successive fasi dello sviluppo, possono convivere in varie forme: il realismo morale e il relativismo morale.

La prima forma, il realismo morale, prevalente fino agli otto anni, collegata con una prospettiva egocentrica del mondo e con il predominare di un modo di pensare “realistico”: la validità dei principi, rigidi e immutabili, è determinata dall’autorità di chi li ha emanati ( es. i genitori), e dalla capacità di questi ultimi di far rispettare tali principi con adeguate sanzioni in caso si trasgressione.

In questa prospettiva i comportamenti sono giudicati o giusti o sbagliati, e i bambini ritengono che tutti debbano giudicarli in questo modo.
Invece, nella forma del relativismo morale, descritta anche come morale dell’autonomia, l’intenzione e il contesto assumono un ruolo importante nella valutazione dell’atto. Questa forma di moralità tende a prevalere dopo gli otto anni, anche se può coesistere con manifestazioni della morale eteronoma. I principi non sono più considerati immutabili, ma fondati e mantenuti dal consenso reciproco, e quindi modificabili in rapporto a situazioni e contesti diversi.

Per esempio, nei bambini in cui prevale il realismo morale la bugia è considerata ‘cattiva’ perché può comportare una punizione. Successivamente, per quegli stessi bambini la bugia diventa qualcosa di cattivo di per sé, anche se le punizioni venissero soppresse. Infine, è considerata negativa perché danneggia la fiducia reciproca, quindi la regola è stata internalizzata. Da quanto detto prevale un senso di giustizia derivante dal passaggio da una morale eteronoma ad una morale autonoma. Per questo, se il bambino vive con i fratelli o compagni una vita sociale che favorisce i suoi bisogni di simpatia e cooperazione, questo promuoverà una morale fondata sulla reciprocità e non sull’obbedienza.

 

Lo sviluppo della moralità secondo Kohlberg

Successivamente, la teoria di Kohlberg costituisce, in parte, un’estensione di quella di Piaget , con la quale condivide l’aspetto stadiale, la considerazione centrale dei processi di tipo cognitivo e l’interesse prevalente per il pensiero morale, piuttosto che per lo sviluppo della moralità nelle sue manifestazioni comportamentali. L’estensione consiste in un’articolazione degli stadi, che arrivano a coprire l’età adulta, e in una definizione precisa dei criteri che consentono di collocare le varie forme di giudizio morale nei successivi stadi.

Per Kohlberg è fondamentale il parallelismo tra gli stadi dello sviluppo intellettivo e quelli dello sviluppo del pensiero morale; il possesso delle competenze cognitive di uno stadio è una condizione necessaria ma non sufficiente perché siano presenti le corrispondenti caratteristiche del giudizio morale. Tale teoria si oppone alla concezione che lo sviluppo del pensiero morale sia il risultato di un apprendimento sociale, e ritiene che tale sviluppo derivi da un progressivo ampliamento della comprensione delle caratteristiche delle azioni sociali proprie e degli altri.

Kohlberg si è servito fondamentalmente di interviste in modalità analoghe a quelle di Piaget, proponendo ai suoi soggetti dei dilemmi morali, rappresentati da vicende nelle quali il protagonista può prender diverse decisioni. Kohlberg ha delineato, in questo modo, una serie di stadi di sviluppo morale molto articolati, dall’infanzia all’età adulta. La nozione di stadio è strettamente legata a quella di Piaget : lo sviluppo degli stadi va da un livello inferiore ad un livello superiore e ogni individuo passa da uno stadio a quello successivo (invarianza della sequenza); la sequenza ideata da Kolberg prevede 3 livelli di giudizio morale, ognuno dei quali è diviso in 2 stadi.

Livello preconvenzionale: in questo livello (sotto i 9-10 anni), si considerano le norme che possono comportare una punizione: la motivazione sulla quale si basa la valutazione è legata al rischio di ricevere una punizione, e quindi all’obbedienza all’autorità. La prospettiva socio-cognitiva è quella egocentrica.
Stadio 1: orientamento premio-punizione non si tiene conto di possibili differenze nei punti di vista dai quali si valuta un dilemma morale, né si considerano adeguatamente le intenzioni che determinano un comportamento (valutato soprattutto in rapporto alle sue conseguenze sul piano fisico).
Stadio 2: orientamento individualistico e strumentale: ciò che è giusto o sbagliato diventa più relativo, e non dipende più così radicalmente dalla sanzione dell’autorità.

Livello convenzionale: questo livello (dai 13/14 anni fino ai 20 anni) è caratterizzato dal rispetto di norme che sono state socialmente approvate, e non più dalle conseguenze immediate dell’azione individuale.
Stadio 3: orientamento del “bravo ragazzo”: assume importanza il rispetto delle norme in modo da rispondere alle aspettative positive della comunità della quale si condividono i valori.
Stadio 4: orientamento al mantenimento dell’ordine sociale: le relazioni interindividuali vengono considerate nel contesto di un sistema, le cui regole non devono essere infrante. Le norme morali non valgono soltanto in quanto legate ad un gruppo con il quale si hanno legami affettivi ma sono connesse con il proprio ruolo all’interno della società, le cui leggi vanno rispettate in quanto garantiscono l’ordine sociale.

Livello post-convenzionale (regolato da principi): le norme morali vanno al di là della società nella quale si vive, sono legate ad un sistema di principi astratti e di valori universali.
Stadio 5: orientamento del contratto sociale: le regole morali non sono fisse e immutabili ma sono create e quindi modificabili in base ad una sorta di contratto sociale.
Stadio 6: orientamento della coscienza e dei principi universali, che possono non essere scritti nelle leggi.

Lo sviluppo morale: conclusioni

Lo sviluppo della moralità avviene sostanzialmente attraverso degli stadi, veicolati dalla vita in famiglia e da quella nel gruppo dei pari. Ne consegue che la personalità dell’adulto riflette le caratteristiche sviluppate durante l’infanzia, anche negli aspetti della moralità. In quel periodo si forma la concezione morale degli individui e perciò della società.

RUBRICA: INTRODUZIONE ALLA PSICOLOGIA

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La mindfulness per combattere l’obesità nei bambini

La Mindfulness si è dimostrata efficace nell’aumentare l’inibizione e diminuire l’impulsività. Dal momento che l’obesità e i comportamenti alimentari non salutari sono associati ad uno squilibrio tra le connessioni nel cervello che controllano l’inibizione e l’impulso, la minfulness potrebbe contribuire a trattare o prevenire l’obesità infantile.

Una nuova ricerca condotta alla Vanderbilt University School of Medicine suggerisce che ci siano differenze negli equilibri neurali dei cervelli dei bambini normopesi e obesi, che inducono questi ultimi a mangiare troppo. Una perdita di peso stabile è difficile da raggiungere per questi bambini e questo può essere dovuto al fatto che richiede cambiamenti nel funzionamento cerebrale, oltre a cambiamenti di dieta e all’esercizio fisico. Secondo gli autori dello studio un modo per gestire in modo efficare il peso potrebbe essere quello di identificare precocemente i bambini a rischio per l’obesità e utilizzare la mindfulness per controllare l’impulsività a mangiare troppo.

La Mindfulness si è dimostrata efficace nell’aumentare l’inibizione e diminuire l’impulsività. Dal momento che l’obesità e i comportamenti alimentari non salutari sono associati ad uno squilibrio tra le connessioni nel cervello che controllano l’inibizione e l’impulso, la minfulness potrebbe contribuire a trattare o prevenire l’obesità infantile.

Chodkowski e il suo team hanno identificato tre aree del cervello che possono essere associate al peso e alle abitudini alimentari: il lobo parietale inferiore, associato all’inibizione, cioè alla possibilità di ignorare una risposta automatica (in questo caso mangiare); il lobo frontale, associato all’impulsività; e il nucleo accumbens, associato alla ricompensa.
I ricercatori hanno usato i dati raccolti dal Enhanced Nathan Kline Institute di 38 bambini di età compresa 8-13 anni. Cinque dei bambini sono stati classificati come obesi, e sei in sovrappeso. I dati inseriti riguardavano il peso dei bambini e le loro risposte all’Eating Behaviour Questionnaire, che descrive le abitudini alimentari nei bambini. I ricercatori hanno utilizzato anche la risonanza magnetica che ha evidenziato l’attivazione delle tre regioni del cervello interessate dallo studio.

I risultati hanno rivelato un legame preliminare tra peso, comportamento alimentare ed equilibrio nella funzionalità cerebrale. I bambini che si comportavano in modo da evitare di mangiare troppo presentavano maggiori connessioni nell’area cerebrale legata all’inibizione rispetto a quella legata all’impulsività. Al contrario, nei bambini che si comportavano in modo da mangiare troppo, era l’area associata all’impulsività ad essere maggiormente attivata rispetto a quella associata all’inibizione.

[blockquote style=”1″]Pensiamo che la minfulness potrebbe ricalibrare lo squilibrio nelle connessioni cerebrali associate all’obesità infantile[/blockquote] ha detto il dottor Cowan, della Vanderbilt University School of Medicine.

Amazzoni dentro: origini e cause dell’aggressività femminile

Solo nel Novecento la donna prende coscienza di un’oppressione che aveva avuto origine molti secoli prima e il risorgimento dell’ aggressività femminile ha permesso alla donna di avere uno strumento tra le mani per riportare a galla un diverso modo di essere e di pensare.

Nella cultura mediterranea i miti ci raccontano come l’aggressività femminile sia stata sempre repressa, e non solo, anche l’intero sistema ‘al femminile’ ha subito deformazioni, inganni e tabù.

La più antica figura mitologica è Inanna, una dea sumera che rappresentava il principio della fecondità e della trasformazione ciclica. Il pensiero ricettivo, la carica erotica, il potenziale trasgressivo. Inanna aveva accettato le regole del regno dei morti: viene fatta a pezzi dalla sua stessa sorella, davanti ai suoi occhi. Ciò che l’aveva spinta all’inferno fu la pietà, la stessa pietà che poi la farà risorgere tornando sulla terra, ma scoprirà di essere ripudiata da un pastore che grazie a lei e ai suoi poteri era diventato un dio-re. Fu allora che Inanna manifestò tutto il suo potere e tutta la sua collera.

Lilith, originariamente appariva nella Genesi accanto ad Adamo. Successivamente gli ebrei decisero di cancellarla dalla storia ma l’Arcangelo Gabriele, per ordine di Dio, cercò di convincerla a tornare accanto ad Adamo. Ella rifiutò, ma l’arcangelo fu irremovibile nell’imporle obbedienza e sudditanza all’uomo. Lilith rimase dov’era, e da quel momento è ricordata come la parte ripudiata dell’archetipo femminile.

Meti era la dea greca più sapiente e Zeus ne era intimorito. Un giorno Zeus decide di rapire Meti e imprigionarla tra le sue braccia sperando che tra l’unione dei due potesse nascere un figlio ancora più intelligente. Ci ripensò e decise di tenersi Meti come un possesso, mangiandola. Dopo nove mesi Zeus viene colto da un terribile mal di testa: ne uscì Atena, dagli occhi azzurri, lo sguardo intelligente e orgoglioso. Meti era diventata Atena attraverso un sacrificio per mano di Prometeo: la donna doveva essere alleata dell’uomo e doveva pensare con la propria testa.

Questi brevi scorci di mitologia ci illuminano a malapena sulla condizione reale in cui la donna si è trovata per molti secoli e che ad oggi ancora sembra presente, seppur in modo velato.

 

La repressione dell’ aggressività femminile

Come è iniziata la repressione dell’ aggressività femminile? La questione è importante non solo da un punto di vista antropologico, ma anche psicologico. Di fatti, come si è potuto reprimere quest’istinto? Non si può trovare una risposta solo focalizzandoci sulla storia personale di una donna. In realtà, è dall’intreccio tra coscienza e inconscio dell’umanità che si deve ricercare quel fenomeno chiamato ‘mutazione degli istinti’. Nel dover capire cosa è successo, ci addentriamo nei meandri della psicoanalisi sociale. Infatti è solo nel Novecento che la donna prende coscienza di un’oppressione che aveva origine molti secoli prima e il risorgimento dell’ aggressività femminile, ha permesso alla donna di avere uno strumento tra le mani per riportare a galla un diverso modo di essere e di pensare.

Secondo la prospettiva psicoanalista, il blocco di un istinto provoca dei danni, anche sotto la spinta dell’evoluzione. Se un istinto si ammala emergono dei meccanismi compensatori- le nevrosi- che si manifestano attraverso dei sintomi. Ad esempio, un attacco di panico in ascensore ci segnala che nella personalità del soggetto vi è un nucleo nevrotico. Evidenze dimostrano come l’aggressività rimossa tenda a trasformarsi in autoaggressività e per estensione sintomatologica frigidità, depressione, disordini alimentari, ansia di controllo e così via.

Queste osservazioni ribaltano l’idea secolare che donna sia uguale a ipoaggressività. Le cose, in natura non stanno così. La complessa repressione istintuale attuata ai tempi del nazismo attraverso l’internamento oppure attraverso l’inibizione sessuale ai tempi della regina Vittoria, comportò pulsioni violente, stati d’ansia, difficoltà di concentrazione e nei casi più gravi, deliri, allucinazioni e disperazione. Non a caso i più famosi casi di isteria sono rintracciabili proprio a cavallo tra Ottocento e Novecento. Gli istinti repressi per secoli sono riemersi in tutta la loro cattività nell’ambito di un grande mutamento sociale che fu l’avvento della società industriale.

Purtroppo il deficit aggressivo femminile non è stato analizzato a fondo dai padri fondatori della psicoanalisi, nonostante lo stesso Freud, nella seconda topica, parlasse di Thanatos come istinto di morte, o aggressività, che può portare un individuo ferito alla coazione a ripetere di azioni lesive, rimanendo così legato a ciò che lo fa star male (una sorta di masochismo inconscio). Tuttavia, nell’ambito della psicologia analitica di Jung vi è stato un superamento della teoria pansessuale freudiana, considerando la libido una pulsione vitale globale. In quest’ottica, il talento creativo, l’attivismo politico, il fervore intellettuale sono manifestazioni di un desiderio più profondo, più ampio, appartenente al patrimonio istintuale della nostra specie.

A partire dalle osservazioni junghiane, molte psicoanaliste si sono interessate a tutto ciò che le donne esperiscono costantemente: sensi di colpa, autodistruttività, senso del dovere e del sacrificio, inadeguatezza, rabbia. E’ emerso da diversi studi clinici, che nelle donne il senso di colpa (spesso ingiustificato) è radicato nel reato del ‘non essere’: donne e bambine che si sentono in colpa per aver subito violenze sessuali, tendono a reprimere la vergogna, a non parlare, a non esprimersi.

Ma la colpa si esprime anche in ambito lavorativo: colpa del desiderio di fare carriera ed essere madre allo stesso tempo, colpa del mettersi in mostra, colpa dell’essere troppo assertiva e così via. Il pensiero solitamente presente, seppur a livello inconscio è ‘Se non posso trovare senso nella mia identità e quindi nella mia vita, allora lo troverò sacrificandomi per l’identità altrui. Il mio senso sarà quello di essere vittima’.

Ad oggi, soprattutto nella società occidentale e progredita, si possono osservare molti cambiamenti nello stile di vita e nel pensiero femminile, così come in quello maschile. Più libertà di scelta (ad esempio, in vista di una realizzazione professionale), più libertà di espressione (attraverso lo studio, la scrittura, i media) e più opportunità dal punto di vista sociale. Tuttavia ancora molto cammino rimane da fare perché la donna prenda consapevolezza della sua energia interiore e delle sue potenzialità, così che la dolce amazzone che si trova dentro di sé possa riemergere in tutto il suo splendore.

Terapia cognitivo-comportamentale: imparare ad essere terapeuti di se stessi

Sono Cristina. Ho 26 anni e gli ultimi due li ho passati con la mia terapeuta. Al primo incontro mi ha detto che era cognitivo-comportamentale. Non sapevo cosa volesse dire. Mi disse: ‘Col tempo e gli homework capirai… fino a diventare terapeuta di te stessa’

Sono Cristina. Ho 26 anni e gli ultimi due li ho passati con la mia terapeuta. Al primo incontro mi ha detto che era cognitivo-comportamentale. Non sapevo cosa volesse dire. Me l’ha spiegato, ma le cose non erano troppo chiare: la storia delle distorsioni cognitive; le credenze di base; i pensieri che creano le emozioni… mi disse: ‘Col tempo e gli homework capirai… fino a diventare terapeuta di te stessa’. Bene pensai, almeno risparmio qualcosa!

Come dicevo sono passati due anni dall’inizio. Non vi dico nel dettaglio per quali motivi mi ritrovai in quello studio, a parte che c’entravano anche gli attacchi di panico, tanto ormai sono piuttosto comuni e non me ne vergogno.

Ma oggi ho iniziato a correre. A fare running, o jogging che fa più figo! Era facile a dirsi, complesso nell’attuarlo. Le scuse più assurde, una pigrizia certa, una resistenza infallibile. Inizialmente avevo optato per la palestra. Un mese per andare solo a chiedere informazioni. Un giorno mi decido, dopo una lunga ristrutturazione cognitiva (un pensiero ci fa soffrire? Bene, si cercano altri pensieri che possono almeno farci stare meno male!), e vado in due palestre. Una meno simpatica rappresentata da una Barbie bionda in carne (poca) ed ossa; l’altra invece gentile e alla mano quasi fossi iscritta lì da sempre (a pensarci bene forse fin troppo gentile). Solo varcare quelle soglie ha scatenato in me una reazione fisica spropositata. Palpitazioni, tremori alle gambe, chiusura dello stomaco. Ero critica verso quel mondo e le persone coinvolte, ne ero consapevole, per fortuna ho una buona auto-riflessività (me lo diceva sempre la terapeuta).

Osservo di nuovo i pensieri, faccio un respiro profondo, mi aggancio al momento presente in perfetto stile mindfulness e mi concentro sulle informazioni che mi danno… functional ore 18, interval training ore 19.30, zumba ore 10, spinning ore 12, crossfit ore 20… mi perdo nuovamente in piena modalità mindflight (la mente che se ne va).
Torno a casa e il solo pensiero della lezione di prova mi fa cadere nuovamente nell’angoscia totale. Che faccio allora?

Ovvio, rimando alla settimana successiva, d’altronde ‘io troppi impegni questa settimana‘. Sarà un problema di procrastinazione? Difficile a dirsi. Ma comunque… arriva il famoso lunedì in cui, si sa, si mettono in atto i buoni propositi. Mi sveglio già agitata al pensiero della palestra. Da buona ‘allieva’ cognitivo-comportamentale mi dico: ‘che cosa mi sta passando per la mente?‘ (quante volte me l’ha chiesto la dottoressa!). La risposta è semplice: ‘Odio la palestra; mi sentirò a disagio appena arrivata all’ingresso perché sentirò tutti gli occhi puntati; tutti si saluteranno come se fossero una grande famiglia; non so se dovrò portare un lucchetto per lo spogliatoio; non saprò utilizzare le attrezzature; e in qualunque corso non sarò mai coordinata con il resto del gruppo e poi… tutto puzzerà! Sudore ovunque e in qualunque momento!’.

Bene RP (registrazione dei pensieri) fatta. Pensieri catastrofici infiniti, etichettamenti, palle di vetro a gogò (queste sono le famose distorsioni cognitive). Rifletto ancora. Mi viene in mente l’attivazione comportamentale che la terapeuta mi fece eseguire in un brutto momento per me: ‘Iniziamo con le cose che amavi‘ mi disse e stilammo una lista di attività. Questo tipo di tecnica serve per far riattivare una persona dopo un periodo di totale nulla; mi vergogno a dirlo, ma a volte non riuscivo nemmeno a farmi una doccia per quanto ero giù. Si stila la lista delle attività come dicevo, e si parte da quella più piacevole e per la quale ci sentiamo più capaci, fino ad andare avanti con l’elenco… ma comunque a me ora serviva solo riprendere un’attività fisica. Quindi ritorno con la mente sulle attività fatte in passato.

E il benessere provato stava lì, lo sentivo, era la corsa. In quel momento ho cancellato del tutto l’idea della palestra. Ho ripreso la divisa, le scarpe adatte, legato i capelli. E ho respirato di nuovo. Leggevo i pensieri che anche qui remavano contro, ma li lasciavo andare, ripetendomi che superato l’inizio tutto sarebbe stato più semplice.

Letteralmente dovevo compiere il primo passo. E così ho fatto. Chiusa la porta di casa ho iniziato a correre. Pochi passi e sono tornata a dieci anni fa quando facevo atletica leggera a livello agonistico. Mezzofondo per chi è curioso. Ho sentito il corpo riattivarsi. E’ stato bello respirare all’aria aperta. La puzza a dir la verità l’ho ritrovata, concime dei campi, ma alla natura si perdona quasi tutto. Corro nella mia solitudine ricercata con la consapevolezza di ciò che ho intorno, delle sensazioni corporee. E’ la prima volta che corro dopo la pratica della Mindfulness.

Ho applicato i principi ed è stata un’esperienza nuova che comunque racchiudeva in sé vecchi ricordi. Stupendo. Ma il caso a quanto pare mi mette spesso alla prova. In lontananza vedo un cane. Solo, come sono sola io. Flashback: rivedo me inseguita da due cani all’età di 15 anni. Sento la paura salire. Non so che fare. Respiro di nuovo profondamente. Attimi per riattivare la ristrutturazione cognitiva: ‘E’ piccolo… sembra buono… forse non ti noterà… sei adulta ora… ecc.. ecc.’, tutto in cinque secondi credo. Esposizione. Flooding.

Ora è necessaria una spiegazione: l’esposizione, come dice la parola stessa, significa esporsi a qualcosa che abbiamo evitato per timori vari; quando si parla di flooding si fa riferimento ad un’esposizione un po’ particolare del tipo: ‘Temi le altezze? Soffri di vertigini? Benissimo! Perfetto! Ti buttiamo con il paracadute dall’aeroplano!‘. Significa quindi essere immersi totalmente nella nostra paura senza gradualità. Questo mi è successo. Passo vicino al cane.

Distratto annusa le piante. Tiro un sospiro di sollievo. Cavolo, lo sento correre verso di me. Panico. Di nuovo respirazione e ristrutturazione ‘Non viene proprio verso di te… pure se fosse cosa può farti… ecc… ecc.‘. Mi viene vicino e mi supera un po’. Corre avanti a me. Poi si ferma e mi riviene vicino e di nuovo accanto. Non mi sta seguendo. Mi sta accompagnando. Tiene il mio passo. Mi commuove la cosa. Se non mi fossi esposta prima, non avrei goduto di tutto questo. Dopo qualche centinaio di metri c’è il padrone che lo chiama, o meglio la chiama, ‘Bianca, vieni qui‘. Niente, continua a starmi accanto fino a casa. Sorrido pensando che ora mi dispiace separarmene, mentre prima sembrava la cosa più temibile al mondo.

Arrivata mi sento bene, sono felice. Certo poi non aspettiamoci che il mondo intorno a noi riconosca il nostro sentirci dei supereroi. Mia madre mi guarda e dice ‘Al ritorno hai preso l’autobus?‘ e mia sorella, dopo che le stavo dicendo che quando corro mi si gonfiano le mani, mi guarda e fa ‘Bé ti diventa pure viola la faccia!‘. Potevo irritarmi con queste invalidazioni ma, memore dei mille discorsi sull’assertività (che ci ho messo un po’ a capire), le guardo e dico: ‘Per favore mi dite che sono stata brava? Non è mica stato facile per me!‘. Si guardano, richiesta strana, sorridono: ‘Sì, sei stata brava!‘. Ora ho capito cosa volesse dire la mia dottoressa due anni fa. Sono diventata terapeuta di me stessa.

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