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Mindfulness in età evolutiva: uno sguardo al contesto scolastico e alle possibili applicazioni con bambini adhd e i loro genitori

E’ possibile estendere l’utilizzo della Mindfulness in età evolutiva come strumento di cura e prevenzione? In particolare, per la patologia ADHD, che effetto avrebbero gli interventi mindfulness diretti con i giovani pazienti nel loro contesto scolastico e gli interventi integrati di Mindfulness training per i genitori?

Sara Zanelli, Michela Quaglia, Cristina Liviana Caldiroli – Open school Psicoterapia Cognitiva e Ricerca

Mindfulness in età evolutiva: la mindfulness Nelle Scuole

Negli ultimi 20 anni, la Mindfulness è divenuta il focus dell’attenzione di una larga parte della comunità scientifica. In modo pressoché spontaneo, attraverso l’unione di studi indipendenti di clinici e ricercatori appartenenti a diversi orientamenti, si è fatto strada un approccio trans-epistemologico basato sui principi radicati nella filosofia orientale.

L’interesse verso una prospettiva apparentemente tanto diversa viene dalla crescente esigenza di integrare, nei metodi della cura clinica e psicologica, le conoscenze rigorose della ricerca empirica con una prospettiva di senso, che valorizzi le possibilità cognitive, emotive e comportamentali della natura umana. Tali possibilità sono da riferirsi alle capacità di accettazione dell’esperienza, di auto-osservazione non giudicante e di comprensione del rapporto di interdipendenza reciproca tra mente e corpo. Tutti questi aspetti possono essere riassunti nel concetto di Mindfulness.

Questo contributo vuole porre in luce la possibilità di utilizzare la Mindfulness in età evolutiva come strumento di cura e prevenzione, partendo da una disamina della letteratura esistente sul tema e focalizzandosi sull’utilizzo di tale strumento nel contesto scolastico, per poi concentrare l’analisi su un tema specifico: l’utilità della pratica di Mindfulness per la patologia ADHD, sia attraverso interventi diretti con i giovani pazienti nel loro contesto scolastico, sia attraverso interventi integrati di Mindfulness training per i genitori.

Definizioni e Origini del Costrutto

Mindfulness significa fare attenzione in modo particolare: intenzionalmente, nel momento presente e senza esprimere giudizi (Kabat-Zinn, 1994). La Mindfulness è il processo che consiste nell’alimentare la consapevolezza del presente (Hanh, 1987). Mindfulness è consapevolezza e accettazione del momento attuale (Hanh, 1987).

Gli elementi costitutivi della Mindfulness, che emergono dalle definizioni riportate sopra (consapevolezza e attenzione) evidenziano quale sia la finalità della pratica Mindfulness, e quindi la sua tensione etica: l’obiettivo è quello di eliminare la sofferenza inutile, coltivando una comprensione e accettazione profonda di qualunque cosa accada attraverso un lavoro attivo con i propri stati mentali. Secondo la tradizione originaria, la pratica della Mindfulness dovrebbe permettere di passare da uno stato di disequilibrio e sofferenza ad uno di maggiore percezione soggettiva di benessere, grazie ad una conoscenza profonda degli stati e dei processi mentali.

Questo significa che Mindfulness è al tempo stesso il punto di partenza, ossia la chiave per una conoscenza rinnovata della mente; il punto focale, ossia lo strumento per formare la mente; il punto culminante, ossia la manifestazione più appropriata dell’avvenuta liberazione dalle abitudini consolidate della mente che producono infelicità (Kabat-Zinn, 2003).

Se la Mindfulness trova le sue origini nella tradizione buddhista, e quindi nell’approccio fenomenologico di stampo orientale, nel passaggio verso la psicoterapia occidentale il significato originario della parola Mindfulness tende ad espandersi e a trasformarsi in base allo scopo per cui viene utilizzato. Tutti i modelli terapeutici che includono i processi della Mindfulness hanno, tuttavia, uno scopo comune: quello di permettere alle persone di modificare il rapporto con le proprie esperienze in generale, e con quelle interne in particolare, così da poter osservare la propria esperienza senza esserne travolti.

Nello specifico, nel percorso di adattamento della Mindfulness come pratica meditativa alla Mindfulness come tecnica, strategia o strumento psicoterapeutico, si possono ritrovare nuove caratteristiche, definibili come assenza di giudizio, accettazione e compassione. Attorno a questi concetti si raccolgono nuove definizioni:

  • Consapevolezza che emerge prestando intenzionalmente attenzione, nel momento presente e in modo non giudicante, al dispiegarsi dell’esperienza (Kabat-Zinn, 2003).
  • Autoregolazione dell’attenzione, così da mantenerla sull’esperienza presente, che rende possibile un miglior riconoscimento degli eventi mentali, adottando un atteggiamento caratterizzato da curiosità, apertura e accettazione (Bishop et al., 2004).
  • Consapevolezza dell’esperienza presente con accettazione (Germer, Siegel, & Fulton, 2005).

Meccanismi di Cambiamento

Se finora l’analisi condotta ha contribuito a definire il costrutto della Mindfulness (cosa), identificarne gli scopi e le tensioni etiche (perché), in questa sezione si parlerà dei possibili meccanismi di funzionamento (come).

Meccanismi Neurali

Uno dei principi su cui si basa tutto l’apparato concettuale della Mindfulness riguarda l’unione mente/corpo: tale rilevanza è basata ad esempio sulla consapevolezza che il riconoscimento e la descrizione delle sensazioni e delle percezioni del corpo veicolano informazioni riguardo alla sfera cognitivo-emotiva. Non stupisce, quindi, che un ramo della ricerca sia stato espressamente dedicato allo studio dei meccanismi cerebrali che sottendono un orientamento mindful.

Una lettura interessante viene da Siegel, il quale ritiene che alla base di un funzionamento mindful ci sia l’integrazione neurale che influenza e viene influenzata dalla consapevolezza di Mindfulness. Secondo l’autore:

La consapevolezza dell’esperienza che facciamo momento per momento ci dà la possibilità di sentire e accettare direttamente la nostra esperienza mentale. Questo stato di consapevolezza può coinvolgere in uno stato integrato tra varie regioni del cervello, incluse aree importanti della corteccia e le aree subcorticali del sistema limbico e del tronco encefalico. L’integrazione neurale, in parte condotta da queste regioni frontali, può essere essenziale per creare un equilibrio basato sull’autoregolazione. […] Questi percorsi di integrazione possono giocare un ruolo cruciale per il benessere.

(D. J. Siegel, 2009).

È possibile, quindi, ritrovare nella meditazione di Mindfulness un’attivazione contemporanea delle aree cerebrali frontali adibite alle capacità esecutive e di allerta, che inizialmente avrebbero la funzione di indirizzare e sostenere l’attenzione, e in seguito quella di sostenere l’intenzione di proseguire nella consapevolezza al momento presente, attraverso l’influenza sui processi decisionali.

Sebbene gli studi sui meccanismi neurali forniscano informazioni importanti, una comprensione esaustiva delle modalità di azione della Mindfulness non può prescindere dall’analisi dei meccanismi che si creano a livello cognitivo ed emotivo.

Meccanismi Psicologici

Al momento attuale, molti dei meccanismi psicologici che si suppone essere alla base della consapevolezza, vengono proposti a livello teorico. Shapiro, Carlson e colleghi propongono una teoria strutturata sui meccanismi coinvolti nei processi di Mindfulness, basata sull’interrelazione continua momento-per-momento di tre componenti (Shapiro et al., 2006). Gli autori definiscono queste componenti gli assiomi della loro teoria e li ritrovano nella definizione di Mindfulness formulata da Kabat-Zinn:

Prestare attenzione in un modo particolare: intenzionalmente, nel momento presente e senza giudicare

(Kabat-Zinn, 2003).

Il modello viene quindi formulato sulla base della seguente trasduzione.

L’intenzione (I) fa riferimento alla motivazione sottostante l’avvicinarsi alla meditazione di Mindfulness: chi ha l’obiettivo di imparare a regolare i propri stati interni ottiene auto-regolazione, chi vuole esplorare i propri vissuti ottiene auto-esplorazione, e chi vuole liberarsi dei sentimenti negativi ottiene auto-liberazione. L’intenzione è intesa come un concetto dinamico ed evolutivo, che può cambiare nel tempo e a seconda delle necessità, ed è una componente centrale della Mindfulness perché ne influenza direttamente gli effetti.

L’attenzione (A) è la seconda componente del modello e implica un’osservazione dell’esperienza interna ed esterna, momento per momento, che sospenda tutte le operazioni interpretative e si basi esclusivamente sulla realtà così come si presenta. Questo assioma è importante nel modello anche perché si propone di costituire un anello di congiunzione con la psicologia cognitiva, che nei suoi assunti definisce l’attenzione come meccanismo curativo di base.

L’ultimo assioma, l’atteggiamento (A), si riferisce al come della Mindfulness ed è considerato cruciale degli autori perché rappresenta quella modalità compassionevole e amorevole, verso sé stessi e gli altri, che evidenzia la tensione etica della presenza mentale. L’atteggiamento amorevole o gentilezza amorevole (‘Metta’ in lingua pali) è infatti uno degli strumenti di base della tecnica meditativa Mindfulness utilizzata per contrastare i sentimenti distruttivi di rabbia e ostilità.

Shapiro e colleghi suggeriscono che i tre assiomi IAA siano direttamente collegati a molte delle trasformazioni che si osservano grazie alla pratica della Mindfulness e sulla base di questa ipotesi propongono un modello di funzionamento che spiega la relazione reciproca e continua esistente tra i tre elementi: il prestare attenzione (A) in modo intenzionale (I) con apertura e atteggiamento non giudicante (A) porterebbe le persone a sperimentare un cambiamento di prospettiva, che gli autori chiamano ripercezione.

Questo cambiamento di prospettiva, o ripercezione, avviene nel momento in cui, attraverso la Mindfulness, ci si disidentifica dai contenuti della propria coscienza e ci si rapporta alla realtà con maggiore chiarezza e obiettività.

Il processo di graduale cambiamento di prospettiva è, evolutivamente parlando, uno dei meccanismi cognitivi che porta alla maturazione degli individui (si pensi, ad esempio, alla formulazione di una teoria della mente nel processo di sviluppo cognitivo dei bambini). La ripercezione, proprio perché orientata all’esperienza nel momento in cui essa si presenta, è un processo continuo, nel qui e ora, che riflette l’interrelazione costante tra i tre assiomi.

Il modello di Shapiro e colleghi, sebbene si collochi a livello di speculazione teorica, si pone anche come possibile ipotesi di partenza per studi empirici che vogliano testare l’efficacia dei trattamenti basati sulla Mindfulness in popolazioni specifiche (Bishop, 2002; Mace, 2008).

Interventi basati sulla mindfulness

La pratica della Mindfulness è stata portata all’attenzione della ricerca clinica e psicologica grazie soprattutto alla sua traduzione in protocollo, ad opera di John Kabat-Zinn (Kabat-Zinn & University of Massachusetts Medical Center/Worcester. Stress Reduction Clinic, 1990). Il lavoro di John Kabat-Zinn sulla “riduzione dello stress basato sulla Mindfulness” (Mindfulness Based Stress Reduction o MBSR, da qui in avanti nel testo) ha reso possibile a molte persone l’addestramento alla presenza consapevole senza che dovessero cercarlo sotto forma di aiuto spirituale (Mace, 2008). Ai pazienti veniva spiegato, in un incontro introduttivo, in che cosa consistessero gli esercizi di meditazione di Mindfulness e veniva loro chiesto di aderire ad un programma di addestramento della durata di 8 settimane. Il programma era previsto per circa 30 partecipanti, che si sarebbero dovuti incontrare settimanalmente per circa 2 ore in una sessione intensiva di pratica meditativa.

Le componenti centrali del programma riguardavano:

  • L’istruzione sui fattori che inducono e mantengono lo stress;
  • Lo svolgimento di esercizi di autocontrollo per familiarizzarsi con le cause individuali di stress;
  • L’analisi dell’impatto dei pensieri e delle sensazioni sulle tensioni;
  • L’addestramento alla presenza mentale tramite le tecniche meditative formali come lo yoga, il body scan e la meditazione seduta;
  • L’uso regolare di discussioni di gruppo per incentivare l’apprendimento delle tecniche;
  • Lo svolgimento di compiti a casa che prevedevano il ricorso alle tecniche apprese negli incontri di gruppo.

Le tecniche meditative venivano presentate con lo scopo di insegnare a dirigere l’attenzione verso diversi oggetti, di sviluppare la capacità di consapevolezza del respiro, delle sensazioni fisiche e di quelle emotive. All’interno del programma MBSR si praticava anche una libera consapevolezza, per stimolare la massima apertura a qualsiasi esperienza sorgesse in quel dato momento (Mace, 2008): l’istruzione era quella di focalizzare l’attenzione su qualsiasi cosa si presentasse alla coscienza (emozione, sensazione, idea) e di osservarla senza giudicare.

Quando il partecipante si fosse accorto che l’attenzione si era spostata dal respiro al nuovo evento mentale, avrebbe dovuto riconoscerne brevemente il contenuto e poi riportare l’attenzione sulla respirazione. Il compito era quello di riconoscere senza riconoscersi negli eventi mentali. Ai partecipanti veniva poi chiesto di dedicare almeno 45 minuti al giorno, nei 6 giorni restanti, alle tecniche apprese, anche attraverso l’utilizzo dei supporti audio forniti dall’istruttore.

Grazie alla pratica ripetuta degli esercizi di meditazione Mindfulness, il praticante avrebbe potuto apprendere la capacità di fare un passo indietro rispetto alle proprie ideazioni in situazioni stressanti, piuttosto che autoingaggiarsi in atteggiamenti preoccupati e in pattern di pensiero negativo che sarebbero potuti sfociare in un ciclo di reattività disfunzionale, con la conseguenza di peggiorare lo stress emotivo (Bishop, 2002).

Diverse reviews e meta-analisi hanno dimostrato l’efficacia degli interventi basati sulla Mindfulness (o Mindfulness Based Interventions, MBIs nel testo) in un ampio range di problemi psichiatrici e legati allo stress e, aspetto ancor più importante dal punto di vista del sopracitato ruolo formativo della Mindfulness, esiste in letteratura un accenno al potenziale preventivo e di promozione del benessere dei MBIs nelle popolazioni non-cliniche, specialmente per quanto riguarda la riduzione dello stress, l’aumento del benessere percepito, l’aumento della capacità attentiva e il prolungamento del tempo di mantenimento dell’attenzione (Shapiro et al., 2007; Jha et al., 2007; Sauer et al., 2012).

Mindfulness in età evolutiva

Partendo dal presupposto di efficacia degli MBIs negli adulti, sembra essere interessante sviluppare interventi mindfulness in l’età evolutiva: ad oggi, sebbene la ricerca in questo ambito sia ancora agli albori, le evidenze riscontrate in letteratura sembrano testimoniare l’adattabilità di questo tipo di interventi e l’efficacia in campioni, clinici e non, di bambini e adolescenti (Black et al., 2009).

Il contesto scolastico, per le sue caratteristiche strutturali, sembra essere il più adatto per l’implementazione degli interventi basati sulla Mindfulness in età evolutiva, i quali passano la maggior parte del loro tempo a scuola. Inoltre, aspetto ancor più importante, proprio in tale contesto può realizzarsi l’intento preventivo ed educativo della Mindfulness in età evolutiva: se da un lato, gli interventi MB possono aiutare i bambini in difficoltà, dall’altro possono porsi come strumento indispensabile per l’apprendimento delle competenze prosociali, di tolleranza della frustrazione e di promozione della capacità cognitive utili e fruibili da tutti i giovani discenti della società. Le caratteristiche precedentemente citate di una mente mindful (consapevolezza e attenzione, così come accettazione e compassione), partecipando al benessere degli individui in età evolutiva, permetterebbero inoltre di:

Affrontare le sfide future di un mondo in rapido cambiamento, formando persone intelligenti e accudenti e cittadini partecipi ed impegnati

(Shapiro et al., 2008).

Nello stesso tempo, la letteratura attuale riporta un aumento dei problemi di interesse clinico nell’età evolutiva, legati allo stress e alla pressione sociale: lo stress scolastico avrebbe un effetto sulle strutture cerebrali coinvolte nei compiti cognitivi e nella salute mentale (Zenner et al., 2014).

Il contesto scolastico è quindi chiamato non solo a provvedere all’educazione formale e nozionistica, ma anche a valorizzare le competenze sociali e personali dei giovani, a prevenirne il disagio psicologico e promuoverne il benessere globale. Gli interventi basati sulla Mindfulness in età evolutiva potrebbero rispondere a queste necessità, unendo l’ottica preventiva a quella formativa.

A luce di queste osservazioni, può essere opportuno riflettere su come declinare la pratica di Mindfulness in età evolutiva e renderla più adatta all’ambito scolastico. Risulta evidente, in questo senso, che una mera riproduzione del protocollo MBSR non risulterebbe adeguata, dovendo confrontarsi con differenti motivazioni e bisogni rispetto a quelli dei pazienti adulti.

Se le pratiche di meditazione in età evolutiva possono essere simili a quelle degli adulti, le modalità e i tempi devono essere differenti. A questo proposito, Fabbro propone, con i bambini più piccoli, di strutturare le sedute di meditazione in modo che siano molto brevi e che si svolgano con una routine invariata nel tempo (Fabbro e Muratori, 2012). Sempre secondo l’autore, gli esercizi devono essere semplici e adeguati alle capacità dei bambini; alla fine della meditazione è opportuno dedicare uno spazio per la condivisione delle esperienze, per poter esprimere le proprie difficoltà e discuterne. Inoltre, a seconda delle varie fasce d’età (5-8, 9-12, 13-18 anni) la letteratura fornisce suggerimenti su tecniche e procedure di meditazione specifiche (Hooker, 2008).

Molto importante, trasversalmente alle diverse tecniche e agli esercizi proposti, è aiutare i bambini a diventare consapevoli delle proprie emozioni (Fabbro e Muratori, 2012).

Nella letteratura più recente (Meiklejohn et al., 2012; Zenner et al., 2014), alcune review testimoniano l’esistenza di un sempre più ampio numero di studi che trattano degli interventi MB nelle scuole, sebbene la diversità dei programmi analizzati e la qualità di studi pilota di molti lavori non permettano tutt’ora di parlare di una vera e propria efficacia. Nello specifico, potrebbe essere utile capire se esistano specifici domini in cui gli interventi basati sulla Mindfulness possano apportare particolare beneficio. A questo proposito, la review meta-analitica di Zenner e colleghi (Zenner et al., 2014), vuole delineare lo stato dell’arte relativo agli interventi Mindfulness nelle scuole, così da fornire un utile ancoraggio per le future linee di ricerca, cercando anche di capire come integrare la pratica della Mindfulness in età evolutiva e nella routine scolastica.

I risultati riportati testimoniano buoni effetti nel dominio cognitivo, ma anche nelle variabili più specificamente psicologiche di stress, strategie di coping e resilienza. Anche l’accettazione, più volte citata, sembra essere una variabile positivamente influenzata dalla pratica Mindfulness. Accanto a questi risultati, che confermano quanto proposto dalla letteratura teorica sul tema, Zenner e colleghi evidenziano anche alcuni limiti di questo campo di ricerca, sottolineando in particolare l’eterogeneità degli interventi e l’assenza di gruppi di controllo nei campioni analizzati.

Inoltre, sembra sia possibile che diverse variabili, poco controllabili, possano influenzare gli effetti positivi riscontrati nei MBIs nelle scuole: il background socioculturale in cui il contesto scolastico è inserito, la possibilità da parte degli studenti di dedicare tempo e spazi agli esercizi di Mindfulness fuori da scuola, la presenza di insegnanti opportunamente preparati piuttosto che l’inserimento nel corpo docenti di esperti esterni. Un ulteriore limite è costituito infine dalla variabilità degli strumenti di misura e dall’instabilità delle misure di outcome, che in età evolutiva cambiano rapidamente.

Un accenno va riservato inoltre alla dimensione della motivazione che, tanto importante nella pratica Mindfulness, è chiaramente individuabile nei pazienti adulti che si avvicinano alla Mindfulness, ma meno chiara quando si parla di soggetti in età evolutiva. In sintesi, vista la qualità di studi pilota a basso numero di partecipanti, non sembra ancora possibile individuare, nel contesto scolastico, quali siano gli elementi della Mindfulness che giocano un ruolo nella modifica delle variabili di outcome, lasciando invece suppore un effetto di fattori non specifici, quali il supporto percepito dal gruppo, la novità della pratica o un generale rilassamento.

Laddove, quindi, non sembra ancora possibile parlare di omogeneità degli interventi in ambito scolastico, sembra comunque possibile determinare gli effetti che la pratica Mindfulness in età evolutiva ha sulle funzioni attentive e sulle componenti emotive. Flook et al. (2010) testimoniano l’efficacia dell’intervento Inner Kids sulle funzioni esecutive.

Il programma, ideato da Susan Kaiser Greenland (Greenland, 2010), si propone di incrementare gli aspetti di Attenzione, Consapevolezza e Compassione attraverso attività di gioco e movimento specificamente pensate per i bambini in età evolutiva e per il contesto scolastico, adattandole dal programma MBSR di John Kabat-Zinn. Gli autori hanno valutato (attraverso un questionario somministrato a genitori ed insegnanti, il Behavior Rating Inventory of Executive Function o BRIEF di Gioia et al., 2000) le dimensioni di Metacognizione e Regolazione del Comportamento in un campione di bambini -tra i 7 e i 9 anni- prima e dopo la partecipazione al training di Mindfulness in età evolutiva, evidenziando un miglioramento in entrambe le scale, specialmente per coloro che in baseline mostravano valori più bassi. I risultati sembrano quindi sottolineare un effetto positivo della pratica di presenza consapevole sui bambini che mostrano difficoltà nelle funzioni esecutive.

Per quanto concerne gli aspetti emotivi, Saltzman e Goldin (Saltzman e Goldin, 2008) hanno seguito il programma MBSR for children con 30 bambini, ottenendo risultati incoraggianti per quanto riguarda l’efficacia della Mindfulness in età evolutiva sui problemi di natura emotiva: hanno infatti riscontrato una minor reattività emotiva, una minore tendenza all’autocritica ed anche una maggiore compassione verso di sé e verso gli altri dopo un training di Mindfulness della durata di otto settimane.

Questa breve disamina degli studi permette di capire come la Mindfulness in età evolutiva possa rappresentare uno strumento di grande utilità per affrontare le problematiche riscontrabili, sia di ordine cognitivo che emotivo (anche alla luce della compresenza dei due aspetti, che spesso si trovano associati nelle più variegate forme di disagio).

Di particolare interesse, per gli scopi di questo contributo, sono gli studi condotti su campioni di adolescenti con ADHD (Attention Deficit Hyperactivity Disorder) e sui loro genitori, che hanno evidenziato la possibilità di condurre un tale tipo di intervento nel contesto scolastico.

 

Mindfulness in età evolutiva e competenze attentive: un’applicazione con bambini con adhd

L’ADHD (acronimo di Attention Deficit Hyperactivity Disorder), anche conosciuto come Disturbo da Deficit di Attenzione e Iperattività (DDAI), è un disturbo neurobiologico dello sviluppo neuropsichico del bambino o dell’adolescente. Esso è caratterizzato da gravi difficoltà di attenzione, di concentrazione, di impulsività e di iperattività, inadeguati rispetto all’età.

A livello mondiale si stima che ne sia colpita circa il 5% della popolazione, di età compresa fra i 4 i 17 anni, con una prevalenza nettamente superiore del sesso maschile rispetto a quello femminile (Polanczyk et al., 2007).

Le criticità sopra evidenziate, dovute all’incapacità del bambino di regolare il proprio comportamento, sono soprattutto riscontrabili nella scarsa cura per i dettagli, nella labilità attentiva e nell’inabilità a portare a termine compiti/giochi intrapresi o obiettivi da raggiungere. Sono inoltre evidenziabili difficoltà organizzative e di autocontrollo, incapacità a procrastinare nel tempo la risposta ad uno stimolo interno o alle richieste dell’ambiente, perdita di oggetti di uso quotidiano, irrequietezza e incapacità a stare seduto, difficoltà nell’aspettare il proprio turno (Barkley, 1998). A questi sintomi, spesso, si accompagnano sensazioni interne e soggettive di tensione, pressione e instabilità, che devono essere scaricate.

È necessario precisare che tale corteo sintomatologico non è causato da un deficit cognitivo, non è nemmeno una normale fase di crescita del bambino, e neppure il risultato di una scorretta disciplina educativa, ma è dovuto ad oggettive difficoltà di autocontrollo e di pianificazione, presenti in tutte le situazioni di vita del bambino, che causano anche un’evidente compromissione delle attività quotidiane.

Tali incapacità sono spesso la causa dell’insuccesso scolastico, o di minor resa scolastica, e di un minor utilizzo delle proprie abilità cognitive ed hanno, per il bambino, gravi conseguenze nel breve e lungo termine. L’ADHD, pur avendo una natura organica, non può essere trattata con un solo intervento di tipo farmacologico: pertanto, per bambini con ADHD, si è soliti indicare un trattamento multimodale che unisce vari interventi indirizzati alle diverse aree compromesse. Ad oggi, ci sono due trattamenti evidence-based per bambini con ADHD: quello farmacologico (principalmente stimolante) e quello comportamentale (Van der Oord et al., 2008).

La terapia farmacologica, agisce unicamente sui sintomi primari del disturbo (impulsività, inattenzione e iperattività) e solitamente risulta inefficace nel migliorare l’autostima e le competenze sociali-relazionali, inoltre il farmaco funziona solo nel breve termine, e i bambini mostrano spesso effetti collaterali (Schachter et al., 2001).
Invece, i trattamenti cognitivo-comportamentali sono focalizzati sulla formazione comportamentale dei genitori e sull’insegnamento di competenze per affrontare e gestire i sintomi dell’ADHD e dei suoi problemi associati. Tuttavia questi interventi hanno anch’essi limitati effetti a lungo termine e sono scarsamente generalizzabili ad altri compiti (Chambles e Ollendick, 2001; Pelham e Fabiano, 2008).

Ulteriore critica, spesso avanzata dai genitori, è che tali strategie richiedano loro di imporre un controllo sul bambino, che risulta direttivo e spesso non compreso dal bambino stesso. La diretta conseguenza di tale metodologia è che non vengano imparate in prima persona dal soggetto con ADHD strategie di autocontrollo e che non si crei un’interazione positiva fra figlio e genitore (Nirbhai, 2009).

Riguardo i familiari, è necessario inoltre evidenziare che l’ADHD è altamente ereditabile, e una diagnosi di ADHD nei genitori è un predittore di fallimento a questo tipo di formazione genitoriale (Sonuga-Barke et al., 2002; Van den Hoofdakker et al., 2010).

E’ risultato pertanto necessario individuare e implementare un intervento che agisca in modo più efficace, duraturo e generalizzabile sulle problematicità attentive sopra citate, motivo per cui le recenti ricerche nel panorama internazionale si sono mosse ad indagare gli effetti della pratica Mindfulness in età evolutiva sull’ADHD.

L’attenzione ricopre un ruolo centrale nella meditazione Mindfulness, quali l’auto-regolazione dell’attenzione nell’esperienza immediata e un atteggiamento di accettazione degli eventi.

Bishop e colleghi (2004) hanno proposto una concettualizzazione, divisa in quattro moduli, in cui la regolazione attenzionale sarebbe coinvolta nella pratica della Mindfulness: regolazione dell’attenzione sostenuta, per mantenere la consapevolezza dell’esperienza nel momento presente; switching attenzionale, per permettere il ritorno dell’attenzione al momento presente dopo una distrazione; inibizione del processo elaborativo, per evitare di ruminare o rimuginare su pensieri o sentimenti che sono al di fuori del momento presente; attenzione non direzionata, per migliorare la consapevolezza dell’esperienza presente, non influenzata da ipotesi o aspettative.

Si è perciò ipotizzato che, tale tecnica, possa produrre dei benefici nel trattamento della sintomatologia ADHD con dei miglioramenti funzionali e strutturali a carico del sistema attentivo, in particolare rispetto ai meccanismi di autoregolazione e di inibizione della risposta automatica.

La ricerca condotta da Van der Oord, Bögels e Peijnenburg, nel 2012, si è mossa proprio in questo senso. Per lo studio sono stati coinvolti 22 bambini con ADHD (diagnosi effettuata secondo i criteri del DSM-IV) di età fra gli 8 e i 12 anni che, insieme ai propri genitori, sono stati sottoposti ad un percorso Mindfulness in età evolutiva di 8 settimane. In particolare il training proposto consisteva in 8 sedute settimanali, della durata di 90 minuti l’una, condotte in piccolo gruppo, composto da 4-6 bambini e genitori. Venivano inoltre forniti dei compiti a casa, così da poter consolidare la pratica attraverso un esercizio costante. Durante il trattamento di Mindful Child Training (MC) rivolto ai bambini, i loro genitori ricevevano parallelamente una formazione di Mindful Parenting (MP).

Entrambi i cicli di formazione si basano sulla Mindfulness-Based Cognitive Therapy (MBCT, Segal et al., 2002) e sul Mindfulness-Based Stress Reduction Training (MBSR, Kabat-Zinn, 1990), adattati per l’uso con bambini e genitori.

Durante le sessioni di Mindful Child Training (MC), altamente strutturate (Van der Oord et al., 2009), grazie ad esercizi di consapevolezza corporea, di sensibilizzazione sensoriale, di respirazione, yoga e meditazione, il comportamento ADHD è stato ridotto: i bambini hanno imparato a concentrarsi per migliorare la loro attenzione, la consapevolezza, l’autocontrollo e l’inibizione delle risposte automatiche. Inoltre, essi hanno anche imparato ad applicare la consapevolezza in situazioni difficili, come l’essere distratto a scuola.

Per il Mindful Parenting (MP), è stato utilizzato il manuale di Bögels et al. (2008) e Bögels et al. (2010), lievemente modificato per soddisfare le esigenze dei genitori di bambini con ADHD. Grazie a questo training i genitori hanno imparato a essere completamente presenti, in maniera non giudicante, nel qui e ora con il figlio; ad accogliere e rispondere, piuttosto che reagire negativamente di fronte ai suoi comportamenti inadeguati; ad accettare le sue problematicità; e infine a prendersi cura di se stessi. Poter affrontare e superare lo stress, per i genitori, è un traguardo importante perché, a casa, è loro compito incoraggiare i figli a fare meditazione, sia singolarmente sia insieme.

Per poter valutare l’effettiva efficacia del training, alle famiglie è stato chiesto di compilare i seguenti strumenti testistici in fase di pre-trattamento, post-trattamento e in follow up a distanza di 8 settimane: Disruptive Behavior Disorder Rating Scale (DBDRS) per i sintomi del disturbo dirompente del comportamento, The ADHD Rating Scale (ARS) per i sintomi dell’ADHD, The Parenting Scale (PS) per lo stile genitoriale, Parenting Stress Index (PSI) per il grado di stress genitoriale, Mindfulness Attention and Awareness Scale (MAAS) per il livello di attenzione consapevole genitoriale.

I risultati di questo studio hanno provato che i sintomi dell’ADHD nei bambini si sono notevolmente ridotti dopo il training di Mindfulness in età evolutiva. I genitori hanno in particolar modo notato una maggior regolazione dell’attenzione e dei processi cognitivi coinvolti, poiché si sono notevolmente ridotti momenti di disattenzione e moderatamente ridotti momenti di iperattività e impulsività.

E’ interessante notare che i genitori hanno inoltre evidenziato una riduzione del proprio livello di stress e disattenzione, in favore di una maggior autoregolazione e consapevolezza dei vissuti propri e del figlio. I risultati sopradescritti, sia per i bambini sia per i genitori, sono stati mantenuti anche al follow-up di 8 settimane.

Visti i risultati più che soddisfacenti, molte famiglie hanno chiesto un’ulteriore formazione Mindfulness dopo l’incontro di follow-up. Infatti, il sostegno alle famiglie di bambini con ADHD, per continuare ad approfondire la Mindfulness nel corso degli anni, sembra essere una buona pratica clinica, in particolare durante il periodo di sviluppo dei bambini, quando cambiano rapidamente e si confrontano con sfide nuove e diverse, per le quali la pratica della Mindfulness può essere utile. (Van der Oord et al., 2008).

 

Mindfulness training per i genitori di bambini con ADHD

Abbiamo fin qui affermato che il Disturbo da Deficit di Attenzione e Iperattività è un disturbo di tipo neurobiologico caratterizzato da disattenzione, iperattività ed impulsività che interferiscono con lo sviluppo sociale e personale del bambino, caratteristiche che spesso sono rinforzate dall’ambiente e dal contesto psicosociale in cui il bambino è inserito (Pezzica and Bigozzi, 2015). Per questo motivo la costruzione di contesti supportivi e contenitivi risulta essere di primaria importanza, e non una componente secondaria, quando ci si trova in presenza di bambini con ADHD (Pennington, 2006).

E’ quindi condivisa l’ipotesi secondo la quale genitori e care-giver hanno il compito di aiutare e supportare i propri figli, in particolar modo affiancandoli nel percorso terapeutico che hanno intrapreso, svolgendo un ruolo cruciale nel mantenimento dei risultati ottenuti. Un compito non facile se si pensa che i bambini con ADHD sono spesso disobbedienti, impulsivi e non ascoltano le norme genitoriali, mostrando, a volte, un comportamento oppositivo e aggressivo nei confronti dei genitori stessi (Johnson and Jassy, 2007). Di contro, i genitori sviluppano un atteggiamento over-reactivity, caratterizzato da minor pazienza, maggior attenzione ai comportamenti disfunzionali e tendenza ad agire impulsivamente (Miller-Lewis et al., 2006)

Sulla scorta di quanto detto, diversi studi si sono focalizzati sull’importanza di migliorare e rendere maggiormente efficaci le interazioni genitore-figlio nello sviluppo del bambino ADHD, ricorrendo a diversi metodi per far fronte e ridurre il comportamento problematico e disfunzionale di entrambi e creando uno stile genitoriale positivo.

In particolar modo, negli ultimi anni ha trovato ampio spazio il trattamento comportamentale, definito Parent Training (PT), che riguarda la modifica dei comportamenti e degli atteggiamenti dei genitori verso i bambini stessi attraverso suggerimenti educativi di tipo comportamentale. Ma la letteratura sottolinea come l’ADHD sia altamente ereditabile (Dumas, 2005; Thapar et al., 2007) e, quindi, i genitori di bambini con ADHD possono anche visualizzare i sintomi stessi dell’ ADHD rendendo questa componente un fattore predittivo di non risposta a questa formazione comportamentale (Sonuga-Barke et al., 2002;. Van den Hoofdakker et al., 2010). Inoltre, i genitori spesso riferiscono come queste strategie di gestione richiedono di imporre un controllo esterno sui bambini, impedendo agli stessi di imparare strategie di auto-controllo ed inficiando negativamente nella relazione genitore-figlio.

Dato lo scarso successo del Parent Training tradizionale, ci si è sempre più spostati su un trattamento non solo comportamentale ma anche cognitivo. Il Parent Training Cognitivo-Comportamentale (PTCC) si focalizza sugli aspetti cognitivi ed emotivi dei genitori dei bambini con ADHD, lavorando sulle rappresentazioni mentali dei genitori; il primo protocollo italiano è di Vio e collaboratori (Vio et al., 1999; Vio et al., 2013). Nelle sessioni di PTCC vengono fornite informazioni sul disturbo, riorganizzate le rappresentazioni mentali del figlio con ADHD e sviluppate le strategie e le competenze di gestione dei problemi.

In questa prospettiva, sono stati riscontrati diversi risultati positivi, in particolare nel modificare la percezione dei genitori sui sintomi dell’ADHD e nel miglioramento del senso di soddisfazione e percezione positiva del sé genitoriale. I limiti di questo trattamento riguardano la mancanza di effetti a lungo termine e la difficoltà nella generalizzazione delle abilità apprese al di fuori del setting terapeutico, risultato che si evince soprattutto durante i follow-up tenuti a distanza di alcuni mesi (Pelham and Fabiano, 2008; Pezzica e Bigozzi, 2015).

Un intervento che, pur partendo dalla stessa base teorica del PTCC, introduce contenuti finalizzati alla promozione delle abilità di sintonizzazione emotiva e mentalizzazione del genitore è il Parent Training Cognitivo-Comportamentale-Mentalizzante (PTCC-M).

In quest’ottica, una chiave fondamentale per ottenere degli effetti è rappresentata dall’induzione nel genitore di mentalizzazioni metacognitive riguardanti se stesso e gli altri (l’altro genitore e il bambino). Il genitore è guidato a non considerare solo i comportamenti, ma anche i pensieri e gli affetti che li accompagnano. In base ai dati raccolti, il PTCC-M risulta avere un effetto specifico nel migliorare il senso di competenza genitoriale, il sostegno del partner e la sintonizzazione con il figlio nel rapporto con i genitori (Pezzica e Bigozzi, 2015). L’intervento presenta le stesse difficoltà del PTCC nel mantenere effetti a lungo termine nel comportamento e negli atteggiamenti dei genitori e, non essendo un intervento direttamente operato sul bambino, si evidenziano tempi lunghi negli effetti prodotti sui suoi comportamenti disfunzionali (Pezzica e Bigozzi, 2015).

Nonostante non si sia arrivati a definire un Parent Training ottimale, è importante notare come si stia andando incontro ad un trattamento sempre più efficacie, migliorando il punto di vista dei genitori e le proprie competenze, influenzando, così, il comportamento del bambino con ADHD. Per questo, si è spesso ritenuto necessario studiare gli effetti di altri trattamenti, accanto a quelli tradizionali, con particolare attenzione alle problematiche di fondo dell’ADHD.

In questo senso si stanno muovendo gli studi sull’utilizzo della Mindfulness come training per i genitori di bambini ADHD, ovvero il Mindful Parenting (MP), dimostrando come questa tecnica può migliorare le interazioni positive bambino-genitore e può incrementare il livello di soddisfazione circa la propria genitorialità nonché il miglioramento del clima nell’ambiente famigliare e, più in generale, del contesto psicosociale del bambino.

Abbiamo definito la Mindfulness come un intervento sulla base di tecniche di meditazione orientali, che aiuta ad aumentare la consapevolezza del momento presente, migliora l’osservazione non giudicante, e riduce le risposte automatiche (Kabat-Zinn, 2003), ed è in questa definizione che si trova la motivazione del suo utilizzo nelle famiglie di bambini con ADHD.

Attraverso la Mindfulness si impara ad essere genitori consapevoli, una forma di allenamento alla consapevolezza così definito:

capacità di prestare attenzione al tuo bambino e alla tua competenza genitoriale in modo particolare: intenzionalmente, qui ed ora, e non in maniera giudicante

(Kabat-Zinn, 2003).

 

Nel Mindfulness Training per i genitori essi imparano a rivolgere la loro attenzione ai figli in maniera non giudicante, cercando di aumentare la consapevolezza del momento presente con il loro bambino, e ridurre le reazioni automatiche (negative) nei confronti del bambino stesso (Bögels et al., 2008; Bögels et al., 2010). Inoltre, facendo pratica di meditazione quotidiana, i genitori imparano a prendersi cura di se stessi e a riportare la calma nella loro famiglia, abbassando i livelli di stress ai quali si sentono costantemente sottoposti. Anche Singh e collaboratori (2010) hanno studiato gli effetti del Mindful Parenting, trovando risultati che dimostrano l’efficacia della Mindfulness in età evolutiva per i bambini con ADHD ed i loro genitori.

Van der Oord e colleghi (2012) hanno condotto uno studio pilota indagando l’efficacia di un corso di formazione sulla Mindfulness per bambini con ADHD e i loro genitori, confermando l’efficacia della Mindfulness in età evolutiva e, soprattutto, l’importanza di un intervento congiunto che riguardi sia i bambini che i genitori perché, come sottolineato anche da Singh e colleghi (2010), è indispensabile che i bambini siano adeguatamente preparati essi stessi ma che abbiano anche un supporto dall’ambiente nel quale crescono e dalle figure genitoriali.

Va sottolineato come questo intervento abbia una rilevanza positiva su altri due fattori dei quali abbiamo parlato: la familiarità dell’ADHD e lo stress che si viene a creare nei genitori stessi.

Come visto nel paragrafo precedente, l’applicazione della Mindfulness in età evolutiva su soggetti con ADHD ha ottenuto risultati positivi nel migliorare le capacità attentive e a contenere l’impulsività del comportamento; avendo una componente ereditaria, anche i genitori dei bambini con ADHD possono presentare alcuni sintomi dei figli. Questo ci porta alla conclusione che la Mindfulness facilita anche nei genitori stessi la gestione di questi tratti considerati disfunzionali (Singh et al., 2010; Dumas, 2005).

Ultima importante componente sulla quale agisce la Mindfulness in età evolutiva riguarda lo stress. Come sappiamo, i bambini con ADHD presentano un comportamento impulsivo, disattento e iperattivo, tutte caratteristiche con i quali i genitori hanno a che fare ogni giorno. A causa delle difficoltà nel relazionarsi con questi fattori spesso i genitori si trovano ad essere meno pazienti e maggiormente irritabili, con la conseguenza di mettere in crisi le proprie idee e l’immagine di sé come genitore competente; l’unione di questi fattori porta all’aumento dello stress, diventando più rifiutanti peggiorano le risposte negative nei confronti dei figli. Per non ritrovarsi in un circolo senza uscita, è importante che i genitori imparino ad abbassare i livelli stressogeni che si sono creati, attraverso l’utilizzo della Mindfulness: i genitori imparano a prestare la giusta attenzione al figlio in maniera non giudicante, a vivere il qui ed ora della situazione e ad evitare la messa in atto di risposte automatiche (negative), con il conseguente miglioramento della gestione della relazione genitore-figlio, una migliore visione del sé genitoriale e un abbassamento dello stress (Bögels et al., 2010; Singh et al., 2010).

Concludendo, si può vedere come nei vari studi, gli obbiettivi che sono stati promossi a favore dei genitori si possono riassumere in cinque punti principali:

  • Aiutare i genitori ad imparare ad essere presenti nel qui ed ora, in modo non giudicante e pienamente consapevoli del proprio bambino;
  • Prendersi cura di se stessi;
  • Fornire informazioni sul disturbo;
  • Accettare le difficoltà del proprio bambino e riorganizzare la sua raffigurazione mentale;
  • Rispondere in maniera consapevole ai comportamenti disfunzionali del figlio e non in maniera impulsiva (che abbiamo definito come over-reactivity).

Gli studi sull’ADHD in accompagnamento agli studi sui disturbi psicopatologici dell’età evolutiva (disturbi d’ansia, disturbi della condotta, disturbi del tono dell’umore, disturbi del comportamento alimentare) segnalano la mindfulness in età evolutiva come pratica terapeutica promettente (Fabbro e Muratori, 2012). Nelle ricerche future sarà auspicabile porsi come obbiettivo principale la descrizione dell’utilità e dell’efficacia della Mindfulness nei differenti disturbi neuropsichiatrici dello sviluppo.

Alcune madri non nascono mai: i vissuti di chi sceglie di non diventare madre

Nicoletta Nesler e Marilisa Piga lavorano da anni su questo tema, intervistando e raccogliendo testimonianze di non-madri per scelta; hanno realizzato un interessante documentario dal titolo “Lunàdigas”, dal nome che i pastori sardi danno alle pecore temporaneamente sterili. I vissuti che emergono sono quelli prevedibili della sofferenza e dell’incertezza, ma anche della consapevolezza e dell’autodeterminazione, così come di una scelta serena condivisa con il partner.

Per alcune donne, avere figli è un bisogno, una necessità radicale, per seguire un’aspirazione personale o per aderire a un modello sociale. Per altre l’istinto materno è un oggetto smarrito o mai rinvenuto nel proprio bagaglio privato e familiare. Fra questi due estremi si colloca la grande maggioranza delle donne che non ha avuto bambini senza che questo fosse risultato di una scelta o di una non-scelta. Nella linea del tempo, un desiderio vago può essere stato coltivato per un periodo della vita e poi essere svanito, l’incertezza è diventata cronica o il progetto, chiaro e ben definito, è stato rimandato di anno in anno fino a divenire obsoleto.
Insomma, il momento non è mai stato propizio.

Sono escluse da questa riflessione le donne che vorrebbero avere un figlio ma non possono, per cause di natura organica e psicogena. Per loro, per ognuna di loro, il dolore vissuto merita un racconto a parte.

Nicoletta Nesler e Marilisa Piga lavorano da anni su questo tema, intervistando e raccogliendo testimonianze di non-madri per scelta; hanno realizzato un interessante documentario dal titolo “Lunàdigas”, dal nome che i pastori sardi danno alle pecore temporaneamente sterili. I vissuti che emergono sono quelli prevedibili della sofferenza e dell’incertezza, ma anche della consapevolezza e dell’autodeterminazione, così come di una scelta serena condivisa con il partner.

Nei paesi con la cultura familiare come il nostro, dove domina la formazione cattolica, scegliere di non procreare mette in discussione modelli che si tramandano da secoli. La legittimità di tale scelta viene sempre messa in discussione, in maniera esplicita ma ancor di più implicita.
Ad esempio come l’intervistatrice che chiese a Simone de Beauvoir:
Signora, è possibile che voi scriviate dei libri perchè non avete dei figli?” e che si sentì rispondere: “Signora, è possibile che voi facciate dei figli perchè non scrivete dei libri?”.
In quegli anni il femminismo imperante legittimava progetti e scelte di vita prima impensabili da realizzare; oggi più che la cultura, è il mercato del lavoro a farla da padrone e a decidere per chi la maternità è un diritto e per chi invece un lusso inaccessibile.

Eppure al sospetto non si sfugge: anche quando le condizioni economiche non consentono di raggiungere questa meta, rimane una sottintesa colpevolizzazione a condannare la donna, più dell’uomo. Se prendiamo ad esempio l’espressione anglofona “childfree”, essa veicola l’immagine di donne disinteressate, quasi egoiste: come se l’egoismo, l’altruismo e la generosità possano misurarsi in base al fatto di avere o non avere figli.

Anche se le statistiche dedicate al fenomeno ancora tabù sono evidentemente rare, nei paesi occidentali la percentuale è in costante aumento. Fino a pochi anni fa una donna senza figli, per scelta o meno, non faceva parte della maggioranza: oggi una donna su cinque in Italia non ha figli ma in alcune zone del Nord, soprattutto tra le laureate, la percentuale si alza e si arriva ad una donna su due. Se il fenomeno è poco studiato in termini sociodemografici, è del tutto sottovalutato in ambito psicologico, come conferma la psicoterapeuta Elena Rosci nelle pubblicazioni sulla maternità ambivalente. Il suo contributo più interessante è il resoconto clinico su alcune donne alle quali l’idea della maternità crea uno stato di angoscia anzichè di trepidante attesa. Il suo invito è quello di accettare e di governare il cambiamento con fiducia, come fanno queste donne che cercano una risposta individuale ad un problema che è, evidentemente, di portata epocale.

Ultimo punto imprescindibile da trattare rimane il rapporto con la propria madre: se ci pensiamo bene, non si sceglie la propria madre ma si può scegliere di non diventare madre. In questo caso, il circolo generativo s’interrompe, con l’intento di non replicare gli errori subiti o nel dubbio di non saper imitare la perfezione idealizzata per tutta una vita. È dunque evidente che la personalità della madre influenza i sentimenti della figlia rispetto alla maternità.

Se penso alle mie pazienti, la propria identità è fortemente contraddistinta dall’essere madri o dal non esserlo: si è donne, lavoratrici, studentesse, mogli, amanti ma ci si riconosce soprattutto nel ruolo di madri, quando lo si è, o di figlie, quando madri non lo si è più, non lo si è ancora o non lo si sarà mai. Quando la donna desidera o non desidera un figlio, diventa madre o non lo diventa, la relazione con la madre e il modo in cui l’ha interiorizzata è una componente di base attiva e che bisogna riconoscere.

Concludo ricordando Alda Merini, che dedicò una poesia ad un figlio solo pensato e mai conosciuto.

[blockquote style=”1″]Alcuni figli non nascono mai, a volte neppure alcune madri.[/blockquote]

Trattamenti evidence-based per i disturbi dell’alimentazione: dove formarsi

Una potenziale strategia per superare l’ostacolo della disseminazione su scala globale è rappresentata dal cosiddetto web-centred training, che permette di formare un grande numero di terapeuti simultaneamente. Questa innovativa modalità di formazione è in fase di valutazione presso il centro CREDO dell’Università di Oxford. Il training in lingua inglese è gratuito e viene effettuato tramite un sito web che descrive e illustra la CBT-E in dettaglio e incorpora alcune attività didattiche che aiutano gli allievi ad apprendere le procedure principali del trattamento e le abilità necessarie per somministrarlo.

Un trattamento è definito evidence-based se, dopo ricerche di alta qualità su campioni di popolazione e attente valutazioni scientifiche, dimostra di avere i migliori risultati disponibili della ricerca, tanto da rappresentare una guida nel processo decisionale clinico, nelle fasi diagnostiche o di gestione del paziente.
Per quanto riguarda i disturbi dell’alimentazione, negli ultimi anni sono stati sviluppati e valutati alcuni trattamenti la cui efficacia è stata confermata da rigorosi studi controllati e randomizzati. I trattamenti più efficaci sono di natura psicologica e sono stati progettati principalmente per essere somministrati a livello ambulatoriale.

Negli adulti affetti da bulimia nervosa, la terapia cognitivo-comportamentale migliorata (CBT-E) ha dimostrato in due studi controllati, recentemente pubblicati, di essere più efficace della terapia interpersonale (IPT) e della psicoterapia psicoanalitica.
Il disturbo da binge-eating sembra rispondere bene a una varietà di interventi psicologici, tra cui un adattamento della CBT per la bulimia nervosa, la IPT e l’auto-aiuto guidato.

Pochi studi sono disponibili per il trattamento degli adulti con anoressia nervosa e i trattamenti che hanno un certo grado di supporto empirico sono la CBT-E, la psicoterapia psicodinamica focale, il Maudsley Model of Treatment for Adults with Anorexia Nervosa (MANTRA) e lo Specialist Supportive Clinical Management (SSCM), una combinazione di intervento educativo, gestione clinica generale e psicoterapia supportiva.
Nei pazienti più giovani la ricerca si è focalizzata soprattutto sull’anoressia nervosa. Il solo intervento disponibile con moderata evidenza di efficacia è il trattamento basato sulla famiglia (FBT), conosciuto anche come il “Metodo Maudsley”, che determina una remissione piena attorno al 50% dei casi.

La CBT-E, ha recentemente ottenuto risultati promettenti nel trattamento degli adolescenti affetti da anoressia nervosa e appare un candidato alternativo alla FBT, come recentemente raccomandato dal Chief Medical Officer Inglese. Infine la CBT-E ha dimostrato buoni risultati anche nel trattamento degli adolescenti con disturbi dell’alimentazione non sottopeso, come la bulimia nervosa o il disturbo da binge-eating, con un tasso di risposta oltre il 67%.

Sebbene siano fruibili vari trattamenti psicologici evidence-based per i disturbi dell’alimentazione, i corsi master e di perfezionamento, come pure le scuole di psicoterapia, raramente forniscono una formazione specialistica su queste forme di terapia. Come conseguenze negative, in Italia i clinici trovano poche opportunità per apprendere questi trattamenti psicologici e la maggior parte dei pazienti affetti da disturbi dell’alimentazione riceve interventi non basati sull’evidenza.

Per far fronte a questo problema è stato progettato e implementato in Italia un master (il First Certificate of Professional Training in Eating Disorders and Obesity) che fornisce una formazione specifica e intensiva sulla CBT-E, e sono stati recentemente organizzati seminari di più giorni sulla CBT-E e sulla FBT. Purtroppo, sebbene questi training siano molto apprezzati e frequentati, non sono sufficienti. Da una parte, il master non risolve completamente il problema della disseminazione globale di questi trattamenti, perché può essere offerto ogni anno solo a un numero limitato di terapeuti, dall’altra i seminari di uno o più giorni possono solo introdurre il trattamento psicologico evidence-based, ma non sono in grado di sviluppare nei partecipanti le abilità necessarie per applicarlo in modo efficace.

Una potenziale strategia per superare l’ostacolo della disseminazione su scala globale è rappresentata dal cosiddetto web-centred training, che permette di formare un grande numero di terapeuti simultaneamente. Questa innovativa modalità di formazione è in fase di valutazione presso il centro CREDO dell’Università di Oxford. Il training in lingua inglese è gratuito e viene effettuato tramite un sito web che descrive e illustra la CBT-E in dettaglio e incorpora alcune attività didattiche che aiutano gli allievi ad apprendere le procedure principali del trattamento e le abilità necessarie per somministrarlo. Il centro CREDO ha anche sviluppato una misura standardizzata per valutare la competenza del terapeuta nell’uso della CBT-E. Il vantaggio principale del web-centred training consiste nella sua scalabilità, ovvero nella possibilità di formare un numero indefinito di terapeuti in tutto il mondo a basso costo, fornendo le conoscenze e competenze necessarie per implementare adeguatamente il trattamento. Lo svantaggio, è la mancanza del contatto diretto tra docente e allievo che può limitare lo sviluppo dell’entusiasmo e della curiosità nei discenti e far dipendere il processo di apprendimento interamente dal livello di motivazione del singolo allievo.

Negli ultimi anni molti sono stati i passi avanti nella disseminazione dei trattamenti basati sull’evidenza scientifica, ma tanti ne devono essere ancora fatti. Dare ad ogni paziente la possibilità di ricevere il miglior trattamento possibile rimane, ad oggi, una delle più grandi sfide che i ricercatori clinici si trovano ad affrontare.

Come venivano trattati i bambini nelle culture precedenti? La ricerca in ambito forense può fornirci la risposta!

Alcuni esperti di medicina legale della North Carolina State University, hanno recentemente pubblicato una guida su come la ricerca dell’analisi forense su bambini vittime di abusi può essere utilizzata per far luce su come questi venivano trattati nelle culture precedenti.

Tra i diversi lavori svolti dagli antropologi-biologi, c’è anche quello di osservare i resti scheletrici di culture passate, al fine di conoscere come vivevano le precedenti popolazioni. Gli antropologi forensi, invece, lavorano con le moderne Forze dell’Ordine per decifrare le prove scheletriche presenti, con lo scopo di risolvere crimini. Grazie a queste figure, numerosi abusi sui minori (fisici, emotivi, sessuali e di abbandono) sono stati documentati nel corso della storia. Tuttavia, prima della metà del Novecento, le lesioni inflitte ai bambini sono state spesso, se non quasi sempre trascurate, probabilmente perché in passato i bambini venivano spesso visti come una proprietà.

A partire da queste premesse, alcuni esperti di medicina legale della North Carolina State University, hanno recentemente pubblicato una guida su come la ricerca dell’analisi forense su bambini vittime di abusi può essere utilizzata per far luce su come questi venivano trattati nelle culture precedenti.

[blockquote style=”1″]Purtroppo, abbiamo un sacco di esperienza nello studio dei resti scheletrici di bambini in indagini penali per determinare come sono stati trattati e come sono morti[/blockquote] dice Ann Ross, professore di antropologia alla NC State. [blockquote style=”1″]Attualmente utilizziamo le informazioni che abbiamo ottenuto dalle popolazioni moderne, così da poter approfondire il comportamento delle popolazioni storiche e preistoriche, in particolare in materia di lavoro minorile, di pedofilia e di omicidio del bambino.[/blockquote]

Come prima cosa è importante tenere a mente che i bambini non sono solo piccoli adulti, infatti lo scheletro di un bambino è molto diverso da quello di un adulto. Infatti nel loro documento, i ricercatori attingono a decenni di ricerca per spiegare come la biomeccanica e la guarigione degli scheletri dei bambini cambiano a seconda dell’età del bambino.
All’interno del loro documento, i ricercatori hanno posto particolare attenzione al modo in cui gli antropologi distinguono le lesioni accidentali da quelle intenzionali sui bambini. Questo perché, come afferma Ross [blockquote style=”1″]Alcune combinazioni di lesioni sono altamente indicative di abuso, come ad esempio fratture costali multiple a diversi stadi di guarigione.[/blockquote]

Ross e collaboratori, sottolineano infine quanto sia difficile interpretare le prove scheletriche, in quanto spesso può capitare che un abuso apparentemente fisico possa rivelarsi un caso di abbandono di minori. Come afferma Ross [blockquote style=”1″]Questo tipo di negligenza, o assenza di cura, è comunque un abuso, ma per noi è importante, in un contesto penale, capire cosa è successo. È indispensabile capire queste differenze, se vogliamo conoscere meglio il comportamento delle società e delle culture precedenti.[/blockquote]

Pertanto l’obiettivo finale è quello di fornire una serie di metodi clinici ad antropologi biologi e forensi così da poterli aiutare a interpretare i resti scheletrici basandosi sui migliori dati scientifici.

Prevenire o promuovere? E le conseguenze per gli scopi esistenziali

Gli individui con un atteggiamento promozionale tendono alla crescita, allo sviluppo, all’accrescimento. All’esatto opposto sono quelli motivati da un atteggiamento di prevenzione che badano soprattutto alla protezione, alla sicurezza e a ripararsi piuttosto che esporsi.

CIOTTOLI DI PSICOPATOLOGIA GENERALE (RUBRICA) – LEGGI L’INTRODUZIONE

Ritengo tale meccanismo talmente centrale nella patogenesi dei disturbi mentali e la sua risoluzione così centrale in ogni terapia che già vi avevo dedicato una delle ‘Tribolazioni‘ ovvero ‘Inseguire o fuggire‘ ma nel frattempo, grazie a molti stimoli diversi, letture, discussioni, apparizioni soprannaturali mi si è chiarito ancora di più.

Si tratta di due atteggiamenti, propensioni, attitudini (trovate il termine che vi aggrada di più, per me ci siamo capiti) che caratterizzano gli esseri umani e in particolare le loro motivazioni.

 

Atteggiamento promozionale

Gli individui con un atteggiamento promozionale tendono alla crescita, allo sviluppo, all’accrescimento (a Roma si direbbe che si allargano o che sono ingordi di vita, esperienze, emozioni e sembra non bastargli mai, e non andate a parlargli di decrescita felice). La loro percezione è orientata a cogliere le novità ed a leggerle come opportunità. Sono attenti soprattutto alle possibilità di guadagno. In caso di successo l’emozione è la gioia e l’euforia, mentre in caso di fallimento tristezza e sconforto. Queste sono anche le emozioni che contano per loro, a cui badano, e diventano a loro volta motivazioni in sé. Sono naturalmente portati all’esplorazione, ad allargare il campo e predisposti all’azzardo accettano di correre rischi pur di perseguire vantaggi.

Temono soprattutto errori di omissione (non aver fatto) e vogliono a tutti i costi evitare i rimpianti anche a costo di avere poi qualche rimorso che trovano più tollerabile. E’ evidente che sono questi gli individui che guidano il progresso dell’umanità (sono esploratori, ricercatori, innovatori in ogni campo) che fanno da apripista, talvolta a costo della vita e dunque il vantaggio evolutivo di un tale atteggiamento è lampante.

Poiché però tale vantaggio è soprattutto per la comunità mentre gli eventuali costi (la pellaccia appunto) sono individuali verrebbe da dire che sono fondamentalmente altruisti, ma non lo farò. Intanto perché ciò non è affatto rappresentato nella loro mente. Poi perché qualsiasi aspetto valutativo, peggio ancora se di sapore morale, esula da questo tentativo che semplicemente descrive, con fallite ambizioni esplicative, modi diversi di funzionare. Sono motivati da obiettivi e ideali a lungo termine, che a volte li trascendono e che vivono come guadagni da perseguire e come un valore lo stesso perseguimento. Mi sembra invece di poter affermare, rimanendo nel mio, due cose.

Questa modalità di funzionamento che, come praticamente tutto, si struttura sia per una predisposizione genetica temperamentale (Cloninger non li chiamava ‘novelty seeking’?) che impatta con un ambiente infantile che può rinforzarla o meno, organizza l’esistenza intorno a degli scopi, ovvero stati del mondo e/o di sé desiderati e dunque da perseguire. Credo infine che siano i soggetti con atteggiamento promozionale ad essere più esposti alle oscillazioni dell’umore in senso euforia/tristezza caratteristica dei disturbi dell’umore (questo potrebbe essere un aspetto da approfondire).

 

Atteggiamento di prevenzione

All’esatto opposto sono quelli motivati da un atteggiamento di prevenzione che badano soprattutto alla protezione, alla sicurezza e a ripararsi piuttosto che esporsi.

A livello percettivo scannerizzano la realtà alla ricerca di possibili pericoli e minacce. Sono concentrati sulle perdite piuttosto che sui possibili guadagni. Se hanno successo sperimentano tranquillità e abbassamento dell’arousal mentre il fallimento reale o previsto scatena emozioni di ansia e di paura. Sono naturalmente dei conservatori ed il vantaggio evolutivo di un simile atteggiamento consiste nella conservazione e valorizzazione dell’esperienza passata da trasmettere alle nuove generazioni e nella prevenzione dai pericoli con aumento della sopravvivenza e della stessa prole. A livello temperamentale appartengono al gruppo che Cloninger chiama ‘harm avoidance’.

Più attenti alle perdite che vedono come una minaccia alla sicurezza raggiunta, temono maggiormente gli errori di commissione che di omissione (nel dubbio meglio lasciare le cose come sono state finora). Piuttosto che da ideali a lungo termine sono guidati da obblighi e doveri a breve termine che sperimentano come pesanti regole di sicurezza.

Sono iperprudenti, restringono il campo e preferiscono di gran lunga l’evitamento all’esplorazione. A mio avviso da questo atteggiamento di prevenzione ha origine il tronco unitario dei disturbi di personalità del vecchio cluster C e tutti i disturbi d’ansia di asse I°.

 

Atteggiamento promozionale e di prevenzione e le corrispondenze sugli assetti emotivi

Voglio far notare come a ciascuno dei due opposti orientamenti motivazionali corrisponda un attitudine percettiva che finisce per essere confirmatoria ed un conseguente assetto emotivo che nella normalità funge anch’esso come motivante interno e auto mantenimento e all’estremo delinea i due grandi scenari dei disturbi dell’umore (promozione) e dei disturbi d’ansia (prevenzione).

Chiarito che non c’è un modo migliore in assoluto di funzionare e semmai la salute sta nel poter transitare da uno all’altro a seconda delle circostanze ambientali e delle fasi esistenziali riprendo un brano dalle mie “tribolazioni” per argomentare come perseguire uno scopo in positivo o fuggire il suo opposto non sia, come potrebbe sembrare all’apparenza, la stessa cosa.

Invece non è uguale perseguire A o fuggire non-A. O meglio, per liberarci dei simboli alfanumerici, che voler essere ricco equivalga a non voler essere povero. In realtà non è affatto così. Ciò per varie ragioni:

  1. Lo scopo di essere ricco può essere perseguito in alcuni momenti e accantonato in altri in cui si ritenga più importante e/o più facile o utile perseguire altri scopi. Al contrario se l’essere povero è vissuto come una tragedia definitiva e senza appello dopo la quale non ci sarebbe null’altro, il fuggire da tale pericolo non può mai essere accantonato. Ha sempre una priorità assoluta e non graduabile. Formulare uno stato temuto piuttosto che uno stato desiderato fa si che esso monopolizzi tutto il sistema e tiranneggi tutti gli altri scopi esistenziali rispetto ai quali diventa una condizione propedeutica senza limiti di spesa di risorse.
  2. Ancora, se lo scopo è quello di essere ricco posso avere degli indicatori di raggiungimento parziale (ad esempio il numero di zeri del conto in banca o il valore degli immobili posseduti) che generano emozioni positive e contemporaneamente riducono l’urgenza di puntare tutto su tale perseguimento liberando risorse per altri impieghi. Al contrario se il timore è quello di diventare poveri come posso mai essere al sicuro? Nessuna ricchezza garantisce dalla possibile improvvisa perdita di tutto per eventi catastrofici. Un buon tracciato elettrocardiografico è un segnale di buona salute in quel momento ma predice molto poco sulla possibilità di morire di lì a pochi minuti per le cause più varie. Dunque uno scopo espresso in negativo con il suo opposto non è mai definitivamente raggiunto e resta sempre attivo a segnalare un possibile pericolo. Non si può mai abbassare la guardia, con i costi che ciò comporta, perché non c’è alcuna garanzia che ciò che non è mai avvenuto non avvenga da un momento all’altro.
  3. Inoltre la graduabilità di uno scopo espresso in negativo è molto più difficile. Si può facilmente stabilire chi sia più ricco tra due o più persone, così come si può stabilire se si è più ricchi di tre anni prima. Ma non è altrettanto facile stabilire tra più persone non chi sia meno povero (in quanto si potrebbero usare gli stessi criteri precedenti), quanto piuttosto (si faccia attenzione alla differenza) chi sia più certamente sicuro di non precipitare in povertà.

 

I pericoli degli scopi esistenziali espressi in negativo

In conclusione, uno scopo espresso in negativo è malamente graduabile, mai raggiunto definitivamente, sempre attivo. Perciò genera ricorrenti valutazioni di precarietà associate ad emozioni di allarme e monopolizza tutte le risorse del sistema trasformando in casi estremi un sistema a scopi terminali multipli e positivi in un sistema guidato da un solo anti-scopo negativo.

Riepilogando:

  • La polarità opposta dello stato desiderato S’ oltreché non desiderata è praticamente sconosciuta
  • Lo scopo S’ è formulato come antiS’
  • AntiS” non è graduabile
  • AntiS” è sempre attivo
  • AntiS” genera un continuo stato di allarme
  • AntiS” diventa precondizione di tutti gli altri scopi.
  • AntiS” diventa l’unico scopo del sistema che si impoverisce.

Il mondo della fuga è totalmente diverso da quello del perseguimento. Nella fuga non si inseguono successi ma si cerca di evitare i fallimenti, i rovesci. Si fantasticano inorridendo tutti i dirupi in cui si può sprofondare ad ogni disattento passo: diventare poveri e non avere di che mangiare, essere deriso e disprezzato da tutti, finire solo e abbandonato. Nel caso si cerchi di evitare i dirupi il cammino non sarà spedito. Non si sa bene dove essi siano. Sono molteplici e nascosti. Il fatto di averli evitati fino a quel momento non da garanzia che il prossimo passo non precipiti giù ponendo fine a tutto. L’incedere è dunque incerto, il senso di minaccia sempre presente.

Da un punto di vista clinico credo che occorra valutare insieme al paziente costi e benefici della sua strategia privilegiata che sia quella promozionale più spesso tipica dei disturbi dell’umore o quella preventiva, pervasiva nei disturbi d’ansia e aiutarlo ad appropriarsi anche dell’altra modalità in modo che possa scegliere e cambiare senza essere costretto dalla mancanza di alternative.

 

RUBRICA CIOTTOLI DI PSICOPATOLOGIA GENERALE

Gli incontri con il cognitivismo a Mestre (VE) da Febbraio a Maggio

Incontri di introduzione alla psicologia e psicoterapia cognitiva

Offerta formativa: Psicoterapia Cognitiva e Ricerca

Gli incontri sono gratuiti e aperti a tutti gli interessati previa prenotazione e fino ad esaurimento posti

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Programma degli incontri

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Mercoledì 24 Febbraio (19:30-21:00)

Gli effetti del rilassamento nei disturbi cardiaci

Dr.ssa Laura Prosdocimo

Pressione alta, angina pectoris, patologie cardiache diverse, riguardano moltissime persone e le loro cause sono frequentemente riconducibili a fattori di rischio connessi a stili di vita stressanti e poco salutari. Come prevenire queste malattie e/o ridurne le conseguenze negative? La mente rilassata dà delle risposte molto interessanti che vale la pena di prendere in considerazione visto oramai le innumerevoli conferme della ricerca.

 

 

Venerdì 4 Marzo (19:30-21:00)

Mindfulness a tavola

Dr.ssa Alessia Minniti

Molte persone hanno un rapporto alterato con il cibo per svariate ragioni, spesso di carattere psicologico, che può sfociare in eccessive restrizioni oppure perdita di controllo e abbuffate.

Un modo per affrontare queste problematiche è aumentare la consapevolezza del proprio comportamento alimentare.

Durante la serata verranno illustrate le pratiche di mindful eating attraverso le quali si possono sviluppare abilità fondamentali per costruire un rapporto equilibrato con il cibo.

 

 

Mercoledì 16 Marzo (19:30-21:000)

Il sonno: benefici e difficoltà

Dr.ssa Lorena Lanza

Dormire bene è essenziale per garantire il nostro benessere psicofisico; spesso però accade che l’addormentamento, il mantenimento del sonno o il risveglio al mattino diventano faticosi.

Da cosa dipende un sonno disturbato e come possiamo riconquistare un sonno di buona qualità? Discuteremo di come, in alcuni casi specifici, la terapia CBT-I possa rappresentare una valida alternativa all’uso dei farmaci.

 

 

Mercoledì 23 Marzo (19:30-21:00)

Mindfulness per bambini

Dr.ssa Elisa Vezzi,

Dr.ssa Nashira Laura Andreon

La Mindfulness o consapevolezza, insegnata attraverso giochi e pratiche specifiche, aiuta i bambini ad aumentare la calma mentale, concentrarsi, migliorando la capacità di apprendimento. La consapevolezza è una risposta efficace allo stress; i bambini diventano meno reattivi e più capaci di far fronte alle avversità, sviluppano fiducia in se stessi e migliorano il rapporto con gli altri.

 

 

Venerdì 1 Aprile (19:30-21:00)

L’attrazione sessuale: alchimia o sentimento nell’intesa tra uomo e donna ?

Prof.ssa Marta Panzeri

La serata ci accompagnerà in una breve disamina di cosa accade nell’incontro intimo tra i partner e di come sono regolate eccitazione e inibizione sessuali nei due generi.

Attraverso la scoperta della fisiologia dell’amore e del il suo significato biologico-evolutivo si arriverà ad apprezzare il significato profondo del sentimento che unisce le coppie stabili.

 

 

Mercoledì 13 Aprile (19:30-21:00)

Perché non riesco a smettere di mangiare

Dr.ssa Roberta Situlin

Perché talora mangiamo anche se siamo sazi? La golosità è un problema di mancanza di volontà? L’incontro si propone di approfondire i meccanismi che influenzano in vario modo alcuni dei nostri comportamenti alimentari.

 

 

Mercoledì 27 Aprile (19:30-21:00)

Di fronte agli altri, timidezza o fobia?

Dr. Simone Del Negro

Spesso ci definiamo timidi o introversi… A volte anche troppo !

Quando, però, questi aspetti del nostro carattere iniziano a condizionare le nostre abitudini, le relazioni e il nostro stile di vita, allora possono diventare un problema anche serio.

Capirne i motivi, le origini e come affrontarli, può aiutarci a cambiare, con noi stessi e con gli altri.

 

 

Mercoledì 11 Maggio (19:30-21:00)

Come smettere di tormentarsi e iniziare a vivere

Dr.ssa Laura Prosdocimo

Siamo frustrati e delusi della vita? L’ansia e lo stress sono compagni della nostra quotidianità? Vorremmo essere felici ma passa il tempo e sembra sempre più una meta irrealizzabile ? Acceptance and Commitment Therapy è un nuovo approccio terapeutico basato sulla mindfulness, diretto a sviluppare la “flessibilità psicologica” che consente di superare i momenti critici e vivere pienamente.

 

 

Giovedì 26 Maggio (19:30-21:00)

Identikit del giocatore patologico: come funziona e come trattarlo

Dr.ssa Annalisa Da Ros

Il gioco d’azzardo diventa patologico quando si trasforma in dipendenza ed è presente una perdita di controllo. Un vero e proprio disturbo di discontrollo degli impulsi in cui non resisto ad una tensione irrefrenabile e scarico l’impulso, provando piacere.

Vedremo quali caratteristiche di personalità identificano il giocatore patologico e come il trattamento cognitivo-comportamentale rappresenti l’approccio più valido in letteratura.

 

 

Tutti gli incontri si terranno dalle 19:30 alle 21:00 presso il

Centro di Psicologia e Psicoterapia Cognitivo-Comportamentale “Psicoterapia Cognitiva e Ricerca”

Via Mestrina, 6 scala C Mestre (VE)  www.ptcr.it

PER MOTIVI ORGANIZZATIVI E’ GRADITA LA RICHIESTA DI ISCRIZIONE AL SEGUENTE INDIRIZZO E-MAIL:  

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PER INFORMAZIONI : cell. 333 9300221 – 349 2574530

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Relatori:

Dr.ssa Nashira Laura Andreon, psicologa, psicoterapeuta costruttivista, Life & Business Coach, socia ordinaria SCI. Svolge in libera professione attività clinica e consulenza. Mindfulness Trainer e cofondatrice PsicheDintorni rivista di psicologia e mindfulness

Dr.ssa Annalisa Da Ros, psicologa, psicoterapeuta cognitivista, Specialista Ambulatoriale Interna presso Servizio Dipendenze e Ambulatorio Disturbi Alimentari e Obesità Ulss13 Mirano-Dolo, libera professionista presso studio privato a Mestre.

Dr. Simone Del Negro, psicologo, psicoterapeuta cognitivo-comportamentale, socio ordinario SITCC, codidatta c/o Studi Cognitivi. Svolge in libera professione attività clinica, consulenza e formazione.

Dr.ssa Lorena Lanza, psicologa, psicoterapeuta cognitivo-comportamentale. Svolge in libera professione attività clinica e consulenza a Padova.

Dr.ssa Alessia Minniti, psicologa, psicoterapeuta, Dottore di Ricerca in Malattie Cronico-Degenerative, insegnante di Mindfulness. Lavora presso l’Università degli Studi di Verona, Dipartimento di Medicina, e svolge attività libero professionale. Da diversi anni conduce gruppi terapeutici per l’obesità e gruppi di Mindfulness-Based Therapy.

Prof.ssa Marta Panzeri, psicologa, psicoterapeuta, sessuologa clinica della Federazione Italiana di Sessuologia Scientifica e dell’Associazione Italiana di Sessuologia, ricercatore e docente di psicologia della Sessualità presso il Dipartimento di Psicologia dello Sviluppo e della Socializzazione dell’Università di Padova, Membro del Consiglio Direttivo e socio didatta del Centro Italiano di Sessuologia.

Dr.ssa Laura Prosdocimo, psicologa, libera professionista, responsabile scientifico della Associazione www.ansiapanicoagorafobia.org e socio fondatore della associazione www.salusmundi.it, docente di corsi Mindfulness. Si occupa di terapie mente corpo e specializzata in educazione alimentare per la prevenzione e cura dell’obesità.

Dr.ssa Roberta Situlin, medico, specialista in Scienza dell’Alimentazione, psicoterapeuta cognitivo-comportamentale, ricercatore in Nutrizione presso l’Università degli Studi di Trieste.

Dr.ssa Elisa Vezzi, psicologa e psicoterapeuta cognitivista, Mindfulness Trainer, si è formata con la Mindfulness Association, si occupa di formazione in ambito aziendale, libera professionista, cofondatrice PsicheDintorni rivista di psicologia e mindfulness.

Alimentazione Selettiva: una fase dello sviluppo normale oppure un disturbo? Quando e come è opportuno intervenire?

L’alimentazione selettiva descrive il comportamento di bambini che limitano la loro alimentazione ad una gamma ristretta di cibi preferiti, rifiutandosi di mangiare altri cibi conosciuti o di assaggiarne di nuovi.

Federica Rossi, Francesca Casero e Roberta Porta – Open School Studi Cognitivi

 

L’alimentazione rappresenta un aspetto fondamentale dello sviluppo infantile, tanto da poter essere considerata una linea evolutiva verso l’affermazione dell’autonomia. È proprio all’interno dell’interazione madre-bambino durante l’allattamento, lo svezzamento e la transizione verso l’alimentazione autonoma che si colloca, infatti, l’acquisizione di abilità di auto-regolazione e di interazione sociale.

Grazie all’interazione con il caregiver durante il momento dei pasti, in parallelo con lo sviluppo di capacità cognitive e motorie e la sempre maggiore differenziazione della vita affettiva, il bambino inizia a sperimentare la propria autonomia anche in campo alimentare.

È proprio all’interno di tale percorso evolutivo che si osservano le prime forme di difficoltà alimentari. Nella maggior parte dei casi esse sono transitorie, in quanto rappresentano l’espressione di difficoltà evolutive temporanee, di lieve entità e tendono a risolversi spontaneamente in tempi rapidi (Sameroff, Emde, 1989). In altri casi, le anomalie che si osservano possono persistere nel tempo e assumere un carattere di disfunzionalità, tale da configurarsi come veri e propri Disturbi del Comportamento Alimentare o dei loro potenziali precursori.

Un ruolo di primaria importanza nell’origine e mantenimento di pattern alimentari anomali sembrano svolgere alcuni comportamenti errati e maladattivi da parte dei genitori. Diversi studi, infatti, hanno messo in luce alcuni aspetti disfunzionali della relazione genitori-figlio che possono rendere difficili i processi di mutua regolazione e di autonomizzazione del bambino durante l’esperienza dell’alimentazione (Ammaniti et al., 2004, Chatoor et al., 1997).

Tra i vari aspetti che concorrono all’eziopatogenesi delle difficoltà alimentari in età evolutiva, la letteratura evidenzia inoltre anche il ruolo dell’imitazione di pattern alimentari disfunzionali in famiglia o nel gruppo dei pari, oltre a fattori di natura genetica come una specifica ipersensibilità sensoriale (Scaglioni et al., 2011).

Il ruolo del fattore percettivo nello sviluppo di un fenomeno come l’alimentazione selettiva si evince dalle diverse fasi dello sviluppo alimentare normale: durante il primo anno di vita, dopo lo svezzamento, i bambini imparano ad apprezzare i cibi ai quali vengono esposti frequentemente, sulla base di informazioni di tipo visivo, gustativo, di consistenza. L’informazione sensoriale non è ancora integrata in una visione unitaria, per cui la familiarità di un alimento si basa sui dettagli sensoriali, senza capacità di integrazione o generalizzazione (es. il “biscotto” è solo quello fatto in un certo modo).

Intorno ai 18-20 mesi di vita, con lo sviluppo della tendenza esplorativa, si colloca la fase nota come ‘neofobia‘, durante la quale i cibi che non vengono considerati come sicuri, ovvero quelli non riconosciuti come familiari, perché nuovi oppure perché presentati in una modalità non riconosciuta come nota, possono elicitare una risposta di disgusto. Tale reazione assume un valore adattivo, proteggendo il bambino dall’assunzione di cibi tossici durante l’esplorazione. Generalmente, la fase della neofobia termina entro il terzo anno di età e solo raramente dura fino ai 5 anni. Progressivamente, i bambini iniziano a imitare il comportamento dei coetanei e ad avere una visione più integrata del cibo, cosi come degli oggetti in generale (es. includono nella categoria ‘biscotto’ diverse forme, colori, consistenze).

Tuttavia alcuni bambini manifestano atteggiamenti neofobici ad un livello eccessivo e persistente durante lo sviluppo. Tali reazioni sembrano ritrovarsi con maggiore frequenza in bambini che presentano ipersensibilità agli stimoli sensoriali, principalmente quello visivo e olfattivo, e che presentano un pattern alimentare che può essere assimilato a quello dell’alimentazione selettiva (Harris, 2012).

Cosa si intende per Alimentazione Selettiva?

Cosa si intende per Alimentazione Selettiva? È una fase dello sviluppo normale, un precursore dei disturbi alimentari infantili oppure è essa stessa un disturbo? Quando e come è opportuno intervenire?

Avete un bambino che mangia solo cibi di colore giallo come pasta o formaggio, mentre strilla ogni volta che gli mettete nel piatto dei piselli o delle carote? Potreste avere a che fare con un bambino con alimentazione selettiva.

Una percentuale tra il 14% e il 20% dei genitori di bambini in età pre-scolare (2-5 anni di età) riferisce infatti che i loro figli appaiono spesso o sempre selettivi nelle loro scelte alimentari.

Con l’espressione ‘Alimentazione Selettiva‘ si descrive il comportamento di bambini che limitano la loro alimentazione ad una gamma ristretta di cibi preferiti, rifiutandosi di mangiare altri cibi conosciuti o di assaggiarne di nuovi. Mangiano cinque o sei cibi differenti, spesso carboidrati come pane, patate fritte o biscotti. Quando il genitore tenta di ampliare la gamma di cibi il bambino reagisce con ansia e disgusto e può manifestare sforzi di vomito.

Molti bambini possono rifiutare il cibo in base a caratteristiche sensoriali come il gusto, l’odore, il colore o la consistenza, e la richiesta d’aiuto è solitamente motivata dall’impatto che il fenomeno ha sul funzionamento sociale del ragazzino, come feste di compleanno, gite scolastiche o cene di classe. Generalmente, questi bambini presentano un peso ed un’altezza adeguati all’età e non manifestano preoccupazioni per il peso o la forma del corpo. Nella maggior parte dei casi il bisogno di adeguarsi al gruppo in adolescenza porta a una risoluzione spontanea del problema.

Secondo McCormick & Markowitz indicatori utili a identificare bambini con alimentazione selettiva potrebbero essere i seguenti comportamenti tipici:

  • Il bambino mangia solo i cibi preferiti
  • Si distrae mentre mangia, manifesta scarso interesse per il cibo
  • Assume alcuni alimenti solamente se “nascosti” all’interno di cibi o bevande preferiti
  • Consuma il pasto con lentezza e raggiunge velocemente la sazietà

Ad oggi, non esiste in letteratura una definizione univoca e universalmente accettata del fenomeno dell’alimentazione selettiva, anche a causa della varietà di termini utilizzati dai vari studiosi per descriverlo, tra cui picky eating, fussy eating, choosing eating e faddy eating. Risulta difficile, di conseguenza, anche valutarne la presenza e gravità (Taylor et al., 2015).

Un criterio spesso utilizzato in letteratura è quello che identifica di rilevanza clinica un pattern di alimentazione che comporta difficoltà o rallentamento nello sviluppo psicofisico e carenze nutrizionali, oltre a difficoltà relazionali all’interno della famiglia. (Mitchell et al., 2013; Chatoor & Ganiban, 2003).

 

Definizione di alimentazione selettiva

Tali aspetti emergono con evidenza nelle diverse definizioni fornite dalla letteratura:

  • Consumo di una varietà inadeguata di alimenti come conseguenza del rifiuto di un’ampia gamma di cibi familiari, così come di quelli sconosciuti. Tale selettività può comportare una forma di neofobia per il cibo, oltre al rifiuto per cibi con specifiche caratteristiche sensoriali.
  • Ridotto apporto di cibo, soprattutto di verdura, e rigide preferenze alimentari, che portano i genitori a preparare il pasto del bambino separatamente rispetto a quello del resto della famiglia.
  • Rifiuto di assumere cibi conosciuti o di assaggiarne di nuovi, abbastanza grave da compromettere il funzionamento e la routine quotidiana ad un livello che può risultare problematico per il bambino, i genitori o la loro relazione.
  • Consumo di una insufficiente quantità o varietà di cibo come conseguenza del rifiuto di alcuni alimenti.
  • Numero limitato di alimenti nella dieta, rifiuto di assaggiare cibi non conosciuti, scarso apporto di verdura o di altre categorie alimentari, rigide preferenze alimentari e richiesta di una modalità particolare di preparazione dei cibi.

 

Aspetti clinici dell’ alimentazione selettiva

La rilevanza clinica dell’alimentazione selettiva sembra dunque riguardare soprattutto le conseguenze di tale condotta alimentare. Mentre infatti un atteggiamento sospettoso e selettivo nella scelta dei cibi può avere avuto, a livello evolutivo, una funzione adattiva nella prima infanzia nel ridurre il rischio di assumere tossine, successivamente può rappresentare invece un limite ad una dieta variata, con conseguenti carenze a livello nutritivo.

Nonostante alcuni studi riportino una maggiore assunzione di alimenti altamente energetici, come dolci o snack, tra i bambini con alimentazione selettiva, la maggior parte evidenzia però una globale riduzione dell’apporto alimentare e un’alterazione della composizione nutrizionale della dieta, sottoforma di mancanza di varietà, ridotto apporto energetico, scarsa assunzione di frutta e verdura, carenza di vitamine e minerali, minore assunzione di fibre vegetali e cereali integrali. A ciò sembrerebbe associato un maggiore rischio di sottopeso e di ritardo nella crescita, così come di sovrappeso o di sviluppo di un vero e proprio disturbo della condotta alimentare (Bachmeyer, 2009).

Sembrerebbe, inoltre, che bambini con alimentazione selettiva presentino frequentemente un’ipersensibilità tattile e gustativa e siano maggiormente a rischio di sviluppare sintomi psichiatrici (ansia generalizzata, ansia sociale, sintomi depressivi) sia come co-diagnosi, sia durante tutto l’arco di vita. A ciò si aggiungerebbe un maggiore rischio di stress nel caregiver e di effetti negativi sulle relazioni familiari e sociali (Zucker et al., 2015).

Alimentazione Selettiva e DSM- 5

Nel DSM-5 (Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders), il ‘Disturbo Evitante/Restrittivo dell’assunzione di cibo‘ (Avoidant/restrictive food intake disorder- ARFID) sembra essere quello che meglio descrive la rilevanza clinica dell’alimentazione selettiva. Tale categoria diagnostica si sostituisce al Disturbo della nutrizione nell’infanzia o prima giovinezza (FD) descritto nel DSM-IV TR. A differenza di quest’ultimo, esso non fa riferimento a un periodo dello sviluppo limitato, con il vantaggio di poter essere diagnosticato durante tutto l’arco di vita.

Inoltre, la compromissione del funzionamento nella versione più recente non si limita a parametri di peso e sviluppo fisico, ma si estende anche a valutare eventuali carenze nutrizionali dovute ad un’alimentazione selettiva esagerata.

Criteri diagnostici:

  • A- Una anomalia dell’alimentazione e della nutrizione (ad es. assenza di interesse per l’alimentazione o per il cibo; evitamento basato sulle caratteristiche sensoriali del cibo) che si manifesta attraverso una persistente incapacità di assumere un adeguato apporto nutrizionale e/o energetico associata con una o più delle seguenti:
    • 1) Significativa perdita di peso o nei bambini incapacità a raggiungere il peso relativo alla
      crescita.
    • 2) Significativa carenza nutrizionale
    • 3) Dipendenza dalla nutrizione enterale o da supplementi nutrizionali orali.
    • 4) Marcata interferenza col funzionamento psicosociale.
  • B- Il disturbo non è connesso con la mancanza di cibo o associato a pratiche culturali.
  • C- Il disturbo non si manifesta esclusivamente nel corso di anoressia o bulimia nervosa e non vi è evidenza di anomalia nel modo in cui è percepito il peso e la forma del proprio corpo.
  • D- L’anomalia non è meglio attribuibile a una condizione medica o ad un altro disturbo mentale. Se il disturbo alimentare si manifesta nel corso di un altro disturbo, la sua importanza supera quella del disturbo di base e richiede attenzione clinica.

Alimentazione Selettiva: quando e come è opportuno intervenire?

Per comprendere e trattare i disturbi e le difficoltà alimentari nella clinica psichiatrica e psicologica dello sviluppo nella prima infanzia si fa attualmente riferimento a un modello transazionale, bio-psico-sociale e multifattoriale (Ammaniti, 2010). L’eziopatogenesi dell’alimentazione selettiva è multifattoriale e può essere di origine medica, biologica, psicologica, ambientale e anche derivante dall’interazione di più fattori.

Lo sviluppo di un comportamento alimentare selettivo può derivare da fattori come la pressione a mangiare (Gregory et al., 2010; Powell et al., 2011; Haycraft et al., 2012), alti livelli di emozionalità negativa nel bambino o nel genitore (Hafstad, 2013), maggiore sensibilità agli stimoli sensoriali da parte del bambino (Farrow et al., 2012), ma anche da stili o pratiche legate all’alimentazione, incluso il controllo genitoriale (Morrison et al., 2013) o da fattori più specifici come l’assenza di un allattamento al seno o l’introduzione di un’alimentazione complementare prima dei 6 mesi (Shim, Kim, Mathai et al., 2011). E’ perciò importante riconoscere questa problematica fin dalla più tenera età, per supportare la crescita, un apporto alimentare adeguato e delle interazioni bambino – genitore che possano favorire uno sviluppo sano ed armonico (Mitchell et al. 2013).

Quando un figlio inizia a manifestare un rapporto alterato con il cibo, l’intera famiglia entra in crisi, soprattutto se il bambino non è ancora in grado di parlare. L’alimentazione selettiva e il rifiuto verso nuovi alimenti genera nei genitori un profondo disorientamento. L’atmosfera familiare risente delle difficoltà legate ai momenti dei pasti e i genitori, in particolare il familiare che si occupa maggiormente dell’alimentazione del bambino, sia in termini di preparazione dei piatti sia di presenza durante il pasto, inizia a provare emozioni negative che non sempre aiutano nella risoluzione del problema.

L’ansia riguarda il fatto che i bambini non ricevano un’adeguata nutrizione sia in termini di quantità che di varietà. La rabbia manifestata nei continui conflitti durante i pasti viene legata al senso di frustrazione per i continui rifiuti dei figli verso nuovi alimenti. Elevata è inoltre l’impotenza che deriva dalla constatazione che tutti gli sforzi fatti per ampliare il repertorio alimentare vengono rifiutati. Spesso interviene nei genitori anche il senso di colpa, sia per le ricorrenti battaglie intraprese al momento di mangiare, sia perché iniziano a credere che possa essere il proprio modo di cucinare a causare problemi.

 

L’aiuto del medico in caso di alimentazione selettiva

Dopo aver stabilito che il proprio bambino non è solo schizzinoso, ma presenta un problema che influisce in modo importante sul suo funzionamento sociale, sulle relazioni familiari e sull’apporto equilibrato dei diversi nutrienti, è importante innanzitutto rivolgersi al medico per escludere una condizione di tipo organico (es. intolleranza verso certi alimenti, celiachia). E’ inoltre importante escludere che l’alimentazione selettiva faccia parte di un quadro più ampio di rigidità ed ipersensibilità sensoriale legata a un disturbo del neurosviluppo; diverse ricerche (Ahearn et al., 2001; Dominick et al., 2007; Cermak et al., 2010) hanno mostrato infatti che essa è spesso associata a disturbi dello spettro autistico. Sembrerebbe tuttavia che in questo caso la selettività sia ancora più restrittiva e permanente nel tempo, con periodi in cui il bambino desidera mangiare solo un alimento particolare ed escludere tutti gli altri (Tomcheck et al., 2007; Twachtman-Reilly et al, 2008).

 

L’alimentazione selettiva come manifestazione di un disagio

Dopo aver escluso queste cause, è importante interrogarsi e porre un occhio attento verso le manifestazioni del disagio del bambino, su due livelli diversi, uno più relazionale e uno più comportamentale.

Il comportamento alimentare del bambino, non può infatti essere inteso solo come qualcosa da educare o omologare, ma anche come qualcosa da comprendere. L’alimentazione selettiva, come la neofobia, potrebbero essere l’espressione di una possibile disarmonia della sfera affettiva del bambino, di una fatica, di un malessere o di una difficoltà evolutiva e hanno il valore di messaggio. È quindi importante che i genitori possano osservare, valutare lo stato emotivo del bambino e capire da quanto tempo è presente il comportamento che li preoccupa. Genitori attenti possono comprendere se si tratta di un comportamento transitorio legato a un momento di particolare stanchezza o fatica del figlio (ad esempio l’ingresso del bambino all’asilo nido, la nascita di un fratellino, il rientro della mamma al lavoro…).

Poichè l’alimentazione e il momento del pasto sono sempre inseriti in una cornice relazionale, è importante evitare usi impropri del cibo da parte degli adulti, che rischiano di fare dell’atto nutritivo uno strumento di potere. Vengono quindi sconsigliati interventi intimidatori da parte dei genitori (‘Se non mangi tutto chiamo il vigile che ti porta via’), ricattatori (‘Se non finisci la pasta dopo non potrai giocare‘) oppure mescolare il piano educativo con quello affettivo (‘La mamma piange se tu non mangi’, ‘Sei un bambino cattivo perché non mangi e fai arrabbiare mamma e papà‘ oppure ‘Se non lo mangi dopo non ti leggo la storia‘ ).

E’ utile invece includere una terza persona nell’offerta dei cibi ai bambini piccoli, rendendo possibile ai padri o ad altre persone della famiglia di entrare nel menage alimentare, introducendo modalità e dinamiche relazionali diverse. Questo accorgimento permette anche di valorizzare il pasto come momento conviviale, in cui ci si siede tutti insieme e si rispettano le regole della tavola; questo aiuta a far sì che il pasto non diventi uno scodellamento di alimenti, degradando il valore dell’atto alimentare.

All’interno di questo approccio all’alimentazione selettiva possiamo inserire diverse ricerche che indagano come alcuni pensieri e di conseguenza comportamenti dei genitori, possono influenzare le condotte alimentari del bambino.

Uno studio del 2013 (Russell et al.) ha indagato quali sono le credenze dei genitori sulle preferenze alimentari dei figli. Si è cercato di valutare se le preferenze vengono associate a caratteristiche del cibo (consistenza, gusto o odore), ad esperienze precedenti con il cibo o a caratteristiche della personalità del bambino. I risultati hanno mostrato che i genitori dei bambini più riluttanti a mangiare e più selettivi, preferivano spiegazioni legate a preferenze di gusto, che venivano considerate stabili, innate e immodificabili; questo spiegava anche la bassa autoefficacia percepita da questi genitori rispetto alla possibilità di cambiare le preferenze alimentari dei figli.

Gli autori ipotizzano che se queste famiglie credessero di avere il potere di cambiare la selettività dei loro bambini, si potrebbero creare nuove abitudini alimentari. Suggeriscono perciò di iniziare a diversificare le pietanze proposte nei colori, odori e consistenza, utilizzando gli alimenti che il bambino già mangia e rispettando le spontanee inclinazioni mostrate dai figli.

Un altro suggerimento fornito dagli autori è eliminare la pressione a mangiare, sia alta che bassa; passare dunque dall’ affermazione ‘Assaggialo e se non ti piace non devi mangiarlo‘, che però i bambini selettivi percepiscono come: ‘Se ti piace, lo devi mangiare‘ a una proposta come: ‘Assaggia questo minuscolo chicco e dimmi cosa ne pensi‘.

L’ultimo consiglio dato da Russell e Worseley è di focalizzarsi sull’educazione alimentare più che sul mangiare; esplorare il cibo è infatti più facile quando è completamente slegato dall’alimentarsi. E’importante parlare del cibo in termini di gusto, aroma, apparenza, consistenza, temperatura, suono, origine, prima che i bambini ne mettano un boccone in bocca. Più informazioni sanno, più coraggiosi saranno. Anche il cucinare insieme può essere un’attività utile; se infatti l’obiettivo non è solo quello di far mangiare al bambino ciò che è stato preparato, può aiutare i figli a prendere maggiore confidenza e familiarità con gli alimenti. Questa attività inoltre soddisfa le esigenze affettive, la spontanea curiosità del bambino, il desiderio di sentirsi grandi e importanti, l’imitazione dei genitori e anche l’appetito.

Recentemente sono stati condotti studi anche per comprendere meglio il ruolo dello stile genitoriale sui problemi di alimentazione infantile (Rigal, Issanchou et al., 2012). La ricerca riguardava la valutazione di aspetti della genitorialità durante i pasti in un campione francese di bambini di età inclusa tra i 20 e i 36 mesi attraverso un modello di regressione multivariata. Questa ricerca ha mostrato che gli stili genitoriali che determinano maggiori difficoltà alimentari (neofobia, scarso piacere associato al cibo, basso appetito e selettività) sono :

  • Lo stile di accudimento lassivo e permessivo, che soddisa tutti i desideri del bambino come preparargli solo quello che preferisce per evitare conflitti;
  • Lo stile autoritario che include pratiche coercitive ed imposizioni per forzare il bambino a mangiare un cibo rifiutato.

Comunque non si possono fare conclusioni definitive riguardo la direzione degli effetti. Non è ancora chiaro se uno stile genitoriale predice le difficoltà di alimentazione, oppure se sono queste problematiche che predicono l’uso di particolari stili genitoriali.

Osservando meglio le caratteristiche del disagio mostrato dai bambini, si è comunque arrivati a notare quanto alcuni atteggiamenti genitoriali possono svolgere un ruolo importante nella genesi e nel mantenimento della problematica.

Uno studio longitudinale del 2014 (Tharner et al.) su più di 2000 bambini americani si è proposto di individuare un profilo comportamentale dei bambini con alimentazione selettiva. I risultati hanno mostrato che i bambini che rientrano in questa categoria consumano meno quantità di alimenti come vegetali, carne, pesce, poco popolari anche tra i bambini che non hanno questo problema. Tuttavia si nutrono in modo simile agli altri bambini di alimenti quali prodotti raffinati e derivati dal grano, come cornflakes, panini,così come di latticini come lo yogurt e frutta. Dato interessante emerso da questo studio è inoltre il fatto che i bambini con alimentazione selettiva consumano maggiormente, rispetto agli altri, prodotti confezionati come biscotti, snacks o patatine.

I ricercatori si sono spiegati questo fenomeno ipotizzando che le madri di questi bambini siano maggiormente permissive nel lasciarli consumare cibi appetibili ma poco sani, per compensare il basso introito di altri alimenti.

Questo potrebbe spiegare anche la scoperta che i bambini di 14 mesi che sono selettivi non hanno un BMI alterato rispetto ai bambini di pari età. Tuttavia, come notato in diversi studi (Dubois et al., 2007; Ekstein et al., 2010) quando raggiungono l’età di 4 anni, questi bambini hanno un BMI più basso e risultano spesso in sottopeso. Questa ricerca ha mostrato anche differenze nel comportamento materno di nutrimento: le madri dei bambini più esigenti esercitano una maggiore pressione a mangiare. L’insistenza genitoriale però, oltre ad essere una reazione normale e comprensibile al rifiuto del bambino a mangiare, può avere anche un effetto controproducente sul bambino, abbassando il livello di divertimento e piacere associato al pasto; oltre a ciò la pressione da parte dei genitori a mangiare può generare ulteriore resistenza, portando i bambini a detestare proprio quei cibi (Birch et al., 1982). Le associazioni tra il modo di comportarsi dei genitori e i problemi alimentari del figlio potrebbero dunque rappresentare effetti bidirezionali di pattern comportamentali che sono stati sviluppati nel corso della prima infanzia (Kreipe et al., 2012).

Non è inusuale inoltre ritrovare che l’alimentazione selettiva o il comportamento alimentare schizzinoso corrano nelle famiglie, in parte perché questa condizione è biologicamente e geneticamente determinata, in parte perché questa condizione può essere esacerbata da triggers ambientali riguardo al comportamento alimentare.

Uno studio recente (Finestrella, 2012) ha riscontrato infatti una forte associazione tra le abitudini alimentari della madre e del figlio e tra la neofobia della madre e del figlio. Comunque l’esposizione, il modellamento e l’imitazione possono derivare anche dai pari ed essere facilitati dalla frequenza all’asilo nido o della scuola dell’infanzia (Heim et al.2009). Tuttavia gli effetti del peer modelling possono essere negativi se viene osservato rifiuto per la frutta e i vegetali (Hendy et al., 2000) e questi effetti possono essere difficili da invertire (Greenhalgh, 2009).

Un’altra importante indagine sull’alimentazione selettiva dei bambini, anche per quanto riguarda le varianti non patologiche, ha portato a concludere che i bambini tendono a richiedere circa 15 esposizioni ad un cibo prima che si fidino ad assaggiarlo (Wardle, Cornell & Cooke, 2005) ed un’altra decina di esposizioni per sviluppare una vera e propria preferenza (Wardle et al. 2003). Una ragione di ciò è legata all’espressione della neofobia, che, come già detto, è una una risposta evolutiva normale che tutti i bambini presentano intorno ai 2 anni, sviluppata per assicurare l’evitamento di cibi potenzialmente pericolosi o tossici (Dowey et al., 2008).

Perciò offrendo ripetutamente un cibo inizialmente rifiutato, i genitori giocano un ruolo cruciale nel trasformare un cibo non usuale in uno familiare, diminuendo quindi questa risposta innata. Sfortunatamente molte famiglie non sono consapevoli di questo fenomeno e non associano il rifiuto alimentare a una fase normale dello sviluppo.

Diverse ricerche su neonati di 6-9 mesi (Maier, Chabanet, Schaal, Leathwood, & Issanchou, 2007) e bambini di 2- 5 anni (Carruth & Skinner, 2000; Carruth, Ziegler, Gordon, & Barr, 2004) hanno mostrato che i genitori tipicamente rinunciano ad offrire un cibo rifiutato dopo 5 tentativi, quindi troppo presto affinché un bambino possa abituarsi.

 

Conclusioni

Si può quindi affermare che sia fattori intrinseci al bambino (temperamento, ipersensibilità sensoriale) sia elementi ambientali (pressione a mangiare, stile genitoriale, abitudini alimentari dei genitori, facile rinuncia nell’offrire cibi nuovi) contribuiscono a determinare le attitudini dei bambini sia verso i cibi familiari che non familiari. Vi è comunque la necessità di condurre future studi longitudinali per definire il ruolo della genetica, delle pratiche genitoriali di alimentazione e delle caratteristiche ambientali sull’eziopatogenesi dell’alimentazione selettiva.

Nell’attesa di giungere a una più chiara comprensione del ruolo di ogni fattore, è importante ricordare che comunque, così come vale per la maggior parte dei comportamenti umani, i genitori devono dare il buon esempio, consumando cibi vari e sani, in quanto bambini tendono ad imitare quello che vedono fare da parte di chi li circonda.

Da qui deriva l’importanza di dare una buona educazione alimentare ai genitori per primi, sia riguardo il valore nutrizionale dei cibi, sia riguardo la comprensione di alcuni comportamenti manifestati dai bambini. Va inoltre ricordato che l’emozionalità che si accompagna al momento dei pasti e il significato che viene trasmesso attraverso prima il nutrimento e poi l’alimentazione, diventano fattori imprescindibili per valutare il comportamento del bambino e darne un senso.

La gestione dei conflitti come competenza manageriale e il manager emotivamente intelligente

 

Il concetto di conflitto all’interno delle organizzazioni è notevolmente cambiato nel corso del tempo, passando da una concezione negativa ad una positiva: il modello organizzativo aziendale diffusosi negli anni Sessanta, infatti, prevedeva uno svolgimento routinario delle attività lavorative e considerava negativamente il verificarsi di conflitti; successivamente, con il mutare delle strutture organizzative, il conflitto è stato considerato come un’opportunità di confronto e di chiarimento e la capacità di gestire le situazioni conflittuali come una competenza manageriale assai importante.

Il conflitto secondo le teorie delle dinamiche dei gruppi

Lo psicologo tedesco Kurt Zadek Lewin, che fu uno dei primi studiosi ad occuparsi delle dinamiche dei gruppi e dello sviluppo delle organizzazioni, ha definito il conflitto[blockquote style=”1″] quella situazione che si determina tutte le volte che su un individuo agiscono contemporaneamente due forze psichiche di intensità più o meno uguale, ma di opposta direzione.[/blockquote]

Il conflitto intrapersonale è dunque uno stato di tensione che una persona vive nel momento in cui riscontra bisogni, desideri e motivazioni contrastanti.
Il conflitto interpersonale, invece, è uno stato di tensione che si viene a creare tra due o più individui, allorché vi siano interessi, obiettivi, bisogni e punti di vista diversi.

Partendo dal presupposto che i conflitti sono inevitabili anche e soprattutto all’interno di un’organizzazione, è importante saperli riconoscere, imparare a gestirli, mediarli in chiave positiva e considerarli come una possibilità di migliorare le relazioni piuttosto che come un problema.
Chiunque abbia lavorato o lavori all’interno di un’azienda sa benissimo che i momenti di disaccordo e di incomprensione sono numerosi e che i conflitti sono, per così dire, “fisiologici”; inoltre ogni conflitto parla, nel senso che descrive una situazione che può essere di dinamismo e cambiamento, oppure, al contrario, essere segnale di profondi problemi irrisolti.

Ciò che mi propongo in questo scritto è fornire una mappa di decodifica dei fenomeni conflittuali e delle loro cause per affrontarli nella direzione di una soluzione positiva.

Il termine “conflitto” deriva dal latino cum-fligere, ovvero urtare una cosa con un’altra; il prefisso – cum sta ad indicare che l’urto non è unilaterale, ma coinvolge almeno due parti. Il significato generale è oggi quello di scontro, urto; tuttavia i livelli, le modalità e le cause dei conflitti sono molteplici.

Il conflitto nelle organizzazioni

Il concetto di conflitto all’interno delle organizzazioni è notevolmente cambiato nel corso del tempo, passando da una concezione negativa ad una positiva: il modello organizzativo aziendale diffusosi negli anni Sessanta, infatti, prevedeva uno svolgimento routinario delle attività lavorative e considerava negativamente il verificarsi di conflitti; successivamente, con il mutare delle strutture organizzative, il conflitto è stato considerato come un’opportunità di confronto e di chiarimento e la capacità di gestire le situazioni conflittuali come una competenza manageriale assai importante.
Come già accennato, esistono diverse tipologie di conflitti: oltre ai già citati conflitti intrapersonali ed interpersonali, esistono i conflitti intergruppi (che si verificano nel caso di scontro tra gruppi di diversa appartenenza) ed intragruppi (nel caso di dispute tra soggetti appartenenti allo stesso gruppo).

Le cause del conflitto, invece, possono essere di tipo tecnico-organizzativo, oppure di tipo relazionale.
Il conflitto tecnico-organizzativo è legato alla struttura ed alle procedure da seguire e sorge ogni qualvolta non vengano assegnati ad una persona un ruolo, delle mansioni e degli obiettivi chiari e precisi.
I conflitti relazionali, invece, dipendono dal modo personale di rapportarsi con le persone con cui si lavora e sono generalmente causati da una diversità a livello personale (incompatibilità di carattere, pregiudizi, diversa cultura e diverse esperienze di vita…), da un uso non corretto degli elementi di comunicazione (equivoci, critiche, scarsa trasparenza dell’informazione), dall’impatto delle emozioni (sentimenti feriti, risentimenti passati, antichi rancori) e/o dalle motivazioni comportamentali.

Qualsiasi conflitto crea all’interno di un’organizzazione un disequilibrio, un’entropia che genera energia che può essere utilizzata in modo negativo o positivo, dando luogo, rispettivamente, a situazioni conflittuali distruttive o costruttive.
Una situazione conflittuale costruttiva porterà all’armonizzazione. Stare dentro il conflitto in modo non distruttivo, portare le emozioni ad evolvere in razionalità, riconoscere le proprie ed altrui emozioni, facendo uso dell’intelligenza e mettendo da parte la presunzione, l’aggressione e il desiderio di rivendicazione sono tutte capacità che rientrano nella competenza di gestione del conflitto, una delle competenze che in letteratura manageriale vengono definite “trasversali”. Le competenze trasversali – intese come quell’insieme di qualità professionali di un individuo in termini di conoscenze, capacità e abilità, atteggiamenti, doti professionali e personali – diventano oggi il vero valore aggiunto che un manager possa esprimere nel contesto lavorativo.

Un bravo manager (il leader) è innanzitutto colui che costruisce e mantiene buone relazioni con le persone con cui lavora. Da un’attività fortemente orientata al compito ed all’adempimento si è infatti passati ad un insieme di processi mutevoli, complessi ed in continuo divenire dove una gestione costruttiva del conflitto diventa essenziale. Un bravo manager è colui che riesce a mettere a fuoco l’importanza delle componenti emotive anche nelle funzioni razionali del pensiero, è colui che capisce che il raggiungimento dell’armonizzazione organizzativa è determinato da una complessa miscela in cui hanno un ruolo determinante fattori come l’autocontrollo, la consapevolezza di sé, la gestione delle emozioni e l’empatia. In altre parole un buon manager deve possedere una “intelligenza emotiva”.

L’intelligenza emotiva

Il termine “Emotional Intelligence” fu utilizzato per la prima volta negli anni Novanta del secolo scorso dai professori Peter Salovey e John D. Mayer che definirono l’intelligenza emotiva come [blockquote style=”1″]la capacità di controllare i sentimenti e le emozioni proprie ed altrui, distinguere tra di esse ed utilizzare queste informazioni per guidare i propri pensieri e le proprie azioni.[/blockquote]

Daniel Goleman indica sei caratteristiche che contraddistinguono coloro che fanno un buon uso dell’intelligenza emotiva: sono consapevoli di sé (questo permette di produrre risultati, riconoscendo le proprie emozioni e pensieri); riescono a dominare se stessi; sono abili nello scoprire i motivi profondi che spingono all’azione; hanno empatia; sono abili nel socializzare (ovvero sanno stare con gli altri e percepiscono velocemente i movimenti che avvengono tra le persone); possiedono buone capacità decisionali.

I manager hanno bisogno di gestire lo stato d’animo di chi lavora con loro. Chi riesce in questo difficile compito è un manager emotivamente intelligente, ovvero un leader, consapevole di sé ed empatico, in grado di leggere dentro di sé e negli altri e di regolare le proprie emozioni. Cogliendo come si sentono gli altri, forgia, di conseguenza, lo stato emotivo della propria organizzazione.

Alimenti biologici: come sono percepiti dai consumatori e quanto influisce il contesto?

L’acquisto di alimenti biologici ‘virtuosi’ come le fragole, si basa per lo più su considerazioni di gusto, mentre quello di alimenti biologici più ‘viziosi’, come i biscotti, può essere guidato maggiormente da considerazioni di carattere nutrizionale.

Il campo dell’industria alimentare biologica si è ormai espanso: la produzione spazia da prodotti freschi e cereali, a snack e condimenti, e la vendita coinvolge oltre a mercati agricoli anche supermercati.
Questa nuova varietà di prodotti biologici e la loro maggiore disponibilità ha influito sulla percezione dei consumatori? Una ricercatrice dell’Università dell’Illinois e il suo gruppo hanno disegnato un esperimento in grado di fornire indicazioni circa alcune delle variabili che possono influenzare le opinioni sugli alimenti biologici. Hanno inserito quindi il prodotto alimentare biologico nel contesto, arrivando a dimostrare che il contesto conta davvero.

[blockquote style=”1″]Le precedenti ricerche hanno spesso indagato quanto le persone sono disposte a spendere per un prodotto biologico, ma, raramente, hanno considerato il contesto in cui avvenivano tali acquisti [/blockquote]afferma Brenna Ellison, specialista di economia alimentare dell’Università dell’Illinois. [blockquote style=”1″]In questo studio, noi osserviamo come il marchio biologico interagisce con il tipo di prodotto, nonché con il contesto di acquisto al dettaglio.[/blockquote]

 

Le motivazioni alla base dell’acquisto degli alimenti biologici

Ellison e il suo team hanno condotto un esperimento in cui 605 persone hanno valutato il gusto del prodotto alimentare prescelto, il suo valore nutritivo, la sicurezza, e la probabilità di acquisto. I prodotti erano fragole e biscotti al cioccolato, venduti da un brand fittizio chiamato Cam’s. Nell’esperimento, i prodotti erano o biologici o non-biologici e venduti in un supermercato, alternativamente o Walmart o Target. Ogni partecipante valutava solo una delle otto possibili combinazioni.

[blockquote style=”1″]Abbiamo scelto fragole e biscotti perché questi prodotti rappresentano, rispettivamente, una ‘virtù’ e un ‘vizio’ ed entrambi sono correntemente disponibili nei mercati, in forma sia biologica sia non-biologica. Abbiamo scelto Walmart e Target perché i due negozi hanno prezzi simili, ma un’immagine del brand molto diversa: Target si è imposto sul mercato come un negozio all’insegna di stile, design, e ambizione; Walmart, al contrario, è visto come un marchio a basso prezzo[/blockquote] spiega Ellison.

Gli alimenti biologici sono generalmente valutati meglio rispetto ai non-biologici, ma i ricercatori hanno trovato un’interessante interazione tra il marchio biologico e tipo di prodotto. Ad esempio, come descrive Ellison: [blockquote style=”1″]Le fragole biologiche hanno una valutazione gustativa attesa più alta rispetto a quelle non-biologiche, mentre non differiscono le valutazioni gustative dei biscotti. Si riscontra il contrario per le valutazioni circa il valore di nutrimento: i biscotti biologici sono classificati più nutrienti – quasi due volte più sani – rispetto ai non-biologici, ma non vengono osservate differenze rispetto alle valutazioni delle fragole.[/blockquote]

Tali risultati suggeriscono quindi che l’acquisto di alimenti biologici ‘virtuosi’ come le fragole, si basa per lo più su considerazioni di gusto, mentre quello di alimenti biologici più ‘viziosi’, come i biscotti, può essere guidato maggiormente da considerazioni di carattere nutrizionale.

Un altro dato emerso dalla ricerca è stato l’importanza del luogo in cui il prodotto alimentare viene acquistato. Le conclusioni raggiunte dai ricercatori prevedono che rivenditori come Target (dotati di un’immagine qualitativamente più alta) possano essere i migliori punti vendita per promuovere prodotti biologici ‘viziosi’, mentre rivenditori come Walmart (brand puramente low cost) possano essere considerati buoni punti vendita solo per la promozione di prodotti biologici ‘virtuosi’.

In aggiunta, lo studio ha anche rivelato che i partecipanti sembrano disinformati sugli standard biologici. Infatti, chiarisce Ellison: [blockquote style=”1″]Anche se i prodotti che portano il marchio ‘USDA Organic’ devono contenere almeno il 95% di ingredienti biologici per definizione, i partecipanti all’esperimento ritengono BIO anche biscotti contenenti solo il 62% di ingredienti biologici.[/blockquote]

In conclusione, è evidente che si renderebbe necessaria una maggiore educazione per garantire ai consumatori la comprensione di che cosa significa davvero l’etichetta biologica e che tale definizione non cambia variando prodotti o negozi.

Il training cognitivo per le demenze e le cerebrolesioni acquisite: guida pratica per la riabilitazione (2015) – Recensione

Training cognitivo per le demenze: Negli ultimi anni grazie al miglioramento delle cure mediche e in generale dell’allungamento della vita si sono rese sempre più necessarie tecniche cognitive che affiancassero le cure mediche nel trattamento di problematiche legate a malattie degenerative o cerebrolesioni.

 

Nelle persone con una malattia degenerativa il training cognitivo per le demenze ha la funzione di agire per rallentare il deterioramento cognitivo.

Per quanto riguarda il trattamento delle demenze si è assistito ad un utilizzo sempre maggiore e sempre più precoce di tecniche di stimolazione cognitiva, con risultati positivi nel rallentamento del deficit cognitivo, tanto che molti training cognitivi rientrano ormai nei programmi sanitari di alcuni paesi.

Nei programmi riabilitativi rivolti a persone con deficit cognitivi in seguito a cerebrolesioni invece, i training cognitivi hanno lo scopo di recuperare e compensare, ove possibile le abilità compromesse.

La riabilitazione cognitiva è un concetto molto ampio e si basa sul concetto di plasticità cerebrale ovvero la capacità del cervello di modificarsi e ristrutturarsi in risposta all’ambiente e a nuovi stimoli. La pratica ripetuta di specifiche abilità cognitive può guidare il cervello nella riorganizzazione funzionale vicariando le abilità perse a causa della lesione o rinforzando le abilità preservate.

 

Training cognitivo per le demenze

Il training cognitivo per le demenze prevede programmi complessi che allenino attraverso specifiche attività i processi cognitivi danneggiati o che potenziano le abilità residue, ma che possono anche includere metodi di compensazione, come l’utilizzo di strategie e strumenti, e di gestione dei sintomi emotivo-comportamentali conseguenti alla patologia cerebrale.

Il training congnitivo consiste nella somministrazione ripetuta e guidata di esercizi disegnati appositamente per stimolare specifiche funzioni cognitive, e comprende esercizi per l’apprrendimento di materiale verbale o visuo spaziale, esercizi per la memoria procedurale, per la memoria episodica o spaziale, esercizi per l’attenzione sostenuta e divisa, esercizi per il problem solving, esercizi per le capacità prassiche, gnosiche e così via.

Il manuale nella prima parte tratta brevemente una panoramica scientifica sulla funzione dei training cognitivi nel trattamento delle demenze e delle cerebrolesioni acquisite e fornisce le spiegazioni su come impostare un training personalizzato per un paziente, con compiti selezionati e somministrati secondo il principio della gradualità, utilizzando gli esercizi via via più difficili nel caso di recupero delle diverse abilità o semplificandoli in accordo con il proseguire della malattia degenerativa.

Nella seconda parte vengono invece presentati gli esercizi raggruppati in cinque domini cognitivi: orientamento, attenzione, memoria, linguaggio e funzioni esecutive. Per ogni esercizio vengono ricordate le abilità stimolate dallo stesso, viene fornita una spiegazione sulla modalità di somministrazione e alcuni suggerimenti che potrebbero essere utili con alcuni pazienti o nella somministrazione di gruppo.

Le schede degli esercizi infine sono presentate nel CD-ROM allegato al volume e direttamente stampabili per la somministrazione.

Le componenti dell’imitazione: una funzione che coinvolge strutture diverse nei due emisferi cerebrali

Uno studio che ha osservato i deficit di pazienti neurolesi dimostra che nell’ imitazione di gesti sono coinvolte almeno due componenti elaborate ognuna da un emisfero diverso.

SISSA, Scuola Internazionale Superiore di Studi Avanzati

Imitando si imparano un sacco di cose: a camminare, a suonare uno strumento, fare uno sport e tanto altro ancora. Quali sono i processi nel cervello alla base dell’imitazione? Da qualche anno ormai la scienza ha scoperto il ruolo dei neuroni specchio, ma ancora molto resta da capire. Uno studio che ha osservato i deficit di pazienti neurolesi dimostra che nell’imitazione di gesti sono coinvolte almeno due componenti elaborate ognuna da un emisfero diverso. Lo studio cui ha partecipato la SISSA è stato pubblicato su Neuropsychologia.

Imitazione di gesti dopo una lesione cerebrale: aprassia ideomotoria

Dopo una lesione cerebrale (per esempio causata da ictus o emorragia) si può sviluppare una difficoltà selettiva nell’imitare i gesti e i movimenti altrui (aprassia ideomotoria). Nella storia della neuropsicologia questi studi sono fra i più noti (i primi risalgono addirittura all’inizio ‘900), anche perché questi deficit ostacolano gli interventi terapeutici volti al recupero di abilità motorie, visto che il paziente non può eseguire, imitandoli, i gesti del medico. Negli ultimi vent’anni questi studi hanno poi trovato nuovo vigore grazie alla scoperta dei neuroni specchio, eppure si sa ancora troppo poco di questi processi. Molti scienziati pensano che vi sia un ruolo determinante dell’emisfero sinistro, visto che nella maggior parte sono proprio i cerebrolesi unilaterali sinistri a mostrare questo disturbo. Ma come spiegare allora anche una piccola percentuale di pazienti aprassici con una lesione unilaterale destra?

Paola Mengotti, alla SISSA al tempo dello studio, ora al Forschungszentrum di Jülich in Germania, Raffaella Rumiati, professoressa della SISSA e responsabile del laboratorio iNSuLa (Neuroscience and Society), e colleghi hanno condotto uno studio per rispondere a questa domanda.

Alla ricerca hanno partecipato venti pazienti (che sono stati visti all’Ospedale San Camillo di Venezia e all’Azienda Ospedaliero-Universitaria Ospedali Riuniti di Trieste) con lesioni unilaterali sinistre o destre, più un gruppo di controllo. L’idea di partenza era che l’imitazione fosse composta almeno da due compiti distinti: quello dell’imitazione motoria e un compito spaziale. Quando infatti dobbiamo imitare i movimenti di qualcuno, non solo ripetiamo i suoi gesti, ma dobbiamo anche traslarli sul nostro corpo (in pratica dobbiamo rispecchiarli). Nello studio i pazienti eseguivano compiti di imitazione in una delle due componenti, imitazione motoria e imitazione spaziale. Sono poi state confrontate le prestazioni per ogni componente e messe in relazione al tipo di lesione.

Quel che è emerso è che nella performance imitativa conta la somiglianza fra quanto visto e quanto prodotto, e questo ovviamente interagisce con il tipo di deficit dell’individuo.

[blockquote style=”1″] Analizzando le prestazioni dei pazienti con lesioni dell’emisfero destro e dell’emisfero sinistro con due compiti di imitazione, abbiamo potuto dimostrare che l’imitazione si basa sulla somiglianza tra l’azione osservata e quella prodotta[/blockquote]

spiega Rumiati.

[blockquote style=”1″]Questa somiglianza riflette o una corrispondenza anatomica o una spaziale. Lesioni dell’emisfero sinistro compromettono la prima operazione mentre lesioni dell’emisfero destro compromettono la seconda.[/blockquote]

 

LINK UTILI: • Articolo originale su Neuropsychologia: http://goo.gl/DjV6QG
IMMAGINI: • Crediti: Jamie McCaffrey (Flickr: https://goo.gl/5XffDR)
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Maggiori informazioni sulla SISSA

 

One study focusing on neurological patients showed that at least two components are involved in imitating gestures, each from a different hemisphere of the brain.

We learn many things through imitation: how to walk, play an instument, sports, and even more. What are the processes in the brain responsible for imitation? For some years now, science has been examining the role of mirror neurons, but there is still much to understand. One study focusing on neurological patients showed that at least two components are involved in imitating gestures, each from a different hemisphere of the brain. The study, which SISSA participated in, was published in Neuropsychologia.

After a brain injury (caused by stroke or hemorrhage, for example), patients may have difficulty imitating gestures and movements of others (ideomotor apraxia). In the history of neuropsychology, these studies are among the best known (the first date back to the early 1900’s) as these deficits hinder therapy aimed at recovering motor skills, since the patient cannot perform gestures by imitating the doctor. In the last twenty years, these studies have found new significance thanks to the discovery of mirror neurons, and yet little is known about these processes. Many scientists think the left hemisphere plays a dominant role because this problem most often surfaces in cases of unilateral brain-damage of the left hemisphere. How then, can we explain the small percentage of apraxic patients who have suffered unilateral lesions to the right hemisphere?

Paola Mengotti, at SISSA at the time of the study, now at Forschungszentrum Jülich in Germany, SISSA Professor and Head of the iNSuLa Laboratory (Neuroscience and Society), Raffaella Rumiati, and colleagues conducted a study to answer this question. Twenty patients (visited at San Camillo in Venice and Azienda Ospedaliero-Universitaria Ospedali Riuniti in Trieste) with unilateral brain lesions in the left or right hemispheres, plus a control group participated in the study. The initial idea was that imitation is made up of at least two distinct tasks: motor imitation, and a spatial component. When we have to imitate someone else’s movements, we not only have to repeat the actions, but we also have to translate them to our body (mirror them). In the study, patients performed imitation tasks using one of the two components, motor or spatial. Performance for each component was then compared and categorized in relation to the type of lesion.

What emerged is that what counts in imitation is the similarity between what is seen and what is produced, and this of course depends on the individual type of deficit. [blockquote style=”1″]Analyzing the performance of two imitation tasks by patients with lesions in the right hemisphere and the left hemisphere, we were able to demonstrate that imitation is based on the similarity between the observed action and the one produced[/blockquote] explains Rumiati. [blockquote style=”1″]This similarity reflects either an anatomical match or a spatial one. Lesions in the left hemisphere affect the former while lesions in the right hemisphere affect the latter.[/blockquote]

USEFUL LINKS: • Original paper on Neuropsychologia: http://goo.gl/DjV6QG
IMAGE: • Credits: Jamie McCaffrey (Flickr: https://goo.gl/5XffDR)

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Regolazione emotiva: in che modo determina il benessere psicologico

La regolazione emotiva è l’insieme dei processi attraverso i quali l’individuo influenza le emozioni che prova, quando le prova, in che modo le prova e come esprime tali emozioni. La regolazione emotiva si riferisce quindi alla eterogenea serie di processi con cui le emozioni sono regolate (Gross, 1999) ed è in gran parte responsabile del nostro benessere psicologico.

Roberta Casadio, OPEN SCHOOL STUDI COGNITIVI MODENA

Regolazione e disregolazione emotiva

Il concetto di disregolazione emotiva è strettamente legato a quello di regolazione e si riferisce ad un interruzione della “stabilità interna” dei processi mentali che sono legati alla costante e dinamica regolazione delle attività di cervello-mente-corpo-ambiente (Lazarus e Folkman, 1984). Qualora si sviluppi una grave situazione di disagio, ne risulta che non solo tale esperienza incide dal punto di vista psicologico sull’individuo, ma lo farebbe anche sul cervello e sul funzionamento cognitivo, rendendo il recupero del benessere ancor più difficile (Segal et al. 1996).

L’interazione tra figura di attaccamento ed infante è di fondamentale importanza nello sviluppo del bambino. Una relazione calda e accogliente, dove la figura di attaccamento è emotivamente disponibile aiuta il bambino ad evitare stati emotivi estremi e prolungati, ed esso comprenderà attraverso l’esperienza che gli stati di stress (i.e. arousal) possono essere moderati e quindi regolati (Kidwell et al., 2010). Questo accade poiché, grazie alla prevedibilità delle risposte fornite dal caregiver, è possibile fare delle connessioni causali stabili tra domanda e risposta offerta. Diversamente, quando la figura di riferimento del bambino si mostra emotivamente inaccessibile e incoerente reagendo alle espressioni emotive e allo stress del neonato in modo inappropriato, tale mancanza compromette la regolazione dell’arousal e quindi delle emozioni del neonato.

A conferma di ciò, una sempre più vasta letteratura scientifica afferma come la disregolazione emotiva sia un probabile esito di una relazione della diade che porti ad alterare il meccanismo di regolazione delle funzioni fisiologiche e quindi verso forme di psicopatologia (Kopp, 1989). Un esempio potrebbe avvenire quando un bambino esposto ad ostilità da parte del caregiver, che quindi non vede accolti e regolati i suoi stati di stress, si sente rigettato e arrabbiato. Sebbene egli possa adottare delle strategie per mantenere una relazione con il caregiver (es. pattern di attaccamento insicuro evitante o ambivalente), si verifica un fallimento nella possibilità del bambino di fare esperienza di se stesso come abile nel regolare i propri stati interni negativi in modo effettivo.

In base a tali esperienze precoci di apprendimento con la figura di attaccamento, si sviluppano dei Modelli Operativi Interni. Nell’esempio appena citato il mondo sarebbe quindi visto come incapace di rispondere ai propri bisogni e vedono se stessi come non meritevoli di attenzione e cure da parte della figura di riferimento. Sarebbe ragionevole ritenere a questo punto che i sentimenti di rabbia e tristezza siano facilmente attivati e che tali soggetti possano sviluppare deficit nella implementazione di un repertorio efficace e funzionale nel lungo termine di strategie di regolazione delle emozioni, il quale deficit contribuirà a confermare il senso di inefficacia e sfiducia negli altri percepito dal soggetto.

Studi mostrano l’incidenza di esperienze avverse o traumatiche nella prima infanzia nello sviluppo di disagio psichico in età adulta: tra i fattori di rischio comuni a diversi disturbi emergono traumi, perdite e abusi (Liotti, 2010), reattività allo stress, disfunzioni celebrali, attaccamento insicuro ad alto indice o disorganizzato (Ijzendoorn et al., 1999), elevata sensibilità alle emozioni espresse (Brown, Birley, & Wing, 1972) e conflitto intra-famigliare (Davies e Cummings, 1994). Questi fattori di rischio hanno in comune l’effetto di produrre alti livelli di arousal che interferiscono con lo sviluppo di strategie di regolazione emotiva.

Nella sua iniziale formulazione Bowlby indicava chiaramente che un attaccamento insicuro poteva essere visto come fattore di vulnerabilità a forme di psicopatologia in età più avanzata. Studi trasversali su popolazioni cliniche e “a rischio” hanno dimostrato un tasso significativamente superiore di persone con attaccamento insicuro rispetto alla popolazione di riferimento (Goldberg, 1993). Tale tesi trova conferma anche negli studi di etologia sugli effetti di una inadeguata regolazione diadica tra il piccolo e la madre in una popolazione di scimmie rhesus. Gli esperimenti condotti confermano infatti che i piccoli di scimmia che avevano riscontrato risposte incoerenti e inadeguate alle proprie richieste emotive mettevano in atto successivamente comportamenti insolitamente impulsivi, insensibili ed esageratamente aggressivi nelle interazioni con gli altri membri del gruppo (Suomi, 2003).

Strategie di regolazione emotiva e sviluppo psicopatologico

Gli studi sulla regolazione emotiva dei soggetti affetti da disturbo borderline di personalità dimostrano che per questa popolazione le emozioni risultano particolarmente difficili da regolare. I principali problemi che questi soggetti incontrano riguardano proprio l’aspetto della modulazione emotiva che, risultando deficitaria e cronicamente compromessa, impedisce loro di usare in maniera efficace le strategie di regolazione. Essendo vittime di un’eccessiva attivazione emotiva e fisiologica, tali soggetti incontrano serie difficoltà ad usare quelle strategie che consentirebbero di modulare la risposta emotiva e smorzare i correlati fisiologici ad essa associati. Lo stato di stress cronico che ne deriva alimenta l’uso di strategie di regolazione dello stato emotivo disfunzionali (es. atti auto/etero lesivi). Anche i disturbi definiti internalizzati costituiscono un valido esempio di compromessa regolazione emotiva: essi comprendono in maniera prevalente i disturbi dell’ansia e dell’umore e rappresentano un caso emblematico di specifica modalità di regolazione emotiva atipica che può comportare uno sviluppo psicopatologico (Bradley, 2000). Le aree della disregolazione che risultano più implicate sono quelle relative alle modalità di coping e alla regolazione dei fattori neurobiologici coinvolti nella risposta allo stress. I bambini a rischio d’insorgenza di sintomi internalizzati adottano strategie di coping improntate alla repressione dell’emotività negativa, al ritiro, all’uso ridotto del supporto sociale e all’idealizzazione di relazioni affettive problematiche. L’interiorizzazione della rabbia e dell’ostilità sarebbe così alla base dello sviluppo sintomatico.

Più di recente, alcune ricerche mettono in luce, grazie al supporto di tecnologie provenienti dalle neuroscienze, come esista uno stretto legame tra modulazione emotiva e regolazione emotiva. La regolazione emotiva, infatti, non è qualcosa che subentra dopo l’esposizione ad uno stimolo emotivo, bensì costituisce un processo che esiste prima e/o durante la risposta emotiva allo stress (Putnam & Silk, 2005). Di seguito alcuni esempi sul funzionamento di alcuni meccanismi regolatori quali la “soppressione delle emozioni” e il “reappraisal cognitivo”: se si istruiscono i soggetti a inibire le espressioni facciali (soppressione) mentre stanno guardando alcune scene disgustose di un film, questa inibizione comporta un incremento dell’arousal (Gross, 1999).

Altri studi rilevano gli effetti di meccanismi di reapparaisal sulla regolazione emotiva: se si istruiscono i soggetti a rimanere distaccati nei confronti di materiale emotivo, aumenta l’espressività emotiva ma non l’arousal: in questo senso si può ipotizzare che le due forme di regolazione delle emozioni comportino effetti differenti e che sia solo l’ultima quella che non implica, sul lungo periodo, costi elevati per la salute fisica e psicologica, mentre sopprimere l’espressione delle emozioni comporterebbe rischi maggiori per la salute mentale e il benessere psicologico (Putnam & Silk, 2005).

Alla luce di ciò è possibile concludere che i trattamenti psicoterapici di soggetti con deficit di regolazione emotiva possano esplorare che repertorio i soggetti mettano in atto per regolare le loro emozioni e quanto sia efficace/funzionale tale repertorio nel medio e lungo termine con lo scopo di identificare i meccanismi di funzionamento disfunzionali e lavorare sui deficit di regolazione emotiva. Uno strumento che potrebbe essere utile a tal fine è la DERS (DERS: Difficulties in Emotion Regulation Scale, Gratz & Roemer, 2004).

Efficacia del riluzolo nei pazienti con depressione da moderata a grave

Recenti evidenze scientifiche hanno mostrato l’ efficacia del riluzolo anche nel trattamento della depressione unipolare, persino tra i pazienti che non mostrano miglioramenti con altri trattamenti farmacologici e psicoterapeutici.

Il riluzolo è un farmaco ampiamente utilizzato per ritardare il ricorso alla ventilazione meccanica e prolungare la vita nei pazienti affetti da sclerosi laterale amiotrofica (SLA). Tale farmaco agisce inibendo l’attività del glutammato, il principale neurotrasmettitore eccitatorio del sistema nervoso centrale, che si ipotizza svolga un ruolo centrale nella degenerazione dei motoneuroni.

 

Efficacia del riluzolo per la depressione

Recenti evidenze scientifiche, tuttavia, hanno mostrato l’ efficacia del riluzolo anche nel trattamento della depressione unipolare, persino tra i pazienti che non mostrano miglioramenti con altri trattamenti farmacologici e psicoterapeutici. E’ noto, infatti, come la depressione sia caratterizzata da una disregolazione glutammatergica e come il riluzolo possieda proprietà antiepilettiche, neuroprotettive e modulatorie di grande interesse per il trattamento dei pazienti depressi.

Nel tentativo di fornire ulteriori prove a favore dell’ efficacia del riluzolo, il team della dott.ssa Salardini dell’Università di Tehran ha voluto indagare l’effetto del riluzolo in un campione di 64 pazienti con depressione da moderata a grave (criteri DSM-IV-TR), con età compresa tra 18 e 50 anni. I soggetti venivano inclusi nello studio se ottenevano un punteggio alla Hamilton Depression Rating Scale (HDRS) superiore a 19, con un punteggio di 2 o più nell’item 1. In aggiunta, la diagnosi di Disturbo Depressivo Maggiore veniva confermata tramite l’impiego della Intervista Clinica Strutturata per i Disturbi di Asse I (SCID-I).

 

Il trial clinico:  citalopram, riluzolo, placebo

In seguito i pazienti erano divisi in due gruppi: ad entrambi veniva somministrata una dose di citalopram (20 mg al giorno per la prima settimana e 40 mg al giorno per le successive 5 settimane), tuttavia il gruppo sperimentale beneficiava anche di una dose di 50 mg riluzolo mentre il gruppo di controllo assumeva un placebo al posto del SSRI.

Al termine dello studio, durato 6 settimane e comprendente tre momenti di valutazione (seconda, quarta e sesta settimana), i risultati confermavano le precedenti evidenze scientifiche: il gruppo sperimentale mostrava miglioramenti significativi (93,3%) e più veloci rispetto al gruppo di controllo (53,3%).

Trattandosi di un randomized controlled trial (RCT) condotto in doppio cieco, i risultati di questo studio sono di primaria rilevanza.

Sebbene la numerosità del campione non fosse elevata e i ricercatori non abbiano considerato alcun outcome fisiologico rispetto alle concentrazioni di glutammato, la percentuale di pazienti che beneficiavano immediatamente del a era significativamente superiore rispetto al gruppo di controllo trattato con citalopram e placebo.

I successivi studi avranno il compito di chiarire come l’ efficacia del riluzolo nel ridurre la concentrazione di glutammato nei pazienti depressi, ad esempio, come suggerito dal team della Salardini, incrementandone il metabolismo o la ricaptazione.

Terapia Razionale Emotiva: i corsi ufficiali in Italia dell’Albert Ellis Institute

La Terapia razionale emotiva di Albert Ellis

La Terapia razionale emotiva (in inglese Rational-Emotive Behaviour Therapy, REBT), elaborata dallo psicologo americano Albert Ellis negli anni Cinquanta, è una teoria e prassi psicoterapeutica di impostazione cognitivo-comportamentale basata sul principio fondamentale secondo cui la sofferenza mentale deriva da credenze e valutazioni automatiche degli eventi (per es., “non deve/può succedere”, “non posso sopportarlo”, “sarà terribile”), che il soggetto si autoinfligge.

Sono quindi gli individui a strutturare, più o meno inconsapevolmente, i propri “disturbi emotivi”; d’altra parte, sono essi stessi a possedere la fondamentale capacità di modificare le proprie convinzioni e la propria “filosofia di vita”, oltre che il proprio comportamento, in modo da raggiungere una vita emotiva più soddisfacente.

I corsi ufficiali REBT in Italia

SEDE DEI CORSI REBT ITALIA none

In Italia la Scuola di Specializzazione in Psicoterapia Studi Cognitivi organizza i corsi ufficiali REBT base (Primary Practicum), avanzato (Advanced Practicum) e il corso di terzo livello per diventare psicoterapeuti esperti della Rational Emotive Behavioral Therapy (Associate Fellowship Certificate Program) in collaborazione con l’ Albert Ellis Institute.

Docenti dei corsi REBT in Italia

  • Kristene Doyle, Ph.D., Sc.D., è Direttore dell’Albert Ellis Institute (AEI). Il Dr. Doyle è anche Direttore dei Servizi Clinici, psicologo abilitato dello staff e supervisore clinico dell’AEI. È Professore associato alla St. John’s University di New York.
  • Raymond DiGiuseppe, Ph.D., Sc.D., è Direttore della Formazione Professionale, psicologo abilitato dello staff e supervisore clinico dell’AEI. È anche Professore e Rettore del Dipartimento di Psicologia alla St. John’s University di New York. È Presidente della Division 29 (Psicoterapia) della American Psychological Association.
  • Ennio Ammendola, M.A., M.H.C., è terapeuta e supervisore REBT all’AEI e Doctoral candidate alla Fordham University di New York.
  • Giovanni M. Ruggiero, M.D. è terapeuta cognitivo e supervisore REBT. Inoltre è Didatta di terapia cognitiva riconosciuto dalla Società Italiana di Terapia Cognitiva e Comportamentale (SITCC) e Didatta presso la Scuola di specializzazione in Psicoterapia Cognitiva “Studi Cognitivi” di Milano.

Il Corso base REBT (Primary Practicum)

Il Primary è il primo livello di apprendimento della Terapia razionale emotiva. Studi Cognitivi è lieta di poterlo offrire in Italia nel formato originale in cui è effettuato all’Albert Ellis Institute (AEI) di New York, condotto dai più prestigiosi e qualificati terapisti e supervisori REBT certificati a livello internazionale, a cominciare dai due direttori dell’AEI, Kristene Doyle e Raymond DiGiuseppe, quest’ultimo anche professore di Psicologia alla St. John University di New York.

Il Primary è un corso intensivo di tre giorni che include lezioni teoriche ed esercitazioni in cui la REBT si pratica in colloqui di “peer-counseling” tra gli iscritti al corso, sotto la supervisione dei docenti del corso. Le esercitazioni avvengono in gruppi di 8 partecipanti seguiti da un singolo docente.

I partecipanti impareranno la teoria della Terapia razionale emotiva dei disturbi emotivi e del cambiamento terapeutico dai principali operatori REBT e avranno l’opportunità di praticare la loro abilità in piccoli gruppi e di ricevere un feedback immediato da un supervisore certificato.

Programma del corso Primary Practicum

I partecipanti impareranno a:

  • comprendere e applicare la teoria REBT dei disturbi psicologici;
  • applicare il modello ABC a una vasta gamma di problematiche cliniche;
  • identificare e disputare i pensieri disfunzionali dei clienti;
  • incoraggiare i clienti a elaborare pensieri, emozioni e comportamenti più adattivi;
  • sviluppare e applicare protocolli REBT per il trattamento di rabbia, ansia e depressione.

 

 

Il corso avanzato REBT Advanced Practicum

L’Advanced Practicum è il secondo livello di apprendimento della Terapia razionale emotiva. Studi Cognitivi è lieta di poterlo offrire in Italia nel formato originale in cui è effettuato all’Albert Ellis Institute (AEI) di New York, condotto dai più prestigiosi e qualificati terapisti e supervisori REBT certificati a livello internazionale, a cominciare dai due direttori dell’AEI, Kristene Doyle e Raymond DiGiuseppe, quest’ultimo anche professore di Psicologia alla St. John University di New York.

L’Advanced è un corso intensivo di quattro giorni che comprende, come il Primary, lezioni teoriche ed esercitazioni di “peer counseling”. L’obiettivo principale dell’Advanced è l’apprendimento e l’approfondimento delle tecniche di disputa: disputa empirica, disputa logica e disputa pragmatica, condotte in vari stili differenti: socratico, didascalico, umoristico, immaginativo, comportamentale.

Nelle lezioni teoriche si illustrerà l’applicazione della Terapia razionale emotiva a problemi di coppia e a pazienti difficili. Le esercitazioni di “peer counseling” dell’Advanced sono focalizzate sulla disputa. Anche le esercitazioni dell’Advanced avvengono in gruppi di otto partecipanti seguiti da un singolo docente.

Programma dell’ Advanced Practicum

I partecipanti impareranno a:

  • applicare e approfondire intensamente le varie tecniche di disputa REBT;
  • comprendere la filosofia alla base della Terapia razionale emotiva;
  • comprendere come la Terapia razionale emotiva (REBT) concepisce il concetto di accettazione;
  • comprendere come la REBT concepisce l’alleanza terapeutica;
  • applicare la REBT a problemi relazionali e di coppia;
  • applicare la REBT a pazienti resistenti e difficili;
  • integrare nella REBT tecniche comporta-mentali e immaginative.

 

 

Il Corso di terzo livello: Associate Fellowship Certificate Program

L’Associate Fellowship Certificate Program è il più alto livello di apprendimento della Terapia razionale emotiva. Studi Cognitivi è lieta di poterlo offrire in Italia nel formato originale in cui è effettuato all’Albert Ellis Institute (AEI) di New York, condotto dai più prestigiosi e qualificati terapisti e supervisori REBT certificati a livello internazionale, a cominciare dai due direttori dell’AEI, Kristene Doyle e Raymond DiGiuseppe, quest’ultimo anche professore di Psicologia alla St. John University di New York.

L’Associate Fellowship Certificate Program è un corso intensivo di quattro giorni che comprende, come il Primary e l’Advanced, lezioni teoriche, esercitazioni di “peer counseling” e ascolto e analisi di segmenti di sedute registrate dei partecipanti.

Le esercitazioni di “peer counseling” dell’Associate Fellowship Certificate Program sono focalizzate sull’ascolto e analisi critica di sedute registrate e/o descritte dettagliatamente per iscritto. Anche le esercitazioni dell’Associate Fellowship avvengono in gruppi di otto partecipanti seguiti da un singolo docente.

Programma del corso:

Gli obiettivi principali dell’Associate Fellowship sono:

  • l’applicazione delle tecniche di accertamento e disputa al cliente resistente e difficile;
  • l’apprendimento della teoria cognitiva e REBT dei disturbi di personalità;
  • l’applicazione delle tecniche REBT ai clienti con disturbi alimentari e dipendenti da sostanze.

 

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Come sarà il 2016? Saremo più corretti, non solo politicamente

Questo articolo è stato pubblicato da Giovanni Maria Ruggiero su Linkiesta il 02/01/2016

Come sarà il 2016? L’obiettivo non sarà solo eliminare ogni aggressione, ma ogni minima ambiguità, ogni micro-aggressione. Micro-aggressione è la parola-chiave da imparare per il 2016.

Come sarà il 2016? Nel bene e nel male sarà più corretto –non solo politicamente- e socialmente civile del 2015. Si va in quella direzione. In una società differenziata in cui sempre più culture convivono e sono condannate a interagire, diventerà sempre più essenziale evitare ogni motivo di conflitto.

La società ci chiederà di diventare ogni giorno più controllati e attenti a ogni minima inappropriatezza verbale. L’obiettivo non è solo eliminare ogni aggressione, ma ogni minima ambiguità, ogni micro-aggressione. Micro-aggressione è la parola-chiave da imparare per il 2016. Ancora non è arrivata tra noi, ma circola ormai da anni nell’anglofonia, dove l’appropriatezza civile informa di sé ogni rapporto sociale.

Micro-aggressioni è un termine coniato dallo psicologo Chester M. Pierce negli anni ’70 e indica tutte le frasi, espressioni e comportamenti che posseggono, anche solo potenzialmente, un significato svalutativo verso gruppi di persone definiti dall’etnia, dall’orientamento sessuale, religioso o culturale (Pierce, 1977; Sue, 2007).

È un termine, micro-aggressioni, particolarmente utile per comprendere a fondo il suo parente stretto concettuale, il politicamente corretto. Il politicamente corretto esprime il giusto bisogno di rapporti sociali costruiti sull’irripetibilità dell’individuo libero e autonomo, in cui non si è prigionieri di alcun clan e gruppo sociale e in cui non si è etichettati semplicisticamente in base all’etnia, alla religione o alla preferenza sessuale.

L’alta faccia della medaglia è quel micro che rivela che questo bisogno, per realizzarsi è costretto a incarnarsi in un’ossessiva attenzione a qualunque micro-manifestazione che potenzialmente abbia un significato svalutativo, anche indiretto.

Questa pagina dell’ APA, ovvero la American Psychological Association riporta una particolareggiata casistica e nomenclatura, in qualche modo il moderno corrispettivo del rigido galateo di epoche passate. Non ci sono solo le micro-aggressioni, ma anche i micro-assalti, i micro-insulti e le micro-invalidazioni. I micro-assalti sono le azioni o insulti più coscienti e intenzionali, come gli epiteti razziali o l’uso della svastica. E su questi casi siamo tutti d’accordo. I micro-insulti sono più subdoli. Sono le comunicazioni verbali e non verbali che sottilmente trasmettono maleducazione e insensibilità e sviliscono il retroterra culturale di una persona. Le micro-invalidazioni sono le comunicazioni che sottilmente escludono o negano i pensieri, i sentimenti o le esperienze di una persona.

Questa tendenza molto probabilmente prenderà piede sempre di più anche da noi. Anche da noi ci sarà sempre più attenzione alle micro-aggressioni, malgrado millenni di abitudine italiana a una comicità aggressiva e feroce, dai fescennini degli antichi romani alla commedia dell’arte.

Malgrado qualche eccesso, la tendenza alla correttezza è positiva, è espressione della benedetta tendenza umana a diminuire sempre di più la violenza e l’aggressività. Lo dimostra lo psicologo Steven Pinker in un bel libro: ‘Il declino della violenza’ (Pinker, 2013).

Anche perché il fronte opposto sembra indebolirsi ogni anno che passa. Tutti i tentativi di proporre alternative al politicamente corretto, ovvero delle zone franche di scorrettezza, sembrano non riuscire a governare una irrimediabile tendenza alla deriva becera. Alcuni tentano di cavarsela avvolgendo le loro irriverenze con un velo di cultura. L’operazione per un po’ riesce, ma la necessità di doversi continuamente distinguere dalle forme più popolari e pecorecce di scorrettezza politica, che siano la Lega Nord in Italia o Donald Trump in USA, finiscono per condannare queste forme di scorrettezza politica al velleitarismo e al logoramento, nonché a una strana forma di snobismo rovesciato.

Fin qui tutto bene. Tuttavia quando andiamo a vedere gli esempi concreti riportati dal testo dell’APA la linea a favore della correttezza politica mostra anch’essa delle crepe. Gli esempi sono abbastanza inquietanti. Secondo l’APA chiedere a un afro-americano come ha ottenuto il suo lavoro è un micro-insulto, perché insinua che lo abbia ottenuto attraverso una affirmative action. E chiedere a un asiatico-americano dove sia nato è una micro-invalidazione, perché trasmette il messaggio che essi siano stranieri perpetui. Nel dicembre 2014 Jeannie Suk ha scritto sul New Yorker che gli studenti di legge a Harvard chiedono di essere avvertiti dell’eventualità che a lezione si parli della legislazione penale dei casi di stupro per non correre il rischio di subire ricordi traumatici.

Secondo i due sociologi Bradley Campbell e Jason Manning il politicamente corretto coincide con un vero e proprio cambio di paradigma morale, forse il terzo grande cambiamento socio-morale dell’umanità in epoca storica.

Il primo paradigma fu quello dell’onore e della reputazione, in cui ogni individuo poteva e doveva rispondere con la violenza a ogni attacco al proprio rango sociale. Questo paradigma ha dominato le età guerriere e nobiliari ed è entrato definitivamente in crisi con la modernità. Tuttavia il processo di deterioramento di questa visione morale era già iniziato da millenni con la comparsa dei grandi sistemi di pensiero religioso e morale dell’età assiale, ovvero dal VI secolo A.C. in poi. Questi sistemi comprendono il profetismo ebraico, la filosofia greca, il cristianesimo e anche il buddismo, tutti fenomeni storici non a caso disprezzati dal superomismo di Nietzsche (con la parziale eccezione del buddismo, di cui Nietzsche non colse la natura anti-eroica e anti-aristocratica).

Nell’età moderna, con il sorgere dello Stato di Diritto a seguito delle grandi rivoluzioni inglese, americana e francese il paradigma dell’onore (honor) è sostituito da quello della dignità (dignity). L’individuo è un cittadino fornito di diritti e intrinsecamente fornito di dignità personale inalienabile da qualunque offesa. Il cittadino, a differenza del guerriero e del nobile, non dedica energie a custodire il suo onore e a vendicare col sangue offese perpetrate al suo rango.

Il terzo paradigma è quello attuale del politicamente corretto. In questo paradigma la sensibilità a qualunque offesa è di nuovo elevata, un po’ come nel primo paradigma, quello dell’onore. È curioso osservare come anche il paradigma dell’onore fosse sensibilissimo a ogni micro-offesa e che ogni sgarro era lavabile con il sangue. La letteratura è piena di questi esempi, dal conflitto d’onore tra Achille e Agamennone alle vicende del puntiglio nei Promessi Sposi, vero poema della vacuità dell’onore: da Fra Cristoforo che in giovinezza e prima di farsi frate duella per un problema di precedenza in strada a Don Rodrigo che perseguita Renzo e Lucia per conservare l’onore messo in pericolo in una futile scommessa.

Tuttavia il politicamente corretto rovescia sia la direzione delle micro-aggressioni che le modalità di soddisfazione. Nel mondo dell’onore sono le classi dominanti a essere sensibilissime alle offese e la soddisfazione avviene per impegno personale: il duello. Nel politicamente corretto invece è il soggetto debole a essere sensibile a ogni possibile offesa e la soddisfazione avviene in maniera impersonale, ricorrendo alla legge.

Formulato in questa maniera, il politicamente corretto non è esente da rischi. Non a caso Campbell e Manning lo chiamano paradigma della victimhood, ovvero del vittimismo, termine non esattamente lusinghiero. Chi ne ha sottolineato questi rischi è Jonathan Haidt, un filosofo che da anni di occupa di dilemmi morali. Egli è stato tra i primi a notare come la victimhood, pur discendendo dalla dignity, ha singolari punti di contatto con il paradigma dell’honor.

Forse questa è una delle chiavi con le quali possiamo rispondere a uno dei più singolari paradossi dell’età contemporanea: come è possibile che Nietzche, il cantore della morale guerriera e aristocratica dell’onore e della sopraffazione sia anche diventato un ispiratore del pensiero progressista? E come altresì sia possibile che questo pensiero progressista possa a volte essere tentato di ripudiare il cristianesimo, che è una religione della vittima? Forse per questi intrecci confusi tra onore arcaico e moderna senibilità alle micro-aggressioni.

Haidt, con le sue riflessioni sui tre paradigmi delineati da Campbell e Manning, ci avverte sui rischi di questo innesto di ipersensibilità arcaica all’offesa nella modernità. La nuova cultura morale del vittimismo può favorire il logoramento della capacità individuale di gestire i piccoli problemi interpersonali della quotidianità. Si crea una società di conflitti morali costanti e intensi, in cui le persone competono per ottenere i vantaggi della condizione di vittime e/o difensori delle vittime.

Strategie di Regolazione emotiva: le emozioni regolano e sono regolate

Strategie di regolazione emotiva: Le teorie funzionaliste sulla regolazione emotiva enfatizzano il modo in cui le emozioni possano facilitare l’adattamento all’ ambiente favorendo la preparazione di rapide risposte comportamentali, la presa di decisione, i processi cognitivi e attentivi, la registrazione in memoria di eventi significativi e fornendo informazioni aggiornate riguardo la corrispondenza tra l’organismo e l’ambiente circostante.

Roberta Casadio, OPEN SCHOOL STUDI COGNITIVI MODENA

Cosa sono le emozioni: le teorie

Secondo Scherer (1984), il termine “stati affettivi” comprende diverse condizioni, incluse “risposte allo stress”, “emozioni”, “umore” e “altri impulsi motivazionali”. Questi termini sono differenziati sia concettualmente che empiricamente. Le emozioni sono un tipo di stato affettivo specifico, sono elicitate da uno stimolo (interno o esterno) saliente agli scopi dell’individuo e hanno una temporalità relativamente breve (Gross & John, 1995).
Nonostante negli ultimi anni ci sia stata una proliferazione della letteratura scientifica a proposito di regolazione emotiva, ancora oggi non è chiaro se con questo termine ci si riferisca specificatamente alla funzione regolatoria che le emozioni esercitano su altri processi, oppure a come le emozioni siano regolate.

Le teorie funzionaliste sulla regolazione emotiva enfatizzano il modo in cui le emozioni possano facilitare l’adattamento all’ambiente favorendo la preparazione di rapide risposte comportamentali, la presa di decisione, i processi cognitivi e attentivi, la registrazione in memoria di eventi significativi e fornendo informazioni aggiornate riguardo la corrispondenza tra l’organismo e l’ambiente circostante (Schwartz & Clore, 2003). Le emozioni hanno anche delle funzioni regolatrici sociali; esse infatti forniscono informazioni sulle intenzioni degli altri, sulla bontà di una data situazione, scritturano i nostri comportamenti sociali e utilizzano rappresentazioni mentali esistenti come script per agire in situazioni socialmente simili (Keltner & Kring, 1998).

La regolazione emotiva

Generalmente quando pensiamo alla regolazione emotiva, sopratutto nella cultura occidentale, facciamo subito riferimento alla capacità dell’individuo di diminuire gli aspetti esperienziali ed espressivi di emozioni negative quali rabbia, paura e tristezza (Gross, Richards & John, 2006). Questo non vuol dire che le emozioni positive non siano regolate; anch’esse lo sono, ad esempio quando cerchiamo di trattenere la nostra gioia o la nostra attrazione verso un oggetto. Di fatto, uno dei presupposti di partenza nella regolazione emotiva è che esse insorgono quando è presente una situazione saliente e che qualunque sia la situazione, è il significato che le viene assegnato a determinare l’ emozione connessa. Qualora il significato cambiasse (perché è cambiata la situazione o perché è cambiato il significato che vi è stato assegnato), allora anche l’emozione connessa cambierà.

Non esistono assunzioni a priori di come una strategia di regolazione emotiva sia funzionale o meno (Thompson & Calkins, 1996). Questa specificazione è importante poiché evita la confusione che si è creata nella letteratura sullo stress e sul coping (strategie di fronteggiamento) laddove le “difese” erano considerate non adattive e le “strategie di coping” adattive (Parker & Endler, 1996). In questa prospettiva, le strategie di regolazione emotiva possono essere utilizzate per migliorare o peggiorare le cose in base al contesto. Ad esempio, la capacità di abbassare l’ intensità emozionale potrebbe essere utile ad un medico per operare in una condizione di stress, ma allo stesso tempo, potrebbe neutralizzare le emozioni negative associate all’empatia, e quindi renderlo meno accogliente e comprensivo nei confronti di un paziente. Questo significa che un sistema di regolazione emotiva, per essere efficace, deve essere flessibile e responsivo ai cambiamenti contestuali e nello stesso tempo mantenere il proprio equilibrio.

Strategie di regolazione emotiva

Tuttavia, studi empirici dimostrano come alcune strategie possano considerarsi più adattive di altre (ie. Hopp, Troys & Mauss, 2010).

Strategie di regolazione emotiva adattative

Di seguito, sono descritte 3 strategie di regolazione emotiva adattive:

– Ristrutturazione cognitiva (reapprisal): consiste nella generazione di interpretazioni o prospettive positive su una situazione stressante, in modo da ridurne gli effetti negativi.

– Problem-Solving: è un tentativo volontario di cambiare una situazione stressante o di contenere le sue conseguenze.

– Accettazione: con questo termine ci si riferisce all’ accettazione non giudicante della esperienza emozionale.

Strategie di regolazione emotiva non adattative

3 strategie di regolazione emotiva non adattive nel lungo termine:
– Soppressione della esperienza emozionale
– Evitamento: due sono le modalità con cui si può mettere in atto questa strategia; una si riferisce alla dimensione esperienziale dell’emozione, mentre l’altra a quella comportamentale.
– Rimuginio e ruminazione: invece che evitare o sopprimere l’esperienza emozionale, certi soggetti regolano le proprie emozioni soffermandosi in modo ripetitivo sull’ esperienza di tali emozioni, le loro cause e le loro conseguenze.

Questa classificazione suggerisce l’importanza di valutare e lavorare sulle strategie di regolazione emotiva in psicoterapia, e di considerare come il loro utilizzo inflessibile possa contribuire all’ insorgere e al mantenimento di un disturbo.

Il tormento del cercatore di tracce Parte III – Tracce del tradimento nr. 39

TRACCE DEL TRADIMENTOIl tormento del cercatore di tracce Parte III (Nr. 39)

 

Un altro errore caratteristico che ci mette sulle tracce dell’ immaginare un tradimento è quello che viene chiamato il ragionamento emotivo. Ovvero utilizzare le conseguenze come conferma delle cause secondo un ragionamento del tipo ”se sento gelosia, vuol dire che c’è un motivo valido”.

Lo stato emotivo può essere preso come fonte di informazione sul mondo (affect as information); operando una sorta di ragionamento emozionale, il soggetto utilizza lo stato affettivo come informazione confermante la percezione di tradimento (non discrimina tra fatti e stato emotivo). Se mi sento così ci sarà pure un motivo, quante volte viene sostenuto che qualcosa è vera semplicemente perché il soggetto “se lo sente”. Esistono inoltre un’altra serie di bias cognitivi che si presentano sistematicamente e che vanno a rinforzare il confermazionismo.

L’ esagerata fiducia in se stessi (overconfidence) consiste nel fatto che gli individui tendono ad essere sicuri delle loro credenze molto più di quanto esse siano realmente affidabili e ciò aumenta con la competenza per cui spesso facciamo grandi errori proprio nei campi in cui siamo più esperti e siamo assolutamente certi di aver ragione. Una cosa su cui quasi tutti, spesso a torto, ritengono di essere competenti è la conoscenza del proprio partner e quanto più riteniamo di conoscere una persona, tanto più siamo poco disposti a cambiare idea nei suoi confronti. Per questo il tradito (non geloso) è classicamente l’ultimo a rendersi conto del tradimento assolutamente evidente a tutti. Al contrario il cercatore certo di aver capito cosa alberga nel cuore del partner non sarà facilmente disposto a mettersi in discussione.

Un altro caratteristico errore cognitivo è il pensiero magico (illusory correlations) per cui quando si è convinti di una correlazione positiva tra due eventi se ne trovano continuamente nuove ed evidenti conferme che ne giustificano le cause anche se ciò è del tutto falso ed illusorio. Se l’attenzione è rivolta ad una particolare persona come possibile insidioso rivale il cercatore troverà mille collegamenti tra il suo partner, i suoi oggetti, le sue preferenze e in generale la sua vita e il presunto rivale e tutto varrà come conferma della nascosta relazione. Si va dalla complementarietà dei segni zodiacali alla preferenza per lo stesso genere musicale, dal comune interesse per la montagna al concomitante raffreddore, dalla simile opinione politica alla simpatia per una certa razza di cani. E’ ovvio che tra due qualsiasi persone, anche molto diverse tra loro, sono innumerevoli se non infinite le correlazioni del genere che si possono trovare nella loro vita: basta cercare e sbocceranno come fiori.

Un altro tipico errore cognitivo utilizzato dai cercatori è il cosiddetto ancoraggio (anchoring) secondo il quale la revisione di un giudizio intuitivo, impulsivo, non sarà mai tale da annullarlo del tutto e inconsapevolmente resteremo sempre ancorati al giudizio iniziale facendo soltanto delle correzioni a partire da questo. Detto in altre parole se si afferma una cosa, magari è esagerata ma qualcosa di vero deve pur esserci. Se in campagna elettorale vengono promessi un milione di posti di lavoro e poi tale risultato non viene raggiunto comunque la gente penserà che i posti creati siano vicini a questa cifra e non che siano soltanto quarantacinque. Ancora se un individuo viene accusato di crimini orrendi anche se in seguito risulta completamente scagionato si tenderà a pensare che qualcosa di losco dovesse pur esserci cosicchè la calunnia, anche quando si dimostra palesemente tale, raggiunge in parte il suo scopo. Questo meccanismo che ci rende cognitivamente conservatori e poco inclini a cambiare idea radicalmente è particolarmente attivo quando la ricerca delle tracce viene attivata da voci, consigli di persone che si preoccupano del bene del soggetto e dunque lo vogliono mettere in guardia per evitargli penose sofferenze. Questo punto è  importante, ci sarebbe da chiedersi quali siano gli scopi di chi si mette sulle tracce di un tradimento.

Peppino viveva in una isola siciliana e aveva sposato una moglie più giovane di lui con la quale aveva avuto 4 figli. La coppia non andava molto d’accordo, ma avevano un affetto reciproco e una conflittualità che in fondo li divertiva. Quando il più grande andò a fare la prima elementare a Messina, la moglie nel periodo scolastico si trasferì a Messina con lui. Lì si fece qualche amica e cominciò ogni tanto ad andare al bar e a chiacchierare con le amiche mentre i figli le stavano intorno. Al marito arrivò una lettera anonima che gli diceva di stare attento alla moglie…
Lui andò a Messina e si nascose per vedere come andavano le cose. Nascosto tra i cespugli vide sua moglie che entrava al bar con i bambini piccoli, salutava il cameriere, era accolta con un sorriso dal padrone del caffè e faceva due battute con un signore vicino, mentre aspettava le amiche. Questo comportamento della moglie gli sembrò la conferma del tradimento avvenuto o incombente. L’anno dopo decise di trasferirsi in America dove aveva dei parenti per far sì che la moglie fosse sotto controllo. Il trasferimento in America, che lo fece disperare, rovinò il suo matrimonio e alla fine di tutto lui restò solo, tornò in Italia e i figli rimasero negli Stati Uniti ed egli li vede quando vengono a trovarlo nel periodo estivo..

Dei possibili tradimenti si parla molto, anzi spesso è uno degli argomenti di intrattenimento preferiti. Le donne non amano particolarmente parlare dei propri ma si dilungano su quelli veri o presunti delle loro amiche e in generale degli uomini, tranne quelli del loro uomo. Gli uomini con gli amici più intimi parlano più facilmente dei loro e spesso li esibiscono a dimostrazione della loro virilità come trofei di caccia, con meno facilità ammettono di essere perdutamente innamorati e narrano con imbarazzo ciò che tale sentimento li ha portati a fare. Comunque sia di tradimenti si parla molto, sia di quelli effettivi che di quelli solamente immaginati che passando di bocca in bocca acquistano consistenza, diventano reali e si arricchiscono di particolari. In questo modo il fenomeno dell’ancoraggio ha buon gioco. Le fanciulle di Don Giovanni non saranno state mille e tre ma certo qualcosa di molto simile, certamente non meno di duecento.

Tra tutti i bias cognitivi il più insidioso per il cercatore è la facile rappresentabilità (ease of representation) secondo la quale l’effettiva possibilità che un certo evento si verifichi è sovrastimata se l’evento è facile da immaginare mentalmente e se ci impressiona emotivamente. Così se vediamo un grave incidente stradale siamo portati a rallentare come di fronte ad una pubblicità emotivamente forte sui rischi della strada anche se queste due situazioni non aumentano di fatto la probabilità che ci capiti un incidente; lo stesso effetto di rallentamento non lo ottengono invece le statistiche sulla mortalità stradale. Per lo stesso motivo tutti siamo più disposti ad offrire soldi per la ricerca medica per malattie di cui conosciamo personalmente dei malati o abbiamo visto in televisione le immagini piuttosto che per malattie magari molto più diffuse e gravi ma che non ci rappresentiamo mentalmente. Ora nella mente di un cercatore l’immagine del tradimento è sempre presente, si impone con forza e più tenta di scacciarla (essendo impossibile cercare di non pensare a qualcosa se non pensandoci) più diventa invasiva. Egli rimugina costantemente sulle parole che si sono scambiati i due sospettati durante l’ultima cena in comune, cerca di mettere a fuoco alcuni particolari ingrandendoli fino a sgranarne l’immagine: nel salutarsi dove si è poggiata la bocca di lui in piena guancia o sull’incerto confine delle labbra? Quando lui le porgeva la mano per aiutarla a scendere dalla macchina quei due corpi non mostravano forse una intesa e una familiarità inconsueta per due conoscenti che si frequentano poco? Le risate di lei così eccessive alla battuta di lui sono iniziate prima di quelle degli altri, prima della conclusione della frase, quasi che lei già sapesse, che avesse già sentito quella storia? La narrazione che lei fa di una serie di eventi è come lacunosa, si stenta a seguirne il filo, solo lui capisce, annuisce, si diverte, è come se sapesse qualcosa che gli altri ignorano, condivide con lei delle conoscenze e dei riferimenti che gli altri non hanno? Il cameriere del ristorante che dovrebbe essere sconosciuto ha mostrato una confidenza eccessiva e forse la conoscenza dei gusti di lui come e se già vi si fosse recato in altre occasioni?

Il cercatore ha sempre in mente la scena del tradimento, si tortura immaginando i fotogrammi della sequenza dell’incontro gioioso dei due che si corrono incontro, li immagina che parlano di lui mostrando ora pena, ora ironia, costruisce decine di versioni di possibili modalità di rapporti sessuali, ogni luogo viene preso in considerazione come probabile alcova e ogni ginnastica amorosa è contemplata: probabilmente il Kamasutra è stato scritto dall’ immaginazione di un geloso. Il tradimento dunque è costantemente e dettagliatamente rappresentato in tutti i particolari nella mente del cercatore che proprio per questo finisce per stimarlo come assolutamente probabile: l’immaginazione costituisce una prova per l’esistenza della realtà, o meglio la crea dal nulla.

Infine l’ennesimo bias in cui cade il cercatore è la manipolabilità delle credenze attraverso copioni (reconsideration under suitable scripts) che consiste nel fatto che un evento giudicato altamente improbabile, come ad esempio un’ invasione italiana della Svizzera con la messa al sacco di Zurigo, venga giudicato estremamente più probabile dopo che al soggetto vengono narrati degli scenari intermedi che potrebbero, passo dopo passo, condurre a tale conclusione come ad esempio la secessione della Padania, l’alleanza della Padania con la Svizzera, il rimpatrio di tutti i lavoratori italiani in Svizzera con la confisca dei loro beni e così via. Tracciare una sequela di eventi concatenati plausibili anche se altamente improbabili rende immediatamente meno apparentemente improbabile l’evento finale di quanto non lo fosse se considerato separatamente. Il cercatore è il narratore e l’ascoltatore allo stesso tempo. Spesso il partner e l’ipotetico rivale sono due persone estremamente distanti, la loro possibilità di incontrarsi vicina allo zero e sussistono tutta una serie di ostacoli che renderebbero il tradimento praticamente impossibile. Allora il cercatore inizia a costruire gli scenari intermedi, a mettere ponti e passaggi per colmare la distanza, quello che sembrava impossibile diventa via via proponibile, forse verosimile e finalmente vero.

Tra il mondo di lui manager di una casa farmaceutica di Milano e lei casalinga di Catania sembra non esserci nulla da spartire. Eppure lei ha una figlia adolescente, questa figlia può essere stata male di una malattia poco nota, può essersi recata al Niguarda dove c’è un gruppo di specialisti che si occupa di tale patologia, questi possono aver chiesto alla casa farmaceutica di riattivare la produzione di un farmaco poco usato, la donna, vedova, può aver voluto incontrare i dirigenti dell’azienda che si sono mostrati sensibili alla problematica della figlia, per mostrargli tutta la sua gratitudine e lo ha invitato a visitare l’ospedale di Catania dove la terapia sarà praticata, lui ha scoperto un gruppo di medici a Catania decisi a portare avanti una sperimentazione che l’azienda sponsorizza e per questo deve recarsi spesso in Sicilia.

Tutte queste modalità tendono dunque a trovare la conferma delle proprie ipotesi ed a convincersi di esse sempre di più. Di conseguenza quanto più il sospetto del tradimento si fa consistente, tanto più le strategie di ricerca vengono intensificate. Si crea dunque un circolo vizioso in cui il sospetto alimenta la ricerca ma i bias confermazionisti utilizzati nella ricerca aumentano il sospetto. Tutto ciò può assumere intensità drammatiche fino a sfociare in un vero e proprio delirio di gelosia caratterizzato dalla certezza assoluta dell’infedeltà del partner, certezza resistente ad ogni critica e inattaccabile da ogni evidenza contraria.

Quello che ci preme sottolineare per concludere è che la trappola scatta quando il soggetto decide che quello che non deve assolutamente verificarsi è di essere tradito senza accorgersene e dunque stima molto più grave sbagliare su questo che commettere l’errore opposto e cioè ritenere erroneamente di essere tradito: egli attribuisce ai due errori due pesi molto diversi. Da quel momento egli smette di essere un giudice imparziale che vaglia tutte le prove e ricerca soltanto quelle a favore del tradimento; in questa ricerca non può mai placarsi, anche se non ha trovato nulla fino ad ora non può abbassare la guardia perché potrebbe trovarle in futuro e poi per i meccanismi che abbiamo descritto tutto può diventare una prova o perlomeno un indizio.

 

RUBRICA TRACCE DEL TRADIMENTO

Vittime di reato, da oggi aumenta la protezione: estesa agli adulti la Convenzione di Lanzarote

Convenzione di Lanzarote estesa anche agli adulti vittime di reato

Cambiano le regole sulla tutela delle vittime e dei testimoni di reato in sede di ascolto giudiziario: oggi, con l’entrata in vigore del decreto legislativo n. 212, la normativa della Convenzione di Lanzarote – finora riservata ai minori – si estende anche gli adulti in condizione di “particolare vulnerabilità”.

COMUNICATO STAMPA – ORDINE DEGLI PSICOLOGI DEL LAZIO

Per loro, in sede di colloquio, obbligatoria la presenza di psicologi e neuropsichiatri a fianco della polizia giudiziaria. Gli effetti di questo passaggio e delle modifiche normative introdotte dal 2012 a oggi al centro di un convegno organizzato dall’Ordine degli Psicologi del Lazio.

Da oggi, anche gli adulti vittime di reati potranno beneficiare delle misure di protezione già previste per i bambini nella legge di ratifica della Convenzione di Lanzarote. Con l’entrata in vigore del decreto legislativo n. 212 del 15 dicembre 2015 -in attuazione della direttiva 2012/29/UE del Parlamento europeo -le norme minime in materia di diritti, assistenza e protezione delle vittime di reato in sede di ascolto giudiziario si estendono infatti a tutti i soggetti in “condizione di particolare vulnerabilità”: vittime di reati violenti o comunque impattanti sul loro stato emotivo – come gli stupri o la violenza di genere – ma anche in difficoltà per cultura, lingua, stato emotivo, disabilità.

Le conseguenze di questo passaggio, assieme all’analisi della normativa in materia e delle buone prassi messe in atto in questi anni nel territorio di competenza della Procura della Repubblica di Roma, sono state oggetto del convegno “Tre anni da Lanzarote: primi dati, buone pratiche, problemi aperti”, organizzato dall’Ordine degli Psicologi del Lazio e dalla Scuola Superiore della Magistratura in collaborazione con l’Ordine degli Avvocati presso la Corte d’Appello di Roma.

Negli ultimi vent’anni, anche per effetto delle sollecitazioni sovranazionali e dell’adeguamento della normativa nazionale, l’attività di ascolto giudiziario in ambito penale ha conosciuto significativi progressi, soprattutto con riferimento a bambini e adolescenti. Si è infatti assistito ad un impegno normativo, istituzionale, scientifico e operativo orientato verso una crescente e sempre più specializzata attenzione alle vittime dei reati. Da una parte, il sapere psicologico ha approfondito le conoscenze sulle conseguenze (psicologiche, economiche e sociali) vissute dai soggetti interessati; dall’altra, il legislatore ha rafforzato il sistema degli strumenti di protezione.

Con l’approvazione della Legge di Ratifica della Convenzione di Lanzarote è stato conferito un ruolo determinante, nel procedimento penale, alla presenza di “esperti in psicologia o psichiatria infantile”, impegnati nella raccolta delle dichiarazioni di persone minorenni ed eventualmente di “maggiorenni in condizione di particolare vulnerabilità”, possibili vittime e/o testimoni di una vasta gamma di reati, dall’abuso sessuale al maltrattamento e alla violenza assistita.

La stessa legge introduce delle modifiche nell’ordinamento penitenziario rispetto al tema del trattamento psicologico per le persone condannate per reati di tipo sessuale, rinnovando l’esigenza di comprendere come migliorare non solo le misure di protezione per le vittime ma anche gli interventi di prevenzione della recidiva per gli autori.

«Le misure di protezione previste a partire dalla legge di ratifica della Convenzione di Lanzarote -ha spiegato Pietro Stampa, vice presidente dell’Ordine degli Psicologi del Lazio – hanno rappresentato un importante antidoto ai rischi della cosiddetta “vittimizzazione secondaria”, ovvero le ripercussioni negative che una macchina della giustizia concepita per regole, luoghi e tempi a misura di adulto, poteva avere sul benessere e il superiore interesse dei bambini. L’estensione della normativa a tutti i soggetti in condizione di particolare vulnerabilità, stabilendo l’obbligatorietàà della presenza di psicologi e neuropsichiatri infantili al fianco della polizia giudiziaria in sede di colloquio, rappresenta un ulteriore passo in avanti nella tutela della persona, aspetto per noi psicologi prioritario».

Fin dal 2012 la procura di Roma, prima in Italia, si è attivata per tradurre in azioni concrete e procedure operative quanto deciso a livello legislativo: con l’allestimento di uno spazio attrezzato per le audizioni protette delle vittime, ad esempio, oltre che con la predisposizione di una turnazione di un gruppo di “esperti in psicologia e psichiatria infantile” reperibili 24h su 24h e di un team di magistrati specializzati nel trattare “delitti contro la libertà sessuale, la famiglia ed i soggetti vulnerabili”, coordinato dalla Procuratrice Aggiunta dott.ssa Maria Monteleone.

La stessa dott.ssa Monteleone è intervenuta nel corso del convegno presentando gli esiti del lavoro condotto in questi anni, in cui gli psicologi al fianco dei magistrati e della polizia giudiziaria hanno affrontato la gestione della delicata fase di raccolta delle primissime dichiarazioni di molti bambini, bambine e adolescenti coinvolti – come vittime o anche solo come testimoni – in diverse tipologie di reati: prostituzione minorile, maltrattamenti in famiglia, abuso sessuale, violenza domestica assistita, “stalking”, “grooming”(l’adescamento on line, una delle nuove previsioni delittuose introdotte con la legge 172 nel 2012).

«Purtroppo – ha dichiarato Vera Cuzzocrea, psicologa giuridica dell’Ordine degli Psicologi del Lazio – le evoluzioni normative che sono state prodotte in questi anni e che hanno rafforzano le misure di protezione per le vittime, non hanno parimenti riguardato anche gli autori dei reati. Nonostante un lieve accenno in una legge di quasi un decennio fa, che prevedeva l’istituzione di un fondo per il trattamento dei colpevoli di reati di abuso e sfruttamento sessuale anche al fine di prevenirne la recidiva, il nostro Paese ancora non prevede un intervento specifico in materia. Né sono ancora stati attivati i servizi di giustizia riparativa voluti dalla Direttiva 2012/29/UE del Parlamento europeo».

«La legge di ratifica della Convenzione di Lanzarote – ha proseguito Cuzzocrea – si è però finalmente espressa in tal senso, introducendo delle modifiche nell’ordinamento penitenziario rispetto al tema del trattamento psicologico per le persone condannate per reati di tipo sessuale. Ma non basta. Il fenomeno della violenza deve ancora essere affrontato con la complessità che merita, come richiamato dai principi espressi dalla normativa europea, intervenendo cioè su più livelli (autori e vittime) e attraverso vari ambiti e tipologie di intervento: culturale, mediante la messa in atto di progettualità di prevenzione primaria, ma anche giudiziario e normativo, con il rafforzamento delle tutele previste per le vittime e delle opportunità rieducative per gli autori».

 

Giuliano Lesca
Addetto stampa Ordine degli Psicologi del Lazio
Via del Conservatorio, 91 (00186) Roma
Tel.: 06 36002758
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