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Chi sono i buoni, i brutti e i cattivi del 2015? La psicologia dove si colloca?

Questo articolo è stato pubblicato da Giovanni Maria Ruggiero su Linkiesta il 26/12/2015

 

L’anno finisce, ed è tempo di bilanci e di esami di coscienza. Com’ è andata nel 2015? Chi sono stati i buoni e i cattivi? La strega della psicologia, che ha giurisdizione su questi temi, che ci dice? Googlando “buoni” e “cattivi” e “2015” cosa esce fuori, accostando la parola “psicologia”?

In italiano è saltato fuori il solito dibattito sui videogiochi violenti, non si capisce se innocui, utili o dannosi. No, non è interessante. I cattivi sono quelli che continuano a rimuginare sui videogames invece di raccontare la favola di Pollicino e i suoi fratelli ai loro bambini. Una favola violentissima, leggere per credere. In inglese, dopo strani eventi e pubblicazioni che si intitolano al gioco di parole con il buono, il brutto e il cattivo (Sergio Leone è un meme irresistibile nell’anglofonia) trovo qualcosa di davvero interessante qui, dove si insinua il dubbio che la “cattiva” del 2015 sia proprio la psicologia.

È per caso la psicologia una “bad science”? Un gruppo di ricercatori ha ripetuto una serie di studi sperimentali risalenti al 2008 e solo i risultati di un terzo degli studi sono stati replicati. Risultato desolante, almeno apparentemente. La psicologia è una scienza che continua a essere inaffidabile e poco esatta in un mondo ormai dedito a saperi precisi e inesorabili? Non è così semplice. Il risultato è desolante solo per chi si è nutrito dell’epica di Popper e del metodo scientifico, sempre riproducibile e falsificabile a volontà. La scienza è un metodo, non una mannaia che cala su ogni singolo risultato scientifico. Che solo un terzo dei risultati pubblicati sia poi replicabile, e quindi a rigore “vero”, accade anche in altri rami della scienza con la fama di essere più esatti.

La pubblicazione è frutto di una selezione che tiene conto del rigore metodologico. Di qui a dire che i risultati pubblicati siano già così filtrati da essere tutti replicabili ce ne corre. È il tempo e la comunità scientifica intera che negli anni, anzi nei decenni, seleziona i (pochi) risultati alla lunga davvero significativi. E quindi veri. Ogni ricercatore ha le sue distorsioni e cerca di pubblicare con tutte le sue forze e con tutta l’anima i risultati che confermano le sue idee. Tutta l’epica di Popper dello scienziato che cerca di confutare le proprie stesse idee è un racconto un po’ ingenuo, fatto da un filosofo che non ha mai tirato la carretta del lavoro scientifico, un lavoro molto meno gratificante e divertente di quel che sembra. Occorre pubblicare, pubblicare e pubblicare. O morire: publish or perish.

In altre discipline la situazione non è diversa. Prendi la ricerca biomedica, che influisce sulle vite e sulla salute di milioni di persone. Mica come quell’ancella della psicoterapia, sempre a metà strada tra scienza e suggestione. Ebbene, più della metà dei risultati biomedici non è riproducibile! Per dieci anni C. Glenn Begley e la sua squadra hanno lavorato come responsabili della ricerca sul cancro per la società farmaceutica Amgen e hanno cercato di replicare cinquantatré studi di riferimento pubblicati su riviste e condotti da laboratori rispettati.

Quante volte sono riusciti a replicare i risultati? Solo sette volte. Sette su cinquantatré! E non è finita. A questo punto andiamo a leggerci Scientific American che riporta vari casi storici di risultati alla lunga significativi, ma a loro tempo non replicati e non replicabili. E “a loro tempo” può voler dire secoli, come nel caso del modello di Galilei, la cui definitiva replica arrivò solo nel 1851 (quasi trecento anni dopo) grazie al fisico francese Jean Bernard Léon Foucault con il suo famoso pendolo mentre le prove ideate e “dimostrate” sperimentalmente da Galilei in persona risultarono alla lunga deboli (e alcune sballate).

Insomma, la psicologia è una scienza strana, così come la psicoterapia, ma non è la racchia e brutta del mazzo e nemmeno la cattiva, e di storie da raccontare ne ha tante. È vero che ci sono almeno 400 modelli concorrenti di psicoterapia, roba da mettersi le mani nei capelli e disperarsi. E invece occorre mantenere la calma e lasciare fare al tempo della scienza, che svolgerà il suo crudele lavoro chiarificatore –già in corso- senza indulgere in fumose integrazioni che lasciano il tempo che trovano.

Non ci sono saperi cattivi, dunque, ma solo saperi parziali e fallibili. Sarebbe stato inutile, del resto, far cadere gli antichi dogmi per sostituirli con nuove divinità. E i buoni dove sono? Mah, forse occorre andare a cercare anch’essi in luoghi insospettati e poco usati. Su Psychology Today John Johnson riflette su egoismo buono e cattivo. Il rapporto tra cooperazione ed egoismo è complesso. E sebbene esista certamente un egoismo cattivo in cui il bene di qualcuno trae linfa dal male altrui, come accade nelle azioni criminali, esiste un egoismo buono che è presupposto di ogni possibile altruismo. Non posso dare nulla a nessuno se prima non me lo sono egoisticamente, procurato. È la logica win-win, in cui però c’è anche il mio win, il mio vantaggio personale. Un po’ come ci dicono gli assistenti di volo al decollo quando ci istruiscono sulle operazioni di soccorso: prima di salvare qualcuno salvate voi stessi. Prima di aiutare i bambini a indossare le maschere dell’ossigeno, indossatene una voi per primi. Altrimenti non avrete la forza di aiutare nessuno. Questi sono i buoni del 2015.

Come rovinarsi la vita di coppia sistematicamente di Rainer Sachse e Claudia Sachse (2015) – Recensione

Come possiamo evitare di restare incastrati in una buona relazione, stabile, banale, monocorde, priva di sfide eccitanti? Come possiamo portare un pizzico di sale, o meglio, qualche tossina, allo scopo di giocare un ruolo decisivo nel porre fine ad un rapporto monotono?

Rainer Sachse e Claudia Sachse, in questo libro edito da Feltrinelli, descrivono strade diverse per mettere il piede sull’acceleratore e rovinarsi la vita di coppia. Gli autori tracciano in modo ironico, provocatorio e paradossale il terreno su cui le coppie giocano il loro destino e sottopongono al lettore una domanda: che cosa costituisce una sfida eccitante nella relazione? Non è essa stessa una sfida più che eccitante? Vivere una relazione di coppia è forse una delle cose più complicate che l’essere umano possa tentare di fare; il sentiero è ricco di ostacoli e per sua natura già imprevedibile. Ci stupiamo di fronte alla durata dei rapporti, non di fronte alle sue crisi.

Nella prima parte (consigli per principianti) gli autori pongono l’accento sui motivi relazionali. In una relazione i partner necessitano di nutrimento emotivo, di una reciproca cura dei propri bisogni fondamentali: il bisogno di sentirsi riconosciuti, amati, confermati nel proprio valore; il bisogno di sentirsi importanti e di avere un ruolo rilevante nella vita dell’altro; il bisogno di percepire con sufficiente sicurezza che nonostante i conflitti non saremo di punto in bianco abbandonati; il bisogno di ricevere protezione, aiuto e sostegno in caso di bisogno; il bisogno di sentirsi indipendenti, autonomi, di poter disporre di un territorio personale con confini solidi, pur sentendosi vicini e insieme all’altro.

La sfida sta nel sentire i bisogni del partner, oltre che i propri, e adattarsi costantemente ai cambiamenti che avvengono nell’individuo, oltre che nella coppia. La relazione è un organismo vivente e se non ce ne prendiamo cura in maniera sempre rinnovata deperisce. Niente di più facile, come sottolineano gli autori. La negazione dei desideri più profondi del partner toglie linfa vitale alla relazione e predispone all’attivarsi di una serie di circoli viziosi.

Nella seconda parte del manuale (per i più esperti) gli autori chiamano in causa dinamiche più complesse, ricorrendo al concetto di giochi dello psicologo americano Eric Berne o giochi d’interazione. Questi giochetti sottili possono far naufragare la nostra relazione e, come effetto collaterale, noi insieme a lei. Gli autori descrivono diverse strategie che, se da una parte veicolano desideri e bisogni sottostanti, dall’altra rischiano di incastrare la relazione in circuiti autodistruttivi. Gli autori, privilegiando il paradosso e la provocazione, rendono palesi e caricaturali aspetti del funzionamento personale in cui tutti possiamo in qualche modo rispecchiarci. Fanno la differenza la costanza, l’intensità, la perseveranza, la flessibilità, la libertà e la consapevolezza con le quali possiamo dedicarci a qualcuna di queste strategie.

Questo manuale pronto all’uso, ha il pregio di illuminare in modo semplice la quotidiana sfida delle relazioni umane. La semplicità, la chiarezza e il tono ironico fanno comprendere ad ogni lettore l’esistenza di motivazioni, bisogni, desideri e il loro ruolo portante nell’architettura delle relazioni. D’altra parte non basta conoscere gli errori da evitare e non sempre un’esortazione sotto la formula di paradosso è la chiave per un cambiamento definitivo e duraturo. Di certo è facile rovinarsi la vita di coppia, e questo vale per tutti. Smettere di farlo e lasciarsi andare alle imprevedibili ripercussioni di un legame duraturo e profondo è di certo un’altra cosa: richiede un faticoso e, al tempo stesso, sorprendente percorso di conoscenza di sé.

Regolazione emotiva: un processo che inizia nei primi mesi di vita

Lo sviluppo delle emozioni e la regolazione emotiva nei bambini

Lo sviluppo psicologico del bambino appare strettamente connesso alle capacità di regolazione emotiva che il piccolo acquisisce nel corso della prima infanzia. Buone competenze di regolazione emotiva consentono un’efficace modulazione delle proprie emozioni (positive e negative) contribuendo a mantenere integra l’organizzazione comportamentale e psicologica dell’individuo.

Articolo di Di Egidio Marika, Di Francesco Federica 

 

Durante l’infanzia, in particolare nel primo anno di vita, la regolazione emotiva si configura come un processo essenzialmente diadico, in cui assume un ruolo fondamentale l’attività regolatoria svolta dal caregiver.

Sebbene numerosi indicatori attestino la natura organizzata delle emozioni infantili e la capacità dei lattanti di regolare attenzione e affetti – già a due mesi i bambini sono in grado di discriminare le espressioni facciali prodotte dagli adulti attribuendovi uno stato emotivo, di imitare le espressioni altrui e, soprattutto, di regolare la propria risposta emotiva sulla base degli indici espressivi forniti dal genitore – è pur vero che tali competenze, per potersi sviluppare in maniera compiuta, necessitano della presenza di un adulto sensibile e responsivo, in grado di interpretare i segnali del bambino e offrire il proprio aiuto al piccolo nella modulazione delle sue emozioni. In queste prime fasi del percorso evolutivo è dunque il caregiver a offrire la struttura esterna perché i processi regolatori possano svilupparsi e maturare, favorendo il passaggio dalla regolazione emotiva diadica all’autoregolazione.

Le osservazioni videoregistrate di interazione faccia-a-faccia dei bambini di qualche mese con le loro madri costituiscono una fonte straordinaria di conoscenza rispetto a queste tematiche, testimoniando come la disposizione del bambino alla comunicazione si alimenti di una regolazione reciproca che, all’inizio, è principalmente diretta dal genitore (Barone, 2007).

Regolazion emotiva: Il paradigma dello Still-Face

Una delle dimostrazioni più convincenti deriva dalle ricerche condotte utilizzando il paradigma della Still-Face (o paradigma del volto immobile; Tronick et al. 1978). Tale procedura consiste in un’osservazione strutturata che prevede tre brevi episodi sequenziali: nel primo episodio di interazione faccia-a-faccia la madre è chiamata a interagire con il bambino così come fa abitualmente, utilizzando la voce, le espressioni del volto, i gesti e così via; nel secondo episodio di Still-Face alla madre viene invece chiesto di assumere un’espressione del viso neutra e di restare immobile e in silenzio; nell’ultimo episodio la madre riprende l’interazione che aveva interrotto ricominciando a parlare e a interagire nella modalità abituale.

Le ricerche effettuate con questo paradigma sono riuscite a mettere in luce come il bambino, già a 3-4 mesi, si dimostri estremamente sensibile alle modificazioni dell’espressività materna, modificando a sua volta le proprie modalità comunicative. A fronte del volto non responsivo della madre, il bambino inizialmente intensifica i suoi sforzi comunicativi rivolti a quest’ultima accentuando il sorriso, le vocalizzazioni e l’intensità dello sguardo (Brezelton, Cramer, 1990, citato in Riva Crugnola, 2007); successivamente, in concomitanza della persistente inespressività del volto materno, fa ricorso a condotte di auto-regolazione emotiva volte a modificare i propri stati di disagio, sia evitandone il contatto, rivolgendo lo sguardo altrove e assumendo anch’egli una mimica inespressiva, sia ricorrendo alla stimolazione di parti del proprio corpo (mano in bocca, grasping di una mano sull’altra) e alla manipolazione dei propri indumenti (Riva Crugnola, 2007).

Le risposte comportamentali fornite dai lattanti sottoposti alla procedura di Still-Face manifestano in maniera evidente gli effetti della temporanea indisponibilità emotiva materna, rivelando un chiaro aumento dello stress e del disagio emotivo esperito dai bambini. Le stesse reazioni testimoniano, inoltre, il ruolo del genitore in qualità di regolatore esterno dello stato emotivo del bambino: quando la madre non può svolgere la sua normale funzione regolatoria, al piccolo non resta altro che attivare schemi comportamentali atti a ridurre i livelli di arousal per cercare di gestire, in maniera autonoma, lo stress emotivo generato dalla momentanea “assenza” del genitore.

Le strategie di regolazione emotiva dei bambini

A questo proposito Gianino e Tronick (1988, citato in Tronick, 2006) propongono di suddividere i comportamenti auto-regolatori dei bambini in due grandi categorie: autodiretti ed eterodiretti.
I primi riguardano strategie di regolazione emotiva volte a ottenere il controllo del proprio stato emotivo agendo su se stessi. Queste azioni permettono al bambino di controllare gli affetti negativi attraverso lo spostamento dell’attenzione dall’evento disturbante, o attraverso la sostituzione di una stimolazione negativa con una stimolazione positiva (Rothbart, Derryberry, 1984, citato in Tronick, 2006). Tra le principali strategie regolatorie autodirette è possibile annoverare comportamenti quali il distoglimento dello sguardo dallo stimolo fonte di stress – comportamento che, riducendo la frequenza cardiaca del bambino, contribuisce ad abbassare il livello di attivazione fisiologica del piccolo – e comportamenti auto-consolatori e auto-stimolatori quali il succhiare e manipolare parti del proprio corpo (dita, capelli, orecchie, ecc.) o dei propri indumenti (vestiti, seggiolino, ecc.), anche questi con effetto calmante sul bambino soggetto a condizione di stress.

Le strategie regolatorie eterodirette si presentano invece come strategie finalizzate a ottenere il controllo del proprio stato emotivo agendo sul partner adulto, affinchè intervenga per favorire una riduzione dei livelli di attivazione. Esempi di strategie eterodirette sono tutte quelle manifestazioni affettive in grado di svolgere una funzione di regolazione emotiva nei confronti del comportamento dell’interlocutore, in particolare: vocalizzazioni, espressioni facciali, tentativi di essere presi in braccio, attività motoria associata a stati di fastidio o nervosismo (ad esempio contorcersi ed agitarsi sul seggiolino), orientamento dello sguardo verso il viso del partner adulto.

Chiaramente la distinzione tra comportamenti autodiretti ed eterodiretti non è così netta e immediata. Anche i comportamenti autodiretti possono rappresentare una forma di comunicazione, trasmettendo al caregiver la valutazione del bambino circa il successo o il fallimento dei tentativi da lui compiuti e il suo stato emotivo. Il caregiver, di conseguenza, potrà agire sulla base di tale messaggio al fine di aiutare il piccolo a raggiungere i propri obiettivi regolatori e interattivi.

In generale, i comportamenti autodiretti ed eterodiretti fanno entrambi parte del normale repertorio di cui il bambino dispone per fronteggiare la tristezza, la rabbia e gli affetti positivi più accentuati che possono trasformarsi in distress. Entrambe le strategie consentono, infatti, al bambino di contenere gli effetti potenzialmente dirompenti che queste emozioni, nei loro aspetti più estremi, possono provocare sulle azioni che egli mette in atto nel tentativo di raggiungere i propri obiettivi (Tronick, 2006).

Sebbene l’apporto della relazione diadica con la madre sia evidente fin dalle prime settimane di vita, è all’età di 3-6 mesi che l’incidenza di tale relazione si rende più evidente: lo sviluppo delle capacità espressive, attentive, percettive, mnestiche e di sensibilità sensoriale, insieme alla continuità delle esperienze con il caregiver, favorisce l’inizio delle prime distinzioni preferenziali nei confronti di quest’ultimo e il ricorso a condotte di regolazione emotiva sempre più articolate e complesse, centrate sulla focalizzazione dell’attenzione verso gli oggetti e l’ambiente circostante o finalizzate a richiamare l’attenzione dell’adulto per ottenere supporto da quest’ultimo nella modulazione delle proprie emozioni (Kopp, 1989, citato in Riva Crugonola, 2007).

La mutua regolazione tra il bambino e il genitore continuerà a caratterizzare il processo di regolazione emotiva anche nei mesi successivi, restando la modalità elettiva di riferimento almeno fino al periodo prescolare. All’interno di questo ampio range temporale è comunque possibile evidenziare alcuni snodi fondamentali, il principale dei quali è rappresentato dalla comparsa, nel secondo anno di vita, di strategie auto-regolatorie più mature, fondate sulle crescenti competenze simboliche, linguistiche e cognitive sviluppate in questo stesso periodo dal bambino. Strategie regolatorie significative diventano allora il gioco simbolico, la narrazione o il ricorso a oggetti transazionali, che il piccolo può utilizzare per tranquillizzarsi, per esempio a fronte dell’assenza della madre (Riva Crugnola, 2007).

Alcuni fattori di rischio possono tuttavia compromettere questo processo evolutivo sovrapponendosi alle incipienti capacità regolatorie. Un esempio di tali fattori di rischio può essere rintracciato nelle caratteristiche temperamentali infantili. In proposito alcune ricerche attestano come le caratteristiche temperamentali del bambino influenzino il ricorso a strategie regolatorie che coinvolgono i processi attentivi (Rothbart, Ziaie, O’Boyle, 1992; Kopp, 2002, citati in Riva Crugnola, 2007); mentre altre mettono in luce una relazione significativa tra tratti temperamentali negativi e scarsa incidenza di condotte auto-consolotorie (Braungkart-Rieker, 1998).

Ciò nonostante è doveroso sottolineare come il temperamento non rappresenti una dimensione di personalità stabile, risultando piuttosto influenzato dalle esperienze di vita del bambino (Rothbarth, 1981), dalla qualità dell’ambiente di crescita e dalla qualità dell’interazione con il caregiver. Anche in presenza di un temperamento “difficile” la responsività del caregiver può giocare un ruolo rilevante nell’orientare lo sviluppo della regolazione emotiva in una direzione di progressiva riduzione delle difficoltà emotive del bambino (Barone, 2007).

Oltre al temperamento, un ulteriore fattore di rischio per lo sviluppo delle capacità regolatorie potrebbe essere l’influenza esercitata dalla qualità della relazione di attaccamento sviluppata dal caregiver nei confronti dei propri genitori. Il pattern d’attaccamento sviluppato dall’adulto può infatti influenzare in maniera determinante il suo comportamento e il grado di sensibilità mostrato nei confronti del bambino. Nel caso dell’attaccamento sicuro, ad esempio, la sensibilità materna è costante e congrua, favorendo l’attuazione di pratiche genitoriali idonee a garantire lo sviluppo di adeguate competenze regolatorie e di sicurezza emotiva nel bambino. Nel caso dell’attaccamento insicuro-evitante, invece, la sensibilità si mostra in maniera scarsa e parziale all’interno degli scambi madre-bambino, favorendo percorsi evolutivi inadeguati allo sviluppo di una piena e matura competenza regolatoria.

In quest’ottica, è possibile affermare che un clima familiare caratterizzato da conflitti, scarsa sensibilità e dal prevalere di affetti negativi potrebbe rappresentare un serio fattore di rischio per lo sviluppo della regolazione emotiva, determinando un forte disadattamento psicologico e scarsa sicurezza emotiva nel bambino. Viceversa, un ambiente familiare caratterizzato dalla presenza di relazioni stabili tra i genitori, da manifestazioni di affetto positivo e da sensibilità e attenzione per le richieste del bambino dovrebbe essere in grado di garantire lo sviluppo di pattern di regolazione ottimali e preservare i bambini dallo sviluppo di future psicopatologie.

Cosa vuol dire perdere la faccia nella società confuciana & le implicazioni sul valore personale

The Chinese Mind: cronache psicologiche dalla Cina

In accordo con l’etica confuciana, le persone sono in relazione le une con le altre, coinvolte in un dato evento devono guadagnarsi valutazioni positive da parte degli altri e proteggere la propria immagine pubblica e la propria reputazione sociale.

Carol, nome occidentale, nazionalità singaporiana, è manager in una multinazionale. Ha scelto di accettare una posizione di coordinamento a Shanghai.
Capita nel mio studio perchè si sente sotto pressione, riferisce di essere stressata, irritabile e facilmente affaticabile. Partiamo in quarta con un bell’ABC, il cui C è ansia, con comportamenti di controllo compulsivo della mail dal cellulare, la minaccia è la possibilità che una collega cinese possa scriverle mail aggressive in cui non vengano rispettati gli accordi presi.

Ci inoltriamo nei B. Il worst case scenario è qualcosa che mi è familiare riguarda la possibilità di prestazioni mediocri, il timore che gli altri possano pensare male di lei, e infine l’attacco al valore personale: “non valgo nulla”.
Si incastra bene in una delle caselline delle credenze irrazionali di Ellis, quella appunto relativa al valore personale. Un terreno sicuro e prevedibile per il terapista occidentale.

D’altro canto però, seppure Singapore sia un piccolo stato molto globale e con moltissime influenze del mondo occidentale, chi ho di fronte ha una fisionomia orientale, parla un perfetto inglese ma è madrelingua cinese e, come lei stessa si definisce, è in qualche misura cinese.
Allora è quanto meno doveroso provare ad aprire anche la finestrella mentale del concetto orientale-confuciano di faccia o mianzi.
In accordo con l’etica confuciana, le persone sono in relazione le une con le altre, coinvolte in un dato evento devono guadagnarsi valutazioni positive da parte degli altri e proteggere la propria immagine pubblica e la propria reputazione sociale.

Per faccia si intende la valutazione della propria immagine pubblica a seguito della considerazione dell’individuo riguardo l’impatto delle proprie azioni in una data situazione sociale (Brown and Lewinson, 1987). Un individuo può pensare che sta perdendo, mantenendo o incrementando la faccia immaginando la valutazione sociale della propria performance in una data situazione.

Attenzione: la faccia è contagiosa, si estende ai propri parenti, perdere o guadagnare faccia è un affare familiare. Secondo l’approccio confuciano l’individuo è letteralmente la continuazione dei propri genitori e dei propri antenati, e non solo per via del sangue ma anche in termini di reputazione sociale e morale. Il territorio del sè dunque include chi lo ha biologicamente generato, nonchè le precedenti generazioni. Più che “sangue del mio sangue”, spesso il figlio viene descritto cosi intimamente come “la propria carne e il proprio sangue”.

Ricordo un episodio estremo in cui a seguito di diversi errori in una prestazione, un padre cinese critica pesantemente il figlio già adulto (e questa non è una novità nemmeno in occidente), utilizzando parole dure e dolorose, dubitando della reale paternità (dunque, “non sei la mia carne”): il big self “gruppale, familiare” ha ripetutamente perso la faccia, le conseguenze sono emotivamente devastanti.
Quest’ottica è profondamente differente rispetto al mondo occidentale in cui il perdere la faccia implica sicuramente valutazioni negative da parte degli altri ma viene mantenuta una maggiore autonomia e separatezza dell’individuo rispetto al suo gruppo familiare; e parimenti una persona non è tenuta ad assumersi le responsabilità dei comportamenti di un proprio parente.

Quindi possiamo chiederlo a Carol che cosa significa per lei “non valere nulla”: non essere in grado di garantire stabilità economica oltre che ai propri figli, prima di tutto alla madre (fenomeno che rimanda anche al supporto intergenerazionale e pietà filiale nelle famiglie cinesi), significa far perdere la faccia, retrocedere nella marcia intergenerazionale della reputazione positiva del proprio gruppo familiare. Essere valutata negativamente rischiando il licenziamento significa mettere a rischio di collasso non una, bensì due se non tre generazioni (e attenzione, ancor di più la generazione passata dei genitori che quella futura dei propri figli!).

Burnout nei medici specializzandi: uno studio su tre scuole del Policlinico Umberto I di Roma

Questo articolo ha partecipato al Premio State of Mind 2014 Sezione Junior

Burnout nei medici specializzandi: uno studio su tre scuole del Policlinico Umberto I di Roma

Autore: Rosanna Ciuffo (Università La Sapienza di Roma)

 

Abstract

Con il termine burnout è stato descritto il malessere psico-sociale che nasce da un impegno eccessivo nel lavoro, l’esito patologico di un processo stressogeno che colpisce le helping profession qualora queste non gestiscano in maniera adeguata le proprie aspettative professionali e i carichi psicologici eccessivi che il loro impegno lavorativo li può portare ad assumere. Il presente articolo illustra la ricerca sul burnout effettuata presso tre corsi di specializzazione di medicina dell’Università ‘La Sapienza’ di Roma, alla quale hanno partecipato un gruppo di medici specializzandi appartenenti alle scuole di Malattie dell’Apparato Cardiovascolare, Medicina Interna e Anestesia, Rianimazione e Terapia Intensiva.

Gli scopi della ricerca sono stati quello di esaminare le eventuali differenze, rispetto al genere, al corso di specializzazione frequentato e all’anno di iscrizione, del gruppo di medici specializzandi che ha partecipato alla ricerca e quello di esaminare le associazioni delle dimensioni del burnout con le dimensioni del modello Job Demand-Control-Support di Karasek e Theorell al fine di indagare l’eventuale miglioramento euristico del modello con l’inclusione delle dimensioni individuali di autoefficacia accademica e recovery self efficacy. L’ipotesi di avere risultati differenti rispetto al genere e alla scuola degli specializzandi è stata confermata. Non è stata confermata, invece, l’ipotesi che fosse presente un effetto reality shock. Il job demands risulta maggiormente associato con le dimensioni esaurimento emotivo e depersonalizzazione, mentre il controllo risulta associato con la realizzazione personale. Le dimensioni individuali di autoefficacia accademica e recovery self efficacy aumentano la predittività del modello JD-C-S.

 

Abstract (English)

The term burnout was featured on the psycho- social malaise that stems from an over-commitment in the work, the result of a pathological process stressor that affects the helping profession if they do not manage properly their professional expectations and psychological loads excessive that their work commitments may lead them to assume. This article describes research on burnout carried out at three courses of specialization of Medicine, University “La Sapienza” of Rome, which was attended by a group of medical specialists belonging to the schools of Cardiovascular Diseases , Internal Medicine and Anesthesiology and Intensive Care .

The aims of the study were to examine any differences with respect to gender, specialization course attended and year of enrollment , the group of medical specialists who participated in the research and to examine the associations of the dimensions of burnout with the size of the model Job Demand -Control -Support Karasek and Theorell in order to investigate the possible improvement of the heuristic model with the inclusion of the individual dimensions of academic self-efficacy and recovery self -efficacy . The idea of having different results with respect to gender and the graduate school has been confirmed. Has not been confirmed , however, the hypothesis that there was an effect of reality shock. Job demands is more associated with the size of emotional exhaustion and depersonalization, while control is associated with personal fulfillment. individual dimensions of academic self-efficacy and recovery self -efficacy increase the predictability of the model JD -CS.

 

Keywords: burnout, demand, control, self-efficacy, recovery

 

Parlami di lui e ti dirò chi sei: sfumature linguistiche e identità sociale

Quando parliamo, lasciamo spesso trapelare alcune informazioni circa la nostra identità sociale attraverso le sfumature linguistiche che utilizziamo per descrivere qualcuno.

 

Tracce dell’ identità sociale nelle strutture linguistiche

Questo è ciò che ha dimostrato un recente studio condotto da Shanette Porter dell’Università di Chicago, appena pubblicato su Psychological Science: siamo in grado di inferire alcune informazioni sull’identità sociale del nostro interlocutore (come l’etnia o l’orientamento politico) anche basandoci solo sull’utilizzo che questi fa di termini concreti o astratti per descrivere il comportamento di qualcuno.

Effettivamente, nella letteratura degli ultimi quarant’anni è stato ampiamente dimostrato come le persone esprimano le proprie credenze, valori o stereotipi sugli altri attraverso il modo in cui utilizzano il linguaggio: non conta, dunque, solo ciò che diciamo, ma anche come lo diciamo.

Descrivere il comportamento di una persona in modo concreto, utilizzando verbi ben definiti – ‘Luca ha colpito il suo amico‘ – tipicamente indica come quel comportamento sia una singolarità e non sia necessariamente ascrivibile alla personalità di Luca; al contrario, descrivere il comportamento di una persona in modo astratto, utilizzando perlopiù sostantivi e aggettivi – ‘Luca è un violento‘ – lascia ben intendere come quel comportamento descriva (secondo noi) una caratteristica tipica della personalità di Luca.

Già precedenti ricerche hanno rivelato la nostra tendenza ad usare queste sfumature espressive in modo favorevole quando parliamo di qualcuno che ci sta a cuore (o che appartiene al gruppo sociale con cui ci identifichiamo): siamo soliti, infatti, parlare in maniera astratta dei comportamenti positivi dei nostri cari e in maniera concreta dei loro comportamenti negativi. Sorprendentemente, tale tendenza si inverte simmetricamente quando parliamo di qualcuno appartenente ad un altro gruppo (banalmente, un estraneo).

 

Identità sociale e appartenenza al gruppo nelle sfumature linguistiche

Nel presente studio, dunque, Porter e colleghi hanno ipotizzato che le persone siano in grado di inferire da tali sfumature linguistiche se l’interlocutore appartiene o meno allo stesso gruppo sociale della persona di cui sta parlando. Attraverso una somministrazione online, ai partecipanti è stato chiesto di leggere un brano attraverso cui un autore sconosciuto ha descritto un comportamento positivo e negativo di Peter: in una prima condizione il comportamento positivo veniva descritto in termini astratti ed il comportamento negativo in termini concreti; in una seconda condizione il pattern era invertito; ai partecipanti è stato infine chiesto di giudicare se l’autore del brano appartenesse o meno allo stesso gruppo sociale di Peter.

I risultati hanno dimostrato come i partecipanti fossero molto sensibili a tali sfumature espressive: il primo gruppo di soggetti ha ritenuto che l’autore del brano appartenesse effettivamente allo stesso gruppo di Peter, mentre il secondo gruppo è stato di opinione contraria. Una successiva indagine ha poi rivelato come le idee e credenze religiose e politiche dei partecipanti non abbiano minimamente influenzato il loro giudizio.

Stando alle parole della stessa Shanette Porter, dunque:

Questi risultati dimostano come il linguaggio sia uno strumento di comunicazione molto potente, non solo per vie esplicite, ma anche attraverso sfumature più sottili ed implicite: due persone che utilizzano praticamente le stesse parole possono veicolare un informazione assai diversa sulle proprie credenze, sulle proprie attitudini e – in parole povere – sulla propria identità sociale.

Tale relazione tra il linguaggio dell’oratore e l’ identità sociale degli ascoltatori può giocare evidentemente un ruolo chiave nella comunicazione, sia essa meramente pubblicitaria o perfino politica.

Ma, in definitiva, queste conclusioni sono importanti per chiunque voglia comunicare utilizzando il linguaggio: sembra che il modo in cui comunichiamo sia ben più importante dell’effettivo oggetto della nostra comunicazione. O, per dirla utilizzando un linguaggio diverso: sembra che nel modo vi sia un mondo.

La plasticità del cervello dalla A alla Z

SISSA, Scuola Internazionale Superiore di Studi Avanzati

L’edizione di dicembre della rivista Current Opinion in Neurobiology riassume le conoscenze attuali sulla plasticità del cervello, intesa in senso molto ampio, partendo dall’infinitamente piccolo (plasticità a livello molecolare, nelle sinapsi) per arrivare fino al livello ‘macro’ (la plasticità osservabile nel comportamento umano).

Alessandro Treves (SISSA) e Thomas Mrsic-Flogel (Università di Basilea) hanno curato questo numero, coinvolgendo alcuni dei maggiori esperti internazionali sull’argomento. In una conferenza di Ted di qualche tempo fa, Roberto D’Angelo e Francesca Fedeli raccontano l’esperienza del loro figlio Mario: colpito a soli dieci giorni di vita da un infarto cerebrale, sembrava destinato a vivere con solo mezzo cervello funzionante, con tutte le difficoltà che ne conseguono a livello cognitivo (e motorio). Così non è stato: il bimbo a due anni (lo si vede nel video) riesce a camminare e parlare in maniera comparabile a quella di un coetaneo. Non è un miracolo: anche se il caso di Mario è particolarmente fortunato (anche grazie all’enorme impegno dei genitori nell’aiutarlo): ci troviamo di fronte a uno dei tanti esempi della capacità del sistema nervoso di adattarsi con successo alle condizioni avverse.

L’ARTICOLO PROSEGUE DOPO IL VIDEO

 

Gli scienziati parlano di plasticità del cervello, un tema di grande interesse nella ricerca in neuroscienze, al quale è ora dedicato l’intero numero di dicembre della rivista Current Opinion in Neurobiology curato da Alessandro Treves, professore della Scuola Internazionale Superiore di Studi Avanzati (SISSA) di Trieste e Thomas Mrsic-Flogel, dell’Università di Basilea in Svizzera. La rivista è specializzata in lavori di rassegna sistematica della letteratura su argomenti specifici, fondamentali per dare un quadro complessivo della ricerca alla comunità scientifica.

[blockquote style=”1″]L’edizione che abbiamo curato mirava a spaziare e a collegare concettualmente ambiti di ricerca differenti che raramente comunicano fra loro: si esplora la plasticità dal livello delle reazioni chimiche che avvengono dentro la sinapsi, per poi procedere in ‘su’ fino alla plasticità nel comportamento, passando attraverso diversi stadi, e con un excursus anche nell’intelligenza artificiale[/blockquote] spiega Treves.

Tanti ricercatori, tante sfaccettature [blockquote style=”1″]Su richiesta dell’editore, per comporre questo numero dedicato, abbiamo raccolto una trentina di lavori di rassegna redatti da scienziati esperti nel campo[/blockquote] spiega ancora Treves.

[blockquote style=”1″]Quali sono i “pezzi” più significativi? Per esempio quello di Judit Gervain, ex studentessa SISSA ora all’Universitè Paris Descartes, dedicato alla plasticità del linguaggio alla nascita, o quello di Agnes Kovacs, anche lei ex SISSA, ora all’Università Centrale Europea di Budapest, sulla flessibilità cognitiva legata al bilinguismo. O ancora, molto interessante è il lavoro di Yasser Roudi, brillante ex-studente SISSA ora al Kavli Institute, vincitore in Aprile del premio Eric Kandel, assegnato ogni due anni ad un giovane neuroscienziato, che tratta di “deep learning”, il nuovo “tormentone” dell’intelligenza artificiale.[/blockquote]

LINK UTILI: • Link all’edizione di Current Opinion in Neurobiology dedicata alla plasticità: http://goo.gl/1PTcTU

IMMAGINI: • Crediti: r. nial bradshaw Flickr: https://goo.gl/sMmCxK

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The December issue of the journal Current Opinion in Neurobiology reviews current knowledge about brain plasticity, in its broadest sense, starting from the infinitely small (plasticity at the molecular level, in synapses) up to the macro level (the plasticity observable in human behaviour).

Alessandro Treves (SISSA) and Thomas Mrsic-Flogel (University of Basel) have edited this issue involving some of the leading international experts in the field. At a Ted conference held some time ago, Roberto D’Angelo and Francesca Fedeli recounted the experience of their son Mario: struck by a cerebral infarction when he was only 10 days old, he seemed destined to live with only one half of his brain functioning, with all the difficulties such a condition would entail at the cognitive (and motor) level. But things went differently: at 2 years of age the boy (he can be seen in the video) can walk and speak like any other child of his age. It is not a miracle: even though Mario’s case is particularly lucky (in part thanks to his parents’ huge commitment to helping him), it is one of the many examples of the nervous system’s ability to adapt successfully to adverse conditions.

Scientists call it plasticity of the brain, a subject of great interest in neuroscience research, to which the journal Current Opinion in Neurobiology has now devoted its entire December issue, edited by Alessandro Treves, professor at the International School for Advanced Studies (SISSA) of Trieste and Thomas Mrsic-Flogel of the University of Basel in Switzerland. The journal specialises in systematic reviews of the literature on given topics, which are crucial for providing the scientific community with an overall view of the relevant research.

[blockquote style=”1″]The issue we edited aimed to bring together and conceptually connect different fields of research that rarely communicate with one another: it explores the different levels of brain plasticity from the chemical reactions taking place in synapses right up to plasticity in behaviour, passing through the different stages, and with a foray also into artificial intelligence[/blockquote] explains Treves.

Many researchers, many facets[blockquote style=”1″] On the publisher’s request, to put this issue together we collected about thirty reviews written by experts in the field[/blockquote] continues Treves. Which are the most significant contributions?

[blockquote style=”1″]For example, the paper by Judit Gervain, former SISSA student now at Université Paris Descartes, devoted to language plasticity at birth, or the review by Agnes Kovacs, also a former SISSA student and now at the Central European University of Budapest, on the cognitive flexibility associated with bilingualism. Or still another interesting piece is the paper about “deep learning” – the new buzz word in artificial intelligence – written by Yasser Roudi, a brilliant ex-SISSA student now at the Kavli Institute, who last April won the Eric Kandel prize, awarded to a young neuroscientist every two years.[/blockquote]

USEFUL LINKS: • Link to the issue of Current Opinion in Neurobiology devoted to plasticity: http://goo.gl/1PTcTU

IMAGES: • Crediti: r. nial bradshaw (Flickr: https://goo.gl/sMmCxK)

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Fattori predittivi dell’impatto di una seduta allarmante sullo psicoterapeuta in formazione – Forum di Assisi 2015

Dal VI FORUM sulla FORMAZIONE in PSICOTERAPIA – Assisi 2015

Fattori predittivi dell’impatto di una seduta allarmante sullo psicoterapeuta in formazione

Bellardi C., Virga L., Boldrini M. P., Caselli G., Ruggiero G. M.

Attraverso questa ricerca si sono investigati i fattori predittivi dell’impatto di una seduta con paziente allarmante sul terapeuta in formazione.

Lo scopo è stato quello di definire se esista un legame tra stili relazionali (Bowlby), temi dolorosi, piani di vita (Sassaroli) e impatto di una seduta con paziente allarmante sul terapeuta in formazione. Inoltre si è inteso indagare se il percorso di formazione in psicoterapia cognitivo-comportamentale costituisca un elemento protettivo nei confronti di suddetto impatto.

Si è ipotizzato l’esistenza di una correlazione positiva tra le caratteristiche misurate (stile relazionale, temi dolorosi, piani di vita) e l’impatto di una seduta con paziente allarmante; inoltre si è ipotizzato che l’impatto del paziente allarmante sia direttamente proporzionale alla juniority dello psicoterapeuta in formazione.

La cornice teorica sulla quale si basa il lavoro è la letteratura relativa all’impatto degli eventi stressanti (Liotti, Weiss) e allo stile relazionale del paziente e del terapeuta in seduta, con particolare riferimento alla teoria dell’attaccamento (Bowlby) e dei cicli interpersonali (Semerari).

Il disegno progettuale, articolato in due fasi, si propone di indagare in un primo tempo le caratteristiche relazionali dello psicoterapeuta e successivamente si misura la reazione dello psicoterapeuta rispetto all’impatto del video somministrato relativo ad una seduta di psicoterapia con un paziente allarmante costruito ad hoc per questo studio.

Con l’intento di perseguire l’obiettivo di comprendere i fattori implicati nell’impatto di una seduta allarmante sul terapeuta in formazione, nel corso della scelta dei materiali da impiegare a tale scopo, si era inizialmente pensato alla costruzione di stimoli-vignetta, ma ci si è resi conto in itinere che uno stimolo video, attraverso cui proporre la visione di uno spezzone di seduta allarmante, sarebbe stato maggiormente in grado di esprimere contenuti capaci di elicitare le reazioni cognitive, emotive e comportamentali che avrebbero segnalato una vulnerabilità al contenuto rappresentato. Nelle fasi iniziali di preparazione dei materiali, si era pensato alla possibilità di proporre la visione di tre simulazioni di colloqui di psicoterapia, rispettivamente con un paziente allarmante che richiede un colloquio in emergenza; un paziente con disturbo narcisistico di personalità; un paziente con disturbo evitante di personalità.

Tutti e tre i video sono stati registrati a partire da copioni costruiti sulla base di colloqui clinici reali, ovviamente modificati per evitare che i contenuti potessero essere ricondotti ai pazienti in questione, e avvalendosi della collaborazione di attori professionisti e di una terapeuta di Studi Cognitivi. Dopo aver riflettuto lungamente sui tempi a disposizione per la somministrazione dei questionari, si è ritenuto opportuno scegliere solo uno dei tre video: si è optato per il video del paziente allarmante in quanto i ricercatori hanno valutato che tale paziente fosse quello che maggiormente avrebbe potuto impattare sui soggetti. Relativamente al video in questione, il copione è stato costruito a partire dal film “Gente comune”, un film del 1980, diretto da Robert Redford.

Nella prima fase del disegno progettuale, si sono investigate le caratteristiche dello psicoterapeuta, utilizzando i seguenti test: misurazione dello stile di attaccamento e relazionale attraverso ASQ, ECR, PTP Questionnaire – Painful Themes and Plans (PTP). Più specificamente, all’interno della cornice teorica del modello LIBET di Sassaroli-Ruggiero, per questo specifico studio pilota si è proceduto alla costruzione del Painful Themes & Plans Questionnaire, a partire dal Booklet LBET di Bassanini A., Caselli G., Redaelli C.A.., Ruggiero G.M. e Sassaroli S., con lo scopo di indagare nei soggetti sperimentali temi dolorosi intollerabili e piani di vita, enucleati dal modello stesso. Si tratta di un questionario self-report composto da 28 item, suddivisi in sette sottoscale, con quattro quesiti ciascuna relativi ai quattro temi dolorosi e ai tre piani di vita individuati dal modello LIBET. Il questionario prevede che le risposte vengano date su una scala Likert che va da 1 a 7 dove 1 significa per niente d’accordo e 7 totalmente d’accordo, purtroppo il questionario non è ancora stato validato, si auspica che ciò possa avvenire quanto prima. Si è inoltre proceduto alla misurazione della eventuale sintomatologia ansiosa e depressiva attraverso la somministrazione dell’HADS.

Nella seconda fase, dopo la somministrazione dello stimolo video, si è misurato l’impatto del paziente allarmante attraverso la somministrazione in 4 tempi (T0, T1, T2 e T3) del questionario IESR_Short, ovvero una versione abbreviata della scala IESR.

Il campione è costituito da allievi del primo (n.55) e dell’ultimo anno (n.53) delle scuole di psicoterapia cognitivo comportamentale di Studi Cognitivi.

E’ risultato che gli allievi del quarto anno rispetto agli allievi del primo hanno registrano maggiori difficoltà in termini di funzionamento relazionale, inflessibilità dei piani di vita e reazione all’evento stressante del paziente allarmante. Mentre la presenza di temi dolorosi intollerabili pare non essere correlata con l’impatto stressante, la presenza di piani di vita evitanti (piano di vita 1 prudenziale e piano di vita 3 auto-immunizzante) paiono costituire fattori predittivi della risposta all’evento stressante.

Si rileva come i limiti del presente studio possano essere legati alla somministrazione in classe di strumenti self-report, alla scelta del campione che ci permette di fare una valutazione sincronica e non diacronica nel tempo, alla mancanza di una valutazione della credibilità dello stimolo video e della presenza o meno di un percorso di psicoterapia individuale del terapeuta in formazione.

Si auspica che in futuro suddette ipotesi possano essere verificate con studi longitudinali che permettano di valutare stile relazionale, temi dolorosi, piani e impatto del paziente allarmante sullo stesso psicoterapeuta in formazione all’inizio e alla fine del percorso formativo.

Drop-Out (2014) di Federico Batini – Recensione

Segoloni Sonia

Ogni storia del libro ha purtroppo un fil rouge: il fatto di non aver abbandonato loro la scuola ma che la scuola abbia abbandonato loro. I sentimenti più ricorrenti tra questi ragazzi sono lo smarrimento e la rabbia ma soprattutto la delusione verso questa istituzione che li ha lasciati soli mentre avevano più bisogno di essere seguiti.

Il volume si presenta così suddiviso: Introduzione, Parte prima, Parte seconda. Nell’introduzione, ‘Di cosa parliamo quando parliamo di drop-out?’ a cura di Guido Benvenuto viene innanzitutto esplicitato il tema chiave del libro, ovvero i drop-out.

Con questo termine ci si riferisce ai ragazzi che abbandonano il ciclo scolastico prima di averlo completato. L’autore tratta questo fenomeno, ormai sempre più in espansione nel nostro Paese, dal punto di vista dei ragazzi, parte quindi dalle loro motivazioni, dai loro sentimenti, dalle cause che hanno portato questi ragazzi a troncare il percorso educativo troppo precocemente e dalle conseguenza riportate da questa scelta.

Tutto ciò verrà trattato nella prima parte, intitolata ‘Perchè ascoltare i drop-out?’. In questo capitolo viene proposta una larga e dettagliata definizione del termine drop-out e vi si chiarifica l’attuale situazione italiana anche in relazione con altri paesi europei grazie ai dati forniti dall’Eurostat: l’Italia risulta possedere il minor numero di laureati e diplomati rispetto a tutta l’Europa; infatti la percentuale di drop-out nel nostro paese è arrivata ormai al 17%.

Nella seconda parte, ‘Voci’, incontreremo dei ragazzi intervistati di età compresa tra i 16 e i 19 anni residenti nelle regioni Umbria e Toscana. Ogni storia ha purtroppo un fil rouge: il fatto di non aver abbandonato loro la scuola ma che la scuola abbia abbondato loro. I sentimenti più ricorrenti tra questi ragazzi sono lo smarrimento e la rabbia ma soprattutto la delusione e il disprezzo verso questa istituzione che li ha lasciati soli nel momento in cui loro avevano più bisogno di essere seguiti e accompagnati verso il loro futuro. La ricerca, condotta dal Professor Batini con un gruppo di suoi collaboratori, si basa sui dati ricavati da sessantasette interviste narrative semi-strutturate, tra le quali ventisette somministrate a ragazzi provenienti da Arezzo e quaranta da Perugia. È emerso che le cause dell’abbandono scolastico sono varie, ma le più ricorrenti sono: cattivi rapporti relazione con insegnanti e il voto di condotta.

Il libro ha inoltre lo scopo di abbattere i tanti pregiudizi che gravitano intorno ai Drop-out, troppo spesso etichettati come gli sbandati, gli svogliati: ‘ha abbandonato la scuola perchè non aveva voglia’ oppure ‘è andato a lavorare senza finire il liceo perchè non aveva abbastanza capacità per farcela’.

No. Non è assolutamente così, spesso la voglia del ragazzo nello studiare una data materia o un corso scaturisce dalla passione e dalla bravura derivanti dall’insegnate. Se non si parte da queste fondamenta, che devono essere solide, non si potrà costruire nulla di concreto e duraturo. Nel testo troviamo inoltre argomenti difficili come il bullismo, problemi familiari e difficoltà di apprendimento che i ragazzi non possono affrontare e gestire da soli, bisogna quindi dare loro il giusto e adeguato sostegno per rimettersi in piedi, prenderli per mano e accompagnarli verso il futuro che loro sperano di avere.

Personalmente non ho mai pensato di abbandonare il ciclo formativo, di sicuro ho avuto ripensamenti magari sulla scelta della scuola o dell’indirizzo, però ho degli amici che hanno smesso e le cause si sono poi rivelate essere un pessimo rapporto con quasi tutti gli insegnanti e la scelta errata del liceo. Uno di questi amici in particolare, dopo un periodo in cui ha deciso di lavorare, fortunatamente si è convinto a riprendere il ciclo di studi, terminandolo poi con successo. Attualmente questo ragazzo frequenta l’ultimo anno di Università ed è uno dei più brillanti del suo corso.

Mi ha colpito questo saggio, e credo che sia adatto sopratutto agli insegnanti. Le citazioni che ritengo più significative sono le seguenti:

Gino apprezza il percorso formativo mentre non apprezzava affatto la scuola, infatti non partecipava se non sporadicamente, anzi più spesso non andava proprio a scuola.

pag.77 – ‘Voci’

 

In classe mia c’era un ragazzo… un ragazzo… insomma uno non, non tanto normale, invece di aiutarlo gli urlavano e basta, a me mi mettevano voti bassi solo perché io quando qualcosa non andava glielo dicevo, mia mamma mi diceva sempre devi avere più rispetto ed è meglio che tieni chiusa un po’ quella bocca, ma perché io le ingiustizie non le posso vedere. Come quel giorno che mi ha messo 6 perchè non ero d’accordo sulla sua idea di uguaglianza tra i popoli, mi meritavo almeno un 7.

pag. 160 – ‘Voci’

 

Orientare un soggetto sulla base di ciò che, in un determinato contesto, non sa e non sa fare è un processo di etichettamento che non prelude a percorsi felici e appaganti, ma ad autosvalutazioni cognitive, bassa motivazione, percezione di inadeguatezza.

pag.18 – ‘Perchè ascoltare i drop-out?’

Non ho riscontrato limiti alla ricerca che considero sia stata portata avanti con molto tatto e senza pregiudizi alcuni, mettendo questi ragazzi a proprio agio senza farli sentire degli emarginati. Considerate le percentuali, piuttosto preoccupanti, dei ragazzi che lasciano il percorso di studi trovo l’argomento di questo saggio più che attuale, ci fa conoscere uno dei tarli più pesanti e che porta più conseguenze negative della società attuale.

Io credo che la disoccupazione derivi molto anche dalla insufficiente e spesso assente preparazione che presentano i ragazzi, bisognerebbe alzare gli standard della cultura e dovremmo affacciarci al mondo lavorativo professionalmente più consapevoli e preparati.

To have or to feel? I benefici taciuti degli acquisti materiali

Se è vero che il denaro non fa la felicità, non è un segreto che acquistare ciò che desideriamo può regalarci momenti piacevoli ed emozioni positive. Ma quando abbiamo la possibilità di comprare qualcosa, è meglio investire su un oggetto materiale o su una esperienza?

La ricerca degli ultimi anni suggerisce che le esperienze ci rendono più felici rispetto agli acquisti materiali e il senso comune sembra in molti casi condividere questa posizione (si pensi, ad esempio, all’incredibile diffusione di abbonamenti al cinema, cofanetti per un week end fuori porta e ingressi omaggio alle terme che è capitato a tutti di regalare o ricevere). Che cosa intendiamo, però, quando affermiamo che un concerto di James Blake ci rende più felici di una nuova lampada per il soggiorno? Di quale felicità stiamo parlando?

In un recente studio pubblicato su Social Psychological and Personality Science, i ricercatori della British Columbia University hanno messo a confronto la felicità associata ad acquisti materiali e esperienziali tenendo in considerazione le emozioni associate al momento del consumo. Circa 70 studenti hanno ricevuto un budget di 20 dollari e l’indicazione, per alcuni, di spenderlo per un acquisto materiale mentre, per altri, per un acquisto esperienziale.

Un altro gruppo di studenti, invece, è stato intervistato relativamente ad un regalo ricevuto; anche in questo caso il campione comprendeva circa 70 soggetti, una metà dei quali ha risposto alle domande con riferimento ad un dono materiale, l’altra metà ad una esperienza. Per tutti i partecipanti si è osservato l’andamento della felicità momentanea nel corso di circa due settimane.

I risultati indicano che, se è vero che le esperienze ci soddisfano di più sul momento, cioè mediamente offrono una felicità più intensa al momento dell’acquisto e dell’utilizzo, gli oggetti materiali ci rendono felici più a lungo. In altre parole, quando compriamo o riceviamo in regalo esperienze siamo molto felici, ma lo siamo per poco tempo e con il passare dei giorni ci restano solo i ricordi, mentre quando compriamo o riceviamo qualcosa di concreto la felicità provata al momento dell’acquisto è più contenuta, ma di fatto si rinnova ad ogni utilizzo, garantendo una maggiore frequenza di emozioni positive riferite al momento presente.

Come spesso accade, anche il dilemma ‘to have or to do’ non può essere risolto in modo univoco e conclusivo e richiede, piuttosto, di tenere in considerazione il contesto personale e sociale di riferimento.

Le conseguenze psicologiche nel malato di Parkinson e nei suoi familiari

Le difficoltà nei rapporti sociali, la difficoltà di accettare la progressiva invalidità fisica, sono problemi che il paziente con Parkinson deve affrontare e che spesso incidono negativamente sul tono dell’umore. Chi assiste il malato, invece, potrebbe sperimentare un calo del tono dell’umore e sperimentare sintomi che indicano la presenza di stress eccessivo.

Giulia Marcella Fatone – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi Modena

 

Che cos’è la malattia di Parkinson?

Il Parkinson è un disturbo del sistema nervoso centrale, caratterizzato dalla degenerazione di alcune cellule nervose (neuroni), situate in una zona profonda del cervello, la Sostanza Nera. Queste cellule producono un neurotrasmettitore, la dopamina, che è responsabile di un circuito che controlla il movimento (Pezzoli e Tesei, 2001).

La malattia di Parkinson si manifesta quando la produzione di dopamina nel cervello cala consistentemente. I livelli ridotti di dopamina sono dovuti alla degenerazione di neuroni, nell’area chiamata Sostanza Nera (la perdita cellulare è di oltre il 60% all’esordio dei sintomi). L’evoluzione della malattia è lenta, ma progressiva e comporta numerose modificazioni a livello cognitivo, affettivo e comportamentale. A questi si associano sintomi motori caratteristici della malattia quali: rigidità, bradicinesia, e tremore a riposo. Tutto ciò influenza inevitabilmente la qualità di vita del paziente e dei familiari.

Il nome è legato a James Parkinson, medico inglese che per primo descrisse gran parte dei sintomi della malattia in un famoso libretto, il ‘Trattato sulla paralisi agitante‘ pubblicato nel 1817.

La malattia si riscontra in entrambi i sessi, con una lieve prevalenza, forse, in quello maschile, è presente in tutto il mondo e in tutti i gruppi etnici. L’età media di insorgenza del Parkinson è di 60 anni, ma nel 5-10% dei soggetti che sviluppano la malattia, questa si manifesta prima dei 50 anni e, in alcuni casi anche prima dei 40 anni: in questo caso definito Parkinson ad esordio giovanile (Pruneti, 2012). Le cause del Parkinson rimangono ancora sconosciute, sebbene molti esperti ritengono che chi si ammala di Parkinson sia geneticamente sensibile all’azione lesiva di alcune sostanze chimiche, non ancora ben definite che si possono trovare nel cibo, nell’acqua e nell’aria (Pezzoli e Tesei, 2001).

I principali sintomi della malattia di Parkinson

I principali sintomi del Parkinson sono: il tremore, la rigidità, la bradicinesia (lentezza dei movimenti automatici), a questi asi associano altri sintomi primari quali: disturbi dell’equilibrio, atteggiamento curvo e impaccio nell’andatura.

Tremore a riposo

È il sintomo più conosciuto e maggiormente rappresentativo della malattia di Parkinson. Il tremore spesso interessa una mano (si presenta come un’oscillazione con cinque-sei movimenti al secondo), ma può interessare anche i piedi e la mandibola. In genere è più evidente su un lato. È presente a riposo, ma in alcuni pazienti può essere presente anche in azione, in genere non è invalidante (Pezzoli e Tesei, 2001).

Rigidità

È un aumento del tono muscolare a riposo o durante il movimento. Può essere presente agli arti, al collo ed al tronco. La riduzione dell’oscillazione pendolare degli arti superiori durante il cammino è un segno di rigidità, associata a lentezza dei movimenti (Pezzoli e Tesei, 2001).

Lentezza dei movimenti (bradicinesia)

La bradicinesia è un rallentamento nell’esecuzione dei movimenti e dei gesti. Segno di bradicinesia sono le difficoltà nei passaggi posturali, passare da una posizione all’altra (per esempio da seduti ad in piedi), girarsi nel letto. Si evidenzia facendo compiere al soggetto con Parkinson alcuni movimenti di manualità fine, che risultano più impacciati, meno ampi e più rapidamente esauribili per cui, con la ripetizione, diventano quasi impercettibili. Sintomi correlati alla bradicinesia sono: la modificazione della grafia, che diventa più piccola (micrografia); la scialorrea (aumento della quantità di saliva in bocca), dovuta ad un rallentamento dei muscoli coinvolti nella deglutizione; la ridotta espressione del volto (ipomimia) (Pezzoli e Tesei, 2001).

Disturbo dell’equilibrio

Si presenta più tardivamente nel corso del Parkinson ed è un sintomo che coinvolge l’asse del corpo; è dovuto a una riduzione dei riflessi di raddrizzamento, per cui il soggetto non è in grado di correggere spontaneamente eventuali squilibri. Si può evidenziare quando la persona cammina o cambia direzione durante il cammino. La riduzione di equilibrio è un fattore di rischio per le cadute a terra. I disturbi dell’equilibrio non rispondono alla terapia dopaminergica (Pezzoli e Tesei, 2001).

Altri sintomi motori, Disturbo del cammino

Si osserva una riduzione del movimento pendolare delle braccia più accentuato da un lato, una postura fissa in flessione e un passo più breve. Talvolta si presenta quella che viene chiamata festinazione, cioè il paziente tende a strascicare i piedi a terra e ad accelerare il passo, come se inseguisse il proprio baricentro, per evitare la caduta.

Negli stadi avanzati del Parkinson, possono verificarsi episodi di blocco motorio, improvviso freezing (come un congelamento delle gambe) in cui i piedi del soggetto sembrano incollati al pavimento. Il fenomeno si può manifestare come un’improvvisa impossibilità ad iniziare la marcia o a cambiare la direzione. Oppure, si osserva quando il paziente deve attraversare passaggi ristretti (come una porta od un corridoio) o camminare in uno spazio affollato da molte persone. Questa difficoltà può essere superata adottando alcuni accorgimenti quali: alzare le ginocchia, come per marciare oppure considerare le linee del pavimento come ostacoli da superare. Anche l’utilizzo di un ritmo verbale, come quello che si utilizza durante la marcia militare, può risultare utile (Pezzoli e Tesei, 2001).

I disturbi dell’umore nella Malattia di Parkinson

Parkinson e depressione

La malattia di Parkinson, proprio a causa degli innumerevoli sintomi fisici, tra i quali: il tremore diffuso e le bradicinesie, è una malattia estremamente visibile. Vedere il proprio corpo trasformato dalla malattia e il sopraggiungere inarrestabile di molti sintomi fisici che inevitabilmente porteranno ad una sempre maggiore invalidità, tutto ciò, influisce negativamente sul tono dell’umore e sul livello d’ansia della persona. Le difficoltà nei rapporti sociali, la difficoltà di accettare la progressiva invalidità fisica e le menomazioni che comporta, sono problemi che il paziente con Parkinson deve affrontare e che spesso incidono negativamente sul tono dell’umore.

La depressione, infatti, è molto comune nella malattia di Parkinson, essa può precedere l’esordio della malattia e costituire un fattore di rischio: approssimativamente i sintomi depressivi sono presenti nel 25-40% dei casi. Si tratta per lo più di una depressione di lieve o moderata entità con caratteristiche omogenee (Pruneti, 2012). Quando la depressione compare in forma lieve, in uno stadio iniziale della malattia e prima del caratteristico quadro sintomatologico motorio, la diagnosi di un concomitante stato depressivo può divenire difficoltosa; infatti molti segni, quali il rallentamento psicomotorio, l’espressione facciale, il tono della voce, la variazione del ritmo sonno-veglia, dell’appetito e della libido, fanno parte della tipica sintomatologia del Parkinson o sono attribuibili a farmaci utilizzati per il trattamento. Secondo alcuni ricercatori, questo disturbo dell’umore in parte, può essere legato a una reazione negativa conseguente alla diagnosi di malattia cronica, ma più frequentemente è il risultato della riduzione di alcune sostanze neurochimiche correlate alla dopamina (noradrenalina e serotonina) (Pezzoli e Tesei, 2001). Ciò comporta modificazioni affettive e comportamentali come: la tendenza ad abbandonare le proprie attività quotidiane ed i propri interessi, la perdita di iniziativa, un atteggiamento apatico, abulico e anedonico. Talora si accompagnano alla depressione, pessimismo, mancanza di interesse, autosvalutazione, disforia e sintomi somatici con anoressia e insonnia, e la presenza di una componente ansiosa (Pruneti 2012).

Parkinson e disturbi d’ansia

Anche i disturbi d’ansia sono comuni nei pazienti con Parkinson, spesso associati ai disturbi depressivi, l’ansia può presentarsi come: attacchi di panico, disturbi fobici (legati soprattutto alla paura di cadere, a causa della instabilità posturale), disturbo d’ansia generalizzata, sintomi somatici e, inoltre, non è infrequente la comparsa di sintomi ossessivo-compulsivi. I sintomi ossessivo-compulsivi infatti, sembrerebbero manifestarsi principalmente in alcuni sottogruppi di pazienti con Parkinson, ovvero in pazienti in fase avanzata della malattia, ma soprattutto in pazienti con esordio clinico motorio nell’emilato di sinistra. Ciò potrebbe suggerire che la manifestazione di sintomi ossessivo-compulsivi sia correlata alla disfunzione dei circuiti frontostriatali (soprattutto nell’emisfero destro), in linea con quanto riscontrato nei pazienti affetti dal disturbo ossessivo-compulsivo (Poletti e Bonuccelli, 2011).

Parkinson e disturbi del controllo degli impulsi

Il fenomeno dei disturbi del controllo degli impulsi è riportato con una frequenza crescente nei pazienti con Parkinson. Questi sono disordini del comportamento, caratterizzati dall’impossibilità, da parte del paziente, di resistere a stimoli compulsivi, alcuni di questi sono: gioco d’azzardo patologico, ipersessualità, binge-eating, disturbo esplosivo intermittente e fumo compulsivo. Tutto ciò, può portare ad una compromissione del benessere individuale e sociale. Sembra che il fenomeno dei disturbi del controllo degli impulsi, si debba attribuire alla terapia con dopaminoagonisti (Poletti e Bonuccelli, 2011).

Parkinson e sintomi psicotici

In passato si riteneva che un eccesso di terapia anti parkinson potesse portare a disturbi della percezione, quali allucinazioni e deliri. Allucinazioni prevalentemente visive, raramente uditive, che generalmente compaiono nella seconda metà del decorso della malattia. I deliri vengono riportati con minor frequenza e possono essere di tipo paranoide o di gelosia. Attualmente si ritiene più probabile che che l’insorgenza di tali fenomeni sia dovuta all’effetto di un’interazione tra alcune caratteristiche cliniche e la terapia (Poletti e Bonuccelli, 2011).

La malattia di Parkinson nella famiglia

La malattia di Parkinson, anche se ad insorgenza graduale, rappresenta per la famiglia un momento di crisi profonda. Essa infatti, poiché ha un andamento cronico e progressivo, richiede alla famiglia continui adattamenti necessari, quali: cambiamenti di ruolo, di funzioni dei diversi membri del nucleo familiare e di dinamiche ormai collaudate nel tempo, per consentire di adattarsi ad essa, cercando di mantenere il più possibile l’autonomia dei diversi membri. Tutto ciò comporta ovviamente un cambiamento dell’identità della famiglia che diventa un’altra, conservando il ricordo di com’era prima dell’insorgenza della patologia.

Poiché è una malattia cronica e progressiva, occorre che il paziente e i familiari conoscano le numerose caratteristiche della patologia per imparare a gestirla, per non subirla passivamente, ma combatterla, ossia accettarla e imparare a farci i conti giorno dopo giorno senza lasciarsi sopraffare dallo sconforto (Carretti, 2004).

Infatti questa malattia richiede cure per tutto l’arco della vita, richiede attenzione ai diversi cambiamenti fisici, cognitivi e aggiustamenti continui della terapia. Una delle maggiori difficoltà riscontrabili nel paziente e nei suoi familiari è l’accettazione della diagnosi di Parkinson. La diagnosi e la consapevolezza di tutto ciò che comporterà questa patologia può gettare il paziente, ma anche l’intero nucleo familiare in uno stato di profonda depressione, disperazione e senso di impotenza. Negare la malattia è un atteggiamento che se da una parte può, almeno in un primo momento, preservare il paziente e la sua famiglia da un dolore insostenibile, dall’altro è un atteggiamento contro-produttivo dal momento che può ostacolare la capacità di prendere atto della patologia e ritardare così l’inizio della cura.

La malattia di Parkinson infatti, va curata subito e il prima possibile, in quanto una corretta e tempestiva terapia rende possibile anche ritardarne il progresso (Carretti, 2004).

L’accettazione è un processo che non ha mai fine per questi pazienti, infatti il Parkinson provoca molti cambiamenti e ad ogni cambiamento segue un’inevitabile adeguamento e accettazione del nuovo stato di cose. Gli equilibri che il paziente si crea faticosamente, facendo i conti con i sintomi fisici devono essere modificati alla comparsa di altri sintomi, così come gli equilibri familiari, che mutano per sopperire alle richieste e ai problemi del malato (Carretti, 2004).

Normalmente il parkinsoniano ci mette degli anni prima di accettare completamente la malattia e tutti i sintomi che comporta; la stessa cosa vale per i familiari, i quali, specie se il morbo di Parkinson è a lenta insorgenza, si illudono all’inizio di poter controllare la patologia. Nel corso degli anni, acuendosi i sintomi causati dalla patologia e aumentando i sintomi conseguenti agli effetti disinibitori dei dopamino-agonisti, gli ingravescenti compiti assistenziali sostenuti dai familiari aumentano sempre di più richiedendo tempo, attenzione, energia. Generalmente vi è una sola persona che si occupa dell’assistenza al malato, nella maggior parte dei casi (72%) sono donne, tra gli uomini più frequentemente troviamo mariti e figli. I coniugi sono per lo più coloro che si prendono cura dei loro partner.

Qualora non siano in grado di farlo subentrano al loro posto figli o nuore. Tra i coniugi più anziani che svolgono questa attività, almeno la metà ha, a sua volta, problemi di salute. Almeno un terzo dei familiari sono lavoratori e sommano l’attività assistenziale a quella lavorativa. Il ruolo dei familiari è senza dubbio importantissimo, sia per il benessere dei membri della loro famiglia che per la società, perché grazie a loro, chi ha gravi problemi di salute riceve dignitosamente il conforto e l’assistenza di cui necessita.

Certamente una delle maggiori sfide che il familiare si ritrova ad affrontare quotidianamente è quella di riuscire a gestire i compiti di assistenza al familiare malato di Parkinson, contemporaneamente ad altre attività che richiedono tempo, attenzione ed energia. Infatti mediamente il familiare si occupa della cura della casa (fare la spesa, fare le pulizie, cucinare), pulizia del malato (lavarlo, vestirlo, aiutarlo nella deambulazione), si occupa delle cure mediche (assistenza per la terapia), spesso si occupa anche del coordinamento e dell’organizzazione di altre persone che forniscono assistenza e molte volte deve anche occuparsi di altri membri del nucleo familiare (nonni, suoceri, bambini) (Pezzoli e Tesei, 2001).

Assistere un malato di Parkinson se da una parte può essere molto soddisfacente, dal momento che è espressione di amore per una persona a noi cara, dall’altro può diventare fisicamente, ma soprattutto psicologicamente esasperante. Se l’impegno richiesto diventa eccessivo, chi assiste il malato potrebbe sperimentare un calo di energia, del tono dell’umore e di capacità di far fronte ai problemi e sperimentare sintomi che indicano la presenza di stress eccessivo.

Tra i principali sintomi indicatori di stress, i familiari dei pazienti con Parkinson potrebbero lamentare a livello fisico: mal di testa, dolori muscolari, problemi di appetito, insonnia, peggioramento di malattie croniche e ridotte difese dell’organismo. A livello emotivo: senso di colpa, di abbandono, rabbia, depressione, ansietà. A livello cognitivo: perdita di memoria, difficoltà a prendere decisioni, ridotta capacità di concentrazione. I familiari possono inoltre riscontrare difficoltà relazionali lamentando: atteggiamento rinunciatario, colpevolizzante, irritabilità, impazienza, sensibilità eccessiva alle critiche (Pezzoli e Tesei, 2001).

La malattia di Parkinson: conclusioni

La malattia di Parkinson come si è detto è una complessa malattia neurodegenerativa, che porta alla comparsa di molteplici sintomi. Dal punto di vista motorio i principali sintomi riscontrabili sono tremori, rigidità, lentezza dei movimenti e sono il risultato della morte delle cellule che sintetizzano e rilasciano la dopamina. Oltre ai sintomi motori vi sono inoltre numerose modificazioni a livello cognitivo, affettivo e comportamentale. Disturbi quali depressione e ansia sono considerati facenti parte della malattia di Parkinson; altri sintomi riportati con minor frequenza, quali allucinazioni, deliri e disturbi del controllo degli impulsi sono probabilmente causati dall’interazione tra le caratteristiche cliniche dei pazienti e la terapia con farmaci dopaminergici.

La presenza di disturbi psicopatologici nei pazienti con malattia di Parkinson varia dal 12 al 90%: questa elevata comorbilità riflette probabilmente le modificazioni che si verificano nel complesso circuito funzionale che comprende gangli della base, talamo, strutture limbiche e corteccia prefrontale (Poletti e Bonuccelli, 2011).

Graded Motor Imagery per il trattamento del dolore cronico

Negli ultimi 10 anni le ricerche nel campo delle neuroscienze hanno portato novità importanti nella comprensione del ruolo del cervello nel dolore cronico.

Sono sempre più numerosi gli studi che evidenziano come il dolore cronico sia associato ad una riorganizzazione della corteccia sensoriale primaria (Flor et al., 1995, 1997). I pazienti con dolore cronico presentano un’alterazione della rappresentazione corticale somatotopica e anche della capacità di integrare gli stimoli percettivi con la rappresentazione e la discriminazione spaziale tra il lato affetto e quello sano.
Risultano compromesse anche le performance motorie volontarie. Altri studi mostrano che questi cambiamenti non sono irreversibili: per esempio i campi della corteccia sensitiva si possono modificare tramite stimoli tattili che hanno anche una rilevanza comportamentale (scrittura braille, Florence et al., 1997).
L’applicazione clinica di questi studi ha visto la messa a punto di trattamenti specifici che hanno come obiettivo diretto la riduzione del dolore attraverso una riorganizzazione corticale.

La Graded Motor Imagery (GMI) è uno di questi trattamenti: il suo obiettivo è quello di coinvolgere in maniera graduale le cortecce motorie senza attivare le risposte protettive del dolore. Vengono applicati i principi fisioterapici dell’aumento graduale delle attività, adattati in modo da influenzare sia il sistema nocicettivo ipersensibilizzato, sia i meccanismi corticali alterati già menzionati.

L’utilizzo del feedback visivo con lo specchio è un tipo di trattamento ben conosciuto e validato, introdotto dall’équipe di Ramachandran e colleghi nel 1992, per il trattamento dell’arto fantasma e dell’emiparesi conseguente a stroke (review di Ramachandran & Altshuler, 2009).

Pur essendo l’approccio GMI molto più “giovane”, è stata verificata la sua efficacia nel trattamento della CRPS, e vi sono risultati incoraggianti anche per il trattamento di altre condizioni di dolore cronico (Moseley et al., 2004, 2006).

Moseley e Butler hanno proposto due innovative definizioni del dolore, che aiutano a capire il “terreno teorico” in cui affonda le radici l’approccio GMI. La prima (Moseley, 2003) descrive il dolore come “il prodotto di diversi sistemi, che viene costruito sulla base della specifica “firma neurale” individuale del dolore. Tale “firma neurale” è costruita ogni volta che il cervello conclude che i tessuti corporei sono in pericolo ed è necessario un intervento.

Il dolore è un riferimento anatomico localizzato nel cervello”. Da sottolineare che il dolore è concepito come un prodotto che viene costruito dal cervello (piuttosto che soltanto uno stimolo che viene percepito ed elaborato). La definizione più recente (Moseley & Butler, 2015) fà un ulteriore passo avanti descrivendo il dolore come “un’inferenza percettiva, tramite la quale l’esperienza è considerata un risultato nella coscienza che riflette la migliore stima di ciò che sarà una risposta vantaggiosa. La tendenza è quella di sovrastimare il pericolo e di conseguenza eccedere in comportamenti protettivi.”

GRADED MOTOR IMAGERY nel dolore cronicoConsigliato dalla Redazione

GRADED MOTOR IMAGERY disfunzione sensoriale, componente educativa, attivazione motoria (…)

 

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Responsabilità e disagio, una ricerca empirica sugli adolescenti piemontesi di Trinchero e Tordini (2011) – Recensione

Sonia Segoloni

Secondo Havighurst per affrontare questo periodo di “assestamento” vi sono dei “compiti di sviluppo” connessi alla fase adolescenziale, i quali si presentano in un preciso periodo della vita del soggetto e che assolti in modo adeguato possono condurre alle felicità.

Il volume “Responsabilità e disagio, una ricerca empirica sugli adolescenti piemontesi” si presenta suddiviso in tre capitoli. Il primo, “Il contesto dell’indagine” a cura di Maria Loretta Tordini, tratta della condizione in cui si trova la società attuale considerando tutti gli eventi più importanti che possano aver dato un contributo all’odierna situazione. Uno di questi è la globalizzazione che [blockquote style=”1″]ha mobilizzato masse di persone ma anche di capitali, culture, mentalità, valori, rivoltando certezze consolidate da anni e secoli, mescolando, cancellando, introducendo diverse realtà fra Popoli e Istituzioni[/blockquote] il boom economico del secondo dopoguerra e le varie trasformazioni politiche, Facebook e le innovative tecnologie.

Continuando di seguito con l’analizzare le sensazioni provate dai ragazzi di oggi sempre meno inclini a lasciare il proprio “ovile” per la sempre crescente incertezza che questo futuro offre loro, per poi concludere con dati più scientifici quali il Pil, prodotto interno lordo e il Bil, benessere interno lordo.

Il secondo capitolo che si intitola “Adolescenti tra responsabilità e disagio. Una ricerca empirica”, di Roberto Trinchero, pone all’attenzione del lettore un tema molto importante e sentito ovvero la transizione dalla “società dei ragazzi” alla “società degli adulti”. Questo periodo costituisce per il ragazzo sì un momento emozionante ma anche colmo di paure e incertezze, [blockquote style=”1″]il momento in cui il ragazzo si trova a far convivere e a cambiare gradualmente valori, norme, modelli, abitudini, stili di vita tipici della società dei ragazzi con i corrispondenti della società degli adulti.[/blockquote]

Secondo Havighurst per affrontare questo periodo di “assestamento” vi sono dei “compiti di sviluppo” connessi alla fase adolescenziale, i quali si presentano in un preciso periodo della vita del soggetto e che assolti in modo adeguato possono condurre alle felicità. Contemporaneamente il ragazzo si trova sì a dover assolvere questi compiti ma anche a dover contrastare e superare livelli di problematicità del disagio in cui potrebbe trovarsi, e ve ne sono vari. Questo ha portato all’esigenza di condurre un’indagine empirica il cui obiettivo è stato quello [blockquote style=”1″]di descrivere le caratteristiche degli adolescenti che manifestano atteggiamenti di possibile disagio e rilevare relazioni significative tra le variabili suddette e tali atteggiamenti[/blockquote]

Le ipotesi che hanno guidato il lavoro sono le seguenti: gli indicatori di disagio possono essere diversi: per sesso, età, diversi contesti abitativi e familiari, ragazzi che frequentano tipi di scuola differenti e ragazzi che considerano importanti aspetti differenti. La tecnica di rilevazione dei dati utilizzata è una variante della tecnica delle storie. I risultati della ricerca hanno fatto emergere sette nodi problematici, che possono essere considerati come rispettivi diritti e doveri per gli adulti e per i ragazzi. Infine nel terzo ed ultimo capitolo intitolato “L’adolescenza vista giorno per giorno. I contributi delle scuole coinvolte nell’indagine” si dà spazio alle scuole che insieme ai ragazzi possono ora discutere delle problematiche e dei temi più importanti emersi dai risultati della ricerca.

Le citazioni per me più significative sono : [blockquote style=”1″]I ragazzi andrebbero maggiormente responsabilizzati e coinvolti nelle decisioni e nelle attività degli adulti, promuovendo e spronando una partecipazione a vari livelli: attività di volontariato, servizio sociale, cure dei soggetti deboli, anziani o meno fortunati, educazione di pari più giovani di loro, mentoring, ruoli attivi in iniziative culturali e sociali.[/blockquote] Pag.125;

[blockquote style=”1″]I ragazzi affermano spesso di sentire la scuola come un mondo un po’ a sé rispetto alla vita che al di fuori vivono, talvolta avvertendola come qualcosa di estraneo, imposto. Ricorre in molti di loro la sensazione che la scuola sia una struttura rigida, pensata per contenerli ma non capace di interessarli. [/blockquote]pag.176;

[blockquote style=”1″]Nelle nuove generazioni si assiste ad una curiosa contraddizione: da un lato c’è la forte tendenza a rimanere ancorate a situazioni del passato, per la sicurezza che possono offrire di fronte all’incertezza di un futuro “liquido”. Dall’altro la crisi economica, le innovazioni tecnologiche e l’intreccio di relazioni mondiali, dovute anche alla facilità dei viaggi aerei e al loro costo decisamente competitivo rispetto ad altri mezzi di trasporto, avviano grandi movimenti di masse umane. In Italia, molti giovani tendono a procrastinare il momento di distacco dalla famiglia e di assunzione delle responsabilità individuali, definiti talvolta “bamboccioni”, in realtà pagano l’incertezza di un futuro economicamente ed emotivamente assai poco strutturato, fonte d’inquietudine, senza concrete prospettive di lavoro, mentre l’idea di una famiglia basata sul matrimonio sfuma a vantaggio di convivenze più o meno stabili[/blockquote] pag.24/25.

Il target a cui si rivolge questo saggio è a mio parere tutto il personale scolastico e i genitori, i quali possono così affrontare le difficoltà, in modo empatico e consapevole, dando la giusta fiducia e il meritato appoggio a questi ragazzi, che spesso si trovano costretti ad indossare la maschera dei duri per non mostrare le tante debolezze che si trascinano dietro, non tanto per loro spavalderia bensì per un errato esempio che la nostra società propone ai loro occhi di giorno in giorno.

Gli aspetti emotivi della dislessia evolutiva in infanzia, adolescenza e età adulta

La sofferenza emotiva dei soggetti con dislessia è stata indagata sopratutto nell’età infantile e adolescenziale, dove si ha effettivamente una maggior conseguenza psicopatologica nella quotidianità del bambino o dell’adolescente.

Cristina Ferrari – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi Modena

I Disturbi Specifici dell’Apprendimento: dislessia, discalculia, disortografia

I Disturbi Specifici dell’Apprendimento (DSA) comprendono una serie di disturbi relativi all’apprendimento scolastico di base che possono coinvolgere diverse abilità necessarie in fase evolutiva (DSM 5, ICD – 10):

  • Dislessia, disturbo della lettura;
  • Discalculia, disturbo del calcolo;
  • Disortografia, disturbo dell’espressione scritta;
  • Disturbo dell’Apprendimento Non Altrimenti Specificato (NAS).

Il deficit si deve presentare in maniera persistente e in assenza di deficit neurologici, sensoriali e intellettivi. Quindi le linee guida per la diagnosi prevedono la presenza di una discrepanza tra le prestazioni attese in base all’età del bambino e quelle che vengono invece ottenute a livello scolastico. Questa discrepanza può ovviamente ostacolare il percorso scolastico del bambino, soprattutto se non diagnosticata e seguita in maniera corretta: conseguenze comuni sono la scarsa motivazione allo studio, difficoltà di adattamento, ma soprattutto un forte senso di frustrazione (Capozzi et al., 2008).

La Dislessia Evolutiva

Nella ricerca si trovano maggiormente studi legati alla dislessia: infatti secondo l’OMS è tra i deficit più diffusi nell’infanzia, colpisce circa il 4% della popolazione con un range variabile tra il 2 e il 10%.

La dislessia evolutiva è caratterizzata da una difficoltà nella decodifica della lettura, quindi un deficit di lettura e riconoscimento delle parole, non spiegabili dall’età mentale, da problemi di natura neurologica e dall’istruzione ricevuta (Viola, 2012).

Essendo la dislessia un disturbo evolutivo si può notare una notevole difficoltà durante la scuola primaria, momento in cui spesso avviene la diagnosi e iniziano i percorsi di aiuto (Stella, 2001), grazie a corretti sostegni ricevuti si arriva ad un significativo miglioramento nel tempo, portando di conseguenza a diversi cambiamenti anche nell’aspetto psicopatologico del bambino con diagnosi di dislessia (Tressoldi et al., 2001)

Le conseguenze emotive della dislessia in infanzia e adolescenza

Per quanto riguarda le conseguenze emotive della dislessia, Ryan (2006) si focalizza sulla sensazione di frustrazione provata dai bambini dislessici, che sembrerebbe nascere nel momento in cui il bambino diventa consapevole delle differenza di risultati tra sé e i suoi pari nella capacità di lettura. In particolare la frustrazione si presenta di fronte ai vani tentativi del bambino di soddisfare le aspettative proprie e altrui, che li porta spesso a difficoltà nelle relazioni sociali (porta a farli sembrare goffi, a difficoltà di accettazione da parte dei pari, ecc).

La sofferenza emotiva dei soggetti con dislessia è stata indagata sopratutto nell’età infantile e adolescenziale, dove si ha effettivamente una maggior conseguenza psicopatologica nella quotidianità del bambino o dell’adolescente.

Sappiamo infatti che la sintomatologia ansioso-depressiva è la più frequente in età infantile nei soggetti dislessici (Laghi et al., 2010). L’ansia si manifesta di fronte all’anticipazione di un fallimento, strategia spesso usata nei bambini con dislessia, che porta di conseguenza a vivere le situazioni nuove con particolare tensione e forte ansia (Prior et al., 1999).

La costante frustrazione di fronte ai fallimenti porta inoltre ad un costante sofferenza che spesso il bambino non mostra con i chiari sintomi della depressione, ma può mostrarsi con gesti rabbiosi soprattutto verso i genitori oppure dal versante opposto il bambino può nascondere i sentimenti di tristezza e rabbia diventando più attivo e difficilmente gestibile (Ryan, 2006).

Durante l’adolescenza questa rabbia spesso rischia di sfociare nell’abbandono scolastico e in problematiche di carattere sociale: gli adolescenti con dislessia mostrano spesso una sintomatologia ansioso-depressiva, basso senso di autoefficacia, somatizzazioni, difficoltà nell’integrazione sociale/isolamento sociale (Gagliano et al., 2007). Nell’adolescente quindi la sofferenza che prova è legata molto di più all’immagine di sé come inferiore agli altri che è stata alimentata nell’infanzia vivendo il senso di frustrazione per la differenza di capacità con gli altri pari.

Le conseguenze emotive della dislessia nell’età adulta

Per quanto riguarda i dati sulle difficoltà emotive in soggetti adulti con dislessia abbiamo poco materiale visto le poche ricerche condotte in letteratura, soprattutto in Italia (Riddick et al., 1999; Carroll e Iles, 2006). Come abbiamo già accennato, sappiamo che con il passare del tempo la dislessia può arrivare a significativi miglioramenti e con questo ovviamente diminuisce anche la sintomatologia ansioso-depressiva ad essa legata nell’infanzia. Questo probabilmente avviene anche in relazione al cessare delle responsabilità scolastiche: infatti i livelli d’ansia aumentano solo nel momento in cui i soggetti sono sottoposti ad un test sulle loro abilità di lettura.

Il gruppo dell’Università di Padova (Cerea et al., 2015) ha voluto svolgere la ricerca che presenterò per poter ampliare le conoscenze per ciò che riguarda l’indagine degli aspetti psicopatologici nei giovani adulti con diagnosi di dislessia.

Uno degli obiettivi di questa ricerca è proprio quello di indagare ciò che sostenuto in letteratura (Carroll et al., 2006; Riddick et al., 1999) ovvero la presenza di una sintomatologia maggiore in soggetti con diagnosi di dislessia in un campione italiano di giovani adulti, confrontato con un campione di controllo.

Lo studio è stato fatto su un campione di 15 studenti universitari al primo anno di Università, con diagnosi di dislessia in età evolutiva, e un campione di controllo di 15 studenti universitari senza dislessia. I soggetti del gruppo clinico erano tutti seguiti da un tutor nel percorso di studi, il quale forniva sostegno nell’organizzazione dello studio e faceva da intermediario tra i ragazzi e i docenti.

Al campione è stata somministrata una batteria di test:

  • La Battery for the Assessment of Reading and Writing in Adulthood, per la valutazione della lettura e della scrittura in età adulta;
  • Il Cognitive Behavioural Assessment-Young (CBA-Y), che delinea un profilo psicologico della persona individuando sia le sue risorse psicologiche positive sia le aree problematiche.
  • La Child Behaviour Check List (CBCL), per individuare informazioni sull’adattamento, sulle competenze e sui problemi comportamentali ed emotivi.
  • Il Beck Depression Inventory – II (BDI – II), indaga gli stati affettivi, cognitivi e somatici della depressione.
  • La Rosenberg Self-Esteem Scale (RSES), che indaga l’autostima globale.
  • La Connor-Davidson Resilience Scale (CD-RISC), per misurare le capacità di gestione allo stress.

Dai risultati le scale che riportano una differenza significativa tra il campione di soggetti con dislessia e quello di controllo sono quelle che riguardano le lamentele somatiche, i problemi sociali e i problemi di attenzione, mostrando il campione clinico dei risultati maggiori. Mentre gli altri test di carattere sintomatologico non mostrano risultati significativi.

A differenza da quello che si trova in letteratura i soggetti con dislessia non dimostrano significative differenze per quanto riguarda gli stati d’ansia, la depressione, l’autostima o la resilienza. La scala delle lamentele somatiche comprende però emicranie, mal di stomaco, tic nervosi, affaticamento, sintomi che potrebbero avere un fondamento ansioso ma che possono non essere riconosciuti come tali dai soggetti.

Invece la categoria dei problemi sociali riguarda le difficoltà di relazione con gli altri, che possono portare ad un maggior senso di solitudine, alla difficoltà ad aprirsi o alla presenza di sentimenti di gelosia, già emersi nella letteratura di riferimento.

Infine è molto importante la presenza di maggiori problemi di attenzione del gruppo clinico, come la difficoltà di concentrazione, l’impulsività, l’incapacità di stare seduti per lungo tempo, ecc. Questo conferma la presenza di deficit di attenzione nei soggetti con diagnosi di dislessia, anche se non in comobidità con una diagnosi di Disturbo da Deficit di Attenzione e Iperattività.

Per quanto riguarda l’assenza di differenze significative nelle scale somatiche ci può essere stata l’influenza dei fattori protettivi del gruppo di soggetti dislessici: la presenza di una diagnosi precoce, di interventi scolastici per il recupero delle abilità nella scuola primaria o secondaria e infine la presenza di un tutor scolastico. Probabilmente questi fattori hanno fatto sì che i soggetti provassero comunque nella loro esperienza scolastica un sostegno che li ha portati a vivere meno il senso di frustrazione e di fallimento, sviluppando un immagine di sé competente, limitando così lo sviluppo di problematiche ansioso-depressive.

Questo ci porta a sottolineare come la presenza di fattori di protezione possano attenuare lo sviluppo di problematiche sintomatologiche gravi e persistenti in soggetti con diagnosi di dislessia. Molto importante è la diagnosi precoce del deficit, che necessita di una preparazione e di un attenzione particolare da parte degli insegnanti oltre che dei genitori, al fine di poter preparare un percorso di studi adeguato alle competenze del bambino e che possa promuoverne un’immagine di sé come competente.

Il tormento del cercatore di tracce – Tracce del tradimento nr. 37

TRACCE DEL TRADIMENTOXXXVII: Il tormento del cercatore di tracce

 

Nell’animo del cercatore a questo punto avviene qualcosa di cognitivamente determinante: il cercatore non cerca prove che il suo partner lo ami o gli sia fedele ma al contrario mette al centro l’ipotesi che il suo partner lo tradisca e vuole la certezza assoluta che ciò non accada e per non sbagliarsi andrà a prendere in considerazione tutte le prove che potrebbero confermare l’ipotesi tanto temuta del tradimento.

Abbiamo visto negli articoli precedenti quali diverse motivazioni possano spingere una persona a cercare le tracce del presunto tradimento del suo partner. Ma c’è un modo di cercare che è caratteristico dei cercatori di tradimenti e che si auto-mantiene nel tempo? La nostra risposta è affermativa e sosterremo che quando si intraprende quel modo di cercare si è perduta per sempre la pace e si entra in un tunnel da cui è difficilissimo uscire.
In primo luogo ciò che accomuna i cercatori è l’intolleranza dell’incertezza; essi ritengono che se qualcosa è incerto e poco chiaro certamente avverrà una catastrofe. Sapere dunque è un modo di prevenire il danno possibile che certamente si nasconde dietro l’indefinito e lo sconosciuto.

Naturalmente non è così: quante volte ad esempio la scoperta di un’innocua avventura senza futuro la trasforma in qualcosa di importante che prende consistenza e che magari può interrompere il rapporto tanto desiderato proprio e solo perché scoperta. Ma al cercatore non importa questo rischio: l’importante è conoscere, egli deve assolutamente essere certo, costi quel che costi. Non sono il tipo di persone che possono far finta di niente, voltarsi dall’altra parte aspettando che la tempesta passi, fare buon viso a cattivo gioco: non capiscono in alcun modo la psicologia dello struzzo. Essi sono i cavalieri della chiarezza, vogliono sapere esattamente come stanno le cose; questo è un valore in sè più ancora della stessa relazione: meglio sapere con certezza che si è traditi che non sapere se lo si è o no, anche se in questo secondo caso c’è la possibilità di non esserlo.

Nell’animo del cercatore a questo punto avviene qualcosa di cognitivamente determinante: il cercatore non cerca prove che il suo partner lo ami o gli sia fedele ma al contrario mette al centro l’ipotesi che il suo partner lo tradisca e vuole la certezza assoluta che ciò non accada e per non sbagliarsi andrà a prendere in considerazione tutte le prove che potrebbero confermare l’ipotesi tanto temuta del tradimento. E’ come se si dicesse “devo dimostrare con certezza che non mi tradisce”, da quel momento in poi vaglierà esclusivamente tutte le prove a favore del possibile tradimento ed escluderà o non terrà in gran conto quelle contrarie, per lui è fondamentale non sbagliarsi sul tradimento. Meglio un errore che lo porti a sovrastimare il tradimento piuttosto che un errore che glielo faccia trascurare. Diventa un feroce pubblico ministero senza mai dare la parola alla difesa; per lui è meglio un innocente condannato ingiustamente che un colpevole in libertà.

Questo stesso modo di ragionare che mette al centro una sola ipotesi, in genere quella temuta, e trascura le ipotesi alternative e si muove nel tentativo di escluderla con certezza, finendo invece per averla sempre presente senza riuscire a raggiungere mai quella certezza assoluta che si desidererebbe semplicemente perchè è impossibile, è presente nella maggior parte dei disturbi psichici. Si pensi all’ipocondriaco che vuole escludere con certezza di essere ammalato, all’ossessivo che desidera eliminare ogni ragionevole dubbio sulla sua responsabilità, all’ansioso che cerca garanzie assolute sul funzionamento del suo cuore e sull’impossibilità di avere un infarto, al fobico sociale che non vuole rischiare in alcun modo di fare una brutta figura.Tutti questi disturbi condividono lo stesso modo di ragionare: vogliono escludere con certezza assoluta un’ipotesi ritenuta terribile. Il cercatore di tracce fa in maniera esasperata, data la posta in palio, quello che facciamo tutti noi e cioè cercare le conferme alle nostre convinzioni piuttosto che le disconferme.

Sappiamo che gli esseri umani tendono ad essere dei confermazionisti piuttosto che degli scienziati popperiani dediti a falsificare le loro credenze. Normalmente si cercano le prove a favore del proprio modo di vedere le cose e si sottovalutano o si ignorano le prove contrarie. L’attenzione selettiva e la memoria selettiva, ad esempio, sono due meccanismi ben studiati che perseguono proprio questo scopo della stabilità del proprio modo di vedere le cose. Il confermazionismo comporta un evidente vantaggio evolutivo e consiste nell’aspettativa che il mondo sia sempre uguale a se stesso e che dunque quello che si è verificato una volta tenderà a verificarsi di nuovo. Le nostre esperienze ci portano ad avere dei pregiudizi (ovvero dei giudizi anticipati) che generano aspettative su come andranno le cose e per questo ci consentono di fare previsioni. Se non avessimo pregiudizi ogni mattina ci sveglieremmo in un mondo del tutto nuovo, sconosciuto e imprevedibile e non sapremmo come muoverci per perseguire i nostri scopi.

Siamo affezionati alle nostre convinzioni e poco disposti a lasciarle perdere perché sono la guida che abbiamo per camminare e fino a quando non si manifestano decisamente infondate e dannose tendiamo a conservarcele gelosamente. Naturalmente le credenze saranno tanto più difficili da cambiare quanto più sono fondanti per la nostra visione del mondo e in particolare di noi stessi: è evidente che è più facile cambiare idea sulla propria abilità di giocatore di bocce, se è un’attività saltuaria e poco importante, che non sulla propria identità sessuale e, allo stesso modo, sarà più facile cambiare idea sull’affidabilità del vicino di casa che su quella del proprio partner, motivo per cui è proprio l’interessato ad essere l’ultimo che si accorge del proprio stato di tradito.

Il vantaggio evolutivo in sintesi consiste nel fatto che animali non confermazionisti non potrebbero far tesoro dell’esperienza, ne tantomeno della trasmissione transgenerazionale delle informazioni (che sono appunto credenze su come funziona il mondo) e si troverebbero ad ogni istante a ripartire da capo ripetendo sempre gli stessi errori talvolta fatali. Molti cercatori come abbiamo visto non cercano le prove a favore e contro l’ipotesi del tradimento ma esclusivamente quelle a favore perché non vogliono correre il rischio di commettere un errore importante ma così facendo sono degli investigatori di parte che scartano, non vedono parti importanti della realtà e ne sopravvalutano altri. Il cercatore fa un esame dei fatti molto limitato e una ricerca incompleta di informazioni e dati trascurando le ipotesi alternative che li giustificherebbero; tiene conto solo dell’ipotesi focale e non prende in considerazione altre spiegazioni.

Così facendo ricerca solo evidenze compatibili con l’ipotesi che sta tenendo sotto controllo. Inoltre ha un’eccessiva fiducia nella veridicità delle proprie conclusioni, anche se queste derivano da un esame limitato dei fatti. Quali sono i meccanismi che usa in questa ricerca di conferme nella speranza che, non trovandone alcuna (cosa impossibile) potrà escludere con certezza l’ipotesi tanto temuta? In primo luogo occorre soffermarci sulla attenzione e disattenzione selettiva. Quando analizziamo con i nostri sensi l’ambiente tendiamo a prestare maggiore attenzione a quei particolari che confermano le nostre ipotesi e a trascurare quelli che invece le mettono in discussione.

Se quando il partner torna a casa dopo una giornata di lavoro e la domanda che ci poniamo è quali siano gli indizi che è stato con la rivale noteremo e daremo significato a particolari che ci confermano questo nostro sospetto, come il fatto che sia imbronciato o sia un po’ in ritardo mentre non saranno prese in considerazione tutte le prove a favore della fedeltà come le telefonate interessate durante la giornata, il bacio affettuoso con cui ci saluta.

 

RUBRICA TRACCE DEL TRADIMENTO

Assumere antidepressivi incrementa il rischio di episodi maniacali e disturbi bipolari

L’incidenza di episodi maniacali ed ipomaniacali nei pazienti depressi sembra spesso doversi imputare al trattamento farmacologico impiegato. Tuttavia, non è stato chiarito il meccanismo attraverso il quale tali farmaci possano predisporre i pazienti depressi a sviluppare questi episodi.

Nel dettaglio, ad oggi sappiamo che gli episodi maniacali acuti si associano all’uso di antidepressivi triciclici (TCA) e a doppia azione (es: SNRI), come ad esempio la venlafaxina. Tra i fattori di rischio più importanti per l’insorgenza del disturbo bipolare vi è una precedente storia familiare del disturbo, un episodio depressivo con sintomi psicotici, la diagnosi di depressione in giovane età ed infine la depressione resistente ai trattamenti.

Nel tentativo di stabilire l’incidenza di episodi maniacali, ipomanicali e del disturbo bipolare tra i pazienti depressi, i ricercatori guidati dal dr. Patel hanno esaminato le cartelle cliniche di 21012 soggetti con un’età compresa tra 16 e 65 anni, che stavano ricevendo un trattamento farmacologico per la depressione unipolare (criteri ICD-10) la cui storia psichiatrica era esente da episodi maniacali o disturbi bipolari.

Gli antidepressivi più comunemente prescritti erano SSRI (35,5%), mirtazapina (9,4%), venlafaxina (5,6%) e i triciclici (4,7%). In seguito, il team di ricerca ha valutato l’incidenza di successive diagnosi di disturbo bipolare ed episodi maniacali tra i pazienti considerati.

L’analisi ha rivelato che il rischio complessivo (annuo) di una nuova diagnosi di disturbo bipolare e di episodi maniacali nel periodo considerato (2006-2013) era del 1,1%, ovvero circa 10,9 pazienti su 1000. Inoltre, il picco di tali diagnosi avveniva tra i 26 e i 35 anni, range nel quale il rischio di nuove diagnosi arrivava al 1,2%.

Dalle analisi statistiche è stato possibile osservare come un qualsiasi precedente trattamento farmacologico antidepressivo era associato ad un aumentato rischio di successive diagnosi di disturbo bipolare e/o episodi maniacali; tale rischio oscillava tra il 1,3% e il 1,9%. Ulteriori analisi hanno rivelato come il rischio maggiore fosse associato all’impiego di SSRI e venlafaxina. Questi farmaci, infatti, risultavano associati ad un aumento del rischio di disturbi bipolari e/o episodi maniacali del 34-35%.

Tra i limiti della ricerca sicuramente vi è l’impossibilità di inferire alcun rapporto di causa-effetto tra le variabili, trattandosi appunto di uno studio osservazionale. Inoltre, i ricercatori hanno voluto sottolineare la possibilità che l’aumento del rischio delle patologie soprammenzionate potesse dipendere più da potenziali disturbi bipolari latenti piuttosto che dal trattamento farmacologico. Infine, non è stato possibile raccogliere adeguatamente tutte le informazioni riguardanti i fattori di rischio del disturbo bipolare e dell’episodio maniacale. Tuttavia, i risultati di questo studio ci invitano a riflettere sull’importanza dell’influenza dei farmaci antidepressivi (ma non solo) sulle patologie in comorbilità nei pazienti depressi.

La formazione sui trattamenti evidence-based per i disturbi dell’alimentazione

 

Una innovativa modalità di formazione su trattamenti evidence-based per i DCA è in fase di valutazione presso il centro CREDO dell’Università di Oxford. Il training, in lingua inglese e gratuito, viene effettuato on line e illustra la CBT-E in dettaglio.

Un trattamento è definito evidence-based se, dopo ricerche di alta qualità su campioni di popolazione e attente valutazioni scientifiche, dimostra di avere i migliori risultati disponibili della ricerca, tanto da rappresentare una guida nel processo decisionale clinico, nelle fasi diagnostiche o di gestione del paziente.

Per quanto riguarda i disturbi dell’alimentazione, negli ultimi anni sono stati sviluppati e valutati alcuni trattamenti la cui efficacia è stata confermata da rigorosi studi controllati e randomizzati. I trattamenti più efficaci sono di natura psicologica e sono stati progettati principalmente per essere somministrati a livello ambulatoriale.

Negli adulti affetti da bulimia nervosa, la terapia cognitivo-comportamentale migliorata (CBT-E) ha dimostrato in due studi controllati, recentemente pubblicati, di essere più efficace della terapia interpersonale (IPT) e della psicoterapia psicoanalitica.

Il disturbo da binge-eating sembra rispondere bene a una varietà di interventi psicologici, tra cui un adattamento della CBT per la bulimia nervosa, la IPT e l’auto-aiuto guidato.

Pochi studi sono disponibili per il trattamento degli adulti con anoressia nervosa e i trattamenti che hanno un certo grado di supporto empirico sono la CBT-E, la psicoterapia psicodinamica focale, il Maudsley Model of Treatment for Adults with Anorexia Nervosa (MANTRA) e lo Specialist Supportive Clinical Management (SSCM), una combinazione di intervento educativo, gestione clinica generale e psicoterapia supportiva.

Nei pazienti più giovani la ricerca si è focalizzata soprattutto sull’anoressia nervosa. Il solo intervento disponibile con moderata evidenza di efficacia è il trattamento basato sulla famiglia (FBT), conosciuto anche come il Metodo Maudsley, che determina una remissione piena attorno al 50% dei casi. La CBT-E, ha recentemente ottenuto risultati promettenti nel trattamento degli adolescenti affetti da anoressia nervosa e appare un candidato alternativo alla FBT, come recentemente raccomandato dal Chief Medical Officer Inglese. Infine la CBT-E ha dimostrato buoni risultati anche nel trattamento degli adolescenti con disturbi dell’alimentazione non sottopeso, come la bulimia nervosa o il disturbo da binge-eating, con un tasso di risposta oltre il 67%.

Sebbene siano fruibili vari trattamenti psicologici evidence-based per i disturbi dell’alimentazione, i corsi master e di perfezionamento, come pure le scuole di psicoterapia, raramente forniscono una formazione specialistica su queste forme di terapia. Come conseguenze negative, in Italia i clinici trovano poche opportunità per apprendere questi trattamenti psicologici e la maggior parte dei pazienti affetti da disturbi dell’alimentazione riceve interventi non basati sull’evidenza.

Per far fronte a questo problema è stato progettato e implementato in Italia un master (il First Certificate of Professional Training in Eating Disorders and Obesity) che fornisce una formazione specifica e intensiva sulla CBT-E, e sono stati recentemente organizzati seminari di più giorni sulla CBT-E e sulla FBT. Purtroppo, sebbene questi training siano molto apprezzati e frequentati, non sono sufficienti. Da una parte, il master non risolve completamente il problema della disseminazione globale di questi trattamenti, perché può essere offerto ogni anno solo a un numero limitato di terapeuti, dall’altra i seminari di uno o più giorni possono solo introdurre il trattamento psicologico evidence-based, ma non sono in grado di sviluppare nei partecipanti le abilità necessarie per applicarlo in modo efficace.

Una potenziale strategia per superare l’ostacolo della disseminazione su scala globale è rappresentata dal cosiddetto web-centred training, che permette di formare un grande numero di terapeuti simultaneamente. Questa innovativa modalità di formazione è in fase di valutazione presso il centro CREDO dell’Università di Oxford. Il training in lingua inglese è gratuito e viene effettuato tramite un sito web che descrive e illustra la CBT-E in dettaglio e incorpora alcune attività didattiche che aiutano gli allievi ad apprendere le procedure principali del trattamento e le abilità necessarie per somministrarlo.

Il centro CREDO ha anche sviluppato una misura standardizzata per valutare la competenza del terapeuta nell’uso della CBT-E. Il vantaggio principale del web-centred training consiste nella sua scalabilità, ovvero nella possibilità di formare un numero indefinito di terapeuti in tutto il mondo a basso costo, fornendo le conoscenze e competenze necessarie per implementare adeguatamente il trattamento. Lo svantaggio, è la mancanza del contatto diretto tra docente e allievo che può limitare lo sviluppo dell’entusiasmo e della curiosità nei discenti e far dipendere il processo di apprendimento interamente dal livello di motivazione del singolo allievo.

Negli ultimi anni molti sono stati i passi avanti nella disseminazione dei trattamenti basati sull’evidenza scientifica, ma tanti ne devono essere ancora fatti. Dare ad ogni paziente la possibilità di ricevere il miglior trattamento possibile rimane, ad oggi, una delle più grandi sfide che i ricercatori clinici si trovano ad affrontare.

Oltre la cultura degli psicofarmaci in infanzia e adolescenza: il Ministro della Salute apre un tavolo tecnico sul tema degli antidepressivi a bambini e adolescenti

Il tema degli psicofarmaci per i bambini non può essere trattato al di fuori di un approccio globale di psicologia di comunità orientato a valutare quali sono realmente i bisogni del bambino nel suo percorso di crescita fisica e di sviluppo psicologico.

Qual è la posizione degli psicologi sul tema degli psicofarmaci antidepressivi per bambini e adolescenti? Quali sono gli strumenti che mettono in campo gli psicologi per sostenere il bambino e la sua famiglia di fronte a situazioni di disagio psicologico?

I risultati delle prassi sulla somministrazione degli psicofarmaci ai bambini e adolescenti è ritornato alla luce in occasione della Giornata mondiale dei diritti dell’infanzia e dell’adolescenza dell’ONU. I problemi sono numerosi e naturalmente coinvolgono aspetti economici, sociali e politici.

L’associazione Giù le mani dai Bambini che ha come mission anche la farmacovigilanza pediatrica ha presentato un comunicato stampa dove acclama la decisione del Ministero della Salute di aprire un tavolo tecnico sugli antidepressivi per bambini e adolescenti e ripercorre i lavori del Parlamento UE in occasione della giornata mondiale dell’Infanzia e dell’adolescenza. Si legge:

Al Parlamento Ue sono state chieste misure urgenti approvate per vietare il commercio del farmaco – ipotesi comunque remota – sia soprattutto per attivare una procedura di deferimento all’Agenzia Europea del Farmaco (EMA) per una nuova valutazione dei prodotti medicinali a base di paroxetina nonché per aprire un’indagine finalizzata ad accertare se la multinazionale farmaceutica GlaxoSmithKline (GSK) – la quale commercializza tuttora l’antidepressivo, e che, pur interpellata su quest’ultimo studio BMJ, si è trincerata dietro un ostinato silenzio – non abbia violato le norme antitrust dell’UE, garantendo un vantaggio sleale al proprio prodotto, che, secondo il British Medical Journal, e inefficace e pericoloso.

E’ proprio su questo tema che la comunità degli psicologi dovrebbe portare la propria riflessione ed esperienza per affermare l’importanza degli strumenti preventivi del disagio psicologico nell’età dello sviluppo come il sostegno psicologico individuale, famigliare e la programmazione di interventi psico-sociali di comunità.

Il tema degli psicofarmaci per i bambini non può essere trattato al di fuori di un approccio globale di psicologia di comunità orientato a valutare quali sono realmente i bisogni del bambino nel suo percorso di crescita fisica e di sviluppo psicologico.

Nel dibattito di questi giorni non compare questa riflessione che in realtà è la premessa epistemologica più importante perché permette di avvicinarsi al tema degli strumenti che favoriscono il benessere psicosociale del bambino e dell’adolescente. E’ importante, quindi, a fianco della presa di posizione contro gli psicofarmaci nell’età evolutiva iniziare a ribadire l’importanza di tenere in considerazione i bisogni evolutivi del bambino e dell’adolescente e il rispetto del percorso di sviluppo psicologico (relazionale, sociale, emotivo e cognitivo).

E’ evidente, infatti, per chi lavora sul campo che in molti casi si confondono comportamenti fisiologici dell’infanzia con modalità sintomatiche semplicemente perché la società degli adulti si è dimenticata o non conosce o non rispetta le espressioni comportamentali proprie del bambino.

A questo proposito si ricorda che nel mondo della scuola c’è stato bisogno di una Circolare Ministeriale (C.M. 8 del 6 marzo 2013) per riportare l’attenzione del mondo degli adulti sui bisogni del bambino e sull’importanza di osservare e capire la realtà psicologica del bambino e organizzare un progetto educativo individualizzato che tenesse in considerazione le esigenze specifiche.

I bisogni evolutivi speciali non sono altro che i bisogni presentati dai bambini che vivono situazioni sociali, psicologiche e famigliari precise. Abbiamo avuto bisogno di una circolare ministeriale per capire che i bambini sono tutti diversi, che possono avere problemi e soffrire come gli adulti e che tutto questo ha un impatto sulle possibilità di apprendere in modo sereno!

Oggi il mondo degli adulti, di fronte a comportamenti evolutivi del bambino come l’esigenza di muoversi, di correre, di giocare, è in difficoltà perché non è in grado di gestire l’esuberanza o l’apatia o l’inattività o di organizzare ambienti funzionali alla crescita e sviluppo del bambino. E’ in atto una tendenza a utilizzare categorie diagnostiche di fronte alla difficoltà degli adulti di gestire comportamenti evolutivi fisiologici o espressioni di disagio sociale, famigliare e culturale del bambino. L’aumento delle diagnosi di Adhd, infatti, è espressione di questo fenomeno. Lo stesso vale per la depressione infantile o la fobia scolastica che spesso sono il risultato di complessità sociali e famigliari, ma anche di richieste cognitive superiori alle possibilità del bambino.

Sulla base di queste riflessioni si ritiene importante proprio in relazione al dibattito sulla pericolosità degli psicofarmaci nell’infanzia iniziare a diffondere una cultura che parte dai bisogni evolutivi dei bambini per arrivare ad organizzare spazi educativi e sociali che rispettino l’infanzia e promuovano il diritto alla salute e al benessere psicosociale del bambino.

La comunità degli psicologi così come di altri professionisti socio-educativi-sanitari ha maturato un’esperienza indiscutibile rispetto al sostegno e alla cura delle problematiche psicologiche dell’infanzia e dell’adolescenza che dovrebbe essere considerata la strada principale in queste situazioni. E’ importante che gli psicologi ribadiscano che il sostegno psicologico, la psicoterapia, le attività psico-espressive sono gli strumenti elettivi nella gestione del disagio psicologico dell’infanzia e adolescenza, a fianco dei percorsi di psicologia di comunità finalizzati a creare spazi socio-educativi dove il bambino possa fare esperienza del proprio mondo sociale, affettivo e cognitivo.

Purtroppo l’aumento vertiginoso della prescrizione degli psicofarmaci ai bambini è il risultato di una cultura che non rispetta i comportamenti tipici dell’infanzia, i bisogni evolutivi e i tempi di crescita e maturazione psicologica del bambino. La nostra società obbliga il bambino a diventare adulto il prima possibile e questo sta avvenendo anche nella cura farmacologica dove non sono tenuti presenti il significato di alcuni comportamenti di disagio psicologico del bambino.

Ancora una volta ci si concentra sul sintomo senza chiedersi il perché il bambino presenta quell’insieme di manifestazioni e si utilizza un farmaco per contenere, ridurre il problema comportamentale. Per questo è importante nella giornata dell’infanzia e dell’adolescenza ricordarsi del bambino che è in noi per progettare percorsi di vita sociale (famiglia, scuola e ambiente sociale) e di psicologia di comunità che tengano presente i reali bisogni evolutivi dei bambini, i diritti dei bambini, il rispetto dei tempi di crescita e maturazione psicologica e la tutela della salute del bambino e dell’adolescente.

 

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