expand_lessAPRI WIDGET

La terapia EMDR: come funziona? un viaggio nella nostra mente

La terapia EMDR è utile per il trattamento di disturbi causati da eventi stressanti o traumatici come il disturbo da stress post-traumatico. Essa sfrutta i movimenti oculari alternati per ristabilire l’equilibrio eccitatorio/inibitorio, permettendo una migliore comunicazione tra gli emisferi cerebrali.

Nausicaa Berselli e Simone Negrini – Open school Studi Cognitivi Modena

Terapia EMDR: un’introduzione

EMDR (Eye Movement Desensitization and Reprocessing) è una tecnica psicoterapeutica ideata da Francine Shapiro nel 1989. Questa metodologia, utile per il trattamento di disturbi causati da eventi stressanti o traumatici come il disturbo da stress post-traumatico, sfrutta i movimenti oculari alternati, o altre forme di stimolazione alternata destro/sinistra, per ristabilire l’equilibrio eccitatorio/inibitorio, permettendo così una migliore comunicazione tra gli emisferi cerebrali.

Disturbo da stress post-traumatico e terapia EMDR

Il diturbo da stress post-traumatico (DSPT) si sviluppa in seguito all’esposizione del soggetto ad un evento traumatico nel quale la persona ha vissuto, ha assistito, o si è confrontata con un evento o con eventi che hanno implicato morte, o minaccia di morte, o gravi lesioni, o una minaccia all’integrità fisica propria o di altri. La risposta della persona comprende paura intensa e sentimenti di impotenza o di orrore. Come riportato dal DSM-V (Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali) l’evento traumatico viene rivissuto ripetutamente in diversi modi, ed il soggetto mette in atto un evitamento persistente degli stimoli associati con il trauma. Si verificano inoltre alterazioni negative dell’umore o delle cognizioni, ed un’attenuazione della reattività generale, oltre che sintomi di aumentato arousal.

Shalev (2001) ha proposto che la complessità del disturbo possa essere meglio compresa come compresenza di diversi meccanismi, quali l’alterazione di processi neurobiologici, l’acquisizione di risposte condizionate di paura a stimoli correlati al trauma, e schemi cognitivi e di apprendimento sociale alterati.

La ricerca ha dimostrato che a seguito di un evento stressante c’è un’interruzione del normale modo di processare l’informazione da parte del cervello. Ciò include il fallimento nel creare una memoria coerente dell’esperienza, in quanto tutti gli aspetti di memoria, pensiero, sensazioni fisiche ed emotive dell’evento traumatico non riescono ad essere integrati con altre esperienze. La patologia in questi casi emerge a causa dell’immagazzinamento disfunzionale delle informazioni correlate all’evento traumatico, con il conseguente disturbo dell’equilibrio eccitatorio/inibitorio necessario per l’elaborazione dell’informazione. Questo provoca il ‘congelamento’ dell’informazione nella sua forma ansiogena originale, nello stesso modo in cui è stato vissuto; l’informazione congelata e racchiusa nelle reti neurali non può essere elaborata e quindi continua a provocare patologie come il disturbo da stress post-traumatico e altri disturbi psicologici.

I movimenti oculari saccadici e ritmici tipici della terapia EMDR, concomitanti con l’individuazione dell’immagine traumatica, delle convinzioni negative ad essa legate e del disagio emotivo, facilitano la rielaborazione dell’informazione, fino alla risoluzione dei condizionamenti emotivi. In questo modo l’esperienza è usata in modo costruttivo dalla persona ed è integrata in uno schema cognitivo ed emotivo non negativo.

Le tecniche EMDR, come la terapia cognitivo-comportamentale focalizzata sul trauma, seguono le teorie del processamento dell’informazione e si rivolgono alle memorie disturbanti individuali ed ai significati personali dell’evento traumatico e delle sue conseguenze, attivando la rete dei ricordi di paura attraverso la presentazione di informazioni che attivano elementi delle strutture della paura ed introducono informazioni correttive incompatibili con questi elementi.

L’esposizione immaginativa tipica della terapia cognitivo-comportamentale però guida l’individuo a rivivere ripetutamente l’esperienza traumatica il più vividamente possibile, senza prendere in causa altre memorie o associazioni; questo approccio è basato sulla teoria secondo cui l’ansia è causata dalla paura condizionata ed è rinforzata dall’evitamento.

Al contrario la terapia EMDR procede tramite catene di associazioni, collegate con stati che condividono gli elementi sensoriali, cognitivi o emotivi del trauma. Il metodo adottato non è di tipo direttivo; l’individuo è incoraggiato a ‘lasciare accadere qualsiasi cosa avvenga limitandosi a notarla‘ mentre le memorie liberamente associate entrano nella mente tramite l’esposizione immaginativa, in forma di brevi flash.

In accordo con le teorie del condizionamento classico, promuovere l’attenzione a informazioni correlate alla paura facilita l’attivazione, l’abituazione e la modificazione della struttura di paura.

Durante la terapia EMDR, i terapeuti spesso accedono solo a brevi dettagli della memoria traumatica, ed incoraggiano la distorsione o il distanziamento dell’immagine che, in accordo con le teorie tradizionali, dovrebbe esitare in un evitamento cognitivo. La terapia EMDR incoraggia tuttavia gli effetti distanzianti che sono considerati efficaci nel processamento della memoria piuttosto che nell’evitamento cognitivo. E’ forse per questo che i pazienti sottoposti a questo tipo di terapia cosiderano l’EMDR come meno confrontante e la tollerano meglio.

L’EMDR comprende il complesso delle risposte emotive che seguono un evento stressante analizzando stati affettivi, sensazioni fisiche, pensieri, emozioni e credenze contemporaneamente.

Il cambiamento cognitivo che la terapia EMDR evoca mostra che il soggetto può avere accesso a informazioni correttive e collegarle alla memoria traumatica e ad altre reti di memorie associate. Tutto ciò avviene con piccole, se non nulle, indicazioni da parte del terapeuta. L’integrazione del materiale positivo e negativo che avviene spontaneamente durante il processo di desensibilizzazione dell’EMDR somiglia all’assimilazione in strutture cognitive (in linea con la teoria del processamento adattivo dell’informazione), così come accade per le visioni del mondo, i valori, le credenze e l’autostima.

Il movimento oculare nella terapia EMDR

La componente del movimento oculare ha provocato molti dibattiti in quanto sembra essere la componente che differenzia la terapia EMDR dalla terapia cognitivo-comportamentale focalizzata sul trauma e dai trattamenti basati sull’esposizione. Tuttavia, è stato suggerito che i movimenti oculari non siano necessari, portando a ricerche per verificare se altre stimolazioni bilaterali (uditive o tattili) o nessun movimento oculare producessero risultati equiparabili. Sulla base dei modelli di estinzione della paura, i movimenti oculari causerebbero distrazione ed una riduzione dell’abituazione.

Lee e Cuijpers (2013) hanno condotto una meta-analisi per determinare l’efficacia dei movimenti oculari quando vengono processate memorie emotive. I loro risultati supportano l’inclusione del movimento oculare sia per il trattamento in ambito clinico che nell’ambiente di laboratorio, dimostrando l’importanza della fedeltà al trattamento quando si utilizza l’EMDR. I vantaggi avvallati del compito aggiuntivo dei movimenti oculari nell’EMDR sono il distanziamento e la riduzione della vividezza e dell’emotività della memoria.

Sulla base della teoria per la quale i sintomi del disturbo da stress post-traumatico risultano da un fallimento del processamento di memorie episodiche, è stato suggerito che i movimenti oculari bilaterali possano facilitare l’interazione interemisferica, producendo un miglioramento nel processamento della memoria. La ricerca indica che il processamento della memoria episodica è bilaterale, mentre quello della memoria semantica viene condotto nell’emisfero cerebrale sinistro. Il movimento oculare orizzontale può rinforzare un aumento dell’attivazione di entrambi gli emisferi, migliorando in questo modo la comunicazione tra di essi e promuovendo il processamento dell’evento traumatico tramite la stimolazione della capacità di richiamo degli elementi che lo caratterizzano dalle memorie episodiche e semantiche.

Un altro modello teorico proposto è basato sulla teoria del movimento oculare rapido (REM) durante il sonno. La ricerca suggerisce che l’integrazione tra memorie episodiche e semantiche avvenga durate il sonno. La ricerca, facendo utilizzo di tecniche di neuroimaging, ha dimostrato l’esistenza di regioni cerebrali specifiche affette dalla ristimolazione di memorie traumatiche nel DSPT; queste sono le stesse regioni attivate nella fase REM del sonno. I movimenti oculari bilaterali ripetuti attivano il tronco cerebrale in uno stato di sonno REM, supportando così l’integrazione della memoria e la riduzione dei sintomi del DSPT.

La stessa stimolazione ripetitiva bilaterale che riorienta l’attenzione da un lato all’altro è alla base, secondo alcuni autori, dell’attivarzione di un meccanismo neurologico simile al sonno REM tramite una risposta di orientamento; l’attivazione di questi mecanismi sposta il cervello in una modalità di processamento della memoria simile al sonno REM, permettendo l’integrazione delle memorie traumatiche. E’ stato anche proposto che i movimenti oculari inneschino la risposta di orientamento attivando un riflesso investigatorio che si presenta primariamente come una risposta di allarme ed in secondo luogo come una pausa riflessiva, che produce una riduzione dell’arousal se non c’è una reale minaccia. Questa risposta riflessa produce un aumento dell’allerta, la quale favorisce i comportamenti esploratori quando i processi cognitivi diventano meno flessibili ed efficienti, permettendo alla memoria traumatica di essere integrata.

Secondo alcuni autori inoltre i movimenti oculari creerebbero una risposta di rilassamento, facilitando il riprocessamento della memoria tramite la riduzione del distress.

Memoria, memoria di lavoro e terapia EMDR

Seguendo la teoria della memoria di lavoro, è stato ipotizzato che gli effetti positivi della terapia EMDR possano risultare dal fatto che i movimenti oculari creano un doppio compito di attenzione. In linea con il modello di memoria di lavoro proposto da Baddeley, quest’ultima possiede una capacità limitata. Quando l’attenzione deve essere suddivisa tra più stimoli, come avviene nel caso del doppio compito di attenzione, la qualità dell’immagine traumatica si deteriora, con il risultato che essa viene portata al di fuori della memoria di lavoro ed integrata nella memoria a lungo termine (semantica), dove la vividezza e l’emotività sono ridotte. Il doppio compito di tenere l’emozione in mente mentre ci si focalizza sui movimenti oculari bilaterali può quindi interrompere l’immagazzinamento delle memorie traumatiche, ridurre la qualità episodica della memoria e quindi ridurre i sintomi del DSPT.

Un’esplorazione più specifica di Gunter e Bodner (2008) ha rilevato che le memorie tenute nel taccuino visuospaziale (un sottosistema della memoria di lavoro) si riducono in vividezza quando i movimenti oculari esauriscono le risorse di processamento. La ricerca ha mostrato che una riduzione della vividezza della memoria, dovuta ai movimenti oculari, può portare ad un conseguente decremento dell’emotività che circonda la memoria e ad una corrispondente riduzione dei dintomi del DSPT.

Lansing et al. (2005) hanno condotto studi di neuroimaging su agenti di polizia che avevano sviluppato il DSPT in seguito al coinvolgimento in sparatorie, sottoposti a sessioni di terapia EMDR. I risultati della SPECT (tomografia computerizzata a emissione di singoli fotoni) hanno rilevato una riduzione dell’attivazione nel lobo parietale sinistro, area associativa, e nel pulvinar destro, nucleo talamico associativo che aiuta a regolare i circuiti corticali; queste deattivazioni possono essere implicate nell’attenuazione della rete neurale delle memorie traumatiche. L’analisi dei dati ha mostrato inoltre una maggiore attivazione in aree prefrontali sinistre che sono solitamente ipoattivate nei soggetti con DSPT, ed un’attivazione della corteccia prefrontale dorsolaterale, associata con un miglioramento dei sintomi, in particolare di tipo depressivo.

Effetti neurobiologici della terapia EMDR

Una ricerca condotta da Pagani et al. (2012) ha permesso di monitorare l’attività cerebrale tramite EEG durante le sedute di terapia EMDR in pazienti con DSPT, paragonati a soggetti di controllo. A seguito di una terapia che ha riscontrato successo, il principale risultato neurobiologico dello studio è stato lo spostamento dell’attivazione corticale massima, sia durante l’ascolto del racconto autobiografico del trauma che durante la stimolazione oculare bilaterale, dalle regioni prefrontali e limbiche alle corteccie fusiforme e visiva, durante il corso della terapia. La comparazione con i soggetti di controllo ha mostrato come il rivivere l’evento traumatico causasse nei pazienti un’attivazione limbica bilaterale significativamente maggiore durante il racconto, ed una maggiore attivazione limbica orientata verso sinistra durante la stimolazione oculare bilaterale. Questo dato potrebbe essere correlato al tentativo guidato di codificare materiale emotivo non elaborato durante la stimolazione oculare, attivando preferenzialmente la corteccia prefrontale rostrale sinistra. L’attivazione della corteccia prefrontale rostrale durante la stimolazione oculare è risultata essere maggiore anche considerando i pazienti nella prima fase della terapia, in confronto con gli stessi soggetti valutati a fine terapia.

L’attivazione prefrontale è associata con la valutazione di materiale generato da sé stessi, essendo la corteccia cingolata anteriore il punto di integrazione di informazioni emotive coinvolte nella regolazione degli affetti, oltre che il substrato dell’esperienza conscia emotiva che monitora le informazioni con conseguenze sul piano affettivo. La corteccia prefrontale rostrale, in quanto parte del sistema limbico, è coinvolta in processi che riguardano il valore emotivo delle informazioni in arrivo, ed è criticamente implicata in funzioni alterate nella risposta psichica al trauma. Per di più, il recupero della memoria episodica attiva la corteccia prefrontale, ed è stata descritta una stretta relazione tra la memoria autobiografica/episodica, il sé ed il coinvolgimento della corteccia prefrontale. E’ stata dimostrata anche un’attivazione di tale regione durante la soppressione di memorie indesiderate, e durante il richiamo del trauma prima della terapia EMDR.

Un rilevante effetto neurobiologico della terapia EMDR nei pazienti è rappresentato dall’aumento significativo, in seguito al trattamento, del segnale elettroencefalografico nel giro fusiforme, così come nella corteccia visiva destra, confrontato con il segnale registrato ad inizio terapia. Questi cambiamenti suggeriscono un migliore processamento cognitivo e sensoriale (visivo) dell’evento traumatico durante il ricordo autobiografico, in seguito al successo della terapia EMDR, con un’attivazione preferenziale che si muove dalla corteccia emotiva fronto-limbica verso la corteccia associativa temporo-occipitale. Una volta che il mantenimento della memoria dell’evento traumatico può spostarsi da uno stato implicito subcorticale ad uno esplicito, differenti regioni corticali partecipano al processamento dell’esperienza. D’altra parte il giro fusiforme è implicato nella rappresentazione esplicita di facce, parole e pensieri astratti, e la sua prevalente attivazione dopo la terapia EMDR potrebbe essere associata con l’elaborazione, ad un livello cognitivo più alto, di immagini correlate all’evento. Il giro fusiforme ha mostrato una maggiore attivazione anche durante la stimolazione oculare bilaterale alla fine della terapia, rispetto all’inizio della stessa.

Nei pazienti è stata trovata una chiara lateralizzazione verso l’emisfero sinistro durante la stimolazione oculare, e verso l’emisfero destro durante la lettura del racconto autobiografico. In accordo con la teoria dell’asimmetria emozionale l’emisfero destro è dominante sul sinistro per l’espressione e la percezione emotive. Oltretutto, entrambi gli emisferi funzionano come una sorta di unità funzionale e l’attivazione aumentata in uno di essi determina un’inibizione di quello controlaterale. L’attivazione prominente trovata durante la stimolazione oculare bilaterale alla fine della terapia nelle aree di associazione nell’emisfero sinistro potrebbe quindi corrispondere ad un processamento cognitivo delle memorie traumatiche che sta raggiungendo lo stato esplicito dopo la terapia EMDR portata a termine con successo, associata ad un significativo contenimento delle esperienze emotive negative.

L’emisfero sinistro gioca anche un importante ruolo nell’esplicazione delle emozioni, ed è stata inoltre dimostrata l’attivazione del giro fusiforme durante compiti che implicano la memoria episodica ed il recupero della memoria associata al controllo attentivo.

Terapia EMDR con ansia e depressione

Una recente meta-analisi (Chen et al., 2014) si è occupata di indagare gli effetti della tecnica EMDR in 26 di studi, effettuati tra Gennaio 1993 e Dicembre 2013, che hanno utilizzato l’EMDR per il trattamento del disturbo da stress post traumatico, in comparazione ad altri tipi di terapie. La meta-analisi ha rilevato un effetto moderato della terapia EMDR per il disturbo da stress post-traumatico, la depressione (spesso in comorbidità con tale disturbo) e l’ansia (sperimentata dai pazienti con DSPT quando devono affrontare lo stress), ed un effetto ampio dell’EMDR sulla percezione soggettiva di distress. Questi risultati suggeriscono che l’EMDR può migliorare la consapevolezza nei pazienti, cambiare le loro credenze e i loro comportamenti, ridurre l’ansia e la depressione, e condurre a emozioni positive.

I pazienti con disturbo da stress post-traumatico non possono gestire appropriatamente le loro esperienze negative e le loro memorie. La terapia EMDR permette ai pazienti di creare connessioni adattive per integrare le esperienze negative con emozioni ed i pensieri positivi, migliorando i sintomi del disturbo.

Un’analisi dei sottogruppi in questo studio ha permesso di individuare come un trattamento della durata di 60 minuti a sessione sia maggiormente efficace rispetto a trattamenti di più breve durata, riducendo significativamente sia l’ansia che la depressione. I pazienti hanno inoltre mostrato una maggiore riduzione dei sintomi quando il trattamento era effettuato da parte di terapeuti con esperienza nella terapia di gruppo del disturbo da stress post-traumatico, comparati a coloro che sono stati trattati da terapeuti senza una tale esperienza.

Le ricerche sinora condotte hanno permesso di individuare varie modificazioni delle strutture neurali che si verificano in seguito alla terapia EMDR, e ciò ha permesso di sviluppare diverse teorie sul suo funzionamento, le quali forniscono un supporto ancora maggiore all’utilizzo di tali tecniche, la cui validità è stata più volte valutata e provata in studi di efficacia terapeutica. Ciò nonostante, i processi chiave che sottostanno ai meccanismi dell’EMDR sono complessi, in linea con la struttura del trattamento, che coinvolge componenti di mindfulness, ristrutturazione cognitiva, esposizione alla memoria, e senso di padronanza personale. Saranno necessarie dunque ulteriori ricerche, che permettano di chiarire sempre meglio i meccanismi di funzionamento, nelle diverse circostanze e considerando l’applicazione a diversi tipi di disturbo, di questa tecnica terapeutica all’avanguardia.

Philofobia: quando innamorarsi può far paura

La philofobia è una fobia specifica: innamorarsi spaventa, la persona vi percepisce dietro una minaccia e deve quindi starne alla larga evitando tutte le situazioni che in qualche modo lo tengano in contatto con la situazione temuta.

Cosa induce la paura?

Ogni essere umano ha indiscutibilmente paura di qualcosa. Ad incutere un certo timore potrebbe essere un particolare evento, una situazione, un determinato oggetto o un ipotetico scenario.
In ogni caso si ha paura di fronte ad un evento considerato in qualche modo minaccioso o pericoloso.
Talvolta ciò che la mente umana percepisce come una minaccia è l’imprevedibile, l’ignoto. Questo perché ciò che non si conosce è visto come incontrollabile, e quindi si è propensi a credere che non si posseggono le capacità personali giuste di affrontare una situazione poco conosciuta.

In altre circostanze anche un evento ben conosciuto e prevedibile potrebbe essere percepito come pericoloso, perché tale evento potrebbe essere avvertito come non controllabile, di fronte al quale potrebbero non possedersi le giuste risorse che permettano di gestirlo al meglio.
Molti individui hanno una personale paura o fobia. Si pensi a coloro che hanno paura delle altezze; c’è chi ha paura dei luoghi chiusi; chi teme alcuni animali; chi va in panico nelle situazioni d’esame.
Fobie di questo genere sono abbastanza frequenti, e anche facilmente decifrabili. Ad esempio una persona potrebbe temere i cani in quanto vede in essi una certa minaccia per la propria incolumità fisica.

Ma talvolta ad incutere paura potrebbe essere uno scenario che all’apparenza non possiede nulla di minaccioso, e in questi casi il soggetto che vi si trova coinvolto ha un grossa difficoltà a spiegarsene il perché.

 

La philofobia

Pare che molti soggetti sperimentino una paura di innamorarsi, o di instaurare una relazione dove alla base vi sia un innamoramento. Il termine tecnico di ciò è “Philofobia”.

Ebbene sì, esiste una forma di fobia nei confronti dell’amore, ed essa possiede tutte le caratteristiche tipiche di una fobia specifica:
– Paura marcata, persistente ed eccessiva nei confronti della situazione temuta;
– Risposta ansiosa e immediata all’esposizione dello stimolo fobico;
– La paura viene riconosciuta dal soggetto come eccessiva e irragionevole;
– Di fronte alla situazione minacciosa il soggetto mette in atto la strategia dell’evitamento.

Perché infatti la philofobia è una fobia specifica: innamorarsi spaventa, la persona vi percepisce dietro una minaccia e deve quindi starne alla larga evitando tutte le situazioni che in qualche modo lo tengano in contatto con la situazione temuta.

 

Philofobia: in che modo l’innamoramento può spaventare?

Tutti noi siamo soliti nel considerare l’amore come un qualcosa di positivo, qualcosa che dà un beneficio alla persona, e non una cosa da cui bisogna stare alla larga.
Eppure varie ricerche hanno messo in luce che un buon numero di individui si dichiarano spaventati di fronte all’innamoramento (Tavormina, 2014).
Infatti sono molti i soggetti che quando si innamorano esperiscono emozioni molto intense: magari ansia (nei momenti in cui non si sa come doversi comportare con il partner o cosa aspettarsi da lui), felicità (quando le cose vanno bene ed entusiasmano), vergogna, rabbia o via dicendo. Comunque molto spesso queste emozioni vengono vissute con un’alta intensità, al punto tale che possono essere percepite dal soggetto che le esperisce come incontrollabili e che prendono il sopravvento sul proprio modo di fare e di pensare.

E per chi soffre di un qualsiasi tipo di fobia è impensabile perdere il controllo della situazione o di se stessi.
Quindi il philofobico non teme l’innamoramento in sé per sé, piuttosto la propria reazione di fronte all’evento, che potrebbe fargli perdere il controllo dei propri comportamenti e delle proprie emozioni e portarlo poi a comportarsi in maniera troppo istintiva e poco razionale.
Ma non vi è solo un timore di perdita di controllo come motivazione che sottende alla philofobia.
Pare che molti individui vedano dietro l’innamorarsi e nel condividere con l’altro i propri sentimenti un “mettersi a nudo”, mostrando quindi all’altro la parte reale di se stessi, quella priva di formalismi e in un certo senso più intima, privata (Manucci, Curto, 2003).

Ed in questi casi il soggetto evita di farsi troppo coinvolgere emotivamente con un’altra persona, in quanto si sentirebbe “invaso” da qualcun altro e perderebbe di conseguenza un po’ i propri spazi, sentendosi in qualche modo sopraffatto.
In ogni caso il risultato è quello che il soggetto, non appena esperisce un certo coinvolgimento emotivo che lo sta legando sentimentalmente ad un’altra persona, si allontana. E come qualsiasi altra fobia che si rispetti evita la situazione temuta.

 

Come superare la philofobia?

La philofobia andrebbe trattata come qualsiasi altro tipo di fobia. Un eventuale trattamento in merito avrà innanzitutto lo scopo di ridurre il livello d’ansia scatenato dall’evento o situazione temuta.
Successivamente andrebbero ridotti tutti gli evitamenti che il philofobico attua per in qualche modo difendersi.
Senza dimenticare che andrebbe sempre investigata la motivazione che sottende a questa paura del soggetto di farsi coinvolgere in un legame sentimentale. E qualora dietro questa fobia vi si celino delle personali idee disfunzionali andrebbero disputate affinché la persona possa vivere il rapporto di coppia senza alcun timore o percezione di minaccia.

L’efficacia della mindfulness: funziona davvero?

Il 29 dicembre 2016 sulla prestigiosa rivista inglese BMJ, Shonin, Gordon e Griffith hanno pubblicato un editoriale in cui hanno discusso le evidenze disponibili sull’efficacia della mindfulness e le questioni non ancore risolte sull’utilizzo di questo intervento.

La mindfulness deriva dalla pratica buddista ed è stata definita come il processo di prestare attenzione al momento presente in modo non giudicante. L’efficacia della mindfulness è stata oggetto di indagine empirica dalla fine del 1970 e solo nel 2014 sono stati pubblicati oltre 700 articoli scientifici su questo intervento.

Gli autori inglesi affermano che le evidenze più convincenti riguardano l’efficacia della mindfulness nel trattamento della depressione e dell’ansia. Per esempio, una recente meta-analisi di 36 studi randomizzati sulla riduzione dello stress basato sulla mindfulness, della terapia cognitiva basata sulla mindfulness e di altri intreventi basati sulla mindfulness, ognuno confrontato con un controllo attivo, ha riportato un effect size da piccolo a moderato (d = 0,3-0,38) nel trattamento della depressione o dell’ansia dopo otto settimane di training con la mindfulness, con una riduzione della dimensione dell’effetto (d = 0,22-0,23), a tre e a sei mesi di follow-up.

Alcune evidenze suggeriscono che gli interventi basati sulla mindfulness possono avere un ruolo nel trattamento di altre condizioni psichiatriche, tra cui i disturbi dello spettro della schizofrenia, i disturbi dell’alimentazione e i disturbi da dipendenza (sia chimici e non chimici).

Tuttavia, nonostante il fatto che la mindfulness sia stata recentemente inclusa nelle linee guida pratiche del Royal Australian and New Zealand College of Psychiatrists come un trattamento non di prima scelta per il disturbo da binge-eating negli adulti, ci sono insufficienti evidenze derivate da studi randomizzati ben disegnati per supportare l’efficacia della mindfulness in condizioni diverse dalla depressione e dall’ansia.

Evidenze stanno emergendo anche sull’efficacia della mindfulness nel trattamento di condizioni somatiche come la psoriasi, il cancro, l’infezione da HIV, la sindrome del colon irritabile, le malattie cardiache, l’ipertensione, le malattie polmonari, il diabete mellito e il dolore cronico.

 

Gli studi sull’ efficacia della mindfulness

Le evidenze derivate da studi randomizzati suggeriscono che gli interventi basati sulla mindfulness (in particolare la riduzione dello stress basato sulla mindfulness e la terapia cognitiva basata sulla mindfulness) sono poco o moderatamente efficaci nel trattamento del dolore cronico (d = 0,33) e che hanno possibili applicazioni per il trattamento di disturbi di dolore specifici, come la fibromialgia.

Tuttavia, non è chiaro se l’efficacia della mindfulness è ottenuta da un effetto di riduzione della frequenza e dell’intensità del dolore o semplicemente da un miglioramento della capacità dei pazienti di far fronte al dolore. Gli autori affermano che, con l’eccezione di dolore cronico e dei disturbi di dolore specifici, non vi siano ancora evidenze sufficienti di alta qualità per supportare l’efficacia della mindfulness nel trattamento di condizioni somatiche.

Le questioni non ancora chiarite sull’efficacia della mindfulness, secondo Shonin, Gordon e Griffiths, sono molteplici. In particolare, è possibile che i risultati di questo intervento siano stati influenzati dall’effetto ‘popolarità’ e cioè dalla convinzione dei partecipanti di ricevere una tecnica psicoterapeutica alla moda o di dimostrata efficacia. C’è anche bisogno di una maggiore chiarezza sul fatto che i risultati positivi siano mantenuti nel corso degli anni e non solo per alcuni mesi, se gli interventi di mindfulness abbiano degli effetti negativi e se sia valida la visione tradizionale che le pratiche contemplative richiedano una pratica quotidiana per molti anni per potere ottenere miglioramenti sostenibili per la salute e il benessere. Altri problemi non risolti riguardano il fatto che i vari studi hanno incluso interventi formulati con una notevole variazione di fattori, come la quantità di ore di contatto tra partecipante-facilitatore, la quantità e la durata degli esercizi di mindfulness guidati, l’utilizzo di tecniche psicoterapeutiche non mindfulness (per es. la psicoeducazione o la discussione di gruppo), l’inclusione di un giorno intero di ritiro in silenzio, l’enfasi sull’auto pratica (in genere sostenuto da CD di esercizi di mindfulness guidati), e l’uso di altre tecniche di meditazione (come lo yoga).

Gli autori concludono il loro editoriale affermando che l’efficacia della mindfulness sembra evidente quando bisogna aumentare la distanza percettiva da stimoli psicologici e somatici angoscianti e nel determinare cambiamenti neuroplastici funzionali del cervello. Tuttavia, affermano che lo status di ‘intervento alla moda’ di questa pratica tra l’opinione pubblica e la comunità scientifica può avere oscurato la necessità di esaminare importanti questioni metodologiche e operative riguardanti la reale efficacia della mindfulness.

Siamo davvero felici? Come la percezione della nostra felicità cambia in chi ci osserva

In un recente studio pubblicato sul Journal of Happiness Studies, i ricercatori hanno scoperto una grande discrepanza tra come un gruppo di intervistati hanno valutato la propria soddisfazione di vita e come l’hanno giudicata degli osservatori esterni sulla base di un colloquio.

Lo studio ha coinvolto 500 partecipanti che sono stati invitati ad assegnare un voto su una scala da 1 a 10 alla propria soddisfazione generale di vita. I partecipanti sono stati poi intervistati e hanno risposto a diverse domande aperte su esperienze positive e negative, la salute, e altri aspetti della propria vita. Ogni intervista è stata poi analizzata da 12 valutatori diversi e i partecipanti sono stati inseriti su una nuova scala da 1 a 11 allo scopo di aggiungere maggiore profondità alla categorizzazione.

Queste le 11 categorie in cui era suddivisa la nuova scala:

11- Serenità: Gli intervistati sono autenticamente soddisfatti della loro vita. I loro problemi tendono ad essere piccoli e loro riescono facilmente a farvi fronte.

10-Serenità con qualche difficoltà: Gli intervistati sono per lo più spensierati. Citano circostanze negative, ma queste non incidono realmente sullo stato d’animo generale.

9-Felicità Resiliente: Questa è simile alla categoria precedente, ma le circostanze negative sono significative. Queste persone hanno una forte capacità di coping e sanno accogliere le sfide della vita.

8- bilancio sostanzialmente positivo ma con difficoltà consistenti: Simile alla categoria precedente, ma con minori capacità di coping. Queste persone sono rassegnate (“sono abituato a questo”).

7-ambiguità: questi intervistati hanno riferito forti esperienze ed emozioni sia positive che negative.

6-equilibrato: questa categoria è come la categoria ambiguità, ma meno intensa.

5-poco emotivi: superficiali o indifferenti, questi intervistati non hanno mostrato sentimenti forti nè negativi nè positivi.

4-Inappagati: Gli intervistati sono leggermente negativi. Mostrano una mancanza di soddisfazione e “sembrano vivere una vita che non hanno scelto.” Giustificano o minimizzano la mancata soddisfazione di obiettivi e sogni.

3-Vita disarmonica ma con supporto: Gli intervistati sono “tristi, oppressi o stressati, ma con risorse positive o supporto”. Hanno problemi nelle principali aree di vita e il benessere emotivo è ostacolato, ma hanno ancora esperienze positive o relazioni che danno gioia.

2-Vita disarmonica senza supporto: Questa è come la categoria precedente, ma senza un sistema di supporto positivo. La vita spinge queste persone verso il basso, c’è assenza di tensione verso il futuro.

1-Depressione dominante: Caratterizzata da totale disperazione, infelicità, disperazione e insoddisfazione per le circostanze della vita.

Dopo aver analizzato le interviste i ricercatori hanno scoperto grosse discrepanze tra come gli intervistati auto-valutano la loro soddisfazione di vita e come invece descrivono la loro vita in un racconto da dare ai valutatori. Gli effetti di questa discrepanza sono evidenti nei valori di soddisfazione di vita assegati dai valutatori: solo 15 persone si sono assegnate un valore uguale o inferiore a 5, ma i valutatori esterni hanno assegnato a ben 40 persone valori uguali o inferiori a 5. E, ancora più sorprendente, solo 6 di questi casi risultavano abbinati. Uno degli intervistati, ad esempio, si è attribuito un 10, ma i valutatori gli hanno dato 3!
Inoltre non solo le auto-valutazioni non si allineano con rating esterni, ma diversi valutatori tendono a valutare lo stesso intervistato in modo diverso.
Secondo i ricercatori queste discrepanze sono da attribuire al bisogno di trasmettere un’ immagine positiva di sè, alla paura di lamentarsi, o a un sistema di autodifesa che induce alla sottostima degli elementi di insoddisfazione nella propria vita.

l’interesse scientifico e la nuova legge sulla responsabilità professionale degli operatori sanitari

La risposta migliore alla copertina di “Internazionale” non è attivare un ufficio stampa efficace che ribatta o inviare una mail di precisazione alla rivista, ma impegnarsi affinchè la istituenda commissione ministeriale non sia la solita commissione nella quale siedono equamente divisi i rappresentanti di tutti gli interessi in gioco tranne quello scientifico

 

Tra giovedi e venerdi della settimana scorsa sono avvenuti due fatti rilevanti per chi fa psicoterapia. L’importanza dei due fatti è inversamente proporzionale al risalto che hanno avuto nei media.

Internazionale traduce Burkeman sulla psicoanalisi

Il primo. E’ uscito il nuovo numero della rivista “Internazionale” – una pubblicazione che si propone di raccogliere una significativa scelta, indicativa di tendenze e incisività, di articoli apparsi su quotidiani e periodici di ogni nazione- che, giusto questo giovedì, riporta in copertina, e quindi in grande evidenza una impegnativa e curiosa enunciazione: “La rivincita della psicoanalisi”. Leggendo si scopre come, pur esistendo un variegato mondo della psicoterapia, sostanzialmente non sia facile stabilire in modo deciso e incontestabile quali siano le più efficaci, ergo , l’autore per altro senza grossi supporti scientifici ma con quella che appare una frettolosa necessità di certezze, utilizzando il noto “verdetto del Dodo”, mira ad un ridimensionamento della CBT e definisce, con nonchalance più letteraria che scientifica, la psicoanalisi come una delle più valide pratiche, in un panorama di psicoterapie che “non mostra differenze di efficacia”.

 

La riforma della legge sulla responsabilità professionale degli operatori sanitari

La seconda notizia arriva venerdi. È stata approvato alla Camera il testo di riforma della legge sulla responsabilità professionale degli operatori sanitari. La legge riguarda tutte le professioni sanitarie, da quella medica a quella veterinaria, farmaceutica e psicologica comprendendo ovviamente l’attività di psicoterapia. Cambia la responsabilità del professionista, sia dal punto di vista penale (poiché non sarà più responsabile neppure per colpa grave) che civile, con inversione dell’onere della prova (toccherà all’accusa dimostrare la responsabilità del professionista) e dimezzamento del termine di prescrizione.

Tutto questo se il professionista dimostrerà di aver seguito le linee guida e i protocolli previsti per il trattamento del disturbo patologico. Sono queste alcune delle principali novità contenute nel DDL Gelli di riforma delle professioni sanitarie, approvato, in prima lettura, alla Camera dei deputati, con 307 voti favorevoli e 84 contrari.

Il testo rappresenta “un risultato storico, una svolta nella lotta alla medicina difensiva perché assicura l’equilibrio tra la tutela dei medici, che hanno bisogno di svolgere il loro delicato compito in serenità, e il diritto dei cittadini dinanzi ai casi di malasanità” ha commentato il ministro della Salute, Beatrice Lorenzin, ai margini dell’approvazione.

 

Alcune novità nel testo meritano di essere sottolineate:

Best practice e linee guida: le buone pratiche clinico-assistenziali e le raccomandazioni previste dalle linee guida, alle quali i sanitari devono necessariamente attenersi nell’esecuzione delle prestazioni richieste, dovranno assicurare un ruolo di equilibrio ed essere indicate dalle società scientifiche e da istituti di ricerca individuati da un decreto del Ministro della salute e iscritti in un elenco apposito. Le linee guida verranno poi inserite nel sistema nazionale e pubblicate sul sito dell’Istituto superiore di sanità, nonché aggiornate ogni due anni.

Si, ma quali sono le linee guida e le buone prassi che regolamentano l’attività psicoterapica in Italia?

Credo che attualmente nel nostro paese troppe volte non ci sia relazione tra intervento applicato e risultato atteso e che spesso l’intervento è coerente con il modello teorico che lo sottende ma prescinde da tempi di risposta, eventuali effetti iatrogeni, obiettivo dell’intervento ed efficacia psicopatologica. Il tutto nella disinformazione del paziente che non viene informato di quelli che possono essere gli interventi piu rapidi ed efficaci.

Uno scenario come questo giustifica l’aria di sufficienza e il pregiudizio negativo che troppo spesso la comunità medica e psichiatrica ha nei confronti dell’attività psicoterapica.

 

Eppure nella esplicitazione di linee guida e protocolli di cura, la CBT dovrebbe essere avvantaggiata rispetto ad altre forme di psicoterapia, per la sua originaria scelta di posizionarsi nel campo scientifico, accogliendo la sfida della verifica empirica del propri risultati e delle evidenze cliniche.

In Italia il discorso si è un po’ complicato; la CBT negli anni si è (dis-)articolata in modelli ed approcci teorici sempre più raffinati ma anche distanti tra loro e dal modello anglosassone, che maggiormente ha contribuito a standardizzare i protocolli utilizzati nei trials clinici randomizzati. Non sono sicuro che tutti i colleghi CBT applichino il medesimo trattamento allo stesso paziente affetto, per esempio, da un disturbo di panico. Questo non aiuta la CBT a diffondersi nella comunità neuroscientifica italiana ed è un modo per sprecare una ricchezza e un plusvalore.

 

La condivisione di intenti e obiettivi nella comunità CBT italiana

Ritengo sia opportuno affermare l’utilità della psicoterapia nella cura dei disturbi psicopatologici e l’attuale supremazia della CBT, almeno per quanto riguarda il trattamento di molte sindromi asse I quando vengono applicati i protocolli di cura.

Sarebbe opportuno lavorare rapidamente ad una consensus conference tra società, associazioni e istituti CBT in Italia, che definisca le linee guida e i protocolli di intervento CBT attualmente sostenuti da studi di megaanalisi e metanalisi ed evidenze empiriche forti. Questo documento dovrebbe poi essere presentato al Ministero come prima bozza per una collaborazione alla definizione dei criteri che il nuovo testo di legge indica.

Ciò prevede che ci sia una condivisione di intenti, nella nostra comunità CBT italia, per un obiettivo comune rappresentato dal lavorare per il riconoscimento del valore scientifico della CBT, della sua efficacia, della sua rapidità d’azione, della sua bassa iatrogenicità se vengono seguiti protocolli d’intervento chiari e definiti.

Ce la faremo? Ce la potremo fare se i campanilismi, i personalismi saranno, per una volta, messi da parte. La risposta migliore alla copertina dell’ ”Internazionale” non è attivare un ufficio stampa efficace che ribatta o inviare una mail di precisazione alla rivista, ma impegnarsi affinchè la istituenda commissione ministeriale non sia la solita commissione nella quale siedono equamente divisi i rappresentanti di tutti gli interessi in gioco tranne quello scientifico. Nel qual caso si, che siamo sicuri che prevarrà il verdetto del Dodo.

Ce la faremo.

 

Carmelo La Mela
Firenze 01.02.2016

Terza Onda, un esperimento di Ron Jones – I grandi esperimenti di psicologia nr. 2

#2: La Terza Onda, Ron Jones (1972)

Vi presentiamo una serie di articoli relativi ai più grandi esperimenti in ambito sociologico e psicologico. Per fare ciò abbiamo cercato di risalire alle fonti originarie, ai primi articoli divulgati dagli autori. In questo modo sarà più facile vivere le loro scoperte a partire dalle loro stesse ipotesi e respirare un’aria in cui, liberi (purtroppo) da vincoli etici, tutto era possibile in nome della scienza. Qui riportiamo l’esperimento della Terza Onda

[blockquote style=”1″]Per anni ho mantenuto un particolare segreto. Ho condiviso questo silenzio con duecento studenti. Ieri ho incontrato uno di questi studenti. Per un momento, è riaffiorato tutto. [/blockquote]

Così Ron Jones comincia il racconto del suo esperimento, un esperimento che gli costerà la carriera e nel contempo lo renderà famoso in tutto il mondo.

Siamo nell’aprile del 1967 e il professor Jones tiene il corso di Storia Contemporanea alla Cubberley High School di Palo Alto, in California. Durante la spiegazione sull’instaurarsi del nazismo in Germania, uno degli studenti chiede come sia possibile che il popolo tedesco abbia sempre sostenuto di non sapere nulla sulle atrocità compiute dai nazisti. Come hanno potuto cittadini, ferrovieri, insegnanti, medici sostenere di non sapere nulla sui campi di concentramento e sui massacri. Come hanno potuto persone i cui vicini di casa o addirittura i cui amici erano cittadini ebrei affermare che semplicemente non erano presenti quanto tutto ciò è accaduto. È una buona domanda, a cui il professor Jones non sa rispondere. Per questo motivo decide di utilizzare una settimana di lezioni per esplorare la questione e trovare una risposta adeguata.

La forza attraverso la disciplina

Il lunedì seguente, Ron Jones decide di introdurre nella classe uno dei concetti chiave del nazismo: la disciplina. Spiega la bellezza della disciplina, l’esercizio, la perseveranza, il controllo. Il trionfo. Successivamente, ordina alla classe di esercitarsi su una specifica postura da adottare seduti al banco, per mantenere la concentrazione e rafforzare la volontà. Piedi paralleli e piatti sul pavimento, caviglie ferme, ginocchia piegate a novanta gradi, schiena dritta, mento verso il basso, testa in avanti. Gli alunni si impegnano a fondo, seguono le direttive, fino a diventare perfettamente istruiti su come alzarsi e sedersi in cinque secondi senza fare alcun rumore.

Ron Jones si chiede il perché di tale rispetto per una norma imposta: fino a quanto può spingersi? Il desiderio di disciplina e uniformità è un bisogno innato?

Nell’ultima mezz’ora di lezione il professore aggiunge nuove regole di comportamento: gli studenti possono parlare solo mettendosi a lato del banco, introducendo ogni affermazione con “Mr. Jones”. Le risposte devono essere date in massimo tre parole. Chi sbaglia deve ripetere l’azione finché non viene svolta secondo le norme. L’insegnante nota come la classe sia più attenta, esponga chiaramente i contenuti richiesti, l’ambiente autoritario è maggiormente produttivo. Dove sta portando questo esperimento? Carl Rogers, esponente di una metodologia non direttiva in psicoterapia e figura molto apprezzata da Mr. Jones, si è forse sempre sbagliato?

La forza attraverso la comunità

Martedì il professor Jones entra in classe e trova gli alunni nella posizione insegnata il giorno precedente: alcuni sorridono, consapevoli di aver compiaciuto l’insegnante, altri sono tesi e rigidi. Inizia la lezione, viene spiegato il valore della comunità. Mr. Jones tra sé si domanda se continuare l’esperimento o interromperlo. Nel frattempo, parla del sentirsi parte di un insieme, di un movimento, del soffrire insieme e del lavorare per uno scopo comune. La classe ripete il motto: “la forza attraverso la disciplina, la forza attraverso la comunità”.

Perché gli studenti accettano questo modello di autorità? Quando e come potrà finire? Sono parte di questo esperimento. Mi piace vedere gli studenti così uniti. Mi piace vederli soddisfatti e eccitati di poter fare di più. Sto seguendo il gruppo più che dirigerlo.

Il professore crea un saluto esclusivo per gli studenti. Il braccio destro davanti, la mano leggermente curva, a mimare un’onda. Il movimento ha un nome: la Terza Onda, la più grande della catena di onde che si muove fino a riva. Alcuni ragazzi dalle altre classi chiedono di potersi unire al movimento.

 

L’ARTICOLO CONTINUA DOPO IL VIDEO

“L’Onda”, film del 2008 tratto dalla storia dell’esperimento

La forza attraverso l’azione

Mercoledì, terzo giorno. 13 studenti di altri corsi cominciano a seguire le lezioni di Storia Contemporanea per potersi unire all’esperimento. Ron Jones spiega l’importanza dell’azione, la bellezza del prendersi la responsabilità dei propri gesti e del fare qualsiasi cosa necessaria per proteggere la propria comunità. Alla fine della lezione, agli studenti viene dato il compito di ideare il simbolo della Terza Onda, ma non solo. Il professore chiede di imparare i recapiti di tutti i membri del movimento a memoria, di convincere 20 bambini delle scuole elementari a sedersi come loro, di indicare nuovi possibili membri per il movimento. Infine, vengono stabilite procedure di iniziazione per i nuovi membri.
A fine giornata duecento studenti si uniscono alla Terza Onda.

Mi sento molto solo e piuttosto spaventato.

Tre studentesse raccontano ai genitori cosa sta accadendo durante le lezioni di Ron Jones. Il padre di uno di queste, che è un rabbino, telefona al professore, il quale spiega tranquillamente che si tratta di un esperimento sulla personalità della popolazione tedesca. Il rabbino si rincuora e dice all’insegnante di non preoccuparsi e di continuare l’esercitazione.
Alla fine del terzo giorno la situazione si fa preoccupante. Mr. Jones è esausto, non distingue i limiti tra finzione e realtà. Uno degli studenti ritenuti più anonimi si propone per fargli da guardia del corpo: ha finalmente un ruolo, è parte di qualcosa, il professore non può dirgli di no.

La forza attraverso l’orgoglio

Al quarto giorno, Ron Jones decide di porre fine all’esperimento. Dire semplicemente che si tratta di un gioco sarebbe troppo destabilizzante, così viene adottata un’altra strategia: una mossa inaspettata. L’insegnante comincia la lezione parlando dell’orgoglio, ma dopo poco decide di rivelare la reale natura della Terza Onda.
La Terza Onda non è solo un esperimento o un’esercitazione di classe. È molto più importante di questo. La Terza Onda è un programma nazionale per ricercare studenti in grado di lottare per un cambiamento politico in questa nazione.
Il professore rivela agli studenti che il programma sarà reso pubblico il giorno seguente, con un messaggio in diretta televisiva rivolto agli oltre 1000 gruppi di giovani coinvolti in tutto lo stato.

 

La forza attraverso la comprensione

Il venerdì l’auditorium della scuola è pieno di studenti e di conoscenti di Ron Jones che si fingono inviati della stampa. Poco prima del collegamento con il fantomatico responsabile del movimento Terza Onda, il professore ripete per l’ultima volta il saluto e il motto insegnato, prontamente seguito dagli studenti. Alle 12:05, si accende un grande schermo. Per due minuti tutti fissano una parete bianca. D’un tratto, qualcuno protesta e inizia a chiedere dove sia il suo leader.

Non c’è alcun leader! Non c’è alcun movimento nazionale giovanile chiamato la Terza Onda. Siete stati usati. Manipolati. Non siete né meglio né peggio dei tedeschi nazisti che abbiamo studiato.
Successivamente, viene mostrato agli studenti un documentario sul Terzo Reich e sulle azioni commesse durante il nazismo. Infine, il professor Jones tenta di spiegare la natura e lo scopo dell’esperimento.

Abbiamo visto che il fascismo non è qualcosa che qualcuno fa e qualcuno no. No. È proprio qui. In quest’aula. Nelle nostre personali abitudini e nel modo di vivere. Grattate la superficie e appare. Qualcosa in ciascuno di noi. Ce lo portiamo dentro come una malattia. La consapevolezza che l’essere umano è per natura malvagio e quindi incapace di agire per il bene degli altri. Una consapevolezza che richiede un leader forte e disciplina per preservare l’ordine sociale. E c’è dell’altro. La necessità di una giustificazione.

Nel periodo successivo, nessuno parlò più del movimento della Terza Onda, descritto dallo stesso Ron Jones soltanto alcuni anni dopo, in un saggio del 1972. Ad oggi, non possiamo evitare di fare parallelismi con alcune realtà tragicamente protagoniste della cronaca attuale. Quello che invece è impossibile condividere è la generalizzazione proposta da Jones in conclusione alla narrazione degli eventi dell’aprile 1967.

Durante l’esperimento, il professor Jones aveva 25 anni e i suoi studenti circa 15. Gli stessi studenti gestiscono ad oggi un sito internet interamente dedicato alla Terza Onda, dove affermano di non aver parlato di questi fatti fin da subito perché nessuno gliel’avrebbe chiesto e allora erano piuttosto impegnati. Ad oggi sono uomini e donne con le loro carriere e le loro famiglie, sparsi per il mondo come chiunque altro. Non sembrano esserci dati relativi a vissuti negativi in seguito all’esperimento. Ma qualcuno ha sempre negato di avervi preso parte.

Il destino è un tassista abusivo di Luca Manzi (2012) – Letteratura e Psicologia

Uscito quasi in sordina nel 2012, il romanzo d’esordio di Luca Manzi merita di essere ri-scoperto per moltissimi ottimi motivi. Il primo è ovviamente la vis comica. Straniante, spiazzante, fuori dagli schemi. Sorge da situazioni e momenti imprevedibili.

C’è poco da dire: ad avviso del recensore questo è il più grande romanzo umoristico italiano degli ultimi anni.

Come si fa a riconoscere un capolavoro dell’umorismo da un semplice libro divertente? Il semplice libro divertente, dopo avervi strappato qualche risata (magari anche tante risate), viene infilato nella libreria accanto ai romanzi di Montalbano e a quelli di Montalbán, a prendere polvere per l’eternità. Il capolavoro rimane in vista e a portata di mano, perché ogni tanto vi torna la voglia di rileggere quel passo in cui succede quella certa cosa. Continua a piacervi e a procurarvi piacere ogni volta che l’occhio torna a scorrere le battute più brillanti. Pochissime volte si ama un libro umoristico fino a questo punto. Per qualcuno può trattarsi dei racconti di Woody Allen, per un altro la Guida galattica per autostoppisti, per altri ancora… ecco, sì, proprio quello che avete in mente. Il destino è un tassista abusivo è uno di questi capolavori.

Uscito quasi in sordina nel 2012, il romanzo d’esordio di Luca Manzi merita di essere ri-scoperto per moltissimi ottimi motivi. Il primo è ovviamente la vis comica. Straniante, spiazzante, fuori dagli schemi. Sorge da situazioni e momenti imprevedibili. La descrizione dello sciogliersi di un frollino nel latte, la rievocazione del concerto BWV 1052 di Bach, la crudeltà di un boss balcanico, una cupola di Borromini, un seminario di sociologia: tutto questo può nascondere un’esplosione di comicità folle e amara. Perché il segreto del Destino è anche nella capacità di rendere la risata un atto esistenzialista (e qualche volta situazionista).

Un secondo motivo di interesse del romanzo consiste nella sua capacità di descrivere l’esistenza quieta ma non ancora rassegnata della generazione dei precari, senza retorica e senza facili effettacci. I protagonisti, sia maschili che femminili, sono coscienti di un orizzonte plumbeo che incombe su di loro e sono preparati ad affrontare momenti grami; ma non perdono per questo la loro capacità di assorbire ogni colpo con autoironia. Ma la battuta non finge una falsa impermeabilità ai problemi: è sempre superamento dell’istante e attesa del prossimo ostacolo. Non ci sono eroi o supereroi, e neanche quegli Edipi appollaiati sulla spalla da ebrei newyorkesi, ormai saturati dal Lamento di Portnoy. Ogni personaggio trasuda umanità autentica, sia quella del romano che vive al Quadraro vicino al Parco degli Acquedotti o quella del milanese che gravita illuso intorno all’università.

L’appassionato di psicologia, però, verrà catturato soprattutto dalla descrizione delle relazioni nevrotiche tra i principali personaggi. Giorgio Correnti, colui che mai abbandona la scena, è un ricercatore (ovviamente non strutturato) moderatamente ossessivo. Questo tipo psicologico è di norma efficiente in un lavoro di ricerca: controlla i suoi risultati come la sua prosa; non trascura i particolari; non azzarda interpretazioni se non è completamente sicuro che siano sostenibili. Meno a proprio agio si muove in campo sentimentale. La donna della quale Giorgio si innamora, Agnese (una studentessa) è da parte sua una tipica isterica della nuova generazione. Si infatua di personaggi apparentemente non disponibili, salvo ritrarsi nel momento in cui il rapporto con il partner prescelto è concretamente possibile o addirittura rischia di incanalarsi sui binari della stabilità. Però, al contrario dell’isterica di epoca freudiana, non si preclude la sessualità ed anzi può viverla con una certa scioltezza, salvo quando sembra profilarsi la possibilità di un appagante reciproco abbandono. Per conseguenza, se Giorgio viene visto da Agnese come il docente irraggiungibile può essere desiderato, ma se si innamora veramente rischia di perderla. E di perdersi, perché, da buon ossessivo, tenderà a sovrainterpretare ogni segnale che viene dall’altra. La quale, da buona isterica, non starà certo a porsi il problema di una vera e propria strategia nell’emettere segnali, dato che la contraddizione interna nel comunicare è parte della sua natura.

Il professore con il quale Giorgio stabilisce finalmente un rapporto di collaborazione significativo, Zanbesi, è a sua volta un ossessivo, con quelle leggere punte paranoiche tipiche di (quasi) ogni ordinario della nostra Università. D’altronde, com’è noto, nell’ambiente universitario le difese paranoidi non sono difese primitive, ma altamente adattive. Ognuno dei due ossessivi vedrà riflessi i propri pregi e i propri difetti nell’altro. Si sprigionerà in modo inerziale una tipica e “sana” ambivalenza da rapporto padre-figlio/maestro-allievo. La voglia di Zanbesi di aiutare Giorgio è bilanciata dall’esistenza di una serie di regole non scritte dell’Accademia che vedono l’anzianità prevalere sulla brillantezza. Zanbesi ha allievi più anziani di Giorgio e non può o non vuole violare le regole che egli stesso ha contribuito a scrivere. Giorgio, da parte sua, ammira il grande studioso e accetta con gratitudine i suoi apprezzamenti ma non riesce ad adattarsi all’idea che gli venga preferito un mediocre.

Gli amici di Giorgio sono a loro volta prigionieri di schemi cognitivi dai quali non riescono a evadere: schemi che possono portarli al fallimento ma anche risultare paradossalmente efficaci proprio nell’istante della disperazione. Franco pensa che un atteggiamento da macho rappresenti l’unica possibilità di affermarsi in un mondo nel quale le opportunità sembrano venire solo dalla malavita; ma questo modo di proporsi è perdente nel rapporto con la moglie che, alla fine, è l’unica donna che veramente gli interessi. Davide trova del tutto possibile che la ragazza della quale è innamorato possa, in ultima analisi, non esistere. La sua debolezza diventa, però, il suo massimo punto di forza. Corrado vive la sua omosessualità con un certo equilibrio; salvo rivelarsi un narcisista covert, del quale è meglio essere amico che subire una vendetta.

L’autore del romanzo, Luca Manzi, già creatore di “Boris”, produttore televisivo, spin doctor per politici italiani di rilievo, docente alla Cattolica di Milano, ha scritto, tra l’altro, una sceneggiatura con David Seidler (che vinse il premio Oscar per Il discorso del re). Negli ultimi tempi è stato anche regista teatrale e televisivo. Chi scrive, però, si augura che torni al più presto a scrivere un romanzo. Se non è chiedere troppo, il seguito di Il destino è un tassista abusivo.

Superbetter: la piattaforma di giochi online per avere una vita gamefull contro ansia e depressione

Secondo McGonigal, ideatrice di Superbetter,  è possibile apprendere, potenziare e modificare strategie di coping e aspetti di resilienza, utili nella vita quotidiana, adottando una mente “gamefull”, ovvero seguendo un approccio alle situazioni simile a quello utilizzato all’interno dei giochi.

[blockquote style=”1″]L’opposto del gioco non è il lavoro. È la depressione. [/blockquote]

 

Il gioco dal punto di vista delle neuroscienze

Così afferma Brian Sutton-Smith, psicologo che dagli anni cinquanta si è dedicato allo studio dei processi sottostanti l’esperienza del gioco. Occupandosi sia di adulti sia di bambini, egli osservò che le persone, mentre giocano, provano un innalzamento dell’autostima, dell’energia e delle emozioni positive. Tutte caratteristiche, queste, che si trovano ridotte negli individui con umore deflesso.

Tali considerazioni vennero fatte quando ancora non c’erano le strumentazioni tecnologiche che oggi permettono di effettuare studi accurati sul cervello. Sfruttando le innovazioni, ricercatori hanno calato le intuizioni dell’autore nella modernità, utilizzando tecniche di neuroimmagine per indagare cosa avviene a livello cerebrale durante l’utilizzo di videogiochi e arrivando a fornire un supporto neurologico evidente alla sua originaria affermazione. A titolo esemplificativo, Lorenz e collaboratori (Lorenz, Gleich, Gallinat e Kühn, 2015), con l’impiego della risonanza magnetica funzionale (fMRI), hanno dimostrato che durante il gioco si attivano in particolare, stimolate costantemente e ad alta intensità, due importanti aree cerebrali: il “sistema ricompensa”, associato alla motivazione e alla gratificazione, e l’ippocampo, collegato all’apprendimento e alla memoria.

La cosa interessante è che queste due zone sono, invece, ipoattivate nelle persone con depressione (Naranjo, Tremblay e Busto, 2001) e che, negli episodi più gravi, possono anche rimpicciolirsi. Queste ultime condizioni, infatti, portano gli individui da un lato a non visualizzare alcun tipo di possibilità davanti a loro, determinando sintomi di mancanza di volontà e di voglia nell’agire, e, dall’altro, a difficoltà nello sviluppare e nell’imparare strategie adatte ad affrontare i problemi quotidiani. In poche parole, la persona non si sente né capace né spinta a fare.

 

Gli effetti benefici del gioco e la nascita di Superbetter

Da tutte queste considerazioni prende spunto il lavoro della game designer Jane McGonigal (2015). L’idea da cui parte è che ci si possa allenare ad affrontare la vita quotidiana con la stessa modalità con cui si intraprende una sfida in un gioco, basata sull’ottimismo e sulla consapevolezza di poter superare gli ostacoli. Richiamando i lavori di Martin Seligman (2011), caposaldo della psicologia positiva, è arrivata a ipotizzare che i videogiochi siano in grado di generare quelle caratteristiche che portano un miglioramento nello stato mentale delle persone e nell’efficacia produttiva e strategica. Tali aspetti, che sono stati identificati dallo stesso Seligman con l’acronimo PERMA, sono fondamentali non solo per incrementare il proprio benessere ma anche per avere un impatto positivo sul mondo che ci circonda. Essi sono:

– emozioni positive (Positive emotions), collegate al senso di soddisfazione e di autostima positiva;
– coinvolgimento (Engagement), cioè essere assorti in un compito e provarne piacere;
– relazioni sociali (Relationship) positive e adeguate;
– significato (Meaning), come senso personale di motivazione generale, di scopi da perseguire;
– realizzazione (Accomplishment) personale, scaturita dalla consapevolezza di aver raggiunto qualcosa.

Secondo McGonigal (2015) è possibile apprendere, potenziare e modificare strategie di coping e aspetti di resilienza, utili nella vita quotidiana, adottando una mente “gamefull”, ovvero seguendo un approccio alle situazioni simile a quello utilizzato all’interno dei giochi.

Il suo programma Superbetter, nato nel 2015, ha visto la creazione di una piattaforma online che funge da palestra mentale di tipo gamefull, che permette, per l’appunto, di adottare una modalità di vita gamefully, portando nel reale quei punti di forza che caratterizzano il virtuale, come la creatività, la determinazione, la flessibilità nell’uso di strategie, la collaborazione.

Il programma Superbetter nasce da un’esperienza difficile di McGonigal. A causa di una commozione cerebrale, infatti, l’autrice è stata costretta per mesi a un’esistenza quasi priva di stimoli, cadendo in uno stato depressivo costellato, come afferma la stessa, da ideazioni suicidarie. Per superare questa fase, ha tramutato la riabilitazione in un game secondo un vero e proprio processo di gamification, ovvero immergendosi in questa esperienza come eroina, considerando elementi della quotidianità come obiettivi e sfide, identificando premi e ricompense, programmando alleanze con altri “personaggi”, definendo i nemici da combattere (nel suo caso fattori inerenti il trauma). Una volta ristabilita, ha voluto condividere la sua esperienza, dando la possibilità a tutti di trasformare le proprie difficoltà in un game. Durante gli ultimi cinque anni, McGonigal si è dedicata alla ricerca, testando l’ipotesi secondo cui persone con ansia, depressione e traumi cerebrali, attraverso il gioco possano apprendere nuove modalità di pensare e di affrontare i problemi quotidiani, trovando risultati importanti.

 

Studi hanno infatti dimostrato che un addestramento all’approccio gamefull è correlato a riduzione di ansia e depressione, a un aumento dell’autostima e dell’efficacia e a un miglioramento generale dell’umore in persone con sintomatologia depressiva (Roepke, Jaffee, Riffle, McGonigal, Broome e Maxwell, 2015) e con traumi cerebrali di media entità (Worthen-Chaudhari, Logan, McGonigal, Yeates e Mysiw, 2015).

Concludendo, il progetto Superbetter ci mostra come diversi modi di approcciarsi alla quotidianità e alle relative difficoltà conducano a differenti esiti, sia sul piano del risultato pratico sia su quello del benessere psico-fisico personale. Il tramutare i problemi in sfide e gli ostacoli in nemici da affrontare, il reperire ricompense per aumentare la motivazione, il creare relazioni interpersonali quali alleanze, insomma, il vivere con una mentalità gamefull, può effettivamente aprire un nuovo circolo virtuoso dove stati personali positivi si mantengono autorafforzandosi e autorigenerandosi.

Freud è morto, la psicoanalisi vive

Freud lasciamolo nella sua parte di grande creatore di miti e grandissimo scrittore e, certamente, anche di grande catalizzatore, di figura storica che contribuì a creare e concepire la professione di psicoterapeuta. Un profeta e un facitore di storia, ma non un legislatore della scienza come Newton.

L’articolo in difesa di Freud del collega Raggi (LEGGI L’ARTICOLO) esce negli stessi giorni in cui l’Internazionale pubblica la traduzione di un articolo di Oliver Burkeman apparso sul Guardian il 7 gennaio (Therapy wars: the revenge of Freud) e che parla di una rivincita, o forse una vendetta nell’originale inglese, di Freud.

Raggi risponde a un mio articolo (Non è più il tempo dell’inconscio..)  in cui ritenevo che il concetto freudiano di inconscio assoluto fosse non solo povero di potere esplicativo, ma anche poco adatto allo spirito della contemporaneità. Burkeman parla invece dei possibili limiti della terapia cognitivo-comportamentale, spesso contrapposta alla psicoanalisi, e scrive delle guerre della psicoterapia (therapy wars) aspre nel Regno Unito dopo che nel 2012, grazie all’azione dell’economista e riformatore politico Richard Layard, il sistema sanitario inglese ha adottato e diffuso in maniera massiccia il trattamento cognitivo-comportamentale per ansia e depressione.

I due articoli sono simili, ma non sovrapponibili. Oggi rispondo a Raggi, in un articolo successivo prendo in considerazione Burkeman.

 

La critica all’inconscio e le apologie di Freud

Raggi contesta la mia svalutazione del lavoro di Freud sull’inconscio. In questa operazione il collega adotta una linea difensiva in cui difende l’operato globale di Freud, rimarcandone il superamento del semplicismo iniziale e la successiva evoluzione della psicoanalisi.

Probabilmente è vero che il lavoro di Freud non può essere ridotto al modello dell’inconscio assoluto e sessualizzato. Sicuramente è verissimo che la psicoanalisi, dopo Freud, ha avuto una forte evoluzione, con la scoperta di concetti che sono stati utilizzati anche da psicologie non dinamiche. Però noto che Raggi, mentre dedica metà del suo articolo a Freud, si impegna solo per poche righe sui suoi successori, che sono ben più sostanziosi scientificamente. Raggi ricorda giustamente “le varianti delle teorie psicoanalitiche basate sulle relazioni oggettuali (Klein, Fairbairn, Winnicott, Bowlby), che hanno dato l’abbrivio alle prospettive relazionali (Mitchell, Greenberg), i tentativi di ricomposizione delle varie differenze teoriche operate da Bion e dai suoi allievi, sino alle più attuali concettualizzazioni della psicoanalisi del campo (Baranger, Ogden, ecc.)”. Finita questa rapida lista Raggi non aggiunge nulla, dopo aver invece parlato di Freud per quasi due cartelle.

 

L’insostenibile onnipresenza del pene

Questo è un paradosso che incontro continuamente. Ogni qual volta ho parlato in maniera professionale con uno psicoanalista, e questo capita fin dall’inizio degli anni ’90, ho notato che il suo linguaggio ha ben poco di freudiano: è tutto un analizzare le relazioni affettive del paziente, la sua emotività, la sua storia evolutiva, i suoi amori, le sue pene, le sue solitudini, le sue incomprensioni con gli altri e con se stesso. Certo, spesso gli altri sono i suoi genitori (ma ci sono anche il partner e gli amici). Certo, all’improvviso in questo vivido racconto del collega psicoanalista sbucano fuori strane metafore il cui significato simbolico può funzionare; Edipo e Laio vanno bene per descrivere una relazione difficile tra un paziente e il suo datore di lavoro e per capire come questa relazione possa essere nata in un modello precedente e altrettanto infelice, provato spesso col padre. Dopo un po’ però salta fuori il pene, e allora addio, non si capisce più niente.

Succede ancora, purtroppo. Mi chiedo quanto sia utile tirare in ballo tutta la futile epica sessuale del pene e della sua terrificante castrazione. Una metafora bizzarra e disorientante che costringe l’interlocutore a dispiegare lo sguardo di circostanza che riserviamo alle persone a cui vogliamo più bene quando infilano nella conversazione alcune loro vacuità innocue di cui sono follemente appassionate –come ad esempio la dieta fruttariana o l’amore per i criceti arancioni- sguardo che usiamo ben consci che non è il caso di ferirle inutilmente interrompendole con il nostro annoiato disinteresse, anche perché anche noi a nostra volta ne siamo affetti e amiamo inserirle a tradimento nel nostro conversare, pur sapendo che esse generano negli altri il più sconfinato tedio.

E inoltre mi chiedo quanto serva denominare tutto questo “inconscio”. Il paziente ha difficoltà a gestire stati d’animo difficili, in cui si mescolano odio e amore, rivalità e bisogno d’affetto, accudimento e ferocia, invischiamento e irrimediabile lontananza. Tutto questo è già molto complesso, molto confuso ma anche ben poco inconscio. Il paziente ci chiede aiuto perché è cosciente di questa confusione e di questo dolore e richiede soccorso. Ma il contenuto di questi dolori espresso nei termini freudiani dell’angoscia di castrazione e dell’invidia del pene non è inconscio. Semplicemente non c’è e non serve. O c’è, talvolta. Insieme a tante altre paure.

La verità è che la nostra più grande paura non è quella di essere castrati ma quella di non essere amati e soprattutto abbiamo paura di non potere amare; eventualità ancora peggiore come aveva capito Proust, scrittore altrettanto potente di Freud ma migliore conoscitore del cuore umano. E poi c’è anche il timore di non potere esplorare il mondo e quello, purtroppo, violento e feroce di non potere affermarci. Questi sono gli affanni degli uomini e delle donne e che ci rendono la vita difficile, come ha capito lo psicoanalista Lichtenberg.

 

Oltre Freud: il paradigma psicodinamico

Insomma, vi è un paradigma psicodinamico post-freudiano che ha fatto piazza pulita di sesso e castrazione e che ha invece giustamente scoperto la centralità delle relazioni affettive e degli stati emotivi a loro connessi, paradigma la cui fioritura è merito di Fairbairn e Winnicott e che ha avuto i suoi precursori in Sandor Ferenczi e Melanie Klein e che ha dati ulteriori frutti che finalmente hanno quasi riconciliato la psicoanalisi con la psicologia scientifica.

La teoria dell’attaccamento di Bowlby è già pienamente compatibile con la visione cognitiva e anzi fornisce maggiore spessore relazionale al cognitivismo clinico, a volte davvero un po’ gelido. Perfino le difese di Anna Freud e la psicologia dell’Io hanno da insegnare alla terapia cognitiva; in fondo le difese sono schemi cognitivi. Ma Freud con le sue metafore è davvero difficile da digerire in maniera clinicamente nutritiva. Certo, scrive Raggi, “persino il re-orientamento in chiave relazionale era già “in nuce” nei lavori di Freud (Lutto e melanconia ad esempio)”. In nuce, molto in nuce, caro Raggi, e quel suo “persino” dice tutto su quanto Freud rimanesse fuori dal quel paradigma relazionale che lei sembra suggerire essere il nocciolo ancora vivo della psicoanalisi, o meglio della terapia psicodinamica.

Freud non si liberò mai del tutto della sua impostazione iniziale antipsicologica e ingenuamente meccanicista. Era un neurologo e un medico, non uno psicologo. Il che ha generato tutto un gergo bizzarro che ancora adesso separa psicoanalisi e psicologia scientifica. I migliori clinici e teorici venuti dopo Freud hanno dovuto fare sempre uno doppio sforzo: adattare le loro idee migliori al gergo freudiano dell’energia, della rimozione e del sesso, quando in realtà parlavano di stati mentali.

Anche Freud ha avuto delle buone intuizioni psicologiche? Vero. E anche lui, prigioniero del suo paradigma ingenuamente neo-positivista, dovette adattare le sue migliori scoperte a quel gergo che si era inventato. Le migliori idee della psicoanalisi non sono quelle di Freud, ma appartengono a mio parere all’area britannica soprattutto degli indipendenti e dei kleiniani, e anche all’area annafreudiana americana. Come lo stesso Raggi intitola il suo scritto: “Freud (forse) è morto, ma la psicoanalisi è viva e vegeta”. Togliamo il forse e diamo a Sigmund la soddisfazione di perpetrare questo parricidio in piena consapevolezza e coscienza.

 

Paura di Freud?

E perché no? Perché non avere paura di uno scrittore così potente che ancora adesso crea una sfasatura tra sapere scientifico e conoscenza popolare della nostra disciplina che è tra le più ampie? Perché non avere paura di un mitografo e poeta che oscura i suoi migliori figli, e sto parlando di Fairbairn o Winnicott e non dei soliti geniali svitati come Groddeck o Reich o Lacan o in parte lo stesso Jung, che riescono a farsi largo solo perché accettano la sfida mitologica, ma non scientifica, del fondatore.

Raggi, lei paragona Freud a Newton. Newton? Sarò provocatorio: la psicoanalisi moderna mi pare una disciplina fondata da Winnicott e sviluppata da Mitchell e da altri, disciplina che ha avuto alcuni interessanti precursori come Ferenczi e Melanie Klein e tra i quali Freud non è il più significativo contributore.

Per quanto riguarda l’intera psicologia clinica, dinamica e non, il panorama del possibile Newton è affollato. A Winnicott aggiungerei almeno i due cognitivisti Beck ed Ellis, l’umanista Rogers e tanti psicoanalisti che lascio scegliere a lei. Se vogliamo attribuire a qualcuno il ruolo chiave di nodo che tutto mette assieme e tutto ordina con mano ferma e sicura direi forse Bowlby. E non ho scritto ancora nulla degli sviluppi di terza ondata del cognitivismo clinico, che hanno un’interessante controparte in campo psicodinamico in Fonagy con la sua mentalizzazione.

Freud lasciamolo nella sua parte di grande creatore di miti e grandissimo scrittore e, certamente, anche di grande catalizzatore, di figura storica che contribuì a creare e concepire la professione di psicoterapeuta. Un profeta e un facitore di storia, ma non un legislatore della scienza come Newton.

Per oggi basti questo. Mi rendo conto che non ho risposto a tutti i dubbi di Raggi. Molto c’è ancora da dire sulla natura pragmatica e spiccia della terapia cognitiva, sui suoi pro e su suoi contro, e sul suo rapporto con il mondo moderno, altrettanto pragmatico e spiccio. Ne scriverò in un prossimo articolo.

Lo stress, i livelli di cortisolo e gli effetti del litio sulla salute mentale

Uno studio recente condotto all’ Umeå University, in Svezia, ha messo in luce una correlazione tra sindrome bipolare e ipocortisolismo, cioè bassi livelli dell’ormone dello stress; bassi livelli di cortisolo nei pazienti bipolari sono stati anche associati a depressione, bassa qualità della vita, e cattive condizioni di salute fisica, come l’obesità, la dislipidemia (cioè grassi nel sangue, uno dei principali fattori di rischio cardiovascolare) e la sindrome metabolica.

I ricercatori hanno studiato la correlazione tra bassi livelli di cortisolo e cattive condizioni di salute psichiatrica e somatica in pazienti con depressioni ricorrenti o disturbo bipolare. I bipolari con alti o bassi livelli di cortisolo sono risultati essere depressi il doppio rispetto alle persone con una regolazione normale dello stress. Una bassa qualità della vita era tra le quattro e le sei volte più comune nei gruppi con bassa o alta attività del sistema di regolazione dello stress rispetto a chi regolava normalmente. Inoltre, nelle persone con depressioni ricorrenti, era presente anche una correlazione tra bassi livelli di cortisolo e telomeri corti. Questo è interessante poiché telomeri corti sono considerati un’indicazione di invecchiamento precoce e di un elevato accumulo di stress.

[blockquote style=”1″]Livelli di cortisolo elevati sono già stati associati a problemi di salute nelle persone con depressione o disturbo bipolare. La cosa interessante di nostri risultati è che anche bassi livelli di cortisolo sono risultati associati con un aumento considerevole di conseguenze negative sulla salute[/blockquote] dicono i ricercatori.

Depressioni ricorrenti si verificano in circa l’8% della popolazione e il disturbo bipolare, che è caratterizzato sia da depressioni ricorrenti che da episodi ipomaniacali / maniacali, si verifica in circa l’1% della popolazione. Chi ne soffre convive con sintomi depressivi o maniacali circa il 50% del tempo, ha una marcata diminuzione della qualità di vita e un’ aspettativa di vita di 10-15 anni inferiore a quella della popolazione generale, dovuta a una maggior prevalenza di suicidio e alla mortalità cardiovascolare.

Lo stress è uno dei molti fattori di rischio per la depressione e anche un fattore di rischio per i disturbi cardiovascolari. Inoltre lo stress provoca un aumento dell’attività del sistema ormonale che regola la secrezione di cortisolo. L’ipercortisolismo, infatti è comune nei pazienti con depressione. All’altra estremità dello spettro, ci sono esempi che mostrano che alti livelli di stress possono portare a ipocortisolismo a lungo termine. È possibile infatti che depressione e / o episodi maniacali ricorrenti, provocando un elevato accumulo di stress nel tempo, portino ad un esaurimento del sistema ormonale.

Questa ipotesi è supportata dall’osservazione di un gruppo di pazienti bipolari tra i quali i soggetti più anziani presentavano livelli di cortisolo più bassi, soprattutto quelli che non avevavo mai assunto farmaci per la stabilizzazione dell’umore. Al contrario non è stato osservato nessun incremento dell’ipocortisolismo tra i pazienti bipolari che erano stati trattati con il litio per gran parte della loro vita. Secondo i ricercatori, il trattamento precoce e continuo con il litio ha effetti positivi sul decorso della malattia che potrebbero in parte essere legati al fatto che l’assunzione di uno stabilizzatore dell’umore aiuta a prevenire lo sviluppo dell’ipocortisolismo.

Freud (forse) è morto, ma la psicoanalisi è viva e vegeta

Freud e Jung per psicoanalisi e terapie psicodinamiche sono come Giotto e Raffaello per l’arte, o Galileo e Newton per la fisica: un punto d’inizio che apre a molteplici possibilità. Da allora però la psicoanalisi è molto cambiata pur riconoscendo il suo debito verso i “padri fondatori”.

A chi fa ancora paura la psicoanalisi? Questa è la domanda che mi sono posto dopo aver letto gli interventi di Giovanni Maria Ruggiero pubblicati su State of Mind (Goodbye Freud, 29.01.2016 e Non è più il tempo dell’inconscio e dell’underground nella psicoterapia moderna, 30.10.2015). Ruggiero è uno studioso a cui non può mancare la conoscenza circa le rielaborazioni della psicoanalisi, già presenti nei numerosi rimaneggiamenti nel pensiero e nell’Opera di Freud che coprono un lasso temporale di circa mezzo secolo. La psicoanalisi ha poi continuato a ridefinirsi e svilupparsi sino ai nostri giorni in maniera pressoché incessante.

Immaginare la psicoanalisi attuale come una sorta di contenitore in cui un impassibile analista scavi nel passato con la speranza che il solo ricordare consenta il cambiamento, è proporre un’idea macchiettistica della psicoanalisi. Con questo non voglio negare che possano essere sopravvissuti alcuni psicoanalisti “dinosauri”, del tutto avulsi dalle evoluzioni che la psicoanalisi ha compiuto a livello teorico e clinico negli ultimi 100 anni, ma pensare che questi rappresentino “la psicoanalisi” è un po’ come credere che i terapeuti cognitivo-comportamentali che, ad esempio puniscono e premiano i pazienti con disturbi del comportamento alimentare impedendo loro di telefonare ai genitori durante il trattamento con rigide regole skinneriane, a tutt’oggi non annegati nella “terza onda”, siano paradigmatici della TCC attuale.

Già nel primissimo Freud, invero, vi è il superamento della prospettiva catartica ideata e messa a punto con Breuer, ossia il tramonto dell’idea che per cambiare possa essere sufficiente ricordare gli eventi traumatici del passato magari obliati nell’inconscio. In realtà già Freud comprese e mostrò che “conoscere ed essere coscienti di ciò che prima era inconscio non è sufficiente per cambiare”. Che la catarsi fosse insufficiente, non è certo una scoperta della “psicologia di oggi” come sostiene Ruggiero, ma un’evidenza che la psicoanalisi degli esordi aveva ben presto reso nota. L’idea che il passato fosse la causa delle nevrosi del paziente è stata già superata in Freud nel 1917 con il suo “Introduzione alla psicoanalisi”, dove veniva riportato il concetto di “nevrosi attuale”, per il quale il disagio psicologico poteva ben lungi dall’essere una cieca ripetizione di un passato relegato nell’inconscio: per questi motivi il presente nel rapporto terapeutico con l’analista divenne ben presto per Freud la vera relazione ristrutturante.

La rievocazione dei traumi del passato è peraltro, oggi, alla base di alcune metodiche terapeutiche contemplate in tecniche più vicine al mondo cognitivo-comportamentale che alla psicoanalisi, come ad esempio nel caso dell’EMDR per il trattamento dei disturbi post-traumatici da stress. Stupisce pertanto, in qualunque caso, un rifiuto che se non adeguatamente argomentato rischia di apparire aprioristico, circa l’esplorazione del passato, che in alcuni casi può essere utile e terapeutica.

Nella pratica psicoanalitica di oggi, ricordare ciò che era sepolto nell’inconscio, il far riemergere il passato, non è più considerato necessario, al contrario può risultare in alcuni casi persino fuorviante, se finalizzato all’evitamento da parte del paziente (o dell’analista) delle situazioni difficili attuali.

I lavori di Freud e Jung sulla traslazione e la contro-traslazione, la funzione metaforica dell’Edipo come elemento archetipico e non necessariamente come fatto concreto, la consapevolezza che molti dei racconti dei pazienti emersi durante l’analisi non erano ricordi di fatti realmente avvenuti ma elaborazioni della loro fantasia, erano già tutte riflessioni della prima psicoanalisi, ossia quella di Freud e Jung. Persino il re-orientamento in chiave relazionale era già “in nuce” nei lavori di Freud (Lutto e melanconia ad esempio) e certamente esso permea tutta l’opera di Jung, che con il suo concetto di “proiezione attiva” anticipò di molti anni alcune teorizzazioni della Klein come l’”identificazione proiettiva”. Le varianti delle teorie psicoanalitiche basate sulle relazioni oggettuali (Klein, Fairbairn, Winnicott, Bowlby), che hanno dato l’abbrivio alle prospettive relazionali (Mitchell, Greenberg), i tentativi di ricomposizione delle varie differenze teoriche operate da Bion e dai suoi allievi, sino alle più attuali concettualizzazioni della psicoanalisi del campo (Baranger, Ogden, etc.), sono solo alcuni dei filoni di dibattito teorico in ambito psicoanalitico.

Il pensiero psicoanalitico è particolarmente vivo e fecondo, al limite del conflitto tra orientamenti nella stessa psicoanalisi.

Altra cosa però, rispetto alla psicoanalisi, sono le terapie psicodinamiche che, pur provenendo dalla psicoanalisi, al di là dei vari orientamenti teorici, hanno in comune una più marcata propensione alla ricerca clinica, alla sperimentazione empirica. Ricerca scientifica e sperimentazione appaiono – su questo ha pienamente ragione Ruggiero – il vero anello debole della clinica terapeutica basata sulle teorie psicoanalitiche. Per troppo tempo, infatti, gli psicoanalisti hanno snobbato la ricerca scientifica svolta secondo i rituali standard della pratica Evidence Based e pagano oggi lo scotto di una lunga strada ancora tutta da recuperare. I risultati degli ultimi 15 anni, come ben saprà Ruggiero, sono però soddisfacenti e su questa strada occorre proseguire senza incertezze.

Le differenze con le terapie cognitivo-comportamentali, ad oggi, sono a mio avviso molto più teoriche ed epistemologiche che puramente cliniche, specialmente se si verifica l’operato quotidiano di terapeuti esperti con il disturbo psichico, indipendentemente dal modello di riferimento dei terapeuti. Resta ad ogni modo una profonda differenza circa il modo in cui la psicoanalisi e gli orientamenti cognitivo-comportamentali guardano all’uomo, alla psicopatologia, ai concetti di salute, malattia e guarigione e da ciò probabilmente anche la differente propensione a basarsi su agglomerati statistici (più tipica dei modelli cognitivo-comportamentali), oppure delle ricerche single case (più tipica dei modelli psicodinamici). Gli stessi concetti di efficacia ed efficienza vanno in tal senso contestualizzati. Una terapia è efficace (o meno efficace) rispetto a cosa? Per definire il nostro parametro di efficacia ci atteniamo alle statistiche dei vari DSM, che cambiano drasticamente di anno in anno, o abbiamo un’idea più complessa della psicopatologia e del vissuto soggettivo di chi soffre psicologicamente? Queste sono domande su cui vale la pena confrontarsi, avendo tuttavia cura, a volte, di distinguere il piano clinico da quello più teorico e speculativo.

Di fronte al paziente, al soggetto, in ogni caso, il più delle volte si azzerano gran parte delle differenze teoriche e restano i terapeuti nella loro esperienza e competenza, oltre che nella loro umanità. Anche per questo, nella pluralità dei modelli e dei possibili interventi proponibili, occorre sempre saperci porre con l’umiltà di chi sa di non sapere tutto sulla psiche e sulla complessità della mente umana.

 

Alessandro Raggi
Psicoterapeuta, psicoanalista,
Didatta Scuola di psicoterapia analitica AION
Responsabile nazionale Centri ABA
www.psicheanima.it

 

LEGGI LA RISPOSTA DI GIOVANNI M. RUGGIERO:
Freud è morto, la psicoanalisi vive

Parlare del più e del meno. Perché è così faticoso se sei introverso?

È esperienza comune della vita di molti di noi aver provato imbarazzo e malcelata insofferenza nel trovarci intrappolati in situazioni interpersonali di cui avremmo fatto volentieri a meno, con persone che non conosciamo bene o con cui non troviamo particolarmente stimolante scambiare opinioni e confidenze.
Per ovviare allo spiacevole disagio che tali situazioni portano con sé, spesso cerchiamo, con alterna convinzione ed efficacia, di imbastire faticosamente un dialogo estemporaneo per non apparire maleducati, disinteressati o per non doverci confrontare con l’”horror vacui” comunicativo che aumenta la nostra percezione di disagio.

Gli argomenti di discussione “passpartout” che estraiamo dal nostro cilindro e con i quali cerchiamo di scardinare la porta di imbarazzante silenzio con le persone vicine a noi sono ben noti: le condizioni metereologiche, il lavoro, la politica ecc.
Per le persone maggiormente introverse, trovarsi a parlare “del più e del meno” in situazioni di scarsa confidenza può essere una condizione ancora più spiacevole.
La giornalista Jennifer Granneman, in un articolo pubblicato sul sito Quite Revolution, ipotizza quali possano essere le motivazioni che mettono in crisi gli introversi davanti alle conversazioni spicciole, che non sarebbero colpevoli di metterli semplicemente in forte imbarazzo, ma anche di lasciarli con una sorta di sensazione di “batteria scarica”…

In reality, most introverts are drained by small talk because it feels fake and meaningless. When you exchange pleasantries or chat about the weather to avoid silence, you don’t learn anything new or gain a better understanding of your conversation partner. Psychologist Laurie Helgoe, author of Introvert Power: Why Your Inner Life Is Your Hidden Strength, argues that small talk actually blocks honest interaction. “Introverts do not hate small talk because we dislike people,” she writes in her book. “We hate small talk because we hate the barrier it creates between people.”

5 Ways to Make Small Talk More Meaningful

Consigliato dalla Redazione

Parlare del più e del meno. Quanta fatica se sei introverso

Do you dread small talk? Here are 5 surefire tips for introverts on how to survive small talk and turn it into something worthwhile. (…)

Tratto da: Quiet Revolution

 

Per continuare la lettura sarete reindirizzati all’articolo originale … Continua  >>

 


Tutti gli articoli su: Rapporti interpersonali
19 consigli per vivere al meglio le proprie relazioni
Far funzionare bene le proprie relazioni non è sempre facile: vediamo i suggerimenti di cinque esperti per rendere i nostri rapporti più sani e felici
Essere amici in presenza: perché è diverso dall’essere solo amici virtuali
Uno studio mostra che le relazioni amicali in presenza migliorano il benessere psichico riducendo rischi di depressione e declino cognitivo
Prima te stesso: i benefici dell’egoismo sano
L’egoismo sano, basato sul bilanciare l’impegno e l’interesse per gli altri con i propri, è fondamentale per il benessere psicologico
Relazioni tossiche: l’abuso va oltre il narcisismo
Perché potrebbe essere più utile usare l'espressione ''abuso interpersonale'' invece di etichettare l'altro e parlare di abuso narcisistico?
L’Organizzazione Mondiale della Sanità dichiara l’epidemia di solitudine
Come affrontare l'epidemia di solitudine? Vediamo le indicazioni fornite dall'OMS per gestire il rischio di solitudine e isolamento sociale
Ti vedo solo come un amico… il temuto fenomeno della “friendzone”
Un recente studio ha cercato di concettualizzare la friendzone esplorando i vissuti di chi ne fa esperienza
La triangolazione nelle relazioni
La triangolazione può configurarsi come un fenomeno psicologico funzionale o disfunzionale in base al contesto e alle modalità
Disturbi Alimentari e ritiro sociale: quali connessioni?
Un recente studio ha rivelato che la presenza del ritiro sociale nei Disturbi Alimentari sembra intensificare la gravità dei sintomi
Come e perché le amicizie finiscono
Riguardo ai fattori e alle condotte determinanti la rottura delle amicizie in età adulta, la letteratura sembra essere alquanto sprovvista di ricerche
“Tu non mi capisci”. Possibili percorsi per comprendersi all’interno delle dinamiche interpersonali
Le relazioni interpersonali, di qualsiasi tipo, non sono sempre facili; scopriamo alcuni suggerimenti per migliorarle
Il lato negativo di condividere troppo di se stessi
Analizziamo i potenziali rischi dell’oversharing e le tecniche per limitare la condivisione eccessiva di informazioni intime e personali
Il ghosting: quando il silenzio diventa assordante
Il ghosting può avvenire in relazioni romantiche, amicali o professionali e può avere ricadute sulla salute mentale di coloro che vengono ghostati
Perché mentiamo. Cosa nascondono le bugie (2023) a cura di Alberto Siracusano – Recensione
"Perché mentiamo. Cosa nascondono le bugie" cerca di orientarci nel dedalo di concetti, emozioni, parole e comportamenti legati al pensiero bugiardo
In cosa consiste la psicologia dell’humblebragging
L’humblebragging è un modo efficace per mascherare un vanto attraverso una lamentela, ma spesso suscita fastidio nell'interlocutore
Avere una infatuazione durante una relazione stabile: quali effetti sulla coppia?
Può capitare di avere una cotta al di fuori della propria relazione. Quando accade quali che effetti può avere sulla coppia?
Non sempre chi urla più forte “vince”. Come gestire la maleducazione
Esploriamo il ruolo che può avere la maleducazione e come quest’ultima può essere gestita senza cadere nel coinvolgimento emotivo negativo
Bugie (2023) di Sam Harris – Recensione del libro
Il libro "Bugie" vuole mostrare che le menzogne, di qualsiasi tipo, portano a danneggiare in maniera inutile e inevitabile i rapporti e la fiducia
Sindrome di Gulliver, astronauti e militari a confronto
Un'indagine pilota ha esplorato il rapporto di astronauti e militari con l'alimentazione e con gli oggetti durante missioni lontane da casa
Oggi non ci sono per nessuno. Come dire di no ad un invito sociale
Accettare o declinare un invito può essere complesso, potrebbe venirci in aiuto una skill di comunicazione efficace della DBT: il Dear Man.
Il trauma da tradimento (Betrayal Trauma): quando il trauma minaccia le fondamenta delle relazioni umane
Il trauma da tradimento descrive il dolore dovuto alla rottura della fiducia nelle persone e nelle istituzioni su cui l'individuo contava per la sopravvivenza
Carica altro

Il valore delle lacrime: l’esempio di Inside out

L’aspetto più educativo del film è sicuramente il ruolo di Tristezza, emozione che spesso cerchiamo di non sentire, di non ascoltare, di nascondere tra un lavoro e l’altro, di soffocare riempiendoci la vita di impegni o immergendoci in un videogioco o un Social network.

 

Arriva in questi giorni sulle principali PayTv il film Inside out della Pixar Animation Studios, dopo il suo debutto al cinema dello scorso autunno. Un’occasione per riscoprire le nostre emozioni grazie a un capolavoro dell’animazione digitale. Il film in qualche modo richiama la nota serie “Siamo fatti così – Esplorando il Corpo Umano” ma è focalizzato sul funzionamento della nostra mente, e in particolare delle emozioni e dei ricordi. Le emozioni sono rappresentate con dei personaggi come Gioia, Rabbia e Paura, i ricordi invece assumono la forma di sfere che portano il colore delle relative emozioni.

Nel film viene illustrata la mente come un luogo misterioso e molto vasto, dove gli abitanti stessi – le emozioni – non ne conoscono il funzionamento ma lo scoprono con il passare degli anni. L’universo della mente della protagonista, una bambina di nome Riley, ha un centro di controllo, il Quartiere Generale, dove vivono le emozioni; alcune aree dove si sviluppa la personalità della bambina grazie a quelli che vengono definiti “ricordi base”; le aree della memoria a lungo termine dove i ricordi vengono archiviati e infine, l’oblio, rappresentato come una sorta di discarica dove si perdono i ricordi. Si potrebbe pensare che la Pixar abbia in qualche modo semplificato o banalizzato la mente umana ma in realtà ciò che avviene nel nostro cervello è in effetti molto più simile alle vicende del film di quanto possiamo immaginare.

La storia di Riley si sviluppa attorno ad un’infanzia felice, quasi perfetta, dove le emozioni come paura, rabbia e soprattutto tristezza vengono messe in secondo piano dal personaggio Gioia, la quale è impegnata a rendere le giornate della bambina sempre perfette. Crescendo, in particolare in concomitanza con il trasloco della famiglia in una nuova casa, Gioia si rende però conto che non è più possibile tenere a bada le altre emozioni, nonostante quindi i suoi tentativi di circoscrivere Tristezza, i ricordi si mescolano e non diventano più solo perfettamente gioiosi, permettendo alla bambina di scoprire cosa si prova ad essere tristi.

Ciò che viene spiegato nel film è che è grazie alla tristezza, molto spesso, che possiamo scoprire la gioia, per dirlo con Gibran: [blockquote style=”1″]Quanto più in fondo vi scava il dolore, tanta più gioia voi potrete contenere.[/blockquote] (Gibran, 2014).

Il film è estremamente educativo, adatto a tutte le età, spiega come la vita sia una continua interazione tra emozioni e tra persone ma anche tra passato, presente e futuro; il tutto si mescola creando la meravigliosa avventura della vita umana.

L’aspetto più educativo del film è sicuramente il ruolo di Tristezza, emozione che spesso cerchiamo di non sentire, di non ascoltare, di nascondere tra un lavoro e l’altro, di soffocare riempiendoci la vita di impegni o immergendoci in un videogioco o un Social network. Ci sembra che la tristezza non debba esserci, riusciamo a tollerarla sempre meno, ne abbiamo paura. In realtà però, il benessere e l’equilibrio psicofisico può nascere solo dalla corretta interazione tra le emozioni, permettendoci di soffermarci su ognuna di esse, dandoci qualche volta anche l’occasione di stare in silenzio, spegnendo TV, smartphone e computer senza paura, ascoltando il suono delle nostre emozioni, accogliendo anche la tristezza. In questo modo impareremo a gestire i momenti difficili senza cadere nell’ansia, senza perdere il controllo, accettando e comprendendo che tutte le nostre emozioni hanno un ruolo e un senso nella nostra mente. Ecco allora il valore delle lacrime, che hanno il fascino di poter essere figlie sia di Gioia che di Tristezza, hanno la capacità di farci sentire sollevati aiutandoci a non tenerci tutto dentro.

Un consiglio va quindi a genitori, educatori e insegnanti: non impedite loro di essere tristi, non riempite la loro vita di impegni, educateli anche al silenzio, all’attesa, all’ascolto di se stessi, del proprio corpo e delle proprie emozioni, solo così potranno crescere sereni e in equilibrio.

 

PER SAPERNE DI PIU’:

Su State of Mind avevamo parlato della valenza psicoeducativa di Inside Out e di come il film utilizzi la teoria cognitiva della mente per spiegare le funzioni delle emozioni. Successivamente ci siamo concentrati sull’importanza della memoria e dei ricordi in Inside Out  e della valenza positiva della tristezza. Abbiamo inoltre analizzato Inside Out e il suo utilizzo come homework in psicoterapia- psicoeducazione. E’ stato pubblicato, infine, un articolo su come, grazie al film Disney, l’educazione emotiva abbia raggiunto il grande schermo (NdR).

La depressione bipolare (2007) di G. Graus – Recensione

Il libro di Gianfranco Graus, ormai alla seconda edizione, si rivolge ai familiari e ai pazienti che devono convivere con il disturbo bipolare, con lo scopo di amplificare le loro conoscenze, la loro consapevolezza, e se possibile evitare alcuni errori che spesso hanno un alto prezzo di vita.

 

Purtroppo il disturbo bipolare è fra le malattie psichiatriche meno curate, per cui solo un individuo su tre ha una diagnosi e una cura corrette. Il rischio lifetime di suicidio è del 15%, almeno tre volte più elevato quello per un tentato suicidio. È una patologia che causa una riduzione dell’attività produttiva di 14 anni rispetto alla popolazione generale. Il peccato è più grave se si pensa che ormai sono molte le soluzioni terapeutiche possibili, con una complessiva buona efficacia nella cura del disturbo.

L’autore spiega nel capitolo 1 in modo semplice ma completo le fasi del disturbo, con casi clinici che rendono la trattazione più immediata e chiara, mentre nel capitolo 2 si sofferma sulle difficoltà diagnostiche, così come sugli elementi personologici e psicologici che fanno da sfondo al disturbo e che spesso portano alla sottovalutazione del problema da parte dei diretti interessati e ad un errore diagnostico da parte degli addetti ai lavori.

Seguono i capitoli dedicati al trattamento del disturbo bipolare. Il capitolo 3 si sofferma sui trattamenti farmacologici, asse imprescindibile della terapia del disturbo bipolare. Ne espone le classi e si sofferma sul rapporto con i farmaci, che spesso risulta difficile e conflittuale. Chiarisce i ruoli delle figure professionali che gravitano introno al paziente e i setting di trattamento possibili (capitolo 4). Spiega e racconta il ruolo della psicoterapia, dà indicazioni sui tempi di trattamento, indica in che momento è meglio iniziare la psicoterapia e quali sono i tipi di psicoterapia efficaci per il disturbo, quali la psicoeducazione, la psicoterapia cognitivo-comportamentale, la psicoterapia focalizzata sulla famiglia e la psicoterapia interpersonale e dei ritmi sociali.

Nei capitoli 6 si spiega e si documentano le ipotesi circa la vulnerabilità biologica del disturbo, riportando le ipotesi principali, ma attraverso conversazioni cliniche e suggerimenti il lettore beneficia di una psicoeducazione al disturbo e al suo funzionamento.

I fattori psicologici vengono trattati nel capitolo 7 e 8. Vengono fornite, anche in questo caso, spiegazioni e consigli che risultano a tutti gli effetti degli strumenti terapeutici auto-gestibili, come la ricostruzione della storia degli episodi del disturbo, la registrazione dei sintomi prodromici, la registrazione degli ostacoli mentali, la promozione del rilassamento muscolare e della mindfulness.

I capitoli 9 e 10 raccolgono una serie di riflessioni e di raccomandazioni per familiari ed amici, oltre che una valutazione più generale sul concetto di patologia mentale al giorno d’oggi e di stigma sociale.

Non meno utile la nota finale sulle letture consigliate e sui siti internet specializzati sull’argomento, così come i riassunti alla fine dei capitoli, che focalizzano l’attenzione sui punti chiave.

Non c’è dubbio che il merito principale del libro sia quello di riportare l’attenzione sul disturbo bipolare, dopo anni di colpevole trascuratezza. Il disturbo è subdolo, ha una lunga latenza nella diagnosi e spesso prevede anni di trattamento prima di un’efficace stabilità.

Nel libro è chiaro il superamento anche di quell’antitesi tra trattamenti farmacologici e psicoterapia, o altre forme di trattamento, ormai del tutto pregiudiziale, ma ancora molto presente nella pratica clinica. Fornire elementi concreti e strumenti efficaci per la consapevolezza e la gestione di questo disturbo appare quindi di grande attualità.

L’effetto Placebo. Breve viaggio tra mente e corpo (2012) di F. Benedetti – Recensione

Un’utile introduzione alle attuali conoscenze sui meccanismi fisiologici e psicologici che presiedono al funzionamento dell’effetto placebo. Una lettura utilissima per chiunque si interessi di medicina, psicologia, filosofia della mente e bioetica.

Come diceva un grande filosofo dell’Ottocento, ciò che è notorio non è per questo conosciuto. In effetti, cosa sia a grandi linee l’effetto placebo è qualcosa di abbastanza notorio per qualunque medico e psicologo, oltre che probabilmente per qualunque persona mediamente colta: in determinate circostanze, per una percentuale sensibile di persone, un trattamento simulato può avere effetti paragonabili a quelli di un trattamento autentico.

Secondo una definizione corrente, l’effetto placebo è «un cambiamento del corpo o della mente che avviene come risultato del significato simbolico che viene attribuito a un evento o a un oggetto in ambito sanitario» (Howard Brody, cit. in Benedetti, 1912, p. 23).

L’esistenza dell’effetto placebo è ciò che rende necessario nella ricerca l’uso della tecnica del doppio cieco (double blind). Quando si effettua la sperimentazione di un nuovo farmaco, cioè, si scelgono due gruppi equivalenti ai quali vengono somministrati sia il prodotto vero che un prodotto inerte, dello stesso aspetto del primo, da parte di personale che non deve sapere a chi stia dando che cosa. In questo modo i membri dei due gruppi saranno condizionati da aspettative del tutto simili e le eventuali differenze di efficacia saranno integralmente da attribuire agli effetti del trattamento. All’inverso, anche gli eventuali effetti collaterali dovranno essere attribuiti al trattamento stesso: anche le aspettative negative possono influenzare l’organismo, inducendo in questo caso un peggioramento della propria condizione (si parla allora di effetto nocebo).

L’effetto placebo non è però una semplice curiosità o un artefatto della ricerca. Secondo Fabrizio Benedetti, in realtà, in primo luogo gran parte della storia della medicina prescientifica è storia dell’uso inconsapevole del placebo. Le prime istituzioni dove la medicina è stata praticata basandosi su reali conoscenze fisiologiche del funzionamento delle cure, peraltro, sono gli ospedali francesi del terzo decennio dell’Ottocento. Quindi per quasi tutta la sua storia, l’umanità sofferente si è affidata a medici (e prima a ciarlatani e sciamani) che si sono basati su innumerevoli cure assolutamente prive di fondamenti razionali. Eppure, vuoi per la regressione spontanea di alcune malattie, vuoi per la fiducia nella guarigione indotta dalle cure, dei miglioramenti potevano essere ottenuti. I miglioramenti ottenuti, d’altra parte, non potevano che rinforzare la fiducia dei successivi pazienti, mantenendo in vita tradizioni terapeutiche di per sé in teoria prive di efficacia.

In secondo luogo, l’uso dell’effetto placebo fa tuttora parte della pratica medica. Pochi ma rigorosi studi hanno mostrato che, in diversi paesi, i medici usano trattamenti placebo con relativa frequenza. In Usa, Danimarca e Israele percentuali tra il 60% e l’80% dei medici ha usato o usa placebo veri e propri (pillole di zucchero o iniezioni di acqua distillata, per esempio) oppure placebo attivi, cioè medicine vere e proprie ma inefficaci nel caso di specie, somministrate solo nell’intento di suscitare fiducia nel professionista e attesa di guarigione.

Un tipico esempio di placebo attivo è l’antibiotico prescritto per l’influenza virale, che non rappresenta minimamente una cura specifica, ma la cui assunzione può costituire un’alternativa assai meno frustrante della semplice passiva permanenza nel letto fino a decorso completo.

Lo studio dei meccanismi di funzionamento dell’effetto placebo risale a tempi abbastanza recenti e ha condotto a una serie di risultati di estremo interesse. Dal punto di vista dei meccanismi psicosociali, è stato anzitutto verificato che l’intervento di chi somministra il trattamento assume un’importanza rilevante ai fini dell’efficacia del trattamento stesso. Ciò significa che un medesimo farmaco sarà tendenzialmente più efficace se il medico usa parole rassicuranti e adotta un comportamento amichevole e non freddo: ciò vale sia nel caso del placebo, sia nel caso di un farmaco attivo e funzionante.

Anche altri aspetti del contesto di somministrazione sono importanti. Ad esempio se al placebo viene assegnato il nome di un farmaco conosciuto e gli viene attribuito un alto costo, tenderà a risultati migliori rispetto a quelli ottenuti con un nome sconosciuto e un prezzo teorico più basso. In ogni caso non esiste la possibilità di prevedere se l’effetto sarà o meno innescato in un singolo paziente, anche se è stato definitivamente provato che determinati caratteri genetici rendono in linea teorica determinate persone più predisposte di altre all’efficacia del placebo.

I meccanismi fisiologici del funzionamento del placebo sono a loro volta molteplici e intricati. Benedetti ricorda che, tra l’altro, è stato possibile indurre l’effetto placebo su animali, dai quali non ci si aspetterebbe l’attesa di una determinata azione da una sostanza. Eppure, per esempio, dopo aver iniettato a topi una sostanza che migliorava una performance motoria un certo numero di volte, si è osservato che un’ulteriore iniezione, di sostanza inattiva, consentiva ad alcuni di essi le stesse performance ottenute in precedenza inoculando il prodotto attivo.

In linea generale, però, sono due le strade attraverso le quali la mente influenza il corpo innescando l’effetto placebo, ovvero le aspettative e l’apprendimento. Le aspettative possono agire modulando l’ansia (per esempio l’ansia anticipatoria può aumentare la percezione soggettiva del dolore; una sedazione dell’ansia la può diminuire). Talora vengono coinvolte le regioni del cervello usualmente coinvolte nei meccanismi di ricompensa, in particolare il nucleus accubens che rilascia dopamina quando ottengono successo i comportamenti di ricerca di un premio o del piacere (attraverso cibo, sesso o obiettivi culturalmente acquisiti come denaro e droghe). Il miglioramento terapeutico è di per sé una forma di premio o di piacere e la sua attesa può attivare il nucleus accubens. Il conseguente rilascio di dopamina può influenzare a sua volta il rilascio di altri neurotrasmettitori: il risultato può essere l’inibizione del dolore, la diminuzione della depressione o persino il miglioramento dei sintomi nel morbo di Parkinson.

L’apprendimento può agire sotto la specie del condizionamento (abituarsi all’idea che una pillola tonda bianca migliori la propria condizione di salute può generare un’efficace aspettativa di guarigione anche quando all’aspirina presa originariamente viene sostituita una pasticca inerte della stessa forma). Anche l’apprendimento sociale, però può essere efficace (osservando che un determinato rituale terapeutico in un ospedale produce la guarigione ci si aspetta che lo stesso rituale produca anche in noi gli stessi effetti).

Benedetti prende in considerazione diversi ambiti dove l’effetto placebo entra o può entrare in funzione, dal doping sportivo alle medicine alternative alla vita di tutti i giorni. Dispiace però che l’unico capitolo che si può considerare poco interessante e riuscito sia quello sulle psicoterapie. L’autore parte dal dato di fatto dell’esistenza sul mercato di più di quattrocento psicoterapie, delle quali si conosce in qualche modo l’efficacia, per affermare che l’unico fattore in comune ad esse sia «una positiva interazione umana tra paziente e psicoterapeuta» e di conseguenza siano tutte assimilabili all’effetto placebo (Benedetti, 2012, p. 59).

È stato però ampiamente dimostrato dalla ricerca che, se è pur vero che in molti casi gli effetti di varie psicoterapie sono ugualmente positivi, essi sono comunque ben superiori sia all’effetto di terapie-placebo appositamente disegnate, sia (a maggior ragione) all’effetto del puro scorrere del tempo (cfr., p. es., Dazzi, Lingiardi e Colli, 2006).

Questo specifico neo però non cancella i molti meriti del libro, scritto da uno specialista di fama mondiale, in una forma sintetica, molto leggibile e assai efficace.

 

LEGGI ANCHE:

Effetto Placebo: un viaggio tra mente e corpo. Intervista a Fabrizio Benedetti

 

Mangiare bene: un’abitudine che si impara da piccoli

La strategia migliore sarebbe, secondo i ricercatori della La Trobe University, la promozione di un ambiente familiare in cui non si seguano rigidi parametri calorici o ponderali, ma al contrario, si instauri un clima di informazione e consapevolezza relativa a ciò che si mangia.

 

Buone abitudini alimentari e soddisfazione per il proprio corpo sono fattori fondamentali per la salute fisica e psicologica di ciascuno di noi, bambini inclusi. Essere insoddisfatti del proprio aspetto e in sovrappeso espone anche i più piccoli al rischio di una vita poco sana e, in alcuni casi, allo sviluppo di sintomi depressivi e veri e propri disturbi alimentari. Coinvolgere i genitori risulta quindi fondamentale per evitare l’emergere e il consolidarsi di pattern alimentari disfunzionali e tenere sotto controllo le aree di vulnerabilità. Nel corso del tempo sono stati messi a punto progetti di intervento di varia ispirazione e natura ma, in molti casi, si è tralasciato l’intervento preventivo limitandosi alla gestione dei sintomi e ponendo il focus sul peso piuttosto che sulla salute alimentare nel suo significato più ampio.

Così affermano i ricercatori della La Trobe University di Melbourne, Australia, che hanno messo a punto un intervento denominato Confident Body Confident Child (CBCC). Il programma, recentemente sottoposto a verifica sperimentale, ha carattere preventivo ed è dedicato ai genitori di bambini tra i 2 e i 6 anni d’età. Come affermano gli autori, il CBCC interviene prima di tutto sull’atteggiamento dei genitori nei confronti dell’aspetto fisico proprio e dei figli e sul ruolo attribuito al cibo nel modello educativo del nucleo familiare. I comportamenti a rischio possono essere talvolta difficili da individuare: se è intuitivo che l’assunzione di cibo ipercalorico e preconfezionato comporta il rischio di un aumento di peso e che la svalutazione da parte del genitore dell’aspetto dei figli li espone al pericolo dell’insoddisfazione per il proprio corpo, potrebbe risultare meno evidente che utilizzare il cibo come premio o punizione è altrettanto disfunzionale. In altre parole, contare le calorie serve a poco se si finisce con il ricompensare con un gelato un bambino che ha mangiato la frutta o si sospendono le merendine per un capriccio.

La strategia migliore sarebbe quindi, secondo i ricercatori della La Trobe University, la promozione di un ambiente familiare in cui non si seguano rigidi parametri calorici o ponderali, ma, al contrario, si instauri un clima di informazione e consapevolezza relativa a ciò che si mangia. Come? Proponendo ai genitori un percorso educativo di sei settimane nel corso delle quali si forniscano opuscoli, poster, libri per bambini, un sito internet cui poter accedere per chiarire i propri dubbi e un workshop per imparare come mettere in pratica ciò che si è appreso.

I risultati per ora sono incoraggianti e rivelano, al termine del programma, una maggiore consapevolezza da parte dei genitori relativa ai comportamenti che espongono i bambini al rischio di pattern alimentari disregolati e una minore intenzione di mettere in atto tali comportamenti. Ulteriori ricerche potranno chiarire se, sul lungo periodo, questo sia sufficiente per garantire abitudini alimentari sane e un peso nella norma. È forse il caso, sembra suggerire lo studio, di ripensare il modo in cui mangiamo, per tutelare noi stessi e i più piccoli dal rischio di sovrappeso e disturbi alimentari e garantire a tutta a famiglia un rapporto sereno e salutare con il cibo.

Terapia cognitivo-comportamentale di 2a e 3a generazione per i Disturbi Alimentari – Sandra Sassaroli conferenza a Milano

2 febbraio 2016 alle 20:15 presso la Casa della Psicologia in Piazza Castello 2 a Milano

La psicoterapia cognitivo comportamentale ha dimostrato la sua efficacia con i disturbi dell’alimentazione fin dai primi anni novanta. Il protocollo di Fairburn è oggi considerato il punto di riferimento per tutti gli interventi con pazienti bulimiche. Vi sono però alcuni problemi sia per quanto riguarda la disseminazione che per quanto riguarda l’applicazione del modello cbt standard all’anoressia e ai disturbi da alimentazione incontrollata.

Tra le terapie di terza generazione quelle che si rivolgono alla comprensione dei processi di pensiero (rimuginio, ruminazione) sembrano estremamente promettenti. Esse hanno arricchito la comprensione del funzionamento psicopatologico di pazienti con diversi disturbi di primo asse e si misurano oggi con i disturbi dell’alimentazione. Anche se queste ipotesi non hanno ancora superato il vaglio della sperimentazione di efficacia, costituiscono per i clinici un campo interessante e innnovativo per arricchire la comprensione di queste pazienti.

Ce ne parlerà Sandra Sassaroli psichiatra e psicoterapeuta cognitivo-comportamentale. Direttore della scuola di specializzazione in psicoterapia cognitiva “Studi Cognitivi” con sedi a Milano, San Benedetto del Tronto e Modena.Didatta SITCC dal 1981. E’ autrice di numerosi libri e di articoli pubblicati su riviste peer reviewed.

 

Vi aspettiamo il 2 febbraio alle 20:15 presso la Casa della Psicologia in Piazza Castello 2 a Milano, o alle 20:30 sulla piattaforma gotowebinar di OPL.

DBT, Skills training: il nuovo manuale di Marsha Linhean (2015) – Recensione

I moduli di abilità insegnate sono quelli conosciuti dall’impianto classico DBT: Abilità di mindfulness, Abilità di efficacia interpersonale, Abilità di regolazione emotiva, Abilità di tolleranza della sofferenza; se però già nell’impianto generale dello skills training ci sono novità sostanziali, anche nei contenuti insegnati si possono trovare delle modifiche rilevanti: sono stati rivisti al loro interno i singoli moduli e introdotte nuove abilità, compresa una sezione interamente nuova dedicata ai disturbi del sonno (protocollo sugli incubi e sull’igiene del sonno).

di Iacopo Camozzo Caneve

 

Dalla sua introduzione negli anni ’90 la Terapia Dialettico Comportamentale, all’inizio con un focus specifico per il disturbo Borderline e impulsività suicidaria, è andata sempre più differenziandosi al suo interno mostrando la sua utilità per un ampio numero di disturbi (disturbi alimentari, depressione resistente al trattamento e dipendenze in particolare), oltre che per popolazioni non cliniche, ma potendo giovarsi quasi sempre di consistenti prove di efficacia.

Parallelamente a questo spostamento, i gruppi di skills training (comportamenti da apprendere per poter gestire situazioni problematiche), che sembravano all’inizio essere di supporto alla terapia individuale, hanno mostrato sempre più essere l’aspetto centrale dell’intervento terapeutico e del cambiamento clinico, così come dimostrano le ricerche svolte in questi anni.

Per mettere a fuoco questi cambiamenti, e fare il punto sullo stato attuale dell’intervento DBT, M.Linehan ha pubblicato nel 2014 (arrivato da poco in Italia) un nuovo manuale; nuovo proprio perché riflette direttamente gli sviluppi appena ricordati: un intero manuale (più di 900 pagine tra teoria schede esercizi) dedicato unicamente allo skills training, e uno skills training modulare che si può declinare liberamente non solo a seconda del disturbo, ma anche delle esigenze del singolo paziente.

I moduli di abilità insegnate sono quelli conosciuti dall’impianto classico DBT: Abilità di mindfulness, Abilità di efficacia interpersonale, Abilità di regolazione emotiva, Abilità di tolleranza della sofferenza; se però già nell’impianto generale dello skills training ci sono novità sostanziali, anche nei contenuti insegnati si possono trovare delle modifiche rilevanti: sono stati rivisti al loro interno i singoli moduli e introdotte nuove abilità, compresa una sezione interamente nuova dedicata ai disturbi del sonno (protocollo sugli incubi e sull’igiene del sonno). La novità più rilevante è però rappresentata da un modulo mindfulness rinnovato e notevolmente ampliato, maggiormente in linea con il peso che la mindfulness ha all’interno del trattamento e con le necessità di approfondimento che ne derivano (lasciate in parte disattese nell’edizione precedente del manuale).

In sintesi, un’opera fondamentale nel panorama DBT, è un ‘opera importante per ogni clinico che voglia introdurre nei propri interventi l’insegnamento di abilità specifiche.
In un momento storico in cui sempre più al mondo della psicoterapia è richiesto un ancoraggio forte nella ricerca, e in cui le teorie hard abbondano mentre le prassi terapeutiche rimangono troppo spesso soft, il modo di procedere della Linehan rappresenta davvero un modello interessante: fa infatti del proprio aver “rubato” le proprie skills a terapie e modelli evidence-based più disparati (terapia cognitivo-comportamentale, psicologia sociale, psicologia cognitiva….) il punto di forza del proprio lavoro, fino ad andare a “pescare” direttamente dalla prassi clinica dei colleghi (al di là di quel che dice la teoria di riferimento) per costruire, dal basso, il corpus, peraltro davvero imponente, delle proprie skills.

cancel