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La resilienza

La resilienza consente l’adattamento alle avversità ed è un termine preso in prestito dalla scienza dei materiali, dove indica la proprietà che hanno alcuni elementi di conservare la propria struttura o di riacquistare la forma originaria dopo essere stati sottoposti a schiacciamento o deformazione. In psicologia, invece, la resilienza definisce la capacità delle persone di riuscire ad affrontare gli eventi stressanti o traumatici e di riorganizzare in maniera positiva la propria vita dinanzi alle difficoltà.

Generalmente, col il trascorrere del tempo, le persone trovano il modo di adattarsi bene a situazioni oggettivamente drammatiche come incidenti, lutti, calamità naturali ed eventi traumatici in generale.

 

Caratteristiche della resilienza

Coloro che possiedono un alto livello di resilienza riescono a fronteggiare efficacemente le contrarietà, a dare nuovo slancio alla propria esistenza e perfino a raggiungere mete importanti. Si tratta, sostanzialmente, di persone ottimiste, flessibili e creative, che sono in grado di lavorare in gruppo e attingono spesso alle proprie e altrui esperienze.

La resilienza è, dunque, una funzione psichica che si modifica nel tempo in rapporto all’esperienza, ai vissuti e, soprattutto, al cambiamento dei meccanismi mentali che la sottendono.

Le persone che riescono meglio a fronteggiare le contrarietà della vita, presentano:

  1. impegno ovvero la tendenza a lasciarsi coinvolgere nelle attività:
  2. controllo, la convinzione di poter dominare gli eventi che si verificano al punto da non sentirsi in balia degli stessi;
  3. gusto per le sfide, ossia predisposizione ad accettare i cambiamenti.

Impegno, controllo e gusto per le sfide sono caratteristiche della persona di cui si può avere consapevolezza e perciò possono essere coltivati e incoraggiati. Per questo, la resilienza non è una caratteristica che è presente o assente in un individuo; essa presuppone comportamenti, pensieri ed azioni che possono essere appresi da chiunque.

Avere un alto livello di resilienza non significa non sperimentare affatto le difficoltà o gli stress della vita, significa avere le risorse per riuscire ad affrontarli senza farsi sopraffare dagli eventi stessi. Avere un alto livello di resilienza non significa essere infallibili ma disposti al cambiamento quando necessario; disposti a pensare di poter sbagliare, ma anche di poter correggere la rotta.

 

I fattori costitutivi di alti livelli di resilienza

A determinare un alto livello di resilienza contribuiscono diversi fattori, primo fra tutti la presenza di relazioni con persone premurose e unite, che possano creare un clima di fiducia e di sicurezza, favorendo, così, l’accrescimento del livello di resilienza. Gli altri fattori coinvolti sono:

  • una visione positiva di sé ed una buona consapevolezza sia delle abilità possedute che dei punti di forza del proprio carattere;
  • la capacità di porsi traguardi realistici e di pianificare passi graduali per il loro raggiungimento;
  • adeguate capacità comunicative e di “problem solving”;
  • una buona capacità di controllo degli impulsi e delle emozioni.

Nella ricerca della strategia più idonea per migliorare il proprio livello di resilienza può essere d’aiuto focalizzare l’attenzione sulle esperienze del passato cercando di individuare le risorse che rappresentano i punti di forza personali.

 

RUBRICA: INTRODUZIONE ALLA PSICOLOGIA

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L’altruismo nei bambini di buona famiglia

Secondo un recente studio, i bambini in età prescolare, provenienti da famiglie benestanti, si comportano in modo meno caritatevole, rispetto a quelli provenienti da contesti economici meno agiati e la mancanza di altruismo potrebbe influenzare la salute fisica e mentale dei bambini più ricchi.

La ricerca, pubblicata recentemente su Psychological Science, esamina le radici e i benefici dell’altruismo in età prescolare.
Gli autori dello studio sostengono che le loro scoperte sottolineino l’importanza dell’ambiente primario del bambino nello sviluppo della tendenza alla beneficenza e al compiere gesti generosi e caritatevoli.
Jonas Miller, studente laureato nel dipartimento di Psicologia presso l’Università della California dichiara: [blockquote style=”1″]Quando si hanno più risorse non c’è bisogno di essere tanto sensibili all’ambiente circostante, d’altra parte, se non si hanno molte risorse, si è più dipendenti dagli altri e diventa più importante sviluppare abitudini prosociali come il dare.[/blockquote] I risultati dello studio indicano che ciò potrebbe estendersi, come per i giovani, anche per i bambini in età prescolare.

Nello specifico Miller e i suoi colleghi hanno analizzato come 74 bambini in età prescolare, provenienti da varie fasce di reddito, rispondevano a richieste di donazioni.

Durante una sessione di gioco della durata di alcuni minuti con un’esaminatrice, i bambini erano progressivamente in grado di guadagnare 20 gettoni, che, come a loro era detto fin dall’inizio, potevano essere scambiati, alla fine dell’attività, con un premio. Al termine della sessione di gioco, l’esaminatrice spiegava ai bambini che lei lavorava anche in ospedale, con alcuni loro coetanei più sfortunati e malati, che, pertanto, non potevano guadagnare da soli i premi. Spiegava loro che, se avessero voluto, avrebbero potuto donare alcuni dei loro gettoni a questi bambini, così che, anche per loro, sarebbe stato possibile guadagnare premi, nonostante fossero impossibilitati a venire in laboratorio. I bambini venivano poi lasciati da soli a prendere le loro decisioni.

Lo studio dimostra l’esistenza di un rapporto inversamente proporzionale tra reddito familiare e quantità di gettoni che i bimbi si impegnavano a dare: nello specifico per ogni aumento di 15000$ nel reddito familiare, la quantità che il bambino si impegnava a donare diminuiva di due gettoni.

I ricercatori esaminarono anche le reazioni biologiche dei bambini al dare.
Dopo la fase di donazione, quando i bambini erano a riposo, quelli che davano di più mostravano una maggiore attività del nervo vago, che, tra le varie funzioni, aiuta a regolare il battito cardiaco. Da ricordare anche il fatto che, una più alta attività vagale a riposo è stata collegata alla diminuzione del rischio di patologie cardiache, ipertensione e diabete, nonché a meno ansia e depressione.

[blockquote style=”1″]Ciò che lo studio mostra è che sembriamo essere cablati fin dalla giovane età per ottenere benefici dall’aiutare gli altri, e dovremmo verosimilmente incoraggiare queste azioni nei bambini piccoli[/blockquote] dice Miller.

Felix Warneken, professore associato nel Dipartimento di Psicologia dell’Università di Harvard, che ha condotto una vasta ricerca sui comportamenti sociali dei bambini, ha elogiato lo studio in quanto, rispetto alle ricerche precedenti, è andato più in profondità, esaminando ampiamente sia gli aspetti fisiologici sia quelli sociali dell’altruismo.
Warneken ha trovato le scoperte dello studio sul reddito “provocatorie” e collegate ad altre recenti ricerche sugli adulti, che mostrano come il reddito e il potere influenzino l’altruismo.
Tuttavia, criticamente, ha messo in guardia dall’effettuare qualsiasi tipo di generalizzazione sulla base dello studio, dicendo che non dovremmo mai ricadere nel pensare sulla base di categorie.

Il matrimonio: un passo indispensabile per il benessere emotivo nella coppia?

I dati rivelano un quadro in mutamento: rispetto a vent’anni fa, i benefici in termini di benessere emotivo che un tempo erano associati al matrimonio sembrano attenuarsi e percorsi di vita alternativi danno prova di simili potenzialità.

C’è chi dice che sia una trappola e chi ne è affascinato, chi lo valuta obsoleto e chi, al contrario, lo considera un passo imprescindibile in un percorso di vita: che lo si sostenga o lo si avversi, il matrimonio resta un tema con cui confrontarsi e, in molti casi, uno specchio di una società in continua evoluzione.

Un recente studio della Ohio State University ha indagato il tema del matrimonio per cercare di capire il legame tra questa istituzione e il benessere individuale: sposarsi ci rende più felici? Per indagare la questione, i ricercatori hanno confrontato l’andamento del benessere emotivo di chi sceglie di iniziare la vita con il partner con un matrimonio con quello di chi opta per la convivenza: quando si inizia a vivere insieme e a condividere una casa, aver detto ‘lo voglio’ cambia le carte in tavola?

All’inizio degli anni Novanta le ricerche registravano nelle giovani coppie un incremento del benessere emotivo a seguito del matrimonio con una differenza significativa rispetto alla convivenza. Sposarsi, in altre parole, giovava alle giovani coppie molto più che andare a vivere insieme. Oggi invece, secondo le ricerche condotte da Sarah Mernitz e Claire Kamp Dush, le cose sono cambiate. I ricercatori hanno esaminato i dati del National Longitudinal Survey, relativi ad un campione di 8700 soggetti nati tra il 1980 e il 1984, che sono stati intervistati ad anni alterni dal 2000 al 2010. Per l’intero periodo i partecipanti sono stati monitorati relativamente alla propria situazione sentimentale e ai livelli di stress emotivo, per valutare come queste variabili interagiscano tra loro.

I dati rivelano un quadro in mutamento: rispetto a vent’anni fa, i benefici in termini di benessere emotivo che un tempo erano associati al matrimonio sembrano attenuarsi e percorsi di vita alternativi danno prova di simili potenzialità. Lo studio sottolinea che, soprattutto tra le giovani donne, l’inizio della convivenza con il partner offre lo stesso emotional boost che si osserva quando si saltano le prove generali del vivere insieme e si opta direttamente per il matrimonio. Per gli uomini, invece, i dati rivelano che l’abbassamento del livello di stress emotivo è correlato al matrimonio in modo più significativo di quanto avvenga per la convivenza. Differenza che scompare se il partner con cui si convive non è il primo: qualora una precedente relazione affettiva si concluda, infatti, uomini e donne traggono i medesimi benefici dal matrimonio e dalla convivenza.

I fattori alla base del quadro descritto potrebbero essere di varia natura, a partire dalla progressiva diminuzione dello stigma nei confronti di chi sceglie di convivere e posticipare o evitare il matrimonio, che peraltro è una scelta sempre più comune. Al di là di quali siano le cause, lo studio di Mernitz e Kamp Dush rivela un dato interessante e ci suggerisce che, forse, per essere felici l’abito bianco non è poi così importante.

Disturbo dell’identità dell’integrità corporea: ipotesi eziologiche e questioni ancora irrisolte

Il disturbo dell’identità dell’integrità corporea è una rara condizione clinica, la cui definizione è ancora molto incerta, nella quale vi è un’incongruenza tra l’immagine corporea mentale ed il corpo fisico. I soggetti che soffrono di questa condizione hanno un intenso desiderio di amputare un arto primario del proprio corpo, o di ledere il midollo spinale, al fine di divenire paraplegici. 

Federico Lorenzo Gabellotti, Maddalena Ischia, Genoveffa Malizia, Monica Pignarolo – OPEN SCHOOL Psicoterapia Cognitiva e Ricerca, Milano

 

Disturbo dell’identità dell’integrità corporea: introduzione

Il riconoscimento, l’autoconsapevolezza e l’accettazione del proprio corpo è un aspetto apparentemente banale del sé ma che è comunque essenziale per avere successo nell’interazione con il mondo esterno e le persone (Giummarra et al., 2008).

L’esperienza corporea è un’esperienza complessa, per lo più inconscia e che dipende dall’integrazione di informazioni multisensoriali relative al corpo nello spazio. Questa complessa integrazione avviene tra i processi automatici, sensoriali e bottom-up (legati allo schema corporeo) con quelli di ordine superiore, percettivi e top-down (legati all’immagine corporea) (Gurfinkel e Levick, 1991; Kammers et al., 2006 ).

L’importante distinzione a livello concettuale tra schema corporeo e immagine corporea non dovrebbe implicare a livello comportamentale una separazione tra i due aspetti, in quanto questi possono interagire e influenzarsi a vicenda: ad esempio, strumenti come le protesi possono essere incorporati sia nell’immagine corporea (a livello del movimento e di una sua proiezione cosciente) che nello schema corporeo (a livello di approccio automatico con il mondo esterno) (Gallagher e Cole, 1995).

Lo schema corporeo è una rappresentazione plastica e dinamica delle proprietà spaziali e biomeccaniche del corpo che deriva da input sensoriali multipli che interagiscono con i sistemi motori (Kammers et al., 2006; Schwoebel e Coslett, 2005). Lo schema corporeo comprende uno schema motorio e posturale automatico su cui si basano i nostri movimenti non consapevoli, anche se può influenzare e sostenere l’attività intenzionale (Gallagher, 1986; Gallagher e Cole, 1995; Paillard,1991). Inoltre, questo schema può incorporare al suo interno anche parti significative dell’ambiente esterno (come possono essere le protesi per i soggetti amputati) (Gallagher, 1986). Quindi, lo schema corporeo è formato da rappresentazioni innate del corpo che forniscono un repertorio di funzioni motorie necessarie per la sopravvivenza e una piattaforma neurale attraverso la quale comprendiamo e interagiamo con gli altri nel corso della nostra vita (Brugger et al., 2000).

L’immagine corporea, invece, è una rappresentazione cosciente del corpo che è definita da aspetti lessicali e semantici, all’interno dei quali troviamo i nomi e le funzioni delle parti del corpo e le relazioni tra parti del corpo e gli oggetti esterni (Schwoebel e Coslett, 2005). Gallagher e Cole (1995) individuano tre aspetti importanti all’interno dell’immagine corporea:

  • L’esperienza percettiva del soggetto del proprio corpo (cioè il rendersi conto del proprio corpo, in termini di presa di coscienza della posizione degli arti, del movimento o della postura);
  • La conoscenza concettuale (compresi i miti o le nozioni scientifiche) che il soggetto ha circa il corpo in generale;
  • L’atteggiamento emotivo del soggetto verso il proprio corpo.

Nei casi in cui lo schema corporeo risulti essere compromesso, ad esempio a seguito di deafferentazione corticale, l’immagine corporea e quindi l’attivazione consapevole di rappresentazioni alternative del corpo, permettono di compensare la perdita del controllo innato sulla postura e sui movimenti (Gallagher e Cole, 1995).

Esistono molti disturbi legati ad una percezione erronea del proprio corpo e della sua rappresentazione, che il più delle volte sono associati a danni a livello della corteccia premotoria, parietale o dei sistemi che coinvolgono queste aree. Tra questi disturbi troviamo il disturbo dell’identità dell’integrità corporea (Body Integrity Identity Disorder, BIID).

Che cos’è il disturbo dell’identità dell’Integrità corporea

Il disturbo dell’identità dell’integrità corporea è una rara condizione clinica, la cui definizione è ancora molto incerta, nella quale vi è un’incongruenza tra l’immagine corporea mentale ed il corpo fisico. Sebbene venga studiata raramente, è possibile affermare che i soggetti che soffrono di questa condizione hanno un intenso desiderio di amputare un arto primario del proprio corpo, o di ledere il midollo spinale, al fine di divenire paraplegici (Blom, Hennekam e Denys, 2012).

Risulta importante sottolineare che, in questi individui, l’arto bersaglio o target dell’amputazione non è affetto da handicap sensoriali, come ad esempio un grave dolore (McGeoch et al, 2011). Tutti questi soggetti, infatti, condividono la necessità di danneggiare definitivamente un corpo apparentemente integro (Sedda, 2011). I pazienti con disturbo dell’identità dell’integrità corporea esperiscono, quindi, una disparità tra il proprio corpo e quello che immaginano giusto o adeguato per loro (First, 2005; Ramachandran e McGeoch, 2007).

Questi soggetti, infatti, percepiscono un arto del proprio corpo come estraneo. Esplicative, in questo senso, sono le parole riportate da un paziente: “Non sento i miei arti come se appartenessero a me, e non dovrebbero essere lì” (cfr. Blom, Hennekam e Denys, 2012).

La sofferenza e la preoccupazione per l’arto bersaglio è così forte che interferisce con il funzionamento nella vita quotidiana, e in alcun casi l’ossessione per l’amputazione occupa gran parte della giornata di questi pazienti (si vedano, ad es., Blom, Hennekam e Denys, 2012).

Per potersi avvicinare al sentirsi come una persona disabile, molto spesso questi soggetti simulano una menomazione con l’uso di stampelle o di una sedia a rotelle. Inoltre, dal momento che i medici il più delle volte si rifiutano di amputare arti sani, e poiché in questi soggetti è forte bisogno di eliminare questa parte del corpo, possono mettere in atto (in maniera autonoma) soluzioni drastiche e pericolose per raggiungere lo stato fisico desiderato, attraverso delle automutilazioni, ad esempio sparandosi nelle gambe, attraverso ghigliottine create da sé, tramite l’uso di motoseghe o il congelamento dell’arto. Questi atti non sempre portano alla sopravvivenza del paziente (Bayne e Leavy, 2005; Bensler e Paauw, 2003; Berger et al., 2005; Patrone, 2009).

Il primo report scientifico di questo disturbo risale al 1977, quando Money et al. descrissero due casi di pazienti che manifestavano il desiderio di amputare un arto sano. Alcuni anni più tardi, Michael First (2005), in uno studio condotto su 52 volontari, descrisse gli individui che desideravano l’amputazione di un arto sano, identificando così alcune caratteristiche del disturbo, quali: la prevalenza di genere (la maggior parte dei soggetti erano uomini), la predilezione per l’amputazione di un particolare lato del corpo (il sinistro), e la preferenza per l’amputazione della gamba, piuttosto che del braccio.

Il disturbo dell’identità dell’integrità corporea ad oggi non è spesso riconosciuto da neurologi, chirurghi e psichiatri, nonostante sia descritto in letteratura (Blom, Hennekam e Denys, 2012).

Attualmente il disturbo dell’identità dell’integrità corporea non è incluso nella Classificazione Statistica Internazionale delle Malattie 11 o nel Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali 5 (DSM-5).

disturbo dell’identità dell’integrità corporea: Ipotesi Eziologiche

Sino ad ora, la spiegazione principale dell’eziologia di questo disturbo è stata psicologica/psichiatrica. Si riteneva, infatti, che il desiderio di amputazione fosse motivato da un impulso sessuale (De Preester, 2013). Tuttavia, studi più recenti hanno cercato di identificare (attraverso tecniche elettrofisiologiche o di neuroimaging), i correlati neurali di questa condizione. Secondo questi studi, il desiderio di amputazione originerebbe da un deficit nella rappresentazione corporea, piuttosto che da un impulso sessuale (Ramachandran e McGeoch, 2007).

Al momento, il dibattito è ancora aperto e di grande rilevanza per il trattamento di questi disturbo. Infatti, comprendere se il desiderio di amputare un arto sano abbia un origine psicologica/psichiatrica o neurologica è fondamentale per lo sviluppo di possibili trattamenti, specialmente in ragione del fatto che la maggior parte degli approcci che sono stati tentati sino ad oggi si sono dimostrati inefficaci (First, 2005).

disturbo dell’identità dell’integrità corporea: Ipotesi Psicologica e Psichiatrica

La prima spiegazione psicologica/psichiatrica di questo disturbo è stata fornita da Money et al. nel 1977. Questi autori, descrivendo il desiderio di amputare un arto sano in due pazienti, definirono questa condizione apotemnofilia, dalla parola greca apo (lontano da), temno (tagliare un pezzo), e philia (amore), riferendosi ad un significato generale di amore per l’amputazione.

Prima della sua ridenominazione, l’apotemnofilia era chiaramente situata nel campo della vita sessuale ed erotica. L’apotemnofilia inizialmente comprendeva sia il desiderio di amputazione da eseguire sulla propria persona, sia la preferenza per un partner che presenta amputazione. L’apotemnofilia è stata considerata come una parafilia, cioè un disturbo di eccitazione sessuale.

Secondo il DSM-5, le parafilie sono impulsi sessuali intensi e ricorrenti, fantasie o comportamenti che coinvolgono oggetti insoliti, attività o situazioni che causano disagio clinicamente significativo o menomazione nel funzionamento sociale, lavorativo o di altre aree importanti. Più precisamente, l’apotemnofilia era principalmente intesa come una sorta di feticismo caratterizzato dall’uso di un arto amputato per l’eccitazione sessuale fisica o mentale.

Un feticista è definito come un soggetto che ricerca e ottiene gratificazione sessuale da diverse parti del corpo, o in situazioni in cui gli oggetti inanimati sono utilizzati come metodo esclusivo o costantemente preferito di stimolazione per l’eccitazione sessuale (cfr Lowenstein 2002, p. 135).

È importante sottolineare che i soggetti affetti da apotemnofilia non sono psicotici e non soffrono di allucinazioni. Il desiderio di amputazione non proviene da una illusione o allucinazione, ed è riconosciuto come insolito e bizzarro da chi lo possiede.

Tornando alla descrizione dei pazienti fornita da Money et al. (1977), uno di questi affermava:

(…) l’immagine di me stesso come un amputato ha una fantasia erotica (ognuna diversa) che accompagna ogni esperienza sessuale della mia vita (…). ” (Money et al. 1977, pag. 117).

Per il secondo paziente, le fantasie di amputazione erano spesso presenti, ma non erano una premessa fondamentale per la sua eccitazione sessuale.

Il desiderio di amputazione riguardava un arto del lato sinistro del corpo nel primo individuo e del lato destro nel secondo. Entrambi i pazienti riportavano l’insorgere di questo desiderio intorno agli 11-13 anni. Il primo individuo, inoltre, era sottoposto a trattamento psicoterapeutico per le preoccupazioni circa la propria omosessualità ed una profonda paura della disapprovazione sociale. In aggiunta, questi individui riportavano di non volere fare del male a se stessi (sebbene fosse necessario per soddisfare il loro desiderio), e di essere attratti dall’asimmetria. Gli autori diagnosticarono questi soggetti come parafilici, escludendo la possibilità che soffrissero di disturbi paranoidei e associando il desiderio ad una disfunzione sessuale.

Secondo First (2004), in questi casi, il disturbo dell’identità dell’integrità corporea sarebbe un modo compensativo per rifiutare la propria omosessualità: l’amputazione di un arto potrebbe prevenire e sostituire l’amputazione del pene in un transessuale. In questo caso il desiderio di amputazione e l’amputazione feticista sembrerebbero essere correlati. Ma nonostante questo, gli impulsi sessuali non spiegherebbero pienamente il disturbo in quanto non sono stati trovati in tutti i soggetti disturbo dell’identità dell’integrità corporea (Money e Simcoe 1986; vedi anche Lowenstein 2002).

Alcuni anni dopo, un altro report sulla medesima condizione suggeriva una possibilità alternativa di spiegazione dell’apotemnofilia (Everaerd, 1983). Il paziente descritto da questo autore era un uomo che desiderava l’amputazione di una delle sue gambe. L’autore riporta alcuni episodi nella vita del paziente che si pensava fossero all’origine di questo desiderio: la vista di un ragazzo con una gamba di legno durante l’infanzia, l’attrazione verso questo ragazzo e l’idea che rappresentasse la felicità piena, lo sviluppo di preferenze omosessuali, ed infine, l’uso fasullo delle stampelle. Per l’autore, la motivazione che era alla base del desiderio di amputazione di questo paziente era l’ottenere il benessere fisico e mentale. L’amputazione, in questo caso, perdeva il suo significato sessuale, in quanto era l’unico modo per il paziente per sentirsi completo: assumeva, cioè, rilevanza dal punto di vista dell’identità personale. L’autore, infatti, sottolineava che il suo paziente non aveva problemi di identità sessuale (come sentimenti di colpa per l’omosessualità o un orientamento bisessuale).

Nei primi anni ottanta troviamo così un’indicazione piuttosto suggestiva per la futura distinzione tra apotemnofilia e disturbo dell’identità dell’integrità corporea, basata sulla possibilità che il desiderio di amputazione non sia necessariamente legato ad una motivazione sessuale. Per la prima volta, l’apotemnofilia sembra venire liberata dal suo carattere prominente feticista e quindi sessuale, e viene associata all’ immagine ed identità corporea.

Nel 2005, Michael First pubblicò il primo studio sistematico di un campione di 52 individui che desideravano l’amputazione di un arto sano. Nessuno di questi soggetti (di cui 4 erano donne) presentava deliri, e tutti eccetto uno riferivano che il desiderio era comparso nell’infanzia. Per quanto concerne la comorbidità psichiatrica, 41 soggetti non hanno riferito sintomi psichiatrici, mentre gli altri hanno descritto sintomi di media entità, come ansia e depressione. Lo stesso numero di soggetti, tuttavia, riportava almeno un episodio di origine psichiatrica durante la propria vita. 15 soggetti riportavano anche almeno un altro interesse parafilico, come ad esempio il travestimento o il masochismo. Inoltre, è importante sottolineare che questo studio descriveva anche 6 soggetti che avevano subìto l’amputazione, intervento che, secondo l’autore, aveva estinto permanentemente il loro desiderio.

In particolare, First (2005) suggeriva che l’attivazione sessuale fosse la motivazione secondaria per la maggior parte dei soggetti e che pertanto la ricerca di amputazione non potesse essere considerata una parafilia. Propose inoltre che questo disturbo non fosse incluso nel disturbo da dismorfismo corporeo (BDD, Body Dysmorphic Disorder): tra i due disturbi ci sono infatti delle importanti differenze. Primo, il soggetto con disturbo dell’identità dell’integrità corporea non percepisce l’arto interessato come brutto, ma ha solo la sensazione che questo non appartenga veramente al suo corpo; nei soggetti con BDD, invece, la parte del corpo interessata è vista come antiestetica e disgustosa e ricorrono perciò alla chirurgia plastica per modificare tale situazione (Noll e Kasten, 2014). In secondo luogo, i pazienti con disturbo dell’identità dell’integrità corporea non sono interessati all’intervento per migliorare esteticamente come succede nei pazienti BDD, ma hanno il desiderio di diventare disabili in modo da sentirsi più autentici.

Partendo da questi presupposti, viene quindi disegnato un parallelo tra il desiderio di amputare un arto ed il disturbo dell’identità di genere (First, 2005).

In quest’ultimo le persone hanno la convinzione che i loro organi sessuali esterni non siano contemplati nella loro identità mentale e quindi, come accade nel disturbo dell’identità dell’integrità corporea, una parte della loro anatomia non viene considerata nel proprio sé (Noll e Kasten, 2014). First (2004) sostiene, inoltre, che sia il disturbo dell’identità dell’integrità corporea che il Disturbo d’Identità di Genere (Gender Identity Disorder, GID) si originano prevalentemente durante l’infanzia e si esprimono spesso attraverso l’imitazione dell’identità desiderata (fingendosi disabili o travestendosi) e vengono trattati con successo attraverso l’intervento. Quindi, l’autore concludeva che il termine Apotemnophilia non fosse appropriato per questo disturbo e propose il termine Body Integrity Identity Disorder, considerando questa condizione il risultato di uno sviluppo insolito della propria identità, dove la componente sessuale non aveva un ruolo primario.

Lo studio di First (2005) è stato però criticato da Helen De Preester (2013), la quale suggerì che fosse impossibile escludere la componente sessuale nello studio dell’apotemnophilia/disturbo dell’identità dell’integrità corporea. Essa rianalizzò i dati di First, cercando i casi puri, ovvero quei casi nei quali la motivazione sessuale (o la motivazione identitaria) fosse completamente assente. La percentuale degli apotemnophilici puri e degli identità puri è risultata essere molto bassa (intorno al 10%). La motivazione sessuale era presente solo nel 42% degli individui studiati da First. Secondo la De Preester, il fatto che l’impulso sessuale fosse secondario non voleva indicare che fosse di minore rilevanza.

Il dibattito sul ruolo delle componenti sessuali nell’apotemnophilia/disturbo dell’identità dell’integrità corporea è ancora aperto, ed è più di tipo teorico che sperimentale. In sintesi, le spiegazioni psicologiche / psichiatriche per il desiderio di amputare un arto sano includono due ipotesi principali: una compulsione sessuale, appartenente al nucleo parafilico, e un disturbo di identità, parallelo al disturbo dell’identità di genere (Sedda e Bottini, 2014).

Allo stato attuale, non sono state proposte nuove spiegazioni psicologiche / psichiatriche: perlopiù, questa condizione non è stata inclusa nelle classificazioni del DSM-5.

disturbo dell’identità dell’integrità corporea: ipotesi neurologiche

Recentemente, l’emergere di prove neuroscientifiche ha favorito un’eziologia alternativa a quella psichiatrica / psicologica.

A partire dal lavoro di Ramachandran e McGeoch (2007), sei studi sperimentali hanno esplorato i correlati fisiologici e cerebrali di questa condizione, evidenziando un’attività corticale alterata, soprattutto nel lobo parietale, ed i comportamenti atipici controllati da queste stesse aree (Brang et al, 2008; McGeoch et al., 2011; Aoyama et al., 2012; Hilti et al., 2013; van Dijk et al., 2013; Lenggenhager, 2014; Bottini et al., 2015). Questi dati sollevano la questione se l’apotemnophilia / disturbo dell’identità dell’integrità corporea possa essere dovuto ad una disfunzione delle strutture anatomiche dedicate alla rappresentazione del corpo ed alla consapevolezza corporea.

Come precedentemente accennato, il primo studio che ha riportato questa ipotesi neurologica è quello di Ramachandran e McGeoch (2007). Gli autori affermavano che il desiderio di amputare un arto aveva aspetti in comune con la somatoparafrenia, in quanto gli individui con disturbo dell’identità dell’integrità corporea mostrano una preferenza per il lato sinistro di amputazione. La Somatoparafrenia è infatti un sintomo neuropsicologico che emerge soprattutto dopo un danno all’emisfero cerebrale destro (Bottini et al., 2009; Gandola et al., 2012). In questi casi, i pazienti negano la proprietà di un arto, di solito il braccio paraplegico sinistro, sostenendo che il braccio non è loro e che il loro vero arto si trova da qualche parte nelle vicinanze. I pazienti somatoparafrenici hanno mostrato una riduzione delle loro menomazioni se gli viene somministrata una stimolazione calorica vestibolare fredda (CVS), a causa degli effetti di questa tecnica sul lobo parietale destro (Bottini et al., 2013). Di conseguenza, è stato suggerito di esplorare l’apotemnophilia/disturbo dell’identità dell’integrità corporea attraverso la risonanza magnetica funzionale e le risposte di conduttanza cutanea (Ramachandran e McGeoch, 2007).

Ramachandran e McGeoch (2007) hanno quindi sostenuto che se i sintomi scompaiono dopo la somministrazione di CVS, questa condizione può essere considerata di origine neurologica e, di conseguenza, i trattamenti per estinguere il desiderio devono rifarsi a manipolazioni fisiologiche di specifiche aree cerebrali.

Nel 2008, Brang et al. hanno presentato uno studio preliminare che ha esplorato la risposta di conduttanza cutanea (SCR) nei soggetti con il desiderio di amputare un arto sano. Gli autori hanno adottato un paradigma del dolore, applicando una puntura di spillo al di sopra e al di sotto della linea di amputazione desiderata su ogni gamba di questi individui. È stata rilevata un’aumentata SCR con stimoli che hanno toccato l’arto al di sotto della linea di amputazione. Siccome questo è stato il primo studio sperimentale a concentrarsi su misure più neurologiche, si trattava ancora di un report descrittivo, che includeva solo due soggetti con caratteristiche cliniche molto diverse: il primo desiderava una amputazione sotto il ginocchio destro, mentre il secondo amputazioni sia sotto il ginocchio sinistro che sotto la coscia destra.

Un secondo studio sperimentale, con un gruppo leggermente più consistente di individui (4 soggetti con disturbo dell’identità dell’integrità corporea ed un gruppo di controllo), fu eseguito nel 2011 da McGeoch et al. Gli autori utilizzarono la magnetoencefalografia (MEG), in combinazione con un compito di stimolazione tattile, per esplorare l’attività delle aree parietali. I potenziali somatosensoriali evocati sono stati registrati per mezzo della magnetoencefalografia. I partecipanti venivano toccati: a) sul dorso di ogni piede, b) su ogni parte anteriore della coscia sopra la linea di amputazione desiderata, e c) durante la stimolazione elettrica del nervo mediano sulla faccia volare di ogni polso (condizione di controllo).

McGeoch e colleghi (2011) hanno trovato una riduzione significativa dell’attività del lobo superiore parietale destro (SPL) quando venivano confrontate le risposte somatosensoriali dei soggetti con disturbo dell’identità dell’integrità corporea per la gamba bersaglio con quelle per la gamba non bersaglio e quelle dei soggetti di controllo. Nessun’altra riduzione significativa dell’attività è stata trovata in aree che si sanno essere coinvolte nella rappresentazione del corpo, come l’insula (Berlucchi e Aglioti 2010).

McGeoch e colleghi suggerirono che gli individui con disturbo dell’identità dell’integrità corporea fossero in grado di percepire l’arto interessato perché le cortecce visive e somatosensoriali risultavano intatte, ma non riuscivano ad incorporarle nella loro immagine del corpo a causa di disfunzioni del lobo parietale. L’ipotesi implicita è che l’immagine del corpo, ma non lo schema corporeo, sia danneggiata nel disturbo dell’identità dell’integrità corporea.

Tuttavia, lo studio di McGeoch e colleghi indaga solo la percezione tattile, che di solito è attribuita allo schema corporeo piuttosto che all’immagine del corpo (Berlucchi e Aglioti 2010). L’assenza di altri compiti che affrontano diverse componenti della rappresentazione del corpo può spiegare perché altre zone note che contribuiscono al senso di appartenenza, come la corteccia insulare (Berlucchi e Aglioti 2010; de Vignemont 2010), non abbiano mostrato un’attività differenziale.

L’immagine corporea e lo schema corporeo dei pazienti con disturbo dell’identità dell’integrità corporea devono essere valutati con batterie neuropsicologiche più estese, contenenti tra l’altro compiti di denominazione e localizzazione di parti del corpo e di imaging motorio, che permettano di valutare tutte le forme di rappresentazione del corpo (de Vignemont 2010), prima di trarre conclusioni affrettate in favore di un disturbo dell’immagine corporea.

Inoltre, la dicotomia tra immagine corporea e schema corporeo è stata più volte posta in questione, a causa della sua vaghezza nello spiegare la grande varietà di disturbi neurologici che possono affliggere la rappresentazione del corpo (Berlucchi e Aglioti 2010; de Vignemont 2010).

Le teorie secondo cui il riconoscimento di sé e la consapevolezza siano mappate in una zona unica e che schema corporeo e rappresentazione del corpo siano moduli indipendenti sono troppo semplicistiche alla luce delle recenti scoperte sulla rappresentazione del corpo (Berlucchi e Aglioti 2010; de Vignemont 2010).

In maniera analoga può risultare semplicistico considerare il disturbo dell’identità dell’integrità corporea come un deficit di proprietà che emerge solo da una disfunzione della SPL. I risultati di McGeoch e colleghi sono promettenti, ma la ricerca sul disturbo dell’identità dell’integrità corporea come fenomeno neurologico che colpisce la rappresentazione del corpo è appena iniziata, e dovranno essere chiarite diverse questioni prima di accettare questa categorizzazione.

In ogni caso, McGeoch e colleghi (2011) hanno concluso che l’apotemnophilia / disturbo dell’identità dell’integrità corporea dovrebbe essere definita xenomelia e dovrebbe essere inclusa tra le sindromi del lobo parietale destro legate alla rappresentazione del corpo. Questo nuovo termine comprende il parallelo con la somatoparafrenia e significa straniero (xeno) arto (melia) in greco antico. Questa è la terza etichetta data alla condizione in un arco temporale di 34 anni.

Sebbene questi autori effettuino un parallelismo tra le due sindromi, Bottini et al. (2009) ci mettono in guardia sul fatto che si possano rilevare molte differenze tra il disturbo dell’identità dell’integrità corporea e i disturbi della rappresentazione del corpo classici, come la somatoparafrenia.

Gli individui affetti da disturbo dell’identità dell’integrità corporea possono presentare desideri di amputazione dell’arto destro, sinistro, o entrambi (First 2005; McGeoch et al. 2011). Al contrario, i pazienti somatoparafrenici presentano un senso di rifiuto diretto solo verso un lato del corpo e mai con sintomi bilaterali (Vallar e Ronchi 2009; Bottini et al. 2009).

Un altro elemento cruciale del disturbo dell’identità dell’integrità corporea, che lo differenzia dalla somatoparafrenia, è la possibilità di recupero/guarigione spontanea. In contrasto con i pazienti somatoparafrenici (Vallar e Ronchi del 2009; Bottini et al., 2009), i pazienti con disturbo dell’identità dell’integrità corporea non guariscono spontaneamente, ma piuttosto sperimentano un desiderio di amputazione per tutta la vita (First 2005). Uno dei pazienti nello studio di McGeoch et al. (2011) inizialmente desiderava un’amputazione bilaterale, mentre al momento dello studio ha riferito un minor desiderio di amputazione per la gamba destra, che dopo un anno scomparve completamente (McGeoch et al. 2011). Anche se gli autori ritengono questo fatto indicativo di plasticità cerebrale e recupero, e indice di una condizione reversibile (McGeoch et al., 2011), non è chiaro che cosa possa mediare il recupero, in quanto studi precedenti riportano che nessuno degli individui affetti da disturbo dell’identità dell’integrità corporea sia guarito spontaneamente in seguito a trattamento farmacologico o psicoterapeutico, ma solo dopo l’amputazione dell’arto desiderato (First 2005).

E’ stato comunque riportato in tempi recenti un trattamento di successo del disturbo dell’identità dell’integrità corporea con la psicoterapia (Thiel et al. 2011), anche se questo è l’unico caso conosciuto. È interessante notare che il paziente di Thiel e colleghi desiderava l’amputazione di entrambe le gambe, in maniera simile all’individuo nello studio di McGeoch et al., che era guarito dal desiderio di amputazione solo per la gamba destra, corroborando quindi l’importanza di comprendere il ruolo della lateralità.

Seguendo l’ipotesi di una sindrome del lobo parietale, Aoyama et al. (2012) hanno studiato i giudizi di ordine temporale negli individui con disturbo dell’identità dell’integrità corporea. Il loro esperimento era basato sull’idea che l’integrità dell’immagine del corpo e della corteccia parietale (in altre parole, il preservato senso di proprietà) fossero necessari per valutare correttamente quale dei due stimoli consecutivamente applicati a una parte del corpo venisse somministrato per primo (Moseley, Olthof, Venema A, et al, 2008). I risultati di questo studio hanno rilevato che gli individui con disturbo dell’identità dell’integrità corporea percepivano gli stimoli più distali (cioè quelli applicati all’arto che voleva essere amputato) come quelli somministrati per primi, mentre gli stimoli percepiti per primi avrebbero dovuto normalmente essere quelli somministrati a parti del corpo più prossimali, in ragione di tempi di trasmissione neurale più rapidi. Per gli autori, questi risultati confermavano la teoria secondo cui il desiderio di amputare un arto sano fosse una sindrome del lobo parietale, in quanto i pazienti dello studio non avevano disturbi sensoriali che potevano spiegare diversamente i risultati.

Hilti et al. (2013), hanno riportato, in accordo seppur solo in parte con gli studi precedenti, differenze strutturali tra soggetti di controllo e le persone che desideravano amputare un arto sano, evidenziandone differenze nel lobo parietale destro superiore (SPL), nella corteccia somatosensoriale primaria e secondaria, e nell’insula anteriore. Questo studio non prevedeva nessun compito attivo, in quanto l’obiettivo era solo quello di esplorare l’architettura corticale in questi pazienti.

Nello stesso anno è stato condotto un esperimento di risonanza magnetica funzionale (fMRI) (van Dijk et al., 2013), per confrontare l’attività cerebrale tra gli arti percepiti ‘di proprietà’ e quelli percepiti ‘da amputare’ nel corso di una stimolazione tattile e nell’ esecuzione di un compito motorio. In primo luogo i risultati del compito di stimolazione tattile, analizzati in termini generali (attività relative a entrambe le gambe degli individui con disturbo dell’identità dell’integrità corporea rispetto ai controlli), hanno evidenziato una diversa responsività nella rete somatosensoriale, che comprende principalmente: la rete frontoparietale (corteccia premotoria dorsale [PMd]; il giro precentrale e postcentrale (tra cui la corteccia somatosensoriale); l’ SPL su entrambi i lati; la corteccia premotoria ventrale destra (PMV); la corteccia insulare; il giro sopramarginale e la corteccia occipito-temporale (la corteccia occipitale laterale; la precuneus; la corteccia temporale inferiore; il giro fusiforme; il cervelletto su entrambi i lati). È importante sottolineare che nessuna regione del cervello ha mostrato una responsività significativamente ridotta.

In secondo luogo, gli autori hanno preso in considerazione l’attività neurale come una funzione della gamba (quella che ‘vuole essere amputata’ contro la ‘propria’ gamba, in confronto con la gamba corrispondente nei soggetti di controllo). Questi contrasti hanno rivelato una attivazione ridotta nei PMV e PMd controlaterali, rispetto al gruppo di controllo. Non è stato misurato nessun significativo aumento dell’attività cerebrale in ciascuna area. Questi risultati suggeriscono che la sensazione di rifiuto di questa condizione è associata ad un’elaborazione somatosensoriale alterata. D’altro canto, i risultati del compito di esecuzione motoria non hanno mostrato differenze significative, sia considerando un confronto generale tra i controlli e gli individui con apotemnophilia / BIID / xenomelia, che prendendo in esame il senso di appartenenza verso la gamba.

In aggiunta, Ramachandran (2012) ha notato come i pazienti con disturbo dell’identità dell’integrità corporea siano all’opposto dei pazienti con amputazioni dovute ad incidenti reali. Questi ultimi hanno spesso la sensazione dell’ arto fantasma nell’arto amputato (phantom limb), mentre nei pazienti con disturbo dell’identità dell’integrità corporea l’arto esiste ma non sembra attivare nessuna struttura cerebrale superiore in cui vengano rappresentati i confini del nostro corpo (Brugger, 2011). L’arto quindi pare non sarebbe incluso nel loro schema corporeo.

Se le osservazioni e la teoria di questi autori fosse giusta, i pazienti con disturbo dell’identità dell’integrità corporea non dovrebbero avere sensazioni di arto fantasma. Dallo studio di Noll e Kasten (2014) è emerso che molti soggetti in seguito ad amputazione riportavano sensazioni dell’arto fantasma (anche se la comparsa avveniva in tempi diversi nei vari pazienti) e dolori a livello della zona amputata. Queste sensazioni erano riportate sotto forma di prurito, pressione, sensazione di avere degli aghi all’interno, sensazione di avere l’arto più piccolo del normale, più corto o più lungo, più caldo o più freddo a seconda dei soggetti. Questo quindi smentisce la teoria degli autori precedenti. Ma si potrebbe assumere che queste sensazioni all’arto fantasma dipendano da un’area somato-sensoriale chiaramente intatta presente nel lobo parietale. Se questa area non fosse stata intatta i soggetti non sarebbero stati in grado di svolgere le normali attività sportive prima dell’intervento. Quindi, Noll e Kasten (2014), hanno concluso che lo schema corporeo del paziente è presente in un’altra area del lobo parietale, che non è responsabile della sensazione dell’arto fantasma.

Sacks (1984) trova una corrispondenza tra disturbo dell’identità dell’integrità corporea e sindrome di Potzl. Molto spesso le distorsioni dell’immagine corporea derivano da tumori o ictus al lobo parietale, così come accade nei pazienti che soffrono della sindrome di Potzl, i quali ignorano parti del proprio corpo o le percepiscono come aliene, irreali o come parti di un altro corpo.

Anche la sindrome della mano aliena mostra una somiglianza con il disturbo dell’identità dell’integrità corporea (Biran and Chatterjee 2004; Pappalardo et al 2004; Scepkowsky and Cronin-Golomb 2003). Questa sindrome solitamente appare dopo ictus, emorragie o tumori al corpo calloso o nella corteccia frontale mediale. I pazienti che ne soffrono percepiscono la loro mano sinistra come aliena e spesso non la identificano come loro stessa mano. Diversi studi hanno dimostrato come una riabilitazione neuropsicologica possa supportare il processo di guarigione di questi pazienti (Pappalardo et al, 2004).

Tuttavia, contrariamente a quanto accade nella sindrome di Potzl o nella sindrome della mano aliena, molti dei pazienti con disturbo dell’identità dell’integrità corporea mostrano una sofferenza verso l’arto alieno già a partire dall’infanzia. Questo dato potrebbe suggerire una malformazione congenita nel cervello (ad es. un’anomalia ai vasi sanguigni), un trauma cerebrale precoce (ad es. sindrome del bambino scosso) o un incompleto sviluppo dei nervi nella corteccia sensomotoria o nel corpo calloso.
Per questo molti autori hanno considerato l’ipotesi che alcuni casi di disturbo dell’identità dell’integrità corporea potrebbero derivare da aberrazioni congenite nei correlati neuronali, dove lesioni o fattori ambientali giocano un ruolo secondario.

Tra questi, Smith e Fisher (2003) teorizzano che in pazienti con disturbo dell’identità dell’integrità corporea l’arto fisico si sia sviluppato senza una coscienza sensoriale di esso, a causa di una mancata corrispondenza congenita tra il corpo fisico e l’immagine corporea generata a livello della corteccia somatosensoriale.

Infine, un recente studio (Bottini, Bruger, e Sedda, 2015) ha esplorato l’ipotesi neurologica, partendo da una prospettiva differente. In questo lavoro, gli autori hanno somministrato una serie di test a 7 persone affette da disturbo dell’identità dell’integrità corporea, che avevano lo scopo di esplorare l’espressione facciale: il riconoscimento e le risposte di disgusto. La premessa di base era che l’insula, indicata negli studi precedenti come possibile area disfunzionale, è coinvolta nella rappresentazione corporea (Berlucchi e Aglioti, 2010) e nell’elaborazione delle emozioni (Jabbi, Bastiaansen, Keysers, 2008).

Un secondo punto di partenza, che ha convinto gli autori a seguire questa strada, è che i disturbi psichiatrici si trovano di solito in comorbidità con deficit nel riconoscimento delle emozioni (Kohler et al., 2011). A differenza degli studi precedenti che si sono concentrati sulla rappresentazione del corpo di per sé e hanno trascurato le componenti sessuali e psichiatriche, questo studio ha adottato una metodologia neuropsicologica ed ha esplorato entrambe le eziologie (neurologica e psichiatrica). Gli autori hanno trattato i dati come casi singoli, evitando il problema di raggruppare insieme individui con differenti caratteristiche cliniche. I risultati di questo studio hanno mostrato assenza di riconoscimento delle emozioni e anche deficit di espressione, in tutti gli individui.

Comunque, i soggetti che hanno cercato un’amputazione unilaterale hanno mostrato un modello diverso per quanto riguarda la valutazione delle immagini raffiguranti gli arti amputati (non persone amputate, ma arti amputati, ad esclusione di qualsiasi componente sessuale di attrazione verso un amputato). Questi individui valutato queste immagini come non disgustose – un comportamento contrario a quello che si può aspettare da modelli noti di disgusto verso le violazioni dell’involucro del corpo (Rozin, Haidt, e Fincher, 2009; Rozin e Fallon, 1987). Tali modelli affermano che il disgusto è una reazione difensiva verso il pericolo; di conseguenza, le violazioni della raffigurazione del corpo suscitano questa emozione (Rozin, Haidt, e Fincher, 2009; Rozin e Fallon, 1987). Sembra che il disturbo dell’identità dell’integrità corporea sia caratterizzato da una compromissione dell’emozione, selettivamente legata al corpo, ma solo in alcuni individui che condividono specifiche caratteristiche cliniche.

Trattamento del disturbo dell’identità dell’integrità corporea e qualità della vita di questi pazienti

Molti studi hanno dimostrato come le psicoterapie tradizionali abbiano pochi effetti sul desiderio di amputazione (Bayne e Levy, 2005; Bensler e Paauw, 2003; Braam et al. 2006; First, 2004; Storm e Weiss, 2003): esse possono talvolta aiutare i pazienti a diminuire o tollerare i loro pensieri, ma non li eliminano del tutto (Braam et al., 2006; Wise e Kalyanam, 2000).

Nello studio di Noll e Kasten (2014), la maggior parte dei soggetti sottoposti ad operazione aveva cercato di resistere al proprio desiderio per molti anni, evitando l’operazione con differenti tipi di terapia e trattamenti. La decisione di ricorrere ad un intervento era infatti legata ai mancati effetti delle diverse terapie provate. Tra quelle citate troviamo trattamenti farmacologici, psicoanalisi, terapia comportamentale, counseling prima dell’intervento, e psicodramma. Solo due dei 18 soggetti presi in esame hanno riferito di aver avuto un profitto dalla terapia, in particolar modo dalle terapie di counseling. Per gli altri, invece, il desiderio di un’amputazione era aumentato durante la terapia stessa.

Questo può essere dovuto al fatto che parlare di disturbo dell’identità dell’integrità corporea in terapia porta maggiormente l’attenzione del paziente su questo suo desiderio.

Alcuni pazienti avevano provato anche tecniche di rilassamento, il training autogeno, meditazione e rilassamento muscolare progressivo, ma nessuno di questi aveva avuto esiti positivi. Anzi, proprio queste tecniche avevano portato a focalizzare maggiormente l’attenzione dei pazienti sul corpo, incrementando il loro desiderio.

Sacks (1984) ha segnalato un possibile metodo per aiutare questi pazienti, che consiste nell’uso della terapia del movimento, spesso associata a musicoterapia. Lo scopo di questa terapia è quello di reintegrare la parte estranea del proprio corpo con la sua rappresentazione a livello cerebrale. Queste semplici cure possono essere usate per rinvigorire connessioni neurali tra corpo e mente atrofizzate, ma non sempre sono efficaci, soprattutto se la parte estranea del proprio corpo è stata effettivamente eliminata dalla mappa corporea presente nel cervello.

Il metodo proposto da Ramachandran e McGeoch (2007), che consiste nell’introdurre nel canale uditivo acqua fredda e poi calda per stimolare il lobo parietale opposto all’orecchio trattato, è stato in grado di trattare temporaneamente pazienti con somatoparafrenia e quindi potrebbe alleviare anche le sofferenze dei pazienti con disturbo dell’identità dell’integrità corporea.

Se questo metodo si mostrasse efficace, i medici potrebbero provare ad utilizzare la stimolazione magnetica ripetitiva (rTMS), che potrebbe migliorare le prestazioni di discriminazione tattile ed ampliare le corrispondenti mappe corticali somatosensoriali (Tegenthoff et al. 2005). Un’altra possibilità potrebbe essere l’impianto di elettrodi di stimolazione nell’area corticale interessata. Nel caso in cui si osservasse che la causa del disturbo dell’identità dell’integrità corporea fosse un tumore benigno o una malformazione artero-venosa, la microchirurgia o la radiochirurgia potrebbero essere terapie efficaci.

Alcuni autori, come ad esempio Muller (2008), hanno sottolineato l’importanza di incrementare gli studi sulle terapie da adottare con questa tipologia di pazienti, soprattutto per evitare che si ricorra all’amputazione quale forma terapeutica, quando ve ne potrebbero essere altre ugualmente efficaci.

Nel 2012 Blom, Hennekam e Denys hanno condotto uno studio su 54 soggetti con disturbo dell’identità dell’integrità corporea il cui obiettivo era quello di fornire dettagliate caratteristiche somatiche, psichiatriche, e sociali del BIID e confrontare l’interruzione nel lavoro, nella vita sociale e familiare legati al disturbo dell’identità dell’integrità corporea in soggetti sottoposti ad amputazione vs. soggetti che non avevano subìto l’amputazione.

Ai soggetti che si erano identificati come affetti da disturbo dell’identità dell’integrità corporea sono stati somministrati i seguenti questionari:

  • BIID Phenomenology Questionnaire: questionario costruito dagli autori contenente domande relative a aspetti epidemiologici, medici, e specifici del disturbo
  • Sheehan Disability Scale (SDS): scala che misura il danno funzionale dovuto alla malattia nel lavoro, famiglia e vita sociale (Leon et al., 1997)
  • Adattamento della Yale-Brown Obsessive-Compulsive Scale (Y-BOCS) (Goodman et al. 1989, entrambi gli articoli in bibliografia). In questa scala gli individui devono indicare il controllo che hanno sui pensieri e le attività legate al BIID; il tempo che spendono; l’interferenza che esperiscono; lo stress che gli viene causato.
  • La Mini-International Neuropsychiatric Interview Screen (MINI screen): scala di screening per i disturbi psichiatrici più comuni (Sheehan et al., 1998).
  • La Beck Anxiety Inventory (BAI) che misura la severità dei sintomi ansiosi (Beck, Epstein, Brown, Steer, 1988).
  • La Beck Depression Inventory (BDI), che misura la severità dei sintomi depressivi (Beck, Ward, Mendelson, Mock, e Erbaugh, 1961).

In accordo con la letteratura precedente, gli autori hanno rilevato che il livello di sofferenza nei soggetti con disturbo dell’identità dell’integrità corporea è alto (First, 2005).

Le ossessioni legate al disturbo dell’identità dell’integrità corporea erano infatti presenti nei pazienti tutti i giorni, talvolta anche di notte. Esplicative in questo senso le parole di un paziente che ha preso parte allo studio:

Il disturbo dell’identità dell’integrità corporea occupa ogni momento della mia vita, e mi tiene sveglio anche la notte. L’insonnia è grave quasi tutte le sere”.

L’impatto sociale di essere affetti da disturbo dell’identità dell’integrità corporea è risultato essere enorme, e determinava una notevole compromissione della vita sociale, lavorativa e familiare di questi pazienti. Inoltre, molti di questi hanno riportato di trascorrere molto tempo fingendosi disabili, utilizzando ad esempio stampelle, bendando gli arti o attraverso l’uso di una sedia a rotelle (“Sto usando una sedia a rotelle a tempo pieno quando sono in pubblico. Cammino a casa. Questo è l’unico modo per rimanere in qualche modo funzionale”).

In aggiunta, questi pazienti hanno riferito sintomi depressivi e di ansia in misura più elevata rispetto alla popolazione generale; secondo gli autori, tali sintomi sono probabilmente secondari all’enorme angoscia che il disturbo dell’identità dell’integrità corporea induce su una persona.

Gli individui affetti da BIID rivelano inoltre il loro disturbo alla famiglia e agli amici nella metà dei casi.
Per quanto concerne gli aspetti del trattamento, i pazienti hanno riferito che quello psicoterapico era spesso di supporto, sebbene non di aiuto nel diminuire i sintomi legati al disturbo dell’identità dell’integrità corporea:

Mentre la psicoterapia non mi ha aiutato direttamente a superare il mio disturbo, essa è servita a capire il mio rapporto con il disturbo dell’identità dell’integrità corporea”.

Dal punto di vista del trattamento farmacologico, gli antidepressivi sono stati percepiti come utili per ridurre i sintomi depressivi legati al disturbo dell’identità dell’integrità corporea, a differenza degli antipsicotici.

E’ interessante notare che l’amputazione effettiva dell’arto è stata efficace in tutti i 7 casi che hanno avuto un trattamento chirurgico

Mi chiedo se ho diritto a partecipare a questo studio, perché da quando ho subìto l’amputazione non ho più avuto sentimenti di disturbo dell’identità dell’integrità corporea

I soggetti che avevano subìto un’amputazione, infatti, hanno ottenuto punteggi significativamente più bassi sulla Sheehan Disability Scale rispetto a quelli che non l’avevano subìta. Ciò sembra suggerire che gli individui con disturbo dell’identità dell’integrità corporea preferiscano sentirsi in armonia con la propria identità, anche se questo comporta una disabilità fisica.

La chirurgia sembra quindi risultare in una remissione permanente del disturbo dell’identità dell’integrità corporea e in un impressionante miglioramento della qualità della vita, ma contrasta con le norme etiche dei medici che sostengono di non amputare arti sani (Craimer, 2009; Muller, 2009).

Disturbo dell’identità dell’integrità corporea: aspetti etici legati all’amputazione

Attualmente vi è un’accesa discussione etica rispetto al riconoscere le amputazioni nei pazienti con disturbo dell’identità dell’integrità corporea come legali e da eseguire sotto condizioni molto restrittive (Bayne e Levy, 2005; Bridy, 2004; Beckford-Ball, 2000; Levy, 2007; Manok, 2012; Nitschmann, 2007).

Non c’è accordo sul fatto che i medici soddisfino il desiderio di amputazione di questi pazienti in qualsiasi circostanza. Legato a ciò, uno degli argomenti riportati contro la legalizzazione dell’amputazione nelle persone affette da disturbo dell’identità dell’integrità corporea è legato al fatto che spesso questi soggetti mostrano il desiderio di più operazioni, dopo che la prima è stata eseguita.

Secondo altri autori, dal momento che non esiste una terapia che promette una guarigione dal disturbo dell’identità dell’integrità corporea, l’amputazione dovrebbe essere considerata come una possibilità di aiuto per queste persone.

Levy (2007) è a favore alla legalizzazione dell’amputazione in quanto appare ovvio che la malattia è difficile da trattare in altro modo: egli ritiene che l’unico metodo efficace al momento per aiutare questi pazienti sia proprio l’intervento chirurgico.

Per Bayne e Levy (2005), i pazienti con disturbo dell’identità dell’integrità corporea non sono psicotici e sono ben consapevoli dei rischi e delle conseguenze a cui vanno incontro (e di cui ovviamente devono essere ben informati prima dell’operazione), perciò la chirurgia è eticamente possibile in quanto potrebbe prevenire la possibilità che molti pazienti con disturbo dell’identità dell’integrità corporea si feriscano o si uccidano. Questo come conseguenza del fatto che molti medici, come è stato già detto, non sono disposti ad eseguire questo tipo di amputazioni sui loro pazienti ed è così che la maggior parte dei soggetti con disturbo dell’identità dell’integrità corporea si recano nei paesi stranieri, poco sviluppati, ed eseguono operazioni rischiose pagando in contanti e rischiando la vita per le scarse condizioni di sicurezza e igiene.

Gli aspetti etici vengono presi in considerazione riferendosi a questioni legate ai quattro principi della bioetica (autonomia, non-maleficenza, beneficenza di giustizia).

Il principio dell’autonomia sostiene che gli esseri umani agiscono autonomamente quando l’atto è compiuto: con intenzione; con comprensione della situazione; senza controlli o influenze coercitive esterne (Muller, 2009).

Il principio dell’autonomia sottolinea l’indipendenza dei pazienti contro le autorità (anche mediche) ed esige che i medici rispettino i desideri dei pazienti e portino avanti le loro volontà. I pazienti hanno il diritto di scegliere tra differenti tipi di terapie mediche quella che ritengono più opportuna dopo aver valutato rischi e opportunità, in accordo alla loro situazione personale e ai loro valori individuali. Una volta soddisfatti questi criteri, il paziente con disturbo dell’identità dell’integrità corporea potrebbe fornire il proprio consenso informato all’operazione. Se l’amputazione diventasse una terapia accreditata per i pazienti disturbo dell’identità dell’integrità corporea, i pazienti potrebbero scegliere tra la terapia psicologica, psicofarmacologica, neuroriabilitazione, amputazione o, eventualmente, stimolazione magnetica transcranica o stimolazione cerebrale elettrica.

Bridy (2004) ritiene che l’amputazione potrebbe essere accettata come legittima in vista della ricerca del paziente della sua felicità e autenticità.

Secondo il principio di non-maleficenza, i medici non dovrebbero eseguire l’amputazione senza indicazioni mediche ben precise, in quanto l’operazione comporta grandi rischi e spesso ha conseguenze importanti che vanno oltre la disabilità, come per esempio infezioni, trombosi, paralisi o necrosi (Beckford-Ball, 2000; Dotinga, 2000; Johnston e Elliott, 2002). L’amputazione potrebbe causare un danno irreversibile che non può essere guarito.

Secondo il principio di beneficenza, l’amputazione potrebbe essere giustificata nel caso in cui i benefici che ne derivano al paziente permettono di annullare il possibile danno. Quindi, affinché l’amputazione possa essere considerata legale devono essere soddisfatte tre condizioni: l’efficacia, la sostenibilità degli effetti e la non esistenza di una terapia meno nociva (Muller, 2009). Per Bayne e Levy (2005), First (2004), Fisher e Smith (2000) e Furth e Smith (2000) tali condizioni possono considerarsi soddisfatte. Ma nonostante questo, essi non sono stati in grado di presentare prove scientifiche sulla reale efficacia dell’amputazione come terapia per pazienti con disturbo dell’identità dell’integrità corporea, e si riferiscono approssimativamente all’osservazione di soli 10 casi per arrivare alle loro conclusioni. In più, la sostenibilità degli effetti può essere messa in dubbio: in alcuni casi, infatti, si verifica uno spostamento del sintomo che porta a successive amputazioni di più arti (Berger et al., 2005; Skatessoon, 2005; Sorene et al., 2006).

Il fatto che la psicoterapia e le sostanze psicotrope non siano molto efficaci per curare il disturbo dell’identità dell’integrità corporea è stato dimostrato solo da pochi studi di casi, mentre in altri gli SSRI e la terapia comportamentale sono stati in grado di diminuire il desiderio di amputazione (Berger et al. 2005). Quindi, i prerequisiti che potrebbero giustificare l’amputazione secondo il principio di beneficenza non sono né soddisfatti né dimostrati sufficientemente.

Tuttavia, il principio di beneficenza potrebbe giustificare le amputazioni nel caso in cui vengano fatte per prevenire conseguenze peggiori (Beauchamp e Childress, 2001). Questo dato è portato a sostegno dal fatto che alcuni pazienti con disturbo dell’identità dell’integrità corporea sono così ossessionati dal desiderio di aver un arto amputato che cercano di procurarselo autonomamente, schiacciandosi una gamba con dei pesi o con altri metodi “fai da te” (Dyer, 2000; First 2004; Furth e Smith 2000; Skatessoon 2005). Alcuni di questi casi hanno portato alla morte (Bayne e Levy, 2005). La possibilità di amputazioni eseguite correttamente e da persone professionali potrebbe impedire queste pericolose automutilazioni.

Il principio di giustizia prende in considerazione anche l’impatto sociale ed economico del disturbo. Un’amputazione porta ad un handicap: oltre a delle reazioni psicosociali nelle persone circostanti, questo ha delle conseguenze finanziarie. Mentre non vi sono problemi legati al finanziamento pubblico offerto dal sistema sanitario quando l’amputazione è eseguita a causa di incidenti o malattie, ci sono invece problemi giuridici quando l’amputazione è auto-inflitta o eseguita per cause estetiche, erotiche o finanziarie. Questo perché i costi sono elevati: le assicurazioni devono pagare le cure, i trattamenti medici e la riabilitazione dopo l’intervento; le abilità lavorative dei pazienti possono essere più limitate dopo l’intervento e quindi si crea la necessità di fornirgli una nuova formazione per un altro lavoro, mentre in altri casi i pazienti non sono proprio più in grado di poter lavorare e si arriva ad un pensionamento anticipato (Noll e Kasten, 2014).

Anche il contesto sociale circostante gioca un ruolo importante. Un ambiente sociale accondiscendente è molto importante per la soddisfazione a lungo termine dei pazienti, in quanto avere qualcuno con cui parlare migliora la loro situazione. Le persone a cui solitamente vengono riferite le vere motivazioni dell’amputazione sono i famigliari e gli amici, mentre raramente i colleghi (Noll e Kasten, 2014).

Conclusioni

Il disturbo dell’identità dell’integrità corporea è una rara condizione clinica, studiata di rado, in cui vi è una mancata corrispondenza tra l’immagine mentale del corpo ed il corpo fisico che influenza la vita delle persone colpite in modo estremo (Blom, Hennekam e Denys, 2012).

Il disturbo dell’identità dell’integrità corporea si traduce in un intenso desiderio di amputare un arto o di danneggiare il midollo spinale, al fine di diventare paraplegici e può portare gli individui a mutazioni auto-inflitte. Per gli individui affetti da questa condizione, i desideri connessi al disturbo dell’identità dell’integrità corporea sono fondamentali per la vita e non sono il risultato di un disturbo psichiatrico primario o somatico.

Ulteriori ricerche sono necessarie per rivelare l’eziologia di questa condizione, e quindi comprendere quale sia il trattamento più efficace.

Se infatti il disturbo dell’identità dell’integrità corporea è una condizione derivante da una disfunzione cerebrale, similmente ad altre malattie neurologiche come la depressione (Davidson 2010), una combinazione di trattamenti farmacologici e di psicoterapia dovrebbero essere attentamente pianificati.

Se invece il disturbo dell’identità dell’integrità corporea è un disturbo neurologico legato ad una disfunzione del lobo parietale (McGeoch et al.2011; Aoyama et al. 2012) o a sindromi di rinnegamento (Berlucchi e Aglioti 2010), vi è un’ulteriore prova che un trattamento chirurgico non dovrebbe essere suggerito, e dovrebbero essere testati prima i risultati di tecniche meno invasive, come la stimolazione vestibolare calorica (Ramachandran e McGeoch, 2007).

Accanto alla chirurgia al momento non vi è alcuna strategia di gestione efficace del disturbo, ma
il riconoscimento e il rispetto per i desideri di questi pazienti possono ridurre l’enorme carico che questo ha sulla loro vita (Blom, Hennekam e Denys, 2012).

Anche la questione sulla legalizzazione delle amputazioni deve essere risolta. Come visto precedentemente, diversi autori (Bayne e Levy, 2005; First, 2004; Fisher e Smith, 2000; e Furth Smith, 2000) hanno sostenuto che l’amputazione ha spesso aiutato questi pazienti e quindi renderla legale a tutti gli effetti potrebbe permettere una riduzione di operazioni rischiose compiute in altri paesi o le auto-mutilazioni, oltre a garantire il benessere dei pazienti a lungo termine (Muller, 2009). Per risolvere questo problema, il punto cruciale da chiarire consiste nel comprendere se il desiderio di amputazione derivi da una scelta autonoma o da un’ossessione.

Fino ad ora la maggior parte degli studi ha sostenuto che alla base di questo desiderio ci sia un impulso sessuale o un disturbo dell’identità (Sedda, Bottini, 2014); inoltre, gli studi neurologici supportano l’ipotesi di un disturbo a livello celebrale. Tutto questo porta a considerare le amputazioni come lesioni gravi provocate da persone con sostanziale perdita di autonomia e quindi non propriamente in grado di scegliere con consapevolezza.

In conclusione, i 37 anni di studio di questo desiderio di essere disabili, hanno portato alla luce una condizione ancora segreta (ma forse non così rara, considerando il crescente numero di individui inclusi negli studi), che sembra difficile da capire, anche utilizzando le attuali tecnologie.

È necessario molto sforzo per trovare una soluzione e, infine, un trattamento per il disagio di questi individui. Questa condizione ancora oscura ha bisogno di un approccio multidisciplinare per andare oltre la semplice cornice sperimentale/clinica, e richiede un modello molto più complesso che comprende anche aspetti sociali ed etici (Patrone, 2009).

I giochi che pubblicizzano dei marchi di cibi stimolano l’appetito nei bambini

Due terzi dei bambini in età scolare giocano almeno una volta alla settimana su internet ad un gioco creato con lo scopo di attirare l’attenzione su un marchio. La maggior parte di questi giochi con messaggi pubblicitari annessi riguardano snack e caramelle. Solo il 6% di questi bambini è consapevole che tali forme di divertimento sono anche pubblicità, e nel frattempo, il loro comportamento è influenzato a loro insaputa.

La presente scoperta è stata fatta dallo scienziato Frans Folkvord, il quale ha fortemente sostenuto che se fosse per lui giochi con questo doppio scopo sarebbero vietati.
Questi dati sono buone notizie per i rivenditori, ma cattive notizie per chiunque si preoccupi dell’aumento di comportamenti alimentari non sani nei bambini. Grazie ad un esperimento condotto da Folkvord su più di 1000 bambini, è stato infatti osservato che poco dopo aver giocato una partita di un gioco contenente la sponsorizzazione di un alimento, i bambini mangiavano il 55% in più delle caramelle che venivano loro offerte rispetto ai bambini che avevano giocato una partita ad un gioco in cui veniva sponsorizzato un giocattolo.
Folkvord sottolinea come:

[blockquote style=”1″]In contrasto con la televisione, dove le pubblicità sono chiaramente limitate negli spot, su internet la pubblicità è mescolata ad altri tipi di contenuti.[/blockquote]

I bambini non riconoscono i giochi come pubblicità, anche quando i nomi di marchi e loghi sono chiaramente visibili. Inoltre, non importa se i giochi contengano caramelle o frutta, i bambini mangiano comunque più caramelle dopo aver giocato ad un gioco contenente cibo. Infatti, nel corso dell’esperimento è stato osservato che durante la pausa di cinque minuti dopo aver giocato a giochi rappresentanti cibo, i bambini hanno mangiato 72 calorie tra M&M’s, caramelle e coca cola.

Anche se Folkvord non ha trovato alcun legame tra il mangiare caramelle e avere un Indice di Massa Corporea superiore di due anni rispetto all’età attuale nei bambini, ha scoperto però quanto sia fondamentale al riguardo la scelta della merenda. I risultati hanno infatti mostrato come i bambini che hanno scelto di soddisfare la loro fame con una mela, anziché con delle caramelle possedevano un Indice di Massa corporea inferiore.

Pertanto, Folkvord sostiene la necessità di una discussione relativa al divieto di spot alimentari destinati ai bambini. Attualmente collabora con l’Università di Barcellona con lo scopo di formulare una raccomandazione per l’Unione Europea e raggiungere il divieto di tutti i giochi che contengano pubblicità di cibo.

La motivazione al trattamento in psicoterapia

Precedenti ricerche hanno individuato la motivazione al trattamento come un fattore significativo nella valutazione della trattabilità; tuttavia, la motivazione non è un predittore statico, ma uno stato di prontezza o desiderio di cambiare, che può variare da un momento o situazione all’altra.

Vania Galletti, Silvia Pomi, OPEN SCHOOL STUDI COGNITIVI MODENA

[blockquote style=”1″]Sembra sempre impossibile fino a quando non viene fatto. [/blockquote] (Nelson Mandela)
Anche Spanò et al. (2012) riferiscono che il fattore predittivo più importante per un esito positivo della terapia è la motivazione al trattamento nei pazienti.

E vista la scarsità della letteratura in materia, nella loro ricerca hanno standardizzato un test in un day hospital psichiatrico a Roma che potesse indagare la motivazione al trattamento. I risultati mostrano come la motivazione sia il fattore predittivo positivo più importante nella valutazione preliminare di una psicoterapia breve: i risultati in terapia è più probabile che siano rapidi e favorevoli se i pazienti sono motivati al cambiamento e se appaiono impegnati insieme con il terapeuta.
Il cambiamento risulta infatti essere importante in ogni contesto e soprattutto di primaria importanza nell’ambito della cura alla persona. Ma come funziona tale percorso e da cosa dobbiamo partire per attuarlo?

 

La motivazione: definizione e caratteristiche psicologiche

Indispensabile è possedere un buon livello di motivazione, definita come uno stato interno che attiva, dirige e mantiene nel tempo il comportamento di un individuo (Motiva – Azioni). Da un punto di vista psicologico può essere vista come l’insieme dei fattori dinamici aventi una data origine che spingono il comportamento di un individuo verso una data meta; secondo questa concezione, ogni atto che viene compiuto senza motivazioni rischia di fallire.

È possibile fare una prima distinzione tra motivazioni biologiche, innate, che fanno riferimento a elementi fisiologici, ed elementi motivazionali di tipo psicologico-cognitivo, il cui dispiegamento è avvenuto durante l’esperienza. Il meccanismo motivazionale si esplica come continuo interagire di questi due elementi.

Motivazione intrinseca ed estrinseca

Un’altra distinzione fondamentale avviene attraverso i concetti di motivazione intrinseca ed estrinseca: per motivazione intrinseca si intende quella spinta a fare, generata da caratteristiche ed esperienze personali dell’individuo (es. quando un alunno si impegna in un’attività perché la trova stimolante e gratificante di per se stessa).

La motivazione estrinseca è quella che si determina in una certa situazione in base a spinte esterne (es. quando uno studente che si impegna in attività per scopi diversi dalla mansione stessa, esempio per prendere un buon voto in matematica così da avere il permesso di andare alla festa).

 

Il Modello Transteoretico di Cambiamento

Secondo il Modello Transteoretico di Cambiamento (TTM) di Carlo DiClemente e James Prochaska (1982), gli stadi del cambiamento, possono essere sintetizzati come segue:

– Precontemplazione: il soggetto, in questa fase, non ritiene di dover modificare il proprio comportamento in quanto non lo vede come un problema. Si lavora, quindi, per accrescere la consapevolezza del soggetto e le informazioni sul problema nonché aumentare le possibilità di cambiamento.

– Contemplazione: qui il soggetto è parzialmente consapevole del proprio problema; da un lato prende in considerazione il cambiamento, dall’altro lo rifiuta. La motivazione al cambiamento non coincide, infatti, con l’impegno in tal direzione. Si lavora, quindi, per valutare l’ambivalenza della situazione e considerare la progettualità esistente. Utile, a tal fine, la Bilancia decisionale, strumento atto a promuovere comparazione tra aspetti positivi e negativi di un particolare comportamento, favorire consapevolezza ed attivare il cambiamento.

– Determinazione: il soggetto giunge a tale stadio quando decide di porre fine al proprio comportamento problematico. Si interviene, allora, per trovare strategie comportamentali adeguate, percorribili, appropriate e rivalutare le intenzioni espresse.

– Azione: rappresenta l’insieme di attività messe in atto dall’utente al fine di modificare il proprio comportamento. Si tenta, quindi, di promuovere una nuova esperienza, mettere meglio a fuoco gli obiettivi e realizzare un programma che rispetti il più possibile gli intenti del singolo.

– Mantenimento e ricaduta: si stabilizza il nuovo comportamento e la minaccia di ricaduta diminuisce progressivamente. Si lavora per: accrescere capacità di problem-solving, lavorare sull’irrazionalità di pensieri svalutativi, imparare a vedere la ricaduta come ostacolo prevedibile e gestibile.

Data l’importanza che il fattore motivazione ha sull’esito della terapia risulta interessante interrogarsi su come questo aspetto emerga nelle diverse patologie.

La natura relazionale della motivazione al trattamento

Treasure e Ward (1997) ritengono che la motivazione al trattamento non dovrebbe essere considerata un attributo del paziente, ma il risultato di un processo interpersonale tra paziente e terapeuta.

[blockquote style=”1″]Affinché una psicoterapia abbia successo paziente e terapeuta debbono cooperare impegnandosi ciascuno in compiti specifici in funzione di scopi condivisi. La relazione terapeutica è il contesto che influisce, positivamente o negativamente, sulla motivazione di entrambi a dedicarsi a quest’impegno[/blockquote] (Dimaggio, Semerari, 2003).

 

Motivazione al trattamento nei disturbi di asse II

Per quanto concerne i disturbi di asse II, Scagliusi (2013) in una ricerca sui Disturbi Gravi di Personalità parla di scarsa motivazione al trattamento, il paziente infatti non si ingaggia in un percorso di cura, non esternalizza, nonostante le evidenze della realtà, comportamenti e/o atteggiamenti, tentando paradossalmente di mantenere il proprio equilibrio disfunzionale. Appare consigliabile per un terapeuta dotarsi di un approccio relazionale strutturato, strategico e tecnico, che tramite specifiche abilità sia teso a mantenere la relazione, il contatto con il paziente pur in presenza di elevate resistenze; a gestire i comportamenti e gli atteggiamenti di resistenza al cambiamento; a verificare e monitorare lo stato della motivazione al cambiamento del paziente; ad attivare la motivazione al cambiamento del paziente, promuovendone la responsabilizzazione e l’orientamento ai vari strumenti di cura (farmacoterapia, psicoterapie, qualsiasi altro intervento di cura e riabilitazione).

In uno studio di Bilici et al. (2014) sono stati osservati pazienti con disturbo di personalità associati all’abuso di sostanze (maggiormente eroina). Da questa ricerca emerge come la presenza di un disturbo di personalità con abuso di sostanze e punteggi di depressione elevati correlino con un livello più basso di motivazione al trattamento. Molto rilevante in questa tipologia di pazienti è stato tenere in considerazione se la richiesta d’aiuto fosse forzata o volontaria. Gli autori infatti evidenziano l’importanza di trovare dei modi per incoraggiare i pazienti a un ricovero volontario piuttosto che indirizzato dal volere di altri.

Altre ricerche di Van Beek et al. (2008) invece sostengono che in pazienti con disturbi di personalità la motivazione è un fattore che risulta preservato, e risulta strettamente correlato al livello di angoscia e sofferenza provato.
Questa tesi viene confermata anche in uno studio di Yan et al. (2011) dove emerge che pazienti con disturbo schizotipico di personalità hanno una motivazione al trattamento non distante da quella di pazienti senza disturbi di personalità con i quali erano confrontati.

 

Motivazione al trattamento nei disturbi di asse I

Per quanto concerne i disturbi di asse I alcune ricerche sulla motivazione al trattamento confermano l’importanza di questo fattore negli esiti del trattamento.
Per quanto riguarda i disturbi d’ansia e dell’umore il cambiamento è difficile e costellato da ambivalenze, che includono momenti di stallo e motivazioni opposte, e i soggetti ansiosi si sentono sovente combattuti: pur coscienti dei problemi creati dall’ansia e desiderosi di liberarsene, sono vittime delle abitudini, ben radicate e dure a morire, a dispetto dei problemi che creano (Westra et al. 2011).

 

Motivazione al trattamento nei disturbi alimentari

In uno studio di Hillen et al. (2015) con pazienti affetti da anoressia nervosa (AN), emerge che la motivazione al cambiamento è un importante predittore di esito per quanto riguarda l’aumento di peso e il miglioramento della psicopatologia dei disturbi alimentari. In particolare, i pazienti giovani sono caratterizzati da un basso livello di motivazione per il recupero e percepiscono più coercizione nell’ospedalizzazione. Per questo motivo, una migliore comprensione delle variabili che influenzano la disponibilità al cambiamento può contribuire a sostenere i pazienti nell’atto di modificazione del comportamento e nel rimanere motivati ​​per il trattamento.
Quello che emerge dallo studio è che pazienti con un BMI superiore al ricovero e quelli con sintomi specifici del disturbo alimentare più gravi sembrano essere meno motivati ​​a cambiare, la questione cruciale della motivazione a cambiare dovrebbe essere affrontato con questi pazienti durante il processo terapeutico.

In uno studio di Schmidt et al. (2000) si è approfondito un aspetto della motivazione al trattamento in pazienti con attacco di panico, precisamente la compliance agli homework previsti dalla terapia cognitivo- comportamentale. Quello che è emerso è che la buona motivazione e l’alta qualità (a discapito della quantità) degli esercizi svolti a casa sono dei predittori di un buon esito della terapia.
In uno studio condotto da Nickel et al. (2005) su donne con Disturbo d’ansia generalizzato è stato riscontrato che lavorare sulla motivazione prima del trattamento o di un eventuale ricovero sia importante per migliorare gli esiti della terapia.

[blockquote style=”1″]Cercare di cambiare le abitudini delle persone e il loro modo di pensare è come scrivere nella neve durante una tormenta. Ogni 20 minuti dovete ricominciare tutto da capo. Solo con una ripetizione costante riuscirete a creare il cambiamento.[/blockquote]
(Donald L. Dewar)

I fattori stressanti di un ambiente di lavoro malato; la demotivazione dei dipendenti

 

Oggi le aziende tendono a richiedere sempre maggiori aumenti di produttività; le persone, d’altra parte, tendono ad identificarsi sempre più con la propria attività lavorativa ed il problema della fatica e del rischio di bruciare se stessi nel posto di lavoro diventa particolarmente importante.

Sopraffatti, esauriti, disorientati, scoraggiati, conflittuali, inutili, isolati: così Keith Yamashita e Sandra Spataro (2004) descrivono le persone demotivate sul posto di lavoro. Etimologicamente il termine “motivazione”, che deriva dal latino “movere”, indica un movimento, ovvero una spinta verso uno scopo. La motivazione è collegata alle nostre emozioni; non a caso, infatti, “motivazione” ed “emozione” (dal latino “emovere”, cioè portare fuori, mettere in movimento verso l’esterno) hanno una comune radice etimologica.

In un contesto organizzativo la motivazione rappresenta quell’insieme di processi psicologici che provocano la nascita, la direzione e la persistenza di azioni volontarie dirette verso un obiettivo.
Motivare, prevenire il senso di frustrazione e favorire la promozione del benessere organizzativo sono compiti fondamentali di chi si occupa di gestione delle Risorse Umane.
Molte patologie psichiche (stress, panico, ansia…) hanno origine in un contesto lavorativo “malato”, generano malessere negli individui, interferendo negativamente con le loro possibilità di creare relazioni interpersonali sane.

Secondo una definizione del National Institute for Occupational Safety and Health lo stress dovuto al lavoro può essere definito come un insieme di reazioni fisiche ed emotive dannose che si manifesta quando le richieste poste dal lavoro non sono commisurate alle capacità, risorse o esigenze del lavoratore.
Quando il luogo di lavoro si trasforma in un ambiente soffocante si rischiano malesseri fisici e psicologici; le sindromi ansiogene da stress lavorativo non vanno mai sottovalutate.

Una delle fonti più insidiose di stress è il mobbing. Nella lingua inglese il verbo “to mob” significa aggredire, assalire tumultuosamente; il termine, mutuato dalla scienza etologica, descrive il comportamento di un branco che assale un singolo. In ambito aziendale, il mobbing può essere definito come quell’insieme di comportamenti graduali e sistematici che mirano all’emarginazione ed all’annichilimento di un lavoratore.
L’esposizione al mobbing è stata classificata come una sorgente di stress sociale sul lavoro e come il problema più paralizzante e devastante per i lavoratori rispetto a tutti gli altri stressor correlati al lavoro messi assieme.

Il mobbing è una pratica subdola e criminale che può portare ad alterazioni dell’equilibrio emotivo, psicofisico e a disturbi comportamentali della vittima; chi subisce il mobbing perde gradualmente il rispetto degli altri, la fiducia in se stesso, la motivazione e l’entusiasmo nel lavoro. In altre parole, si ammala, ma accanto a lui c’è un altro malato, il suo sadico vessatore. Gli effetti del mobbing possono essere devastanti, si ripercuotono sul clima aziendale, sulla motivazione e sulla creatività delle Risorse Umane, provocando spesso un aumento del livello di assenteismo e di turnover e, contemporaneamente, un aumento di costi per malattie del Personale e per cause legali.

Un’altra forma di stress derivante da un ambiente di lavoro “malato” è quella che può essere riscontrata nella cosiddetta “sindrome del burn-out”, una vera e propria forma di esaurimento derivante dalla natura di alcune mansioni professionali. Il termine “burn-out” deriva dall’inglese e letteralmente significa essere bruciati, esauriti, scoppiati. Il termine è stato preso in prestito dal mondo dello sport, dove viene usato per indicare la condizione di un atleta che, dopo vari successi e nonostante la perfetta forma fisica, non riesce più a conseguire buoni risultati.
Herbert Freudenberger – in “Staff Burnout” (1974) – è stato il primo studioso ad utilizzare “burn-out” per indicare un complesso di sintomi, quali logoramento, esaurimento e depressione riscontrati in operatori sociali americani.
Cary Cherniss – in “La sindrome del burn-out” (1983) – definisce tale sindrome come la risposta individuale ad una situazione lavorativa percepita come stressante e nella quale l’individuo non dispone di risorse e di strategie comportamentali o cognitive adeguate a fronteggiarla.
La sindrome del burn-out è una malattia professionale e chi ne soffre può essere definito un “bruciato” dal troppo lavoro.

Il soggetto colpito da burn-out manifesta alcuni sintomi, quali nervosismo, insonnia, depressione, senso di fallimento, bassa stima di sé, indifferenza, isolamento, rabbia e risentimento.
Oggi le aziende tendono a richiedere sempre maggiori aumenti di produttività; le persone, d’altra parte, tendono ad identificarsi sempre più con la propria attività lavorativa ed il problema della fatica e del rischio di bruciare se stessi nel posto di lavoro diventa particolarmente importante.
Per aumentare la produttività le aziende dovrebbero prima di tutto custodire la salute fisica e mentale dei propri dipendenti, creare un ambiente di lavoro sano, creare benessere organizzativo, promuovendo la motivazione, la collaborazione, il coinvolgimento e la corretta circolazione delle informazioni.

Memoria transattiva: l’uso di internet ci rende insicuri di ciò che sappiamo?

Le persone fanno meno affidamento sulla loro conoscenza quando hanno accesso a Internet, il che suggerisce che la nostra connessione al web stia influenzando il modo in cui pensiamo.

Il professor Risko, della University of Waterloo, ha condotto uno studio su un campione di 100 soggetti che hanno risposto a una serie di domande di cultura generale (del tipo qual’è la capitale della Francia?), indicando se ne conoscevano la risposta. Per metà dello studio, i partecipanti hanno avuto accesso a Internet e hanno dovuto cercare la risposta quando hanno risposto che non la conoscevano. Nell’altra metà dello studio, invece, non hanno avuto accesso a Internet.

Il team ha scoperto che chi ha avuto accesso al web ha avuto circa il 5% in più di probabilità di dire che non sapeva la risposta alla domanda. Inoltre, in alcuni contesti, le persone con accesso a Internet hanno segnalato la “sensazione di sapere di meno” rispetto a chi invece non ha avuto accesso alla rete.

Internet è un esempio di memoria transattiva: una sorta deposito esterno al nostro cervello che memorizza le informazioni al posto nostro e al quale ci riferiamo quando abbiamo bisogno di recuperarle.

[blockquote style=”1″]Con l’ubiquità di Internet, siamo quasi sempre collegati a grandi quantità di informazioni. E quando i dati sono a portata di mano, le persone fanno meno affidamento sulle proprie conoscenze[/blockquote] ha detto il professor Risko, Canada Research Chair in Embodied and Embedded Cognition.

Nell’interpretazione dei risultati, i ricercatori hanno ipotizzato che l’accesso a Internet possa rendere meno accettabile dire di sapere qualcosa. E’ anche possibile, però, che i partecipanti siano stati più propensi a dire che non sapevano una risposta quando avevano accesso al web perchè la ricerca offre l’opportunità di confermare la risposta o risolvere una curiosità, e il processo della scoperta è gratificante.
[blockquote style=”1″]Questi risultati dimostrano che l’accesso a Internet può influenzare i processi metacognitivi e le decisioni che prendiamo su ciò che sappiamo e non sappiamo[/blockquote] ha detto Risko. [blockquote style=”1″]Speriamo che questa ricerca contribuisca alla nostra crescente comprensione di come un facile accesso a enormi quantità di informazioni influenzi il nostro pensiero, il nostro comportamento e il funzionamento del sistema di memoria transattiva formata da persone e da Internet.[/blockquote]

La natura della malattia. Genesi dei motivi del Werther di Mauro Ponzi (2015) Recensione

Una profonda rilettura in chiave anche psicologica del capolavoro giovanile di Goethe. Utile anche a comprendere come la mancata conoscenza del contesto può indurre errori di interpretazione.

I dolori del giovane Werther di Goethe costituiscono uno dei capolavori della letteratura occidentale e senz’altro il vertice assoluto del genere “romanzo epistolare”. Partendo da un fatto di cronaca dell’epoca realmente accaduto, Goethe ricostruisce attraverso le lettere disperate scritte dal giovane innamorato Werther, la storia di un amore impossibile verso una donna sposata, che culmina col suicidio dell’innamorato. Quando il romanzo uscì, nel 1774, determinò

[blockquote style=”1″]un’ebbrezza, una febbre, un’estasi diffusa su tutta la terra abitata: ebbe l’effetto di una scintilla che cada su un barile di polvere e liberi, allargandosi all’improvviso, una terribile massa di forze[/blockquote] (Mann, 1945, pp. 312-3).

Il personaggio di Werther divenne immediatamente un modello per i giovani europei colti, che assumevano il suo atteggiamento malinconico e si struggevano alla ricerca di amori sublimati simili al suo. Si registrò perfino un aumento significativo nel numero dei suicidi.

Goethe, per quanto ovviamente felice per il suo primo travolgente successo internazionale, accolse il wertherismo con profonda perplessità. Il romanzo nasceva, nelle sue intenzioni, piuttosto come un avvertimento, come un testo pedagogico contro il rischio corso da lui stesso dell’autocompiacimento nella disperazione. Evidentemente, però, il Werther coglieva lo spirito del tempo in un modo di cui neanche lo stesso Goethe poteva avere piena coscienza. Come le radici della scrittura goethiana, del resto, traggono linfa da ambiti molto diversi e apparentemente distanti, dalla classicità alla cultura preromantica (e, in quest’ambito, dal pietismo allo Sturm und Drang), anche le sue influenze si irraggiano in direzioni imprevedibili.

[blockquote style=”1″]Nel giovane Goethe si possono facilmente individuare l’inizio del moderno in termini letterari e anche – se non soprattutto – l’origine della sua componente nichilista e distruttiva [/blockquote](Ponzi, 2015, p. 25).

Né si può dimenticare la profonda influenza che Goethe avrebbe esercitato sulla psicologia dinamica novecentesca. Freud cita il Faust di continuo nelle sue opere (e, curiosa nemesi, vinse il premio Goethe come scrittore). Jung pare si compiacesse addirittura della leggenda che Goethe fosse suo nonno (per quanto egli dica il contrario in Ricordi, sogni, riflessioni).

 

Il romanzo nasceva, nelle sue intenzioni, piuttosto come un avvertimento, come un testo pedagogico contro il rischio corso da lui stesso dell’autocompiacimento nella disperazione

La critica goethiana, per cercare di abbracciare il senso della poetica dell’autore tedesco per eccellenza, è stata costretta spesso a coniare iperboli e metafore di inusitato respiro. Per cogliere l’apertura di significato dei suoi scritti (che sconfina talora con l’ambivalenza), è stata spinta a coniare arditi ossimori: l’espressione offenbare Geheimnisse (segreti manifesti), entrata in circolo negli anni settanta del Novecento, mantiene ancora una sua validità nella sua capacità di descrivere la tendenza di Goethe a velare e a rivelare il proprio intento artistico e il proprio vissuto personale nello stesso tempo (Ponzi, 2015, p. 26).

Jaspers scrisse di Nietzsche che ogni sua idea sembra essere contraddetta da un’altra: di conseguenza non si può essere soddisfatti nell’aver trovato un’affermazione se non si è rinvenuta anche la sua contraddizione (Jaspers, 1936, pp. 29-30). Se questo non può essere ripetuto per Goethe, è vero però che ogni volta che sembra di aver identificato la radice di un suo motivo ispiratore, non si può mai escludere che tale motivo non ne celi un altro, o con esso non conviva, data la straordinaria capacità del poeta di fondere, risemantizzare, ricombinare temi e immagini. Ciò che Ponzi definisce interstestualità è [blockquote style=”1″]il principio portante dell’operazione poetica goethiana[/blockquote] (Ponzi, 2015, p. 236).

Del resto il tema più sconvolgente e provocatorio, per l’epoca in cui escono I dolori del giovane Werther, è [blockquote style=”1″]l’esaltazione della coincidenza dell’amore con un’immagine patologica del dolore[/blockquote] (Ponzi, 2015, p. 47).

Anche la nascita del Werther, in un certo modo, riflette questa polivocità di fondo. L’opera deriva da una parte la sua ispirazione occasionale, come si è detto, da un fatto di cronaca e viene stesa praticamente di getto, secondo la testimonianza di Goethe in Poesia e verità. Dall’altra il Werther vive un lungo periodo di gestazione e ispirazione; ma soprattutto le sofferenze del protagonista riflettono quelle dell’autore.

Mauro Ponzi segue gli anni che vedono Goethe uscire dall’ambiente allora periferico di Francoforte per trasferirsi a Lipsia, nel 1765 (e in seguito a Strasburgo, nel 1770). Il rampollo di una famiglia bene in vista nella città d’origine diviene un provincialotto grezzo, malvestito e maldestro nel suo nuovo ambiente. Soprattutto [blockquote style=”1″]l’eccessiva disinvoltura che, almeno a parole, regnava negli ambienti universitari e culturali di Lipsia a proposito del comportamento sessuale, ebbe l’effetto di sconcertare il giovane studente, che si sentiva estremamente insicuro[/blockquote] (Ponzi, 2015, p. 54).

Goethe reagì mostrando i tratti del disturbo narcisistico di personalità; esibendo, soprattutto nelle lettere alla sorella di questo periodo, un atteggiamento arrogante a compensazione di una possibile ansia di impotenza psicosessuale. Secondo lo psicoanalista Kurt Eissler, Goethe giunse fino alle soglie di un episodio psicotico, in questi anni. Quasi di certo era di natura psicosomatica la malattia che lo ricondusse provvisoriamente al Nest (“nido”, ma anche “spelonca”) di Francoforte. La sfiducia nella classe medica, incapace di comprendere il suo male, è del resto riflessa nell’atroce ironia del finale del Werther, allorché i dottori, al cospetto del protagonista morente, [blockquote style=”1″]a ogni buon conto gli fecero un salasso al braccio [/blockquote](Goethe, 1774, p. 283).

Anche gli innamoramenti del giovane Goethe mostrano un evidente carattere narcisistico. In una lettera lo scrittore fornisce un lungo elenco di amiche, delle quali sostiene di essere ugualmente innamorato; così come altrove scrive di non cercare di sedurre una certa ragazza per non comprometterla, quando è evidente che lei accetta la sua corte solo per acquisire un cavalier servente. Né del resto l’ambiente familiare era per Goethe scevro di rapporti problematici. Completamente rifiutante risulta il rapporto col padre (Goethe, fra l’altro, trova interesse a Lipsia per qualunque materia salvo la giurisprudenza che è stato mandato a studiare); del tutto insoddisfacente è il vissuto con la madre (una poesia a lei dedicata usa più di tutte le altre la parola “sebbene”); ricca di fantasie incestuose è invece la relazione con la sorella, come lo stesso Goethe apertamente confessa in Poesia e verità. Ma come le fonti letterarie diverse trovano in Goethe una sintesi piena ed equilibrata, così tutte le figure femminili che popolano la giovinezza di Goethe contribuiscono, in qualche misura, alla genesi del personaggio archetipico di Lotte, di cui restano, filtrati attraverso l’ispirazione del genio, uno spessore e una profondità che raramente la letteratura ha raggiunto.

Tecniche di consapevolezza con pazienti psichiatrici: effetto di una attività Mindfulness-Based al Servizio Psichiatrico di Diagnosi e Cura di Legnago

Questo articolo ha partecipato al Premio State of Mind 2014 – Sezione Junior

Tecniche di consapevolezza con pazienti psichiatrici: effetto di una attività Mindfulness-Based al Servizio Psichiatrico di Diagnosi e Cura di Legnago

Dott.ssa Martina Bocchi*, Dott.ssa Ileana Boggian**; Dott. Tommaso Maniscalco***
*Psicologa; **Psicoterapeuta, Centro di Salute Mentale – DSM AULSS 21; ***Direttore Dipartimento Salute Mentale – AULSS 21, Primario Servizio Psichiatrico di Diagnosi e Cura – DSM AULSS 21.

ABSTRACT

L’articolo presenta la ricerca atta a documentare l’effetto di una attività di gruppo sperimentale. L’attività di gruppo è stata ideata sulla base dei principi della mindfulness, integrati con una tecnica di rilassamento guidato, ed è stata attuata settimanalmente da Aprile ad Agosto 2013 al Servizio Psichiatrico di Diagnosi e Cura dell’Ospedale “Mater Salutis” di Legnago. L’effetto riscontrato è stato verificato osservando il comportamento dei pazienti ricoverati e intervistando il personale infermieristico rispetto alla percezione del clima di reparto (campione di 33 pazienti ricoverati e di 11 infermieri). Dai risultati della ricerca emerge: (i) il significativo aumento della frequenza di socializzazione tra i pazienti partecipanti, al termine della stessa; (ii) il significativo miglioramento della percezione relativa al clima del reparto. Tale studio sostiene ed è finalizzato a sollecitare la realizzazione di gruppi terapeutici e riabilitativi nella primissima fase post-acuta, durante la degenza del paziente. Vorrebbe inoltre promuovere la realizzazione di altre ricerche che dimostrino i benefici dati dall’intervento psicologico e psicoterapeutico nell’acuzie, durante il ricovero del paziente psichiatrico.

ABSTRACT

The article presents the research made to document effect of an experimental group’s activity. The group’s activity is based on principles and techniques of mindfulness practice, integrated with a guided relaxation technique. The activity was done weekly from April to August 2013 at “Psychiatric Service for Diagnosis and Treatment”, at the Hospital “Mater Salutis” to Legnago. This effect has been verified by the behavior’s observation of hospitalized patients and interviewing nursing staff about the departement climate’s perception (sample: 33 hospitalized patients, 11 nurses). Results can be summarized as follows: (i) the significant increasing the frequency of socialization between patients participating, at the end of group activity; (ii) the significant improvement of the department atmosphere’s perception. This study supports the creation of groups during hospitalization of the patient, for treatment and rehabilitation. It would like to promote the realization of other research showing the benefits of psychological and psychotherapeutic intervention during the hospitalization of psychiatric patients.

Parole chiave: mindfulness; psicologia di gruppo; riabilitazione; socializzazione; psichiatria.

ALLEGATO 1

ALLEGATO 2

ALLEGATO 3

La depressione tra i giovani medici in formazione

Più di un medico su quattro nelle prime fasi della carriera presenta segni di depressione. Questa è una cattiva notizia non solo per i giovani medici, ma anche per i loro pazienti. Un medico depresso, infatti, ha più probabilità di commettere errori o di prestare una cattiva assistenza.

Questi dati provengono da una meta-analisi di 50 anni di studi sui sintomi della depressione in più di 17.500 medici. Raccogliendo e combinando i dati di 54 studi realizzati in tutto il mondo, i ricercatori hanno concluso che il 28,8% dei medici in formazione presenta segni di depressione.
Si è osservato inoltre un piccolo, ma significativo, aumento del tasso di depressione nei cinque decenni oggetto dello studio.

[blockquote style=”1″]L’aumento della depressione è sorprendente e importante, soprattutto alla luce delle riforme che sono state attuate nel corso degli anni con l’intento di migliorare la salute mentale dei medici di base e la salute dei pazienti[/blockquote] spiega Srijan Sen, MD, Ph.D., autore dello studio e membro dell’U-M’s Depression Center, Institute for Healthcare Policy and Innovation, and Molecular and Behavioral Neuroscience Institute.

Srijan Sen e Douglas Mata, MD, MPH, della Harvard University si sono concentrati sui primi anni della formazione medica, anni segnati da lunghe ore di lavoro, alta intensità di apprendimento sul campo, basso rango all’interno di un team medico e un alto livello di responsabilità nella cura del paziente.
Anche se negli ultimi anni molte scuole di medicina e ospedali hanno iniziato ad occuparsi della salute mentale di studenti e tirocinanti in modo più completo, molto di più deve essere fatto, sostengono gli autori della review.

[blockquote style=”1″]I nostri risultati forniscono una misura più accurata della prevalenza di depressione in questo gruppo, e speriamo che l’attenzione si concentrerà sui fattori che possono influire negativamente sulla salute mentale dei giovani medici, con l’obiettivo di individuare strategie per prevenire e curare la depressione tra gli specializzandi[/blockquote] dice Mata.

DBT e Adolescenti: report dal seminario di Charles Swenson

Report dal seminario DBT E ADOLESCENTI del 4 dicembre 2015, Roma.

Di Martina Giuliano

La terapia dialettico-comportamentale è creatività, movimento e danza continua tra terapeuta e paziente.

(Charles R. Swenson)

 

Quando mi trovo in un ritiro, ogni pomeriggio cammino, unisco le mani e le torco, dicendo a tutti i pazienti psichiatrici del mondo, “Non devi torcerti le mani oggi, lo sto facendo io per te”. Spesso quando ballo nel corridoio della mia casa o con i gruppi, invito tutti i pazienti psichiatrici del mondo a ballare con me.

(Marsha M. Linehan)

 

Charles R. Swenson è professore associato presso la facoltà di Medicina dell’Università del Massachusetts, psichiatra, psicoterapeuta e trainer di Terapia Dialettico Comportamentale (DBT); si è formato con Marsha M. Linhean.

In questo workshop molto coinvolgente racconta ai partecipanti che cos’è la DBT e come è possibile applicarla anche agli adolescenti e ai rispettivi nuclei familiari. Il Professor Swenson utilizza un’affascinante metafora per descrivere la poliedricità della DBT; paragona quest’ultima ad un isola collegata alla terraferma da quattro ponti: il primo rappresenta la biologia delle emozioni, ovvero i pattern neurofisiologici della regolazione emotiva, il secondo ponte è costituito dalla Terapia Cognitivo-Comportamentale, il terzo permette di allenare la parte spirituale e meditativa, utilizzando la mindfulness per radicarsi nel “qui ed ora”, il quarto include la comprensione delle esperienze traumatiche. Con questa metafora il professor Swenson spiega la teoria biosociale alla base della DBT e del Disturbo Borderline di Personalità; si tratta di una teoria bi-fattoriale, costituita da una dimensione biologica e una sociale.

Secondo questa teoria a livello biologico il bambino, poi adolescente e adulto, mostrerebbe una maggiore reattività, sensibilità emotiva e impulsività: ad esempio può risultare più arrabbiato, più timido, più vergognoso, più fragile e vulnerabile dei suoi coetanei. Vi è un lento ritorno alla baseline dopo una situazione di disagio e durante questo tempo può verificarsi un altro evento stressante per cui la persona non riesce a tornare ad un livello “di attivazione” di base; questo determina una maggiore impulsività per fronteggiare l’emotività negativa e comportamenti problematici. Nel caso del Disturbo Borderline di Personalità (DBP) negli adolescenti, così come negli adulti, una delle “valvole di sfogo” disfunzionali più comuni è rappresentata dall’autolesionismo.

Per quanto riguarda la dimensione sociale, l’ambiente in cui vive è pervasivamente invalidante; con questo termine si intendono una vasta gamma di situazioni di grave disagio a cui il bambino è sottoposto sistematicamente quali deprivazione durante l’infanzia, traumi, oppure il bambino/adolescente sente che nessuno lo capisce, né percepisce il suo malessere in quanto le persone significative non prestano attenzione, sono punitive, non apprezzano nulla di lui o lo ignorano. L’adolescente tende così a mettere in atto comportamenti estremi nel disperato tentativo di mostrare i suoi bisogni. Purtroppo questi comportamenti sono solitamente disfunzionali e la risposta dell’ambiente circostante tende ad un’invalidazione ancora maggiore, facendo sprofondare così l’adolescente in una spirale distruttiva.

La DBT si è dimostrata scientificamente efficace per il DBP e, negli ultimi 20 anni la sua efficacia si è estesa anche ai disturbi alimentari, abuso di sostanze, comportamenti autolesivi, disturbi della condotta e antisociale, disturbo post-traumatico da stress complesso (Swenson, Torrey, Koerner, 2002).

La terapia DBT attualmente viene svolta in diversi contesti, quali ospedale psichiatrico giudiziario, ricoveri presso ospedali/cliniche, day hospital, gruppi di terapia.

Perchè la DBT funziona con questi disturbi? Il punto in comune è che tutti questi disturbi derivano dalla disregolazione emotiva e dalla difficoltà di fronteggiare situazioni stressanti. Davanti a queste, la persona impara che le strategie di coping immediate e maladattive sono l’unica soluzione, in quanto forniscono un sollievo a breve termine. Ad un livello più profondo, dunque, piuttosto che parlare della DBT come trattamento di singoli disturbi, si potrebbe meglio dire che la DBT si focalizza sul trattamento della disregolazione emotiva.

In che modo? Nel programma DBT (Barone, Maffei, 2015) sono presenti varie funzioni:

1)        insegnare le competenze per gestire l’emotività negativa e rafforzare le capacità e il senso di autoefficacia (skills training – modulo svolto nel contesto di terapia di gruppo);

2)        generalizzare le competenze acquisite nel gruppo all’ambiente che circonda la persona fuori (vi è un coach e un numero di telefono che viene fornito che il paziente può utilizzare nei momenti di difficoltà estrema);

3)        aumentare la motivazione del paziente, a costruire obiettivi condivisi e diminuire la frequenza dei comportamenti problematici fornendo alternative (psicoterapia individuale).

Il terapeuta DBT oscilla continuamente, in una sorta di “danza” con il paziente, tra accettazione e validazione della sofferenza di quest’ultimo e spinta al cambiamento. Da qui deriva il termine “dialettica”. Il terapeuta si pone come attivo, supportante e direttivo. Per validazione, si intende l’ascolto non giudicante, il rispecchiamento, l’attenzione anche al comportamento non verbale e nel cercare di dare un senso al comportamento portato dal paziente in linea con i suoi vissuti, inserendolo in una narrazione congruente.

In una modalità più globale di interazione il terapeuta DBT si pone come radicalmente genuino, onesto, e, quando le ritiene strategie utile, può utilizzare auto-aperture e metafore (Linehan, 2015). Il paziente avverte questa vicinanza ed autenticità e questo è già di per sé terapeutico.

Per promuovere il cambiamento il terapeuta individuale si avvale di strategie di problem-solving, ristrutturazioni cognitive e strategie dialettiche oltre che rinforzare le abilità che il paziente apprende nella terapia di gruppo (skills training).

Specialmente con gli adolescenti un’altra funzione importante della DBT è strutturare l’ambiente: una volta che il ragazzo/a torna a casa, l’ambiente domestico rema completamente contro ed è quindi fondamentale insegnare alla famiglia come strutturare il contesto.

La DBT con gli adolescenti (Rathus, Miller, 2014) parte dal presupposto che per promuovere il cambiamento nell’adolescente sia necessario cambiare anche l’interazione adolescente-famiglia. Uno degli obiettivi è quello di costruire un ambiente più validante per entrambi. Le skills vengono così proposte sia agli adolescenti sia ai genitori; se usate in famiglia, possono rafforzarsi e radicarsi ulteriormente nell’adolescente.

L’adolescenza rappresenta quella fase della crescita in cui si è più reattivi, emotivi, sensibili e vulnerabili. Se l’adolescente è inserito in un ambiente sistematicamente invalidante, il rischio di disregolazione emotiva è estremamente elevato.

Esistono diversi tipi di “escape behaviors” (vie di fuga) tra gli adolescenti che manifestano disregolazione: tra i più frequenti si riscontrano ideazione suicidaria, autolesionismo, saltare la scuola, crisi di rabbia, uso di sostanze, mangiare compulsivamente, vomito auto-indotto; questi comportamenti creano distrazione/sollievo momentaneo e fungono da rinforzo negativo. Tuttavia, a questi seguono emozioni negative come vergogna, senso di colpa, delusione che risultano nuovamente difficili da gestire, provocando distress e senso di hoplessness; per evitare lo sconforto emozionale, dunque, gli escape behaviors sono rimessi in atto in un circolo vizioso disfunzionale che continua a ripetersi.

L’autolesionismo rappresenta la strategia di coping adolescenziale del XXI secolo? C. Swenson riporta le statistiche del 2015 negli U.S.A., le quali registrano una frequenza di gesti autolesivi compresa tra il 21% e il 61%, con esordio tra i 12 e 14 anni. Il professore fornisce esempi concreti e situazioni in cui si arriva al gesto autolesionista. “La reattività emotiva e le sensazioni negative connesse tendono ad aumentare drasticamente se gli adolescenti a scuola si sentono irrequieti, soli, rifiutati dagli amici, non brillanti, gelosi, non concentrati su quello che gli insegnanti spiegano.. allora cosa fanno? Ricorrono alla strategia più immediata: vanno in bagno, tirano fuori un rasoio, si tagliano e poi sentono un sollievo momentaneo. Tornano in classe, si sentono meglio, possono agire come “persone normali”, interagire, concentrarsi, è quasi un miracolo per il ragazzo/ragazza in questione”.

Il problema è che si tratta di un circolo vizioso che va spezzato e di una strategia del tutto disfunzionale (Miller, Rathus, Linehan, 2007). “Gli adolescenti che si tagliano molto spesso – aggiunge Swenson – spesso arrivano a considerare questo gesto come una vera e propria addiction, qualcosa da cui non possono fare a meno ed il rischio è quello di non valutare le conseguenze a lungo termine; alcuni così facendo finiscono con l’uccidersi”.

 

DBT e adolescenti: il programma di Charles Swenson

Cosa può fare allora il terapeuta DBT con gli adolescenti?

Swenson sottolinea come con gli adolescenti ancora di più sia importante togliere qualsiasi tipo di giudizio, fino al punto (paradossale) di riuscire a dire loro: “Perchè non mi sono mai tagliato? Wow, sembra che funzioni.. ora capisco davvero, vedo il positivo, ma c’è del negativo?

Solo allora l’adolescente risponde: “Cinque minuti dopo mi sento male, poi devo nascondere le ferite, mi credono uno svitato, ma non capiscono, non mi sto cercando di uccidere..”

A quel punto il terapeuta inizia le strategie dialettiche: “Se avesse a disposizione nuove modalità di gestione delle emozioni, smetterebbe di tagliarsi?”

Il problema con gli adolescenti è la difficoltà a pensare a una modalità che potrebbe essere utile a lungo termine. Nel validare la sofferenza del paziente è sempre importante chiedere qual è la funzione del comportamento, perché lo fa. E’ fondamentale coglierne il senso ai fini di un trattamento efficace che utilizzi le differenti strategie, costruite su misura del ragazzo/a, “adattabili come un vestito”.

Il programma DBT per adolescenti e familiari (Rathus J.H, Miller A.L., 2014) ha la durata di 24 settimane e comprende:

 

FASE DI ORIENTAMENTO

1)        Emotional Regulation training: sono comprese strategie di mindfulness per radicarsi, modulare la reattività, calmarsi. Si tratta di strategie diverse dalla “distrazione” che riguardano piuttosto una modalità differente di esperire le emozioni negative e relazionarsi ad esse.

2)        Interpersonal effectiveness: essendo presente disagio nelle relazioni interpersonali, si sviluppano competenze e abilità sociali, tra cui essere assertivi, trovare maggior equilibrio e saggezza (distress tolerance).

3)        Walk in the middle of the path: validare familiari e adolescenti, insegnare principi di apprendimento per cambiare i comportamenti altrui (rinforzarsi reciprocamente), pensare e agire in modo dialettico; quando ci si trova in una situazione di opposizione (ad es. un familiare pensa in un modo, l’altro nel modo contrario) pensare e agire in modo dialettico, senza che “nessuno debba cedere il passo all’altro”, ovvero invece di determinare chi ha ragione e chi ha torto trovare elementi validi in entrambe le posizioni e muoversi lentamente verso una nuova posizione che contenga gli elementi validi delle due precedenti.

 

FASE I

  • Gruppo pluri-familiare (massimo 4-5 famiglie) con adolescenti e genitori

(gruppo skills training) condotto da terapeuta e co-terapeuta

  • Sedute terapeutiche individuali per gli adolescenti
  • Sia gli adolescenti sia i familiari possono contattare telefonicamente il terapeuta per consultazione
  • Sedute individuali di terapia familiare (non sempre)
  • Riunione team psicoterapeuti per supervisione

 

FASE II (16 settimane)

  • Ripassare competenze acquisite, provare a inserirle nella vita di tutti i giorni, concentrarsi sulla qualità di vita e obiettivi per una vita degna di essere vissuta.

 

Sono previsti “homeworks” sia per adolescenti sia per genitori. Nella fase I gli adolescenti attraverso role-playing possono esercitarsi nell’interazione con i membri di un’altra famiglia, così da sperimentare diversi tipi di interazione.

 

Swenson conclude riferendo che i pazienti che hanno seguito questo programma hanno mostrato esiti significativi: riduzione degli episodi autolesivi, dell’ideazione suicidaria, dei sintomi depressivi, dell’ “hoplessness feeling” e della sintomatologia del DBP; anche i familiari ne hanno tratto beneficio in termini di qualità della vita e di modalità più adattive per fronteggiare situazioni problematiche.

Le prime paure dei bambini: quali sono le più diffuse e come elaborarle

Le paure dei bambini sono potenzialmente infinite e dipendono in larga misura dalla storia individuale: esistono tuttavia una serie di paure che possono essere considerate tipiche dell’età evolutiva: quella della separazione, del buio, della morte, dell’abbandono, dei serpenti, dei fantasmi, dei mostri, del dottore, ecc.

Daniela Grimaudo – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi Modena

Le paure dei bambini: la funzione autoprotettiva della paura

La paura è un’emozione primaria, ha una funzione autoprotettiva utile alla crescita del bambino in quanto riesce ad attivare alcune reazioni che servono a difenderlo dai potenziali pericoli provenienti dall’ambiente esterno. La paura è importante perché ci aiuta a rispondere nelle varie circostanze e ad agire rapidamente in situazioni di pericolo, questa emozione ci esorta a stare all’erta e a far tesoro delle precedenti esperienze mobilitando le forze che ci spingono alla difesa o alla fuga, quindi, in quanto reazione difensiva salvaguarda la vita e contribuisce allo sviluppo umano e alla crescita personale. Esiste un’idea generale piuttosto diffusa riguardo la paura che la vede come un qualcosa da evitare o scansare. In realtà affrontare ed abbracciare le nostre paure, è l’ unico modo per controllarle.

Uno stato di paura è sempre associato a reazioni fisiche prodotto dal sistema neuro-vegetativo: le mani sudano, aumenta il battito cardiaco e il respiro, la circolazione sanguigna si modifica causando rossore o pallore, i muscoli si contraggono. Queste sono legate ad un senso di inquietudine interiore. Possono essere scatenate da stimoli esterni (temporale, fuoco, animali, da una minaccia concreta da stimoli interni come pensieri o immagini (Preuschoff,1995).

Secondo Lazarus (1984), la valutazione cognitiva precede invariabilmente ogni reazione affettiva: la valutazione cognitiva (del significato o senso) è una caratteristica integrante e sottende gli stimoli emotivi. Lazarus precisa che la risposta motorio-comportamentale e l’esperienza emozionale sono sempre successive alla valutazione dell’evento. Le emozioni nascono dalle credenze non dalla realtà, per fortuna le credenze dei più piccoli e, dunque le stesse paure dei bambini, possono essere più aperte agli aggiornamenti rispetto a quelle degli adulti (L.J.Cohen, 2015).

Da dove nascono le paure dei bambini?

Talvolta le paure hanno origine nell’infanzia ma possono cambiare, trasformarsi oppure essere superate. Attenzione però alla differenza tra paura e ansia. L’ansia è sostanzialmente una forma di paura, è una sensazione di allarme, sembra quasi il protrarsi di un disagio emotivo che ci mantiene in all’erta contro i presunti pericoli del mondo; l’ansia è caratterizzata dalla previsione di una minaccia, come se l’oggetto della paura fosse l’anticipazione del pericolo. Mentre si prova paura davanti a uno stimolo reale o una minaccia esterna ben identificabile, l’ansia è una sorta di attesa di qualcosa di indefinito e spiacevole, irrequietezza psichica difficile da identificare con precisione (Galassi, Pratesi Telesio, Cavalieri, 2008).

Possiamo cosi affermare che le diverse paure dei bambini, nel corso della loro crescita, sono potenzialmente infinite e dipendono in larga misura dalla storia individuale: esistono tuttavia una serie di paure che possono essere considerate tipiche dell’età evolutiva (Quadrio Aristarchi, Puggelli, 2006): quella della separazione, del buio, della morte, dell’abbandono, dei serpenti, dei fantasmi, dei mostri, del dottore, ecc.

Talvolta alcune di esse sorgono quando il bambino tende ad immedesimarsi nelle preoccupazioni e nelle paure dei genitori. Di fronte alla visione di un fatto che può generare paura, è molto importante la reazione degli stessi genitori: i bambini percepiscono ciò che gli adulti provano e attraverso il cosiddetto contagio emotivo sono in grado di regolare la loro reazione emozionale sulla base della reazione dell’adulto di riferimento. In altre parole, se i genitori si spaventano, il bambino sarà molto più spaventato perchè impara e rinforza che quello stimolo è realmente pericoloso; se i genitori al contrario minimizzano quanto accaduto lo aiutano a inquadrare il fatto nella giusta prospettiva (Quadrio Aristarchi, Puggelli, 2006).

Le tipiche paure dei bambini nelle diverse età

Le tipiche paure dei bambini rappresentano, cosi, una tappa naturale del loro sviluppo, non necessariamente è causata da traumi o da un’ errata educazione, possiamo quindi affermare come essa siano uno stadio naturale della crescita. E’ comunque rilevante ricordare che le paure dei bambini si estinguono con maggior probabilità quando vengono manifestate apertamente e non quando vengono nascoste o temute in quanto potrebbero acutizzarsi e diventare poi un disagio.

La tipica paura dei bambini intorno al primo anno di vita è sicuramente quella dell’estraneo in quanto il bambino inizia a differenziarsi dall’altro, riesce a distinguere le figure parentali o quelle di riferimento rispetto agli sconosciuti. Questa paura si manifesta in diversi modi: abbassando gli occhi, attaccandosi fisicamente al genitore, nascondendosi, con pianti, con silenzi, tutto dipende dall’ indole del bambino e dalla sua abitudine nell’incontrare volti nuovi o dalla fatica nel socializzare. In questi momenti è importante che il genitore non obblighi il bambino ad interagire con lo sconosciuto ma è preferibile che gli stia vicino, che accolga la sua paura e che si rivolga a lui in maniera pacata, calma e serena. In questo modo il bambino imparerà ad affrontare le sue prime paure in maniera adeguata e a non fuggire.

In questa fase critica il bambino ha bisogno di trovare nei loro genitori una base sicura, la sensazione di sentirsi protetto per potere acquisire fiducia in se stesso verso gli altri e verso il mondo (Bowlby, 1989). Nei momenti di paura è importante che l’infante avverti la vicinanza dei genitori, quando è in preda a questo tipo di emozione il sentirsi protetto fisicamente in un abbraccio è una sensazione piacevole che lo accompagnerà anche da adulto.

Quando le parole non bastano il linguaggio del corpo diventa più importante che mai e così il calore, la sicurezza, il sostegno e l’appoggio diventano strumenti essenziali per affrontare le paure dei bambini. Per Bowlby prendere in braccio il proprio piccolo che piange è la risposta più adeguata, da parte della madre di fronte un segnale di disagio del bambino.

Tra il primo e il secondo anno di vita la principale paura dei bambini è quella legata alla separazione dai genitori e ad una loro possibile perdita. Quando il bambino avrà avuto modo di abituarsi alla minaccia della solitudine ecco che dalla sua mente scaturiscono nuovi pericoli e nuove paure.

L’angoscia di separazione, normale fase di sviluppo sia intellettivo che sociale, si manifesta perché il bambino, non avendo ancora acquisito ed introiettato la costanza dell’oggetto, non riesce a realizzare che se la figura di accudimento si allontana non sparisce ma ritorna. Questa assenza, anche se breve, provoca una forte angoscia nel bambino, che fatica a tollerare la frustrazione e mostra questa emozione con un pianto quasi inconsolabile, accompagnato da una nota di collera. In questi momenti sarebbe utile evitare, per esempio, quelle frasi killer che caricano eccessivamente il bambino di responsabilità: “dai, non fare il bimbo piccolo!” oppure “che vergogna a questa età, ormai sei grande, devi comportarti da ometto (o signorina)”. Questi enunciati possono creare ansia e dar luogo a paure ed insicurezze (Crotti, Magni 2002)

Secondo Bowlby e i vari studiosi dell’attaccamento, è importante costruire una base sicura per affrontare al meglio le paure del piccolo. Mamma e papà rappresentano un ruolo importante in questa fase, perché attraverso il loro atteggiamento e comportamento possono trasmettere al bambino quella fiducia e quella sicurezza di cui necessita per affrontare il distacco e la separazione.

Altre paure dei bambini invece vengono trasmesse dall’ambiente circostante o dalla cultura di appartenenza come ad esempio, quelle dei temporali, dei lupi, dei ladri, del fuoco etc. Pensiamo ad esempio al ruolo dei mass media nella trasmissione delle Paure e proviamo ad osservare ciò che avviene: i mezzi di comunicazione come radio o televisione, sono onnipresenti e accessibili anche ai bambini che ancora non sanno leggere la realtà. Nei notiziari, ad esempio, vengono riportati fatti di cronaca, spesso violenti, che confondono i bambini privi di cognizione spaziale e li impauriscono perché si sentono minacciati e in pericolo ( Preuschoff, 1995).

Nella fruizione di contenuti forti, è fondamentale che i piccoli siano sempre affiancati dai genitori o da un adulto che aiuti la loro visione e ne faciliti la comprensione ( F.R. Puggelli, 2006).

Per meglio affrontare le paure dei bambini, Crotti e Magni (2002) suggeriscono ai genitori o agli educatori di fare molta attenzione ai messaggi che il bambino lancia, specie a quelli non verbali, cioè non espressi con parole: gesti, capricci, sintomi come l’insonnia o l’enuresi, i pianti prolungati o i piagnucolii, il dito i bocca, scarabocchi e i disegni.

Intorno al secondo o terzo anno di vita, i bambini hanno bisogno di essere aiutati ad affrontare altri tipi di paure, ansie o preoccupazioni. In questo periodo, molti bambini manifestano la paura del buio, può accadere che siano convinti che ci siano mostri in agguato negli armadi, sotto al letto o dietro le scale, a questa età oggetti e persone possono assumere improvvisamente l’aspetto di un mostro, i contorni dell’ombra possono dar luogo ad un volto lugubre (M.Sunderland 2004). Vivono il buio come assenza di punti di riferimento, paura per quello che è ignoto o sconosciuto.

Una bimba di venti mesi si trovò a strillare dallo spavento per aver visto una scarpa con la suola mezza staccata, quindici mesi dopo fu in grado di riferire alla madre con una voce tremolante: “Dove sono le tue scarpe rotte, mamma?”. Quest’ ultima rispose di averle buttate via al chè la bimba commentò: “Per fortuna! Avrebbero potuto mangiarmi da un momento all’altro” (Segal,1985, p.34)

Spesso, nasce così, la continua richiesta dei bambini di dormire assieme ai genitori. Buio come perdita di orientamento in quanto tutto appare diverso e il piccolo si sente solo e indifeso. In questa fase se un bambino si sente deriso la sua paura rimarrà o si acutizzerà anche se forse non oserà più parlarne. Spettri e mostri potrebbero rappresentare cattivi sentimenti del bambino. Talvolta quando provano rabbia o collera mascherano queste emozioni sotto altre forme di pericolo, è come se prendessero in prestito un oggetto o simbolo della quotidianità e facessero convergere in questi, le loro inquitanti sensazioni ed emozioni confuse, quindi, riconoscere, nominare, rappresentare una paura è dunque il risultato di un’ elaborazione di ciò che provano ( Argentieri e Carrano ,1994).

Un’altra paura dei bambini comune in questi anni è quella legata alla morte, il bambino non possiede ancora la nozione di morte irreversibile e universale, ciò che potrebbe farlo soffrire non è la morte in sé ma, ad esempio, la separazione dall’animale che amava o dal nonno a cui era affezionato. Può accadere che questi eventi legati alla morte generino stati di terrore nel bambino in quanto alcuni piccoli si sentono in colpa per l’accaduto o addirittura mettono il proprio comportamento in relazione alla morte. Una certa angoscia nei confronti di questa è normale, è quindi importante parlarne, ovviamente, nel caso di un lutto in famiglia è sempre difficile capire quanto sia opportuno proteggere i piccoli dal dolore e quanto invece mantenerli fuori dalla comunicazione familiare possa costituire un trauma sotterraneo ma non meno nocivo (Argentieri, Carrano 1994).

Potrebbe essere utile modulare l’informazione a secondo dell’età del piccolo e tenere sempre in considerazione il suo temperamento, lo stadio affettivo e intellettivo in cui si trova, probabilmente è meglio non mentire o negare ma essere quanto più sinceri perché i bambini respirano le emozioni dell’adulto.

Spesso il silenzio alimenta ancora di più le paure dei bambini in quanto lascia correre la fantasia del bambino e lo induce a crearsi una propria visione degli avvenimenti (Preuschoff, 1995).

Un’altra paura che si presenta intorno ai tre e quattro anni, e si manifesta nella fase di addormentamento, è legata ai sogni che fanno paura: molti bambini non vogliono addormentarsi per paura di sognare cose brutte; richiamano continuamente la presenza dei genitori perché hanno il terrore di perdere il controllo, di non avere sott’occhio certe situazioni. Questo potrebbe accadere perché in molti casi alcuni bambini hanno un rapporto creativo con le informazioni interiorizzate durante il giorno e potrebbero rielaborarle nel sogno sotto forma di incubo. Quando ci sono troppi stimoli in gioco e il bambino non è ancora in grado di prendere le distanze si manifesta ansia, inquietudine e paura diffusa.

Andando avanti con l’età, quattro o cinque anni circa, possono presentarsi altri tipi di paure dei bambini: nella maggior parte dei casi, quando un bambino deve affrontare la vita sociale o il confronto con i coetanei possono sorgere timori ed angosce che gli impediscono di uscire, di affrontare i loro piccoli amici o conoscenti. Potrebbero avere il timore di sentirsi sbagliati o giudicati, di non essere all’altezza dei loro coetanei. In questo periodo, nonostante il desiderio di autonomia egli è ancora dipendente dal caregiver. Ha costantemente bisogno di sicurezza e protezione. Le sue paure vertono inoltre sul timore di essere abbandonato dalle figure di riferimento, di non essere considerato, di perdere il loro affetto specie dopo rimproveri o punizioni.

Le paure dei bambini: come aiutare i più piccoli a elaborare i loro timori?

Nei casi in cui i bambini si mostrano molto spaventati potrebbe essere utile aiutarli a verbalizzare le loro paure. Alcuni bambini non parlano facilmente dei propri sentimenti di paura, talvolta tendono ad affrontare da soli ciò che li spaventa. Quando i bambini non sono ancora in grado di verbalizzare in modo chiaro ed esauriente le loro emozioni usando il linguaggio comune è consigliabile sollecitarli a mostrarle in altro modo ad esempio mettendola in scena, disegnandole o esibirle attraverso un gioco, è necessario quindi offrire loro diverse modalità per esprimerle (Sunderland, 2004).

Un altro buon modo per aiutare ad elaborare ed esprimere le paure dei bambini è rappresentato dalle fiabe, favole o racconti, in quanto in queste storie le paure e le tensioni sono espresse in maniera tale che i piccoli possano identificarle, riconoscerle e comprenderle. Nei racconti vi sono esempi di come le difficoltà possono essere risolte e le paure superate. Pensiamo ad esempio al brutto anatroccolo, a Cenerentola o Biancaneve che dopo diversi ostacoli e prove da superare, dopo sentimenti di angoscia e timori, riescono a trovare pace e serenità. E’ importante tenere presente che le paure dei bambini si manifestano in diverse forme: c’è chi lo fa in maniera diretta ed esplicita chi invece con modalità più implicite. I piccoli potrebbero essere sollecitati a verbalizzare ciò che li impaurisce attraverso il disegno oppure con l’ausilio di altri strumenti come ad esempio carta, colori , plastilina, creta. In questo modo possono essere affrontate simbolicamente: mostri di terracotta distrutti, fantasmi disegnati e colorati sulla carta poi fatti a pezzi, etc (Preuschoff, 1995)

Comunque sia è rilevante mostrare empatia verso le paure dei bambini, anche se irrealistiche, perché un giorno potrebbero avere paura di qualcosa di più reale che non sono in grado di comunicare a voce. Se la tendenza è quella di liquidare i loro timori perchè ci sembrano banali, non saranno propensi a condividere quelli più profondi.

Nessuno è disposto ad aprire il proprio cuore se non si è certi che l’altro è in ascolto 

(L.J. Cohen, 2005)

La matematica dell’amore: quante probabilità abbiamo di incontrare l’anima gemella?

Nel 2010 Peter Backus, accademico dell’Università di Warwick, ha pubblicato “Why I don’t have a girlfriend”, un articolo scientifico che si proponeva di applicare l’equazione di Drake alla probabilità di fidanzarsi a Londra, stimata da lui in una sola possibilità su 285mila.

Fin da bambini impariamo a fare una distinzione di base tra le materie umanistiche e quelle scientifiche, e presto impariamo a posizionare le questioni affettive tra le prime e la matematica tra le seconde. Ma se ci pensiamo, parte della matematica tratta di incognite, e cosa c’è di più incognito delle questioni di cuore? In realtà, colpo di scena, sembra ci possa essere un felice matrimonio tra il matrimonio, appunto, e la scienza delle probabilità. Nel 2010 Peter Backus, accademico dell’Università di Warwick, ha pubblicato “Why I don’t have a girlfriend”, un articolo scientifico che si proponeva di applicare l’equazione di Drake alla probabilità di fidanzarsi a Londra, stimata da lui in una sola possibilità su 285mila. Niente di entusiasmante, insomma.

Ma facciamo un passo indietro. L’equazione in ballo è stata ipotizzata e scritta nel 1961 dall’astronomo Frank Drake, per calcolare quante civiltà esistessero nella nostra galassia. Backus, che nel 2010 celebrava 3 anni di status di single, ha utilizzato questa equazione per prevedere quante donne potesse incontrare a Londra che avessero le caratteristiche da lui richieste in termini di età, livello di istruzione e aspetto fisico. Purtroppo, ha in seguito concluso che ci fossero solo 26 donne in tutto il Regno Unito che soddisfacessero i requisiti richiesti, candidandosi quindi come potenziali fidanzate. Concludeva Bakus alla fine del suo articolo [blockquote style=”1″]Quindi c’è una probabilità dello 0,00034% che facendo serata a Londra io incontri una di queste donne. [/blockquote]

Guardiamo più da vicino questa equazione. Nella sua versione “romantica”, Bakus ha calcolato il numero di potenziali fidanzate considerando parametri come la crescita della popolazione nell’anno precedente, la percentuale di donne sulla popolazione generale, la percentuale delle donne che vivevano a Londra, la percentuale di donne di Londra con un’età congruente con la propria, tra queste, la percentuale di quelle con un livello di istruzione appropriato e su queste infine le donne che avevano anche le caratteristiche fisiche preferite da Bakus.

Capite da voi che se dobbiamo pensare di avere una possibilità su 285mila di incontrare una persona adeguata per noi secondo i criteri considerati, viene voglia di lasciar perdere.
Ma la speranza è l’ultima a morire, e ci viene in soccorso un altro algoritmo matematico: quello di Gale-Shapley, conosciuto anche come “il problema del matrimonio stabile”. Innanzi tutto parliamo di cose serie, visto che Shapley ha vinto il Nobel per l’economia nel 2012 (insieme a Alvin Roth) per il contributo alla teoria delle allocazioni stabili. Qualche tempo dopo, lo stesso Shapley ha creato con David Gale un algoritmo che aiuta a stabilire una corrispondenza di coppia.

Cercando di renderla semplice, nel suo libro “La matematica dell’amore” Hannah Fry, docente all’UCL Centre for Advanced Spatial Analysis di Londra, esemplifica la cosa così. Mettiamo che a una festa ci siano 3 ragazzi e 3 ragazze, e che siano tutti piuttosto tradizionalisti; a questo punto, il primo ragazzo si farà avanti con la ragazza preferita tra le 3, e si troverà davanti alla possibilità di essere corrisposto o rifiutato. Nella prima opzione, avrà di fianco la miglior partner a disposizione, mentre nel secondo caso proverà a invitare la seconda scelta. Di nuovo, in caso di esito positivo avrà di fianco la miglior partner possibile tra quelle rimaste (escludendo quindi la prima scelta, per indisponibilità), mentre in caso di esito negativo potrà farsi avanti con la terza. A questo punto indicativamente cosa succederà? Dando per certo che alla fine della serata tutte le persone saranno accoppiate, succederà che tutti gli uomini (che si saranno fatti avanti) avranno accanto la partner migliore a loro disposizione, mentre le donne finiranno con il “meno peggio” tra i partner che si sono proposti. E il fattore che a quanto pare fa la differenza è proprio il livello di attività (o passività) nel processo di scelta.

Mentre gli uomini del nostro esempio si spendono da subito per arrivare alla loro “condizione migliore” (la ragazza adocchiata da subito), le donne restano in un’attesa passiva e, detta brutalmente, “raccolgono quello che rimane”. Se spostiamo lo stesso ragionamento sulle accoppiate lavoratori-posti di lavoro, vediamo come allo stesso modo sia più utile per le aziende cercare attivamente dei candidati. Se un’azienda seleziona tra i candidati che hanno inviato CV, questa sceglierà il candidato che riterrà migliore, ma solo tra quelli che si sono mostrati interessati. Se invece l’azienda decide di cercare attivamente una figura, potrà scegliere il migliore (per le sue esigenze) tra tutte le persone disponibili, nel rischio di un rifiuto da parte sua ma dando una possibilità al “matrimonio ottimale”.

In sintesi, quello che emerge accostando la matematica all’amore sembra essere un unico consiglio: buttatevi. A quanto pare, restare in attesa che qualcosa accada o che l’amore della vostra vita bussi alla porta non sembra aiutare, mentre rischiare i due di picche e farsi avanti scegliendo per primi il potenziale partner premia di più. La fortuna aiuta gli audaci, insomma. E ha premiato il nostro Backus, che nel 2012 ha incontrato Rose, la sua donna su 285mila (speriamo per lui), convolando a nozze nel 2013. Fortuna? Possibile, ma ricordiamoci che alla fortuna si deve quantomeno dare (attivamente) una possibilità.

Intrattabili dopo una notte insonne? Rivelato il meccanismo alla base della disregolazione emotiva da privazione di sonno

Una nuova ricerca rivela i cambiamenti che la privazione del sonno può imporre alla nostra capacità di regolare le emozioni e di stanziare le risorse cerebrali per l’elaborazione cognitiva.

Quante volte ci è capitato di essere intrattabili e troppo emotivi dopo una nottataccia? Probabilmente in quelle corcostanze la capacità del cervello di regolare le emozioni è compromessa dalla fatica.

Questa è una cattiva notizia per il 30% di noi che dormono meno di sei ore a notte (secondo i dati del Centers for Disease Control and Prevention).

Un nuovo studio dell’Università di Tel Aviv ha identificato il meccanismo neurologico responsabile del disturbo nella regolazione delle emozioni e dell’aumento di ansia, già dopo una sola notte insonne.

La ricerca rivela i cambiamenti che la privazione del sonno può imporre alla nostra capacità di regolare le emozioni e di stanziare le risorse cerebrali per l’elaborazione cognitiva.

Lo studio è stato guidato dal Prof. Talma Hendler:

Prima del nostro studio, non era chiaro cosa fosse responsabile della disregolazione emotiva provocata dalla perdita di sonno. Abbiamo ipotizzato che la mancanza di sonno potesse intensificare l’elaborazione delle immagini emozionali e quindi ostacolare le funzioni esecutive cerebrali. Siamo rimasti molto sorpresi nello scoprire che ha un impatto significativo sull’elaborzione sia di immagini neutre che di quelle emotivamente significative: perdiamo la nostra neutralità; la capacità del cervello di dire ciò che è importante è compromessa. E’ come se improvvisamente tutto fosse importante.

Durante lo studio 18 adulti hanno affrontato due prove durante le quali venivano sottoposti a fMRI e / o EEG, la prima dopo una buona dormita e la seconda dopo una notte insonne in laboratorio.

In uno dei test i partecipanti dovevano descrivere la direzione in cui si muovevano piccoli puntini gialli su immagini distraenti. Queste immagini avevano una valenza emotiva: positiva (un gatto), negativa (un corpo mutilato), o neutra (un cucchiaio).

Dopo una notte di riposo i partecipanti hanno individuato la direzione dei puntini sopra le immagini neutre più velocemente e con maggiore precisione, e il loro EEG ha evidenziato differenze nelle risposte neurologiche a distrattori neutri e emozionali. Nella condizione di privazione di sonno, tuttavia, la performance è stata peggiore sia nel caso di distrattore neutro e che in quelli emozionali, e la risposta elettrica encefalica, come misurato da EEG, non ha evidenziato una differenza significativa per le immagini emozionali. Questo è un indice di un decremento nel processo di regolazione. Afferma Ben-Simon:

Potrebbe essere che la privazione del sonno comprometta universalmente il giudizio, ma è più probabile che la mancanza di sonno renda le immagini neutre in grado di provocare una reazione emotiva

I ricercatori hanno condotto un secondo esperimento testando livelli di concentrazione. Ai partecipanti sono state mostrate immagini neutre ed emotive durante l’esecuzione di un compito di attenzione (schiacciare un pulsante in alcuno momenti), in cui dovevano ignorare immagini distraenti di sfondo con contenuto emozionale o neutro, mentre venivano sottoposti a fMRI.

Questa volta i ricercatori hanno misurato i livelli di attività in diverse parti del cervello alla fine del compito cognitivo.

I risultati indicano che i partecipanti dopo una sola notte insonne sono stati distratti da ogni singola immagine (neutra ed emotiva), mentre i partecipanti ben riposati erano distratti solo da immagini emozionali.

L’indicatore è stato il cambiamento di attività dell’amigdala, un importante nodo limbico responsabile dell’elaborazione emotiva e associata alla rilevazione e valutazione di spunti salienti nel nostro ambiente. Ha detto il Prof. Hendler:

Senza dormire, il semplice riconoscimento di quello che è un evento emotivo e quello che è un evento neutro è interrotto. Possiamo venire provocati allo stesso modo da qualunque stimolo, anche neutro, e perdere la nostra capacità di distinguere tra informazioni più o meno importanti. Questo può portare a una distorsione dei processi cognitivi e alterare la capacità di giudizio e la risposta ansiosa 

Le nuove scoperte sottolineano il ruolo vitale del sonno nel mantenimento di un buon equilibrio emotivo. I ricercatori stanno attualmente studiando come nuovi metodi di intervento sul sonno (per lo più sul sonno REM) possano contribuire a ridurre la disregolazione emozionale legata all’ansia, alla depressione e disturbi da stress traumatici.

L’immagine corporea & il rapporto col proprio corpo – Introduzione alla Psicologia nr. 39

L’immagine corporea, ovvero la rappresentazione che abbiamo di noi stessi, è fortemente influenzata dai nostri stati interni, che portano alla formazione di una immagine legata a uno stato emotivo. Le emozioni rendono questa rappresentazione mentale positiva o negativa.

INTRODUZIONE ALLA PSICOLOGIA (Nr. 39) RUBRICA DI DIVULGAZIONE SCIENTIFICA REALIZZATA IN COLLABORAZIONE CON LA SIGMUND FREUD UNIVERSITY MILANO

 

Il concetto di immagine corporea è stato oggetto d’interesse in primo luogo da parte dei neurologi, ambito in cui nasce tale concetto, e poi dei comportamentisti, che si sono cimentanti nel cercare una chiara spiegazione a tale costrutto.

La definizione più accreditata, e a tutt’ora in uso, è quella che risale a Paul Schilder del 1935:

L’immagine corporea è l’immagine e l’apparenza del corpo umano che ci formiamo nella mente, e cioè il modo in cui il nostro corpo ci appare.

L’immagine corporea, ovvero la rappresentazione che abbiamo di noi stessi, è fortemente influenzata dai nostri stati interni, che portano alla formazione di una immagine legata a uno stato emotivo. Le emozioni rendono questa rappresentazione mentale positiva o negativa.

Inoltre, l’immagine corporea è influenzata da schemi precoci che si generano da quando si è molto piccoli nell’interazione con la madre. Così facendo si ottengono delle immagini pregne di significato emotivo e di vissuto relazionale che influenzeranno i comportamenti adulti.

Nell’immaginario collettivo con il termine immagine corporea si tende a individuare la propria fisicità, legata al concetto del bello, volta ad attirare l’attenzione dell’altro. Chiaramente, avere una immagine corporea interessante aiuta a mantenere alta la propria autostima aumentando anche il senso di efficacia personale percepito. Di conseguenza, anche le relazioni sociali risultano influenzate da una immagine corporea positiva, incrementando in questo modo lo stato di benessere.

Negli ultimi 30 anni le donne, e anche gli uomini, hanno sviluppato una maggiore attenzione per il proprio corpo che ha portato a non accettarsi semplicemente così come si è, ma a cercare di migliorarsi con l’aiuto dell’esercizio fisico, dell’alimentazione e, perché no, della chirurgia in casi estremi.

Ad oggi, vige ancora la posizione che la magrezza simboleggia l’eldorado della felicità. Niente di più falso, il corpo bello è solo un involucro che nasconde parti più intime di noi stessi e se queste parti non fossero a posto anche l’involucro perderebbe di efficacia.

Purtroppo, come mai in passato, le donne, ma anche gli uomini, insoddisfatti del loro corpo lo combattono spietatamente e quotidianamente, attraverso diete e comportamenti restrittivi. Ma tutto questo ci porta indietro nel tempo cronologico, poiché si tratta di comportamenti tipici adolescenziali che se non risolti si cristallizzano e di conseguenza si cronicizzano, acuendo e amplificando il malessere.

Controllare costantemente il proprio corpo porta a concentrarsi, fino alla forma più estrema di ossessione, su comportamenti ad alto rischio di formazione di un disturbo dell’alimentazione sia di tipo restrittivo sia di tipo abbuffatorio.

Quindi, per non cadere nella patologia alimentare, è opportuno costruire una immagine corporea positiva, senza rincorrere a immagini e stereotipi propostici continuamente dai media. Per cui diventa un processo fatico in termini emotivi e comportamentali, che ha come risultato finale l’accettazione di se stessi, con pregi e difetti

Quindi, per riuscire a sviluppare una immagine corporea adeguata è necessario credere in se stessi e nelle proprie capacità, apprezzarsi per come si è, praticare esercizio fisico ma per migliorare il proprio benessere e non per esasperare la propria forma fisica, e in fine accettare i propri limiti.

Dulcis in fundo, se necessario, chiedere aiuto a un professionista.

 

 

 

RUBRICA: INTRODUZIONE ALLA PSICOLOGIA

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Uomo e cane: le origini dell’amicizia più lunga del mondo

Giulia Grigi – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi Modena

Le relazioni tra esseri umani e cani danno vita a storie affascinanti. I cani sono fisicamente molto diversi e si comportano in modo differente da noi. Non dicono una parola, e non sembrano interessati alla cultura. Eppure molte persone considerano i cani come membri della propria famiglia. Diversi scienziati sono interessati al legame uomo-cane e hanno iniziato a raccontare come nasce questa amicizia.

 

Circa 20 anni fa, il gruppo di ricerca di Michael Tomasello del Max Plank Institute per l’antropologia evoluzionistica di Lipsia, in Germania, e lo Cśanyia di Budapest, pubblicarono indipendentemente articoli scientifici su come i cani che vivono in famiglia riuscissero a seguire i gesti del proprietario (pointing) per ritrovare il cibo nascosto. Da questa scoperta è nata una florida area di ricerca che si occupa di indagare le basi biologiche del legame uomo-cane.

Ad esempio, i ricercatori hanno imparato che gli esseri umani ed i loro amici vivono in una relazione d’attaccamento, proprio come la mamma col suo bambino. L’uomo e il cane godono l’uno della compagnia dell’altro trovando mutuo supporto anche in situazioni rischiose. La relazione di attaccamento fornisce inoltre il fondamento della cooperazione: noi umani aiutiamo i cani a muoversi nella società moderna, e loro ci aiutano quando manchiamo di specifiche abilità; ne sono un esempio i cani-guida per i le persone non vedenti. Inoltre i cani, se maltrattati dimostrano, alle volte, sintomi psicologici simili a quelli dei bambini che hanno sviluppato una relazione di attaccamento insicura con le figura di riferimento.

Le ricerche hanno anche dimostrato che i cani possono facilmente adattarsi alla vita in famiglia grazie alle loro abilità attentive, alla sensibilità ai metodi comunicativi e al comportamento emotivo umano. In modo simile agli esseri umani, i cani tendono ad esprimere le emozioni attraverso delle vocalizzazioni, sembrano reagire alle sfumature emotive del pianto e del parlato di noi uomini. I cani, inoltre, eccellono nell’imparare attraverso l’osservazione, e ciò gli permette di seguire le regole della vita domestica.

Oggi le moderne tecnologie stanno ampliando la relazione uomo-cane, aiutandoci a comprenderla meglio, ed a sviluppare nuove forme di interazione. Strumenti tecnologici, come i robot interattivi, potrebbero un giorno far si che i cani partecipino a nuovi compiti cooperativi con gli esseri umani. Ci stiamo muovendo verso un mondo sempre più complesso, e l’abilità di attaccamento e di adattamento dei cani, potrà continuare a tenerli al nostro fianco.

 

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https://vimeo.com/19472436

 

Senso di appartenenza

Il cane è una specie unica nel regno animale, poiché ha capito come unirsi ed adattarsi ad una comunità di un’altra specie – segno di competenze sociali sofisticate. Gli psicologi definiscono la competenza sociale come l’abilità degli individui di armonizzare i propri bisogni ed aspettative con il gruppo. Essa dipende dal padroneggiare una serie di abilità complesse: generare attaccamento, regolare l’aggressività, imparare e seguire le regole, fornire assistenza e partecipare alle attività del gruppo. Questa gioca un ruolo fondamentale quando i membri di una specie non umana partecipano alle nostre unità sociali. È per questo che quando si progettano studi che coinvolgono uomini e cani si devono tenere in considerazione tutte le caratteristiche della competenza sociale. Così possiamo capire la loro compatibilità con noi. Ma la domanda interessante è: come sono stati in grado i cani di sviluppare questa competenza?

Chiunque abbia avuto la possibilità di crescere un lupo o un cane in casa sarà d’accordo nell’affermare che tra i due c’è grande differenza. I primi non diventano facilmente membri della famiglia, nonostante tutti gli sforzi che si possano fare per socializzarli. I cani, invece, sono stati in grado di creare un ponte, poiché hanno apportato modifiche significative nei loro geni nel corso dei secoli di addomesticazione, seguiti dalla selezione di componenti genetiche che supportano lo sviluppo di competenze sociali simili a quelle umane.

Attaccamento per la vita

Una componente cruciale della competenza sociale è l’abilità di creare attaccamento. Molti ricercatori (se sono molti, qualcuno va citato) sono concordi nell’affermare che il legame di attaccamento dei cani giovani o adulti ed i loro proprietari, ricordi molto quello che esiste tra madre e neonato.

Negli anni ’60 gli psicologi John Bowlby e Mary Ainsworth hanno sviluppato un interessante teoria per spiegare il forte legame tra la madre e il suo piccolo. Affermano che il legame, noto come attaccamento, fa si che il piccolo cresca in un ambiente sicuro con l’opportunità di esplorare e conoscere la complessità della vita umana. Ainsworth e colleghi introducono un semplice test che oggi è un metodo standard per misurare la qualità di tale legame nella vita di ogni giorno: la strange situation.

Gli etologi hanno impiegato vari anni per riconoscere che i cani ed i loro proprietari mostrano dei pattern analoghi a quelli madre-bambino. Nel 1998, il comportamentalista animale Jòzey Topàl chiese a 51 proprietari di cani di partecipare ad un esperimento simile alla strange situation. Esseri umani e cani erano portati in una stanza e lì passavano del tempo giocando insieme, inizialmente loro due soli, poi con un gioco offerto dal proprietario. Dopo un certo tempo l’essere umano lasciava la stanza ed il cane rimaneva solo o in compagnia di un estraneo. Con sorpresa degli sperimentatori molti cani si sono comportati come i bambini: quando i proprietari erano presenti i cani gli stavano vicino e non cercavano di lasciare la stanza, e molti giocavano volentieri con loro. I cani giocavano di meno con gli sconosciuti, molti smettevano di giocare con l’estraneo quando il proprietario si allontanava dalla stanza. I ricercatori hanno interpretato questa preferenza come un’indicazione che il cane vede nel proprietario un rifugio sicuro in caso di potenziale pericolo.

Il gruppo di ricerca di Topàl ha effettuato un test per capire se questo comportamento rappresentasse una relazione di attaccamento attraverso uno studio comparativo tra giovani cani e lupi. In questo studio 13 lupi e 11 cani sono stati separati dalla madre a 4/6 giorni dalla nascita e sono stati cresciuti da un essere umano fino all’età di 4 mesi. Passato questo lasso di tempo hanno riproposto la situazione nella stanza con il gioco e la presenza di un estraneo. Nonostante avessero avuto la stessa esperienza sociale dei cani, i lupi non mostravano differenze quando era presente il proprietario o un estraneo; solo i cani usavano il primo come “base sicura”. In uno studio parallelo del 2001 la comportamentalista animale Marta Gacsì scoprì che anche i cani adulti possono sviluppare una relazione di attaccamento con gli umani.

Secondo queste ricerche è possibile affermare che una relazione di attaccamento tra umano e cane è presente e si instaura durante tutto l’arco della vita del cane.

Nel bene e nel male

Come accade per i bambini, anche le relazioni di attaccamento uomo-cane possono essere di tipo insicuro. Quando i proprietari sono anaffettivi, i loro cani sono propensi a sviluppare ansia da separazione: se lasciati soli abbaiano eccessivamente, cercano di scappare distruggendo porte e pareti e facendo i propri bisogni in casa. Uno studio del 2011 condotto dall’etologa Veronika Konok mostra che quando separati dai propri umani, i cani rimangono vicini alla sedia sulla quale si siedono di solito. Al contrario i cani che mostrano ansia da separazione non manifestano preferenze per gli oggetti toccati o dimenticati dai proprietari. I ricercatori hanno concluso che questi animali potrebbero avere problemi nell’associare i proprietari con la loro casa o con gli oggetti personali, così da non essere sicuri quando se ne vanno.

Proprio come succede per i bambini che manifestano ansia di separazione, l’ansia nei cani è sintomo della personalità di che se ne prende cura. In uno studio del 2015, Konok e colleghi riportano che i proprietari che manifestano maggiori livelli di evitamento nelle proprie relazioni di attaccamento tendono ad avere cani con più alti livelli di ansia da separazione.

Legami emotivi

I cani sono ammirati anche per la loro sensibilità emotiva. Le persone che vivono con loro gli attribuiscono spesso emozioni; assumendo che possano essere felici, tristi, arrabbiati e gelosi, proprio come gli esseri umani. Per anni i ricercatori accademici si sono rifiutati di attribuire emozioni agli animali. Questo atteggiamento sta lentamente cambiando: oggi parlare di emozioni nei cani o in altre specie animali non è più considerato un sacrilegio. C’è ancora una domanda che rimane senza risposta: l’emozione provata dal cane ha lo stesso significato che intendiamo noi?

Sebbene alcuni ricercatori accettino il fatto che la felicità e la paura nei cani sia simile a quella dell’esperienza umana, ci sono degli studi che mostrano la differenza tra le due specie nelle emozioni complesse, come il ‘senso di colpa’. Negli uomini il senso di colpa insorge quando le persone violano una regola sociale, come ad esempio rubare il cibo di un altro. Due studi indipendenti, il primo condotto nel 2009 dal comportamentalista Alexandra Horowitz e il secondo nel 2012 ad opera della comportamentalista canina Julie Hecht, hanno preso in esame il comportamento di cani a cui era stato detto di non infrangere una determinata regola. Nel primo, a 14 cani era stato insegnato a non magiare il cibo dal tavolo da pranzo, dando loro la possibilità di obbedire o meno. Terminata questa fase veniva detto ai proprietari come si erano comportati: a volte riportando il vero, altre volte no; veniva chiesto loro di congratularsi con i cani obbedienti e di sgridare quelli che non lo erano stati. Tutti i cani che erano stati rimproverati, indipendentemente da come si erano comportati durante il compito, hanno mostrato dei comportamenti che gli esseri umani identificano come senso di colpa, suggerendo che i quadrupedi stavano reagendo al comportamento dei proprietari, piuttosto che essere consapevoli della trasgressione.

Sulla tristezza non ci sono ricerche che suggeriscono interpretazioni definitive, ma le psicologhe Deborah Custance e Jennifer Meyer sono state in grado di fornire dati scientifici sulla credenza che il pianto umano evochi nei cani comportamenti associati. In una ricerca del 2012 i due autori hanno osservato le reazioni di 18 cani a comportamenti di pianto (mugolii riconducibili al pianto o pianto vero e proprio) sia con estranei che con i propri familiari. Quasi tutti i cani si sono approcciati guardando la persona che piangeva o toccandola. Questi comportamenti erano meno frequenti se la persona parlava o mugolava.

Anche se i proprietari potrebbero aver antropomorfizzato il comportamento canino credendo che questi atteggiamenti siano segno di abilità empatiche, gli autori hanno concluso che c’è una spiegazione più semplice: il pianto umano è simile alle vocalizzazione di sofferenza dei mammiferi, cani inclusi, ed evoca in loro sofferenza e non empatia. Quest’ultima richiederebbe che il cane riconoscesse lo stato interno dell’umano.

A supporto di questi dati, una ricerca del 2014 condotta dagli psicologi Ted Ruffman e Min Hooi Yong ha mostrato che ascoltare un bambino che piange aumenta i livelli di cortisolo presente nel sangue del cane, provocando stress.

Fai come faccio io!

Molto della cultura umana è basato sull’apprendimento sociale. Il linguaggio, le regole della società e l’uso degli oggetti, sono trasmessi dai membri più anziani a quelli più giovani e da pari a pari. I cani sono molto propensi ad imparare osservando. Questa abilità è molto diffusa nel mondo animale, ma apprendere da rappresentanti di un’altra specie è molto più raro. Da poco tempo la scienza ha iniziato ad esplorare questa capacità.

Uno dei più comuni test per le abilità osservative è un semplice compito di deviazione chiamato detour task, nel quale il cane posto al di là di una recinzione di 3 metri di lunghezza deve raggiungere un target: del cibo o un gioco. In uno studio del 2001, il comportamentalista animale Peter Pongràcz, ed il suo gruppo, hanno mostrato come i cani che vivono in famiglia necessitano in media di 6/7 tentativi per padroneggiare questo compito, ma gli basta osservare una volta un cane esperto eseguire il compito per compierlo a loro volta. I cani apprendono in egual modo dagli esseri umani.

Il gioco che noi umani facciamo con i nostri bambini per insegnargli i comportamenti adeguati aiuta i ricercatori a capire come i cani imparano osservando. Madri e padri spesso mostrano una specifica azione (per esempio, come toccarsi il naso con un dito) ed incoraggiano i figli a fare altrettanto. Nel 2006 Topàl e i suoi colleghi sono stati i primi a dimostrare che le persone potevano insegnare allo stesso modo ai cani.

Cooperazione: siamo pratici

Nella società occidentale moderna i cani sono spesso amati solo perché sono cani. Ma probabilmente oggi non ci sarebbero se non avessero dimostrato di essere così utili alle società del passato; svolgendo compiti di difesa del territorio, proteggendo il gregge e trainando slitte. Oggi i cani continuano a svolgere compiti di pubblica utilità, ad esempio nelle unità cinofile di polizie, eserciti e squadre di soccorso, così come i cani che aiutano le persone con disabilità fisiche e psichiche. Inoltre, i cani guida per disabili forniscono non solo un aiuto pratico nelle attività quotidiane, ma hanno un importante ruolo sociale: l’amicizia. Infatti, un elemento vitale della competenza sociale dei cani riguarda le loro impressionanti capacità di cooperazione. In un un’utile relazione di collaborazione ogni individuo deve dimostrare autocontrollo, tenere ben presenti gli obiettivi dell’altro e imparare quando è il suo turno. Degli studi hanno dimostrato che i cani guida possiedono queste competenze.

I cani possono collaborare in compiti nei quali sembrano capire le conseguenze di una azione di collaborazione. In uno studio pubblicato nel 2014, gli psicologi Ljerka Ostojic e Nicola Clayton si sono occupati dell’abilità dei cani di risolvere un compito di problem solving chiamato loose-string task. Nella predisposizione classica ai 2 partner è data una scatola dalla quale spuntano i capi di una medesima corda. Se entrambi i cani prendono un capo e tirano simultaneamente riusciranno a muovere l’oggetto target, posizionato sul fondo della scatola, in modo da avvicinarlo e poterlo afferrare. Tirando solamente un capo della corda, questa si sfilerà dall’apparato senza che nulla venga mosso. Durante l’esperimento i cani imparano a ricevere il premio quando coordinano i loro comportamenti, sia che si tratti di un compagno umano, che di un altro cane. Così, essi sono stati in grado di riconoscere la specifica azione che era necessaria da mettere in pratica per avere successo. Questo rapido sviluppo di cooperazione tra il cane e l’altro partner spiega perché sono così bravi ad aiutare noi umani in compiti di precisione come guidare una persona non vedente per le strade caotiche di una città.

I cani nel futuro High-Tech

L’invasione della moderna tecnologia nella vita di tutti i giorni potrebbe aver portato i proprietari di cani a pensare come la relazione con i loro compagni di vita potrebbe evolvere nell’era digitale. Già oggi i cani hanno iniziato ad interagire con la tecnologia e anche a creare delle partnership ad hoc con alcuni dispositivi. In un recente studio pubblicato su Plos One la comportamentalista animale Anna Gergely ha provato a mandare a dei cani del cibo attraverso una macchinina telecomandata. Dopo alcune interazioni, iniziano a guardarla, a toccarla o a spingerla, se questa non si muove più, come se volessero che la macchinina facesse il suo dovere.

In superficie, le azioni che i nostri amici a quattro zampe mettono in pratica con gli strumenti tecnologici sono simili a quelle messe in pratica con i proprietari in circostanze simili. In linea di principio, se l’abilità del dispositivo diventa più complessa, dovrebbe diventarlo anche la relazione cane-macchina. Questa relazione potrebbe avere anche dei risvolti positivi.

In un progetto recente guidato dall’ingegnere informatico Bernard Plattner, i ricercatori hanno testato l’idea che la ricerca di persone disperse nei boschi o in aree di montagna potrebbe essere più efficace se i gruppi di ricerca fossero accompagnati da gruppi di cani e da piccoli aerei dotati di telecamere. La comportamentalista animale Linda Gerencser ha lavorato in collaborazione con l’addestratrice cinofila Barbara Kerekes per insegnare a 4 cani a seguire un robot aereo ad una distanza di 100-150 metri. Hanno inoltre insegnato agli animali a fermarsi nel seguire i robot ed iniziare a cercare il disperso con l’olfatto se vedevano la macchina sorvolare una specifica area. I cani avrebbero poi avvertito i soccorritori umani abbaiando se avessero trovato la persona.

I ricercatori credono che con lo sviluppo della tecnologia queste macchine potrebbero migliorare le prestazioni dei gruppi di soccorso tradizionali, specialmente se i cani imparassero a riconoscere i robot volanti come compagni di squadra – ai quali potrebbero rispondere con lo stesso entusiasmo con cui rispondono a noi.

La vita dell’essere umano si sta sviluppando sempre più lontano dalla natura, ed i cani non saranno mai in grado di comprendere la mole di questi cambiamenti. Le loro competenze sociali, però, potranno aiutarli ad imparare a vivere in una società in evoluzione proprio come hanno fatto fin dall’inizio del loro viaggio al nostro fianco.

Delay discounting: alla ricerca delle basi genetiche dell’impulsività

Il Delay discounting è definitivo come il progressivo declino del valore soggettivo di una data ricompensa con l’allontanarsi nel tempo del momento del ricevimento della stessa. In altre parole, il Delay Discounting si riferisce alla tendenza, a preferire una ricompensa più piccola subito disponibile, invece di una ricompensa maggiore, ma per la quale è necessario aspettare.

Secondo un rapporto presentato al meeting annuale dell’American College of Neuropsychopharmacology, l’incapacità di attendere una gratificazione maggiore di quella che si può avere subito è un tipo di impulsività fortemente influenzata dal nostro corredo genetico, cioè è una caratteristica che può essere ereditata. Identificare i geni e le proteine coinvolte nel Delay Discounting, potrebbe essere un passo importante per comprendere meglio una varietà di disturbi psichiatrici, in particolare le dipendenze e altri disturbi che coinvolgono le scelte impulsive.

In uno studio che ha coinvolto ben 602 gemelli, il Dr. Andrey Anokhin e i suoi colleghi della Washington University School of Medicine hanno scoperto che il Delay Discounting migliora man mano che gli adolescenti crescono, per cui i 18enni hanno una maggiore capacità di differire la gratificazione rispetto agli adolescenti più giovani.

L’età comunque è solo uno dei fattori in gioco, il corredo genetico infatti è responsabile per circa la metà della differenza del livello di Delay Discounting tra gli individui. Infatti molti geni influenzerebbero il Delay Discounting e alcuni dati preliminari suggeriscono che questi geni dell’impulsività possano includere geni che codificano per gli enzimi che sintetizzano la serotonina. Il dottor Anokhin però esorta alla cautela nel formulare, sulla base di questi dati, ipotesi sulle possibili applicazioni cliniche.

Gli studi in corso in tutto il paese comprendono l’analisi del DNA e un questionario su un campione di più di 25.000 soggetti, allo scopo di identificare i geni specifici coinvolti nel Delay Discounting. Questi studi intendono migliorare la nostra comprensione di un tratto comportamentale che può avere effetti profondi sulla vita quotidiana e il benessere psicologico delle persone.

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