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Il training cognitivo per le demenze e le cerebrolesioni acquisite: guida pratica per la riabilitazione (2015) – Recensione

Training cognitivo per le demenze: Negli ultimi anni grazie al miglioramento delle cure mediche e in generale dell’allungamento della vita si sono rese sempre più necessarie tecniche cognitive che affiancassero le cure mediche nel trattamento di problematiche legate a malattie degenerative o cerebrolesioni.

 

Nelle persone con una malattia degenerativa il training cognitivo per le demenze ha la funzione di agire per rallentare il deterioramento cognitivo.

Per quanto riguarda il trattamento delle demenze si è assistito ad un utilizzo sempre maggiore e sempre più precoce di tecniche di stimolazione cognitiva, con risultati positivi nel rallentamento del deficit cognitivo, tanto che molti training cognitivi rientrano ormai nei programmi sanitari di alcuni paesi.

Nei programmi riabilitativi rivolti a persone con deficit cognitivi in seguito a cerebrolesioni invece, i training cognitivi hanno lo scopo di recuperare e compensare, ove possibile le abilità compromesse.

La riabilitazione cognitiva è un concetto molto ampio e si basa sul concetto di plasticità cerebrale ovvero la capacità del cervello di modificarsi e ristrutturarsi in risposta all’ambiente e a nuovi stimoli. La pratica ripetuta di specifiche abilità cognitive può guidare il cervello nella riorganizzazione funzionale vicariando le abilità perse a causa della lesione o rinforzando le abilità preservate.

 

Training cognitivo per le demenze

Il training cognitivo per le demenze prevede programmi complessi che allenino attraverso specifiche attività i processi cognitivi danneggiati o che potenziano le abilità residue, ma che possono anche includere metodi di compensazione, come l’utilizzo di strategie e strumenti, e di gestione dei sintomi emotivo-comportamentali conseguenti alla patologia cerebrale.

Il training congnitivo consiste nella somministrazione ripetuta e guidata di esercizi disegnati appositamente per stimolare specifiche funzioni cognitive, e comprende esercizi per l’apprrendimento di materiale verbale o visuo spaziale, esercizi per la memoria procedurale, per la memoria episodica o spaziale, esercizi per l’attenzione sostenuta e divisa, esercizi per il problem solving, esercizi per le capacità prassiche, gnosiche e così via.

Il manuale nella prima parte tratta brevemente una panoramica scientifica sulla funzione dei training cognitivi nel trattamento delle demenze e delle cerebrolesioni acquisite e fornisce le spiegazioni su come impostare un training personalizzato per un paziente, con compiti selezionati e somministrati secondo il principio della gradualità, utilizzando gli esercizi via via più difficili nel caso di recupero delle diverse abilità o semplificandoli in accordo con il proseguire della malattia degenerativa.

Nella seconda parte vengono invece presentati gli esercizi raggruppati in cinque domini cognitivi: orientamento, attenzione, memoria, linguaggio e funzioni esecutive. Per ogni esercizio vengono ricordate le abilità stimolate dallo stesso, viene fornita una spiegazione sulla modalità di somministrazione e alcuni suggerimenti che potrebbero essere utili con alcuni pazienti o nella somministrazione di gruppo.

Le schede degli esercizi infine sono presentate nel CD-ROM allegato al volume e direttamente stampabili per la somministrazione.

Le componenti dell’imitazione: una funzione che coinvolge strutture diverse nei due emisferi cerebrali

Uno studio che ha osservato i deficit di pazienti neurolesi dimostra che nell’ imitazione di gesti sono coinvolte almeno due componenti elaborate ognuna da un emisfero diverso.

SISSA, Scuola Internazionale Superiore di Studi Avanzati

Imitando si imparano un sacco di cose: a camminare, a suonare uno strumento, fare uno sport e tanto altro ancora. Quali sono i processi nel cervello alla base dell’imitazione? Da qualche anno ormai la scienza ha scoperto il ruolo dei neuroni specchio, ma ancora molto resta da capire. Uno studio che ha osservato i deficit di pazienti neurolesi dimostra che nell’imitazione di gesti sono coinvolte almeno due componenti elaborate ognuna da un emisfero diverso. Lo studio cui ha partecipato la SISSA è stato pubblicato su Neuropsychologia.

Imitazione di gesti dopo una lesione cerebrale: aprassia ideomotoria

Dopo una lesione cerebrale (per esempio causata da ictus o emorragia) si può sviluppare una difficoltà selettiva nell’imitare i gesti e i movimenti altrui (aprassia ideomotoria). Nella storia della neuropsicologia questi studi sono fra i più noti (i primi risalgono addirittura all’inizio ‘900), anche perché questi deficit ostacolano gli interventi terapeutici volti al recupero di abilità motorie, visto che il paziente non può eseguire, imitandoli, i gesti del medico. Negli ultimi vent’anni questi studi hanno poi trovato nuovo vigore grazie alla scoperta dei neuroni specchio, eppure si sa ancora troppo poco di questi processi. Molti scienziati pensano che vi sia un ruolo determinante dell’emisfero sinistro, visto che nella maggior parte sono proprio i cerebrolesi unilaterali sinistri a mostrare questo disturbo. Ma come spiegare allora anche una piccola percentuale di pazienti aprassici con una lesione unilaterale destra?

Paola Mengotti, alla SISSA al tempo dello studio, ora al Forschungszentrum di Jülich in Germania, Raffaella Rumiati, professoressa della SISSA e responsabile del laboratorio iNSuLa (Neuroscience and Society), e colleghi hanno condotto uno studio per rispondere a questa domanda.

Alla ricerca hanno partecipato venti pazienti (che sono stati visti all’Ospedale San Camillo di Venezia e all’Azienda Ospedaliero-Universitaria Ospedali Riuniti di Trieste) con lesioni unilaterali sinistre o destre, più un gruppo di controllo. L’idea di partenza era che l’imitazione fosse composta almeno da due compiti distinti: quello dell’imitazione motoria e un compito spaziale. Quando infatti dobbiamo imitare i movimenti di qualcuno, non solo ripetiamo i suoi gesti, ma dobbiamo anche traslarli sul nostro corpo (in pratica dobbiamo rispecchiarli). Nello studio i pazienti eseguivano compiti di imitazione in una delle due componenti, imitazione motoria e imitazione spaziale. Sono poi state confrontate le prestazioni per ogni componente e messe in relazione al tipo di lesione.

Quel che è emerso è che nella performance imitativa conta la somiglianza fra quanto visto e quanto prodotto, e questo ovviamente interagisce con il tipo di deficit dell’individuo.

[blockquote style=”1″] Analizzando le prestazioni dei pazienti con lesioni dell’emisfero destro e dell’emisfero sinistro con due compiti di imitazione, abbiamo potuto dimostrare che l’imitazione si basa sulla somiglianza tra l’azione osservata e quella prodotta[/blockquote]

spiega Rumiati.

[blockquote style=”1″]Questa somiglianza riflette o una corrispondenza anatomica o una spaziale. Lesioni dell’emisfero sinistro compromettono la prima operazione mentre lesioni dell’emisfero destro compromettono la seconda.[/blockquote]

 

LINK UTILI: • Articolo originale su Neuropsychologia: http://goo.gl/DjV6QG
IMMAGINI: • Crediti: Jamie McCaffrey (Flickr: https://goo.gl/5XffDR)
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Maggiori informazioni sulla SISSA

 

One study focusing on neurological patients showed that at least two components are involved in imitating gestures, each from a different hemisphere of the brain.

We learn many things through imitation: how to walk, play an instument, sports, and even more. What are the processes in the brain responsible for imitation? For some years now, science has been examining the role of mirror neurons, but there is still much to understand. One study focusing on neurological patients showed that at least two components are involved in imitating gestures, each from a different hemisphere of the brain. The study, which SISSA participated in, was published in Neuropsychologia.

After a brain injury (caused by stroke or hemorrhage, for example), patients may have difficulty imitating gestures and movements of others (ideomotor apraxia). In the history of neuropsychology, these studies are among the best known (the first date back to the early 1900’s) as these deficits hinder therapy aimed at recovering motor skills, since the patient cannot perform gestures by imitating the doctor. In the last twenty years, these studies have found new significance thanks to the discovery of mirror neurons, and yet little is known about these processes. Many scientists think the left hemisphere plays a dominant role because this problem most often surfaces in cases of unilateral brain-damage of the left hemisphere. How then, can we explain the small percentage of apraxic patients who have suffered unilateral lesions to the right hemisphere?

Paola Mengotti, at SISSA at the time of the study, now at Forschungszentrum Jülich in Germany, SISSA Professor and Head of the iNSuLa Laboratory (Neuroscience and Society), Raffaella Rumiati, and colleagues conducted a study to answer this question. Twenty patients (visited at San Camillo in Venice and Azienda Ospedaliero-Universitaria Ospedali Riuniti in Trieste) with unilateral brain lesions in the left or right hemispheres, plus a control group participated in the study. The initial idea was that imitation is made up of at least two distinct tasks: motor imitation, and a spatial component. When we have to imitate someone else’s movements, we not only have to repeat the actions, but we also have to translate them to our body (mirror them). In the study, patients performed imitation tasks using one of the two components, motor or spatial. Performance for each component was then compared and categorized in relation to the type of lesion.

What emerged is that what counts in imitation is the similarity between what is seen and what is produced, and this of course depends on the individual type of deficit. [blockquote style=”1″]Analyzing the performance of two imitation tasks by patients with lesions in the right hemisphere and the left hemisphere, we were able to demonstrate that imitation is based on the similarity between the observed action and the one produced[/blockquote] explains Rumiati. [blockquote style=”1″]This similarity reflects either an anatomical match or a spatial one. Lesions in the left hemisphere affect the former while lesions in the right hemisphere affect the latter.[/blockquote]

USEFUL LINKS: • Original paper on Neuropsychologia: http://goo.gl/DjV6QG
IMAGE: • Credits: Jamie McCaffrey (Flickr: https://goo.gl/5XffDR)

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Regolazione emotiva: in che modo determina il benessere psicologico

La regolazione emotiva è l’insieme dei processi attraverso i quali l’individuo influenza le emozioni che prova, quando le prova, in che modo le prova e come esprime tali emozioni. La regolazione emotiva si riferisce quindi alla eterogenea serie di processi con cui le emozioni sono regolate (Gross, 1999) ed è in gran parte responsabile del nostro benessere psicologico.

Roberta Casadio, OPEN SCHOOL STUDI COGNITIVI MODENA

Regolazione e disregolazione emotiva

Il concetto di disregolazione emotiva è strettamente legato a quello di regolazione e si riferisce ad un interruzione della “stabilità interna” dei processi mentali che sono legati alla costante e dinamica regolazione delle attività di cervello-mente-corpo-ambiente (Lazarus e Folkman, 1984). Qualora si sviluppi una grave situazione di disagio, ne risulta che non solo tale esperienza incide dal punto di vista psicologico sull’individuo, ma lo farebbe anche sul cervello e sul funzionamento cognitivo, rendendo il recupero del benessere ancor più difficile (Segal et al. 1996).

L’interazione tra figura di attaccamento ed infante è di fondamentale importanza nello sviluppo del bambino. Una relazione calda e accogliente, dove la figura di attaccamento è emotivamente disponibile aiuta il bambino ad evitare stati emotivi estremi e prolungati, ed esso comprenderà attraverso l’esperienza che gli stati di stress (i.e. arousal) possono essere moderati e quindi regolati (Kidwell et al., 2010). Questo accade poiché, grazie alla prevedibilità delle risposte fornite dal caregiver, è possibile fare delle connessioni causali stabili tra domanda e risposta offerta. Diversamente, quando la figura di riferimento del bambino si mostra emotivamente inaccessibile e incoerente reagendo alle espressioni emotive e allo stress del neonato in modo inappropriato, tale mancanza compromette la regolazione dell’arousal e quindi delle emozioni del neonato.

A conferma di ciò, una sempre più vasta letteratura scientifica afferma come la disregolazione emotiva sia un probabile esito di una relazione della diade che porti ad alterare il meccanismo di regolazione delle funzioni fisiologiche e quindi verso forme di psicopatologia (Kopp, 1989). Un esempio potrebbe avvenire quando un bambino esposto ad ostilità da parte del caregiver, che quindi non vede accolti e regolati i suoi stati di stress, si sente rigettato e arrabbiato. Sebbene egli possa adottare delle strategie per mantenere una relazione con il caregiver (es. pattern di attaccamento insicuro evitante o ambivalente), si verifica un fallimento nella possibilità del bambino di fare esperienza di se stesso come abile nel regolare i propri stati interni negativi in modo effettivo.

In base a tali esperienze precoci di apprendimento con la figura di attaccamento, si sviluppano dei Modelli Operativi Interni. Nell’esempio appena citato il mondo sarebbe quindi visto come incapace di rispondere ai propri bisogni e vedono se stessi come non meritevoli di attenzione e cure da parte della figura di riferimento. Sarebbe ragionevole ritenere a questo punto che i sentimenti di rabbia e tristezza siano facilmente attivati e che tali soggetti possano sviluppare deficit nella implementazione di un repertorio efficace e funzionale nel lungo termine di strategie di regolazione delle emozioni, il quale deficit contribuirà a confermare il senso di inefficacia e sfiducia negli altri percepito dal soggetto.

Studi mostrano l’incidenza di esperienze avverse o traumatiche nella prima infanzia nello sviluppo di disagio psichico in età adulta: tra i fattori di rischio comuni a diversi disturbi emergono traumi, perdite e abusi (Liotti, 2010), reattività allo stress, disfunzioni celebrali, attaccamento insicuro ad alto indice o disorganizzato (Ijzendoorn et al., 1999), elevata sensibilità alle emozioni espresse (Brown, Birley, & Wing, 1972) e conflitto intra-famigliare (Davies e Cummings, 1994). Questi fattori di rischio hanno in comune l’effetto di produrre alti livelli di arousal che interferiscono con lo sviluppo di strategie di regolazione emotiva.

Nella sua iniziale formulazione Bowlby indicava chiaramente che un attaccamento insicuro poteva essere visto come fattore di vulnerabilità a forme di psicopatologia in età più avanzata. Studi trasversali su popolazioni cliniche e “a rischio” hanno dimostrato un tasso significativamente superiore di persone con attaccamento insicuro rispetto alla popolazione di riferimento (Goldberg, 1993). Tale tesi trova conferma anche negli studi di etologia sugli effetti di una inadeguata regolazione diadica tra il piccolo e la madre in una popolazione di scimmie rhesus. Gli esperimenti condotti confermano infatti che i piccoli di scimmia che avevano riscontrato risposte incoerenti e inadeguate alle proprie richieste emotive mettevano in atto successivamente comportamenti insolitamente impulsivi, insensibili ed esageratamente aggressivi nelle interazioni con gli altri membri del gruppo (Suomi, 2003).

Strategie di regolazione emotiva e sviluppo psicopatologico

Gli studi sulla regolazione emotiva dei soggetti affetti da disturbo borderline di personalità dimostrano che per questa popolazione le emozioni risultano particolarmente difficili da regolare. I principali problemi che questi soggetti incontrano riguardano proprio l’aspetto della modulazione emotiva che, risultando deficitaria e cronicamente compromessa, impedisce loro di usare in maniera efficace le strategie di regolazione. Essendo vittime di un’eccessiva attivazione emotiva e fisiologica, tali soggetti incontrano serie difficoltà ad usare quelle strategie che consentirebbero di modulare la risposta emotiva e smorzare i correlati fisiologici ad essa associati. Lo stato di stress cronico che ne deriva alimenta l’uso di strategie di regolazione dello stato emotivo disfunzionali (es. atti auto/etero lesivi). Anche i disturbi definiti internalizzati costituiscono un valido esempio di compromessa regolazione emotiva: essi comprendono in maniera prevalente i disturbi dell’ansia e dell’umore e rappresentano un caso emblematico di specifica modalità di regolazione emotiva atipica che può comportare uno sviluppo psicopatologico (Bradley, 2000). Le aree della disregolazione che risultano più implicate sono quelle relative alle modalità di coping e alla regolazione dei fattori neurobiologici coinvolti nella risposta allo stress. I bambini a rischio d’insorgenza di sintomi internalizzati adottano strategie di coping improntate alla repressione dell’emotività negativa, al ritiro, all’uso ridotto del supporto sociale e all’idealizzazione di relazioni affettive problematiche. L’interiorizzazione della rabbia e dell’ostilità sarebbe così alla base dello sviluppo sintomatico.

Più di recente, alcune ricerche mettono in luce, grazie al supporto di tecnologie provenienti dalle neuroscienze, come esista uno stretto legame tra modulazione emotiva e regolazione emotiva. La regolazione emotiva, infatti, non è qualcosa che subentra dopo l’esposizione ad uno stimolo emotivo, bensì costituisce un processo che esiste prima e/o durante la risposta emotiva allo stress (Putnam & Silk, 2005). Di seguito alcuni esempi sul funzionamento di alcuni meccanismi regolatori quali la “soppressione delle emozioni” e il “reappraisal cognitivo”: se si istruiscono i soggetti a inibire le espressioni facciali (soppressione) mentre stanno guardando alcune scene disgustose di un film, questa inibizione comporta un incremento dell’arousal (Gross, 1999).

Altri studi rilevano gli effetti di meccanismi di reapparaisal sulla regolazione emotiva: se si istruiscono i soggetti a rimanere distaccati nei confronti di materiale emotivo, aumenta l’espressività emotiva ma non l’arousal: in questo senso si può ipotizzare che le due forme di regolazione delle emozioni comportino effetti differenti e che sia solo l’ultima quella che non implica, sul lungo periodo, costi elevati per la salute fisica e psicologica, mentre sopprimere l’espressione delle emozioni comporterebbe rischi maggiori per la salute mentale e il benessere psicologico (Putnam & Silk, 2005).

Alla luce di ciò è possibile concludere che i trattamenti psicoterapici di soggetti con deficit di regolazione emotiva possano esplorare che repertorio i soggetti mettano in atto per regolare le loro emozioni e quanto sia efficace/funzionale tale repertorio nel medio e lungo termine con lo scopo di identificare i meccanismi di funzionamento disfunzionali e lavorare sui deficit di regolazione emotiva. Uno strumento che potrebbe essere utile a tal fine è la DERS (DERS: Difficulties in Emotion Regulation Scale, Gratz & Roemer, 2004).

Efficacia del riluzolo nei pazienti con depressione da moderata a grave

Recenti evidenze scientifiche hanno mostrato l’ efficacia del riluzolo anche nel trattamento della depressione unipolare, persino tra i pazienti che non mostrano miglioramenti con altri trattamenti farmacologici e psicoterapeutici.

Il riluzolo è un farmaco ampiamente utilizzato per ritardare il ricorso alla ventilazione meccanica e prolungare la vita nei pazienti affetti da sclerosi laterale amiotrofica (SLA). Tale farmaco agisce inibendo l’attività del glutammato, il principale neurotrasmettitore eccitatorio del sistema nervoso centrale, che si ipotizza svolga un ruolo centrale nella degenerazione dei motoneuroni.

 

Efficacia del riluzolo per la depressione

Recenti evidenze scientifiche, tuttavia, hanno mostrato l’ efficacia del riluzolo anche nel trattamento della depressione unipolare, persino tra i pazienti che non mostrano miglioramenti con altri trattamenti farmacologici e psicoterapeutici. E’ noto, infatti, come la depressione sia caratterizzata da una disregolazione glutammatergica e come il riluzolo possieda proprietà antiepilettiche, neuroprotettive e modulatorie di grande interesse per il trattamento dei pazienti depressi.

Nel tentativo di fornire ulteriori prove a favore dell’ efficacia del riluzolo, il team della dott.ssa Salardini dell’Università di Tehran ha voluto indagare l’effetto del riluzolo in un campione di 64 pazienti con depressione da moderata a grave (criteri DSM-IV-TR), con età compresa tra 18 e 50 anni. I soggetti venivano inclusi nello studio se ottenevano un punteggio alla Hamilton Depression Rating Scale (HDRS) superiore a 19, con un punteggio di 2 o più nell’item 1. In aggiunta, la diagnosi di Disturbo Depressivo Maggiore veniva confermata tramite l’impiego della Intervista Clinica Strutturata per i Disturbi di Asse I (SCID-I).

 

Il trial clinico:  citalopram, riluzolo, placebo

In seguito i pazienti erano divisi in due gruppi: ad entrambi veniva somministrata una dose di citalopram (20 mg al giorno per la prima settimana e 40 mg al giorno per le successive 5 settimane), tuttavia il gruppo sperimentale beneficiava anche di una dose di 50 mg riluzolo mentre il gruppo di controllo assumeva un placebo al posto del SSRI.

Al termine dello studio, durato 6 settimane e comprendente tre momenti di valutazione (seconda, quarta e sesta settimana), i risultati confermavano le precedenti evidenze scientifiche: il gruppo sperimentale mostrava miglioramenti significativi (93,3%) e più veloci rispetto al gruppo di controllo (53,3%).

Trattandosi di un randomized controlled trial (RCT) condotto in doppio cieco, i risultati di questo studio sono di primaria rilevanza.

Sebbene la numerosità del campione non fosse elevata e i ricercatori non abbiano considerato alcun outcome fisiologico rispetto alle concentrazioni di glutammato, la percentuale di pazienti che beneficiavano immediatamente del a era significativamente superiore rispetto al gruppo di controllo trattato con citalopram e placebo.

I successivi studi avranno il compito di chiarire come l’ efficacia del riluzolo nel ridurre la concentrazione di glutammato nei pazienti depressi, ad esempio, come suggerito dal team della Salardini, incrementandone il metabolismo o la ricaptazione.

Terapia Razionale Emotiva: i corsi ufficiali in Italia dell’Albert Ellis Institute

La Terapia razionale emotiva di Albert Ellis

La Terapia razionale emotiva (in inglese Rational-Emotive Behaviour Therapy, REBT), elaborata dallo psicologo americano Albert Ellis negli anni Cinquanta, è una teoria e prassi psicoterapeutica di impostazione cognitivo-comportamentale basata sul principio fondamentale secondo cui la sofferenza mentale deriva da credenze e valutazioni automatiche degli eventi (per es., “non deve/può succedere”, “non posso sopportarlo”, “sarà terribile”), che il soggetto si autoinfligge.

Sono quindi gli individui a strutturare, più o meno inconsapevolmente, i propri “disturbi emotivi”; d’altra parte, sono essi stessi a possedere la fondamentale capacità di modificare le proprie convinzioni e la propria “filosofia di vita”, oltre che il proprio comportamento, in modo da raggiungere una vita emotiva più soddisfacente.

I corsi ufficiali REBT in Italia

SEDE DEI CORSI REBT ITALIA none

In Italia la Scuola di Specializzazione in Psicoterapia Studi Cognitivi organizza i corsi ufficiali REBT base (Primary Practicum), avanzato (Advanced Practicum) e il corso di terzo livello per diventare psicoterapeuti esperti della Rational Emotive Behavioral Therapy (Associate Fellowship Certificate Program) in collaborazione con l’ Albert Ellis Institute.

Docenti dei corsi REBT in Italia

  • Kristene Doyle, Ph.D., Sc.D., è Direttore dell’Albert Ellis Institute (AEI). Il Dr. Doyle è anche Direttore dei Servizi Clinici, psicologo abilitato dello staff e supervisore clinico dell’AEI. È Professore associato alla St. John’s University di New York.
  • Raymond DiGiuseppe, Ph.D., Sc.D., è Direttore della Formazione Professionale, psicologo abilitato dello staff e supervisore clinico dell’AEI. È anche Professore e Rettore del Dipartimento di Psicologia alla St. John’s University di New York. È Presidente della Division 29 (Psicoterapia) della American Psychological Association.
  • Ennio Ammendola, M.A., M.H.C., è terapeuta e supervisore REBT all’AEI e Doctoral candidate alla Fordham University di New York.
  • Giovanni M. Ruggiero, M.D. è terapeuta cognitivo e supervisore REBT. Inoltre è Didatta di terapia cognitiva riconosciuto dalla Società Italiana di Terapia Cognitiva e Comportamentale (SITCC) e Didatta presso la Scuola di specializzazione in Psicoterapia Cognitiva “Studi Cognitivi” di Milano.

Il Corso base REBT (Primary Practicum)

Il Primary è il primo livello di apprendimento della Terapia razionale emotiva. Studi Cognitivi è lieta di poterlo offrire in Italia nel formato originale in cui è effettuato all’Albert Ellis Institute (AEI) di New York, condotto dai più prestigiosi e qualificati terapisti e supervisori REBT certificati a livello internazionale, a cominciare dai due direttori dell’AEI, Kristene Doyle e Raymond DiGiuseppe, quest’ultimo anche professore di Psicologia alla St. John University di New York.

Il Primary è un corso intensivo di tre giorni che include lezioni teoriche ed esercitazioni in cui la REBT si pratica in colloqui di “peer-counseling” tra gli iscritti al corso, sotto la supervisione dei docenti del corso. Le esercitazioni avvengono in gruppi di 8 partecipanti seguiti da un singolo docente.

I partecipanti impareranno la teoria della Terapia razionale emotiva dei disturbi emotivi e del cambiamento terapeutico dai principali operatori REBT e avranno l’opportunità di praticare la loro abilità in piccoli gruppi e di ricevere un feedback immediato da un supervisore certificato.

Programma del corso Primary Practicum

I partecipanti impareranno a:

  • comprendere e applicare la teoria REBT dei disturbi psicologici;
  • applicare il modello ABC a una vasta gamma di problematiche cliniche;
  • identificare e disputare i pensieri disfunzionali dei clienti;
  • incoraggiare i clienti a elaborare pensieri, emozioni e comportamenti più adattivi;
  • sviluppare e applicare protocolli REBT per il trattamento di rabbia, ansia e depressione.

 

 

Il corso avanzato REBT Advanced Practicum

L’Advanced Practicum è il secondo livello di apprendimento della Terapia razionale emotiva. Studi Cognitivi è lieta di poterlo offrire in Italia nel formato originale in cui è effettuato all’Albert Ellis Institute (AEI) di New York, condotto dai più prestigiosi e qualificati terapisti e supervisori REBT certificati a livello internazionale, a cominciare dai due direttori dell’AEI, Kristene Doyle e Raymond DiGiuseppe, quest’ultimo anche professore di Psicologia alla St. John University di New York.

L’Advanced è un corso intensivo di quattro giorni che comprende, come il Primary, lezioni teoriche ed esercitazioni di “peer counseling”. L’obiettivo principale dell’Advanced è l’apprendimento e l’approfondimento delle tecniche di disputa: disputa empirica, disputa logica e disputa pragmatica, condotte in vari stili differenti: socratico, didascalico, umoristico, immaginativo, comportamentale.

Nelle lezioni teoriche si illustrerà l’applicazione della Terapia razionale emotiva a problemi di coppia e a pazienti difficili. Le esercitazioni di “peer counseling” dell’Advanced sono focalizzate sulla disputa. Anche le esercitazioni dell’Advanced avvengono in gruppi di otto partecipanti seguiti da un singolo docente.

Programma dell’ Advanced Practicum

I partecipanti impareranno a:

  • applicare e approfondire intensamente le varie tecniche di disputa REBT;
  • comprendere la filosofia alla base della Terapia razionale emotiva;
  • comprendere come la Terapia razionale emotiva (REBT) concepisce il concetto di accettazione;
  • comprendere come la REBT concepisce l’alleanza terapeutica;
  • applicare la REBT a problemi relazionali e di coppia;
  • applicare la REBT a pazienti resistenti e difficili;
  • integrare nella REBT tecniche comporta-mentali e immaginative.

 

 

Il Corso di terzo livello: Associate Fellowship Certificate Program

L’Associate Fellowship Certificate Program è il più alto livello di apprendimento della Terapia razionale emotiva. Studi Cognitivi è lieta di poterlo offrire in Italia nel formato originale in cui è effettuato all’Albert Ellis Institute (AEI) di New York, condotto dai più prestigiosi e qualificati terapisti e supervisori REBT certificati a livello internazionale, a cominciare dai due direttori dell’AEI, Kristene Doyle e Raymond DiGiuseppe, quest’ultimo anche professore di Psicologia alla St. John University di New York.

L’Associate Fellowship Certificate Program è un corso intensivo di quattro giorni che comprende, come il Primary e l’Advanced, lezioni teoriche, esercitazioni di “peer counseling” e ascolto e analisi di segmenti di sedute registrate dei partecipanti.

Le esercitazioni di “peer counseling” dell’Associate Fellowship Certificate Program sono focalizzate sull’ascolto e analisi critica di sedute registrate e/o descritte dettagliatamente per iscritto. Anche le esercitazioni dell’Associate Fellowship avvengono in gruppi di otto partecipanti seguiti da un singolo docente.

Programma del corso:

Gli obiettivi principali dell’Associate Fellowship sono:

  • l’applicazione delle tecniche di accertamento e disputa al cliente resistente e difficile;
  • l’apprendimento della teoria cognitiva e REBT dei disturbi di personalità;
  • l’applicazione delle tecniche REBT ai clienti con disturbi alimentari e dipendenti da sostanze.

 

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Come sarà il 2016? Saremo più corretti, non solo politicamente

Questo articolo è stato pubblicato da Giovanni Maria Ruggiero su Linkiesta il 02/01/2016

Come sarà il 2016? L’obiettivo non sarà solo eliminare ogni aggressione, ma ogni minima ambiguità, ogni micro-aggressione. Micro-aggressione è la parola-chiave da imparare per il 2016.

Come sarà il 2016? Nel bene e nel male sarà più corretto –non solo politicamente- e socialmente civile del 2015. Si va in quella direzione. In una società differenziata in cui sempre più culture convivono e sono condannate a interagire, diventerà sempre più essenziale evitare ogni motivo di conflitto.

La società ci chiederà di diventare ogni giorno più controllati e attenti a ogni minima inappropriatezza verbale. L’obiettivo non è solo eliminare ogni aggressione, ma ogni minima ambiguità, ogni micro-aggressione. Micro-aggressione è la parola-chiave da imparare per il 2016. Ancora non è arrivata tra noi, ma circola ormai da anni nell’anglofonia, dove l’appropriatezza civile informa di sé ogni rapporto sociale.

Micro-aggressioni è un termine coniato dallo psicologo Chester M. Pierce negli anni ’70 e indica tutte le frasi, espressioni e comportamenti che posseggono, anche solo potenzialmente, un significato svalutativo verso gruppi di persone definiti dall’etnia, dall’orientamento sessuale, religioso o culturale (Pierce, 1977; Sue, 2007).

È un termine, micro-aggressioni, particolarmente utile per comprendere a fondo il suo parente stretto concettuale, il politicamente corretto. Il politicamente corretto esprime il giusto bisogno di rapporti sociali costruiti sull’irripetibilità dell’individuo libero e autonomo, in cui non si è prigionieri di alcun clan e gruppo sociale e in cui non si è etichettati semplicisticamente in base all’etnia, alla religione o alla preferenza sessuale.

L’alta faccia della medaglia è quel micro che rivela che questo bisogno, per realizzarsi è costretto a incarnarsi in un’ossessiva attenzione a qualunque micro-manifestazione che potenzialmente abbia un significato svalutativo, anche indiretto.

Questa pagina dell’ APA, ovvero la American Psychological Association riporta una particolareggiata casistica e nomenclatura, in qualche modo il moderno corrispettivo del rigido galateo di epoche passate. Non ci sono solo le micro-aggressioni, ma anche i micro-assalti, i micro-insulti e le micro-invalidazioni. I micro-assalti sono le azioni o insulti più coscienti e intenzionali, come gli epiteti razziali o l’uso della svastica. E su questi casi siamo tutti d’accordo. I micro-insulti sono più subdoli. Sono le comunicazioni verbali e non verbali che sottilmente trasmettono maleducazione e insensibilità e sviliscono il retroterra culturale di una persona. Le micro-invalidazioni sono le comunicazioni che sottilmente escludono o negano i pensieri, i sentimenti o le esperienze di una persona.

Questa tendenza molto probabilmente prenderà piede sempre di più anche da noi. Anche da noi ci sarà sempre più attenzione alle micro-aggressioni, malgrado millenni di abitudine italiana a una comicità aggressiva e feroce, dai fescennini degli antichi romani alla commedia dell’arte.

Malgrado qualche eccesso, la tendenza alla correttezza è positiva, è espressione della benedetta tendenza umana a diminuire sempre di più la violenza e l’aggressività. Lo dimostra lo psicologo Steven Pinker in un bel libro: ‘Il declino della violenza’ (Pinker, 2013).

Anche perché il fronte opposto sembra indebolirsi ogni anno che passa. Tutti i tentativi di proporre alternative al politicamente corretto, ovvero delle zone franche di scorrettezza, sembrano non riuscire a governare una irrimediabile tendenza alla deriva becera. Alcuni tentano di cavarsela avvolgendo le loro irriverenze con un velo di cultura. L’operazione per un po’ riesce, ma la necessità di doversi continuamente distinguere dalle forme più popolari e pecorecce di scorrettezza politica, che siano la Lega Nord in Italia o Donald Trump in USA, finiscono per condannare queste forme di scorrettezza politica al velleitarismo e al logoramento, nonché a una strana forma di snobismo rovesciato.

Fin qui tutto bene. Tuttavia quando andiamo a vedere gli esempi concreti riportati dal testo dell’APA la linea a favore della correttezza politica mostra anch’essa delle crepe. Gli esempi sono abbastanza inquietanti. Secondo l’APA chiedere a un afro-americano come ha ottenuto il suo lavoro è un micro-insulto, perché insinua che lo abbia ottenuto attraverso una affirmative action. E chiedere a un asiatico-americano dove sia nato è una micro-invalidazione, perché trasmette il messaggio che essi siano stranieri perpetui. Nel dicembre 2014 Jeannie Suk ha scritto sul New Yorker che gli studenti di legge a Harvard chiedono di essere avvertiti dell’eventualità che a lezione si parli della legislazione penale dei casi di stupro per non correre il rischio di subire ricordi traumatici.

Secondo i due sociologi Bradley Campbell e Jason Manning il politicamente corretto coincide con un vero e proprio cambio di paradigma morale, forse il terzo grande cambiamento socio-morale dell’umanità in epoca storica.

Il primo paradigma fu quello dell’onore e della reputazione, in cui ogni individuo poteva e doveva rispondere con la violenza a ogni attacco al proprio rango sociale. Questo paradigma ha dominato le età guerriere e nobiliari ed è entrato definitivamente in crisi con la modernità. Tuttavia il processo di deterioramento di questa visione morale era già iniziato da millenni con la comparsa dei grandi sistemi di pensiero religioso e morale dell’età assiale, ovvero dal VI secolo A.C. in poi. Questi sistemi comprendono il profetismo ebraico, la filosofia greca, il cristianesimo e anche il buddismo, tutti fenomeni storici non a caso disprezzati dal superomismo di Nietzsche (con la parziale eccezione del buddismo, di cui Nietzsche non colse la natura anti-eroica e anti-aristocratica).

Nell’età moderna, con il sorgere dello Stato di Diritto a seguito delle grandi rivoluzioni inglese, americana e francese il paradigma dell’onore (honor) è sostituito da quello della dignità (dignity). L’individuo è un cittadino fornito di diritti e intrinsecamente fornito di dignità personale inalienabile da qualunque offesa. Il cittadino, a differenza del guerriero e del nobile, non dedica energie a custodire il suo onore e a vendicare col sangue offese perpetrate al suo rango.

Il terzo paradigma è quello attuale del politicamente corretto. In questo paradigma la sensibilità a qualunque offesa è di nuovo elevata, un po’ come nel primo paradigma, quello dell’onore. È curioso osservare come anche il paradigma dell’onore fosse sensibilissimo a ogni micro-offesa e che ogni sgarro era lavabile con il sangue. La letteratura è piena di questi esempi, dal conflitto d’onore tra Achille e Agamennone alle vicende del puntiglio nei Promessi Sposi, vero poema della vacuità dell’onore: da Fra Cristoforo che in giovinezza e prima di farsi frate duella per un problema di precedenza in strada a Don Rodrigo che perseguita Renzo e Lucia per conservare l’onore messo in pericolo in una futile scommessa.

Tuttavia il politicamente corretto rovescia sia la direzione delle micro-aggressioni che le modalità di soddisfazione. Nel mondo dell’onore sono le classi dominanti a essere sensibilissime alle offese e la soddisfazione avviene per impegno personale: il duello. Nel politicamente corretto invece è il soggetto debole a essere sensibile a ogni possibile offesa e la soddisfazione avviene in maniera impersonale, ricorrendo alla legge.

Formulato in questa maniera, il politicamente corretto non è esente da rischi. Non a caso Campbell e Manning lo chiamano paradigma della victimhood, ovvero del vittimismo, termine non esattamente lusinghiero. Chi ne ha sottolineato questi rischi è Jonathan Haidt, un filosofo che da anni di occupa di dilemmi morali. Egli è stato tra i primi a notare come la victimhood, pur discendendo dalla dignity, ha singolari punti di contatto con il paradigma dell’honor.

Forse questa è una delle chiavi con le quali possiamo rispondere a uno dei più singolari paradossi dell’età contemporanea: come è possibile che Nietzche, il cantore della morale guerriera e aristocratica dell’onore e della sopraffazione sia anche diventato un ispiratore del pensiero progressista? E come altresì sia possibile che questo pensiero progressista possa a volte essere tentato di ripudiare il cristianesimo, che è una religione della vittima? Forse per questi intrecci confusi tra onore arcaico e moderna senibilità alle micro-aggressioni.

Haidt, con le sue riflessioni sui tre paradigmi delineati da Campbell e Manning, ci avverte sui rischi di questo innesto di ipersensibilità arcaica all’offesa nella modernità. La nuova cultura morale del vittimismo può favorire il logoramento della capacità individuale di gestire i piccoli problemi interpersonali della quotidianità. Si crea una società di conflitti morali costanti e intensi, in cui le persone competono per ottenere i vantaggi della condizione di vittime e/o difensori delle vittime.

Strategie di Regolazione emotiva: le emozioni regolano e sono regolate

Strategie di regolazione emotiva: Le teorie funzionaliste sulla regolazione emotiva enfatizzano il modo in cui le emozioni possano facilitare l’adattamento all’ ambiente favorendo la preparazione di rapide risposte comportamentali, la presa di decisione, i processi cognitivi e attentivi, la registrazione in memoria di eventi significativi e fornendo informazioni aggiornate riguardo la corrispondenza tra l’organismo e l’ambiente circostante.

Roberta Casadio, OPEN SCHOOL STUDI COGNITIVI MODENA

Cosa sono le emozioni: le teorie

Secondo Scherer (1984), il termine “stati affettivi” comprende diverse condizioni, incluse “risposte allo stress”, “emozioni”, “umore” e “altri impulsi motivazionali”. Questi termini sono differenziati sia concettualmente che empiricamente. Le emozioni sono un tipo di stato affettivo specifico, sono elicitate da uno stimolo (interno o esterno) saliente agli scopi dell’individuo e hanno una temporalità relativamente breve (Gross & John, 1995).
Nonostante negli ultimi anni ci sia stata una proliferazione della letteratura scientifica a proposito di regolazione emotiva, ancora oggi non è chiaro se con questo termine ci si riferisca specificatamente alla funzione regolatoria che le emozioni esercitano su altri processi, oppure a come le emozioni siano regolate.

Le teorie funzionaliste sulla regolazione emotiva enfatizzano il modo in cui le emozioni possano facilitare l’adattamento all’ambiente favorendo la preparazione di rapide risposte comportamentali, la presa di decisione, i processi cognitivi e attentivi, la registrazione in memoria di eventi significativi e fornendo informazioni aggiornate riguardo la corrispondenza tra l’organismo e l’ambiente circostante (Schwartz & Clore, 2003). Le emozioni hanno anche delle funzioni regolatrici sociali; esse infatti forniscono informazioni sulle intenzioni degli altri, sulla bontà di una data situazione, scritturano i nostri comportamenti sociali e utilizzano rappresentazioni mentali esistenti come script per agire in situazioni socialmente simili (Keltner & Kring, 1998).

La regolazione emotiva

Generalmente quando pensiamo alla regolazione emotiva, sopratutto nella cultura occidentale, facciamo subito riferimento alla capacità dell’individuo di diminuire gli aspetti esperienziali ed espressivi di emozioni negative quali rabbia, paura e tristezza (Gross, Richards & John, 2006). Questo non vuol dire che le emozioni positive non siano regolate; anch’esse lo sono, ad esempio quando cerchiamo di trattenere la nostra gioia o la nostra attrazione verso un oggetto. Di fatto, uno dei presupposti di partenza nella regolazione emotiva è che esse insorgono quando è presente una situazione saliente e che qualunque sia la situazione, è il significato che le viene assegnato a determinare l’ emozione connessa. Qualora il significato cambiasse (perché è cambiata la situazione o perché è cambiato il significato che vi è stato assegnato), allora anche l’emozione connessa cambierà.

Non esistono assunzioni a priori di come una strategia di regolazione emotiva sia funzionale o meno (Thompson & Calkins, 1996). Questa specificazione è importante poiché evita la confusione che si è creata nella letteratura sullo stress e sul coping (strategie di fronteggiamento) laddove le “difese” erano considerate non adattive e le “strategie di coping” adattive (Parker & Endler, 1996). In questa prospettiva, le strategie di regolazione emotiva possono essere utilizzate per migliorare o peggiorare le cose in base al contesto. Ad esempio, la capacità di abbassare l’ intensità emozionale potrebbe essere utile ad un medico per operare in una condizione di stress, ma allo stesso tempo, potrebbe neutralizzare le emozioni negative associate all’empatia, e quindi renderlo meno accogliente e comprensivo nei confronti di un paziente. Questo significa che un sistema di regolazione emotiva, per essere efficace, deve essere flessibile e responsivo ai cambiamenti contestuali e nello stesso tempo mantenere il proprio equilibrio.

Strategie di regolazione emotiva

Tuttavia, studi empirici dimostrano come alcune strategie possano considerarsi più adattive di altre (ie. Hopp, Troys & Mauss, 2010).

Strategie di regolazione emotiva adattative

Di seguito, sono descritte 3 strategie di regolazione emotiva adattive:

– Ristrutturazione cognitiva (reapprisal): consiste nella generazione di interpretazioni o prospettive positive su una situazione stressante, in modo da ridurne gli effetti negativi.

– Problem-Solving: è un tentativo volontario di cambiare una situazione stressante o di contenere le sue conseguenze.

– Accettazione: con questo termine ci si riferisce all’ accettazione non giudicante della esperienza emozionale.

Strategie di regolazione emotiva non adattative

3 strategie di regolazione emotiva non adattive nel lungo termine:
– Soppressione della esperienza emozionale
– Evitamento: due sono le modalità con cui si può mettere in atto questa strategia; una si riferisce alla dimensione esperienziale dell’emozione, mentre l’altra a quella comportamentale.
– Rimuginio e ruminazione: invece che evitare o sopprimere l’esperienza emozionale, certi soggetti regolano le proprie emozioni soffermandosi in modo ripetitivo sull’ esperienza di tali emozioni, le loro cause e le loro conseguenze.

Questa classificazione suggerisce l’importanza di valutare e lavorare sulle strategie di regolazione emotiva in psicoterapia, e di considerare come il loro utilizzo inflessibile possa contribuire all’ insorgere e al mantenimento di un disturbo.

Il tormento del cercatore di tracce Parte III – Tracce del tradimento nr. 39

TRACCE DEL TRADIMENTOIl tormento del cercatore di tracce Parte III (Nr. 39)

 

Un altro errore caratteristico che ci mette sulle tracce dell’ immaginare un tradimento è quello che viene chiamato il ragionamento emotivo. Ovvero utilizzare le conseguenze come conferma delle cause secondo un ragionamento del tipo ”se sento gelosia, vuol dire che c’è un motivo valido”.

Lo stato emotivo può essere preso come fonte di informazione sul mondo (affect as information); operando una sorta di ragionamento emozionale, il soggetto utilizza lo stato affettivo come informazione confermante la percezione di tradimento (non discrimina tra fatti e stato emotivo). Se mi sento così ci sarà pure un motivo, quante volte viene sostenuto che qualcosa è vera semplicemente perché il soggetto “se lo sente”. Esistono inoltre un’altra serie di bias cognitivi che si presentano sistematicamente e che vanno a rinforzare il confermazionismo.

L’ esagerata fiducia in se stessi (overconfidence) consiste nel fatto che gli individui tendono ad essere sicuri delle loro credenze molto più di quanto esse siano realmente affidabili e ciò aumenta con la competenza per cui spesso facciamo grandi errori proprio nei campi in cui siamo più esperti e siamo assolutamente certi di aver ragione. Una cosa su cui quasi tutti, spesso a torto, ritengono di essere competenti è la conoscenza del proprio partner e quanto più riteniamo di conoscere una persona, tanto più siamo poco disposti a cambiare idea nei suoi confronti. Per questo il tradito (non geloso) è classicamente l’ultimo a rendersi conto del tradimento assolutamente evidente a tutti. Al contrario il cercatore certo di aver capito cosa alberga nel cuore del partner non sarà facilmente disposto a mettersi in discussione.

Un altro caratteristico errore cognitivo è il pensiero magico (illusory correlations) per cui quando si è convinti di una correlazione positiva tra due eventi se ne trovano continuamente nuove ed evidenti conferme che ne giustificano le cause anche se ciò è del tutto falso ed illusorio. Se l’attenzione è rivolta ad una particolare persona come possibile insidioso rivale il cercatore troverà mille collegamenti tra il suo partner, i suoi oggetti, le sue preferenze e in generale la sua vita e il presunto rivale e tutto varrà come conferma della nascosta relazione. Si va dalla complementarietà dei segni zodiacali alla preferenza per lo stesso genere musicale, dal comune interesse per la montagna al concomitante raffreddore, dalla simile opinione politica alla simpatia per una certa razza di cani. E’ ovvio che tra due qualsiasi persone, anche molto diverse tra loro, sono innumerevoli se non infinite le correlazioni del genere che si possono trovare nella loro vita: basta cercare e sbocceranno come fiori.

Un altro tipico errore cognitivo utilizzato dai cercatori è il cosiddetto ancoraggio (anchoring) secondo il quale la revisione di un giudizio intuitivo, impulsivo, non sarà mai tale da annullarlo del tutto e inconsapevolmente resteremo sempre ancorati al giudizio iniziale facendo soltanto delle correzioni a partire da questo. Detto in altre parole se si afferma una cosa, magari è esagerata ma qualcosa di vero deve pur esserci. Se in campagna elettorale vengono promessi un milione di posti di lavoro e poi tale risultato non viene raggiunto comunque la gente penserà che i posti creati siano vicini a questa cifra e non che siano soltanto quarantacinque. Ancora se un individuo viene accusato di crimini orrendi anche se in seguito risulta completamente scagionato si tenderà a pensare che qualcosa di losco dovesse pur esserci cosicchè la calunnia, anche quando si dimostra palesemente tale, raggiunge in parte il suo scopo. Questo meccanismo che ci rende cognitivamente conservatori e poco inclini a cambiare idea radicalmente è particolarmente attivo quando la ricerca delle tracce viene attivata da voci, consigli di persone che si preoccupano del bene del soggetto e dunque lo vogliono mettere in guardia per evitargli penose sofferenze. Questo punto è  importante, ci sarebbe da chiedersi quali siano gli scopi di chi si mette sulle tracce di un tradimento.

Peppino viveva in una isola siciliana e aveva sposato una moglie più giovane di lui con la quale aveva avuto 4 figli. La coppia non andava molto d’accordo, ma avevano un affetto reciproco e una conflittualità che in fondo li divertiva. Quando il più grande andò a fare la prima elementare a Messina, la moglie nel periodo scolastico si trasferì a Messina con lui. Lì si fece qualche amica e cominciò ogni tanto ad andare al bar e a chiacchierare con le amiche mentre i figli le stavano intorno. Al marito arrivò una lettera anonima che gli diceva di stare attento alla moglie…
Lui andò a Messina e si nascose per vedere come andavano le cose. Nascosto tra i cespugli vide sua moglie che entrava al bar con i bambini piccoli, salutava il cameriere, era accolta con un sorriso dal padrone del caffè e faceva due battute con un signore vicino, mentre aspettava le amiche. Questo comportamento della moglie gli sembrò la conferma del tradimento avvenuto o incombente. L’anno dopo decise di trasferirsi in America dove aveva dei parenti per far sì che la moglie fosse sotto controllo. Il trasferimento in America, che lo fece disperare, rovinò il suo matrimonio e alla fine di tutto lui restò solo, tornò in Italia e i figli rimasero negli Stati Uniti ed egli li vede quando vengono a trovarlo nel periodo estivo..

Dei possibili tradimenti si parla molto, anzi spesso è uno degli argomenti di intrattenimento preferiti. Le donne non amano particolarmente parlare dei propri ma si dilungano su quelli veri o presunti delle loro amiche e in generale degli uomini, tranne quelli del loro uomo. Gli uomini con gli amici più intimi parlano più facilmente dei loro e spesso li esibiscono a dimostrazione della loro virilità come trofei di caccia, con meno facilità ammettono di essere perdutamente innamorati e narrano con imbarazzo ciò che tale sentimento li ha portati a fare. Comunque sia di tradimenti si parla molto, sia di quelli effettivi che di quelli solamente immaginati che passando di bocca in bocca acquistano consistenza, diventano reali e si arricchiscono di particolari. In questo modo il fenomeno dell’ancoraggio ha buon gioco. Le fanciulle di Don Giovanni non saranno state mille e tre ma certo qualcosa di molto simile, certamente non meno di duecento.

Tra tutti i bias cognitivi il più insidioso per il cercatore è la facile rappresentabilità (ease of representation) secondo la quale l’effettiva possibilità che un certo evento si verifichi è sovrastimata se l’evento è facile da immaginare mentalmente e se ci impressiona emotivamente. Così se vediamo un grave incidente stradale siamo portati a rallentare come di fronte ad una pubblicità emotivamente forte sui rischi della strada anche se queste due situazioni non aumentano di fatto la probabilità che ci capiti un incidente; lo stesso effetto di rallentamento non lo ottengono invece le statistiche sulla mortalità stradale. Per lo stesso motivo tutti siamo più disposti ad offrire soldi per la ricerca medica per malattie di cui conosciamo personalmente dei malati o abbiamo visto in televisione le immagini piuttosto che per malattie magari molto più diffuse e gravi ma che non ci rappresentiamo mentalmente. Ora nella mente di un cercatore l’immagine del tradimento è sempre presente, si impone con forza e più tenta di scacciarla (essendo impossibile cercare di non pensare a qualcosa se non pensandoci) più diventa invasiva. Egli rimugina costantemente sulle parole che si sono scambiati i due sospettati durante l’ultima cena in comune, cerca di mettere a fuoco alcuni particolari ingrandendoli fino a sgranarne l’immagine: nel salutarsi dove si è poggiata la bocca di lui in piena guancia o sull’incerto confine delle labbra? Quando lui le porgeva la mano per aiutarla a scendere dalla macchina quei due corpi non mostravano forse una intesa e una familiarità inconsueta per due conoscenti che si frequentano poco? Le risate di lei così eccessive alla battuta di lui sono iniziate prima di quelle degli altri, prima della conclusione della frase, quasi che lei già sapesse, che avesse già sentito quella storia? La narrazione che lei fa di una serie di eventi è come lacunosa, si stenta a seguirne il filo, solo lui capisce, annuisce, si diverte, è come se sapesse qualcosa che gli altri ignorano, condivide con lei delle conoscenze e dei riferimenti che gli altri non hanno? Il cameriere del ristorante che dovrebbe essere sconosciuto ha mostrato una confidenza eccessiva e forse la conoscenza dei gusti di lui come e se già vi si fosse recato in altre occasioni?

Il cercatore ha sempre in mente la scena del tradimento, si tortura immaginando i fotogrammi della sequenza dell’incontro gioioso dei due che si corrono incontro, li immagina che parlano di lui mostrando ora pena, ora ironia, costruisce decine di versioni di possibili modalità di rapporti sessuali, ogni luogo viene preso in considerazione come probabile alcova e ogni ginnastica amorosa è contemplata: probabilmente il Kamasutra è stato scritto dall’ immaginazione di un geloso. Il tradimento dunque è costantemente e dettagliatamente rappresentato in tutti i particolari nella mente del cercatore che proprio per questo finisce per stimarlo come assolutamente probabile: l’immaginazione costituisce una prova per l’esistenza della realtà, o meglio la crea dal nulla.

Infine l’ennesimo bias in cui cade il cercatore è la manipolabilità delle credenze attraverso copioni (reconsideration under suitable scripts) che consiste nel fatto che un evento giudicato altamente improbabile, come ad esempio un’ invasione italiana della Svizzera con la messa al sacco di Zurigo, venga giudicato estremamente più probabile dopo che al soggetto vengono narrati degli scenari intermedi che potrebbero, passo dopo passo, condurre a tale conclusione come ad esempio la secessione della Padania, l’alleanza della Padania con la Svizzera, il rimpatrio di tutti i lavoratori italiani in Svizzera con la confisca dei loro beni e così via. Tracciare una sequela di eventi concatenati plausibili anche se altamente improbabili rende immediatamente meno apparentemente improbabile l’evento finale di quanto non lo fosse se considerato separatamente. Il cercatore è il narratore e l’ascoltatore allo stesso tempo. Spesso il partner e l’ipotetico rivale sono due persone estremamente distanti, la loro possibilità di incontrarsi vicina allo zero e sussistono tutta una serie di ostacoli che renderebbero il tradimento praticamente impossibile. Allora il cercatore inizia a costruire gli scenari intermedi, a mettere ponti e passaggi per colmare la distanza, quello che sembrava impossibile diventa via via proponibile, forse verosimile e finalmente vero.

Tra il mondo di lui manager di una casa farmaceutica di Milano e lei casalinga di Catania sembra non esserci nulla da spartire. Eppure lei ha una figlia adolescente, questa figlia può essere stata male di una malattia poco nota, può essersi recata al Niguarda dove c’è un gruppo di specialisti che si occupa di tale patologia, questi possono aver chiesto alla casa farmaceutica di riattivare la produzione di un farmaco poco usato, la donna, vedova, può aver voluto incontrare i dirigenti dell’azienda che si sono mostrati sensibili alla problematica della figlia, per mostrargli tutta la sua gratitudine e lo ha invitato a visitare l’ospedale di Catania dove la terapia sarà praticata, lui ha scoperto un gruppo di medici a Catania decisi a portare avanti una sperimentazione che l’azienda sponsorizza e per questo deve recarsi spesso in Sicilia.

Tutte queste modalità tendono dunque a trovare la conferma delle proprie ipotesi ed a convincersi di esse sempre di più. Di conseguenza quanto più il sospetto del tradimento si fa consistente, tanto più le strategie di ricerca vengono intensificate. Si crea dunque un circolo vizioso in cui il sospetto alimenta la ricerca ma i bias confermazionisti utilizzati nella ricerca aumentano il sospetto. Tutto ciò può assumere intensità drammatiche fino a sfociare in un vero e proprio delirio di gelosia caratterizzato dalla certezza assoluta dell’infedeltà del partner, certezza resistente ad ogni critica e inattaccabile da ogni evidenza contraria.

Quello che ci preme sottolineare per concludere è che la trappola scatta quando il soggetto decide che quello che non deve assolutamente verificarsi è di essere tradito senza accorgersene e dunque stima molto più grave sbagliare su questo che commettere l’errore opposto e cioè ritenere erroneamente di essere tradito: egli attribuisce ai due errori due pesi molto diversi. Da quel momento egli smette di essere un giudice imparziale che vaglia tutte le prove e ricerca soltanto quelle a favore del tradimento; in questa ricerca non può mai placarsi, anche se non ha trovato nulla fino ad ora non può abbassare la guardia perché potrebbe trovarle in futuro e poi per i meccanismi che abbiamo descritto tutto può diventare una prova o perlomeno un indizio.

 

RUBRICA TRACCE DEL TRADIMENTO

Vittime di reato, da oggi aumenta la protezione: estesa agli adulti la Convenzione di Lanzarote

Convenzione di Lanzarote estesa anche agli adulti vittime di reato

Cambiano le regole sulla tutela delle vittime e dei testimoni di reato in sede di ascolto giudiziario: oggi, con l’entrata in vigore del decreto legislativo n. 212, la normativa della Convenzione di Lanzarote – finora riservata ai minori – si estende anche gli adulti in condizione di “particolare vulnerabilità”.

COMUNICATO STAMPA – ORDINE DEGLI PSICOLOGI DEL LAZIO

Per loro, in sede di colloquio, obbligatoria la presenza di psicologi e neuropsichiatri a fianco della polizia giudiziaria. Gli effetti di questo passaggio e delle modifiche normative introdotte dal 2012 a oggi al centro di un convegno organizzato dall’Ordine degli Psicologi del Lazio.

Da oggi, anche gli adulti vittime di reati potranno beneficiare delle misure di protezione già previste per i bambini nella legge di ratifica della Convenzione di Lanzarote. Con l’entrata in vigore del decreto legislativo n. 212 del 15 dicembre 2015 -in attuazione della direttiva 2012/29/UE del Parlamento europeo -le norme minime in materia di diritti, assistenza e protezione delle vittime di reato in sede di ascolto giudiziario si estendono infatti a tutti i soggetti in “condizione di particolare vulnerabilità”: vittime di reati violenti o comunque impattanti sul loro stato emotivo – come gli stupri o la violenza di genere – ma anche in difficoltà per cultura, lingua, stato emotivo, disabilità.

Le conseguenze di questo passaggio, assieme all’analisi della normativa in materia e delle buone prassi messe in atto in questi anni nel territorio di competenza della Procura della Repubblica di Roma, sono state oggetto del convegno “Tre anni da Lanzarote: primi dati, buone pratiche, problemi aperti”, organizzato dall’Ordine degli Psicologi del Lazio e dalla Scuola Superiore della Magistratura in collaborazione con l’Ordine degli Avvocati presso la Corte d’Appello di Roma.

Negli ultimi vent’anni, anche per effetto delle sollecitazioni sovranazionali e dell’adeguamento della normativa nazionale, l’attività di ascolto giudiziario in ambito penale ha conosciuto significativi progressi, soprattutto con riferimento a bambini e adolescenti. Si è infatti assistito ad un impegno normativo, istituzionale, scientifico e operativo orientato verso una crescente e sempre più specializzata attenzione alle vittime dei reati. Da una parte, il sapere psicologico ha approfondito le conoscenze sulle conseguenze (psicologiche, economiche e sociali) vissute dai soggetti interessati; dall’altra, il legislatore ha rafforzato il sistema degli strumenti di protezione.

Con l’approvazione della Legge di Ratifica della Convenzione di Lanzarote è stato conferito un ruolo determinante, nel procedimento penale, alla presenza di “esperti in psicologia o psichiatria infantile”, impegnati nella raccolta delle dichiarazioni di persone minorenni ed eventualmente di “maggiorenni in condizione di particolare vulnerabilità”, possibili vittime e/o testimoni di una vasta gamma di reati, dall’abuso sessuale al maltrattamento e alla violenza assistita.

La stessa legge introduce delle modifiche nell’ordinamento penitenziario rispetto al tema del trattamento psicologico per le persone condannate per reati di tipo sessuale, rinnovando l’esigenza di comprendere come migliorare non solo le misure di protezione per le vittime ma anche gli interventi di prevenzione della recidiva per gli autori.

«Le misure di protezione previste a partire dalla legge di ratifica della Convenzione di Lanzarote -ha spiegato Pietro Stampa, vice presidente dell’Ordine degli Psicologi del Lazio – hanno rappresentato un importante antidoto ai rischi della cosiddetta “vittimizzazione secondaria”, ovvero le ripercussioni negative che una macchina della giustizia concepita per regole, luoghi e tempi a misura di adulto, poteva avere sul benessere e il superiore interesse dei bambini. L’estensione della normativa a tutti i soggetti in condizione di particolare vulnerabilità, stabilendo l’obbligatorietàà della presenza di psicologi e neuropsichiatri infantili al fianco della polizia giudiziaria in sede di colloquio, rappresenta un ulteriore passo in avanti nella tutela della persona, aspetto per noi psicologi prioritario».

Fin dal 2012 la procura di Roma, prima in Italia, si è attivata per tradurre in azioni concrete e procedure operative quanto deciso a livello legislativo: con l’allestimento di uno spazio attrezzato per le audizioni protette delle vittime, ad esempio, oltre che con la predisposizione di una turnazione di un gruppo di “esperti in psicologia e psichiatria infantile” reperibili 24h su 24h e di un team di magistrati specializzati nel trattare “delitti contro la libertà sessuale, la famiglia ed i soggetti vulnerabili”, coordinato dalla Procuratrice Aggiunta dott.ssa Maria Monteleone.

La stessa dott.ssa Monteleone è intervenuta nel corso del convegno presentando gli esiti del lavoro condotto in questi anni, in cui gli psicologi al fianco dei magistrati e della polizia giudiziaria hanno affrontato la gestione della delicata fase di raccolta delle primissime dichiarazioni di molti bambini, bambine e adolescenti coinvolti – come vittime o anche solo come testimoni – in diverse tipologie di reati: prostituzione minorile, maltrattamenti in famiglia, abuso sessuale, violenza domestica assistita, “stalking”, “grooming”(l’adescamento on line, una delle nuove previsioni delittuose introdotte con la legge 172 nel 2012).

«Purtroppo – ha dichiarato Vera Cuzzocrea, psicologa giuridica dell’Ordine degli Psicologi del Lazio – le evoluzioni normative che sono state prodotte in questi anni e che hanno rafforzano le misure di protezione per le vittime, non hanno parimenti riguardato anche gli autori dei reati. Nonostante un lieve accenno in una legge di quasi un decennio fa, che prevedeva l’istituzione di un fondo per il trattamento dei colpevoli di reati di abuso e sfruttamento sessuale anche al fine di prevenirne la recidiva, il nostro Paese ancora non prevede un intervento specifico in materia. Né sono ancora stati attivati i servizi di giustizia riparativa voluti dalla Direttiva 2012/29/UE del Parlamento europeo».

«La legge di ratifica della Convenzione di Lanzarote – ha proseguito Cuzzocrea – si è però finalmente espressa in tal senso, introducendo delle modifiche nell’ordinamento penitenziario rispetto al tema del trattamento psicologico per le persone condannate per reati di tipo sessuale. Ma non basta. Il fenomeno della violenza deve ancora essere affrontato con la complessità che merita, come richiamato dai principi espressi dalla normativa europea, intervenendo cioè su più livelli (autori e vittime) e attraverso vari ambiti e tipologie di intervento: culturale, mediante la messa in atto di progettualità di prevenzione primaria, ma anche giudiziario e normativo, con il rafforzamento delle tutele previste per le vittime e delle opportunità rieducative per gli autori».

 

Giuliano Lesca
Addetto stampa Ordine degli Psicologi del Lazio
Via del Conservatorio, 91 (00186) Roma
Tel.: 06 36002758
Cell: 327 3290946
[email protected]

Responsabilità penale nei minori: la comprensione del crimine da parte dei bambini

Responsabilità penale nei minori: all’età di 8 anni i bambini sono già in grado di distinguere i reati dalle semplici bravate, li giudicano più duramente e si aspettano conseguenze più gravi.

È quanto affermano i ricercatori della Macquerie University di Sidney, Australia, autori di uno studio recentemente pubblicato su Legal and Criminological Psychology.

La ricerca getta nuova luce sulla complessa questione della responsabilità penale nei minori (nota come ACR, Age of Criminal Responsibility), offrendo dati sperimentali importanti, seppur non definitivi, per stabilire quale debba essere l’età minima per l’imputabilità.

Attualmente, infatti, non vi è accordo su questo punto e se negli Stati Uniti la soglia per la responsabilità penale nei minori è fissata a 7 anni, nel nostro paese si può parlare di responsabilità penale a partire dai 14 anni e in Belgio si devono attendere i 16. Fondamentale risulta quindi la ricerca sulla questione al fine di limitare la componente arbitraria e fornire alla giurisprudenza dati empiricamente fondati.

 

Responsabilità penale nei minori e imputabilità dei bambini

Uno degli elementi fondamentali per poter parlare di imputabilità nei minori sembra essere la comprensione da parte del soggetto della natura criminale di un comportamento. È difficile, infatti, affermare che una persona sia responsabile di un’azione se si dubita che ne comprenda a pieno la natura e le conseguenze.

Comprensione del crimine nei minori: l’esperimento

Proprio di questo aspetto si sono occupati Paul Wagland e Kay Bussey, che hanno analizzato dati relativi a 132 soggetti equamente distribuiti in quattro classi d’età (8, 12, 16 anni e giovani adulti attorno ai 20 anni). A ciascuno dei partecipanti i ricercatori hanno mostrato otto vignette raffiguranti situazioni di aggressioni fisiche, violazioni della proprietà, furti o incendi.A metà dei soggetti è stata proposta una versione delle vicende che le descriveva come semplici bravate; all’altra metà, invece, è stata presentata una formulazione molto più simile ad un vero e proprio reato. Per ciascuna situazione si è chiesto ai partecipanti di valutare la gravità dell’atto, di esprimere un giudizio morale e di fare previsioni sulle conseguenze.

I risultati mostrano chiaramente che già a 8 anni i bambini sono in grado di fare questo genere di considerazioni in modo adeguato, identificando i reati come comportamenti ‘sbagliati’ ed esprimendo al riguardo valutazioni morali più negative rispetto a quelle riportate in riferimento ad azioni poco responsabili ma di gravità decisamente inferiore. In particolare, i giovanissimi partecipanti hanno dato prova di tenere in conto, nel valutare la gravità di un atto, l’entità dei danni causati ad altri.

Come recita il titolo del recente film di Veltroni, i bambini sanno, ed è bene ricordarsi di tenere in considerazione che la capacità di analisi dei più piccoli supera in molti casi le nostre aspettative. Che questo sia poi sufficiente per ritenerli pienamente responsabili, da un punto di vista giuridico, delle proprie azioni è difficile dirlo sulla base di un singolo esperimento. Future ricerche risulteranno fondamentali in questa direzione e ci si augura che in un futuro prossimo la questione possa essere chiarita.

Siamo artefici della nostra stessa ansia?

E’ dimostrato che, spesso, siamo proprio noi stessi a far scaturire eccessiva ansia. L’ansia ci assale per le cose che ci diciamo o su cui ci iperfocalizziamo o per come, ad esempio, ci lasciamo trattare dagli altri.

Questo non vuol dire che noi siamo colpevoli o sbagliati; piuttosto, può ricordarci che possiamo essere in grado di lavorare sui nostri pensieri e prenderci cura di noi stessi con più gentilezza, in modo da migliorare la situazione. Fondamentale è identificare cosa fa raggiungere il picco alla nostra ansia; una volta scoperto ciò si può lavorare per ridurla.

Il terapeuta Casey Radle, specializzato nella cura di ansia e autostima presso l’Eddins Counseling Group a Houston (Texas), illustra quali sono tre modalità tipiche in cui cadiamo e con cui finiamo per amplificare la nostra ansia:

  • Considerare i nostri dubbi, fatti

Questo si verifica, ad esempio, quando ci troviamo ad uscire con una persona che ci piace davvero. Noi la invitiamo ad un nuovo appuntamento, ma se, dopo un po’ di ore, non riceviamo nessun segnale (messaggio, chiamata…) dall’altro, secondo Radle, iniziamo ad interpretare gli eventi, e quello che accade dentro di noi potrebbe riassumersi in questo tipo di pensiero: ‘Oh mio Dio, lui/lei non è interessato a me e non vuole vedermi mai più. Io non sono abbastanza per lui/lei, e ho sprecato la mia chances per questa relazione. Come ho potuto essere così stupido da pensare che qualcuno di così meraviglioso avrebbe voluto stare con uno come me?’

E così iniziamo a sentirci respinti, prima ancora di sapere cosa l’altra persona stia pensando o prima di darle la possibilità di rispondere. Lasciamo che siano le nostre insicurezze a scrivere la negativa narrazione degli eventi, senza alcuna informazione reale, assumendo che tali insicurezze siano dure e fredde verità.

  • Prevedere il peggio

In questo modo possiamo descrivere ciò che avviene quando la nostra mente finisce in un luogo buio e cavernoso, pieno di tutti gli scenari peggiori e più catastrofici possibili e ci fa inevitabilmente saltare a conclusioni terribili quali: esami finali falliti, incidenti aerei e cari delusi…

Possiamo aspettarci il peggio a livelli estremi – attendendoci, per esempio, lo schianto dell’aereo su cui siamo in volo – o in modo più sottile. Ad esempio: arrivi a lavorare e il tuo capo dice che vuole un incontro con te più tardi. Non ti dice il motivo e questo, secondo Radle, giustifica il tuo iniziare a ripeterti: ‘Finirò nei guai. Il mio capo vuole licenziarmi, già lo so’.

Ecco che di nuovo, ancora prima di partecipare alla riunione, si è già dato per scontato tutto quello che accadrà, e niente di ciò che viene previsto ha carattere positivo.

  • Ignorare le nostre esigenze

E’ proprio così: trascurare i nostri bisogni di base può rinforzare l’ansia. Per esempio: Stai dormendo abbastanza? Stai nutrendo il tuo corpo con nutrienti adeguati? Stai prendendo pause regolari?

E’ dura essere rilassati quando si è in giro, con la quarta tazza di caffè in mano, trascinati qua e là dalla lista di cose da fare, insicuri su quale sia l’ultima volta che si è stati seduti.

Lo stesso vale, in termini di ansia, per la mancata demarcazione e preservazione dei confini. Per esempio: Lasci che gli altri ti scavalchino e ti mettano i piedi in testa? Dici ‘sì’ quando in realtà vorresti dire ‘no’? Rimani in situazioni o relazioni che non sono giuste per te?

Cosa può aiutarci? Secondo quanto suggerito da Radle, quello che può aiutarci è:

  • Fare a noi stessi dei discorsi d’incoraggiamento e parlarci con un tono maggiormente compassionevole;
  • Considerare, quando non conosciamo interamente i fatti, molteplici scenari, evitando di riempire i pezzi mancanti in modo da realizzare una narrativa che rafforzi il pensiero ansioso;
  • Quando ci accorgiamo di saltare a conclusioni affrettate o di tentare la lettura delle menti altrui, ricordarci, in modo gentile, che sono cose che non possiamo proprio conoscere;
  • Onorare i nostri bisogni: dormire abbastanza, prendersi delle pause, impegnarsi in attività divertenti, rispondere alle proprie esigenze fisiche, emotive, mentali e spirituali;
  • Stabilire dei confini e denunciare apertamente quando questi vengono varcati da qualcuno: non possiamo aspettarci che la gente li conosca istintivamente; dobbiamo comunicarli in modo chiaro e se abbiamo bisogno di maggiori informazioni, aiuto, tempo o altro, non dobbiamo aver paura di chiedere.

Quindi, se vi ritrovate, con pensieri o azioni, in uno dei precedenti esempi, sapete che le cose possono cambiare partendo proprio da voi stessi, e, se avete bisogno di un po’ di supporto in più, non esitate a consultare un terapeuta.

 

 

Mille sfumature di narcisismo

Il narcisismo si deve considerare non come categoria unica ma lungo uno spettro che va dal narcisismo sano a quello maligno. Ma chi è il narcisista?

 

Cosa accomuna un carismatico leader ad un uomo che umilia la propria moglie? E cosa avvicina un egocentrico uomo d’affari ad un timido impiegato che sogna di essere un super eroe?

La risposta è: far parte dell’ampia famiglia dello spettro narcisistico. Ma chi è dunque il narcisista?

L’ultima edizione del DSM, la Bibbia degli psicologi e psichiatri di tutto il mondo, ha apportato delle modifiche rispetto alla versione precedente, cercando di cogliere maggiormente la complessità di queste personalità, a volte descritte come mostri a volte come encantador nella vulgata pubblica.

I criteri diagnostici per fare diagnosi di disturbo Narcisistico di Personalità secondo la quinta edizione del manuale ruotano sempre, come nella quarta, attorno al concetto di grandiosità.

Il DSM V però compie anche un passo avanti rispetto alla precedente edizione mettendo in luce per la prima volta i paradossi del narcisismo: l’enorme vulnerabilità dietro la facciata grandiosa, la solitudine profonda dietro l’auto-esaltazione. Un elemento diagnostico ulteriore è l’abuso di sostanze (es. tabacco, alcol, cocaina), che rappresenta un tentativo disfunzionale di curare l’inquietudine, l’irrequietezza e il mal di vivere costanti, tipici di questa patologia.

La pratica clinica e il lavoro sul campo mi spingono ad essere d’accordo con la critica al semplicismo mossa al DSM dal professor Jeffrey Young, ideatore dell’approccio innovativo della Schema Therapy.

Il DSM e l’opinione comune infatti si focalizzano quasi esclusivamente sui comportamenti esteriori e di compensazione adottati da questi pazienti, cioè sulla parte auto-esaltatrice, quella più visibile e quasi sempre attiva in loro. La terribile maschera di default per intenderci.

Il disturbo narcisistico è qualcosa di più complesso che si può considerare lungo un continuum e non si può racchiudere dentro un’unica categoria. Ad un estremo dello spettro troviamo ad esempio il narcisismo sano (Behary, 2013).

 

Il narcisismo sano

Sono infatti narcisiste quelle persone carismatiche, assertive e sicure di sé che, galvanizzate dai complimenti e dalle lodi, ottengono spesso fama e riconoscimenti nella comunità di appartenenza. Sono uomini e donne fortemente determinati, padroni di sé e capaci di una leadership coinvolgente ed empatica. Spesso queste personalità sono diventate così dopo aver superato un passato burrascoso e turbolento grazie ad una terapia o l’incontro fortunato con un insegnante, amico o mentore. Alcune persone di successo rientrano nella categoria del narcisismo sano, accanto agli ambiziosi e rampanti narcisisti manifesti o overt, che non si fanno invece scrupoli a camminare sopra i cadaveri dei loro nemici.

 

Il narcisismo maligno

All’estremo opposto dello spettro troviamo invece quello che Kernberg (1992) definisce narcisismo maligno, che corrisponde alla personalità psicopatica e paranoide descritta da Lowen (1983).

Il narcisista maligno ha caratteristiche che lo pongono in un’area ibrida tra narcisismo e disturbo antisociale di personalità. Alcune caratteristiche tipiche del narcisismo raggiungono nel narcisista maligno il massimo grado di espressione: grandiosità, mancanza di sentimenti, perdita di contatto con il sé e il corpo, mancanza di contatto con la realtà, senso di onnipotenza, diffidenza verso gli altri, rabbia espressa, sadismo (anche verso se stesso) e crudeltà.

Solitamente il narcisista maligno, soprattutto quando è grave, è stato vittima di una forte aggressività da parte dei genitori nella prima infanzia. Ha avuto spesso un genitore (di solito il padre) fortemente sadico e punitivo e gradualmente si è identificato con lui.

In età adulta il suo mantra diventa: ‘Posso fare quello che voglio’ , ‘Nessuno mi può ferire’, in una visione dicotomica e scissa della vita (vista come una giungla) e degli altri, visti o come completamente buoni (quindi deboli e da sottomettere) o completamente cattivi (da attaccare o da cui fuggire in base alla forza percepita). Lo sviluppo più drammatico del disturbo quindi si osserva quando la grandiosità del paziente si combina con una forte quota di aggressività.

 

Narcisismo overt e covert

Tra narcisismo benigno e narcisismo maligno esistono molte sfumature che vanno dal narcisismo covert o nascosto al narcisismo overt o manifesto (Wink, 1991).

Il narcisisista covert è inibito, vulnerabile, ipersensibile alle critiche, ha paura del rifiuto, prova spesso vergogna e imbarazzo, sente sempre un’enorme distanza tra sé e gli altri (‘Vedo sempre gli altri come da dietro ad uno specchio, li sento lontani, come fossi un alieno’).

Ma, a differenza di quanto si può notare ad un’osservazione superficiale, il narcisista nascosto non è un dolce e affettuoso gattino, ma un leone addormentato. Condivide infatti con il suo contraltare overt l’atteggiamento di sfruttamento e manipolazione nei confronti degli altri, l’assenza di empatia, una certa quota di aggressività (seppur generalmente inferiore rispetto al narcisista overt) e la presenza di fantasie grandiose (nonostante queste, a differenza di ciò che accade per il narcisista overt, siano celate e meno consapevoli).

La paura di fallire e di non realizzare le proprie fantasie di grandezza determina spesso in queste persone la tendenza ad evitare situazioni in cui possono trovarsi al centro dell’attenzione (Kohut & Wolf, 1978). I narcisisti covert provano spesso vergogna e rabbia, senso di fallimento e sconfitta, rifiuto, espulsione.

Il narcisista overt invece appare superiore, autosufficiente, dominante, euforico, trionfante (o alternativamente freddo e distaccato). Sente di non appartenere al resto dell’umanità o di far parte di una élite superiore (Dimaggio et al., 2007).

Il narcisista overt sembra simile al carattere narcisistico descritto da Lowen, per cui:

Mentre cammino ho la sensazione che la gente si faccia da parte per farmi passare. Sembra la divisione delle acque del Mar Rosso per permettere il passaggio degli Ebrei. Ne sono fiero.

In conclusione da questa disamina appare più corretto parlare di spettro narcisistico che di narcisismo. Un continuum che va dal narcisismo sano a quello maligno, dal narcisista covert a quello overt, in base al grado di grandiosità, perdita di contatto con la realtà, mancanza di sentimenti e di contatto con i propri bisogni, le proprie sensazioni corporee ed emozioni. E i narcisisti si collocano in un punto su questo continuum.

Family-Based Treatment (FBT) per il trattamento dell’Anoressia Nervosa: intervista al Prof. Daniel Le Grange

Come accennato in un primo articolo, uno dei principali temi oggetto di discussione tra alcuni dei clinici presenti al corso era relativo alla volontà di cercare di definire una cornice teorica – considerato che il FBT mantiene una posizione decisamente “agnostica” sulla patogenesi del disturbo – che potesse fungere da “calderone” e consentire una riflessione più ampia sui meccanismi e sulla valutazione degli aspetti patogenetici di mantenimento dell’Anoressia Nervosa.

Al termine del corso, il Prof. Le Grange ha accettato di rilasciare una breve intervista dove approfondire alcuni aspetti del trattamento.

Walter Sapuppo (WS): Le chiederei di scegliere cinque aggettivi o parole che possano descrivere il Family-Based Treatment.

Daniel Le Grange (DLG): …(ride)… Dunque: focalizzato, limitato nel tempo, pragmatico, orientato al cambiamento, rispettoso delle famiglie.

WS: Iniziamo con il primo: “focalizzato”.

DLG: Permette alle famiglie e ai clinici di rimanere focalizzati come un bisturi laser sull’aspetto primario del trattamento: salvare l’adolescente dalla sua patologia permettendogli di ripristinare il peso corporeo e ritornare al normale sviluppo adolescenziale, esattamente in questo ordine.

WS: D’accordo, passiamo al secondo… “Limitato nel tempo”.

DLG: “Limitato nel tempo” perché, sin dal principio, quello che si cerca di ottenere – velocemente – è l’autonomia della famiglia, di modo da non creare una dipendenza dai clinici per andare avanti e riuscire, dunque, a contare sulle proprie risorse. Una volta che la famiglia avrà rinforzato le abilità nel prendersi cura del proprio figlio, potranno occuparsene da soli e terminare il trattamento con i loro tempi e nel loro ambiente.

WS: Parliamo del terzo: “pragmatico”.

DLG: “Pragmatico” perché è un trattamento focalizzato sul cambiamento delle abitudini comportamentali e non molto sulle variabili psicologiche. Mi lasci chiarire: cambiando il comportamento dei genitori o le risposte che vengono date alla malnutrizione, si dà maggiore spazio all’adolescente piuttosto che alla patologia. Questo necessita di una maggiore concentrazione sul “fare”, piuttosto che sul “pensare”. Il clinico, infatti, dovrà essere focalizzato sul cambiamento comportamentale e su come ottenerlo in maniera pragmatica, non trascurando le variabili psicologiche ma lavorando maggiormente sui comportamenti.

WS: Dunque, “orientato al cambiamento”.

DLG: Penso sia collegato al punto precedente. In questo trattamento si cerca di ottenere dei drastici, quantificabili, cambiamenti nel modo in cui i genitori rispondono alla patologia alimentare. Quindi, se si è “focalizzati”, “limitati nel tempo” e “pragmatici”, è naturale voler raggiungere questi cambiamenti il prima possibile. Se si riesce a trasmettere questa propensione ai genitori, quella di cambiare – in meglio – settimana dopo settimana, penso sia altamente rinforzante e aiuti a rimanere focalizzati sull’obiettivo, come dicevo prima.

WS: Ultimo ma non meno importante…

DLG: “Rispettoso per l’adolescente e per le famiglie”. Nel fare tutto ciò che ho precedentemente detto a proposito del FBT, in maniera automatica è come dire ai genitori: “io credo che voi potete farcela, perché possedete già queste abilità”. Questo è di per sé molto rispettoso nei confronti dei genitori e, contemporaneamente, si sta aiutando l’adolescente a non portare da solo il peso di una patologia costante; in tal senso, risulta rispettoso anche dell’adolescente stesso. Infine, aiutando i genitori a estirpare la patologia alimentare, stiamo rispettando il naturale processo di sviluppo dell’adolescente che, attraverso i genitori, viene riportato “in carreggiata”.

WS: Perché, secondo lei, è così importante l’empowerment delle capacità genitoriali in adolescenza?

DLG: In un certo senso, per me, è la cosa più “naturale”. I genitori si prendono naturalmente cura dei propri figli, davvero pochi non sanno come fare. Quasi tutti i genitori cercano di comportarsi correttamente, amano e vogliono prendersi cura dei loro figli. Quello che accade nell’Anoressia Nervosa è confondente. I genitori iniziano a dubitare di avere le capacità di prendersi cura del figlio; sanno cosa fare se il figlio tenta il suicidio, sanno cosa fare se il figlio beve alcool quando non dovrebbe, sanno cosa fare se il figlio cade e si rompe una gamba. Se si riesce ad aiutare i genitori a riconquistare il loro affrancamento, si sentiranno maggiormente adeguati nel seguire la loro naturale propensione a soccorrere il proprio figlio e a raggiungere il risultato.

WS: Quali sono i rischi dell’aiutare i genitori a prendere il controllo del processo di recupero del peso corporeo?

DLG: Dal mio punto di vista, nell’ambito del FBT, ci sono molti più vantaggi che svantaggi in questo processo. Credo che l’unico rischio potrebbe essere quello che, alcuni genitori ipercoinvolti nella vita del figlio (anche se credo debbano essere appropriatamente coinvolti nella stessa), potrebbero risultare particolarmente ansiosi e non lasciargli spazio. Questi genitori, che rappresentano la minoranza, potrebbero prendere questo trattamento come un “semaforo verde” per rimanere ipercoinvolti e non lasciare i figli andar via. Questo perché sono particolarmente ansiosi e ritengono sia il giusto modo di comportarsi. Questo è probabilmente l’unico rischio al quale riesco a pensare.

WS: Quindi il non lasciare l’adolescente andar via (nel senso di non lasciare che segua un percorso “autonomo” di crescita).

DLG: Si, non lasciarlo andar via. Prendere questo trattamento come una conferma relativa al “ok, dovrei fare questo, dovrei fare quest’altro, non è opportuno che io receda” ecc.. Ma il trattamento è centrato sia sull’empowerment e l’ingaggio delle figure genitoriali nel combattere la patologia alimentare, sia sull’aiutarli a fare un passo in dietro quando è necessario che l’adolescente prosegua con la sua vita.

WS: Quali sono, secondo il suo punto di vista, i meccanismi patogenetici coinvolti nel mantenimento dell’Anoressia Nervosa?

DLG: Questa è probabilmente la domanda più difficile che mi hai posto, perché, onestamente, non sono molto sicuro di quali siano. Credo sia molto complesso perché sono presenti aspetti genetici, tratti di personalità, aspetti ormonali, fattori ambientali che non sono molto chiari, che si presentano insieme in modi che non comprendiamo completamente ma che rendono alcuni individui vulnerabili a questa patologia e che mantengono la patologia stessa… Quindi è difficile definire con precisione quali siano, perché non li conosciamo. E probabilmente riesco soltanto a guardare ai meccanismi familiari che sembrano essere coinvolti nel mantenimento della patologia. Involontariamente, per cercare di gestire la situazione, i genitori possono in qualche modo aver favorito il mantenimento dell’Anoressia. Possono aver imparato a comperare cibi ipocalorici o “fat-free”, possono aver imparato che se non servono a tavola un gelato o una fetta di torta all’adolescente ci saranno meno litigi… Sanno che loro figlio necessita di cibo ma, contestualmente, non vogliono turbarlo ulteriormente. Dunque questi sono alcuni dei meccanismi – intendo dire quelli osservabili – che potrebbero rispondere alla sua domanda sul mantenimento della patologia. Ci sono meccanismi genetici e trigger ambientali che interagiscono in modi che ancora non comprendiamo del tutto e sui quali non abbiamo controllo. Possiamo solo cercare di controllare i piccoli pezzi ai quali abbiamo accesso e che ho menzionato precedentemente.

WS: Un’ ultima domanda: cosa ritiene di aver imparato, sopra ogni altra cosa, nella sua esperienza clinica nel trattamento dell’Anoressia Nervosa?

DLG: Sarò molto breve: se riesci a far comprendere alle famiglie che, nonostante molte avversità, credi sinceramente nelle loro capacità di prendersi cura di loro figlio, riescono a centrarsi sugli obiettivi e dimostrano di riuscire a prendersene cura. Dobbiamo solo aiutarli nel supporto e nella costruzione di un contesto appropriato per riuscire a farlo.

Alla fine del corso, dopo le fruttuose discussioni e i ripetuti role-playing, diviene chiaro il perché il Family-Based Treatment costituisca uno degli interventi psicoterapeutici di prima scelta nel trattamento dell’Anoressia Nervosa in età adolescenziale e preadolescenziale. Il focus terapeutico – che potremmo forse definire pienamente “psicoeducativo” – sul restituire alla coppia genitoriale la funzione di cura e di guida autorevole per il superamento dei comportamenti alimentari disfunzionali, insieme alla particolare attenzione alle dinamiche intra-familiari nel mantenimento del disturbo, costituisce un valido strumento per fronteggiare una condizione particolarmente gravosa – oltre che per l’adolescente – anche per il nucleo familiare stesso. In questa fase dello sviluppo, infatti, un’attenzione focalizzata non soltanto sui processi intrapsichici può risultare particolarmente efficace nel creare un clima familiare collaborativo e focalizzato sull’implemento delle condizioni di salute dell’adolescente incagliato in una trappola evolutiva che inibisce i normali processi di svincolo dalla famiglia d’origine e, dunque, di costruzione dell’identità adulta.

Dott. Walter Sapuppo
Psicologo, Psicoterapeuta Cognitivo-Comportamentale, AAI Certified Coder. Docente presso le scuole di psicoterapia Cognitivo-Comportamentale Studi Cognitivi, Psicoterapia Cognitiva e Ricerca. Docente presso la Sigmund Freud University, Milano. Socio Ordinario della Società Italiana di Terapia Comportamentale e Cognitiva (SITCC) e della Society for Psychotherapy Research (SPR).

Workaholism e work engagement: se ti faccio lavorare troppo ti rubo l’anima

Workaholism: l’imprenditore Cucinelli è un uomo appassionato del suo lavoro, ma non è assillato dal lavoro, né vuole che lo siano i suoi collaboratori, perché riconosce che un eccessivo carico di lavoro possa creare disagi ed interferenze nello stato di salute e nelle relazioni interpersonali, tanto da potersi trasformare in una vera e propria patologia. Esiste infatti un termine, workaholism (o work addiction), che viene usato per indicare la dipendenza da lavoro, una patologia che rientra nella categoria delle dipendenze senza sostanze.

Nel 2009 Brunello Cucinelli, Presidente ed Amministratore Delegato di Brunello Cucinelli spa, ha vinto il premio Ernst & Young per il migliore imprenditore dell’anno grazie alla sua “impresa umanista”. Ciò che gli ha permesso di vincere il premio è stata la sua continua ricerca del benessere psicofisico e della qualità della vita negli ambienti di lavoro, oltre che la grande attenzione dimostrata per la cultura. Per Cucinelli il denaro riveste un valore vero solo se è investito per migliorare la condizione materiale e spirituale delle persone. Per lui i dipendenti sono “anime pensanti” e lui si sente il “custode” dell’azienda. Cucinelli vuole che i suoi collaboratori finiscano di lavorare ogni giorno verso le 17,30 e che non si mandino email di lavoro fuori orario per “conservare la propria energia creativa”. Per lui è fondamentale non esagerare con il lavoro, altrimenti, come ha detto in più occasioni, [blockquote style=”1″]se ti faccio lavorare troppo, ti rubo l’anima.[/blockquote]

Dunque l’imprenditore Cucinelli è un uomo appassionato del suo lavoro, ma non è assillato dal lavoro, né vuole che lo siano i suoi collaboratori, perché riconosce che un eccessivo carico di lavoro possa creare disagi ed interferenze nello stato di salute e nelle relazioni interpersonali, tanto da potersi trasformare in una vera e propria patologia.

 

Workaholism o work addiction

Esiste infatti un termine, workaholism (o work addiction), che viene usato per indicare la dipendenza da lavoro, una patologia che rientra nella categoria delle dipendenze senza sostanze. La traduzione letterale in italiano è “ubriaco da lavoro” o “sindrome da ubriacatura da lavoro” e deriva dall’analogia che tale patologia ha con quella della dipendenza da alcool.

Prima del 1971 per indicare un’eccessiva dedizione al lavoro veniva comunemente usato il termine stachanovismo.
Lo stachanovismo nacque nell’ex Unione Sovietica durante la dittatura stalinista come movimento di massa basato sull’esaltazione degli eroi del lavoro e sulla diffusione di uno spirito di competizione tra i lavoratori sovietici. Il movimento ebbe origine dall’impresa di un minatore, tal Aleksej Stachanov, che in una sola notte estrasse un quantitativo di carbone superiore di ben quattordici volte rispetto a quello normale.

Nel concetto di stachanovismo – ed in quello più moderno di workaholism – rientrano tutte le forme di dedizione totale ed estreme al lavoro.
Il termine workaholism fu utilizzato per la prima volta nel 1971 da Wayne Oates – come unione delle parole “work” e “alcoholism” – per indicare un rapporto compulsivo con il lavoro, molto simile a quello di un alcoolista con l’alcool.
Marilyn Machlowitz (1980) definisce il workaholism come:

[blockquote style=”1″]un intrinseco desiderio di lavorare a lungo e duramente.[/blockquote]

Sebbene la ricerca sul workaholism abbia una tradizione ultradecennale, soprattutto nei paesi anglosassoni, rimangono numerose questioni aperte sulla dipendenza da lavoro, sulla sua insorgenza, il suo sviluppo e le conseguenze a livello personale ed interpersonale.
Il fenomeno del workaholism è strettamente collegato ai mutamenti economici, sociali e culturali che hanno caratterizzato gli ultimi decenni e che hanno profondamente modificato il significato del termine “lavoro”, le modalità ed i luoghi di svolgimento del lavoro stesso. In particolare, con il diffondersi delle tecnologie informatiche, si è avuta una trasformazione dei tradizionali luoghi di lavoro e si è abbattuta quella barriera che separava l’attività lavorativa dalla sfera personale. Grazie ai computer, ad Internet, alla posta elettronica, ai cellulari, ai tablet ciascuno può lavorare sempre ed ovunque, con il rischio di essere assorbito dal lavoro anche nei momenti che dovrebbero essere dedicati alla famiglia ed al tempo libero.
Come la dipendenza dall’alcool, anche la work addiction è caratterizzata dalla tolleranza, ovvero dalla necessità di aumentare progressivamente la dose per soddisfare il bisogno.

Brian E. Robinson (1998) definisce il workaholism [blockquote style=”1″]un disturbo ossessivo-compulsivo che si manifesta attraverso richieste auto-imposte, un’incapacità di regolare le proprie abitudini di lavoro ed eccessiva indulgenza nel lavoro fino all’esclusione delle altre principali attività della vita.[/blockquote]
L’ossessionato-assillato dal lavoro, infatti, tende a dimenticare o ad ignorare le ricorrenze familiari ed esclude dalla propria vita i momenti di svago e di divertimento.

A differenza di altre forme di dipendenza, tuttavia, “l’ubriaco da lavoro” fa uso di una sostanza per così dire “legale” (il lavoro). Gli effetti prodotti da tale dipendenza, in verità, possono essere devastanti: uno degli effetti principali del workaholism è infatti l’esaurimento emotivo. Il workaholic diventa aggressivo coi familiari e coi colleghi, non pone un confine tra la vita professionale e quella personale, disprezza chi “perde tempo in attività futili” (quali andare a teatro, praticare sport, ascoltare musica, viaggiare….) ed è incapace di rilassarsi. Quando non lavora è inquieto ed annoiato e dimostra costantemente una rigidità di comportamento.

La “sindrome da ubriacatura da lavoro”, come altre forme di dipendenza, può essere considerato il prodotto di esperienze vissute durante l’infanzia e l’adolescenza e sembra essere direttamente collegato allo stile educativo che abbiamo ricevuto dai nostri genitori. Chi ha avuto genitori particolarmente esigenti tenderebbe a rifugiarsi nell’efficienza sul lavoro per essere accettato.
Il workaholic crede di valere come persona solo se riesce ad avere successo: per liberarsi da questa convinzione profonda deve cercare di abbatterla gradualmente e sostituirla con il pensiero: valgo per quello che sono, indipendentemente da quanto produco. In altre parole, deve superare il workaholism ed abbracciare il work engagement, che rappresenta quel sano coinvolgimento nel lavoro, che non ti ruba l’anima.

L’immaginazione mentale – Introduzione alla Psicologia

L’immaginazione mentale è la capacità di generare immagini mentali e rappresenta una delle attività più sorprendenti della mente umana. Risulta essere una attività mentale che utilizza come canale principale la percezione.

INTRODUZIONE ALLA PSICOLOGIA RUBRICA DI DIVULGAZIONE SCIENTIFICA IN COLLABORAZIONE CON LA SIGMUND FREUD UNIVERSITY DI MILANO

La mente immaginale, dunque, permette di elaborare informazioni visive attraverso una serie di elaborazioni neurotrasmettitoriali che generano, come prodotto finale, configurazioni neuro-mentali, più o meno complesse, caratterizzate dalla presenza di singole immagini mentali. Si tratta, per lo più, di attività noologiche, perchè coinvolgono le areee neocorticali, che permettono di distinguere i diversi processi grazie ai quali si elaborano informazioni visive, e identiche che generano contenuti mentali non figurali.

Per questo l’ immaginazione mentale potrebbe essere paragonata ad un processore utile per formulare immagini di quello che ci sta di fronte e della vita mentale. Questo processo è utile per assolvere a qualche compito cognitivo, problem solving, o per riportare alla mente un’immagine o generarne delle nuove utili per rispondere a esigenze psicologiche o esistenziali come, per esempio, mettere in atto un comportamento o progettare un’azione.
Queste immagini mentali sono principalmente immagini percettive, derivanti dalla visione, immagini retrocettive che si generano attraverso il recupero di immagini percettive passate, di immagini ideative e fantastiche create ex novo dal recupero di informazioni visive immagazzinate nella memoria a lungo termine e di immagini indotte proprio dall’immaginario collettivo.

La mente immaginale, dunque, è costituita da una serie di strutture o processi cognitivi corticali in grado di generare immagini facenti parte del mondo immaginale ovvero elaborato dalla nostra mente.

 

RUBRICA: INTRODUZIONE ALLA PSICOLOGIA

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L’importante relazione tra credenze e pregiudizi nei confronti dell’omosessualità

La convinzione per cui l’orientamento sessuale sia innato non è la causa che porta alla differenza tra le persone con atteggiamenti negativi e coloro che detengono atteggiamenti positivi nei confronti delle persone omosessuali.

Negli ultimi anni la tesi secondo cui l’orientamento sessuale sia innato è diventata una componente principale della difesa dei diritti delle minoranze sessuali.

A tal proposito però, Patrick Grzanka e Joe Miles, entrambi assistenti di psicologia presso la University of Tenesse, hanno recentemente pubblicato uno studio sul Journal of Counseling Psychology, sfidando l’idea che la convinzione per cui le persone nascano con il loro orientamento sessuale, sia la chiave per migliorare l’atteggiamento verso le persone omossessuali e bisessuali.

Nella loro ricerca hanno infatti dimostrato che, questa convinzione non è il modo più efficace per promuovere un atteggiamento positivo nei confronti delle persone gay, lesbiche e bisessuali. Ha affermato Grzanka che

Questa ricerca non ha lo scopo di capire ciò che rende una persona gay o etero.

Piuttosto, i ricercatori hanno cercato di capire come le convinzioni di una persona, circa l’orientamento sessuale, possano influenzare il modo in cui vengono viste le minoranze sessuali. I loro nuovi risultati suggeriscono che la convinzione per cui l’orientamento sessuale sia innato non è la causa che porta alla distinzione tra le persone che detengono atteggiamenti negativi e coloro che detengono atteggiamenti positivi nei confronti delle persone omosessuali.

Per lo studio, Grzanka, Miles e Zeiders hanno intervistato due gruppi di studenti universitari: uno di genere misto (n= 379) e l’altro di sole donne (n= 266). Come strumento di indagine hanno utilizzato la Sexual Orientation Beliefs Scale (SOBS), la quale ha lo scopo di catturare una vasta gamma di credenze.

Ciò che è emerso è che la maggior parte degli intervistati riteneva che l’orientamento sessuale fosse innato e immutabile, ma vi erano ulteriori credenze che differenziavano le opinioni delle varie persone.

In particolare gli autori, hanno esaminato con maggior attenzione i partecipanti che mostravano atteggiamenti negativi nei confronti delle persone gay. Tra questi, anche coloro che credevano che le persone omosessuali ‘sono nate così’ o ‘sono tutte uguali e agiscono allo stesso modo’ erano propensi a mostrare e tenere atteggiamenti fortemente pregiudizievoli nei confronti delle persone omosessuali o bisessuali.

Secondo Grzanka, ciò suggerisce come la credenza sull’orientamento sessuale innato non sia un argomento che possa condurre ad una riduzione dell’omofobia.

Il presente studio può però aiutare gli attivisti, gli educatori e gli altri ricercatori a capire meglio che le credenze delle persone sulla natura dell’orientamento sessuale, dovrebbero essere considerate nel contesto di altre credenze, dal momento che è la somma delle loro credenze che si plasmano i loro atteggiamenti verso le minoranze sessuali.

Capire questo aiuterà i sostenitori a promuovere in modo più efficace l’accettazione delle minoranze sessuali e a creare una società più sicura e più accogliente.

Sportello TiAscolto! Come funziona un servizio sostenibile di ascolto, sostegno psicologico, counseling e psicoterapia

Matteo Bessone e Pietro Sarasso

 

Lo sportello TiAscolto! è un servizio sostenibile di ascolto, sostegno psicologico, counseling e psicoterapia nato per contrastare le disuguaglianze di salute. Si posiziona nella zona d’ombra presente tra il libero mercato della sanità privata (il privato puro), spesso inaccessibile a molti e responsabile di un’iniqua stratificazione sociale, e le scelte inerenti alle politiche sanitarie che si ripercuotono su un Sistema Sanitario Nazionale incapace di tutelare nella pratica il diritto alla salute così come sarebbe previsto dall’articolo 32 della Costituzione.

L’obiettivo del presente contributo è quello di esplicitare la possibilità di un nesso tra un ventaglio di valori e le pratiche cliniche. L’ipotesi è che il setting di un servizio costituisca il ponte tramite cui questa relazione diventa evidente. Già Basaglia sosteneva che i vari tipi di approcci al paziente e i vari setting in cui gli operatori si trovano ad agire, spesso non sono il prodotto di scelte cliniche precise, ma il prodotto dei valori del sistema socio­economico che determina e plasma i vari servizi nel loro modo di approcciarsi al paziente, che diventa così la vittima di una violenza che Basaglia, riprendendo Foucault, diceva “tecnica”. Jervis arriva all’estrema conseguenza di tale riflessione, sostenendo che[blockquote style=”1″] i valori societari non sono definibili in termini psichiatrici, ma tali al contrario da definire la natura della psichiatria.[/blockquote]

Ma tentiamo di capire a cosa si riferisce partendo da un’esperienza reale, individuale ma senza dubbio generalizzabile.

Marco ha vent’anni, lavora per mantenersi gli studi, sta intraprendendo da qualche mese un percorso psicologico, non conosce la differenza tra psicoterapia e counseling, ma sa che quello che fa gli sta servendo molto, ne ha molto bisogno ed è molto motivato, un ottimo paziente per il suo psicologo che si vede però obbligato a interrompere il percorso quando Marco perde il lavoro e non può più pagare a prezzo pieno le sedute, ciascuna corrispondente economicamente a molte ore del suo ormai perso lavoro. Marco non si arrende, perso il lavoro non perde anche la fiducia, prende atto della rigorosità del setting e cerca altrove quello che desidera. Controvoglia si rivolge al medico di base e si reca speranzoso all’ambulatorio territoriale del Dipartimento di Salute Mentale (visto che Marco abita a Torino, va in un CSM, Centro di Salute Mentale) dove spera di poter vedere garantito il proprio diritto alla salute mentale da uno Stato che si prenda cura di lui. Trova invece una gentilissima infermiera che gli fissa un appuntamento dopo due mesi. Marco scoraggiato torna a casa ed è triste perché non capisce come sia possibile che il suo bisogno di libertà, di realizzazione, di autonomia non riesca ad essere accolto, in un paese che, dicono tutti, spende così tanto in salute pubblica.

Storie come quella di Marco prendono vita ogni giorno, ma questa è in qualche modo speciale: Marco (non proprio lui, ma una persona molto simile) è stato il primo utente preso in carico dallo Sportello TiAscolto! Dalla sua vicenda l’ equipe ha tratto la spinta e l’idea per iniziare il percorso che ha portato allo sportello così com’ è oggi: é stata una scintilla iniziale che ha illuminato un vasto campo d’ azione in cui troppo spesso il diritto alla salute mentale viene negato.

Lo sportello TiAscolto! è un servizio sostenibile di ascolto, sostegno psicologico, counseling e psicoterapia nato per contrastare le disuguaglianze di salute. Si posiziona nella zona d’ombra presente tra il libero mercato della sanità privata (il privato puro), spesso inaccessibile a molti e responsabile di un’iniqua stratificazione sociale, e le scelte inerenti alle politiche sanitarie che si ripercuotono su un Sistema Sanitario Nazionale incapace di tutelare nella pratica il diritto alla salute così come sarebbe previsto dall’articolo 32 della Costituzione. Nato nel 2013 negli ultimi due anni solari ha accolto quasi 150 persone. La sostenibilità per i pazienti è data dall’accessibilità della tariffa, variabile a seconda dei casi, sempre commisurata alle specifiche possibilità della persona e di un’ordine di grandezza simile a quello del ticket per le prestazioni equivalenti del SSN. Per il servizio invece la sostenibilità è legata alla possibilità di mantenersi autonomamente in assenza di altri contributi oltre a quelli dei pazienti, all’equilibrio tra le esigenze degli utenti e quelle dei professionisti e all’attenzione all’equità sociale.

Le pratiche dello sportello sono influenzate da una concezione di salute intesa non solo come diritto da tutelare ma come bene comune di cui prendersi attivamente cura tramite la partecipazione attiva, responsabile e diretta delle persone coinvolte (operatori) e della comunità (cittadini). Le persone che accedono al servizio, sono messe nelle condizioni di poter attivamente co­determinare e modellare, entro certi limiti, il setting clinico. La salute non viene qui intesa come un attributo meramente individuale, che riguarda la relazione tra un clinico e un paziente: chi accede al servizio viene aiutato a cogliere i legami invisibili che lo connettono alla collettività che afferisce allo sportello e che rende concretamente possibile il suo essere lì in quel momento. Il setting viene connotato come non­medico al fine di uscire dalla dicotomia salute/­malattia, proponendo un’alternativa alla dominante medicalizzazione della vita quotidiana e delle differenze. In quest’ottica viene decostruito il concetto di malattia come entità oggettiva “altra e esterna” rispetto alla persona.

L’accento è posto sui processi (bio­psico­socio­economico­culturali) che hanno generato quella sofferenza più che sulla diagnosi, talvolta poco utile ad un processo di cambiamento quando rischia di interporsi tra gli attori del processo terapeutico, allontanando dall’autentica possibilità di “conoscere attraverso” la sofferenza. La scelta di una clinica che non si fondi sulla diagnosi come strumento di conoscenza riporta l’attenzione sulle idiosincrasie dell’utente e sulle narrative emergenti nel processo. Questa prospettiva facilita il passaggio da un’ottica definitoria (che reifica e immobilizza la persona in un sintomo o una sindrome) veicolata da un linguaggio tecnicistico che legittima un’asimmetria di potere all’interno della relazione, ad un’ottica che processualmente “conosce” nel cambiamento e nell’unicità della relazione che si sviluppa. L’uso comunicativo della diagnosi tra colleghi del servizio viene meno nel confronto su precisi criteri che indirizzano la lettura della realtà clinica, mentre viene mantenuto, con una visione “critica”, nelle comunicazioni cooperative con i colleghi dei diversi servizi al fine di salvaguardare la condivisione dialogica.

Il primo obiettivo clinico è sempre quello di mettere l’individuo nella posizione di guadagnare gradi di libertà che gli permettano di autodeterminarsi e la possibilità di farlo in modo autonomo e responsabile, indipendentemente dalla presenza dello psicologo o dello psicoterapeuta. Il “lavoro paradossale” si sviluppa attorno alla chiara volontà da parte del servizio di non essere più indispensabile al paziente nel condurre una vita autonoma nel più breve tempo possibile, ma senza eccessiva premura.

La tempestività della presa in carico (disponibilità a fissare un primo colloquio entro tre giorni lavorativi dal primo contatto) costituisce uno dei punti di forza, in linea con numerose evidenze circa l’esito favorevole del percorso clinico nei casi in cui la domanda venga accolta con tempestività. Tale sollecitudine è legata alla volontà da parte del servizio di accogliere i bisogni del (forse futuro) paziente nel momento stesso in cui sorgono senza che questi vengano sacrificati alle esigenze organizzative.

L’équipe (attualmente composta da 5 persone) condivide all’unanimità questi valori clinici e sociali nonostante le divergenze d’opinione che possono emergere sulle modalità con cui perseguirli. Lo sforzo del gruppo è teso a leggere tali divergenze come stimoli e come ricchezza più che come ostacolo al lavoro anche grazie ad una struttura molto leggera e non centralizzata in cui ogni scelta è presa in maniera democratica e tramite processi decisionali partecipativi. Questa struttura decisionale non ha finora ostacolato la tempestività degli interventi clinici e dell’operatività rappresentando invece una ricchezza in termini di complessità di analisi.

I membri dell’équipe, deliberatamente non omogenei rispetto al retroterra teorico e pratico, appartengono a molte altre realtà attive sul territorio (Rete Sostenibilità e Salute, Psicologia Film Festival, Gruppo di Lavoro dell’Ordine sui Diritti Umani, Coordinamento Psicologi Psicoterapeuti Piemonte, circoli Arci e associazioni). Questo permette al servizio di mantenere una certa permeabilità dei propri confini e un’attenzione costante ai processi di cambiamento del contesto sociale entro cui opera.
L’equità nei processi decisionali si traduce, dal punto di vista contabile, in equità economica. Vista la variabilità delle tariffe corrisposte dai pazienti a ciascun professionista, ogni mese viene calcolata una tariffa oraria media in base alla quale i clinici vengono remunerati in maniera equa.

Ma nella pratica come è organizzato lo Sportello?
Oltre gli accessi tramite mail, sito e social network (facebook) gestiti collettivamente in base alla maggior rapidità nella risposta, uno psicologo accoglie gli accessi su una linea telefonica attiva 7 giorni su 7, 24h. Durante il primo contatto viene brevemente illustrato il funzionamento dello sportello. Gli accessi vengono assegnati in base ad alcuni criteri: turnazione, disponibilità del professionista, richieste di un particolare orientamento da parte del paziente, disponibilità della sede. Solo in rarissime eccezioni viene accolta la richiesta, da parte di un nuovo accesso, di iniziare un percorso con un particolare professionista. I colloqui possono essere svolti in francese, in inglese e, pur privilegiando le sedute vis ­à ­vis, anche presso le due sedi, via Skype. Dopo l’assegnazione ad un professionista viene da questi data la disponibilità a fissare un primo colloquio gratuito e non vincolante entro tre giorni lavorativi, al termine del quale, vengono illustrate due delle caratteristiche che più di altre qualificano il servizio:
1) scansione temporale del percorso: il lavoro inizia con un modulo composto da un ciclo di sedute (da 6 a 10) di counseling e sostegno, eventualmente rinnovabile per altri due cicli ( per un massimo di 30 sedute in tre cicli) intervallate da un arco di tempo (solitamente un mese). Al termine è possibile, per chi lo desidera, iniziare un percorso di psicoterapia.
All’inizio di ogni ciclo si negozia e si esplicita un obiettivo di lavoro, centrato su un problema specifico, che viene verificato in maniera condivisa al termine del ciclo ponendo le basi per una prosecuzione del rapporto (eventualmente con un nuovo obiettivo) o di un termine.
Questa programmazione condivisa dell’intervento clinico permette al paziente e al professionista di sottoporre a continua verifica il lavoro svolto, facilitando e legittimando l’eventuale sospensione del rapporto, senza che questa venga agita e/o vissuta come un fallimento da parte del paziente e senza che il terapeuta cada nell’invitante tentazione di aprire ulteriori fronti di lavoro. Incoraggia inoltre il paziente a ridefinire con lucidità i propri bisogni nello svolgimento del percorso (che tipo di cambiamento? superficiale, gestionale o profondo?) facilitandone un percorso di autodeterminazione.

2) negoziazione della tariffa: partendo da un atteggiamento di fiducia, consapevoli della violenza simbolica e dell’asimmetria di potere che implicherebbe la richiesta dell’esibizione di una certificazione del reddito in prima seduta, la tariffa viene negoziata con il nuovo
utente. Attualmente le tariffe vanno dai 20 ai 50 €, coscienti del gradiente sociale lungo cui si dispiega lo stato di salute della popolazione. Viene sottolineato, in prima seduta, che ogni mese il totale di tutti i proventi dalle sedute di tutti i professionisti saranno suddivisi per il numero di ore totalmente lavorate da tutti i professionisti e ridistribuiti in modo equo affinché ogni psicologo riceva all’ora, per lo stesso mese, lo stesso contributo degli altri psicologi. Si spiega cioè che se la cifra corrisposta da quella persona sarà maggiore della cifra media mensile, l’eccedenza sarà necessaria per permettere ad altre persone bisognose di accedere al servizio. Se invece la cifra sarà minore della media mensile, quella persona potrà iniziare il proprio percorso anche grazie alle persone che corrispondono una cifra maggiore.

Obiettivi molteplici sottendono alle pratiche cliniche sopra citate: restituire a chi accede al servizio una parte di quel potere contrattuale che, sosteneva Basaglia, se viene a mancare nel rapporto tra medico e paziente, lo configura come un rapporto di classe; creare un sentimento di appartenenza alla collettività e di attivazione rispetto a questa; responsabilizzare rispetto alla gestione del proprio percorso; costruire un setting “cooperativo”, in cui “l’altro” è rappresentato come degno di fiducia e parte attiva nel processo, consensualmente contrattato. A parte rarissime eccezioni non sono previsti percorsi gratuiti per i pazienti, visto che per gli psicologi, grazie a questo sistema, ogni ora di lavoro è retribuita, anche le prime sedute gratuite. Ogni terapeuta rilascia, ogni due sedute, una regolare ricevuta cumulativa, tramite la propria P.IVA e a fine di ogni anno gli psicologi fatturano ai colleghi i rispettivi ammonti per appianare le differenze dei diversi contributi. A questi costi va aggiunto quello per il tesseramento all’associazione, cui gli psicologi dello Sportello fanno parte e tramite cui è possibile usufruire dei locali per le sedute.

Le riunioni di équipe si tengono con cadenza bisettimanale. Durante ogni équipe si lavora sulle due dimensioni principali su cui si muove lo sportello: quella clinica e quella sociale. In ambito clinico, vengono affrontati e discussi casi in intervisione tra colleghi del servizio, non escludendo lo strumento della supervisione con colleghi esterni. Per quello che concerne l’ambito sociale invece, ci si concentra su iniziative culturali sul territorio che da una parte sensibilizzino la cittadinanza rispetto al tema della salute mentale (organizzazione di rassegne cinematografiche con altre realtà del territorio, dibattiti), dall’altra hanno una funzione clinica che non si dispiega in un setting strettamente psicologico (laboratorio di scrittura creativa, biblioteca vivente). La formazione (sia auto­ che etero­ diretta) costituisce un’attività ponte tra l’impegno clinico e sociale dello sportello. Durante ogni équipe, a turno, un professionista propone e illustra al resto del gruppo di lavoro un approfondimento su un articolo o un libro che costituirà il punto di partenza per una discussione.

Lo sportello si occupa inoltre di formazione ad esterni tramite interventi in corsi universitari, corsi per l’Esame di Stato per psicologi e seminari. Quest’attenzione alla formazione è legata alla percezione di un percorso formativo accademico sentito come fortemente incompleto, sterile, tecnico, che disattende bruscamente le aspettative di senso e mira a facilitare il percorso attraverso cui dare un significato alla propria pertinenza in ambito psicologico che prescinda dall’aspetto meramente intrapsichico o che lo affronti in maniera sufficientemente complessa.

Quando le scelte ideali e i principi che indirizzano la missione dello sportello si concretizzano nella pratica clinica emergono difficoltà e tensioni. Le principali sono legate alla mancanza di finanziamenti esterni oltre ai compensi dei pazienti, che rendono talvolta faticoso l’impegno necessario per far funzionare a pieno regime lo sportello. Questa difficoltà è fronteggiata sopratutto tramite il supporto tra colleghi, che evita l’isolamento e tramite la consapevolezza del valore delle proprie competenze professionali, oltre a quello che deriva dalla retribuzione. Un’ulteriore difficoltà emerge nel rapporto con i servizi territoriali che non sempre si sono resi disponibili nel collaborare nel corso delle prese in carico complesse.

Per il futuro lo Sportello ha molti sogni: ampliare i propri servizi aprendo ad altre professionalità (medici, assistenti sociali, infermieri, educatori) riuscire a contaminare realtà simili o contribuire alla loro nascita, consolidare ed ampliare la rete, partecipare più attivamente ai processi decisionali locali, in ambito sociale e sanitario, riuscendo ad agire non solo a valle rispetto ai determinanti sociali di salute (per ridurre i danni dell’esclusione sociale, emarginazione, marginalizzazione, isolamento una volta che siano già stati generati a partire dalle disuguaglianze) ma anche a monte (agendo sui fattori che generano le disuguaglianze).

Lo sportello è stato creato sì da professionisti, ma innanzitutto da cittadini con l’ intenzione di proporre i valori di solidarietà su cui è fondato in un sistema sostanzialmente iniquo. Il servizio offerto è allo stesso tempo il mezzo e il fine per la realizzazione professionale dell’équipe, che non può e non deve prescindere dall’ impegno civile verso un sistema salute più equo. Il fatto stesso che venga percepita nella pratica quotidiana dell’ equipe dello sportello una tensione tra professione e militanza è indice di un mercato dei servizi per la salute troppo negligente nei confronti di chi non detiene potere d’ acquisto. La sostenibilità che caratterizza il servizio offerto dallo sportello è quindi un passo verso l’equilibrio tra professione e militanza, nella speranza che in futuro il sistema salute si renda capace di accogliere i bisogni economici e morali del professionista senza che essi siano più in conflitto e nella consapevolezza dei valori generati.

Disuguaglianze di genere: al diminuire dello stipendio, aumenta il rischio depressione

Stando ai dati prodotti dall’ampia letteratura a riguardo, le probabilità che una donna americana cada in depressione sono generalmente il doppio rispetto a quelle che ha un uomo. Tuttavia, questa già ampia differenza aumenta se prendiamo in considerazione la differenza di stipendio all’interno della coppia.

E’ quello che hanno fatto Jonathan Platt ed altri ricercatori della Columbia University, all’interno di uno studio che è appena stata pubblicato sulla rivista Social Science & Medicine. Gli autori hanno considerato un ampio campione di 22.581 cittadini americani tra i 30 ed i 65 anni, estrapolando da una precedente raccolta del 2001 i dati circa i livelli di depressione, ansia e retribuzione e controllando statisticamente i livelli di istruzione e di esperienza lavorativa.

I risultati sono sorprendenti. A parità di istruzione ed esperienza, tra le donne che vengono pagate meno del proprio partner le probabilità di sviluppare una depressione sono quasi triplicate rispetto a quelle del partner; congruentemente, tale disparità statistica tra uomo e donna viene completamente annullata quando è la donna ad essere pagata più dell’uomo all’interno della coppia.

Per quanto concerne l’ansia si può osservare la stessa distribuzione. In generale, le donne hanno una probabilità di sviluppare un Disturbo d’Ansia Generalizzato (GAD) che è 2,5 volte maggiore rispetto agli uomini: le donne più pagate del partner maschile hanno praticamente le stesse probabilità di quest’ultimo, mentre le donne meno pagate hanno una probabilità che è perfino quattro volte maggiore!

 

Ora, sebbene sia opinione comunemente diffusa che le differenze di genere nei livelli di ansia e depressione abbiano innanzitutto precursori biologici, questi risultati sembrano suggerire che tali differenze siano anche socialmente determinate, e in misura assai maggiore di quanto si creda. Sembra, infatti, che dietro questa semplice disparità statistica vi sia un’ineguaglianza di genere ben più strutturata, che investe il gesto lavorativo e non solo.

Stando alle parole dello stesso Platt:

Tali processi sociali innanzitutto confinano le donne in un numero chiuso di possibili mestieri, quindi producono una differenza di retribuzione nei confronti della controparte maschile e infine, prevedibilmente, estendono tale disparità alla concezione e gestione della casa e dei figli all’interno della coppia.

Di conseguenza, è facile presumere che la donna possa arrivare ad interpretare ed interiorizzare questa concezione di sé in quanto essere inferiore come un dato reale, come un giudizio negativo che si sia pienamente meritata.

Purtroppo, anche sperando che la donna non si attribuisca internamente la colpa di tale ingiustizia, ma sia in grado di riconoscerne la causa in quanto esterna e di natura prettamente sociale, i risultati non cambiano. Che l’origine di tale disequilibrio venga percepita come interna od esterna, sappiamo bene che l’ansia e la depressione si nutrono innanzitutto della capacità di controllo che abbiamo su di esso: capacità che in entrambi i casi non può che essere percepita come insufficiente.

In conclusione, i risultati del presente studio suggeriscono che le politiche sulle pari opportunità debbano estendersi ed aggiornarsi ben oltre il semplice inquadramento delle molestie sessuali (popolare argomento di discriminazione di genere sul luogo di lavoro), fino all’individuazione ed alla modificazione di quelle strutture sociali che impediscono alla donna di aver accesso a determinati mestieri, mansioni e infine retribuzioni.

La ricerca psicologica, dal canto suo, non può esimersi dal continuare tale opera di osservazione e comprensione del fenomeno, nella speranza di poter così migliorare il trattamento dei disturbi emotivi che affliggono la donna in questione.

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