Walter Sapuppo – Report dal corso: Family-Based Treatment per adolescenti con Anoressia Nervosa.
Relatore: Prof. Daniel Le Grange Ph.D. – University of California
Il coinvolgimento dei familiari nel trattamento dei pazienti affetti da anoressia nervosa trova un discreto consenso tra i clinici di differenti orientamenti teorici. Lo spostamento del focus dalle ricerche dai fattori eziopatogenetici ai fattori di mantenimento delle sindromi alimentari ha permesso negli anni di realizzare programmi terapeutici incentrati sul coinvolgimento collaborativo e “non giudicante” dei familiari.
Nell’approccio multifattoriale, infatti, il coinvolgimento collaborativo della famiglia appare un elemento necessario al trattamento, efficace per riattivare i normali processi di sviluppo e di “svincolo” adolescenziale. Sviluppato negli anni ’90 all’interno del Maudsley Hospital di Londra, il Trattamento Fondato sulla Famiglia (Family-Based Treatment – FBT) costituisce uno degli interventi psicoterapeutici di “prima scelta” nel trattamento dell’Anoressia Nervosa (AN) in età adolescenziale e preadolescenziale (APA, 2006; NICE, 2004; RANZCP, 2014; Quaderni del Ministero della Salute 17/22, 2013; Rapporto ISTISAN 13/6, 2012).
Gli obiettivi primari di tale intervento sono, in primo luogo, il restituire alla coppia genitoriale la funzione di cura e di guida “autorevole” per il superamento dei comportamenti alimentari disfunzionali, la comprensione del ruolo delle dinamiche intra-familiari nel mantenimento del disturbo e il favorire la ripresa di uno sviluppo adolescenziale “normale” (attraverso la comprensione e la discussione delle dinamiche che sottendono i processi di svincolo dalla famiglia d’origine e di costruzione dell’identità adulta) (Eisler et al., 2010; Le Grange e Lock, 2010). Il trattamento si dipana attraverso 5 assunti fondamentali che costituiscono anche i cardini concettuali degli interventi.
In primo luogo viene privilegiata una visione “agnostica” relativa all’eziopatogenesi della patologia (nella concettualizzazione di La Grange, infatti, bisognerebbe praticare un costante “forgetting what You think You know” a proposito di cosa generi la anoressia nervosa).
Il terapeuta, inoltre, dovrebbe mantenere una posizione attiva ma non autoritaria (lasciare molte decisioni alle figure parentali e cercare di non essere controllante nei confronti degli stessi e del paziente) e assumere nella relazione terapeutica un ruolo di “consulente” con l’intento – comune – di risolvere un problema in modo collaborativo.
Altro punto fermo è che le figure parentali devono essere responsabilizzate nel recupero del peso corporeo attraverso un parental empowerment teso a fornire le abilità necessarie a svolgere tale compito.
Il quarto cardine è la “externalization”, ovvero un processo attraverso il quale separare metaforicamente la “persona” dalla patologia (una delle metafore fornite è quella di un corpo estraneo che va estirpato senza mezze misure) e supportare la gestione autonoma della problematica senza patologizzare marcatamente altri aspetti (immaturità, ricerca di attenzioni ecc.) del paziente.
Il quinto e ultimo cardine è relativo alla necessità di porre il focus iniziale sui sintomi, sulla necessità di cambiamenti comportamentali, sulla raccolta anamnestica dello sviluppo della sintomatologia e un’attenzione “relativa” agli aspetti cognitivi correlati al disturbo alimentare.
Il Family-Based Treatment, dunque, costituisce un modello d’intervento che integra alcuni aspetti dell’approccio cognitivo-comportamentale con quelli dell’intervento sistemico-relazionale e del “clinical management” in una cornice teorica unitaria propria della “Developmental Psychopathology” e, coerentemente con tale impostazione, individua nel sostegno alle funzioni genitoriali una priorità clinica imprescindibile per rimettere “in carreggiata” lo sviluppo adolescenziale rimasto incagliato – in questo caso – in un disturbo alimentare (Cotugno e Sapuppo, 2014).
Al termine della prima giornata di corso, infine, è tangibile la soddisfazione per il livello scientifico dell’evento oltre che, invero, anche per la meravigliosa cornice del Complesso Monumentale del Santo Spirito in Sassia che, tra il maestoso tiburio ottagonale e l’altare del Palladio, funge da “facilitatore dell’apprendimento”.
Rimangono aperti alcuni interrogativi sui processi sottostanti il miglioramento clinico dei pazienti, sulle variabili – l’attenzione, ovviamente, è focalizzata sull’aumento ponderale – che si auspica vengano prese in considerazione in studi futuri (personologiche, cognitive, emotive e non solo rating scale sintomatologiche) e su come si possa migliorare l’efficacia del trattamento se si estremizza la posizione “agnostica” sulla patogenesi del disturbo non definendo esplicitamente la cornice di riferimento epistemologica.
Le argomentazioni, così come la vivacità del confronto e dei numerosi colleghi presenti, hanno gettato le premesse per un ottimo prosieguo.